Rivista d`Arte e Storia Anno quarto, numero otto

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Rivista d`Arte e Storia Anno quarto, numero otto
Il Quirinale
Anno quarto, numero otto
Il Quirinale
Rivista d’Arte e Storia
Rivista d’Arte e Storia, Anno quarto, numero otto
SEGRETARIATO GENERALE
DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Al lettore
Questa ottava uscita della rivista
“Il Quirinale” ribadisce la
continuità dell’impegno della
Fondazione Marilena Ferrari-FMR
in favore della conoscenza e della
promozione del primato italiano
nel campo della cultura, segno di
una identità che, attraverso i secoli,
ha alimentato in modo decisivo la
modernità nel rispetto della
tradizione.
È un impegno, beninteso, che si
intende attivo, propositivo, non
relegato in una sterile enunciazione
di principi ma quotidianamente
praticato in ognuna delle nostre
scelte e delle nostre iniziative.
In questo senso la decisione di
affiancarsi attivamente alle
massime istituzioni civili del Paese
è esemplare. Porre a disposizione
del Quirinale, il luogo per
antonomasia – politico e simbolico –
dell’italianità, la propria eminenza
nel campo dell’editoria e della
ricerca culturale è per la
Fondazione Marilena Ferrari-FMR
un modo di calare il proprio
pensiero, la propria filosofia, la
propria irrinunciabile vocazione,
nel cuore di un progetto da cui far
nascere una rivista che si considera,
ed è da tutti considerata, interprete
autorevole della cultura italiana
nel mondo.
“Il Quirinale” è diffusa a livello
internazionale presso tutti
gli ambiti, istituzionali e culturali,
in cui si pensa all’Italia come a
un luogo dell’eccellenza. Di tale
eccellenza la rivista vuol essere,
più che testimone, protagonista.
Marilena Ferrari
Editoriale
L’ottavo numero della rivista
“Il Quirinale” rende conto
di due grandi mostre allestite
rispettivamente nel palazzo sede
della Presidenza della Repubblica
e presso le Scuderie del Quirinale.
La mostra “L’eredità di Luigi
Einaudi. La nascita dell’Italia
repubblicana e la costruzione
dell’Europa”, che si è svolta nel
Palazzo del Quirinale tra il 13
maggio e il 6 luglio 2008,
ripercorre le varie tappe della vita
privata e pubblica del Presidente
Luigi Einaudi. Il primo Presidente
della Repubblica Italiana ha
lasciato una forte impronta nella
coscienza della Nazione. Il suo
rigore, la sua dedizione allo Stato,
la sua fede nell’Europa hanno
segnato i primi anni della neoistituita Repubblica e il catalogo,
realizzato in occasione di questo
evento allestito nella Galleria delle
Regioni e in quella di Alessandro
VII, ne dà testimonianza.
La mostra su Giovanni Bellini,
che il Presidente della Repubblica
ha inaugurato presso le Scuderie
del Quirinale il 29 settembre 2008,
è la più grande e completa mostra
dedicata all’artista veneto dopo
quella oramai storica del 1949
a Venezia. Sono stati radunati
ed esposti dal 30 settembre 2008
all’11 gennaio 2009 sessantaquattro
dipinti del pittore, ovvero i tre
quarti della produzione certa
del maestro veneziano, fra cui lo
straordinario Battesimo di Cristo,
di oltre quattro metri, eseguito per
la chiesa di Santa Corona a Vicenza
e la stupefacente Pala di Pesaro.
Oltre a queste grandi opere, sono
state esposte le serie complete dei
Crocifissi e delle Pietà, una selezione
dei prototipi della vasta produzione
di Madonne e ritratti, le meno
conosciute allegorie e mitologie
come la Continenza di Scipione
(un fregio di oltre tre metri che
simula il marmo) dalla National
Gallery di Washington. “Prima
bizantino e gotico, poi mantegnesco
e padovano, poi sulle tracce di
Piero e di Antonello, in ultimo fin
giorgionesco”, secondo lo storico
dell’arte Roberto Longhi, Bellini
viene presentato come l’inventore
della rappresentazione dei
sentimenti e della natura in pittura
e la mostra delle Scuderie del
Quirinale ha riservato una lettura
incisiva e originale alla sua opera.
La collaborazione con il Ministero
per i Beni e le Attività Culturali
prosegue grazie all’amichevole
disponibilità e all’impegno del
Segretario Generale Giuseppe
Proietti. Dopo aver illustrato nei
precedenti numeri della rivista
l’operato del Ministero in Iran, con
il restauro della cittadella di Bam
colpita dal devastante terremoto
del 2004, in Cina con il lavoro
svolto dai nostri restauratori nel
luogo sacro per eccellenza della
Città Proibita, la Sala della
Suprema Armonia (o Sala del
Trono d’oro), a Baghdad con la
riapertura del Museo nazionale
devastato dopo l’occupazione
della città da parte delle truppe
americane, Giuseppe Proietti
descrive il progetto di restauro
dei dipinti di Ajanta in India.
L’anno 2009 sarà l’anno galileiano;
Paolo Galluzzi dedica un pregevole
articolo alla presenza di Galileo,
quattrocento anni fa, nei giardini
di Monte Cavallo dove sperimentò
gli strumenti che rivelarono
l’esistenza delle macchie solari.
Come non ricordare che l’uomo
che ha rivoluzionato la conoscenza
dell’universo e aperto la strada
alla ricerca moderna era socio,
accanto al fondatore Federico
Cesi, dell’Accademia dei Lincei?
Ambedue, insieme ai loro consoci,
si definivano “discepoli della
natura al fine di ammirarne
i portenti e ricercarne le cause”.
Questi “accademici” si
ripromettevano di approfondire
lo studio delle discipline naturali
e matematiche e favorire la
collaborazione scientifica fra
cultori di scienze e lettere in un
processo di mutuo insegnamento.
Cesi auspicava il sorgere e il
diffondersi in tutto il mondo
d’istituti chiamati “Licei”, ove
i soci avrebbero dovuto collaborare
nella ricerca scientifica usufruendo
di stamperie, librerie, musei, con
l’intesa che ogni scoperta dovesse
venire comunicata subito agli altri
“Licei”. Al giorno d’oggi, molti
ricercatori e scienziati dovrebbero
meditare sullo spirito di
collaborazione e di apertura che
caratterizzava l’atteggiamento di
questi padri della ricerca moderna
e trarne proficui esempi.
Michael Meier-Brügger ha accettato
di scrivere un dotto articolo sulla
famosa iscrizione Duenos. La
testimonianza scritta, databile
al VI secolo a.C., che corre sull’orlo
di questo vaso a uso cultuale,
rinvenuto nei pressi del Quirinale,
ci riporta agli albori della storia
romana e all’associazione tra il
“Colle” e il più antico passato di
Roma. Ricordo infatti che il nome
Quirinale deriva dal latino Quirinus,
un termine che indicava una
divinità italica d’oscura origine,
assimilata dai Latini a Romolo
e a Marte. È probabile che Quirino
fosse la divinità locale della tribù
stanziata sul Colle che dal nome del
dio prese appunto la denominazione
di Quirinalis e dal cui sinecismo con
gli abitanti del Palatino sorse la
città di Roma. Siamo intorno all’VIII
secolo a.C.
Dell’antichissima localizzazione
del culto di Quirino sul colle del
Quirinale rimane la testimonianza
in un sacello trasformato in tempio
nel 293 a.C. su lascito del console
Lucio Papirio Cursore; distrutto
da un incendio, il tempio fu
riedificato da Augusto nel 16 a.C.,
come informa il Monumentum
Ancyranum; le ricerche geomagnetiche condotte nel 2006
da Andrea Carandini nei giardini
del Quirinale hanno forse permesso
di ipotizzare la presenza del
tempio di Quirino nei pressi della
Palazzina del Fuga.
Infine in questo numero
l’ambasciatore Zanardi Landi ci
guida attraverso Palazzo Borromeo
e i tesori di una delle nostre più
prestigiose Ambasciate presso gli
Stati esteri: l’Ambasciata d’Italia
presso la Santa Sede.
Consegnando l’ottavo fascicolo
della rivista “Il Quirinale” alla
stampa, mi preme esprimere la
viva gratitudine del Segretariato
Generale della Presidenza della
Repubblica alla Fondazione
Marilena Ferrari-FMR per
il suo generoso sostegno: dopo
aver accettato di pubblicare
gratuitamente la seconda edizione
della guida Il Palazzo del Quirinale.
La storia, le sale e le collezioni, la
Fondazione assicura altrettanto
gratuitamente la stampa e la
diffusione della rivista, spedendola
a oltre duemila indirizzi in tutto il
mondo, tra cui le nostre Ambasciate
e i nostri Istituti di Cultura.
In questo modo, senza gravare
minimamente sul bilancio del
Quirinale, l’attività culturale di cui
il palazzo è il teatro e l’illustrazione
di alcune delle più importanti
imprese internazionali che vedono
impegnato il nostro Ministero
per i Beni e le Attività Culturali
sono portate a conoscenza del
grande pubblico e contribuiscono
a diffondere in tutto il mondo
l’immagine di un’Italia preoccupata
di difendere e valorizzare il
patrimonio culturale dell’intera
umanità.
Louis Godart
Direttore
Louis Godart
Direttore responsabile
Flaminio Gualdoni
Comitato scientifico
Caterina Cardona, Francesco Colalucci, Loretta Dolcini,
Alessandra Ghidoli, Louis Godart, Marco Lattanzi,
Maria Giuseppina Lauro, Luisa Morozzi, Maria Rovigatti,
Maria Angela San Mauro
Coordinamento editoriale
Luciana Del Buono
Servizi redazionali
Alfa Studio Editoriale, Bologna
Stampa
Tecnostampa, Loreto
Il Quirinale
Rivista semestrale d’Arte e Storia, n. 8, marzo 2009.
Registrata presso il Tribunale di Bologna in data 29.12.2004,
n.7492. Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa, n. 4178
Sped. A.P.-DL 353/03 (L. n. 46 del 27.2.04), art.1, c.1, DCB AN
© 2009 Fondazione Marilena Ferrari-FMR
Tutti i diritti riservati. Printed in Italy.
Editore
Fondazione Marilena Ferrari-FMR
Via Santo Stefano, 17/a
tel. (+39) 051-648892 fax (+39) 051-6488921
www.marilenaferrari-fmr.it
Al lettore
Marilena Ferrari
3
Editoriale
Louis Godart
5
L’eredità di Luigi Einaudi.
La nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa
Louis Godart
9
Giovanni Bellini
Giovanni C.F. Villa
17
Il Buddha di Ajanta
Giuseppe Proietti
33
Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C.
Michael Meier-Brügger
73
Galileo e gli “spettacoli del cielo” sul Colle del Quirinale
Paolo Galluzzi
81
La residenza dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede
Antonio Zanardi Landi
91
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Un numero e 20
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per l’Italia e 38
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per il resto del mondo e 75
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Berlino: Antikensammlung Staatliche Museen, pp. 73, 75-80.
Firenze: Biblioteca Nazionale Centrale, pp. 86-87; Gabinetto
fotografico Soprintendenza P.S.A.E. e per il Polo Museale,
pp. 20-21; Istituto e Museo di Storia della Scienza, pp. 83,
89-90; Massimo Listri, pp. 4, 91-118.
Forth Worth, Texas: Kimbell Art Museum, p. 19.
Londra: The National Gallery, pp. 30-32.
Parigi: © Giovanni Ricci Novara, pp. 46-49; © RMN/Hervé
Lewandowski, p. 84.
Roma: Archivio Famiglia Einaudi, pp. 10, 12-13, 16;
Archivio fotografico Soprintendenza Speciale P.S.A.E. e
per il Polo Museale, p. 18; Ministero per i Beni e le Attività
Culturali, pp. 17, 22, 33, 35, 37, 38, 41-44, 50-62, 64-72.
Torino: Archivio Fondazione Luigi Einaudi, pp. 9, 11, 14, 15.
Venezia: Fondazione Querini Stampalia, copertina e pp. 2425; Musei Civici Veneziani, Museo Correr, pp. 2, 27.
Vicenza: Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati, pp. 28, 29.
Vienna: Kunsthistorisches Museum Wien, Gemäldegalerie,
p. 26.
Washington: National Gallery of Art, Samuel H. Cress
Collection, p. 23.
In copertina:
Giovanni Bellini, Presentazione di Gesù al Tempio, 1465-1466, tavola.
Venezia, Fondazione Querini Stampalia.
A pagina 2:
Giovanni Bellini, Cristo morto sorretto da due angeli, 1470 circa, tavola.
Venezia, Musei Civici Veneziani, Museo Correr.
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occasione della sottoscrizione dell’abbonamento, che potrà in ogni
momento essere nuovamente consultata contattando il servizio
abbonamenti ai numeri e agli indirizzi sopra riportati.
A pagina 4:
Scuola toscana, Ritratto di cardinale, seconda metà del Cinquecento,
olio su tavola.
Roma, Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
8
L’eredità di Luigi Einaudi.
La nascita dell’Italia repubblicana e
la costruzione dell’Europa
di
Louis Godart
L’eredità di
Luigi Einaudi
maggio – luglio 2008
di Louis Godart
Alla pagina precedente:
Il Presidente Einaudi al tavolo di lavoro
al Quirinale con Donna Ida.
In basso:
Luigi Einaudi durante il periodo di
Presidenza della Repubblica, 1948-1955.
A fronte:
Il saluto del Presidente.
I
l Palazzo del Quirinale ha
ospitato tra il 13 maggio
e il 6 luglio 2008 una mostra
dedicata a Luigi Einaudi dal
titolo: “L’eredità di Luigi Einaudi.
La nascita dell’Italia repubblicana
e la costruzione dell’Europa”.
La mostra, prima di una serie
di iniziative per celebrare il
sessantesimo anniversario
dell’elezione di Luigi Einaudi
a Presidente della Repubblica
(1948), è stata promossa dalle
due Fondazioni, di Roma e di
Torino, intitolate a Luigi Einaudi
e realizzata in collaborazione con
la Presidenza della Repubblica e
la Banca d’Italia, con il patrocinio
del Senato della Repubblica e
della Camera dei deputati.
Opere d’arte, fotografie,
testimonianze inedite e oggetti
quotidiani, provenienti dagli
Archivi dello Stato, dalla
Presidenza della Repubblica,
dalla Banca d’Italia, dalla Camera
dei deputati, dalla Fondazione
Corriere della Sera, dalle
Fondazioni intitolate a Luigi
Einaudi, dalla famiglia Einaudi
e da collezioni private,
documentano le fasi della vita di
quest’intellettuale e statista di alto
rigore morale e forte impegno
civile. Le opere in mostra, oltre
a far luce sulla figura di Einaudi,
concorrono alla ricostruzione della
memoria storica dell’Italia.
Come scrive il Presidente
Napolitano: “Luigi Einaudi fu
il primo presidente a svolgere
il mandato settennale previsto
dalla Costituzione e lo fece con
la dedizione, la puntuale e
competente attenzione, la severità
di cui restano vivida ed esauriente
testimonianza le centinaia di
pagine dello Scrittoio del
Presidente”. Il Capo dello Stato
aggiunge: “Luigi Einaudi era
strenuo assertore – netto e forte
fu il suo pronunciamento
nell’Assemblea costituente –
dell’unità europea contro ‘il mito
funesto della sovranità assoluta
degli Stati’: ma seppe essere
costruttore del nuovo Stato
repubblicano, ‘voluto dal popolo’,
dandoci – come disse nel mirabile
messaggio rivolto, dopo il
giuramento, alle Camere in seduta
comune – ben più di ‘una mera
adesione’. Vi diede l’impronta
della sua fede nella libertà e nella
democrazia e della sua sapienza di
‘tutore dell’osservanza della legge
fondamentale della Repubblica’”.
Per ricordare Luigi Einaudi a
sessant’anni dalla sua elezione alla
massima magistratura dello Stato
repubblicano, la mostra voluta
dall’architetto Roberto Einaudi,
Presidente della Fondazione
Einaudi di Roma, ripercorre le
tappe della vita e della carriera
del grande statista, dagli anni
formativi e la prima maturità
(1874-1914), al periodo della
Grande Guerra e dell’avvento del
fascismo regime (1914-1926), agli
anni che vanno dal raccoglimento
all’esilio svizzero (1926-1944) per
poi passare alla descrizione del
ruolo di Einaudi nella Consulta
e nella Costituente, al periodo in
cui fu Governatore della Banca
d’Italia (1945-1948), Presidente
della Repubblica (1948-1955) per
concludersi con l’evocazione di
San Giacomo e le terre di origine.
La figura di Luigi Einaudi è
poliedrica. Lo si può ricordare
come professore, economista,
bibliofilo, giornalista, viticoltore,
liberale, europeista, uomo politico,
Governatore della Banca d’Italia,
Capo dello Stato, padre di
famiglia. Un episodio narrato nel
catalogo può essere emblematico
della sua personalità: nel suo
10
L’eredità di Luigi Einaudi
saggio Roberto Einaudi racconta
che un giornalista, amico di
Einaudi, si rifiutò di scrivere un
articolo sul Presidente a pochi
giorni dalla sua scomparsa in
quanto gli sembrava impossibile
descrivere una figura così
complessa, fuori della norma.
Si limitò a riferire un solo
aneddoto. Einaudi, avendo
ricevuto un assegno in pagamento
per un necrologio di un amico
richiestogli da un giornale, lo
restituì. Non poteva accettare
danaro per aver ricordato un
amico. Chiese al giornale di
versare la somma stanziata in
beneficenza, precisando che ciò
avvenisse a nome del giornale e
non suo. Sarebbe stato altrimenti
costretto a dichiarare la somma
nella sua denuncia dei redditi.
12
Carlo Azeglio Ciampi ricorda che,
oltre a essere stato un economista
insigne e un bibliofilo molto
raffinato, fu europeista convinto,
per analisi e per fede nell’ideale
federalista.
Fu anche uomo politico, dentro
e fuori dal Parlamento. I suoi
convincimenti erano ispirati a un
elevatissimo, nobile senso dello
Stato. Queste virtù, nella neo-
istituita Repubblica fondata sulla
sovranità popolare e sul lavoro,
fecero di lui il Capo dello Stato
che, conquistando il rispetto
e la stima degli Italiani, seppe
rappresentare l’unità nazionale.
Allo stesso modo seppe guadagnare
fiducia e credibilità a un Paese
che voleva stare a pieno titolo,
dopo la tragedia della guerra,
nel consesso delle Nazioni.
13
Il “Risorgimento liberale” saluta
il Presidente della Repubblica,
12 maggio 1948.
L’eredità di Luigi Einaudi
In basso:
La folla saluta il nuovo Presidente
insediatosi al Quirinale.
A fronte:
Il Presidente Einaudi lascia il Quirinale
al termine del suo mandato, maggio 1955.
Mario Draghi lo descrive come
una figura di assoluto rilievo nella
vita pubblica nazionale, sia come
intellettuale sia come personalità
politica di primo piano. Grazie
all’autorevolezza di cui godeva,
all’interno del nostro Paese e a
livello internazionale, fu il punto
di raccordo di uomini e forze che
fermarono l’inflazione e che
posero le solide basi dello sviluppo
economico e della rinascita
democratica dell’Italia.
Nonostante la breve durata del
suo governatorato, Einaudi ha
lasciato un’impronta indelebile
nello stile intellettuale della Banca
d’Italia, la cui attività continuò
a seguire sino all’ultimo.
L’apertura internazionale, la
visione europeista, il rifiuto
del dogmatismo, l’attenzione
scrupolosa per i dati empirici, la
riflessione storica sono suoi lasciti
profondi.
Il podere di San Giacomo in
Dogliani, acquistato a soli ventitré
anni, indebitandosi, è sicuramente
il luogo più amato da Luigi
Einaudi. Vi ritornò sempre, per
curare i suoi vigneti e la sua
grande biblioteca, pervenuta nel
tempo a 70.000 volumi.
Nel commovente capitolo del
14
L’eredità di Luigi Einaudi
catalogo dedicato a “San Giacomo
e le terre d’origine”, Roberto
Einaudi ricorda le parole scritte
da Luigi Einaudi nel 1934 in
occasione della morte dell’amico
Francesco Ruffini: “L’autorità sua
morale gli veniva, sì, dagli studi,
dagli uffici coperti e dalla vita
intemerata: ma anche dall’essere
sempre stato legato alla terra che
aveva visto nascere lui e i suoi.
Là dove il contadino è tenace
nel conservare la casa avita,
e lo scienziato insigne cerca in
Luigi e Ida Einaudi durante l’esilio essa il conforto degli ultimi anni
in Svizzera, 1944. e il riposo ultimo, non v’ha
tramonto, ma perpetua rinascita”.
Queste parole possono essere lette
come se fossero riferite allo stesso
Luigi Einaudi e la mostra del
Quirinale ne ha dato testimonianza.
16
Giovanni Bellini
di
Giovanni C.F. Villa
Giovanni Bellini
settembre 2008 – gennaio 2009
di Giovanni C.F. Villa
Alla pagina precedente:
Madonna degli Alberetti,
1487, olio su tavola.
Venezia, Gallerie dell’Accademia.
In basso:
Madonna con il Bambino,
1510 circa, olio su tavola di pioppo.
Roma, Museo e Galleria Borghese.
A fronte:
Cristo risorto benedicente,
1500 circa, olio su tavola.
Forth Worth, Texas, Kimbell Art Museum.
“
C
he spettacolo, quando
si farà, una mostra
completa di Giovanni
Bellini!”: così, nel 1946, Roberto
Longhi auspicava una grande
rassegna monografica del “genio
creatore sublime e instancabile”
che con la sua pittura ha portato
l’arte alla modernità. E una
grande retrospettiva su Giovanni
Bellini è, così come fu per
Antonello da Messina, operazione
ritenuta di difficilissima
strutturazione, causa la preziosità
e delicatezza di opere su tavola di
notevole formato: la sola mostra
monografica, curata da Rodolfo
Pallucchini nel 1949 e ospitata in
Palazzo Ducale a Venezia, offrì
un’immagine del pittore oggi, alla
luce degli studi, completamente
da rivedere. Le ricerche
dell’ultimo mezzo secolo hanno
infatti apportato notevolissimi
cambiamenti alla nostra
percezione di molti artisti minori
(con ovvi riflessi anche su quelli
maggiori) e sui collegamenti fra
nord e sud Europa, arricchendo
straordinariamente il quadro
d’insieme. Con Giovanni Bellini
che ha sempre giocato un ruolo
di protagonista assoluto. Ma
anche misconosciuto.
Raramente, infatti, un pittore
eccelso, un classico alle soglie della
modernità, è tanto congetturale.
Cominciando dalla data di nascita,
per cui non si è trovato alcun
documento utilizzabile, e così la si
ipotizza fra il 1423 e il 1438. E
poi per corpus, con gli studiosi che
partono da un centinaio di pezzi
pressoché unanimemente accettati,
di cui comunque pochi con
autografia certa e documentata,
per giungere a più di trecento,
assommando le ipotesi attributive
dei più accreditati storici dell’arte.
Per terminare alla cronologia
interna fra le opere attribuite
e alla loro reciproca scansione,
oggetto di continue discussioni,
messe a punto, polemiche intorno
a variazioni, a volte, di oltre un
ventennio. Le poche date garantite
sono molto tarde: “Ioannes
Bellinus Pinxit 1487” è segnato
sulla Madonna degli Alberetti
delle Gallerie dell’Accademia di
Venezia, mentre del 1488 sono
il Trittico della basilica di Santa
Maria Gloriosa dei Frari e il
Paliotto Barbarigo di San Pietro
a Murano. Se consideriamo la data
di morte, nel 1516, ci rendiamo
conto di come l’arco sicuro della
creazione si collochi nell’ultimo
trentennio di vita di un artista
già noto e ammirato, a cui fin
dal 1479 erano state affidate le
decorazioni di Palazzo Ducale.
Inoltre, si tratterebbe dell’ultimo
trentennio di vita di un pittore
che molti, seguendo le indicazioni
di Vasari, ritengono morto
vecchissimo, novantenne.
Il problema non è da poco: si
tratta di sapere, in buona sostanza,
se Giovanni Bellini sia “prima
bizantino e gotico, poi mantegnesco
e padovano, poi sulle tracce di
Piero e di Antonello, in ultimo fin
giorgionesco” come ancora Longhi
lo riassumeva in un celebre passo
del Viatico; dunque un artista che
ha assimilato, seguito e rielaborato
novità eclatanti della pittura
intorno alle epoche della sua vita
o se, invece, abbia compiuto un
proprio percorso autonomo e
creativo, dialogando alla pari con
i grandi del tempo, e sovente anzi
proposto con genialità sperimentale
ciò che altri hanno poi accolto
e rilanciato.
In quest’ottica, a coronamento
di un progetto scientifico durato
quasi un decennio, le Scuderie del
Quirinale hanno portato a Roma
18
Giovanni Bellini
circa i tre quarti della produzione
certa di Giovanni Bellini.
A mostrare l’arco evolutivo di
una delle più ampie carriere che
la storia della pittura ci ha
consegnato, l’arte di un Maestro
che, partito dalla tenera
cedevolezza dello stile goticointernazionale del padre Jacopo
Bellini, si è misurato con la
grandezza del cognato Andrea
Mantegna, trovando poi, verso
la metà degli anni Settanta,
in un forte dialogo con Antonello
da Messina, un linguaggio
personalissimo che in qualche
modo costituisce la base
dell’unificazione linguistica di
almeno una parte consistente
d’Italia; e vedendo infine
Leonardo, Dürer e Giorgione,
con i quali ancora colloquia con
20
straordinario impegno e altezza
di stile.
Di Giovanni Bellini è un lascito
indiscutibile: quello di un artista
che seppe interpretare al meglio
la volontà di costruzione di una
lingua che superasse le specificità
lessicali locali. Che seppe
oltrepassare la pittura “veneziana”,
quale era ancora quella del fratello
Gentile, non limitandosi a
osservare la sola realtà padana.
Ma entrando in dialogo con
il mondo toscano e le sue
sperimentazioni e specificità,
e poi quello dell’Italia mediana,
di corti internazionali, lo
straordinario Mezzogiorno di porti
e committenze mediterranee fino
alla Sicilia, dove Antonello aveva
sintetizzato le lezioni apprese da
giovane da Colantonio con le
21
Allegoria sacra, 1485-1488 circa, tavola.
Firenze, Galleria degli Uffizi.
Giovanni Bellini
presenze provenzali e fiamminghe.
È la volontà “linguistica” nazionale
della pittura, così specifica in
Bellini, grandissimo nel disegno
che poi ricopre con un velo di
colore, transitando con estrema
delicatezza dalla tempera grassa
all’olio, quasi che studi e mediti
ogni contributo tecnico prima di
collocarlo nella giusta misura. È
una volontà parallela all’impegno
letterario nazionale che trova
in Pietro Bembo la figura di
riferimento e poi in Ariosto la
piena realizzazione. Non a caso
tutti e due ferventi ammiratori di
Giovanni Bellini, il primo anzi
sodale e in qualche caso mediatore
A fronte:
Madonna con il Bambino tra
san Giovanni Battista e una santa
(Sacra Conversazione Giovanelli),
1500 circa, tempera e olio su tavola.
Venezia, Gallerie dell’Accademia.
e committente. Così che diverranno
emblematici i versi, le prime due
quartine del quindicesimo sonetto
delle Rime, che Bembo gli dedica:
“O immagine mia celeste et pura;/
Che splendi più che ’l sole a gli
occhi miei,/ Et mi rassembri il
volto di colei,/ Che scolpita ho nel
cor con maggior cura;/ Credo che
’l mio Bellin con la figura/ T’habbia
dato il costume ancho di lei:/ Che
m’ardi, s’io ti miro: et per te sei/
Freddo smalto, cui giunse alta
ventura”.
Esaltato per i ritratti, nonché
conosciutissimo per le variazioni
sull’immagine della Madonna con
il Bambino, che in nessun altro
A fianco:
Ritratto di giovane, 1485-1490, tavola.
Washington, National Gallery of Art,
Samuel H. Cress Collection.
Alle pagine seguenti:
Presentazione di Gesù al Tempio,
1465-1466, tavola.
Venezia, Fondazione Querini Stampalia.
artista saprà essere tanto Madre
e così impalpabilmente spirituale,
il linguaggio belliniano troverà
la migliore espressione in quella
sorta di pura astrazione scenica,
ininterrotto dialogo fra umano
e divino che si realizza nella forma
di una pala d’altare equilibrata
e mediana, davvero petrarchesca,
devota all’antico e rigorosamente
addolcita.
Il lavoro di Bellini costruisce un
eccezionale sistema di variazioni
22
che risponde all’esigenza del
singolo committente, variando
con strepitosa lucidità intellettuale
e sentita emozione ogni icona
cristiana, a cominciare dalla
maternità. In questo sistema,
che lascia ogni volta stupiti per
l’invenzione, la disposizione,
l’espressione linguistica originale
e insieme regolare, Bellini si offre
anche a possibili sguardi analitici
su una personalità ritrosa e
generosa, introversa e socievole,
23
Giovanni Bellini
In basso:
Presentazione di Gesù al Tempio,
1488-1490 circa, tavola.
Vienna, Kunsthistorisches Museum Wien,
Gemäldegalerie.
A fronte:
Trasfigurazione, 1465 circa,
tempera e olio su tavola.
Venezia, Musei Civici Veneziani,
Museo Correr.
orgogliosa e modesta, sempre
dignitosissima e inafferrabile,
forse segnata dalla coscienza
di una nascita in qualche modo
da dimenticare.
Così la mostra comincia con
l’opera di svolta, summa della
pittura sacra del secolo, autentica
rivoluzione posta alla metà esatta
degli anni Settanta del
Quattrocento: l’Incoronazione
della Vergine – la Pala di Pesaro –
l’olio su tavola di dimensioni
impressionanti che propone
un’inquadratura di assoluta
novità. In essa riconosciamo
un prodigioso naturalismo
rappresentativo, con le figure
dei protagonisti immerse nella
luce e nell’aria che connette evento
naturale, storicità architettonica,
gestualità sacra e soprannaturale
con l’intensità cromatica che scala
naturalmente i piani prospettici e
informa ogni dettaglio. È così nelle
rigorose geometrie del pavimento
che recuperiamo la formula
coniata da Longhi per Piero della
Francesca, quel “sintetismo
prospettico di forma-colore” cui
Bellini giunge in piena autonomia,
sempre teso a ricercare la fusione
tra linea, volume, colore e luce. Un
rapporto fra divino e umano che si
traduce in paesaggio. Un rapporto
che si fa prospettiva mentale.
Poiché la realtà ultima è quella
che vediamo, ovvero al di là dei
26
Giovanni Bellini
In basso e a fronte:
Battesimo di Cristo, 1503 circa,
tempera e olio su tavola.
Vicenza, Pinacoteca Civica
di Palazzo Chiericati.
piani della scena sacra c’è il
mondo, creatura di Dio: che non
è là dove ci aspetteremmo, ovvero
sul primo piano, ma letta in una
sorte di prospettiva a cannocchiale
rovesciato.
E, nei due piani di esposizione
delle Scuderie, il primo è così
consacrato alla committenza
pubblica, tranne la seconda sala
che mostra l’abbrivio pittorico
dell’artista, con la fuga prospettica
finale chiusa dall’opera che esalta
il sublime dialogo tra Bellini
e la pittura a lui contemporanea,
che lo considera maestro sommo:
è il Battesimo di Cristo di Santa
Corona a Vicenza ove, nella
perfetta fusione tra figure e
natura, mostra a qual punto
è arrivata, all’aprirsi del
Cinquecento, la sua arte. Una
sottilissima riflessione sulla
simmetria, sull’equilibrio delle
parti, sulla lontananza e distanza
del paesaggio, e sullo sperdersi
della luce nella presenza angelica
e questa, a sua volta, nella
trasparenza del cielo. Il dipinto
è un altro vertice di Bellini, così
moderno da apparire opera non
di un anziano pittore ma di
un giovane della generazione
successiva, tanto che fin dal 1676
Boschini osservava: “L’Altare, che
contiene s. Giovanni Battista, che
battezza Cristo, con diversi Angeli
assistenti, è opera di Gio. Bellino,
così fresca di colorito, e tenerezza
di carne impastata, che pare di
mano di Giorgione suo scolare: ma
perché vi si vede scritto il nome
di Gio. Bellino, così bisogna dire”.
Da qui si ascende al secondo piano
espositivo, orientato a raccontare
la committenza privata, laica
e devozionale. Accanto alle
principali iconografie dedicate
alla Madonna con il Bambino,
testimoniate tramite la scelta dei
sedici esempi più alti, si ammirano
le allegorie e mitologie provenienti
dai principali musei del mondo.
Introdotte da un’opera di raccordo
– la Resurrezione di Cristo di
Berlino, in origine a San Michele
in Isola a Venezia – con, a
congedarsi dalla mostra, quella
definita da Longhi “la prima opera
della pittura moderna”: il Noè
deriso di Besançon, dall’iconografia
ancora bizantina in stesura ormai
pienamente cinquecentesca, che
sembra realizzata da un coetaneo
di Giorgione e Tiziano che vuole
aprire la maniera moderna, non
certo da un pittore ultrasettantenne.
Un capolavoro che dipende
dall’elaborazione dei generi
tradizionali e prediletti, ma
in forma improvvisamente
e quasi sfacciatamente libera,
incondizionata, come accade
talvolta nelle grandi vecchiaie
al momento del confronto con le
nuove gioventù. Sarà anche il caso
di Michelangelo. Un dipinto che
assume un significato amaro:
sfruttando la consolidata metafora
della famiglia come immagine
della società e dello Stato,
condanna la diffamazione
dell’ignorante e del superbo nei
confronti del giusto e del sapiente,
l’oltraggio del cattivo suddito nei
confronti dell’autorità. Da leggere
come malinconica riflessione sulle
sorti di una Venezia indebolita
dalla crisi del governo e della
giustizia, minacciata dalla
discordia famigliare e civile.
E qui si accomiata Giovanni
Bellini, senza un testamento
scritto, solo con un lascito di
sovrumana ricchezza. “Se intese
questa matina esser morto Zuan
Belin optimo pytor, havia anni
[...] la cui fama è nota per il
mondo et cussì vechio come l’era,
dipenzeva per excellentia. Fu
28
Giovanni Bellini
Alle pagine precedenti e a fianco:
San Gerolamo nel deserto,
1478-1480 circa, tavola.
Londra, The National Gallery.
sepulto a San Zane Polo in
la soa arca, dove etiam è sepulto
Zentil Belin suo fradelo etiam
optimo pytor”, scrive nel suo
Diario Marin Sanudo: è il 29
novembre 1516. L’anno dell’Utopia
di Tommaso Moro e dell’Orlando
furioso di Ludovico Ariosto: gli
avvisi palesi di una modernità da
cui allontanarsi coltivando
illusioni.
Un mondo da cui Giovanni si
ritira per sempre, nel cimitero
di Sant’Orsola, dietro l’abside
dei Santi Giovanni e Paolo nella
sua città amatissima dalle luci
cangianti, ove anche l’ombra
più remota riflette un brivido
di colore.
Il colore capace di dar vita a quel
racconto iconico, di struggente
lirismo, segreto dell’immanente
arte di Giovanni Bellini, il
Giambellino.
32
Il Buddha di Ajanta
di
Giuseppe Proietti
Il Buddha di
Ajanta
di Giuseppe Proietti
Alla pagina precedente:
Visvantara Jataka, particolare.
A fronte:
Veduta d’insieme della Gola di Ajanta;
al centro la fascia rocciosa nella quale
sono scavate le “Grotte”;
in basso il torrente Waghora.
“
I
l luogo ideale per la
contemplazione del Divino
è una grotta recondita,
protetta dal vento, il cui ambiente
circostante accompagni lo spirito
con il canto dell’acqua e la
bellezza della vista.”
Questo è il “precetto” che il saggio
Svetasvatara Upanishad, tra gli
ultimi testi Veda composti nei
secoli V e IV a.C. e di enorme
influenza su tutto il successivo
pensiero spirituale indiano, indica
a coloro che vogliano avvicinarsi
alla verità trascendente attraverso
il momento della contemplazione.
Il sito di Ajanta, proprio per la
grandiosità delle manifestazioni
multiformi della natura che lo
caratterizzano, deve essere
apparso agli occhi dei suoi primi
frequentatori ben rispondente ai
canoni tardo-upanishadici: qui,
infatti, la vista spazia libera verso
la linea dell’orizzonte, dove le
cime dei monti che si rincorrono
l’un l’altro sfumano nel manto
azzurro del cielo; e poi si sposta
in basso, sullo scorrere del torrente
Waghora nel fondo del burrone; e
poi si ferma di fronte, sulle balze
della parete rocciosa incavate
dalle acque che precipitano
dall’alto del coronamento della
gola. Le cascate che ne risultano
e il suono musicale del riversarsi
dell’acqua suggellano l’incanto
del luogo.
Certamente il luogo è pervaso
da un’aura che invita a cercare
la presenza del Divino. Ma non
è da escludersi che, oltre all’alone
di “sacralità” ispirato dalla sua
suprema bellezza, possano
probabilmente aver contribuito
allo stabilirvisi dei primi monaci
buddhisti anche considerazioni
di ordine più “profano”. Esse
troverebbero il proprio antefatto
sullo scorcio del primo quarto del
secolo III a.C. nelle visioni, agli
occhi di Ashoka il Grande, delle
orrende carneficine sui campi
di battaglia del Kalinga; e
nell’incarico conferito al suo inviato
Dhamarakshita di diffondere gli
editti proclamati dal sovrano
Maurya, Colui che per secondo
mise in moto la Ruota della Legge,
con il loro messaggio di pace e di
fratellanza, dalla sua residenza
nella ricca città portuale di
Suparaka, sulla costa nordoccidentale verso l’interno del
Maharashtra e del sub-continente
indiano. L’onda lunga degli editti
e delle provvidenze imperiali, che
li seguono a sostegno del pensiero
buddhista e dei suoi discepoli e
che si attuano anche attraverso
aiuti concreti alle attività
monastiche, è ancora ben viva
quando, alcuni decenni più tardi,
un periodo storico caratterizzato
da un ampio contesto di stabilità
politica si accompagna all’ascesa
al potere della dinastia
Satavahana. Professanti il
Brahmanesimo, ma assai tolleranti
nei confronti del pensiero
buddhista, i sovrani Satavahana
pongono la propria capitale a
Pratishtana e promuovono una
fitta rete di commerci che, grazie
anche alla continuità territoriale
assicurata dai domini Seleucidi
e dal Gran Regno Arsacide, si
irradia dal Deccan fino alle regioni
gravitanti sul bacino mediterraneo
orientale di impronta ellenisticoromana, dando luogo alla
creazione di una solida e diffusa
ricchezza economica; stimolo e
condizione, a sua volta, per una
stagione di vivace fioritura
artistica.
Ed è proprio muovendo dai
virtuosi effetti di questo clima che
ad Ajanta producono il loro
risultato più mirabile le sinergie
34
Il Buddha di Ajanta
dei due fenomeni, il sacro e il
profano: la bellezza del sito e gli
esempi di pace, amore e generosità
predicati dai monaci da una parte;
e, dall’altra, la sua posizione lungo
una delle direttrici commerciali
più importanti della regione. Il sito
è infatti posto geograficamente
in un’area strategica per il
sistema delle comunicazioni
con l’India settentrionale: circa
quattrocentocinquanta chilometri a
est di Mumbai, a quattrocentotrenta
metri di altitudine, in una regione
nella quale la catena del Satmala
– che separa le pianure del Kandesh
dalla piana del Maharashtra – è
tagliata da un passo proprio
non lontano da Ajanta. Qui le
formazioni geologiche, con le rupi
scoscese e i terrazzamenti,
sembrano offrire ai monaci un
rifugio ideale per la loro vita di
meditazione e di preghiera. Le
grotte che vi sono scavate si
riconducono perciò al novero dei
numerosissimi altri complessi di
ambienti scavati nei banchi
rocciosi dell’India occidentale
per offrire un momento di
raccoglimento ai monaci e,
soprattutto durante la stagione
delle piogge, un luogo collettivo
per la loro residenza e la loro
educazione. Essendo posti
generalmente lungo le vie
commerciali, essi offrono rifugio,
ospitalità e occasioni di incontro
ai mercanti, provenienti anche
da Paesi lontani (in empori come
quello di Dhenukakata si contano
anche presenze di mercanti
occidentali). Al punto che, spesso,
i mercanti gareggiano nel fare
offerte ai monaci e contribuiscono
direttamente allo scavo e alla
decorazione delle grotte.
Ad Ajanta l’inizio delle attività
di scavo sembra potersi porre in
parallelo con il vicino abitato dal
significativo toponimo di Lenapur
(città-grotta), contrassegnato da
numerose presenze di ceramica
satavahana e collegato alla gola
sul Waghora da un sentiero
tracciato nella roccia. Qui,
a mezza costa lungo gli oltre
seicento metri del percorso
intagliato sul terrazzamento
della grandiosa parete di masso
basaltico che si conforma a ferro
di cavallo seguendo il percorso
del fiume, sono scavate ventinove
“grotte” (contraddistinte da una
numerazione – con l’eccezione
della 29 – di semplice
posizionamento progressivo in
direzione est-ovest), in origine
collegate singolarmente da sentieri
con gradini fino al fondovalle. Otto
sono chaitya-grihas, ambienti
riservati alla preghiera; e ventuno
viharas (o sangharamas), veri
e propri “monasteri”. Tutte
presentano decorazioni scolpite
e dipinte; e costituiscono la
significativa testimonianza di un
fenomeno di architettura rupestre
la cui evoluzione tipologica, sulla
base di considerazioni strutturali,
scultoree e paleografiche, può
riportarsi a un disegno di iniziale
parallelismo con le coeve
costruzioni in legno, che viene
progressivamente affievolendosi
con il passare del tempo. Gli
chaityas più antichi di Ajanta
(il 9 e il 10) sono a pianta
rettangolare, assai semplice.
Il 10, inoltre, presenta tre navate
divise da trentanove colonne
ottagonali e la parete di fondo
absidata, per consentire la
rituale circumdeambulazione
(Pradaksina); mentre la volta,
a imitazione delle coperture nelle
costruzioni lignee, riproduce una
struttura di travature semiarcuate.
I viharas più antichi (l’8, il 12 e
il 13) sono ambienti monastici,
36
con sale quadrangolari centrali
dai soffitti piani, sulle cui pareti
laterali si aprono le celle nelle
quali conducono la loro vita
i monaci buddhisti.
Il gruppo delle cinque grotte più
antiche (II-I secolo a.C.), che si
ascrivono alla prima fase di
Ajanta, è realizzato per ospitare
monaci di professione Hinayana
(o del Piccolo Veicolo), la più
antica, “ortodossa” e più legata
alle prerogative salvifiche del
movimento monacale. I loro
apparati decorativi, in ossequio
al divieto di riprodurla, sono privi,
perciò, dell’immagine del Buddha,
che vi è onorato esclusivamente
attraverso elementi formali come
gli stupas (simbolo del corpo e
della mente del Buddha e che, in
richiamo alla calotta semisferica
impostata attorno all’arma del dio
Indra, che nelle culture gangediche
restituisce l’immagine del
microcosmo, vi viene assimilato
nella forma originaria del semplice
tumulo di terra eretto a protezione
delle ceneri del Maestro ed evolve
poi nelle forme spesso grandiose
diffuse nell’intero continente
asiatico). Sei secoli dopo lo scavo
delle prime grotte, Ajanta conosce
una stagione di rinnovata
frequentazione monastica e di
riflessa fioritura artistica.
Il contesto storico, preceduto
dall’opera di paziente ordinamento
37
Il sentiero moderno, a mezza costa, che
collega in un unico percorso la serie
delle “Grotte”.
Il Buddha di Ajanta
dottrinale promossa, a partire
dal terzo quarto del secolo II d.C.
dal gran re Kanishka della dinastia
Kushana, è quello offerto dalla
benevolenza della dinastia
Vakataka, unita all’impero gupta
nella sua “età dell’oro”, e in
particolare del grande re Harisena,
che governa il Deccan nella
seconda metà del secolo V d.C.
Anch’egli di religione brahmanica,
e anch’egli protettore del pensiero
buddhista, ha come suoi più diretti
collaboratori alcuni dei seguaci
laici del Buddha, che contribuiscono
direttamente alla realizzazione
delle grotte. È questo il caso, ad
esempio, del ministro reale
Varahadeva, che in un’iscrizione
ricorda di aver dedicato il vihara
16 alla comunità del clero
buddhista (Sangha). Questa
seconda fase si accompagna alla
grande diffusione della corrente
di pensiero Mahayana (o del
Grande Veicolo che, rifacendosi ai
Prajnaparamita Sutra e al Sutra
del Loto e alla “superiorità” della
via del Bodhisattva, si espande a
partire dal secolo II d.C. in tutta
l’Asia centro-orientale), il cui
influsso principale in campo
artistico porta al superamento
del vincolo della rappresentazione
dell’essenza del Buddha attraverso
il solo momento formale del
38
simbolo. Si è supposto che tutte
le grotte di fase Mahayana
potrebbero essere state realizzate
in un ristretto arco cronologico,
inferiore di poco al ventennio,
grazie al sostegno della potente
dinastia Vakataka e a esaltazione
del ruolo di protettore delle arti,
assunto dal suo più grande
sovrano. Vi è però da tenere nel
dovuto conto, al riguardo, una
considerazione fondamentale che
nasce da un’iscrizione del monaco
Buddhabhadra: vi si afferma che
un uomo continua a godere in
paradiso tanto più a lungo quanto
più il suo ricordo è vivo nel
mondo. Egli dovrebbe erigersi un
monumento che duri tanto a lungo
quanto il sole e la luna. Se questo
è lo spirito incardinato nel pensiero
buddhista, appare poco probabile
che Harisena non abbia lasciato
memoria esplicita – di cui in alcun
modo e in alcun dove si fa, anzi,
menzione – di un suo diretto
intervento nella grandiosa opera
di realizzazione delle grotte; proprio
al contrario, invece, di quel che
fanno il suo ministro Varahadeva,
il suo feudatario Upendragupta
e un gran numero di monaci e
mercanti. Vi è poi da aggiungere
che la lettura del processo di
evoluzione delle arti figurative
indiane e delle loro caratteristiche,
così come vengono documentate
nei repertori di Ajanta, lascia
supporre fasi realizzative più
articolate, anche temporalmente.
Lo studio accurato dei caratteri
paleografici consente di fissare,
in linea generale, in un arco
cronologico di circa otto/nove
secoli la vita del complesso
buddhista di Ajanta. Le più
antiche iscrizioni sono quella dello
chaitya 10, del secolo II a.C., che
ne fa il dono di Katahadi figlio di
Vasithi; e quella del vihara 12,
dono del mercante Ghanamadada,
che costituisce anche la prima
testimonianza indoccidentale di
“patronato” mercantile nei
confronti del Buddhismo. La più
recente è probabilmente quella
ricavata su una parete del sanctum
posto tra lo chaitya 26 e il vihara
27, riferibile ai secoli VIII-IX d.C.
e che, peraltro di non chiara
evidenza buddhista, proprio per
questo lascerebbe ipotizzare il
venir meno, dopo il secolo VI,
della presenza dei monaci
buddhisti ad Ajanta. Ciò, forse,
anche in conseguenza di
modificazioni dei flussi viari nelle
comunicazioni commerciali e
soprattutto dell’affermarsi del
Brahmanesimo, attestato dagli
eccezionali monumenti rupestri
splendidamente esemplificati dal
grande tempio Hindu del Kailasa,
dedicato nel secolo VIII al dio
Shiva, nella non molto lontana
Ellora.
Nonostante l’ampiezza dell’arco
cronologico lungo il quale si
sviluppano le due fasi storiche
di realizzazione del complesso
rupestre, il suo disegno esecutivo
sembra conservare, negli elementi
fondamentali, una indubbia
continuità.
Le grotte si presentano scavate
nel vivo della roccia, con una
tecnica di lavorazione che, come
si può evincere da quelle rimaste
incomplete, procede dall’alto
del soffitto verso il basso del
pavimento e dalla facciata verso
l’interno. Le loro dimensioni
variano considerevolmente da caso
a caso: quelle di dimensioni minori,
come il vihara 27, costituiscono
quasi degli ambienti “aggiunti”
a quelli vicini, ben più grandi.
Tra le altre, lo chaitya 10, che
appartiene al gruppo di fase
39
Particolare del prospetto di facciata della
“Grotta”, ornata dalle sei colonne che
introducono al portico.
Il Buddha di Ajanta
Hinayana, è lungo trenta metri
e alto dodici; mentre la sola sala
principale del vihara 1, del gruppo
di fase Mahayana, ha una
superficie di quasi quattrocento
metri quadrati.
Le grotte più antiche mostrano la
facciata aperta, mentre quelle di
seconda fase iniziano a evidenziare
la tendenza a una composizione
più articolata quando quella viene
chiusa da una cortina in legno
costituita generalmente da un
portico colonnato; questo evolve
poi in una struttura intagliata
nella pietra e ripartita in alcuni
casi in due registri orizzontali, di
cui l’inferiore con porte e finestre
e il superiore con un finestrone
centrale. La facciata viene anche
arricchita con elementi ornamentali
in rilievo e con una progressiva
introduzione di elementi figurati.
Gli chaityas 19 e 26, di pianta
rettangolare con abside nel fondo,
e il nutrito gruppo degli altri
viharas della seconda fase di
Ajanta, sono la testimonianza più
significativa di questo passaggio
importante nella evoluzione
formale dell’architettura rupestre
dell’India occidentale: i due
chaityas, entrambi dell’età di
Harisena, esemplificano la cura
particolare per la facciata con
l’aggiunta di un portico, di
decorazioni scultoree e di un
cortile anteriore con ambienti
colonnati per i monaci. Proprio
queste lavorazioni lapidee
sottolineano come le due arti della
scultura e dell’architettura siano
strettamente legate tra di loro,
e come l’architettura rupestre sia
essenzialmente opera di scultura,
e viceversa; al punto che, in linea
più generale, gli elementi
strutturali si configurano come
L’elefante, uno dei motivi più ricorrenti
nei fregi scultoreo-decorativi, vere e proprie opere scultoree,
posto all’esterno della “Grotta” 16. dando vita nelle grotte buddhiste
del Deccan ad alcune classi
tipologiche scultoreo-figurate che
contribuiscono in maniera
importante allo sviluppo dell’arte
indiana. Tutte le figurazioni sono
incentrate sull’essenza del Buddha:
gli artisti fanno della sua
rappresentazione, scolpita sulla
roccia, una delle componenti
canoniche negli chaityas e nei
viharas; in questi ultimi, in
particolare, le colossali statue
del Maestro nei Sancta sono
generalmente sedute, con
le mani nella posa della
predicazione (DharmachakraPravartanamudra). Con
l’affermarsi dell’influenza del
“politeismo” Mahayana, le statue
vengono fiancheggiate dai
Bodhisattvas, gli Esseri che, nel
loro cammino verso la suprema
conoscenza e il Nirvana, aiutano
lungo le loro vite l’umanità nella
ricerca dell’Illuminazione.
Essi compaiono dapprima in
“aggiunta” anche funzionale alla
figura del Buddha, poi con una
valenza iconografica autonoma,
rafforzata dal sempre più largo
favore che le loro più spiccate
qualità umane riscuotono tra
i devoti del Maestro. Ai motivi
del Buddha e dei Bodhisattvas si
accompagnano poi in gran numero
altri soggetti figurati, “divini”
o fantastici, soli o con le proprie
compagne. E poi tutta una serie
di motivi ornamentali modellati
nel masso lapideo: fregi di elefanti
dalla proboscide sollevata;
combattimenti di bufali selvaggi;
motivi floreali; medaglioni con fiori
di loto aperti; loti rampicanti;
conchiglie; perle pendenti; animali
fantastici; gioielli.
scultori nel duro corpo dell’anima
rocciosa del Deccan, una
peculiarità, eccezionale, vale
a distinguere le Grotte di Ajanta
rispetto a tutti gli altri monumenti
rupestri indiani: essa è costituita
dalla presenza, su larga scala, di
una serie di fantastici apparati
di dipinti murali. In nessuno degli
altri complessi rupestri chaityas
e viharas mostrano le superfici
interne ricoperte da una
decorazione pittorica tanto fastosa,
che ne fa un unicum, nel già ricco
contesto delle arti figurative
indiane di età gupta e post-gupta,
di splendore ineguagliato per la
maestria tecnica, per la luminosità
della policromia, per l’armonia del
disegno formale e per la dovizia
iconografica.
Sul piano tecnico la decorazione
pittorica si presenta composta
dai tre elementi del supporto,
dell’intonaco e del pigmento.
Il supporto di base è offerto
direttamente dal masso roccioso,
di natura basaltica e quindi
di origine vulcanica, la cui
consistenza volumetrica non è
del tutto compatta, dal momento
che è caratterizzata da numerose
Pur a fronte del repertorio di
varietà inusitata, che viene
plasmato dalle abili mani degli
40
41
Il Buddha di Ajanta
cavità amigdaloidi, pur di ridotte
dimensioni, originate da numerosi
inclusi più o meno conservati.
La superficie del supporto non
è lisciata; evidenzia anzi, oltre
a un accentuato fenomeno
di alveolizzazione, numerose
irregolarità, con tracce spesso
profonde ed evidenti delle
scheggiature prodotte dall’azione
combinata di martello e scalpello
per il taglio e la rifinitura delle
pareti, dei soffitti, dei pilastri e
degli altri elementi architettonici
ricavati all’interno degli ambienti.
Proprio tale tecnica di taglio delle
superfici risulta aver consentito
la predisposizione di una rete
diffusa di punti di ancoraggio per
l’applicazione del soprastante
strato di intonaco, migliorandone
notevolmente la capacità meccanica
di adesione.
L’intonaco è composto di fango,
42
polvere ferrosa, polvere di roccia
e sabbia, materiali fibrosi di
natura vegetale. L’uso di calce
sembra assai limitato, ma tracce
di uno strato biancastro in
superficie, appena al di sotto del
pigmento, indicano la presenza di
elementi di calce, caolino e gesso.
L’impasto si mostra morbido e
poroso, privo della durezza del
comune intonaco di calce.
L’intonaco, per la precisione,
risulta applicato su due strati,
distinti da evidenti linee di
congiunzione rilevate dall’analisi
condotta al microscopio. Lo strato
più profondo, a diretto contatto
con il supporto roccioso, ha uno
spessore variabile da grotta a
grotta, assolutamente non
uniforme, condizionato com’è
dalla funzione di livellamento delle
irregolarità del masso sottostante.
Presenta una composizione a
grana grossa, con fango, polvere
di roccia, sabbia e una percentuale
considerevole di materiali fibrosi
di natura vegetale. Lo strato più
superficiale, soprammesso al
primo, ha uno spessore anch’esso
variabile, ma più regolare e
compreso fra i due e i tre millimetri.
Mostra una composizione di fango
e polvere ferrosa, con polvere
di roccia o sabbia e materiali di
natura vegetale a fibra raffinata.
L’analisi del particellato
dell’impasto evidenzia che il
rapporto nella mescola tra le
diverse parti di polvere ferrosa,
polvere di roccia e sabbia è molto
attentamente calibrato; e che le
particelle hanno una conformazione
di accentuata spigolosità, che ha
molto contribuito alla stabilità e
alla compattezza dell’intonaco.
La sua superficie è resa ancora più
liscia dall’applicazione di un sottile
strato di latte di calce, su cui
è infine steso il colore, dallo
spessore generalmente inferiore
al millimetro.
Il composto dei pigmenti risulta
di una mescola nella quale sono
presenti, per una percentuale
del 10-12%, acqua e materiali
organici di fibre vegetali, pula
di riso e altri elementi fibrosi di
origine organica, sabbia; per una
percentuale del 60% silice; per
una percentuale del 27% ferro
e alluminio; per una percentuale
del 2-3% calcio e magnesio.
I pigmenti si mostrano di estrema
varietà. La tavolozza dei colori
di base è composta dal nero
(krshna), dal verde (harit), dal
rosso (rakta), dal giallo (pita), dal
bianco (sveta), con combinazioni
di diverse tonalità. Tutti, a
eccezione del nero che è ottenuto
con nerofumo, sono di origine
minerale: il giallo e il rosso sono
ottenuti con ocre gialle e rosse; il
verde con glauconite; il bianco con
calce, caolino e gesso; il blu, che
si aggiunge soltanto nei dipinti
di seconda fase, con lapislazzuli,
certamente importati dalle regioni
dell’India nord-occidentale. Tutti
gli altri pigmenti sono ricavati
localmente dalla lavorazione delle
rocce di natura vulcanica: le argille
ocracee sono prodotte con i resti
argillosi della disgregazione della
roccia; la glauconite (terra verde),
un composto verde di silicato
ferroso, è prodotta dalla
disgregazione del basalto; la
malachite per il verde e l’azzurrite
per il blu, presenti in labili tracce,
sono componenti di rame. Non
sembra emergere con chiara
evidenza l’uso di coloranti
organici, i cui resti, comunque,
non sarebbero più presenti.
La tecnica utilizzata per
l’esecuzione dei dipinti è la
tempera. Convincono in tal senso
la mancanza di intonaco di calce;
43
A fronte:
La decorazione sulla parete di fondo,
a destra, nella camera centrale della
“Grotta” 17.
In alto:
Particolare della parete di fondo nella
camera centrale.
la presenza di resti di colla,
riscontrati in analisi condotte
seppur episodicamente; la
considerazione che la colla possa
essere stata oggetto di un processo
di ossidazione o comunque di
deterioramento. Spinge anche,
in tal senso, l’analisi dei leganti
e degli adesivi utilizzati per fissare
all’intonaco i pigmenti: questi
evidenziano una facile solubilità
in acqua, il che è indice della
presenza nello strato pittorico
di un fissante solubile. Spingono
ancora a favore della tempera
le osservazioni relative allo stato
dei pigmenti, al manifestarsi
dei caratteristici fenomeni della
esfoliazione e del sollevamento
della pellicola pittorica secondo
il tipico fenomeno “a bolla”.
Spingono infine in tal senso le
analisi condotte su sezioni di
intonaco dipinto, dalle quali
si evidenzia chiaramente che
i pigmenti costituiscono un sottile
ma ben distinto strato steso
accuratamente sull’intonaco.
Le analisi eseguite sull’intonaco,
d’altra parte, non evidenziano
alcuna traccia di penetrazione
del colore al suo interno; come
invece dovrebbe riscontrarsi in
presenza di una tecnica ad
affresco. In tal caso il colore
avrebbe dovuto essere steso su
un composto ancora tanto umido
da permettere l’imbibizione e
utilizzando pigmenti minerali
compatibili con un intonaco di
calce, senza alcun fissante solubile.
È dunque evidente che sia stato
un fissante di probabile natura
organica, come la colla, a legare
saldamente i pigmenti all’intonaco.
Ciò trova conferma nelle
osservazioni condotte su numerose
campionature di intonaco prelevate
da grotte differenti: secondo
l’esame al microscopio tracce di
colla sono ancora conservate sui
pigmenti in quantità apprezzabile;
mentre l’analisi chimica consente
di classificare la colla fra quelle
di tipo animale.
Sul piano iconografico le
figurazioni sono totalmente
condizionate dal fatto che chaityas
e viharas nascono come ambienti
dedicati alla preghiera e alla
venerazione del Buddha:
evidentemente, volendo rendere
più viva e palpabile la sua
presenza, i monaci ne devono
fermare le immagini sulle pareti,
dando vita a dei veri e propri
cicli illustrativi incentrati
esclusivamente sulla figura
del Maestro.
I cicli traggono le propria origine
da quella importante corrente delle
tradizioni filosofiche indiane che
è portatrice del concetto della
trasmigrazione dell’anima e dalla
legge cosmica del Karma, secondo
la quale ciascuno è artefice del
proprio destino: le azioni del corpo
e i pensieri nella vita corrente,
nella loro inevitabile interrelazione,
determinano la forma della
successiva nascita e le condizioni
della vita che sopravviene, nulla
lasciando al caso; dal momento,
inoltre, che tutte le forme della
vita sono considerate in reciproco
rapporto e che tutte sono
manifestazioni del divino, esse
possono susseguirsi sia in forma
di animali che di esseri umani.
Il concetto ha dato luogo a una
ricchissima tradizione letteraria,
già presente nell’ampio repertorio
brahmanico, sulle storie delle vite
precedenti di eroi e santi; al punto
che le letterature religiosa e
mitologica ne abbondano da
sempre. Lo stesso Buddha
racconta ai suoi seguaci molte
storie sulle sue passate nascite:
45
A fronte:
Simhala Jataka; il re Simhala, sul suo
elefante bianco, muove alla testa
dell’esercito contro Tamradvipa, l’isola
delle orchesse.
Alle pagine seguenti:
Veduta d’insieme del grande Stupa
di Sanchi, nell’India Centrale.
Il Buddha di Ajanta
In basso:
Particolare dell’ingresso settentrionale
allo Stupa di Sanchi, che reca scolpite
scene tratte dallo Shaddanta e dal
Visvantara Jatakas, nonché dalla
tentazione di Mara.
A fronte:
Particolare della sfarzosa decorazione
scultorea dell’ingresso occidentale allo
Stupa di Sanchi, che ricorda la visita di
Ashoka all’Albero della “Illuminazione”
del Buddha.
sono, queste, le parabole note
come Jatakas; esse devono
perseguire lo scopo di illustrare
i diversi aspetti del vivere virtuoso
insegnato dal Maestro, la sua
nobiltà d’animo, il suo amore
verso il prossimo, il suo spirito di
sacrificio. La loro rappresentazione
nei rilievi scolpiti dei luoghi sacri
buddhisti di Sanchi, Amravati
e Bharhut ne attesta la larga
diffusione già nel secolo III a.C.
L’antica opera Pali Il Jataka
elenca cinquecentotrentasette
storie delle precedenti vite del
Buddha, vissute come Bodhisattva,
e considerate singole tappe nel suo
cammino progressivo verso
l’ottenimento della suprema
conoscenza.
Anche ad Ajanta, in ciascuno degli
Jatakas raffigurati, gli artisti, sotto
la guida dei monaci, illustrano le
azioni compiute dal Bodhisattva
per coltivare le sue dieci virtù
(Paramita): così il Vidhurapandi,
tra gli Jatakas, è quello scelto per
metterne in luce la saggezza; il
Visvantara per il suo spirito di
carità; lo Shaddanta per la sua
infinita generosità. Il fine vero
della rappresentazione figurata
di queste “parabole” non è tanto
quello dell’insegnamento degli
aspetti dottrinali del Buddhismo,
quanto quello di suscitare in chi
le vede la spinta a condurre
una vita virtuosa; ciò grazie,
soprattutto, al ruolo dell’elemento
narrativo. L’infinita varietà dei
temi consente di arricchire
i racconti con i principali eventi
della vita del Buddha: dalla sua
nascita come Gautama degli
Shakya nel giardino di Lumbini
alle vane tentazioni di Mara,
alla conversione di Nanda,
alla sottomissione di Nalagiri,
alla conquista della suprema
conoscenza. Si manifesta qui
il profondo legame che unisce
i dipinti di Ajanta alla tradizione
figurativa dell’arte scultorea di
ispirazione buddhista a Bharhut,
Bodh-Gaya, Sanchi e Amravati.
Qui gli avvenimenti della vita
del Buddha e delle sue nascite
precedenti erano stati
armoniosamente scolpiti in
composizioni con modanature
iscritte che in molti casi
consentivano di comprenderne
protagonisti e svolgimenti: a
Sanchi e Amravati, soprattutto,
i cicli in rilievo restituivano un
48
Il Buddha di Ajanta
susseguirsi di scene dal significato
compiuto, ma con tutti i limiti
imposti dalla minore possibilità,
offerta dal rigido supporto
roccioso, di definire i particolari
con lo scalpello. Le figurazioni
di Ajanta, tracciate con pennelli
e colori sulla superficie lisciata
dell’intonaco, aprono nuovi
orizzonti alla vena immaginaria
degli artisti, che riempiono
letteralmente tutti gli spazi sulle
pareti, sui soffitti, sui pilastri. La
flessibilità connaturata all’uso del
pennello consente nuove maniere
per tracciare il susseguirsi dei
singoli eventi nelle storie e di
ripartirli con ricchi e involuti
motivi architettonici e floreali;
di distribuirli spazialmente
e di metterli in relazione
temporalmente con il ricorso a
semplici accorgimenti formali; di
impreziosirli di infiniti particolari.
Lo squisito gusto della policromia,
il senso per il modellato formale
e la maestria nell’uso del pennello
fanno ribaltare nelle figurazioni
una temperie di sollecitazioni
di immediatezza e sottolineano
i contenuti spesso drammatici
degli avvenimenti illustrati. Ciò
coinvolge direttamente i visitatori,
fino a renderli partecipi e a far
sentire sempre meno la necessità
delle iscrizioni esplicative, il cui
50
uso viene conservato soltanto nei
casi dei temi poco comuni, i cui
protagonisti sono difficilmente
identificabili. La rappresentazione
evidenzia forme di accentuato
realismo e riveste perciò una
grande importanza anche ai fini
della documentazione sui costumi
dell’India contemporanea. Le
pareti delle grotte si popolano
infatti di moltitudini di città
e villaggi con uomini, donne
e bambini, ciascuno intento alle
proprie attività quotidiane; di
umanità, in definitiva, totalmente
immersa nel mondo della natura.
Le acconciature e gli abbigliamenti
che rivestono i personaggi della
fase Hinayana ad Ajanta, ad
esempio, trovano diretti confronti
con quelli delle figure scolpite nella
fase più antica dei siti buddhisti di
Sanchi e Bharhut, confermandone
la datazione agli ultimi due secoli
a.C. Gli chaitays 9 e 10, con
le loro figurazioni più antiche,
costituiscono la maturazione
dell’esperienza artistica della
fase Hinayana. Molti dei loro
soggetti sono ancora privi di
identificazione e alcuni di loro,
con tutta probabilità, si rifanno
alla consolidata tradizione della
rappresentazione del Buddha
attraverso elementi simbolici, come
ad esempio il canonico stupa nella
figurazione del banchetto reale.
La seconda fase di Ajanta, con
ventiquattro nuove grotte, di
cui alcuni chaityas e numerosi
viharas, consente agli artisti
di arricchire a dismisura il
patrimonio iconografico delle scene
figurate, che vedono moltiplicarsi
la trasposizione degli Jatakas.
Nel vihara 17 si rappresentano tra
tanti altri il Visvantara, l’Hamsa,
il Simhala, il Sibi; nel vihara 1
il Sankhapala e il Champeyya;
nel vihara 2 il Vidhurapandita.
Naturalmente il soggetto
largamente dominante è sempre
il Buddha: viene di preferenza
raffigurato mentre predica ai
principi e ai discepoli; oppure
mentre predica a sua madre nel
cielo di Tushita; o nella sua
discesa sulla Terra; nelle
sembianze di Manushi; e,
soprattutto, nella sua Prima
Predica, che costituisce
probabilmente il tema di più largo
favore popolare; e poi, ancora,
seduto su un loto dischiuso;
oppure promanante fiamme
dall’aureola che lo circonda,
secondo una tradizione che vuole
attestato il Maestro come Pilastro
di Fuoco, già in antico ad Amravati
e nel Gandhara, quale simbolo
di suprema conoscenza e di luce
spirituale frutto della sconfitta
del buio dell’ignoranza da parte
della fiamma splendente.
Il progressivo affermarsi dei
canoni estetici introdotti nelle
arti figurative dalla “scuola”
Mahayana, come già nella
scultura, arricchisce l’iconografia
buddhista grazie alla fantasia degli
artisti, che si lasciano condurre
dalla mano. Prende forma così
tutto l’universo popolato di esseri
semidivini: dai Naghas, i serpentire delle acque, agli Yakshas,
Sovrani dei Quattro Punti
Cardinali dal portamento regale;
sono posti, divinità guardiane, sui
montanti delle porte d’ingresso
dei viharas e dei sancta. E poi
i Kinnaras, divinità celesti con
busto umano e corpo di uccello;
e poi i Gandharvas, le Apsaras
e i Vidyadharas, musicanti celesti,
spesso con le loro donne, che si
librano fra le nuvole negli spazi
aerei del “Paradiso”; e i Mithunas,
coppie di amanti dal buon
auspicio. E poi, ancora, motivi
geometrici e floreali e i fregi sul
51
A fronte:
Visvantara Jataka; il principe e sua
moglie Madri, esiliati, lasciano la città
di Jetuttara.
In alto:
Particolare della decorazione scultorea
della porta di accesso alla camera
centrale della “Grotta”.
Il Buddha di Ajanta
mondo animale: essi costituiscono
motivi ricorrenti nella decorazione
dei soffitti, dei medaglioni e degli
angoli. I soffitti piani dei viharas
– che richiamano con le loro
partizioni le strutture a cassettone
delle coeve costruzioni lignee
adibite a monasteri – presentano
spesso decorazioni di motivi
geometrico-floreali simili a quelli
diffusi anche in altre aree dell’Asia
orientale: è questo, ad esempio, il
caso dei fiori di loto racchiusi in
quadrati incrociati, presenti ad
Ajanta ma anche nella Cina
centro-settentrionale, con
Ghandharvas e Apsaras negli
angoli. I dipinti della seconda fase
di Ajanta, al loro apogeo,
costituiscono la più splendida
fioritura formale dell’arte figurativa
buddhista; ne rappresentano
l’ultima testimonianza della
semplicità dottrinale, che ne
è la fonte ispiratrice prima
dell’affievolirsi della sua fresca
vitalità, spenta dal sopravanzare
delle influenze Hindu e
dall’affermarsi di un “ordine
religioso” progressivamente
gerarchizzato al proprio interno.
L’inaridimento delle capacità
creative che ne segue porta man
mano a una costante sostituzione
delle scene narrative con ripetitive
e formalistiche rappresentazioni
della figura del Buddha, sempre
più spesso donate da monaci per
acquisire meriti religiosi:
emblematica, a tal riguardo,
l’iscrizione che nel vihara 2
ricorda la donazione di Mille
Buddha. Più figure vengono spesso
dipinte negli spazi vuoti delle
grotte già in uso, ivi comprese
quelle più antiche di prima
52
fase e nelle quali il Maestro era
rappresentato per mezzo dei suoi
simboli tradizionali.
Le tecniche di esecuzione e gli
stilemi formali propri dei dipinti
della seconda fase di Ajanta
delineano una cornice storicoartistica che risponde appieno alle
prescrizioni del trattato di pittura
noto come Vishnudharmottara
Purana. Già fondato su basi di
tradizioni orali, diviene,
probabilmente tra la seconda metà
del IV e il secolo VII d.C., uno dei
più antichi grandi “manuali” di
tecnica pittorica. Caratterizzato
da un’estrema chiarezza e da una
solida conoscenza della materia,
esso contiene una enorme quantità
di indicazioni di dettaglio sui
metodi di raffigurazione dei diversi
tipi di persone, animali, paesaggi;
sui diversi modi di conferire
tonalità e sfumature cromatiche;
sui diversi modi di preparare e
di usare i pigmenti; sulle diverse
misure nel rendere i rapporti
intercorrenti tra le diverse parti
del corpo. Gli artisti creano,
dunque, sulla scorta di una
sapienza consolidata, tesa a dare
per scontato che il pittore abbia
familiarità anche con altre arti
come la danza, la scultura, la
musica. Nel trattato in sanscrito
sul teatro e sulla danza tramandato
come Natyashastra, composto
probabilmente nel IV e V secolo
d.C. e noto anche come quinto
veda, il mitico saggio Bharata
insegna che il pittore deve essere
in grado di esprimere visivamente
le diverse emozioni (Rasas): la
bellezza (Sringara), lo stato
d’animo (Hasya), il patos
(Karuna), l’eroismo (Vira),
53
A fronte:
Particolare della decorazione del soffitto
nel portico, con il grande medaglione
centrale e i motivi geometrico-floreali
inquadrati nello pseudo-cassettonato.
In basso:
La porta d’ingresso al vihara; in alto il
doppio fregio con il Bodhisattva Manushi
e il Bodhisattva Maitreya; al di sotto, otto
copie di Mithunas, gli amanti.
Il Buddha di Ajanta
la collera (Raudra), la paura
(Bhayanaka), il disgusto
(Vibhatsa), la meraviglia
(Adbhuta), la serenità (Santa).
Gli artisti di Ajanta sembrano
muoversi in coerente sintonia con
i precetti indicati dai trattati nel
raffigurare i protagonisti delle
storie dipinte, da cui traspaiono
con chiarezza sentimenti e stati
d’animo particolari. Eppure,
nonostante la evidente ricerca
del perfezionismo formale, tutto
sembra volto soprattutto a esaltare
il senso di devozione verso la
divinità. Il pittore di Ajanta non
rappresenta soltanto, nelle sue
figure, il mondo della fisicità; egli
guarda all’umanità, che crea con
le sue mani, come se guardasse
all’interno del proprio spirito di
devoto ed è la sua devozione che
prende corpo nella sua opera.
Si è scritto che il pittore indiano
è come uno yogi perduto nella sua
arte. Egli crea i suoi capolavori
non con l’intento di affermare la
propria personalità o di conseguire
onori personali o di fama; ma
annullando se stesso e prendendo
il suo più grande piacere
nell’offrire la sua arte a Dio.
In tal senso la pittura di Ajanta
è l’arte dell’India; ed è tanto forte
e originale che la sua fonte di
ispirazione, con i suoi caratteri
formali, si irradia lontano
trasmettendo il messaggio
figurativo del Buddha fino alle
grotte afghane di Bamyan in
Occidente, ai monasteri che
punteggiano la Via della Seta
54
nell’Oriente centro-asiatico e in
Cina, fino alla penisola di Corea
e al Giappone.
La pittura di Ajanta, con le sue
tecniche esecutive, i suoi repertori
figurati e i suoi intenti illustrativi
e didascalici, raggiunge una delle
sue più compiute esemplificazioni
quasi al centro della gola, dove
è scavato il vihara 17, a pianta
quadrangolare con orientamento
SE-NO. Un portico trasversale
(m 19,50 x 3), su ciascuno dei cui
lati brevi si apre una cella,
introduce a una sala centrale
quadrata con venti colonne (sei
per ciascuna delle pareti d’ingresso
e di fondo, quattro su ciascuna
delle due pareti laterali) che
delimitano un corridoio lungo tre
dei cui quattro lati si aprono sedici
celle (sei su ciascuna delle due
pareti laterali, quattro su quella
di fondo). Al centro della parete
di fondo, un’apertura fra due
colonne collega la grande sala
a un’anticamera che porta al
Sanctum. Questo è di pianta
quadrangolare, di quasi sei metri
per lato, e contiene all’interno una
colossale statua del Buddha in atto
di insegnare, fra i Bodhisattvas
Padmapani e Vajrapani, distaccata
dalle pareti per poter consentire
la rituale Pradaksina.
I suoi apparati iconografici sono
fra i più ricchi dell’intero complesso
rupestre.
Il portico presenta decorazioni
dipinte sul soffitto con motivi
floreali e geometrici inquadrati
da elementi che riproducono il
sistema a travature delle coperture
lignee. Lungo le pareti, procedendo
da sinistra verso destra, scorrono
le figurazioni del Buddha e degli
Jatakas, aperte dal Visvantara
Jataka, nel quale si narra del
Bodhisattva, nato – per l’ultima
volta prima di raggiungere
l’illuminazione e di divenire il
Buddha – principe Visvantara,
nella città di Jetuttara, dal re
Sanjaya e dalla regina Phusati.
Le scene si ispirano alla grande
generosità che lo portava a donare
tutti i suoi averi ai bisognosi, tanto
da privarsi per il vicino regno di
Kalinga, colpito da una grave
siccità, di un prezioso e magico
elefante pieno dell’acqua del
proprio regno; e fino a incorrere,
per questo, nell’ira e nelle minacce
di ribellione degli abitanti di
Jetuttara e nel bando dalla città.
Le figurazioni ritraggono il
principe nell’atto della partenza,
con la moglie Madri e i figli Jali
e Kanhajna, mentre distribuisce
elemosine ai mendicanti sotto
gli occhi della coppia reale che
osserva da una finestra del
palazzo. Proseguono con
l’illustrazione del tentativo di
corromperne l’animo da parte del
crudele Brahmino Jujuka, inviato
maliziosamente dagli dei sotto le
false spoglie di un uomo vecchio
e debole per chiedere qualcosa
con cui alleviare il suo stato.
E ricordano come il principe,
commosso, gli donasse i suoi stessi
figli; come il perfido li picchiasse
e li maltrattasse per quattordici
giorni prima di giungere a
Jetuttara, e il loro riconoscimento
alla presenza del re, e la gioia di
questi; il riscatto pagato per
ottenerne il rilascio e il rimorso
suo e della città; il ritorno di
Visvantara e Madri tra grandi
festeggiamenti, allietati dalla
discesa dalle nuvole della divinità
vedica Indra tra i musicanti celesti
Apsaras.
A seguire, in alto, un fregio con
sette Buddha Manushi – il corpo
umano del Maestro – e con il
Bodhisattva Maitreya – il
55
A fronte:
L’interno della camera centrale, sul cui
fondo si apre la porta d’accesso al
Sanctum con la statua del Buddha.
In basso:
Particolare della decorazione a motivi
floreali di una delle colonne esagonali
che delimitano la sala centrale.
Il Buddha di Ajanta
In basso:
Veduta dell’insieme della decorazione
pittorica della parete di fondo della
camera centrale.
A fronte, in alto:
Shaddanta Jataka; particolare della
presentazione delle zanne eburnee del
Bodhisattva Shaddanta, nato re-elefante,
alla regina di Benaras.
prossimo Buddha – e, al di sotto
del fregio, otto coppie di amanti
(Mithunas).
Subito dopo, un gruppo di
splendide figure di Gandharvas
e di Apsaras riccamente ingioiellate
– secondo le canoniche indicazioni
del Vishnudarmottara – precede
l’illustrazione della storia nella
quale si narra di come Devhadatta
– l’invidioso cugino del Buddha –
e Ajatashatru – re di Rajagraha –,
complottando per attentare alla
vita del Buddha, imbottissero di
liquore il feroce elefante Nalagiri
e lo scatenassero nelle strade della
città al momento del passaggio del
Maestro. Le figurazioni illustrano
i due cospiratori su un balcone del
palazzo; le devastazioni apportate
dall’elefante lungo il suo cammino;
il miracolo compiuto dal Buddha
con il semplice sollevare la mano
dinanzi al pachiderma furioso;
la sottomissione di questo,
inginocchiato e reso mansueto
da una carezza, sotto gli occhi
degli abitanti affacciati ai balconi.
Dopo alcune figurazioni nelle
quali si susseguono il Bodhisattva
Avalokitesvara – o della
Compassione e dalle mille braccia –,
uno Yaksha con servitore e una
scena di caccia, segue la
rappresentazione, unica nel suo
genere ad Ajanta, della Ruota
dell’esistenza (Samsarachakra),
eccezionale documento di natura
“dottrinale”. Sorretta da due
gigantesche mani, era
originariamente suddivisa al
proprio interno in otto sezioni,
in buona parte perdute. Vi sono
illustrate le multiformi attività
della vita quotidiana: giardini,
mercati, il laboratorio di un
vasaio, appartamenti regali e
la baracca lignea di un povero,
scimmie ed elefanti. Il tutto con
il chiaro intento di illustrare,
attraverso simbolismi, l’infinità
degli stati nei quali gli esseri
viventi sono posti in conseguenza
delle loro azioni passate. Una
donna con bambino e un Buddha
in preghiera chiudono le scene
figurate dell’ambiente esterno.
Nell’interno della sala centrale
e del corridoio laterale che la
racchiude i soffitti ripetono
56
i motivi decorativi di genere
presenti su quello del portico.
Lungo le pareti laterali si sviluppa
una lunga serie di Jatakas, da
sinistra verso destra, che si aprono
con lo Shaddanta Jataka, nel
quale si narra del Bodhisattva
re-elefante Shaddanta, il grande
elefante bianco dalle sei zanne,
fonti di raggi di luce di differenti
colori, capo di un branco di
ottantamila pachidermi sulle
rive di un lago nella regione
himalayana, e delle sue mogli
Mahasubhadda e Cullasubhadda;
di come un giorno, attraversando
un bosco, recasse inavvertitamente
offesa alla moglie più giovane,
scrollando un ramo da un albero
e coprendo con i suoi splendidi
fiori Mahasubhadda e offrendole,
per di più, un grande fiore di loto
a sette germogli; e del rancore
di Cullasubhadda e della sua
preghiera di poter rinascere come
regina di Benaras per poter così
prendere la sua vendetta contro
Shaddanta; e di come, esaudito
il suo desiderio, ella si ammalasse
e chiedesse al re suo marito di
poter avere in dono le sei zanne
di un grande elefante bianco
delle lontane foreste himalayane;
di come il cacciatore Sonuttara,
incaricato della sua cattura,
lo intrappolasse e gli scagliasse
contro una freccia avvelenata,
senza però riuscire a segare le
sue splendide zanne; e di come
Shaddanta, udito del desiderio
della regina e sebbene molto
sofferente, con la sua stessa
proboscide si strappasse le
zanne, raccolte dal cacciatore
impressionato da tanta
benevolenza e offerte poi alla
regina; e di come questa, alla loro
vista, ricordasse d’improvviso
il magnifico elefante, suo marito
nella precedente vita, e, presa
dall’immenso dolore per averne
provocato la morte, ne morisse
a sua volta.
Alcune figurazioni, a seguire,
presentano ampie lacune. Dopo
le parti conservate degli Jatakas
del Mahakapi – o del Bodhisattva
Grande Re Scimmia – e dello Hasti
– o del nobile elefante –, sulla
parete sinistra e sull’adiacente
57
Il Buddha di Ajanta
In basso:
Hamsa Jataka; il Bodhisattva
Dhritarashtra, nato re Oca d’Oro,
catturato e presentato alla corte di
Benaras.
A fronte:
Hamsa Jataka; il re Samyama e la regina
Khema, con i loro dignitari, ascoltano del
coraggio di Dhritarashtra.
pilastro scorrono le scene dello
Hamsa Jataka. Vi si narra della
sacra oca d’oro Dhritarashtra che
viveva con il suo stormo sul monte
Chitrakuta; di come la regina
Khema di Benaras sognasse la
predica di un’oca d’oro e pregasse
il re di chiedere ai Brahmini di
corte di trovare l’oca in modo da
poter ascoltare la fine del sermone;
di come il re, sentito del
Bodhisattva oca, facesse costruire
a Benaras un bellissimo lago
artificiale coperto da loti
multicolori per attirarvi
Dhritarashtra e il suo stormo;
di come l’oca d’oro, catturata,
avvertisse lo stormo del pericolo
e facesse fuggire tutte le sue
compagne; di come il cacciatore
riferisse al re della decisione
del fedele Sumukha di non
abbandonare Dhritarashtra
e di come questa predicasse al re
Samyama e alla regina Khema,
colpiti da tanta fedeltà, sulla
Legge del Dharma, la regola
cosmica dell’Universo e degli
Esseri viventi.
La parete sinistra è completata
da una replica del Visvantara
Jataka, che si distingue dalla
versione rappresentata nel portico
soprattutto per la marcata
caratterizzazione dei volti di
alcuni personaggi.
Nel successivo, il Kapi Jataka,
si narra del re Brahmadutta di
Benaras. Di come, recandosi nel
bel giardino di Migacira, egli
s’imbattesse in un Brahmino
malato di lebbra e, avendogli
chiesto le ragioni del suo
sfortunato stato, si sentisse
raccontare la storia delle avversità
che lo avevano portato a una fine
tanto miserevole; fin da quando,
cogliendo frutti nella foresta ed
essendo caduto in una profonda
fossa, ne era stato salvato dal
Bodhisattva scimmia, poi
addormentatosi, stremato dallo
sforzo per averlo trasportato sulla
propria schiena; di come l’uomo,
affamato, decidesse di uccidere
con una pietra la scimmia;
dell’ammonimento di questa,
ferita e sanguinante, per la sua
ingratitudine; della sua indicazione
all’uomo per uscire dalla foresta
e raggiungere un lago al quale
dissetarsi; e di come l’uomo,
non appena bevuta l’acqua, si
ammalasse di peste e fosse
scansato da tutti.
A seguire, il Sutasoma Jataka, la
cui versione tradizionale narrava
del Bodhisattva Sutasoma, figlio
del re di Indraprashta, dei suoi
studi nella famosa scuola di
Tkasila e della sua ascesa al trono,
e del principe Saudasa, suo
discepolo e poi re di Benaras;
di come Saudasa, incapace di
reprimere la sua voglia di carne
umana, si cibasse dei suoi sudditi
dopo averli uccisi e fosse per
questo scacciato dai cittadini
di Benaras in armi; di come,
rifugiatosi nella foresta, egli
prendesse come preda i viandanti
e catturasse Sutasoma al bagno
in un laghetto di loti; e di come
il Bodhisattva lo inducesse a
rinnegare il cannibalismo
parlandogli della Legge del
Dharma. Le raffigurazioni nel
vihara 17 riportano una variante
rispetto alla versione tradizionale;
esse narrano di come una leonessa
rimanesse pregna nel leccare
i piedi del re di Benaras
addormentatosi nella foresta,
e della vita normale del figlio,
generato come principe Saudasa,
fino all’involontario assaggio di
carne umana e al cannibalismo.
Le scene mostrano la leonessa a
corte per la rivelazione al re; il
bagno rituale di Saudasa per
58
Il Buddha di Ajanta
l’ascesa al trono; la cucina del
palazzo e l’errore del cuoco nel
servire al re carne umana; la
battaglia in armi per scacciare
dalla città il sovrano sul suo
elegante cavallo.
Nell’anticamera di passaggio al
Sanctum segue poi una serie di
scene “estemporanee”: da sinistra,
è raffigurato il Buddha in atto di
rispondere a sua moglie Yashodara
e a suo figlio Rahula – dai cui volti
traspaiono intense e realistiche
emozioni – che rivendica la sua
legittima eredità di figlio di
principe, di possedere soltanto
la sua ciotola per le elemosine;
poi ancora il Buddha in atto di
predicare nel paradiso di Tushita
a sua madre Mahayama, morta
sei anni dopo averlo generato; poi
la discesa sulla terra del Buddha,
preceduto da divinità ed esseri
celesti; e l’omaggio che vengono
a rendergli personaggi regali tra
i quali è forse Bimbisara di
Rajagraha, il suo primo storico
“protettore”; poi l’assemblea
degli asceti, “scettici” di fronte
al miracolo di Shravasti,
curiosamente e realisticamente
raffigurati nella loro obesità.
Dopo il Sarabha Jataka – o del
Re-cacciatore –, scorrono le scene
del Matriposhaka Jataka, che
narra della devozione di un figlio
verso la madre cieca. Vi si
racconta del Bodhisattva, elefante
bianco delle regioni himalayane
e della sua amorevole cura per la
madre cieca durante il regno di
Brahmadutta di Benaras; di come
il Bodhisattva, imbattutosi in un
guardaboschi smarritosi nella
foresta, lo accompagnasse fuori
e di come questo, colpito dalla
bellezza dell’elefante bianco
e pensando che potesse essere
gradito al re di Benaras, marcasse
gli alberi lungo il percorso; di
come apprendesse, giunto a
Benaras, della morte dell’elefante
reale e, volendo approfittare
dell’occasione per ingraziarsi il re,
ne guidasse gli uomini al monte
Chadorana dal Bodhisattva,
lasciatosi catturare senza resistenza
per non ferire alcuno; di come il
re facesse approntare una stalla
speciale e invitasse l’elefante a
mangiare cibi scelti, rifiutati per
il dolore della lontananza della
madre e, conosciuta la storia,
liberasse l’elefante restituendolo
alla madre cieca, ricevendone una
invocazione di benedizione divina.
Al successivo Matsya – o del Pesce
– Jataka segue il Mahisha Jataka.
Vi si narra di una scimmia
impertinente; di come il
Bodhisattva bufalo vivesse nelle
regioni himalayane e fosse oggetto,
60
sempre sopportandole, delle
molestie di una scimmia; di come
un bufalo selvaggio si trovasse un
giorno sotto l’albero usuale del
Bodhisattva, fosse beffeggiato per
errore dalla scimmia e, per questo,
la calpestasse e la uccidesse
malgrado le invocazioni di quella.
A seguire, dopo il Syama – o della
Pietà filiale –, il Simhala Jataka.
Vi si narra di come nel regno di
Simhakalpa, retto da re Simhakesri,
vivessero il ricco mercante
Simhaka con il coraggioso figlio
Simhala; di come questi chiedesse
a suo padre di poter fare un
viaggio per mare con altri
mercanti, ottenendone l’assenso
pur dopo molti ammonimenti; del
naufragio sull’isola Tamradvipa,
abitata da orchesse cannibali sotto
le spoglie di graziose donne; di
come queste prima allettassero i
mercanti con il loro fascino e poi,
di notte, li divorassero; di come il
Bodhisattva, nato magico cavallo
bianco di nome Bahala, volando
sull’isola, vedendo la triste
situazione dei mercanti ed
essendone mosso a compassione,
riuscisse a salvare Simhala e altri
duecentocinquanta avvinghiati
l’uno agli altri. Vi si narra, ancora,
di come nel frattempo un’orchessa
si presentasse al cospetto di re
Simhakesri conducendo un
fanciullo e presentandolo come il
figlio, abbandonatole, di Simhala;
di come il re, interrogato Simhala,
e nonostante avesse questi rivelato
a suo padre la vera identità
dell’orchessa, la introducesse
comunque nel suo harem
permettendole di far penetrare
nel palazzo le sue compagne per
uccidere tutti i suoi occupanti;
di come il popolo offrisse il trono
all’intrepido Simhala e di come
questi sconfiggesse con il suo
esercito in una grande battaglia
le orchesse a Tamradvipa, poi
ribattezzata Simhaladvipa.
L’ottimo stato di conservazione
del dipinto consente di apprezzarne
la qualità di dettaglio: dalla scena
di naufragio agli allettamenti
fascinosi dei malefici esseri,
alle loro arti di seduzione,
alla trasformazione in orchesse,
alla uccisione dei mercanti, al
salvataggio da parte del
Bodhisattva cavallo alla corte di
Simhakesri, alla strage nell’harem,
all’esercito vittorioso di Simhala
sul suo cavallo bianco.
Dopo una splendida figura
femminile che si ammira allo
specchio fra le sue serventi, segue
il Sibi Jataka. Vi si narra del
Bodhisattva re Sibi, sovrano della
città di Aritthapura e osservante
delle Dieci Virtù; della grande
61
A fronte:
Matriposhaka Jataka; il Bodhisattva nato
elefante bianco, dopo la cattura sul
monte Chadorana, alla corte del re
Brahmadutta di Benaras.
In basso:
Shaddanta Jataka; dalla scena
dell’agguato al re-elefante, particolare
con scimmia sotto un albero di palasa.
Il Buddha di Ajanta
generosità del re e della sua
decisione di costruire sei grandi
palazzi – uno per ciascuna delle
porte di accesso alla città – per
la distribuzione delle elemosine
quotidiane; di come il re, tuttavia,
non fosse soddisfatto e desiderasse
donare qualcosa di ancor più
importante, impegnandosi con ciò
a donare i suoi stessi occhi; di
come il Signore Indra, volendo
mettere alla prova il re, gli si
presentasse sotto le vesti di un
vecchio Brahmino cieco e lo
supplicasse di donargli uno dei
suoi stessi occhi; di come il re
decidesse di donarglieli entrambi,
ordinando al suo servitore Sivaka
di asportarli, suscitando il dolore
del suo popolo con il suo sacrificio
e abbandonando la città convinto
della inutilità di un re cieco; di
come il Signore Indra, colpito
da un gesto tanto caritatevole,
apparisse a Sibi, gli facesse dono
di due occhi divini in grado
di vedere oltre muri e colline
e lo restituisse al suo trono,
consentendogli di predicare al
popolo la Legge dell’Autosacrificio.
Nel successivo Mriga Jataka si
narra la storia del cervo d’oro; di
come il Buddha vivesse, in una
delle sue precedenti nascite, come
cervo dal pelo dorato e dalla voce
melodiosa in una foresta; di come
un giorno si gettasse a nuoto in un
fiume per salvare un uomo che vi
era caduto e lo ponesse sulla via
per Benaras, raccomandandogli di
non rivelare mai la sua esistenza
e di non guidare nessuno nella
foresta; di come l’uomo, giunto
in città, udisse di una ricompensa
promessa dal re a chiunque gli
facesse avere notizie di un cervo
dorato apparso in sogno alla
regina Khema facendo nascere in
lei il desiderio di averlo con sé e,
spinto dall’avidità, guidasse il re
nella foresta facendo catturare il
cervo dai suoi cacciatori; di come
il re fosse incantato dalla stupenda
voce del cervo e fosse preso da
collera nell’apprendere del
tradimento dell’uomo al punto da
volerlo mettere a morte; e di come
il cervo d’oro, chiesto e ottenuto
il perdono per l’uomo, venisse
condotto con grandi onori a
Benaras e qui predicasse alla
regina Khema e alla corte sulla
Legge del Dharma.
Il Nigrodhamiga Jataka – o della
Monaca e del principe Kassapa –
chiude gli splendidi cicli figurati
del vihara 17, che unitamente al
16 può ben essere considerato la
perla più preziosa dello scrigno
di Ajanta e che è donato, come
si attesta in una sua iscrizione,
da Upendragupta, feudatario di
Harisena, nel terzo quarto del
secolo V d.C. In un momento,
dunque, che precede di poco più
di un secolo l’abbandono, da
parte dei monaci buddhisti,
dell’insediamento monastico;
e di poco meno di due secoli
Particolare della scena con la grande
rappresentazione della Ruota
dell’Esistenza (Samsarachakra).
62
la menzione dell’esistenza del
complesso rupestre fatta da parte
di Hiuen Tsang, noto viaggiatore
cinese vissuto nella prima metà
del VII secolo d.C. e autore
dunque della più antica notizia
tramandata dalle fonti letterarie
sull’esistenza del sito di Ajanta.
Nella parte orientale del
Maharashtra – egli scrive – si
susseguiva una serie di catene
montuose; qui era un monastero,
elevato su un’orrida gola, i cui
ambienti erano cavati nella roccia
su più terrazzamenti affacciati
verso il burrone. Il monastero era
stato costruito da A-Che-Lo
dell’India Occidentale.
Dopo Hiuen, il silenzio e l’oblio
sembrano avvolgere le balze
incantate del Buddha di Ajanta.
Dovranno trascorrere oltre
milleduecento anni fino a quando,
il 28 aprile 1819, la pace “divina”
è rotta dal risuonare dei secchi
richiami nella lingua mai udita
prima del capitano John Smith
e di alcuni altri ufficiali della
guarnigione di cavalleria inglese
di Chennai che, tutti presi in una
battuta di caccia, si spingono sulla
gola del Waghora. Inizia così
l’avventura moderna dei dipinti
e così prende avvio una lunga serie
di azioni volte a documentare le
scene raffigurate nelle pitture
e a studiarne i contenuti, anche se
all’inizio la “scoperta” non sembra
suscitare particolare interesse: è
solo un quarto di secolo più tardi,
infatti, che dopo alcune visite rese
ancora da ufficiali dell’esercito,
James Fergusson fornisce la prima
notizia “erudita”dell’esistenza
delle grotte in un rapporto alla
Società Reale Asiatica di Gran
Bretagna e Irlanda. Sulla scia
di tale rapporto la Compagnia
delle Indie Orientali richiede alle
63
Il Buddha di Ajanta
Autorità locali di far eseguire,
da parte di ufficiali, copie delle
pitture murali e di fare in modo
da preservarle dalla rovina.
Del lavoro di copiatura viene
incaricato il maggiore Robert Gill,
anch’egli della guarnigione di
Chennai, che attende dal 1849 al
1855 all’esecuzione di una trentina
di dipinti a olio purtroppo in gran
parte distrutti, nel 1866,
dall’incendio del Palazzo del
Tribunale Indiano a Sydenham,
dove erano custoditi. Ancora su
impulso di Fergusson, le Autorità
di Mumbai chiedono a John
Griffiths, Preside della Scuola
d’Arte della città, di documentare
i dipinti: egli, utilizzando un buon
numero di allievi, dirige
personalmente l’esecuzione di
copie colorate delle decorazioni
delle grotte quasi ininterrottamente
dal 1872 al 1885. In quest’anno,
sfortunatamente, molte delle copie
vengono distrutte nell’incendio
del Museo Indiano di South
Kensington.
Nel 1896, a seguito della
pubblicazione, in due volumi,
di centocinquantanove tavole
delle copie salvate dal fuoco, il
mondo degli studiosi d’arte può
finalmente conoscere e apprezzare
l’importanza dei dipinti di Ajanta.
Nel frattempo James Fergusson
e James Burgess – del Servizio
Archeologico dell’India –, a partire
dal 1871, prendono a studiare le
grotte, a tradurre le iscrizioni
murali e a collocarle nel processo
cronologico dell’arte indiana e
della storia dell’India. E, da
ultimo, a tentare di dare un’identità
– ma con risultati assai limitati –
ai soggetti raffigurati nelle sculture
e nei dipinti. Nel 1895 S.F.
Oldenburg, leggendo i testi scritti
di Burgess, riconosce i contenuti di
otto Jatakas. H. Luders, nel 1902,
studiando le riproduzioni dei
dipinti, riconosce due Jatakas
nella versione tramandata come
Jataka Mala di Aryasura.
Dal 1909 al 1911, in due distinte
campagne, Lady C. Herringham,
con l’aiuto di Syed Ahmad e
Muhammad Fazhud-Din di
Hyderabad, di Asit Kman Holdar
e Samarendranath Gupta di
Kolkata, di Nandalal Bose
del Distretto di Moonghyr e
dell’inglese Dorothy M. Larcher,
esegue copie di alcuni dipinti,
cinquantacinque delle quali
(diciassette a colori e le rimanenti
64
in monocromia) vengono
pubblicate nel 1915 dalla India
Society. Nel 1911 Victor Goloubew
esegue una campagna fotografica
in bianco e nero delle pitture;
settantuno di queste fotografie
– tutte del vihara 1 – verranno
pubblicate nel 1927. Nel 1915
l’Archaeological Department di
Hyderabad incarica Syed Ahmad
(già partecipe alle campagne di
rilievo con Lady C. Herringham)
di procedere alla esecuzione, per
più anni, di una nuova campagna
di riproduzione dei dipinti, che
vengono esposti nell’Ajanta
Pavilion dei Giardini Pubblici
di Hyderabad.
Nel 1919 Alfred Foucher avvia
i suoi studi sugli apparati
iconografici, che portano alla
identificazione della grandissima
parte dei soggetti raffigurati nelle
scene. Nel 1920 e nel 1922,
anche al fine di fare eseguire una
campagna fotografica a colori,
il medesimo Department incarica
il restauratore italiano Lorenzo
Cecconi e il suo assistente conte
Orsini di procedere, in due riprese,
a rendere meglio leggibili le
figurazioni attraverso la rimozione
delle incrostazioni di polveri,
sporcizia e di strati di lacca
applicati nel secolo precedente
a scopo protettivo.
La loro opera consente a E.L.
Vassey di riuscire, nel corso
di cinque mesi, a realizzare
una completa documentazione
fotografica degli apparati dipinti,
sulla cui base Ghulam Yazdani
pubblica le quattro parti (1930,
1933, 1946, 1955) del suo
monumentale lavoro su Ajanta,
con settantasette tavole a colori,
cinquantacinque con disegni
in rosso e duecentosettantatré
in monocromia. Intanto, nel
mentre promuove le attività di
documentazione anche con l’uso
delle tecnologie più moderne, nel
1951 il Parlamento indiano
proclama le Grotte di Ajanta
monumento di interesse nazionale
e, nel 1953, affida la cura diretta
della loro tutela all’Archaeological
Survey of India. Nel 1955, a
seguito di un apposito accordo
stipulato fra il Governo indiano e
l’UNESCO, David L. De Harport
e due fotografi dell’Archaeological
Survey eseguono, in sei mesi,
cinquecentottanta diapositive e
seicentodiciassette fotografie in
bianco e nero, segnando un
65
A fronte:
Particolare dallo Hasti Jataka.
In basso:
Visvantara Jataka; la contrizione degli
abitanti di Jetuttara che assistono alla
partenza del principe e della sua consorte
dalla città.
Il Buddha di Ajanta
momento fondamentale nella
storia della documentazione dei
dipinti.
Nel 1983, infine, le Grotte di
Ajanta sono iscritte nella Lista del
Patrimonio Mondiale dell’Umanità:
viene così pienamente suggellata
la loro rilevanza nella storia
dell’arte universale.
Dopo la “riscoperta” delle grotte,
naturalmente, il Governo
dell’India non si è limitato ad
attivare iniziative di sola
documentazione delle figurazioni.
Sforzi imponenti sono stati
compiuti dalle Autorità indiane
anche per la loro conservazione
dal momento che, purtroppo,
il trascorrere dei millenni non
ha lasciato indenni gli splendidi
apparati decorativi di Ajanta.
Il quadro degli studi compiuti
a partire dall’inizio del secolo
XX, e intensificati con l’avvento
della Repubblica, consente oggi
di conoscere analiticamente
i complessi processi di
deterioramento di cui i dipinti
sono stati oggetto e di attribuirne
l’origine sia a pur limitati fenomeni
di natura meccanica sia,
soprattutto, ad alterazioni
di natura biologica e chimica;
e di riferire i primi, comunque,
a fattori ambientali e climatici.
Gli studi consentono anche di
poter affermare che, pur essendo
le grotte sufficientemente protette
rispetto all’azione disgregatrice
propria dei comuni agenti
atmosferici, la bassa porosità e
la ridotta permeabilità del masso
basaltico non risultano aver
impedito del tutto all’acqua
piovana di ricavarsi vie di
penetrazione all’interno degli
ambienti attraverso fessurazioni,
crepe e alveolizzazioni da inclusi
nella roccia. Nonostante ciò, anche
se il dilavamento delle acque ha
contribuito a creare le condizioni
per l’aggravamento o per
l’attivazione di fenomeni di
deterioramento, il supporto
roccioso non sembra evidenziare
tracce diffuse di efflorescenze
saline sulle superfici dipinte.
In buona sostanza, il supporto
sembra presentarsi compatto,
solido e stabile e la sua aderenza
all’intonaco è generalmente salda,
66
a eccezione di alcune limitate zone
dove si presentano fenomeni di
distacco.
Gli studi fanno emergere
molteplici cause di deterioramento
esogeno. Tra le più significative
sono da evidenziarsi quelle
ascrivibili agli effetti delle brusche
variazioni di temperatura e di
umidità; quelle dovute alle
reazioni attivate dagli inquinanti
atmosferici; quelle derivanti
dall’accumulo di polveri, sporco,
escrementi di uccelli e di
pipistrelli, depositi catramosi;
quelle prodotte dalla nidificazione
degli insetti e dalla loro attività;
quelle conseguenti alle
colonizzazioni microbiche; quelle
prodotte dal ristagno di chiazze
d’acqua, dalle infiltrazioni di
umidità e dallo sviluppo, seppur
localizzato, di muffe; quelle
conseguenti alla combustione dei
fuochi e delle lampade a olio usate
in passato all’interno degli
ambienti; quelle conseguenti alla
presenza e all’azione dell’uomo.
Inoltre, a causa dell’indurimento
delle polveri e dello sporco
depositatisi sulle superfici e alla
conseguente formazione di uno
strato opaco e semitrasparente,
l’accumulo di fumo e catrame
risulta aver provocato la creazione
di una patina di fuliggine e di
una mistura catramosa, grassa
e oleosa.
Le principali cause di
deterioramento endogeno risultano
essere, invece, quelle da riportare
alle conseguenze attivate dal
degrado dei leganti e dalle
alterazioni chimiche dei pigmenti;
quelle ascrivibili alla debolezza
intrinseca dell’intonaco, ai suoi
movimenti e ai suoi rigonfiamenti;
quelle originate dalla formazione
di goccioline di condensa provocate
dalle brusche variazioni di umidità
e temperatura e favorite dalla
crescita localizzata di muffe
e dal moltiplicarsi dei nidi di
insetti; quelle relative al sempre
più marcato fenomeno della
esfoliazione della pellicola
pittorica, conseguente alla
prolungata disidratazione e
alla combinazione di umidità
e infestazione di insetti, per
la quale il legante presente
originariamente nei pigmenti
67
Veduta dell’insieme della decorazione
della parete sinistra della camera
centrale.
Il Buddha di Ajanta
risulta aver progressivamente
perduto la sua capacità fissativa.
A fronte dell’assommarsi di tutti
questi fattori di degrado dei
dipinti, il problema della loro
conservazione mostra di essere
stato tempestivamente
fronteggiato, nel corso della
seconda metà del ’900, dalle
Autorità indiane. Il prologo alle
attività sistematiche di
conservazione, negli anni 1920
e 1922, segue alla prima decisione
del Governo di Hyderabad di
mettere in campo interventi sullo
chaitya 10 e sui viharas 1, 2, 16
e 17, avvalendosi dell’opera di
Lorenzo Cecconi e del conte
Orsini. Le due campagne di
Cecconi e Orsini, la cui esperienza
viene poi raccolta dagli esperti del
Dipartimento Archeologico di
Hyderabad, si pongono l’obiettivo
prioritario di contrastare
l’indebolimento della pellicola
pittorica attraverso una tecnica
basata sull’uso diffuso di
gommalacca sciolta in alcol
e di colla con trementina;
sull’applicazione di colla molto
diluita nelle zone di esfoliazione
dello strato pittorico; sul
trattamento finale con delicate
pressioni superficiali a spazzola
per consentire la riadesione del
pigmento all’intonaco. La tecnica
utilizzata da Cecconi per le
successive operazioni di rimozione
delle vecchie lacche scurite
comporta l’uso di alcol puro
o diluito in trementina; e,
all’occorrenza, di poche gocce
di acido cloridrico nonché, a titolo
assolutamente sperimentale, di
ammoniaca; mentre, nelle zone
caratterizzate da sollevamenti,
risponde con l’esecuzione di
iniezioni di calce di caseina in
presenza di spessori di ridotte
entità o di riempiture con gesso
di Parigi, calce e pozzolana fine
in presenza di spessori maggiori.
Comporta poi l’utilizzo di chiodini
per fissare le parti pericolanti, al
fine di assicurare un supporto più
stabile alla rinzaffatura fatta con
intonaco a grana grossa; il rinforzo
della rinzaffatura per mezzo di
strisce superficiali adesive di lino
con una soluzione di gelatina calda
e la loro rimozione con acqua
calda a fissaggio ottenuto; la
stesura diffusa di un protettivo
a base di lacca diluita in alcol.
L’esecuzione di tali interventi, volti
nelle intenzioni dei promotori a
impedire l’insorgere di nuovi
processi di deterioramento almeno
per un secolo, non riesce però a
rispondere alle aspettative. Infatti,
quando un quarto di secolo più
tardi l’Archaeological Survey of
India assume direttamente la
responsabilità del sito di Ajanta,
i fenomeni di degrado mostrano
di avere ripreso a dispiegare per
intero i propri effetti, a causa
soprattutto della presenza di
infiltrazioni delle acque meteoriche,
del verificarsi diffuso di distacchi
dell’intonaco, della disidratazione
e della tendenza alla esfoliazione
dello strato dei pigmenti. Oltre a
ciò si manifesta anche un marcato
processo di ossidazione della
pellicola di gommalacca, con effetti
di alterazione della tonalità
cromatica.
Per far fronte a tale situazione, nel
1949, una Commissione speciale,
presieduta da Ghulan Yazdani e
incaricata dal Governo di
Hyderabad di studiare la questione
della conservazione delle Grotte
di Ajanta e di Ellora, elabora una
serie di raccomandazioni sulla
conservazione strutturale dei
monumenti rupestri.
A livello operativo, la risposta
dell’Archaeological Survey si
68
concretizza nella messa in cantiere
di un piano, a iniziare dai viharas
16 e 17, finalizzato al
consolidamento degli intonaci e al
miglioramento del loro ancoraggio
al supporto roccioso. Il piano
prevede anche il fissaggio della
pellicola pittorica, in presenza di
perdite o di aderenza, attraverso
impregnazioni superficiali con un
fissante trasparente. Le operazioni
di consolidamento vengono
compiute con la saturazione
dei vuoti mediante l’utilizzo di
una appropriata miscela con
l’aggiunta di sabbia fine iniettata
con siringhe ipodermiche o, in
alcuni casi, di gesso di Parigi.
Successivamente al consolidamento
e al fissaggio, le fasi esecutive del
piano si attuano attraverso la
rimozione meccanica dalla
superficie pittorica delle concrezioni
di polveri, sporco e ragnatele per
mezzo di spazzole di piuma o pelo
di cammello. Il piano affronta
poi il problema della rimozione
chimica dei depositi di catrame,
grassi e fumo, attraverso l’utilizzo
di idonee quantità di reagenti,
solventi e detergenti a base di
alcol, nafta e trementina.
Il piano affronta inoltre il
problema – di difficile soluzione
anche a causa della mancanza di
esperienze condotte su monumenti
di primaria importanza – della
rimozione della gommalacca
attraverso la sperimentazione di
diversi solventi organici, miscelati
in proporzioni differenti.
La sperimentazione in corso
d’opera, volta a individuare le
miscele di solventi più idonee a
69
A fronte:
Simhala Jataka; particolare con scena
di seduzione di un mercante da parte
di un’orchessa.
In basso:
Particolare della parete destra della
camera principale, con scene dal Sibi
Jataka.
Il Buddha di Ajanta
rimuovere le resine naturali senza
dar luogo a fenomeni di
sbiancamento e senza sottoporre
i pigmenti ai rischi propri di stress
locali, si basa su una mirata
selezione della combinazione delle
proprietà fisico-chimiche dei
differenti solventi in rapporto alle
specifiche condizioni delle zone di
intervento, senza procedere con
metodologie e miscele generalizzate:
se ne eliminano così alcuni mentre
se ne aggiungono altri in presenza
di concrezioni grasse e si varia la
proporzione dei diversi reagenti
in ragione dei diversi stati di
conservazione dei dipinti.
Naturalmente l’applicazione dei
solventi, al fine di evitare ogni
contatto diretto con la delicata
pellicola pittorica, è eseguita
mediante l’uso di carta filtrante
e solo in casi eccezionali vi
accompagna l’uso di morbide
spazzole di pelo di cammello
o di batuffoli di cotone; evitando
comunque, nella maniera più
assoluta, interventi di raschiatura
a secco.
Il piano comporta inoltre, dopo
la sperimentazione su zone
campione, l’applicazione di
protettivi chimici sulla superficie
della pellicola pittorica; che viene
attuata, sempre sperimentalmente,
in zone limitate; e tenendo ben
presente la necessità di utilizzare
prodotti idonei a non attrarre
polveri e in grado, a fronte delle
condizioni climatico-tropicali di
alta temperatura e di alta umidità
presenti ad Ajanta, di conservare
dopo l’esposizione all’aria una
facile solubilità in solventi di
natura organica; e tenendo
ancora ben presenti le necessità
di utilizzare prodotti, pur non
ingiallenti, capaci di idonee
resistenze alle condizioni
climatico-ambientali del luogo.
Il piano, infine, prevede un
intervento di ritocco pittorico
sulle lacune mediante l’utilizzo
di una tinta neutra.
Ogni fase di attuazione degli
interventi viene documentata con
campagne fotografiche eseguite sia
in bianco e nero che a colori. Viene
inoltre eseguita una analitica
documentazione fotografica
all’ultravioletto e all’infrarosso:
ciò sia per “fissare” le condizioni
dei dipinti; sia per evidenziare
particolari invisibili – restauri
precedenti e sopradipinture – ai
comuni mezzi di ripresa, sia per
una più specifica lettura degli
strati del pigmento ai fini
dell’analisi e dello studio dei
fattori di degrado.
Parallelamente all’attuazione del
piano, e nella cornice della sempre
più compiuta attenzione prestata
alla conservazione del sito di
Ajanta, l’Archaeological Survey
decide di far procedere gli studi
delle tecniche di analisi e di
intervento sui dipinti murali nel
quadro di più stretta sintonia con
le attività condotte, in materia,
a livello internazionale. In
particolare, viene posta in essere
una iniziativa sinergica tra le
esperienze di conservazione sui
dipinti murali maturate in India
dagli esperti indiani e quelle
maturate in Italia, nei Balcani,
in Medio Oriente e in Asia
Orientale dagli esperti italiani.
A tal fine, dopo un’apposita intesa
tra il Ministro della Cultura
Jaipayal Reddy e il Ministro per
i Beni Culturali Giuliano Urbani,
70
nel gennaio 2005 un gruppo
di tecnici italiani guidato da
Giuseppe Proietti, Capo
Dipartimento per la Ricerca,
con Caterina Bon Valsassina,
Direttore dell’Istituto Centrale
per il Restauro, le restauratrici
Annamaria Marcone e Francesca
Capanna, la chimica Annamaria
Giovagnoli e il fotografo Edoardo
Loliva, tutti dell’Istituto, si incontra
a Delhi con i responsabili del
Survey.
Qui, insieme con il Direttore
generale del Survey C. Babu
Raieev, con il Direttore generale
aggiunto C. Mirsa, con il Vice
Direttore generale R.K. Sharma,
con il Direttore per gli Scavi
e i Musei R.C. Agrawal, con
il Direttore G.C. Chauley e con
il Soprintendente archeologo
ingegner M.M. Kanade, vengono
delineati i principali problemi di
conservazione che caratterizzano
i monumenti rupestri e i loro
apparati pittorici. Il gruppo
italiano raggiunge poi Ajanta,
dove insieme al Soprintendente
archeologo del Distretto di
Aurangabad Dr. R. Krisnaiah
e al Responsabile del Laboratorio
chimico del Sito M. Singh, si
procede a effettuare tutta una serie
di sopralluoghi diretti sui dipinti
murali del vihara 17, che per la
rilevanza degli apparati decorativi
e la multiformità degli aspetti di
degrado viene individuato come
l’oggetto della cooperazione
specialistica bilaterale. Si studiano
con gli esperti indiani le condizioni
dei dipinti; si confrontano le
metodologie conservative
utilizzate; si verificano sul campo
le operazioni da impostare e si
iniziano a pianificare le campagne
volte a individuare i passaggi
tecnici indispensabili per
elaborare un progetto esecutivo
71
A fronte:
Simhala Jataka; irruzione delle orchesse
nell’harem della reggia di Simhakesri.
In basso:
Simhala Jataka; particolare con dignitari
alla corte del re Simhakesri.
Il Buddha di Ajanta
dell’intervento di conservazione
del vihara.
Dopo la prima missione operativa
ne seguono numerose altre, da
parte degli esperti italiani, in un
arco di tempo che va dall’ottobre
2005 all’ottobre 2007, sempre
sostenute dalla costante presenza
dell’Ambasciatore d’Italia in India
Antonio Armellini, del Primo
Segretario culturale Silvia Chiave
e della Direttrice dell’Istituto
italiano di cultura a New Delhi
Patrizia Raveggi. Gli incontri
tecnici a Delhi e le attività sul
campo ad Ajanta vedono ancora
Giuseppe Proietti e Caterina Bon
Valsassina, con l’architetto Stefano
D’Amico, i chimici Annamaria
Giovagnoli, Domenico Artioli,
Marcella Iole e Gianfranco
Santonico, il geologo Maurizio
Mariottini, il fisico Elisabetta
Giani, il biologo Maria Pia Nugari,
i restauratori Annamaria Marcone,
Sutasoma Jataka; particolare con il re
Saudasa a cavallo nel mezzo della Francesca Capanna, Lidia Laura
battaglia. Rissotto, Emanuela Ozino
Caligaris, Carlo Cacace, il
fotografo Edoardo Loliva, tutti
dell’Istituto Centrale del Restauro;
l’archeologa Laura Giuliano del
Museo Nazionale d’Arte Orientale;
il tecnico Fabio Iorio della
Direzione regionale dei Beni
culturali del Lazio; Alberto
Torsello, Guido Malara, Tommaso
Masiero, Filippo Previtali e Giorgio
Andreatta della SAT Survey. Le
diverse missioni consentono di
effettuare indagini sul supporto
roccioso; studi degli effetti indotti
dalla frequentazione antropica;
studi sulla infiltrazione delle
acque; misurazioni microclimatiche
e monitoraggio ambientale;
indagini chimiche, fisiche e
biologiche; prelievi di campioni
e analisi di laboratorio; studio dei
metodi di disinfestazione
ambientale, di pulitura e di
consolidamento; individuazione
dei prodotti più idonei per le
operazioni di rimozione dei vecchi
fissativi; attività di diagnostica non
distruttiva con videomicroscopio
e con colorimetro; documentazione
fotografica e ortofotografica;
mappature tematiche su base
fotogrammetrica tridimensionale.
Tutte le attività sono condotte
congiuntamente agli esperti
indiani del Survey. Nel febbraio
2008, a Delhi, ha luogo un
incontro al quale partecipano per
la parte indiana il nuovo Direttore
generale dell’Archaeological Survey
Aishu Vaish, il Direttore generale
aggiunto Vijay Madan, il
Condirettore generale B.R. Mani,
il Direttore per la Scienza
e Coordinatore dell’ASI per
il Progetto Ajanta K.S. Rana,
il Soprintendente archeologo
ingegner M.M. Kanade, il Vice
Soprintendente archeologo chimico
V.K. Saxena e, per la parte
italiana, Giuseppe Proietti con
Caterina Bon Valsassina, alla
presenza dello stesso Ambasciatore
Antonio Armellini e del Consigliere
dell’Ambasciata Sara Eti Castellani.
L’incontro consente di procedere
alla verifica complessiva degli
studi preprogettuali condotti
dagli esperti dei due Paesi e di
prefigurare un nuovo accordo di
cooperazione tecnica indo-italiana
per la esecuzione sperimentale
di un primo cantiere-stralcio di
restauro nel vihara 17.
72
Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C.
di
Michael Meier-Brügger
Intorno al “Colle”
nel VI secolo a.C.
di Michael Meier-Brügger
N
el 1880 l’archeologo
tedesco Heinrich Dressel,
allora attivo a Roma,
venne a conoscenza del
ritrovamento di un recipiente
formato dall’amalgama di tre
vasetti recanti un’iscrizione e lo
acquistò. Per suo tramite è quindi
giunto a Berlino e si trova oggi
nel deposito dell’Altes Museum
nel “Lustgarten”.
Purtroppo il luogo esatto del
ritrovamento è sconosciuto. Pare
che il recipiente facesse parte del
complesso di oggetti in ceramica
disponibili sul mercato
e provenienti dalla già Villa
Hüffer, in via Nazionale, che,
situata nei pressi della chiesa
di San Vitale si trovava a pochi
passi dal Quirinale. La relazione
tra il recipiente e il vicino Colle
del Quirinale pare dunque più
che giustificata.
Il recipiente-bucchero in oggetto
è composto da tre piccoli vasi
lavorati al tornio (altezza cm 3,5
circa, diametro cm 4,5 circa).
I tre contenitori sono collegati da
tre anelli orizzontali fatti a mano
che, raccordandosi fra loro,
formano un triangolo che lascia
al centro un’apertura circolare.
Esistono altri recipienti triplici
e quadruplici comparabili e
databili alla prima metà del VI
secolo a.C. La stessa datazione è
quindi attribuibile all’esemplare
in oggetto il quale, per la
presenza di un’iscrizione che si
sviluppa su tre linee, assume un
particolare valore storico. La
funzione del recipiente non è
chiarita dall’iscrizione; conteneva
probabilmente delle essenze. Vasi
di questo genere sono spesso
utilizzati nelle manifestazioni
cultuali.
I gruppi di segni non appaiono
suddivisi da interpunzioni.
Linea A
IOVESATDEIVOSQOIMEDMI
TATNEITEDENDOCOSMISVIRCOSI
ED
= iouesa– t deiuo– s qoi me– d
mita– t, nei te– d endo– cosmis virco– sie– d
Linea B
ASTEDNOISIOPETOITESIAI
PACARIVOIS
= as(t)te– d noisi o(p)petoit
–
– –
esiai pacari uois
Linea C
DVENOSMEDFECEDEN
MANOMEINOMDVENOINEMEDMA
LOSTATOD
= duenos me– d fe– ced en
–
–
manom einom dueno– i ne– me– d malo(s)
stato– d
Dalla disposizione del testo non
appare alcuna intenzione, da parte
dello scrittore, di un susseguirsi
delle linee A, B, C. Non è da
escludere però che la linea C
– quella che circonda il recipiente
a metà – sia stata incisa prima e
che lo scrittore abbia aggiunto
successivamente, sopra la linea
centrale, le altre due, cioè A e B.
A e B, infatti, formano un insieme
coerente, mentre C presenta un
contenuto diverso.
La scrittura utilizzata è ovviamente
arcaica. Sappiamo che l’alfabeto
era stato adottato dai vicini
Etruschi, i quali, a loro volta,
l’avevano appreso dai coloni greci
che abitavano il golfo di Napoli,
Ischia e Cuma. La notazione delle
gutturali è infatti caratteristica
specifica della scrittura latina
arcaica.
74
Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C.
Precedentemente non veniva
evidenziata alcuna differenza nella
trascrizione fra le lettere sonore
e quelle sorde. Le tre lettere
adottate dagli Etruschi C, K e Q
erano associate alle cinque vocali.
Mentre davanti a u si scriveva il
cosiddetto segno Q, si metteva
C davanti a e e i, ma K davanti
ad a e o. Successivamente vennero
introdotti cambiamenti. Mentre
QV fu mantenuto (cfr. ancora il
classico qualis, quaestor, sequor
ecc.) la lettera C prendeva
gradualmente il posto della lettera
K, la quale persisteva, come
arcaismo grafico, solo nella sigla
KAL per kalendae, “le Calende,
il primo giorno del mese” o nella
sigla onomastica K = Kaeso. In
tutti gli altri casi veniva utilizzata,
senza eccezione, la lettera C per k
e g. L’indifferenziata trascrizione
di k e g fu abbandonata soltanto
nel III secolo a.C., allorquando
la lettera C definirà solo g.
Esemplare, in tal senso, la sigla
onomastica C = Gaius.
L’iscrizione rispecchia la lingua
arcaica dell’epoca, sia dal punto
di vista fonico, che formale e
76
lessicale, la quale è nettamente
differente da quella d’epoca
classica. Due esempi: nella linea
A, la prima parola, IOVESAT =
forma verbale arcaica, tempo
presente, terza persona singolare
“implora”; in epoca classica si
trasforma in iurat.
Il cambiamento da IOVESAT
a iurat risulta apprezzabile se si
tiene conto che nel IV secolo a.C.
la s intervocale è cambiata in r
(cosiddetto rotacismo) e che le
due sillabe ove sono state
semplificate in u. Così, per
analogia, la seconda parola
DEIVOS = accusativo plurale
“gli Dei”, nel classico si traforma
in deos. Nella linea C si trova
l’espressione EN MANOM EINOM
“per un buon uso”. Entrambe
le parole MANOM e EINOM
scompaiono nel latino classico,
ma grazie agli appunti dei
grammatici e alle supposizioni
dei linguisti storici siamo oggi
in grado di comprenderne il
significato.
Un’analisi più approfondita
dell’argomento richiederebbe
un approccio storico-linguistico
specializzato.
77
Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C.
Mentre l’interpretazione della
Linea C
linea B non è chiara, le linee A e C “Un uomo per bene mi ha
sono relativamente comprensibili. fabbricato per un uso buono [...]
non usarmi per un fine cattivo.”
Linea A
“Giura per gli dei colui che mi
L’iscrizione sul recipiente non è
manda che se una ragazza non
l’unica del suo genere proveniente
sarà carina con te [...] vuoi che
dall’antica Roma. Ci sono infatti
ti sia amica.”
pervenuti altri due frammenti di
vasi iscritti e un’iscrizione su
Linea B
pietra.
Pur non essendo sufficientemente
Uno di questi frammenti di vaso,
chiaro nei dettagli, appare
un fondo di ciotola, è stato
comunque certo che il recipiente
portato alla luce nel 1899 al Foro
in questione, in virtù del suo
Romano, nelle vicinanze della
contenuto aromatico, fosse capace Regia; risale probabilmente al
di mutare l’antipatia in simpatia.
VI secolo a.C. e reca ben leggibile
78
la parola REX “Re”. L’iscrizione
presente sull’altro reperto, trovato
intorno al 1887 e successivamente
perduto, contiene soltanto
l’indicazione del proprietario:
“Io sono il recipiente di…”.
Importantissima risulta l’iscrizione
su pietra. Si trova ancora oggi
nell’area del cosiddetto Lapis
Niger. Si tratta di un pavimento
rinvenuto al Foro Romano,
davanti alla Curia, il quale risulta
essere composto da pietre nere
incorniciate da marmo nero. Il
Lapis Niger risale nelle sue parti
più antiche al VI secolo a.C. Gli
scavi del 1899 hanno portato alla
luce sul sito un piccolo santuario
e la base quadrata di una colonna,
il cosiddetto cippo. Santuario
e cippo oggi si trovano interrati
e non sono accessibili al pubblico.
Il cippo reca un’iscrizione in latino
arcaico. Su ogni lato vi sono
quattro linee che lo percorrono
dal basso verso l’alto. Il cippo
risulta mutilato nella parte
superiore, ragione per cui
l’iscrizione è sfortunatamente
incompleta. La scrittura è
bustrofedica (cioè da sinistra
a destra e da destra a sinistra).
Sembrerebbe trattarsi di
un’iscrizione ufficiale,
79
Intorno al “Colle” nel VI secolo a.C.
probabilmente una Lex Sacra.
L’iscrizione è resa in un latino
arcaico simile a quello del
recipiente in esame e usa forme
che si sono trasformate
foneticamente e formalmente
in epoca classica. Troviamo, ad
esempio, SAKROS ESED “sia
sacro” (il nominativo singolare
è ancora SAKROS, scritto con K
al posto di C, ma sacer in epoca
classica); RECEI “al Re” (scritto
con C al posto di G, la forma del
dativo singolare ancora dittongato
con –EI, forma classica regi);
KALATOREM “l’araldo” e
IOUXMENTA “bestiame da tiro”
(iumenta in epoca classica).
dalla Regia nel Foro Romano e
RECEI “al Re” nella Lex Sacra
del Lapis Niger, anch’essa nel
Foro Romano. In quelle a
carattere privato, ad esempio
nel frammento di vaso di
provenienza sconosciuta già
citato nel testo, l’iscrizione indica
semplicemente il possessore del
vaso stesso, mentre la ricchezza
d’informazione presente
nell’iscrizione sul recipiente
oggetto della nostra attenzione
ci mostra che già allora esisteva
un ceto benestante capace di
creare regali con dedica.
Le quattro iscrizioni dell’epoca
arcaica qui presentate, provenienti
dalla città di Roma, sono dedicate
a temi pubblici e privati.
In quelle di carattere istituzionale
si parla due volte di un “Re”:
REX “Re” sul fondo di un ciotolo
80
Galileo e gli “spettacoli del cielo”
sul Colle del Quirinale
di
Paolo Galluzzi
Galileo e gli
“spettacoli del
cielo” sul Colle
del Quirinale
di Paolo Galluzzi
Alla pagina precedente:
Justus Sustermans, Ritratto di Galileo
Galilei, 1636, olio su tela.
Pisa, Domus Galileana.
A fronte:
Antiporta del Dialogo sopra i due
massimi sistemi del mondo di Galileo,
Firenze 1632.
N
ei frequenti viaggi a Roma
compiuti da Galileo per
presentare le sensazionali
scoperte celesti ottenute col
telescopio, per promuoverle in
modo da ottenere il più vasto
e autorevole consenso e,
successivamente, per difendersi
dalle accuse di sostenere dottrine
sospette di eresia, lo scienziato
pisano ebbe almeno una volta
l’occasione di calpestare il suolo
del Colle del Quirinale.
Ne dà indubitabile testimonianza
una lettera dello stesso Galileo ad
Antonio Antonini del 20 febbraio
1638 (OG, XVII, p. 297), nella
quale ricorda di avere offerto
ripetute dimostrazioni della
presenza di macchie sulla
superficie del Sole “nel tempo che
io mi trovavo in Roma, dove più
volte le feci vedere a molti prelati
grandi negli Orti Quirinali”.
Testimonianza peraltro confermata
nell’Epistola al lettore
dell’accademico linceo Angelo
De Filiis, premessa all’Istoria e
dimostrazioni intorno alle macchie
solari e loro accidenti di Galileo
(Roma 1613). Il De Filiis vi
afferma che, durante il soggiorno
romano del 1611, Galileo divulgò
la propria scoperta del “Sole
macchiato” non soltanto a parole,
ma mostrando “l’effetto stesso”,
facendo cioè osservare direttamente
il fenomeno a numerosi testimoni
“nel Giardino Quirinale” (OG, V,
pp. 81-82). Nella sua Vita di
Galileo – la più antica biografia
dello scienziato – Vincenzo Viviani
precisa che la dimostrazione delle
macchie solari “nel Giardino
Quirinale”, alla presenza di
cardinali, rappresentanti del clero
e personalità della cultura,
avvenne nell’aprile del 1611,
nel contesto di una serie di
presentazioni pubbliche nel corso
delle quali Galileo “fece vedere
i nuovi spettacoli del cielo” svelati
dal suo cannocchiale (OG, XIX,
p. 612).
Apporta specificazioni preziose
circa la precisa localizzazione di
quelle pubbliche dimostrazioni la
lettera di Monsignor Piero Dini del
2 maggio 1615 a Galileo, scritta
dal “giardino di Monte Cavallo
dell’Ill.mo Bandini [il Cardinale
Ottaviano Bandini] dove V. S.
mi fece vedere per la prima volta
le macchie del Sole” (OG, XII,
p. 175). Devo alla gentile
comunicazione di Francesco
Colalucci l’informazione che il
giardino Bandini di Monte Cavallo
era vicinissimo a quello del
Palazzo papale del Quirinale.
Il Colle del Quirinale tornò a
essere teatro di eventi significativi
della biografia galileiana pochi
anni più tardi, nel contesto del
cosiddetto “primo processo” a
Galileo. Il 2 aprile del 1615 si
tenne nel Palazzo Apostolico del
Quirinale la Congregazione del
Santo Uffizio, che esaminò la
deposizione rilasciata il 20 marzo
di quell’anno da uno dei più
accaniti accusatori di Galileo,
il frate domenicano Tommaso
Caccini, che aveva avanzato
il sospetto che le dottrine
copernicane sostenute dallo
scienziato fossero in odore di
eresia. La Congregazione prese
atto della deposizione e deliberò
di inviarla all’Inquisitore di
Firenze perché ne verificasse la
veridicità, interrogando le persone
nominate dal Caccini (OG, XIX,
p. 277). Il 9 giugno del 1616, di
nuovo nel Palazzo del Quirinale,
la Congregazione dell’Inquisizione
esaminò un’altra questione
inerente la battaglia galileiana a
favore del copernicanesimo: decise
infatti di scrivere all’arcivescovo
82
Galileo e “gli spettacoli del cielo”
sul Colle del Quirinale
di Napoli, cardinale Carafa,
approvando la sua decisione di
carcerare lo stampatore che aveva
impresso senza licenza il libro nel
quale frà Paolo Antonio Foscarini
si era espresso a favore del moto
della Terra e della stabilità e
centralità del Sole. Il libro era
stato proibito nella riunione del
Santo Uffizio del 3 marzo (OG,
XIX, p. 278).
In un saggio recente che inquadra
le drammatiche vicissitudini
galileiane negli anni del secondo
processo e della condanna per
eresia (1632-1633), nel contesto
della disastrosa peste di
manzoniana memoria che flagellò
la Penisola a più riprese dal 1630
al 1633, F.A. Levi e G.R. LeviDonati hanno descritto una
seconda e più prolungata occasione
di visita del Quirinale da parte
di Galileo (F.A. Levi e G.R. LeviDonati, Galileo e la peste,
“Quaderni di Storia della Fisica”,
8, 2001, pp. 3-32). A parere dei
due autori, egli vi sarebbe stato
infatti carcerato dal 12 al 20
aprile del 1633, nel corso del
processo che portò alla sua
condanna e all’abiura. I Levi
arrivano perfino a localizzare
e descrivere puntualmente,
pubblicandone la planimetria,
le tre stanze del palazzo, in
prossimità della cosiddetta “scala
delle prigioni”, che sarebbero state
assegnate come carcere a Galileo.
A meno che non abbiano avuto
accesso a documenti che mi sono
ignoti, ritengo che i due autori
84
siano stati vittime di un
fraintendimento. C’è concordia,
infatti, tra gli studiosi sul fatto
che Galileo, nel corso del processo
dell’aprile 1633, fu carcerato nel
Palazzo del Santo Uffizio, in
prossimità di San Pietro (l’attuale
Sede della Congregazione per la
Dottrina della Fede), e non nel
Palazzo del Quirinale. Peraltro,
questo fatto è inequivocabilmente
attestato da molteplici evidenze
nel carteggio galileiano e nei
documenti processuali, oltre
che da autorevoli testimonianze
contemporanee.
Il verbale del primo costituto del
processo (12 aprile 1633) attesta
che Galileo comparve come
imputato nel Palazzo del Santo
Uffizio (comparuit personaliter
Romae in Palatio S.ti Offitii: OG,
XIX, pp. 336-337). Dallo stesso
verbale apprendiamo che, dopo
l’interrogatorio, all’imputato fu
assegnata come prigione una
stanza del Palazzo del Santo
Uffizio: assignata ei fuit, loco
carceris, camara quaedam in
dormitorium officialium, sito
in Palatio S.ti Offitii (ibid.).
Con una lettera del 9 aprile
l’ambasciatore toscano a Roma,
Francesco Niccolini, aveva, d’altra
parte, informato il segretario del
granduca che Galileo sarebbe
stato convocato al Santo Uffizio,
interrogato e vi sarebbe stato
trattenuto “non come prigione,
né in secrete, come è solito con
gli altri, ma provisto di stanze
buone et fors’anche lasciate
aperte” (OG, XV, pp. 84-85).
La localizzazione del carcere
galileiano nel Palazzo del Santo
Uffizio è attestata dallo stesso
Galileo che, scrivendo il 16 aprile
a Geri Bocchineri, gli comunicava
di “restare ritirato, ma con ben
insolita larghezza e comodità, in
tre camere che sono parte di
quelle dove abita il Fiscale del
S.to Offizio” (OG, XV, p. 88).
Nei processi dell’Inquisizione
il Procuratore Fiscale (Procurator
Fiscalis) svolgeva funzioni
assimilabili a quelle dell’attuale
Pubblico Ministero e disponeva
di un alloggio nel Palazzo del
Santo Uffizio. Le lettere di Geri
Bocchineri e di suor Maria Celeste,
figlia di Galileo, del 20 aprile (OG,
XV, pp. 97-98) offrono ulteriori
conferme circa la sede del carcere.
Lo ribadisce anche l’annotazione
vergata da Giovanfrancesco
Buonamici nel proprio diario in
data 2 maggio: “Il Sig.r Galileo
Galilei uscì dal S.to Ufizio, dove
è stato ritenuto in assai larga
custodia per 12 [in realtà 18!]
giorni, per esaminarlo sopra il suo
libro de’ Dialogi della costituzione
dell’universo…” (OG, XV, p. 111).
Se Galileo non soggiornò da
inquisito sul Colle che lo aveva
visto acclamato protagonista
nel 1611, va sottolineato che
il Palazzo del Quirinale fu teatro
di eventi non marginali nel corso
delle drammatiche vicende
processuali del 1633. Fu nelle sale
della residenza papale infatti che
l’ambasciatore toscano Francesco
Niccolini perorò l’11 novembre
del 1632, davanti a Urbano VIII
e alla Congregazione del Santo
Uffizio, la richiesta di Galileo
di essere esentato dal periglioso
viaggio a Roma a motivo della sua
età avanzata (stante eius gravi
aetate). L’appassionato intervento
del Niccolini, certamente compiuto
a nome del Granduca di Toscana,
non produsse l’effetto sperato:
Urbano VIII nihil voluit concedere,
sed scribi mandavit ut obediat, et
Inquisitori ut eum compellat ad
Urbem venire (OG, XIX, p. 280).
Fu sempre sul Colle del Quirinale
85
Joseph Nicolas Robert-Fleury, Galileo di
fronte al Santo Uffizio, 1847, olio su tela.
Parigi, Musée du Louvre.
Galileo e “gli spettacoli del cielo”
sul Colle del Quirinale
che il 16 giugno del 1633 la
Congregazione del Santo Uffizio
adottò una decisione fondamentale
per l’esito del processo a Galileo.
Alla presenza di Urbano VIII,
i commissari, preso atto della
caparbia difesa di Galileo e della
sua renitenza a riconoscersi
colpevole, deliberarono che si
procedesse alla sua formale
interrogazione sopra l’intenzione
(supra intentione), ricorrendo,
se necessario, anche alla tortura
(etiam comminata ei tortura).
Strappata la sua formale
confessione, l’imputato sarebbe
stato condotto davanti
all’assemblea plenaria della
Congregazione per pronunciare
l’abiura (praevia abiuratione de
vehementi in plena Congregatione
Sancti Officii). Successivamente,
sarebbe stata emessa la condanna
al carcere ad arbitrio della
Congregazione (condannandum
ad carcerem arbitrio Sacrae
86
Congregationis), col divieto di
trattare, né in voce, né in scritto,
della dottrina copernicana, sotto
pena di recidiva (sub pena
relapsus), che avrebbe comportato
punizioni di severità estrema
(OG, XIX, p. 283). Pochi giorni
dopo (22 giugno), Galileo abiurò
formalmente (abiuravit de
vehementi) nel Convento di Santa
Maria sopra Minerva (OG, XIX,
p. 283). L’atto di sottomissione
indusse la Congregazione, riunitasi
il 23 giugno, di nuovo al Quirinale,
alla presenza di Urbano VIII,
a concedergli di trasferirsi dal
carcere nel Palazzo del Santo
Uffizio agli arresti domiciliari presso
la residenza dell’ambasciatore
toscano a Trinità dei Monti
(OG, XIX, p. 284). In successive
riunioni, tenutesi nel Palazzo
del Quirinale, la Congregazione
del Santo Uffizio tornò a occuparsi
del caso Galileo (OG, XIX, pp. 285
e 288).
87
A fronte e a fianco:
Disegni autografi di Galileo delle
macchie solari, realizzati con l’elioscopio,
ms. galileiano 57, cc. 86v e 92r.
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.
Galileo e “gli spettacoli del cielo”
sul Colle del Quirinale
Il Colle del Quirinale fu dunque
teatro di eventi particolarmente
significativi che segnarono
momenti cruciali della biografia
di Galileo: il suo debutto trionfale,
grazie alle meraviglie mostrate in
cielo dal cannocchiale, sulla scena
romana del potere, da un lato, e
la drammatica conclusione della
sua straordinaria avventura
intellettuale, dall’altro.
Merita dedicare qualche ulteriore
riflessione alla fortunata serie delle
dimostrazioni galileiane degli
“spettacoli del cielo” e, in
particolare, delle macchie solari,
compiute negli “Orti Quirinali”
nella primavera del 1611. Non
solo perché quelle dimostrazioni
rappresentano la prima
comunicazione pubblica data da
Galileo di questo fenomeno
astronomico, osservato per la
prima volta quando ancora si
trovava a Padova ma del quale
erano a conoscenza solo pochi
amici. Si trattava di una scoperta
particolarmente eccitante per
Galileo, dato che forniva ulteriore
conferma – contro Aristotele e
i suoi seguaci – della natura
corruttibile dei corpi celesti (il Sole
“macchiato” faceva il paio con la
superficie corrugata della Luna,
illustrata nel Sidereus Nuncius
del 1610). Le ripetute osservazioni
degli spostamenti delle macchie
sulla superficie solare convinsero
inoltre presto Galileo che il Sole
ruotava sul proprio asse, come
già Copernico aveva intuito.
Viene spontaneo domandarsi
in che modo Galileo abbia
concretamente operato per
mostrare le macchie a “prelati
grandi” e a personaggi di notevole
autorità. È da escludere che li
abbia
invitati a osservare il Sole
Frontespizio dell’Istoria e dimostrazioni
intorno alle macchie solari di Galileo, a occhio nudo, dato che in tal
Roma 1613. modo, oltre alle gravi offese per
la vista, sarebbero stato impossibile
individuare le macchie. Se, come
è estremamente probabile, le fece
osservare attraverso le lenti del
cannocchiale (la novità sensazionale
che recò con sé nella città
pontificia), per proteggere gli occhi
avrebbe potuto oscurare la lente
obiettiva affumicandola o
schermandola con un vetro scuro.
In entrambi i casi si sarebbe
tuttavia verificata una notevole
perdita di definizione, che avrebbe
reso problematico percepire le
macchie. Più probabile che Galileo
abbia messo in pratica sul Colle
del Quirinale la soluzione
suggeritagli dall’appassionato
discepolo Benedetto Castelli
(OG, V, p. 136), che gli consentirà
nei mesi successivi di osservare il
Sole con continuità, senza pericoli
per la vista e, soprattutto, di
realizzare una serie di puntuali
raffigurazioni grafiche dei diversi
aspetti delle macchie solari:
proiettare l’immagine del Sole
intercettata dal cannocchiale su
uno schermo mobile. Dopo avervi
fissato un foglio di carta sul quale
era stata in precedenza disegnata
una circonferenza di diametro a
piacere, Galileo allontanava lo
schermo dall’oculare del telescopio
fino alla distanza nella quale
l’immagine proiettata dal Sole
coincideva perfettamente con la
circonferenza precedentemente
tracciata sul foglio. A questo punto
Galileo poteva vedere e mostrare
ai presenti le immagini (speculari)
delle macchie, che fissava sulla
carta con rapidi tratti di penna,
ottenendo in tal modo
rappresentazioni di precisione
quasi fotografica.
Il suo grande concorrente nella
disputa per la priorità nella
scoperta delle macchie solari,
il gesuita Christoph Scheiner,
88
Galileo e “gli spettacoli del cielo”
sul Colle del Quirinale
Elioscopio (o telioscopio) nella
configurazione utilizzata dal gesuita
Christoph Scheiner, Rosa Ursina,
Roma 1630.
battezzò più tardi questo geniale
strumento col nome di elioscopio.
Non è affatto improbabile che
questo singolare dispositivo, il cui
funzionamento dipende da principi
simili a quelli della camera oscura,
abbia fatto la sua prima comparsa
in pubblico proprio nelle
dimostrazioni delle macchie solari
nei giardini sul Colle del Quirinale.
Credo che Angelo De Filiis si
riferisse proprio alle immagini
del Sole mostrate dall’elioscopio
quando, nella premessa all’Istoria
e dimostrazioni, affermò che
Galileo non si limitò a illustrare
a parole la presenza di macchie
sul Sole, ma ne mostrò “l’effetto
stesso”.
La proiezione dell’immagine
del Sole consentiva inoltre
di presentare il fenomeno
simultaneamente a più persone,
come le fonti suggeriscono che
avvenne nelle dimostrazioni
galileiane negli “Orti Quirinali”.
Se le cose andarono effettivamente
così, è facile immaginare che quel
curioso strumento dovette generare
negli illustri e privilegiati
personaggi radunati sul Colle del
Quirinale uno stupore non minore
di quello prodotto dalla visione
del “Sole macchiato”.
***
I documenti citati nel testo sono tratti
dall’Edizione Nazionale delle Opere
di Galileo Galilei, a cura di Antonio
Favaro, 20 volumi in 21 tomi, Firenze,
G. Barbèra, 1890-1909 [OG].
90
La residenza
dell’Ambasciata d’Italia
presso la Santa Sede
di
Antonio Zanardi Landi
La residenza
dell’Ambasciata
d’Italia presso la
Santa Sede
di Antonio Zanardi Landi
Alla pagina precedente:
Pietro Fiorini, stemma di papa Pio IV
de’ Medici di Marignano. Roma, Palazzo
Borromeo, passaggio triangolare tra il
salotto blu e il salotto rosso.
In basso:
Particolare della facciata su via
Flaminia.
A fronte:
Facciata ad angolo tra via Flaminia e via
di Valle Giulia.
L’
Ambasciata d’Italia presso
la Santa Sede rappresenta
un unicum nel mondo
della diplomazia e delle relazioni
internazionali. È infatti l’unica
Ambasciata bilaterale a operare
nella stessa capitale del proprio
Paese. Essa ha dunque una
posizione particolarissima, che
non incide peraltro sulle modalità
di svolgimento della propria
missione.
Il rapporto tra l’Italia e la Santa
Sede, che solo con una certa fatica
può essere disgiunto da quello
simmetrico con la Chiesa in Italia,
ha rivestito, sin dalla conclusione
dei Patti Lateranensi nel 1929,
un’importanza e un rilievo del
tutto particolari ed è per questo
che l’Ambasciata d’Italia presso la
Santa Sede è stata dotata per le
proprie attività di rappresentanza
di quello strumento eccezionale
che è costituito dal cinquecentesco
Palazzo Borromeo, prescelto e
fortemente voluto dal primo Capo
Missione, Cesare Maria de’ Vecchi
di Val Cismon.
Tra poco tempo ricorrerà
l’ottantesimo anniversario non
solo della conclusione dei Patti
Lateranensi, ma anche
dell’acquisizione da parte
dello Stato italiano di Palazzo
Borromeo, la cui denominazione
risente in certo modo di una scelta
consapevolmente operata dai miei
predecessori. In effetti il palazzo
appartenne solo per pochi anni
alla famiglia Borromeo: dei due
nipoti per i quali il papa Pio IV,
al secolo Giovanni Angelo Medici
di Marignano (1559-1565), aveva
fatto costruire l’edificio, Federico
morì prematuramente e il
cardinale Carlo, che verrà poi
canonizzato all’inizio del Seicento,
venne ben presto chiamato alla
guida dell’Arcidiocesi di Milano.
Il cardinale, lasciando Roma,
cedette il palazzo alla sorella
Anna in occasione delle nozze
di quest’ultima con Fabrizio
Colonna. Il palazzo rimase poi
in proprietà della grande famiglia
romana per oltre tre secoli, ma
l’Ambasciata preferì mantenere
una denominazione che
sottolineasse il collegamento ideale
con un grande santo italiano, a
preferenza di altre denominazioni
quali “la Casina di Pio IV” o
“Palazzo Colonna a Valle Giulia”
che avrebbero avuto un significato
meno pregnante per un edificio
destinato a servire le relazioni tra
l’Italia e la Santa Sede.
Una denominazione fortemente
collegata con Milano e con l’Italia
del nord implicitamente sottolinea
inoltre la valenza nazionale e non
solo romana della presenza e
dell’attività dell’Ambasciata che
vi ha sede.
Il grande edificio racchiude in sé
92
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
È per me oggetto di quotidiano,
ammirato stupore il fatto che gli
architetti che nel 1929 misero
mano all’ampliamento del palazzo
siano riusciti a interpretare in
maniera filologicamente corretta
l’impostazione di Pirro Ligorio
e a realizzare un’intera nuova ala
senza alcuna forzatura o discrasia.
E, in effetti, un recente studio
di Christoph Luitpold Frommel
dimostra che il progetto originario
e rappresenta molti elementi di
forte valenza positiva per la storia
di Roma sede del Papato e di
Roma capitale d’Italia: innanzitutto
il frutto di una committenza
intelligente ed energica, quella
di Pio IV che in pochi anni
letteralmente cambiò il volto
della Roma del Cinquecento,
e dell’abilità e della fantasia di
quel grande architetto che fu Pirro
del grande architetto del
Cinquecento prevedeva un’ala,
non realizzata, che avrebbe
dovuto chiudere il chiostro in
maniera non troppo dissimile da
quella poi realizzata nel 1929.
L’atmosfera del palazzo è
evidentemente riuscita a incantare
tutti coloro che hanno avuto la
ventura di abitarvi e molti dei
miei predecessori hanno lasciato
un segno importante e positivo
Ligorio. Dopo un lungo periodo di
abbandono, il grande edificio che
sorgeva al di fuori della cerchia
muraria fu inoltre oggetto di
un’imponente opera di intelligente
e accurato restauro condotto da
Ugo Jandolo e, dopo l’acquisizione
al Demanio, di un altrettanto
intelligente ampliamento con la
costruzione di un’ala adibita oggi
a residenza del Capo Missione.
94
95
A fronte:
Cortile esagonale con un antico pozzo
al centro e la visuale sul giardino del
palazzo.
A fianco:
Particolare della fontana con
il mascherone che getta l’acqua
nel sottostante catino.
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
nell’arredamento e nella cura
dell’edificio. Il risultato è quello
di una grande casa che consente
di condurre un’attività di
rappresentanza ai livelli più alti
e di ospitare ogni anno il grande
ricevimento per l’anniversario
dei Patti Lateranensi, che viene
sempre onorato dalla presenza
del Capo dello Stato.
Preesisteva al palazzo una bella
fontana, opera del fiorentino
Bartolomeo Ammannati, tuttora
esistente ad angolo tra la via
Flaminia e l’attuale via di Villa
Giulia. Costruita nel 1552 per
conto di Giulio III Del Monte
(1550-1555), la fontana, data
la sua importanza per lo sviluppo
successivo del palazzo, merita
una breve descrizione.
Concepita, contemporaneamente
all’abbeveratoio, dall’altra parte
della strada, come consuetudine
all’epoca, segnava l’inizio del
percorso che Giulio III doveva
compiere per recarsi a Villa
Giulia, il suo amato loco delitiae.
La fontana in peperino era in
origine composta dal solo primo
piano di ordine corinzio e
terminava con un arco sormontato
da una cornice a timpano, ancora
oggi visibile, ornata da numerosi
obelischi e statue. Purtroppo
queste ultime – tra le quali figurava
una “gran testa antica e bellissima
d’un Apollo”, come sappiamo
dallo stesso Ammannati che la
descrive in una lettera e da alcune
rappresentazioni cinquecentesche
dell’opera – sono andate perse
nel corso dei successivi
rimaneggiamenti dell’edificio.
Del pari l’iscrizione originale della
fontana “JULIUS III PONT. MAX. /
PUBLICAE COMMODITATI / ANNO III”
è stata sostituita con quella attuale
che ricorda un successivo
proprietario, Filippo Colonna,
duca di Paliano.
La fontana, oltre alla facies
“pubblica”, quella appena
descritta, rivolta verso la strada,
a sottolineare sia la generosità
del pontefice nel realizzare una
fonte per l’uso dei romani che
il suo amore per l’arte e per
l’antichità, aveva una facies
“privata”, rivolta verso la villa
del pontefice. Quest’ultima, poi
in parte trasformata nel portico
del cortile del Palazzo Borromeo,
era costituita da una loggia aperta
sulla peschiera e sui molti giochi
d’acqua e fontane che abbellivano
i giardini di Villa Giulia.
96
Nel dicembre del 1559, l’elezione
al soglio di Pietro di Pio IV
significò un positivo rinnovamento
per una città che dal Sacco dei
Lanzichenecchi del 1527 agli
ultimi anni del decennio, quelli
del pontificato dell’austero
Paolo IV Carafa (1555-1559),
attraversava un periodo
estremamente difficile, scandito
dalle continue carestie. Giovanni
Angelo era una persona
notevolmente colta, amante
e protettore delle Arti e in
particolare dell’architettura,
che senza mai abbandonare
il proverbiale pragmatismo dei
lombardi promosse una renovatio
di Roma di ampio respiro,
emulando in questo modo i
pontefici della famiglia de’ Medici
di Firenze, suoi omonimi, raffinati
mecenati dell’inizio del secolo.
“Pio IV – scriveva nel 1564
l’ambasciatore Gerolamo Soranzo
al Senato Veneto – ha
un’inclinazione grandissima al
fabbricare, e in questo spende
volontieri e largamente, pigliando
gran piacere quando sente laudare
le opere che va facendo, e par che
abbia per fine lasciar anco per
questa via memoria di sé, non vi
essendo ormai luogo di Roma che
non abbia il nome suo; ed usa di
dire, il fabbricare esser particolare
97
A fronte:
Particolare dell’alzato della facciata del
Palazzo Borromeo, realizzato da Pirro
Ligorio al di sopra della preesistente
fontana con l’arme di Pio IV tra due
angeli allusivi al nome di battesimo del
pontefice.
In basso:
Salotto rosso.
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
inclinazione di Casa de’ Medici.
In Roma, poi, fa acconciar strade,
fabbricar chiese e rinnovarne altre
con spesa così grande che al
tempo mio per molti mesi nelle
fabbriche di Roma solamente
passava dodici mila scudi il mese;
spesa certo grande, ma grandissima
in Sua Santità che nelle altre cose
è molto assegnata”.
Poco dopo essere stato eletto,
Pio IV promosse la costruzione
di una residenza a ridosso della
fontana dell’Ammannati e ne
affidò il progetto al suo architetto
di fiducia, il napoletano Pirro
Ligorio. I lavori per la costruzione
del palazzo ebbero inizio nel
maggio del 1561 e videro
l’architetto cimentarsi in un
intelligente dialogo con le
preesistenti costruzioni: la
fontana, vincolo dell’edificio dal
nascere, viene sopraelevata di un
piano con un muro in mattoni che
si alza leggero sulla parte bassa
in peperino e diviene la parte
centrale del prospetto di facciata
del palazzo. Al centro del nuovo
ordine ionico due colonne
incorniciano lo stemma papale fra
due grandi angeli, evocativi del
nome di battesimo del pontefice,
Giovanni Angelo e l’iscrizione
celebrativa del cardinale
Borromeo, affiancata da due
sfingi. L’eccezione alle regole
dell’architettura classica, l’ordine
ionico sovrapposto al corinzio
della fontana è quindi dovuto
alla preesistenza di questa.
A quel tempo la vicina Villa
Giulia, confiscata agli eredi di
Giulio III, era divenuta proprietà
dello Stato Pontificio e quindi il
nuovo edificio venne a fare parte
di un complesso residenziale
papale composto, oltre che
dall’edificio stesso, da Villa
Giulia e dalla piccola chiesa di
Sant’Andrea, da poco costruita
dal Vignola per servire da
“cappella” della villa.
98
Come già accennato, l’edificio
venne donato dal pontefice agli
amati nipoti, il conte Federico
e suo fratello, il cardinale Carlo
Borromeo, destinati dallo zio a
perpetuare le glorie del casato: il
primo avrebbe dovuto consolidare
la posizione sociale della famiglia
lombarda, il secondo invece aveva
intrapreso la carriera ecclesiastica.
L’edificio che Ligorio andava
costruendo era quindi destinato
ex-ante a due padroni per cui
l’architetto, come proposto da
Frommel, progettò due residenze
gemelle, a destra e a sinistra
della fontana.
La prematura scomparsa di
Federico nel 1562, quando i lavori
99
A fronte:
Salotto Direttorio.
In alto:
Scuola napoletana, San Carlo Borromeo
in gloria, prima metà del Settecento,
olio su tela, salotto Direttorio.
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
erano da poco iniziati, portò a
ultimare solamente l’ala sinistra
dell’edificio, quella lungo la via
Flaminia, lasciando incompleta
per oltre tre secoli l’ala destra,
lungo la via di Villa Giulia.
Ciascuno dei due appartamenti
si sarebbe dovuto comporre di
alcune stanze a uso privato, di
ambienti di servizio, di una loggia,
probabilmente destinata a servire
anche da sala da pranzo; infine
un nucleo centrale di saloni di
rappresentanza avrebbe dovuto
collegare le due residenze. Il
maggiore e più importante di
questi ultimi, l’attuale salotto blu,
si trova esattamente sopra la
fontana dell’Ammannati; ai lati
di questo, attraverso due passaggi
triangolari – ingegnosa soluzione
che ha permesso di risolvere
l’irregolarità della pianta – si
passa agli altri due, detti il salotto
rosso e il salotto Direttorio. I citati
saloni recano tuttora al centro del
soffitto l’arme del papa Medici
incorniciata da eleganti angeli e
puttini affrescati da Pietro Fiorini
nel 1564.
La facciata dell’edificio sulla via
consolare presenta al centro del
pianterreno un’unica apertura, un
portale bugnato in peperino,
inquadrato da lesene di ordine
corinzio che si richiamano
all’ordine della fontana. Al primo
piano, all’altezza del portone,
un’elegante loggia retta da due
colonne marmoree affiancate da
due pilastri in peperino, sempre
di ordine corinzio, interrompe la
successione delle finestre, quattro
per parte. Dalla loggia si poteva
godere di una splendida vista sul
Tevere (prima che gli edifici che
possiamo attualmente vedere tra
la via Flaminia e il fiume la
ostruissero), in grado di competere
con la vista dall’altro lato: la Villa
Giulia, sovrastata dalla verde
collina dei Parioli.
All’interno l’edificio avrebbe
100
dovuto chiudersi in un grande
cortile esagonale con un solo lato
aperto, quello in asse con il
portico situato sul retro della
fontana, per permettere la vista
di Villa Giulia.
Frommel ha ipotizzato che l’intero
progetto del palazzo con il
prospetto della facciata centrato
sulla fontana e quindi in diagonale
rispetto alla via Flaminia sia stato
concepito da Ligorio per
permetterne la vista dal Tevere,
per l’esattezza dal piccolo molo
dove il papa soleva sbarcare
quando si recava in visita alla sua
residenza suburbana. La pianta
dell’edificio così insolita, una sorta
di C allargata, sembra essere stata
101
A fronte:
Salotto blu.
In alto:
Loggia.
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
preoccupò di completarne la
costruzione affidando ancora una
volta, con ogni probabilità, il
progetto e la supervisione dei
lavori a Pirro Ligorio. L’architetto
propose una variazione sul primo
progetto e completò l’ala esistente
con un lungo androne che dal
portone d’ingresso sulla via
Flaminia conduce al giardino
interno. L’androne è sormontato
da un grande salone che si viene
a trovare leggermente in diagonale
rispetto alla loggia sul Tevere,
della quale costituisce il
proseguimento ideale verso
il giardino. La costruzione si
studiata dal colto architetto
con meticolosa cura al fine di
permettere una serie di richiami
visivi, ma anche concettuali, tra
la Palazzina di Pio IV e la vicina
Villa Giulia. Forzando le frontiere
della prospettiva in architettura,
Ligorio avrebbe così formulato
il più originale dei suoi progetti,
rimasto a lungo sconosciuto.
Nel 1565, quando la palazzina
non era ancora completata, pochi
mesi prima della morte dello zio
pontefice, Carlo Borromeo si
trasferì a Milano, per assumere
la guida della diocesi lombarda
che mantenne per vent’anni, fino
alla morte. Nella città lombarda
sarebbe poi dovuta ripetere a
specchio a destra della fontana,
cosicché grazie all’aggiunta del
corpo di fabbrica dell’andronesalone l’edificio si sarebbe chiuso
all’interno in un cortile sempre
esagonale, di minori dimensioni
rispetto a quello progettato per il
pontefice ma pur sempre originale.
Purtroppo però i Colonna non
completarono il palazzo: l’ala su
via di Villa Giulia verrà costruita
solo agli inizi del Novecento
proprio per ospitare la Cancelleria
dell’Ambasciata d’Italia presso la
Santa Sede e attualmente
residenza del Capo Missione.
il cardinale Borromeo fu esempio
di carità e generosità cristiana,
come quando durante la peste del
1576 si recò a visitare i malati
relegati nelle capanne e nel
lazzaretto.
Come premesso, una volta
trasferito, il cardinale non ebbe
motivo di mantenere il palazzo
romano, che nel 1566 venne a
essere parte della dote della sorella
Anna, andata in sposa a Fabrizio
Colonna, figlio di Marcantonio II,
eroe della battaglia di Lepanto,
e di Felice Orsini.
Da questo momento il palazzo
divenne proprietà della grande
famiglia romana che subito si
102
103
A fronte e alle pagine seguenti:
Manifattura di Bruxelles (attribuito a),
Gedeone interroga un giovane della gente
di Socoth, ante 1561, sala da pranzo.
In basso:
Sala da pranzo.
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
Marcantonio Colonna si preoccupò
di completare la decorazione
interna degli ambienti di
rappresentanza dell’ala costruita
e commissionò i fregi a fresco,
tuttora presenti nella loggia e nel
salone grande. Il fregio della
loggia è composto da sei riquadri
nei quali viene narrata la storia
di due giovani cavalieri di non
facile identificazione, certo da
interpretare in chiave allegorica
e moralizzante. I riquadri sono
inseriti in una ricca cornice
composta da figure maschili e
femminili, festoni di frutta e fiori,
mascheroni, ovali in forma di
cammei antichi e coppie di arpie
alate. Nel fregio del salone sono
raffigurati paesaggi con festoni di
frutta e fiori incorniciati da coppie
di telamoni dorati inseriti tra due
erme a monocromo e da coppie
di puttini alati.
A intervalli regolari nei due fregi
compare lo stemma Colonna
ornato con il Toson d’Oro,
prestigiosa onorificenza ricevuta
da Marcantonio, e lo stemma
combinato Orsini-Colonna in
onore dei genitori di Fabrizio.
Gli affreschi, tradizionalmente
riferiti, sebbene con sempre
maggiore prudenza, agli Zuccari,
sono opera di un gruppo di artisti
tra i quali compare Durante
Alberti, attivo in quegli anni
in alcuni cantieri coordinati da
Pirro Ligorio, come le ricerche
di archivio condotte da Fausto
Nicolai hanno recentemente
dimostrato.
Il palazzo rimase proprietà dei
Colonna per oltre tre secoli, ma
la famiglia, che pure sostituì con
il proprio gli stemmi di facciata
e le iscrizioni della fontana, non
vi abitò molto; per la verità vi si
recò di rado, tanto che, come
106
accennato, non si preoccupò di
completarne la costruzione.
Nel 1900 il palazzo, ridotto in
condizioni miserrime perché da
tempo in stato di abbandono,
venne venduto dai Colonna al
cavaliere Giuseppe Balestra, già
proprietario della villa contigua
sul colle dei Parioli. Al figlio di
Giuseppe, Giacomo, dobbiamo
la prima monografia sull’edificio,
nella quale vennero pubblicati
i documenti d’archivio che ne
attestano la paternità di Pirro
Ligorio.
I Balestra tuttavia non diedero
inizio ai molti lavori di restauro
di cui lo storico palazzo, vincolato
nel 1910 dallo Stato italiano,
107
A fronte e alle pagine seguenti:
Salone grande.
In alto:
Particolare del fregio a fresco della loggia.
108
109
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
aveva urgente, disperato bisogno
e nel 1920 lo cedettero
all’antiquario romano Ugo
Jandolo. Questi trovò il palazzo:
“in cenci da mendicante e come
brandelli gli pendevano addosso
i lembi della sua sbiadita veste
regale” e promosse un restauro
integrale dell’edificio che poi
utilizzò come abitazione e
galleria d’arte. Jandolo fece
dapprima consolidare la struttura
dall’ingegnere Carlo Giuliani,
in seguito affidò il restauro
– da lui definito “artistico” –
agli architetti Arnaldo Foschini e
Attilio Spaccarelli, i quali avevano
A fronte:
Facciata interna del palazzo verso
il giardino.
mostrato nelle loro opere di quegli
ultimi anni una particolare
attenzione agli aspetti storicoartistici degli edifici.
A restauri completati, nel 1923,
Jandolo promosse la pubblicazione
di un piccolo volume sul palazzo
nel quale si trova, oltre al testo
con le informazioni storiche
curato da Sante Bargellini e a
un’accurata relazione dei restauri
appena conclusi, una completa
documentazione fotografica. Le
diverse parti dell’edificio, una
dopo l’altra, sono messe a
confronto nelle riprese fotografiche
eseguite prima e dopo il restauro
A fianco e alla pagina seguente:
Portico del cortile cinquecentesco
del palazzo.
intrapreso dall’antiquario.
Vedere le illustrazioni del libro
– fortunatamente ristampato nel
1989 per volere dell’ambasciatore
Emanuele Scammacca del Murgo
e dell’Agnone con un’interessante
introduzione di Carlo Pietrangeli –
colpisce ancora oggi tale è il
contrasto tra lo stato fatiscente
dell’edificio al momento
dell’acquisto da parte di Jandolo
e lo splendore che l’edificio
progettato da Pirro Ligorio per
110
Pio IV de’ Medici tornò ad avere
dopo i lavori di restauro intrapresi
dal raffinato antiquario.
In seguito all’acquisto del palazzo
da parte del Governo italiano,
toccò al primo ambasciatore,
Cesare Maria de’ Vecchi, conte di
Val Cismon, seguire i lavori mirati
a trasformare l’edificio in sede
diplomatica che, oltre alla
residenza del Capo Missione,
doveva contenere gli uffici di una
moderna ed efficiente Cancelleria.
111
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
dall’interno dell’edificio tra
la parte nuova e l’antica, tra gli
uffici e il salone grande. L’ufficio
dell’ambasciatore viene sistemato
nell’attuale biblioteca, la sala
che segue il cosiddetto salotto
Direttorio, ultimo degli ambienti
di rappresentanza dell’edificio
antico. Il ballatoio permette
ancora oggi di compiere il giro
completo dei salotti del piano
Nell’assoluto rispetto delle parti
rinascimentali Florestano di
Fausto, architetto all’epoca al
servizio del Ministero degli Esteri,
decide di completare l’edificio:
l’ala mancante, su via di Villa
Giulia, viene costruita dopo quasi
quattro secoli. I lavori, iniziati nel
1929, vengono proseguiti da Aldo
Fraschetti nel 1934 e la nuova
costruzione in mattoni, in origine
destinata a ospitare la Cancelleria
nobile, dal salone grande si passa
alla loggia, poi all’infilata di
salotti: quello rosso, quello blu
e quello Direttorio; segue la
biblioteca e infine un salotto dal
carattere più intimo dal quale
si passa nuovamente al ballatoio.
Dei tanti lavori d’integrazione e
restauro condotti dal 1929 a oggi
si ricorda solamente, per ovvie
ragioni di spazio, la costruzione
dell’Ambasciata, completa il
prospetto del palazzo su via di
Villa Giulia e prosegue ad angolo
retto verso il giardino, dove viene
unita all’edificio cinquecentesco
con un arco che lascia aperta
la visuale sull’elegante portico
rinascimentale del cortile,
finalmente chiuso in un esagono.
Sopra l’arco viene alzato un
ballatoio in ferro e vetro che
permette il collegamento
112
113
A fianco:
Fontana della facciata verso il giardino
del palazzo, realizzata nel 1929-1930
secondo il progetto di Florestano di
Fausto.
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
della nuova Cancelleria, ultimata
secondo il progetto di Mario
Tonelli nel 2002.
Di Fausto viene incaricato
dall’ambasciatore de’ Vecchi
di supervisionare anche
l’arredamento della nuova sede
diplomatica e a tal fine alcune
opere vengono acquistate dallo
stesso Ugo Jandolo (è il caso
di uno stucco raffigurante una
Madonna col Bambino, replica
fedele di un originale in marmo
opera di Antonio Rossellino).
Molti arredi vengono concessi
in deposito temporaneo dai
principali musei e gallerie d’Italia,
grazie anche al fondamentale
A fronte:
Cappella realizzata al piano terreno
dell’Ambasciata.
aiuto di Federico Hermanin,
all’epoca Soprintendente alle
Gallerie e ai Musei del Lazio e
degli Abruzzi, che sceglie alcuni
dei dipinti concessi in prestito e
si preoccupa di fare arrivare in
Ambasciata da Firenze i sei arazzi
che tuttora si trovano in situ. Tra
questi compaiono i due grandi
panni, parte di una serie delle
Storie di Gedeone, il personaggio
biblico eletto nel Quattrocento
a patrono dell’Ordine del Toson
d’Oro, tessuti, come ha proposto
di recente Lucia Meoni,
probabilmente a Bruxelles in
una manifattura ancora non
identificata e fatti acquistare nel
A fianco:
Benvenuto Tisi, detto il Garofalo,
Adorazione dei Pastori,
1537, olio su tela, salotto blu.
1561 da Cosimo I de’ Medici
come corredo per il viaggio
diplomatico in Spagna del figlio,
il principe Francesco. I soggetti
degli arazzi che rappresentano
Gedeone interroga un giovane
della gente di Socoth e Gedeone
invia ambasciatori in varie città
si adattano perfettamente alla
sede diplomatica.
Tra i primi dipinti entrati
a fare parte della collezione
dell’Ambasciata per merito del
connubio De Vecchi-Hermanin
vi è il quadro forse più importante
tra quelli conservati presso la sede
diplomatica, L’adorazione dei
pastori del Garofalo – uno dei
massimi rappresentanti del
Rinascimento ferrarese – firmato
114
e datato 1537, ora esposto
nel salotto blu. In una parete
del salone grande si trova
un interessante dipinto che
rappresenta il Martirio di santo
Stefano di scuola bolognese di
primo Seicento, forse riferibile
a Lucio Massari.
Il primo ambasciatore piemontese
riceve in dono dalla Cassa di
Risparmio di Torino tredici
ritratti di diversi personaggi
della famiglia Savoia, all’epoca
regnante; tutti esposti in bella
mostra nei diversi saloni
dell’Ambasciata.
Il primo nucleo di opere d’arte
del 1929 è andato aumentando
soprattutto per successive
concessioni di opere in deposito
115
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
esterno da parte di istituzioni
museali italiane ma anche per gli
acquisti effettuati dal Ministero
degli Affari Esteri.
Un bellissimo stipo-monetiere in
ebano con decorazioni in bronzo
e tartaruga si trova nella loggia
dal 1969. Il mobile seicentesco è
impreziosito da lastrine vitree
dorate e graffite, particolare forma
di decorazione del vetro detta
verre églomisé, su alcune delle
quali si leggono le iniziali “GF”
e illustrano episodi della mitologia
classica tratti dalle Metamorfosi
di Ovidio.
Due bei dipinti di scuola
napoletana del Settecento,
probabilmente due bozzetti, che
raffigurano la Gloria di Carlo
Borromeo e la Gloria di san
Gennaro sono stati comprati
dal Ministero, pochi anni orsono,
per venire destinati a Palazzo
Borromeo.
Tra i numerosissimi ospiti ricevuti
nella sede diplomatica si
ricordano le visite dei pontefici
Pio XII, Paolo VI e Giovanni
Paolo II. Il 2 giugno del 1951,
anniversario della festa nazionale
italiana, Pio XII (1939-1958)
visita l’Ambasciata d’Italia presso
la Santa Sede dopo avere
inaugurato l’altare maggiore
della confinante basilica di
Sant’Eugenio.
La visita di Paolo VI (1963-1978)
ha luogo il 2 ottobre del 1964,
giorno dell’anniversario della
nascita di san Carlo Borromeo,
in occasione della cerimonia di
consacrazione al santo lombardo
della cappella dell’Ambasciata,
appena restaurata. Durante la
cerimonia, svoltasi alla presenza
del Presidente del Consiglio dei
Ministri Aldo Moro e del Ministro
degli Affari Esteri Giuseppe
Saragat, Paolo VI consegnò in
dono all’Ambasciata una reliquia
di san Carlo Borromeo.
Giovanni Paolo II (1978-2005),
il 2 marzo del 1986, dopo avere
compiuto la visita pastorale alla
vicina basilica di Sant’Eugenio,
venne ricevuto a Palazzo
Borromeo dal Ministro degli Esteri
Giulio Andreotti. Con l’occasione
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il pontefice donò alla cappella
dell’Ambasciata, dov’è tuttora
esposta, un’icona che riproduce
la Madonna Nera di Czestochowa.
***
Il desiderio di fare conoscere Palazzo
Borromeo a coloro che non vi sono stati,
di ricordare la sua particolarissima
atmosfera a quanti invece lo hanno
visitato, di fermare nel tempo i luoghi
dove ho la fortuna di risiedere e lavorare
a partire dall’ottobre del 2007 mi ha
spinto a promuovere lo studio completo
del palazzo dalle origini ai giorni nostri
e la conseguente pubblicazione di un
volume monografico. Il presente articolo
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A fronte:
Manifattura toscana del Seicento,
stipo-monetiere, loggia.
In alto:
Scuola romana, Alessandro Magno
riceve la vedova di Dario, prima metà
del Settecento, olio su tela, loggia.
La residenza dell’Ambasciata
d’Italia presso la Santa Sede
Q
Madonna con il Bambino, copia in stucco
di un bassorilievo marmoreo di Antonio
Rossellino, sala da pranzo.
dipende in buona parte dai saggi scritti
da Daria Borghese, Cristoph Luitpold
Frommel, Fausto Nicolai, Patrizia
Marchetti, Lucia Meoni e Pietro Pastorelli
per il citato volume curato da Daria
Borghese con fotografie di Massimo Listri,
edito da Umberto Allemandi
e attualmente in corso di stampa.
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