la causa nelle scelte ambientali

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la causa nelle scelte ambientali
LA CAUSA NELLE SCELTE AMBIENTALI
Sommario: 1. Causa efficiente e causa finale nella scelta ambientale: fatto e diritto – 2. Causa come
fondamento legittimante e come ragione giustificatrice della scelta ambientale – 3. La partecipazione quale
componente della causa delle scelte ambientali (causalità procedurale) – 4. La razionalità della scelta
ambientale tra principio di prevenzione e principio di integrazione – 5. Il dominio della tecnica e
l’ossimoro dello sviluppo sostenibile.
1. CAUSA EFFICIENTE E CAUSA FINALE NELLA SCELTA AMBIENTALE : FATTO E DIRITTO
La polisemia del termine “causa”, in ambito pregiuridico, nel linguaggio ordinario, prima ancora
che nel discorso giuridico, sembra rinvenire nelle tematiche ambientali un campo applicativo che ne
consente un ampio dispiegamento e impiego, sotto i diversi aspetti e nelle varie accezioni che ne
caratterizzano il plurimo significato.
Causa in campo ambientale è, in primo luogo, la causa efficiente in senso fisico-naturalistico, per
quanto attiene ai fenomeni della natura, intesi come dinamiche e vicende delle matrici ambientali nella
loro consistenza fisica, chimica e biologica, in quanto interferite dall’operare dell’uomo. In questo senso
la causa è rappresentata dai fenomeni costituenti il presupposto di fatto delle scelte ambientali,
normative e amministrative, giuridicamente rilevanti.
Viene sotto questo profilo in rilievo la nozione di inquinamento, inteso come introduzione diretta
o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore, energie o rumore nell’aria,
nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il
deterioramento di beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri
suoi usi legittimi.1 La tutela dell’ambiente, infatti, che è l’ oggetto proprio del diritto dell’ambiente,
riguarda la conservazione della biosfera, naturalisticamente intesa, conosciuta e misurata. Attiene
dunque al mantenimento di caratteri fisici, chimici e biologici tali per cui la matrici ambientali – terra,
aria, acqua – siano capaci di sorreggere la vita dell’uomo e, più in generale, di comunità animali e
vegetali ampie e ben diversificate. Essa previene e pone rimedio a fatti di inquinamento.
L’inquinamento, e/o il pericolo di inquinamento, dunque, in quanto causa-effetto (in senso
naturalistico) di alterazioni delle matrici ambientali, costituiscono il presupposto fattuale della disciplina
giuridica ambientale. E la causa efficiente giuridicamente rilevante è naturalmente (e soprattutto) il
comportamento umano, in quanto produttivo di effetti di inquinamento (“introduzione diretta o
indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore . . . etc.”, recita la definizione di
inquinamento sopra proposta). Oggetto della disciplina giuridica ambientale è pertanto in primis il
comportamento umano e la sua incidenza sull’ambiente. La causa in campo ambientale, in quanto causa
efficiente in senso fisico-naturalistico, rileva, infatti, nella nozione giuridica di inquinamento, soprattutto
come interagire dell’uomo e della tecnica sul mondo della natura, e non solo nel senso di leggi e
accadimenti delle forze oggettive della natura. Il problema del diritto dell’ambiente è, infatti, non già
(non solo) la difesa dell’uomo dai fenomeni naturali, ma (soprattutto) la disciplina e la regola della
signoria esercitata dall’uomo sulla natura attraverso la tecnica, al fine di tutelare la vita stessa dell’uomo
La definizione è tratta dall’art. 2 del D.lgs. 4 agosto 1999 n. 372 di attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla
prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento. Già la L. 29 maggio 1974, n. 256, relativa alla “classificazione e
disciplina dell’imballaggio e dell’etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi”, prevedeva, all’art. 2, che per ambiente
dovesse intendersi “acqua, aria e suolo nonché i rapporti di tali elementi tra loro e con qualsiasi organismo vivente”. Le
prime norme introduttive di compiti e funzioni in materia ambientale prevedono la fissazione, con D.P.C.M., dei limiti
massimi di accettabilità delle concentrazioni e dei limiti massimi di esposizione relativi ad inquinamenti di natura chimica,
fisica e biologica e delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro, abitativi e nell’ambiente esterno (L. 23 dicembre 1978, n.
833 istitutiva del servizio sanitario nazionale, art. 4, comma 2, poi rifluito nell’art. 2, comma 14, della L. 8 luglio 1986, n. 349
istitutiva del Ministero dell’ambiente). Condivisibilmente osserva al riguardo F. Fonderico, La tutela dell’ambiente, in Trattato di
diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, diritto amministrativo speciale, II, parte V, Milano, 2003, p. 2018: “il nucleo comune
della nozione legislativa è costituito dai seguenti elementi: l’aria, l’ acqua, il suolo, la flora, la fauna, la salute umana e
l’interazione tra questi fattori”.
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e dell’ambiente in cui vive dalle conseguenze negative che possono derivare dalla signoria della tecnica
stessa che, da mezzo per il dominio dell’uomo sulla natura, è divenuta oggi essa stessa fine che si
autoalimenta, rispetto al quale l’uomo sembra oggi ridotto a mero funzionario, incapace di imprimere
un indirizzo politico autonomo rispetto alla pervasività e alla enrome complessità quantitativa e
qualitativa degli apparati tecnici.
Il diritto dell’ambiente, in questo senso, difende il primato dell’agire politico dell’uomo (inteso
come scelta dei fini) sul fare tecnico (inteso come dominio della ragione strumentale della tecnica che
garantisce la corrispondenza dei mezzi ai fini)2.
Il diritto dell’ambiente ha dunque a che fare con un’altra nozione di causa, propria delle scienze
umane comprendenti, intesa come causa finalis, o motivo, o ragione pratico-sociale che sta alla base e
giustifica l’agire giuridico in questo settore, ovvero che giustifica le scelte normative e amministrative
attraverso le quali la tutela dell’ambiente si esplica e si realizza. Questa seconda nozione di causa nelle
scelte ambientali opera nel “mondo 3”, nel mondo dello spirito oggettivo o della cultura3 ed ha a che fare
con la razionalità dell’agire pratico dell’uomo orientato a uno scopo. In sintesi, causa delle scelte
ambientali, da questo angolo di visuale, è la ragione giustificatrice delle scelte di valore operate dalla
regola giuridica che, vietando o permettendo, scoraggiando o incentivando comportamenti umani,
valuta il fatto ambientalmente rilevante.
2. CAUSA
COME FONDAMENTO LEGITTIMANTE E COME RAGIONE GIUSTIFICATRICE
DELLA SCELTA AMBIENTALE
La causa nelle scelte ambientali, riguardata dal punto di vista giuridico-amministrativo, presenta
un ulteriore profilo semantico, relativo al tema della legittimazione e della giustificazione (validità)
giuridica della scelta.
Poiché la tutela dell’ambiente dall’inquinamento costituisce un interesse pubblico primario
(come diremo, nello schema degli artt. 32, 41 e 42 Cost.), il diritto dell’ambiente si colloca nell’ambito
del diritto pubblico-amministrativo4 e si svolge attraverso la previsione legale di poteri amministrativi
che condizionano e limitano le libertà di iniziativa economica e di proprietà in funzione di controllo
preventivo di compatibilizzazione con i beni-interessi pubblici alla tutela dell’ambiente salubre. Le scelte
in campo ambientale giocano dunque nell’ambito del rapporto tra autorità e libertà ed obbediscono,
essenzialmente, a una logica di fondazione di legalità del potere limitativo delle libertà, nel sistema della
funzione pubblica, imperniato sulla logica della giustificazione dei poteri e della loro intrinseca
conformazione deontologica al perseguimento del fine di interesse pubblico assegnato dalla legge5. In
U. Galimberti, Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica – Milano, 1999, pp. 436 ss.. L’agire politico, sin dalla antica Grecia,
si presenta come agire pratico che sceglie gli scopi, in primis quello di realizzare una vita buona, che abbia in vista la felicità
dell’uomo, attraverso una mediazione tra le forze di cui ogni società consiste: “come risultante delle forze in campo la
politica esprime in un punto la dinamica dei conflitti sociali, come mediatrice istituzionalizza il conflitto nella forma della
dinamica sociale” verso il “reperimento dell’equilibrio e della misura tra le forze” (U. Galimberti, loc. cit.).
3 Il riferimento è alla nota teoria dei tre mondi di K. R. Popper (rilevabile, tra le altre opere, in K. R. Popper, I. C. Eccles,
The Self and its Brain, New York, 1977, trad. it. L’io e il suo cervello, Roma, 1981; ma v. anche, in sintesi, J. Habermas, Teorie des
kommunikativen Handelns, Frankfurt am Main, 1981; trad. it. Teoria dell’agire comunicativo, I. Razionalità e razionalizzazione sociale,
Bologna, 1997, pp. 145 ss.).
4 E’ considerazione generalmente condivisa dalla dottrina (cfr., ad es., P. Dell’Anno, Manuale di diritto ambientale, IV ed.,
Padova, 2003; B. Caravita, Diritto dell’ambiente, II ed., Bologna, 2001).
5 E’ appena il caso di rilevare che il motivo dell’atto amministrativo si identifica con l’interesse pubblico concreto che l’atto
stesso intende curare e perseguire (interesse pubblico effettivamente esistente, come dice M. S. Giannini, Diritto amministrativo,
Milano, 1970, vol. I, p. 559). La tematica della causa dell’atto amministrativo, variamente costruita nella prima metà del
secolo scorso (cfr. M.S. Giannini, op. loc. cit., p. 560, che cita, tra gli altri, Ranelletti, Forti, Bodda, Gasparri, Alessi), anche in
relazione alla figura dell’eccesso di potere per sviamento o per causa falsa, appare sostanzialmente superata, apparendo
essenziale piuttosto il profilo della base giuridica di legalità dell’atto e della sua tensione dinamica verso la cura di un
interesse pubblico effettivamente esistente (né pare, a quel che consta, che tale profilo sia stato rivitalizzato dalla recente L.
n. 15 del 2005, che ha introdotto nella L. n. 241 del 1990 il nuovo Capo IV-bis sull’efficacia ed invalidità del provvedimento
amministrativo, ove, all’art. 21-septies, relativo alla Nullità del provvedimento, è stabilito che è nullo il provvedimento
amministrativo quando, tra l’altro, manchi degli elementi essenziali). Connette la causa al potere esercitato, escludendone la
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questo contesto la causa delle scelte ambientali si identifica nell’attribuzione del potere funzionale e nel
raccordo dinamico con il fine di interesse pubblico assegnato alla competenza dell’autorità procedente,
secondo generali criteri di logicità, tipicità, proporzionalità e minimo mezzo.
In un sistema giuridico “a diritto amministrativo”, quale è il nostro, fondato sul principio di
legalità, la scelta dei fini, ovvero dei valori generali sovraordinati, è riservata alla Costituzione e, a valle,
alla legge.
Il meccanismo operazionale essenziale della scelta politica ambientale è disegnato dagli artt. 41 e
42 della Costituzione del 1948, in base ai quali, come è noto, l’iniziativa economica privata è libera, ma
non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà,
alla dignità umana (art. 41, comma 1 e 2) e la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che
ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di
renderla accessibile a tutti (art. 42, comma 2).
La legge fondamentale, che detta le regole prime del vivere civile, riconosce e garantisce le
libertà di fare e avere, ma autorizza la legge a porre dei limiti, a conformare tali libertà, a fini di utilità
sociale e di difesa della dignità e della sicurezza dell’uomo. Lo strumento cardine attraverso il quale la
legge attua questo compito, come è noto, consiste nella disciplina pubblicistica che regola l’esercizio di
queste libertà e le condiziona, sia attraverso la funzione regolatoria (pianificazione e programmazione),
sia a livello provvedimentale delle singole fattispecie concrete mediante il previo controllo
autorizzatorio in funzione di compatibilizzazione con i beni-interessi pubblici (nel caso che ci occupa,
ambientali) potenzialmente lesi dal libero dispiegarsi delle libertà medesime.
Questa configurazione essenziale fonda l’intera legislazione ambientale, a cominciare dalle
norme del 1978-1986 sulla determinazione dei limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e dei
limiti massimi di esposizione relativi ad inquinamenti di natura chimica, fisica e biologica e delle
emissioni sonore negli ambienti di lavoro, abitativi e nell’ambiente esterno, qui citate alle nota 1.
Il diritto comunitario, che, come è noto, integra quello interno e, a livello di Trattato, si situa a
un livello quasi costituzionale, ha fornito una più ampia ed esaustiva esplicitazione del fondamento delle
politiche ambientali [che, si rammenta, l’art. 3, lettera l) TCE riserva alla Comunità]. In particolare
l’articolo 2 del Trattato CE stabilisce, tra i compiti della Comunità, quello di promuovere nell’insieme
della Comunità, mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli artt. 3 e 4, un
elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo [compito
che, in base all’articolo 174, si attua attraverso i noti principi della precauzione e dell’azione preventiva,
della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché del "chi inquina
paga"; principi tutti ribaditi dal Trattato di Roma del 29 ottobre 2004 che adotta una costituzione per
l’Europa, ratificato in Italia con L. 7 aprile 2005, n. 57: cfr. artt. I-3, I-14, lett. e), III-115 ss., in
particolare l’art. III-119 esplicita meglio i principi di integrazione e di tutela preventiva].
A valle di questo impianto logico-giuridico di livello costituzionale si situano le discipline
derivate, la legislazione statale e regionale interna, nonché i regolamenti e gli atti generali di
pianificazione, nonché, a livello comunitario, le direttive e i regolamenti in materia ambientale (e annessi
atti nazionali di recepimento).
Proseguendo nella catena della normazione e della disciplina pubblicistica del “fare tecnico”
potenzialmente inquina nte, che è l’oggetto della regola ambientale, si perviene al livello della trattazione
e della gestione dei singoli affari determinati, rimessa al potere autoritativo provvedimentale delle
amministrazioni all’uopo preposte (e perciò dotate di una specifica sfera di competenza).
In quest’ultimo stadio della disciplina (è acquisito il rilievo anche normativo del provvedimento,
che dà la legge del caso concreto applicando il diritto al fatto) la “scelta” ambientale assume una
connotazione peculiare che ha a che fare con la nozione di discrezionalità amministrativa. Qui in realtà,
nella stragrande maggioranza dei casi, la scelta ha ad oggetto non già gli interessi e i valori, già
predefiniti dalla legge, bensì la regola tecnica extragiuridica da applicare, ossia la qualificazione tecnica
del fatto, compiuta dall’operatore attraverso un’attività ermeneutica di applicazione di standard
valutativi desunti da ambiti di scienza e conoscenza extragiuridici. In questi casi si parla di
configurazione come elemento essenziale dell’atto, P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Milano, IV ed., 1972, pp. 203-204,
ed ivi ampi richiami bibliografici.
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discrezionalità tecnica e non di discrezionalità amministrativa (che, invece, valuta e compara, in
reciproca ponderazione, i diversi interessi pubblici e privati coinvolti dalla fattispecie)6.
Molto spesso il provvedimento ambientale (autorizzatorio, o interdittivo ex post) presenta
tuttavia una connotazione interamente vincolata alla mera misurazione tecnica della compatibilità
dell’attività con i limiti ambientali normativamente prestabiliti (così avviene, ad esempio, nel caso di
autorizzazione alle emissioni in atmosfera ai sensi del D.P.R. n. 203 del 1988, oppure in caso di
installazione di impianti radiomobili di trasmissione di segnali di telefonia cellulare, riguardo al controllo
del rispetto dei tetti di radiofrequenza definiti dal D.P.C.M. dell’8 luglio 2003, che ha sostituito il D.I. n.
398 del 1998, o, ancora, nel caso di autorizzazioni all’immissione in fognatura o in corpi idrici
superficiali di acque reflue industriali, ai sensi del D.lgs. n. 152 del 1999).
In definitiva le scelte ambientali più significative si collocano a livello di normazione generale
astratta, o a livello di adozione di piani e programmi, o di progetti infrastrutturali e di opere dell’uomo
di significativo impatto ambientale (per i quali operano i procedimenti di valutazione ambientale
strategica e di valutazione di impatto ambientale7). In tali ultimi casi la scelta ambientale autorizzatoria –
contenuta, ad esempio, nel giudizio di v.i.a., assume (o può assumere, in specie allorquando la v.i.a. ha
esito negativo e la decisione finale viene rimessa al livello politico) una configurazione (anche) di
discrezionalità amministrativa vera e propria, poiché implica una valutazione – al di fuori di parametri e
valori metagiuridici già puntualmente predefiniti – del concreto assetto degli interessi più conveniente
nella mediazione tra esigenza realizzativa dell’infrastruttura e tutela statica dei valori ambientali.
Nella stessa idea guida dello sviluppo sostenibile, che costituisce uno dei principali principi del
diritto ambientale comunitario, è insita una logica di tutela dinamica dell’ambiente e, quindi, un’apertura
verso esiti di bilanciamento degli interessi non predefiniti dalla legge e perciò rimessi a un
apprezzamento propriamente discrezionale dell’amministrazione competente.
La causa nelle scelte ambientali va dunque indagata sotto il triplice profilo della verità dei
presupposti di fatto (ossia della verità dei nessi causali stabiliti da leggi fisiche e chimiche riscontrati
nella ricognizione istruttoria dei fatti di potenziale o attuale inquinamento), della legittimazione della
competenza dell’organo decidente e della giustezza normativa e proporzionalità-logicità delle
conseguenti valutazioni e giudizi assiologici di valore in ordine alla regola dei comportamenti umani
Sulla discrezionalità in generale cfr. M. S. Giannini, Il potere discrezionale della Pubblica amministrazione. Concetto e problemi,
Milano, 1939 (oltre a Diritto amministrativo, Milano, 1970, p. 486); C. Mortati, voce Discrezionalità, in Noviss. Dig. it., vol. V,
Torino, 1960, pp. 1098 e ss.; G. Pastori, Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Foro amm., 1987, II, pp. 3165 ss.;
L. Benvenuti, La discrezionalità amministrativa, Padova, 1986; G. Azzariti, Dalla discrezionalità al potere, Padova, 1989; G. Berti,
Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di Guicciardi, Padova, 1975; F. G. Scoca, voce Attività amministrativa, in
Enc. Dir., IV, aggiornamento, Milano, 2002, pp. 75 e ss.; A. Pubusa, Merito e discrezionalità amministrativa, in Dig. Disc. Pubbl.,
vol. IX, Torino, 1994, pp. 401 ss.. Sulla tesi tradizionale, derivata da dottrine tedesche degli inizi del secolo XX, del
provvedimento amministrativo come attuazione della legge nel caso concreto e della discrezionalità come completamento
soggettivo della norma, cfr. M. S. Giannini, Atto amministrativo, in Enc. Dir., Milano, 1959, pp. 161 e ss., nonché A. Piras,
Discrezionalità amministrativa, in Enc. Dir., Milano, 1964, pp. 69 e ss.. Più di recente, cfr. F. Manganaro, Principio di legalità e
semplificazione dell’attività amministrativa, Napoli-Roma, 2000, pp. 166 ss.. Per una sintesi cfr. B.G. Mattarella, Diritto
Amministrativo Generale, L’attività, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Tomo I, Milano, 2003, pp. 758 ss., ed
ivi ampi richiami. Sulla discrezionalità tecnica cfr. V. Bachelet, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967; F.
Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Dir. proc. amm., 1983, 371 e ss., ora anche in F. Ledda,
Scritti giuridici, Padova, 2002, pp. 179 e ss.; C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; F. Salvia,
Attività amministrativa e valutazioni tecniche, in Dir. proc. amm., 1992, pp. 685 ss.; D. De Pretis, Valutazione amministrativa e
discrezionalità tecnica, Padova, 1995; A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative, Napoli, 1998; F. Cintioli,
Consulenza tecnica d’ufficio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Cons. Stato, 2000, II, pp. 2371 ss.; S. Baccarini,
Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in Dir. Proc. Amm., 2001, pp. 80 ss..
7 Previste, rispettivamente, dalle direttive 85/337/CEE (modificata dalla direttiva 97/11/CE, recepite con dd.P.C.M. 12
aprile 1996 e 3 settembre 1999, norme ora rifluite nella Parte II, Titolo III, artt. 23 ss., del Decreto legislativo, in corso di
pubblicazione, recante norme in materia ambientale, attuativo della L. 15 dicembre 2004, n. 308 di delega al Governo per il
riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione) e
2001/42/CE (recepita nel testé citato decreto legislativo del 2006, Parte I, Titolo II, artt. 7 ss.).
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(come manovra degli strumenti conformativi delle libertà, nello schema delineato in apicibus dai
richiamati artt. 41 e 42 Cost.)8.
In un senso più profondo e completo la causa delle scelte ambientali si identifica nella ragione
giustificatrice che le sorregge.
La ragione giustificatrice della scelta ambientale, la sua causa nel senso precisato, ha molto a che
fare, pertanto, con la correlazione dialettica con le scelte economiche e sociali, tendenzialmente
espressive delle libertà umane di uso delle risorse naturali. Vedremo come il punto nodale della
questione delle scelte ambientali risiede nell’alternativa tra l’ essere limite esterno alla tecnica o interna
riconfigurazione della scelta tecnica mediante internalizzazione della componente ambientale al fine di
stabilire ciò che conviene all’interesse umano protetto.
Per altro verso il cuore del problema della razionalità (e, dunque, della legittimità sostanziale)
delle scelte ambientali si individua nella connessione logico-giuridica tra presupposti di fatto e
conseguenze giuridico valutative, ossia tra causalità naturale e causalità modale giustificativa dell’agire
giuridico.
La connessione tra mondo delle relazioni sociali e della cultura (mondo 3) e mondo della fisicità
oggettiva (mondo 1) assume nel diritto dell’ambiente una particolare intensità, poiché questa branca del
diritto nel mirare (come è proprio di tutta l’esperienza giuridica) a stabilire le condizioni coercitive “per
mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge
universale di libertà”9, nel regolare, cioè, rapporti intersoggettivi e interessi umani appropriativi di beni
scarsi, tocca inevitabilmente la realtà fisica del mondo della natura, considerata non già come sfondo
indefinito in cui si svolgono i traffici giuridici dell’uomo, bensì come oggetto diretto della tutela e fine
ultimo della regolamentazione (in specie ove si assumano visioni del mondo ecocentriche e non più solo
antropocentriche).
3. LA PARTECIPAZIONE QUALE COMPONENTE DELLA CAUSA DELLE SCELTE AMBIENTALI
Un’altra componente essenziale della causa delle scelte ambientali – oltre alla corretta
conoscenza della causalità fisica-naturalistica dei fenomeni e alla valida qualificazione giuridica del fatto,
da parte dell’autorità legittimata, secondo canoni di causalità sillogistico-giuridica – consiste nella stessa
proceduralità partecipativa della decisione, finalizzata alla persuasione e al consenso dei soggetti (più)
diretti destinatari delle scelte stesse (ad es., le popolazioni stanziate nella località oggetto di un
importante intervento antropico capace di inquinamento). Qui entra in scena il problema del cd.
“fattore nimby”: “not in my back-yard”, che, come è noto, rende sovente ardua la scelta localizzativa di
opere infrastrutturali ad alto impatto ambientale (si pensi alle recenti vicende relative alla realizzazione
della linea ad alta velocità in val di Susa, o alla querelle del termovalorizzatore in provincia di Napoli o,
ancora, alla questione dell’individuazione del sito si stoccaggio delle scorie radioattive provenienti dallo
smantellamento delle ex centrali termonucleari italiane). Tematica, questa, che mette in gioco opzioni
lato sensu politiche, più che strettamente giuridiche, posto che, ammessa una soglia fisiologica di
partecipazione democratica (già ex lege n. 241 del 1990), anche attraverso inchieste pubbliche (spesso
richieste dalla legislazione ambientale), e garantito il più ampio accesso all’informazione ambientale10, il
problema di rinvenire un punto di equilibrio tra il consenso e l’autoritatività della decisione
nell’interesse pubblico è squisitamente politico e rispetto ad esso anche il più spinto proceduralismo
giuridico non sembra possa apportare soluzioni appaganti e definitive.
Ciò che interessa evidenziare in questa sede, in stretta connessione con il tema trattato, è
l’operatività, nell’ambito della causa delle scelte ambientali, di un fattore generativo della scelta – il
Sui plurimi criteri di razionalità che presiedono all’agire funzionale dell’amministrazione sia consentito il rinvio a P.
Carpentieri, La razionalità complessa dell’azione amministrativa come ragione della sua irriducibilità al diritto privato, in Foro amm..- TAR,
fasc. 7-8/2005, pp. 2652 ss..
9 I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. it. di G. Vidari, a cura di N. Merker, Roma-Bari, 1991, III, pp. 34-35.
10 Cfr. direttiva 90/313/CEE del 7 giugno 1990, modificata dalla dir. 2003/4/CE, sull’accesso alle informazioni ambientali,
nonché convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, ratificata dall’Italia con L. 13 luglio 2001, n. 108, in tema di
informazione ambientale e di partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale.
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proceduralismo partecipativo volto a conseguire il consenso - che esula dagli schemi della causalità
fisico-naturalistico (inerente la conoscenza istruttoria dei presupposti di fatto), così come della causa in
senso propriamente giuridico (come legittimazione del potere e sillogistica deduzione della regola del
caso specifico dall’applicazione della norma astratta positivamente data alla fattispecie concreta).
La causa della scelta ambientale è dunque data dall’intreccio di quattro profili causali distinti: a)
la causalità fisica dei presupposti di fatto (la verità, cioè, in sintesi, di determinati effetti inquinanti in
quanto causati da determinate azioni dell’uomo); b) la causalità intesa come legittimazione, giustificazione
dell’autorità; c) la causalità assiologico-modale della valutazione che il diritto (la norma ambientale) fa del
fatto ambientalmente rilevante, in termini di possibilità (permesso) o di divieto, nonché il connesso e
conseguente processo sillogistico di sussunzione del fatto entro la previsione astratta e generale della
norma (ovvero, nel caso di piani, programmi e progetti di opere dell’uomo ad alto impatto ambientale,
l’esercizio di una discrezionalità amministrativa, e non solo tecnica, volta a scegliere qual è l’ interesse
pubblico in concreto, ovvero qual è l’interesse, tra quelli in conflitto, che merita prevalenza ed efficacia);
d) la causalità procedurale come giustificazione della scelta sulla base del consenso democraticamente
acquisito sulla decisione ambientale.
A questi quattro distinti profili della causalità delle scelte ambientali corrispondono altrettanti
aspetti della giustificazione della decisione ambientale e della sua difendibilità in punto di legittimità
(formale e sostanziale), secondo un principio di controllabilità-giustiziabilità insito nel nostro sistema a
diritto amministrativo imperniato sui principi di legalità e di separazione dei poteri (donde la ricorribilità
in giudizio avverso le decisioni ambientali e la stessa giustiziabilità delle leggi, sia pur in via indiretta,
dinanzi alla Consulta, per quanto attiene alla loro conformità a Costituzione).
Una scelta ambientale – sia essa legislativa o amministrativa – sarebbe illegittima se basata su
un’errata conoscenza del nesso di causalità fisico-natruralistico, o su un giudizio logico-modale e
sillogistico-deduttivo fallace (perché manifestamente illogico o sproporzionato o sviato rispetto ai fini
dati dalla Costituzione e dalla legge), oppure, infine, se fondata su una procedura non adeguatamente
partecipata e democratica.
Sarebbe, ad esempio, illegittima (incostituzionale, per eccesso di potere legislativo) una legge
che, contravvenendo anche al Trattato CE (ed essendo dunque sotto questo profilo anche
disapplicabile in astratto), imponesse limiti distanziali di un km. tra gli elettrodotti e le più vicine
abitazioni, contro ogni evidenza scientifica in ordine ad effetti – anche di lungo periodo – nocivi per la
salute umana derivanti dall’esposizione ai campi elettrici e magnetici generati alla frequenza industriale
di 50 Hz propria di tali impianti. In tal caso il vizio di eccesso di potere legislativo si radicherebbe su un
malgoverno del presupposto di fatto, nel senso di errata conoscenza e comprensione delle leggi fisiche e
biologiche che regolano gli effetti sul corpo umano e sull’ambiente dei campi elettromagnetici.
Parimenti incostituzionale sarebbe una legge che vietasse radicalmente l’itticoltura nei corpi idrici
superficiali per preservarne la purezza delle acque. Una tale scelta ambientale, pur fondata su assunti
conoscitivi “veri” in punto di causalità fisico-chimica-biologica (poiché non v’è dubbio sul fatto che
l’itticoltura inquina la purezza delle acque superficiali), sarebbe però illogica sul piano della razionalità
pratica e della proporzionalità del giudizio assiologico di valore, poiché imporrebbe un sacrificio
estremo e ingiustificato ad una libertà (l’attività produttiva umana connessa all’itticoltura in acque dolci)
in vista di un fine distonico rispetto al sistema delineato dall’art. 41 Cost. e dall’art. 2 Trattato CE.
Altrettanto incostituzionale risulterebbe una norma che prevedesse la localizzazione e la realizzazione di
grandi opere infrastrutturali strategiche senza alcun coinvolgimento delle autorità locali e delle
popolazioni coinvolte (cfr. Corte cost. n. 303 del 200311 sulla L. 21 dicembre 2001, n. 443 in materia di
infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici), per quanto si possa dimostrare in astratto la
necessità (sul piano della causalità fisica e della causalità pratica) di una determinata opera pubblica e la
necessità di localizzarla esattamente in quelle determinate aree prese in considerazione. Sarebbe infine
lato sensu illegittimo per difetto di legittimazione (anticomunitario e perciò disapplicabile) un precetto
normativo interno che disattendesse le prescrizioni del diritto europeo derivato in campo ambientale
(posto che la competenza della politica ambientale è stata oggetto, come detto, di cessione di sovranità
da parte degli Stati membri).
11
Consultabile al sito Consulta Ondine, http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
6
La stessa analisi quadripartita può fruttuosamente svolgersi anche per i piani ed i programmi,
nonché per i provvedimenti amministrativi in campo ambientale.
Così sarebbe chiaramente illegittimo un provvedimento di divieto di installazione di stazioni
radio base di telefonia mobile a meno di 500 m. dal perimetro esterno di unità abitative residenziali,
trattandosi di misura (oltre che, naturalmente, atipica e perciò violativa di legge, anche) viziata da
eccesso di potere per erronea conoscenza del fatto, siccome fondata sull’erroneo presupposto della
nocività potenziale delle radiofrequenze all’interno del limite distanziale suddetto12. Ugualmente
illegittima – stavolta per errore sulla causalità logico-giuridica – si paleserebbe una valutazione d’impatto
ambientale negativa su un progetto volto alla realizzazione di una centrale eolica sull’assunto del rischio
di morte per impatto con le pale dei generatori eolici di poche unità di volatili migratori appartenenti ad
una specie relativamente abbondante e non a rischio di estinzione. Illegittima sotto il profilo
procedurale sarebbe infine una scelta localizzativa di un inceneritore effettuata omettendo la prescritta
inchiesta pubblica. Parimenti illegittimo, per incompetenza, sarebbe un divieto di scarico di acque reflue
industriali disposto dal Prefetto anziché dall’amministrazione regionale o provinciale competente.
4. LA
RAZIONALITÀ DELLA SCELTA AMBIENTALE TRA PRINCIPIO DI PREVENZIONE E
PRINCIPIO DI INTEGRAZIONE
Occorre a questo punto domandarsi se la quadruplice rilevanza della causalità nella scelta
ambientale, sopra descritta, possa rinvenire un’area di possibile, almeno parziale convergenza e
unificazione.
Probabilmente quest’area è costituita dal principio di prevenzione che, nelle più recenti e
approfondite trattazioni13, sembra assumere sempre più il ruolo di “principio dei principi” nella tutela
ambientale, anche in stretta correlazione con i suoi due principi “satellite” (o corollari), quello della
integrazione e quello della precauzione (il principio di prevenzione – come è stato giustamente posto in
evidenza – implica il principio di precauzione come sua metodologia tecnica attuativa14).
Il principio d prevenzione, oltre che nelle già citate previsioni del Trattato CE, aveva avuto un
suo ulteriore luogo di emersione nell’art. 6 del medesimo Trattato, nella versione consolidata seguente
al Trattato di Amsterdam, dove è stabilito che “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono
essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all’articolo
3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile” (formulazione trasfusa nell’art.
III-119 del Trattato di Roma del 2004 per l’adozione di una costituzione per l’Europa). La stessa
previsione è inoltre contenuta nell’articolo 174 TCE, par. 2, ultimo periodo.
Questo principio – come è evidente – vale tanto per la produzione normativa (in primis
comunitaria, ma anche nazionale), quanto per la produzione amministrativa di atti e provvedimenti.
Il principio di tutela preventiva, con la sua metodologia precauzionale, costituisce il criterio
deontologico intrinseco in ogni decisione ambientale, sì da riassumere in sé il profilo causale
naturalistico, quello assiologico-valutativo, nonché quello partecipativo procedurale.
Sotto il profilo della causalità meccanicistica e fisica, il principio di tutela preventiva deve basarsi
su solide acquisizioni scientifiche e su una completa istruttoria (garantita a livello comunitario dalla nota
e usuale metodologia che, prendendo le mosse da un libro bianco istruttorio redatto dalla Commissione,
con la larga partecipazione dei vari comitati di settore in cui si articola la macchina comunitaria,
Per una fattispecie del genere cfr. Tra Campania, Napoli, sez. I, 10 marzo 2005, n. 1708, in I TAR, 2005, I, pp. 1553 ss.
(T), nonché in Gorn. Dir. amm. n. 7 del 2005, pp. 733 ss., con nt. di G. Ciaglia, La disciplina urbanistica delle infrastrutture di
comunicazione elettronica.
13 R. Ferrara, I principi comunitari di tutela dell’ambiente, in Dir. amm., n. 3 del 2005, pp. 509 ss. (con ivi ampi richiami bibliografici
sul tema).
14 R. Ferrara, op. cit., pp. 532 ss., dove il principio di precauzione viene raccordato al principio n. 15 della Dichiarazione di
Rio, secondo il quale “quando vi è minaccia di un danno serio e irreversibile, la mancanza di una piena certezza scientifica
non deve essere utilizzata come motivo per rinviare l’adozione di misure . . . volte a prevenire il degrado dell’ambiente”.
12
7
passando attraverso una laboriosa fase ascendente tramite gli stessi Stati membri, perviene a un Libro
verde - propositivo – fino a giungere, quindi, a una proposta di direttiva)15.
Sotto il profilo assiologico della razionalità pratica dell’agire umano orientato a uno scopo, il
parametro è offerto dall’art. 2 TCE sui principi ove, secondo una logica comune, nella sostanza, agli
artt. 41 e 42 Cost. (in relazione agli artt. 9 e 32), il compito della Comunità di promuovere un elevato
livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo si raccorda
dialetticamente a tutte le altre finalità (o compiti) enunciati dallo stesso articolo 2 (La Comunità ha il
compito di promuovere nell’insieme della Comunità, mediante l’instaurazione di un mercato comune e
di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui
agli artt. 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, una crescita
sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato
livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento di quest’ultimo, un elevato livello di occupazione e
di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e
sociale e la solidarietà tra Stati membri).
Il punto di sintesi delle diverse politiche, o, meglio, il punto di convergenza tra le altre politiche e
quella ambientale è dato, come chiarito expressisis verbis dal par. 2, ultimo periodo, dell’articolo 174,
nonché dal richiamato art. 6, dall’integrazione della politica ambientale nella definizione e
nell’attuazione delle altre politiche comunitarie, integrazione che, naturalmente, assolve a finalità di
prevenzione.
L’integrazione della politica ambientale nelle altre politiche comunitarie mira infatti
all’internalizzazione del costo ambientale nelle decisioni economiche e dunque a prevenire scelte
economiche irrazionali in quanto causative di danni ambientali sproporzionati.
In conclusione, il metodo indicato dal diritto comunitario, che vivifica di sé la scarna previsione
degli artt. 41 e 42 Cost., consiste nella assunzione del profilo ambientale quale canone interno ed
elemento di valutazione intrinseco nella scelta economica e sociale, poiché la tutela dell’ambiente non è
un quid di esterno o di successivo, su cui la scelta economica e sociale è destinata a impattare ex post, ma
costituisce uno dei parametri di valutazione e uno degli interessi da ponderare nella scelta politica in
ordine all’agire umano razionale.
In questo senso la scelta ambientale, salvi i casi limite di grave e diretta incidenza negativa sulla
salute umana e sull’ambiente, non gode in sé di una primarietà assoluta, ma deve convergere
nell’insieme delle altre politiche al fine della maturazione di una scelta politica giusta e conveniente, nel
senso dell’equilibrio accorto (e mutevole, dinamico e adattabile) tra le diverse forze in campo per il bene
e la felicità della società politica e dell’uomo (nei testi fondamentali nazionali e comunitari, sembra
difatti comunque prevalere un’angolatura di visuale antropocentrica, essendo da dimostrare la
configurabilità di uno spostamento del fuoco dell’attenzione normativa in una nuova prospettiva
ecocentrica).
Come è agevole comprendere, la descrizione sommaria ora svolta del processo decisionale
comunitario (che offre da questo punto di vista il modello logico più evoluto, da adottarsi anche nelle
politiche nazionali) dimostra anche il soddisfacimento del terzo criterio di causalità nelle scelte
ambientali, quello procedurale, atteso che la proceduralità del meccanismo ascendete della produzione
comunitaria e la previsione dei passaggi partecipativi (“cd. comitolgia”) assicurano efficaci metodi di
informazione, persuasione e corresponsabilizzazione nelle scelte ambientali.
Un esempio di sintesi di questo discorso è offerto dai considerando motivazionali della Direttiva
2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001 concernente la valutazione
degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente (ove è altresì richiamato il quinto
programma comunitario di politica ed azione a favore dell’ambiente e di uno sviluppo sostenibile "Per
Ad es., come chiarito dal 14° considerando anteposto alla direttiva 2001/42/CE sulla v.a.s., “allo scopo di contribuire ad una
maggiore trasparenza dell’iter decisionale, nonché allo scopo di garantire la completezza e l’affidabilità delle informazioni su
cui poggia la valutazione, occorre stabilire che le autorità responsabili per l’ambiente ed il pubblico siano consultati durante
la valutazione dei piani e dei programmi e che vengano fissate scadenze adeguate per consentire un lasso di tempo
sufficiente per le consultazioni, compresa la formulazione di pareri”. Sotto il profilo della causalità partecipativa, viene altresì in
rilievo il 18° considerando secondo cui “gli Stati membri dovrebbero provvedere affinché, quando è adottato un piano o
programma, le autorità interessate ed il pubblico siano informate e siano messi a loro disposizione dati pertinenti”.
15
8
uno sviluppo durevole e sostenibile"). Qui è giustamente posto in evidenza che la valutazione
ambientale costituisce un importante strumento per l’integrazione delle considerazioni di carattere
ambientale nell’elaborazione e nell’adozione di taluni piani e programmi che possono avere effetti
significativi sull’ambiente, in quanto garantisce che gli effetti dell’attuazione dei piani e dei programmi
siano presi in considerazione durante la loro elaborazione e prima della loro adozione, ciò anche a
vantaggio delle stesse imprese, che potrebbero in tal modo avvalersi di un quadro più coerente in cui
operare inserendo informazioni pertinenti in materia ambientale nell’iter decisionale, poiché
l’inserimento di una più ampia gamma di fattori nell’iter decisionale dovrebbe contribuire a soluzioni più
sostenibili e più efficaci.
Come si vede, la ragione giustificatrice e la legittimazione sostanziale della scelta ambientale si
focalizzano nell’anticipazione prognostica degli effetti sull’ambiente verosimilmente scaturenti da
iniziative di attività antropiche potenziamente inquinanti. Attraverso un’istruttoria integrata è così
possibile far sì che la valutazione ambientale entri a far parte sin dall’inizio della scelta politica,
regolativa, amministrativa e ne determini e condizioni dall’interno la logica, secondo principi di
proporzionalità e di ragionevolezza.
5. IL DOMINIO DELLA TECNICA E L’OSSIMORO DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE
Il punto nodale critico, che rimane irrisolto, nel tema della causa delle scelte ambientali si lega
alle considerazioni da cui si è partiti nel presente contributo, circa la constatazione dell’odierno
strapotere della tecnica che, da mezzo controllato dall’uomo per la produzione dei suoi fini, è divenuta
essa stessa fine, in una logica di autoalimentazione infinita (la necessitata crescita capitalistica) che rende
l’uomo stesso mero funzionario della tecnica, incapace di governare l’ormai planetario dispiegarsi
sempre più complesso e indominabile degli apparati produttivi tecnici, con il rischio prossimo di
un’autoconsumazione della tecnica stessa, oltre e a dispetto dei limiti fisici del pianeta.
Il dubbio riguarda la reale possibilità e capacità di un’etica e di una politica ambientali di valere
per sé e di non soggiacere alla strumentalizzazione operata dal dominio della tecnica; di riuscire, in altri
termini, a “stare sopra” la produzione tecnica (il fare tecnico) imponendo ad esso le regole e i fini
dell’agire etico-politico16.
In realtà pare che il mondo contemporaneo si caratterizzi sempre più per un fare afinalistico
contrapposto all’agire etico del passato. “Dove vige la legge delle cose, le scelte non dipendono più da
decisioni politiche, ma scaturiscono dalle possibilità tecniche in campo che obbligano il potere politico a
risolversi in amministrazione tecnica. Questo risolvimento non consente più alla politica di determinare
il ritmo, la direzione e la funzione del progresso tecnico, ma la costringe a diventare funzionale al
processo, resosi ormai autonomo, di tale progresso . . . (la politica,) ora che le condizioni esterne di
esistenza sono determinate non più dalla natura, ma dalla tecnica, si trova in una condizione di
adattamento passivo costretta a inseguire il processo tecnico che non può controllare e tanto meno
indirizzare, ma solo garantire”17.
La domanda dunque è: c’è ancora un reale spazio per scelte politiche ambientali vere, che si
pongano al servizio di fini autonomi, del bene e della felicità dell’uomo, in prospettiva ecocentrica e non
puramente antropocentrica, contro la tecnica e il suo strapotere? C’è ancora spazio per una autonomia
dei fini umani etico-politici contro l’automatismo della tecnica, oggi che la politica sembra ridotta al
ruolo di mera tecnica funzionale?
La questione è efficacemente compendiata in un recente volumetto in cui un grande giurista e
un grande filosofo discutono della possibilità (affermata dal primo, negata dal secondo) che il diritto,
per quanto debole, possa ancora orientare con le sue scelte di valore il capitalismo e la tecnica, anziché
Per un’analisi complessiva della questione ambientale sotto il profilo etico, politico e giuridico, da una prospettiva di
filosofia del diritto, M. Mancarella, Il diritto dell’umanità all’ambiente, Milano, 2005.
17 U. Galimberti, op. cit., p. 448. V. in proposito anche il § 8 del cap. 44, intitolato significativamente Il tramonto del presupposto
umanistico e la sostituibilità dell’etica con la regolazione tecnica dei comportamenti.
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esserne ridotto a mero funzionario garante di un uso regolato e socialmente accettabile dell’uso della
coercizione18.
Rispetto al nostro tema, il problema si pone nei seguenti termini: è possibile che nella
integrazione della valutazione ambientale nel quadro delle politiche economiche e sociali la prima
conservi una sua autonoma fisionomia e capacità propulsiva, oppure vi è il rischio che l’integrazione
divenga riduzione e inglobamento, per cui il profilo ambientale finisce per ridursi al mero dato
procedurale della sua presa in considerazione? In realtà a ben vedere l’idea stessa dello sviluppo sostenibile
include logicamente l’accettazione del primato assoluto della tecnica, poiché dà per scontato il dato di
base (che è forse anche il limite innato strutturale) della odierna tecnica capitalistica, ovvero la necessità
e indefettibilità dello sviluppo, della crescita (della autoriproduzione e dell’incremento infinito del
profitto), rispetto al quale il profilo ambientale può al più svolgere un ruolo di mera mitigazione,
laddove, invece, è proprio questo postulato di base che andrebbe forse messo in discussione, di fronte
alla soglia ormai tangibile del limite di consunzione delle risorse naturali (si pensi alla sorte della foresta
amazzonica, ineluttabilmente segnata da una crescita demografica incontrollata, o al progressivo
discioglimento delle calotte polari per effetto della crescita dei gas climalteranti, ciò che però non
impedisce in alcun modo il dilagare dei voli low cost, poiché è politicamente scorretto anche solo pensare
a limiti e divieti ambientali che intralcino un settore economico “che tira”). L’intero impianto giuridico
ambientale europeo e nazionale poggia del resto sull’idea (liberista) della assoluta priorità e
irrinuncabilità della crescita, che rappresenta il nuovo dio, un mito, la parola magica che sintetizza in sé
ogni bene e felicità per l’uomo, mito rispetto al quale gli aspetti ambientali sono presi in considerazione,
essenzialmente, solo come “costi” da internalizzare o in qualche modo “innocuizzare”. Sennonché
questa logica rischia di ridursi alla logica interna propria del progresso tecnico, che consiste
nell’autoalimentazione infinta in cui l’unico fine è la crescita, ossia lo sviluppo di nuove potenzialità
tecniche (“la tecnica tende all’onnipotenza”, dice E. Severino19).
Si ha dunque il fondato sospetto che la formula dello sviluppo sostenibile rechi in sé un truismo
(non tanto nel senso di verità scontata, ma nel senso di verità data per scontata e, quindi, indiscutibile)
o, peggio ancora, un ossimoro, poiché è formula che lega due contrari (crescita, sempre e comunque, ma
tutela dell’ambiente) e dà per assiomatico ciò che è da dimostrare, vale a dire che lo sviluppo (assunto
per implicito come necessario e indefettibile) sia sempre in sé sostenibile, lì dove il problema consiste
proprio nella esigenza, in taluni casi, di negare la necessità, la possibilità o l’utilità, per il bene comune,
dello sviluppo, per affermare le ragioni dell’ambiente e dei suoi limiti fisici invalicabili. E’ in definitiva
lecito domandarsi se la formula dello sviluppo sostenibile, con il suo implicito rifiuto a priori dell’idea
stessa dell’esistenza di un limite naturale alla crescita economica, non esprima in realtà una resa
incondizionata al dominio della tecnica. In tal modo la locuzione sviluppo sostenibile mette insieme due
concetti contrari, poiché il postulato (innato nel liberismo capitalista) della indefettibilità della crescita
all’infinito è contrario alla tutela dell’ambiente in quanto risorsa inaggirabilmente scarsa20. Il rischio, in
definitiva, è che l’integrazione delle scelte ambientali in quelle economiche e sociali conduca alla
sottomissione delle scelte ambientali al dominio della tecnica e che la valutazione ambientale si riduca a
mero orpello formale procedurale21 privo di una reale capacità di imporre alla tecnica la scelta eticopolitica.
E’ probabile che le posizioni filosofiche sopra richiamate, nel postulare un dominio
incontrollabile della tecnica, siano forse eccessive o eccessivamente pessimistiche (sicché, forse,
parrebbe più equilibrata la posizione del giurista – N. Irti cit. – che insiste sulla primazia comunque della
scelta politica dei fini veicolata e conformata dal diritto e dalle regole del jus positum).
Nondimeno sembra a chi scrive che le tesi filosofiche estreme, sopra citate, colgano un nucleo
ineliminabile di verità, lì dove pongono in luce il dato oggettivo e innegabile della enorme sproporzione
tra le capacità della politica (di assegnare fini autonomi, autonomamente scelti, al fare tecnico) e la
N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Roma-Bari, 2001.
Loc. cit., p. 30.
20 E’ molto efficace la sintesi di queste tematiche offerta dallo stesso U. Galimberti in un recente articolo apparso sul
quotidiano La Repubblica (2 settembre 2005), significativamente intitolato Smettiamo di crescere.
21 Sui possibili esiti negativi dell’eccesso di proceduralismo giuridico cfr. N. Irti, Nichilismo giuridico, Bari, 2004, pp. 18 ss.,
nonché V. Scalisi, Regola e metodo nel diritto civile della postmodernità, in Riv. dir. civ., 2005, pp. 284-285 (ed ivi ulteriori richiami).
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dimensione incommensurabile (e, perciò, ingovernabile) che la tecnica ha raggiunto. Nessun uomo,
nessun apparato, nessuna istituzione è oggi in grado di “venire a capo” della tecnica globalizzata22.
Torna alla mente, al riguardo, la chiusa di un racconto di J. Rodolfo WilcocK, intitolato
L’Atlandide, che narra di un’isola fantastica minacciata dall’innalzamento progressivo delle acque del
mare, nella quale le autorità, al fine di non suscitare panico nella popolazione e di assicurare la
prosecuzione proficua dei commerci, minimizzano la gravità del problema, finché l’intera città non resta
sommersa dai flutti del mare23
Il problema è, in definitiva, che il corpo sociale, la società nelle sue istituzioni e nei suoi
meccanismi procedurali di decisione, appaiono troppo lenti nel prendere coscienza e nel reagire ai
mutamenti che la tecnica produce, e ciò probabilmente perché la scelta politica, l’ agire politico, sono
essi stessi ormai irretiti nel sistema della tecnica, che li domina e se ne serve come di strumenti. “La
formula baconiana scientia est potentia è divenuta minacciosamente coerente con se stessa nel momento in
cui il sapere si è autonomizzato dall’uomo che l’ha escogitato, sottraendo a quest’ultimo il potere che al
sapere è intimamente connesso. Lo svolgimento fino alle estreme conseguenze della formula baconiana
ha mutato lo scenario: non più il potere dell’uomo sulla natura, ma il potere della tecnica sull’uomo e sulla
natura”24.
Paolo Carpentieri
Magistrato TAR
Il concetto è reso bene da U. Galimberti, qui più volte citato, che, con E. Severino, è il filosofo che meglio ha focalizzato le
conseguenze della “età della tecnica”. L’A., ad es., osserva: “. . . oggi la tecnica non accade come conseguenza delle azioni umane,
ma come risultato cumulativo delle proprie procedure, dove gli effetti si addizionano in modo tale che l’effetto tecnico supera di gran
lunga il sapere previsionale, e questo è sufficiente per sottrarre all’uomo la possibilità di controllo che egli presume di avere sulle
conseguenze ultime dell’intervento tecnico sulla natura” (Psiche e techne. cit ., p. 476; corsivi dell’A.). E, ancora,
“l’imprevedibilità delle conseguenze che possono scaturire dai processi tecnici rende quindi non solo l’etica dell’intenzione
(il cristianesimo e Kant), ma anche l’ etica della responsabilità (Weber e Jonas) assolutamente inefficaci, perché la loro
capacità di ordinamento è enormemente inferiore all’ordine di grandezza di ciò che si vorrebbe ordinare” (ivi, p. 467). Sono
intuitive le conseguenze di queste acute considerazioni sulla “tenuta”, in campo ambientale, del principio di
prevenzione/precauzione, che pure rappresenta, come prospettato nel testo, l’asse portante della razionalità delle scelte
ambientali (e si pone, in tal senso, come causa di sintesi delle scelte ambientali). Resta però vero, come giustamente affermato
dall’A., per quanto paradossale, che le speranze di soluzione dei problemi ambientali sono in definitiva riposte nella stessa
evoluzione della tecnica (cfr. l’ultimo § del cap. 45, intitolato “La tecnica come denaturalizzazione della natura e al contempo come sua
unica e possibile salvaguardia”, pp. 486 ss.).
23 J. Rodolfo WilcocK, Lo stereoscopio dei solitari, Milano, Adelphi, 2^ ed., 1989, pp. 161-162: “Più salivano le acque, più
ottimistici diventavano i comunicati diramati dalle agenzie stampe, più imminente veniva dichiarato il riflusso della marea,
con la conseguente acquisizione al patrimonio nazionale di nuove sconfinate distese di terra arricchita dal fertile humus di
millenni di vita sottomarina. Perciò nessuno fece nulla, e quando l’ultimo abitante, che era appunto il presidente del
consiglio, si trovò sulla vetta della più alta montagna del paese, con l’acqua al petto, si sentì ancora dire dai ministri che gli
galleggiavano intorno, ciascuno aggrappato alla propria scrivania: “Coraggio, eccellenza, il peggio è ormai passato”.
24 U. Galimberti, op. ult. cit ., pp. 483- 484 (corsivi nel testo).
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