l`osservatore romano

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l`osservatore romano
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L’OSSERVATORE ROMANO
POLITICO RELIGIOSO
GIORNALE QUOTIDIANO
Non praevalebunt
Unicuique suum
Anno CLII n. 64 (46.010)
Città del Vaticano
venerdì 16 marzo 2012
.
Prospettive negative per la Gran Bretagna
Come il tracollo dell’economia mondiale sta colpendo i Territori palestinesi
Sempre più disoccupati
tra i sudditi
di Sua Maestà
La crisi che non fa notizia
LONDRA, 15. Guai in vista per i
sudditi di Sua Maestà. Il tasso di
disoccupazione è al livello più alto
dal 1995 e anche le agenzie di rating cominciano a lanciare segnali
negativi. Pur confermando ieri la
tripla A sul debito sovrano della
Gran Bretagna, Fitch ha infatti rivisto le prospettive, trasformando
l’outlook da stabile a negativo. Segno che la crisi del debito in Europa sta iniziando a coinvolgere anche le economie considerate più sicure.
«La conferma del rating AAA per
la Gran Bretagna — spiega Fitch —
riflette i progressi fatti nell’ambito
della riduzione del deficit strutturale e degli sforzi per consolidare la
credibilità delle finanze pubbliche». L’agenzia di rating sottolinea
quindi i vantaggi che derivano da
un’economia flessibile e da una situazione di stabilità politica e sociale. Nonostante questo — affermano ancora gli analisti di Fitch —
l’ammontare del deficit di bilancio
strutturale della Gran Bretagna resta secondo solo a quello degli Stati Uniti e il livello di indebitamento è significativamente sopra la media di un Paese con la tripla A. Per
questo le prospettive sono state
portate da stabili a negative. Anche
perché ci sono sempre i rischi legati all’evolversi della crisi dell’Eurozona. La Grecia non è vicina, ma
non è nemmeno lontanissima.
Al problema dei conti si aggiunge poi una grave crisi del mercato
del lavoro. Continua infatti a crescere il tasso di disoccupazione in
Gran Bretagna che nell’ultimo trimestre del 2011 è salito dello 0,1
per cento all’8,4 della forza lavoro:
si tratta del livello più alto dal
1995. I dati diffusi ieri dall’O ffice
for National Statistics mostrano un
aumento di 28.000 unità che porta
a 2,67 milioni il numero di persone
in cerca di occupazione alla fine
del 2011.
Nel caso occupazionale, va detto
che la Gran Bretagna risente dello
scenario globale, ed europeo in
particolare. Al 10,7 per cento la disoccupazione dell’area euro è aumentata ai massimi da 15 anni a
questa parte e rischia di «peggiorare ulteriormente nei trimestri a venire»: a lanciare l’allarme è la Banca centrale europea, che di recente
ha rilevato come «le condizioni del
mercato del lavoro si siano indebolite sulla scia del calo della crescita
economica». Fra dicembre 2011 e
gennaio 2012 il tasso di disoccupazione dell’eurozona è passato dal
10,6 al 10,7 per cento, superando
l’ultimo massimo registrato nel secondo trimestre del 2010. Di fatto,
un livello di disoccupazione come
quello attuale non si registrava più
dalla metà del 1997. Considerata la
crescita sottotono dell’occupazione
— ha aggiunto l’istituto di Francoforte — il tasso di disoccupazione
dovrebbe rimanere elevato, se non
addirittura aumentare nel breve periodo.
Per migliorare la situazione complessiva il Governo britannico, che
il prossimo 21 marzo presenterà la
finanziaria, sta valutando l’ipotesi
di emettere titoli di Stato a lungo
termine (cento anni e più) per
sfruttare i bassi tassi d’interesse di
cui può godere al momento. Stando a quanto riporta la Bbc alcuni
Una congiuntura negativa dovuta anche al calo degli aiuti internazionali
funzionari del Tesoro avrebbero
paragonato l’operazione all’accensione di un mutuo a tasso fisso.
Nel caso in cui dovessero incontrare il favore degli investitori l’erario
potrebbe risparmiare — dicono stime ufficiali — circa venti miliardi di
sterline nell’arco dei prossimi cinque anni grazie ai minori tassi d’interesse.
Ma l’appetito per questo tipo di
maxi-bond è tutto da verificare.
«Una maturazione di cento anni
sarebbe troppo lunga per la maggior parte dei fondi pensione e noi
crediamo che non sarebbero in
molti ad acquistare questi titoli» ha
commentato Joanne Segars, amministratore delegato della National
Association of Pension Funds
(Napf), ovvero l’associazione dei
«clienti naturali» dei titoli di Stato
britannici. «I fondi pensioni hanno
un orizzonte di lungo termine ma
non così tanto; quel che cercano
sono titoli legati all’inflazione a
trenta, quaranta e cinquant’anni e
vorrebbero che il Governo emettesse una maggior quantità di questi
bond». A ogni modo l’idea del
prestito perpetuo non è del tutto
nuova. Al momento, infatti, il Tesoro possiede nel suo portafoglio
otto debiti di lungo termine il più
anziano dei quali risale al 1853. In
totale valgono due miliardi di sterline. L’ultimo bond perpetuo è stato emesso per pagare i costi della
prima guerra mondiale.
Raccolta del grano nei pressi di Jenin (LaPresse/Ap)
Thomas Lubanga Dyilo riconosciuto colpevole di crimini di guerra dai giudici della Corte penale internazionale dell’Aia
Giustizia per i bambini soldato
L’AJA, 15. L’ex capo ribelle congolese Thomas Lubanga Dyilo, attivo
tra il 2002 e il 2003 nel conflitto
nell’Ituri, la provincia orientale della
Repubblica democratica del Congo
al confine con l’Uganda e il Rwanda, è stato riconosciuto all’unanimità colpevole di crimini di guerra dai
giudici della prima Camera della
Corte penale internazionale (Cpi)
dell’Aia. Secondo i magistrati, Lobanga Dyilo avrebbe reclutato e impiegato nel conflitto minorenni al di
sotto dei 15 anni. La sentenza completa sarà resa nota in un secondo
tempo, così come la condanna inflit-
ta a Lubamga Dyilo. «La Camera
ha concluso all’unanimità che l’accusa ha dimostrato, al di là di ogni
ragionevole dubbio, che Thomas
Lubanga è colpevole di avere arruolato bambini di meno di 15 anni e di
averli coinvolti in un conflitto armato», ha detto il giudice britannico
Adrian Fulford, leggendo la sentenza, che il procuratore della Cpi,
Luis Moreno Ocampo, ha definito
storica. I magistrati hanno dunque
accolto completamente le tesi di
Ocampo, pur criticandone la scarsa
supervisione sui bambini soldato
che hanno testimoniato durante le
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Da ricerche di archivio emerge
la vicenda biografica
di Giuseppe Bastia
primo direttore dell’«Osservatore
Romano» con Nicola Zanchini
Dalla provincia
ma per nulla provinciale
ALLE PAGINE
4
E
5
udienze, alcuni dei quali potrebbero
essere stati indotti a dire il falso.
Si tratta della prima sentenza mai
espressa dai giudici della Cpi, davanti ai quali sono aperti altri 14
processi, compreso quello che vede
imputato l’ex vice presidente congolese Jean-Pierre Bemba, leader del
Movimento di liberazione del Congo, oggi all’opposizione del Gover
del presidente Joseph Kabila.
Lubanga Dyilo era stato trasferito
all’Aia nel 2006 e il processo si era
aperto nel gennaio del 2009. Le ultime udienze si erano tenute il 26
agosto 2011. L’ex capo miliziano si è
sempre dichiarato non colpevole
delle accuse che gli vengono mosse.
I suoi legali dispongono di trenta
giorni per presentare ricorso.
Il verdetto è stato accolto con
soddisfazione sia da istituzioni internazionali sia da organizzazioni
non governative. «Questa è una vittoria di immenso valore per la protezione dell’infanzia nei conflitti»,
ha dichiarato il direttore generale
dell’Unicef, Anthony Lake, mentre
di «tappa decisiva per la giustizia
internazionale» ha parlato l’alto rappresentante per la politica estera e
di sicurezza, Catherine Ashton.
Soddisfazione ha espresso anche il
Governo degli Stati Uniti, che pure
non riconosce formalmente la Cpi.
Anche in riferimento a ciò, Paul
Nsapu, presidente della Federazione
internazionale dei diritti dell’uomo,
ha detto di sperare che questo verdetto aiuti la Cpi a consolidare la
sua legittimità. Anche secondo JeanClaude Katende, presidente dell’Associazione
africana
dei
diritti
dell’uomo, «questo processo ha contribuito a fare conoscere meglio la
pratica del reclutamento e dell’uso
dei bambini soldato nella Repubblica Democratica del Congo, ma anche in altre regioni in guerra».
Attese dell’arcivescovo di Dublino
per la Chiesa in Irlanda
Era avvocato a Cento e, insieme al
forlivese Zanchini, avrebbe avuto il
coraggio di intraprendere per la
Chiesa e per il Papa, in anni e in
un contesto difficili, una dura battaglia sul terreno del giornalismo.
PAOLO POPONESSI
TEL AVIV, 15. La crisi economica internazionale pesa sui conti dell’Autorità palestinese (Ap). Le croniche
difficoltà economiche affrontate da
Ramallah a causa del calo degli aiuti
internazionali si inaspriscono mettendo in pericolo i buoni risultati registrati negli ultimi anni, quando un
certo sviluppo economic0 ha iniziato
a prendere piede, soprattutto in Cisgiordania.
A denunciare questo stat0 di cose
è la Banca mondiale in un rapporto
presentato ieri a Bruxelles nella conferenza dei ventuno Paesi donatori
dell’Autorità palestinese. Le soluzioni indicate dall’istituto di Washington sono fondamentalmente due:
l’applicazione rigorosa dell’accordo
con Israele sulla lotta all’evasione fiscale; l’incremento degli aiuti da
parte dei Paesi donatori «per consentire ai servizi di base di continuare a funzionare». Il budget palestinese annuale — stando alle stime
pubblicate dalla Banca mondiale —
non è ancora stato compilato, ma
«dovrebbe comportare un deficit di
circa 1,1 miliardi di dollari». Le imposte doganali raccolte dal Governo
israeliano «e consegnate mensilmente all’Autorità palestinese costituiscono la principale fonte di reddito di
quest’ultima» — si legge nel rapporto della Banca mondiale. Tali imposte hanno coperto nel 2011 il settanta
per cento delle entrate palestinesi e
finanziato oltre il quaranta per cento
delle spese.
Verso
il congresso eucaristico
internazionale
Un bambino soldato nella città congolese di Bunia (LaPresse/Ap)
MARIO PONZI
A PAGINA
8
Maggiori
perplessità
hanno
espresso alcuni responsabili di associazioni operanti nella Repubblica
Democratica del Congo, che ritengono la sentenza importante, ma
non sufficiente. In particolare, Dolly
Ibefo-Mbunga, direttore di Voix des
sans voix, ha parlato alla all’agenzia
Misna, di «un primo passo che salutiamo», ma ha aggiunto che «la
strada per rendere pienamente giustizia ai congolesi è ancora lunga»,
sostenendo che nei tre Paesi coinvolti nel conflitto nell’Ituri — Repubblica democratica del Congo,
Uganda e Rwanda — Lubanga
Dyilo «godeva di sostegni ad alto
livello che gli hanno dato i mezzi
per seminare morte e desolazione».
Di conseguenza, la Banca mondiale insiste sulla necessità dell’applicazione dell’accordo già concluso
tra Israele e Autorità palestinese che
«potrebbe ridurre sostanzialmente
l’evasione fiscale» in proporzioni ancora impossibili da valutare, e che
potrebbe comunque «contribuire a
diminuire la decrescita degli aiuti internazionali». L’impulso positivo
dell’economia dei Territori nel 2011
dovrebbe comunque arrivare al cinque per cento — sempre secondo i
dati della Banca mondiale — grazie
al ristabilimento della Striscia di Gaza, il cui sistema ha registrato un
più venticinque per cento contro il
5,8 per cento della Cisgiordania.
Chiuse in Siria
le ambasciate
di Italia, Olanda
e Arabia Saudita
DAMASCO, 15. Arabia Saudita,
Olanda e Italia hanno deciso ieri
di chiudere le rispettive ambasciate a Damasco a causa delle violenze in corso nel Paese. Secondo
fonti degli attivisti, ieri a Deraa
sono morte almeno venti persone.
«Non è questione di se, ma di
quando il presidente siriano,
Bashir Al Assad, lascerà il potere» ha affermato il presidente
americano, Barack Obama, in una
conferenza stampa con il premier
britannico David Cameron, aggiungendo che sul regime di Damasco verrà esercitata ulteriore
pressione, anche economica. «Noi
dobbiamo essere chiari, quello
che vogliamo è fermare i massacri
nel modo più veloce possibile e
questo è attraverso la transizione
e non la rivoluzione o la guerra
civile» ha detto Cameron. «Siamo
pronti a lavorare con chiunque
voglia costruire una Siria stabile,
democratica e inclusiva» ha detto
il premier britannico.
Sul fronte umanitario, la Fao
ha lanciato ieri un allarme sulla
sicurezza alimentare in Siria,
esprimendo «grave preoccupazione» soprattutto per «i gruppi più
vulnerabili». Secondo la Fao, «è
sempre più difficile ottenere cibo,
acqua e carburante in molte
aree».
NOSTRE INFORMAZIONI
Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza Sua
Beatitudine
Gregorios
III
Laham, Patriarca di Antiochia
dei Greco-Melkiti (Siria).
Il Santo Padre ha ricevuto
questa mattina in udienza:
Sua
Eminenza
Reverendissima il Signor Cardinale
Daniel N. DiNardo, Arcivescovo di Galveston-Houston (Stati
Uniti d’America), con l’Ausiliare, Sua Eccellenza Reverendissima George A. Sheltz, Vescovo
titolare eletto di Irina, in visita
«ad limina Apostolorum»;
le Loro Eccellenze Reverendissime i Monsignori:
— Joe Steve Vasquez, Vescovo di Austin (Stati Uniti
d’America), in visita «ad limina
Apostolorum»;
— Curtis John Guillory, Vescovo di Beaumont (Stati Uniti
d’America), in visita «ad limina
Apostolorum»;
— Daniel E. Flores, Vescovo
di Brownsville (Stati Uniti
d’America), con il Vescovo
emerito, Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Ray-
mundo Joseph Peña, in visita
«ad limina Apostolorum»;
— William Michael Mulvey,
Vescovo di Corpus Christi (Stati Uniti d’America), in visita
«ad limina Apostolorum»;
— Alvaro Corrada del Río,
Vescovo di Mayagüez (Puerto
Rico), in visita «ad limina Apostolorum»;
— David Eugene Fellhauer,
Vescovo di Victoria in Texas
(Stati Uniti d’America), in visita «ad limina Apostolorum».
Il Santo Padre ha ricevuto
questa mattina in udienza Sua
Eccellenza
Reverendissima
Monsignor Robert Zollitsch,
Arcivescovo di Freiburg im
Breisgau (Repubblica Federale
di Germania).
Il Santo Padre ha nominato
Gran
Maestro
dell’O rdine
Equestre del Santo Sepolcro di
Gerusalemme Sua Eminenza
Reverendissima il Signor Cardinale Edwin Frederick O’Brien,
finora Pro-Gran Maestro del
medesimo Ordine.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 2
venerdì 16 marzo 2012
L’eurozona dà il via libera definitivo al secondo piano da 130 miliardi di euro
Pesanti accuse ai vertici dell’istituzione
La Grecia salva
ma sotto controllo
Si dimette
il direttore esecutivo
di Goldman Sachs
ATENE, 15. La Grecia è salva, ma resta sotto un serrato controllo della
Ue che non ammette deroghe ora
che il Governo ha ottenuto gli aiuti.
L’eurozona ha dato ieri il via libera
definitivo al secondo piano da 130
miliardi di euro, ma l’esborso avverrà attraverso numerose tranche, che
consentiranno alla Ue una verifica
puntuale degli impegni del Governo
per risanare i conti. L’Europa — ha
fatto capire il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker — è
pronta a chiudere il rubinetto in
qualsiasi momento.
Mancava solo l’approvazione formale da parte dei parlamenti nazionali, per l’ok definitivo al secondo
piano salva-Grecia che porterà l’ammontare complessivo dello sforzo
europeo per Atene alla cifra record
di 214 miliardi di euro. I 130 miliardi saranno versati entro il 2014. «Gli
Stati della zona euro hanno approvato formalmente il secondo programma, tutte le procedure nazionali sono state completate» si legge in
una nota di Juncker. I Paesi — spiega il documento — «hanno anche
autorizzato il fondo salva-Stati a
mettere in campo la prima parte degli aiuti, cioè 39,4 miliardi, che saranno versati in diverse tranche».
Questi primi aiuti andranno, come
una sorta di incentivo, ai creditori
privati che hanno accettato di partecipare al piano di swap dei titoli,
perdendo fino al settanta per cento
del valore dei loro titoli greci.
Mentre per gli altri fondi la scaletta dei versamenti non è ancora
fissata e dipenderà anche dal contributo del Fondo monetario internazionale, che domani dovrebbe fissare la sua quota. Si pensa che arriverà almeno a diciotto miliardi, molto
meno di quelli stanziati per il primo
piano. Il primo salvataggio, varato a
maggio 2010, prevedeva un pacchetto da 110 miliardi, diviso in parti
uguali tra Fmi, prestiti bilaterali degli Stati di eurozona e budget Ue.
Ma per questo secondo piano l’Fmi
non ha voluto esporsi troppo, e ha
fatto pressione sull’eurozona perché
fossero i Paesi dell’euro a fare lo
sforzo maggiore. E secondo alcune
analisi, non è da escludere nemmeno un terzo piano, forse più leggero, nel 2015, se la Grecia non riuscirà a tornare sui mercati nel 2015 e se
Scena di povertà al centro di Atene (LaPresse/Ap)
non uscirà dalla recessione in cui è
piombata da cinque anni.
Per Juncker «questo secondo programma di aiuti è un’opportunità
unica per la Grecia, e non deve
sprecarla», e la preoccupazione
dell’eurozona è tutta per il Governo
e i giochi dei suoi politici, che negli
ultimi mesi, con i litigi e le mosse
da campagna elettorale, hanno perso la fiducia degli altri partner
dell’euro. Le autorità greche, ha
spiegato Juncker, «devono quindi
Rallenta la crescita
nei Paesi membri del G20
PARIGI, 15. Nel gruppo delle grandi
economie del G20 nel quarto trimestre del 2011 la crescita del pil è scesa al più 0,7 per cento, portando
l’aumento per l’intero anno al 2,8
per cento, con una netta frenata rispetto al 5,0 di crescita registrato
nel 2010. È quanto emerge dai dati
diffusi ieri dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che mostrano
Chiusa la guerra
della bistecca
tra Stati Uniti
e Unione europea
LISBONA, 15. «Il Portogallo è sulla
buona strada per correggere le
proprie finanze e riconquistare la
fiducia» dei mercati. Lo ha detto
ieri il commissario europeo per gli
Affari economici e finanziari, Olli
Rehn, in una conferenza stampa
con il ministro delle Finanze portoghese, Victor Gaspar, a Lisbona,
dopo l’incontro con il premier lusitano, Pedro Passos Coelho.
Le riforme su cui si è impegnato il Portogallo — terzo Paese
dell’eurozona a beneficiare di un
piano di salvataggio — «deve proseguire per rafforzare la fiducia e
centrare l’obiettivo di un disavanzo al 3 per cento del prodotto interno lordo l’anno prossimo», ha
precisato Rehn. Per il piano di
aiuti al Governo del Portogallo,
l’Eurozona ha già messo a disposizione (maggio dello scorso anno) 78 miliardi nel 2011.
Nelle scorse settimane, il ministro Gaspar aveva annunciato che
nel 2013 — come conseguenza del
piano di austerità — il prodotto
interno lordo del Portogallo sarebbe cresciuto dell’1,2 per cento,
dopo due anni di contrazione
(meno 2,2 per cento nel 2011 e
meno 1,8 per cento nel 2012).
«Sono certo che ci sarà un esito
positivo per il Portogallo, e ciò
sulla base del programma concordato dalla Commissione europea,
dalla Banca centrale europea e dal
Fondo monetario internazionale»,
ha aggiunto Rehn.
BRUXELLES, 15. Dopo vent’anni, si
è conclusa la cosiddetta guerra della bistecca tra Unione europea,
Stati Uniti e Canada. Con 650 voti
a favore, undici contrari e undici
astensioni, la plenaria del Parlamento europeo ha infatti convalidato ieri l’accordo che permette
all’Europa di mantenere il blocco
alle carni con ormoni prodotte in
Nord America, in cambio di un aumento delle quote di importazioni
di carni di alta qualità. Il contenzioso era iniziato con il divieto europeo del 1989 alla commercializzazione di carni di bovini trattati con
ormoni.
Di fronte al blocco delle importazioni di carne dal nordamerica,
dove è prassi abituale trattare i bovini con ormoni per accelerare la
crescita del bestiame, Stati Uniti e
il Canada — per ritorsione — fecero
ricorso alla Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e nel
1999 hanno imposto dazi doganali
su un centinaio di prodotti tipici
europei. L’accordo approvato ieri è
stato raggiunto nel 2009 e consente
un aumento di 25.000 tonnellate
all’anno delle carni di alta qualità
_ ovvero senza trattamento ormonale _ che possono essere importate dagli Stati Uniti in Europa
(3.200 tonnellate per il Canada)
senza dazi doganali, in aggiunta alle 20.000 tonnellate della quota attuale.
L’OSSERVATORE ROMANO
POLITICO RELIGIOSO
Non praevalebunt
continuare a dimostrare forte impegno verso le riforme e proseguire
anche lo sforzo di risanamento dei
conti, e le privatizzazioni, per restare in linea con il secondo programma». Ma con le elezioni politiche
previste forse già in aprile, il dubbio
sullo scenario post-elettorale resta,
tanto che la Ue vuole lasciarsi
un’uscita d’emergenza al secondo
piano di aiuti, dividendoli in numerose tranche, a cui l’Eurogruppo dovrà dare il vie libera ogni volta.
fa a pugni con la storia del prestigioso gruppo, che per gli esperti del
settore ha sempre fatto della cultura
dell’etica una delle priorità, che sono sempre state apprezzate dai suoi
clienti in oltre un secolo di attività.
Poi non è mancato l’attacco frontale ai vertici della banca d’affari,
l’amministratore delegato, Lloyd
Blankfein, e il presidente, Gary
Cohn: «Quando i libri di storia saranno riscritti su Goldman Sachs
potranno mostrare come hanno lasciato cadere la cultura dell’impresa
mentre loro tenevano le redini del
gruppo. E un declino dello spessore
morale dell’impresa — ha avvertito
ancora Smith — nel lungo termine
rappresenta una serissima minaccia
per la sua sopravvivenza».
I responsabili del gruppo bancario hanno immediatamente respinto
con forza tutte le accuse. «Non concordiamo con le opinioni espresse e
non potremmo avere successo senza
il successo dei nostri clienti. E questa verità è alla base dei nostri comportamenti», ha infatti replicato un
portavoce di Goldman Sachs in una
nota. E in questo momento molto
delicato per la banca d’affari statunitense, approda a Goldman Sachs
Jake Siewert, l’ex portavoce della
Casa Bianca all’epoca della presidenza di Bill Clinton. L’incarico di
Siewert sarà quello di responsabile
dei rapporti con la stampa.
Secondo i dati elaborati da Ocse e Fmi in vista delle prossime riunioni del vertice
Portogallo
sulla buona strada
per riconquistare
la fiducia
GIORNALE QUOTIDIANO
Unicuique suum
NEW YORK, 15. Si è dimesso ieri il
direttore esecutivo di Goldman
Sachs, Greg Smith, responsabile dei
prodotti derivati in Europa e in
Asia. In un intervento pubblicato
sul «New York Times», Smith ha
descritto senza tanti giri di parole il
clima che si respira all’interno di
una delle più grandi banche d’affari
al mondo. Un ambiente tossico e distruttivo, ha precisato sul quotidiano, dove l’etica viene accantonata e i
profitti continuano ad essere messi
al di sopra di tutto, anche degli interessi dei clienti.
L’ex
direttore
esecutivo
di
Goldman Sachs — da ben dodici anni nel gruppo — ha sottolineato con
dovizia di particolari come «nel modo in cui la banca funziona e pensa
di fare soldi, l’interesse dei clienti
continua a passare in secondo piano». Clienti — rileva l’agenzia Ansa
— che molti manager tra di loro non
hanno esitato a chiamare muppets,
termine che negli Stati Uniti richiama alla mente i celebri pupazzi della
televisione, ma che nello slang indica una persona facile da manipolare.
Smith ha raccontato di essersi sentito «disgustato dalla freddezza con
la quale la gente parla di come truffare i clienti». Come se la lezione
dei guasti provocati negli ultimi anni dalla spregiudicata gestione del
sistema finanziario globale non abbia insegnato nulla. Una logica che
comunque forti divergenze tra le
principali economie mondiali.
Negli Stati Uniti, la crescita del
pil ha registrato nel quarto trimestre
un’accelerazione al più 0,7 per cento
rispetto al più 0,5 del terzo trimestre. Alla forte crescita di India e in
Indonesia (più 1,8 e più 2,1 per cento sul precedente trimestre) si contrappone il rallentamento della Cina
(più 2,0 per cento, rispetto al più
2,3 del terzo trimestre). In Giappone, il Pil è sceso dello 0,2 per cento,
dopo il forte rimbalzo (più 1,7) del
terzo trimestre. Nell’Ue e nell’Eurozona il dato è diminuito dello 0,3
per cento, il primo calo dal secondo
trimestre del 2009. Ma nell’eurozona l’Italia fa registrare un meno 0,7,
che segue il meno 0,2 per cent0 del
terzo trimestre: rispetto allo stesso
periodo del 2010, il quarto trimestre
2011 ha visto un calo dello 0,4 del
pil italiano.
L’Ocse, sempre ieri, è intervenuta
affermando che «l’elevata corruzione è un freno per la crescita» e che
quindi resta «essenziale» una «lotta» contro questo fenomeno che
«produce un costo in termini di
competitività». L’avvertimento è
giunto dal capo economista dell’O cse, Giancarlo Padoan, alla Camera
del Parlamento italiano per un’audizione in commissione Bilancio. La
corruzione, ribadisce «è tra le cause
che spiegano la bassa crescita in Italia».
Cordoglio di Benedetto
GIOVANNI MARIA VIAN
don Sergio Pellini S.D.B.
Carlo Di Cicco
Segreteria di redazione
direttore responsabile
vicedirettore
00120 Città del Vaticano
[email protected]
Antonio Chilà
http://www.osservatoreromano.va
TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE «L’OSSERVATORE ROMANO»
Piero Di Domenicantonio
redattore capo
redattore capo grafico
direttore generale
telefono 06 698 83461, 06 698 84442
fax 06 698 83675
[email protected]
Gaetano Vallini
segretario di redazione
La Santa Sede e la Repubblica
di Mozambico, con rispettive
Note Verbali del 12 marzo corrente, hanno notificato l’avvenuta ratifica dell’«Accordo su Principi e Disposizioni Giuridiche
per il Rapporto tra la Santa Sede e la Repubblica di Mozambico», che era stato firmato a Maputo il 7 dicembre 2011.
L’Accordo si compone di un
Preambolo e di ventitré Articoli,
che regolano vari ambiti, tra i
quali lo statuto giuridico della
Chiesa cattolica in Mozambico,
il riconoscimento dei titoli di
studio e del matrimonio canonico e il regime fiscale. Con la sua
entrata in vigore saranno consolidati i vincoli di amicizia e di
collaborazione esistenti tra le
due Parti.
Bernanke
e le banche
locali
WASHINGTON, 15. In un videointervento fatto pervenire alla Independent Community Bankers
of America, il presidente della
Federal Reserve, Ben Bernanke,
ha detto che le nuove norme e i
nuovi parametri di controllo possono imporre un costo sproporzionato alle banche locali.
Bernanke ha sottolineato come i
dirigenti degli istituti più piccoli
e vicini al territorio continuano a
essere preoccupati per le modifiche delle normative e in particolare per la Dodd-Frank Wall
Street Reform e per il Consumer
Protection Act. Ma questi interventi, ha sottolineato, «sono stati
varati dal Congresso soprattutto
per risolvere il problema delle
banche troppo grandi per fallire
e la maggior parte delle richieste,
come quelle ad esempio su capitale, liquidità e gestione del rischio, si applicano solo o soprattutto alle banche più grandi,
complesse e attive a livello internazionale». In questo senso,
Bernanke ha ribadito l’impegno
della Fed “a mantenere una chiara differenziazione” fra i due tipi
di banche nell’applicazione delle
nuove normative.
Mercato europeo
dell’automobile
ancora in rosso
Il segretario generale dell’Ocse Angel Gurría (Afp)
XVI
per le vittime della sciagura stradale avvenuta in Svizzera
Il Belgio piange i suoi bambini
BRUXELLES, 15. Il Belgio è sotto
shock dopo il tragico incidente stradale, avvenuto in Svizzera in cui sono morte 28 persone, di cui 22 bambini. Sentimenti di cordoglio e di
profonda partecipazione al dolore
delle famiglie coinvolte sono stati
espressi da Benedetto XVI in un telegramma, a firma del cardinale Tarcisio Bertone, indirizzato all’arcivescovo di Mechelen-Brussel, André Léonard.
Il presidente della Confederazione
elvetica,
Eveline
WidmerSchlumpf, ha presentato al Belgio le
condoglianze e ha assicurato che la
Svizzera farà tutto il possibile per
Ratifica
di Accordo
tra Santa Sede
e Repubblica
di Mozambico
assistere i 24 feriti e le famiglie delle
vittime.
E in Svizzera sono arrivati con il
loro carico di dolore indicibile i genitori dei bambini coinvolti nella
sciagura del tunnel di Sierre, nel
cantone Vallese. Il re Alberto II e la
regina Paola del Belgio erano andati
a incontrarli alla partenza, dalla base militare di Melsbroek, a Bruxelles.
All’indomani della notizia del tragico incidente la stampa belga descrive lo stato di incredulità e sgomento in cui si trova il Paese. Tutti i
bambini coinvolti vivevano nella regione fiamminga del Belgio e questa
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mattina i giornali dedicano decine e
decine di pagine alla tragedia.
«Consideriamo principalmente tre
cause: una causa tecnica, un difetto
del veicolo che è possibile», ha detto il procuratore Olivier Elsig in
conferenza stampa in Svizzera, precisando che l’esame in corso del veicolo, quasi nuovo, potrà stabilirlo.
«Un’altra ipotesi è quella di un malessere o di un problema di salute
del conduttore», e l’autopsia dovrebbe consentire di «confermare o
smentire questa ipotesi». La terza
pista, come in tutti gli incidenti, è
una causa umana, legate a un errore.
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BRUXELLES, 15. Nuovo calo delle
immatricolazioni delle autovetture in Europa. A febbraio, nei 27
Paesi dell’Ue più quelli dell’Efta,
sono infatti state immatricolate
923.381 vetture, in calo del 9,2
per cento rispetto allo stesso mese del 2011. Lo comunica l’Acea,
l’Associazione che riunisce le case costruttrici europee. A gennaio, la flessione era stata del 6,6
per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, a
1.003.313 unità. Nella sola Unione europea, la flessione delle
vendite di automobili a febbraio
è stata del 9,7 per cento a
888.878 unità. Tra i cinque principali mercati europei, in forte
flessione Francia (meno 20,2 per
cento, a 163.010 immatricolazioni) e Italia (meno 18,9 per cento,
a 130.661 unità). Risultano invece invariate le vendite in Germania (a 224.318 unità), mentre registrano una flessione più contenuta Gran Bretagna (meno 2,5
per cento, a 61.868 unità) e Spagna (meno 2,1 per cento, a
64.732 unità). Il progresso maggiore è invece stato messo a segno dall’Estonia (più 29,7 per
cento). I tre maggiori gruppi europei si confermano Volkswagen,
Psa Peugeot-Citroen e Renault.
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L’OSSERVATORE ROMANO
venerdì 16 marzo 2012
pagina 3
In un aeroporto nel sud dell’Afghanistan
L’imminente arrivo della stagione delle piogge minaccia la sopravvivenza di decine di migliaia di persone
Fallito attentato
a Panetta
Il Sudan dei profughi
KABUL, 15. Un’auto ha sfondato a
tutta velocità una recinzione, si è
trasformata in una palla di fuoco e
ha raggiunto la pista dove proprio
in quel momento era in atterraggio
in una base nel sud dell’Afghanistan l’aereo con a bordo il segretario alla Difesa statunitense, Leon
Panetta. Le fonti ufficiali parlano di
incidente, ma diverse altre dicono
che si è trattato di un fallito attentato. Protagonista della vicenda è
stato un civile afghano, che ha sottratto il veicolo con la forza a un
militare dell’Isaf all’interno della
base militare, il Camp Bastion, nella provincia di Helmand, e che è
morto in ospedale a seguito delle
gravi ustioni riportate.
Secondo un ufficiale dell’esercito
statunitense l’attentatore ha cercato
di colpire un gruppo di soldati
americani che si trovavano sul posto ad accogliere il capo del Pentagono. Panetta e gli altri occupanti
dell’aereo non sono stati «in alcun
momento in pericolo», ha poi precisato in una nota l’Isaf, e il segretario alla Difesa ha continuato la
visita, che era in programma da
tempo ma che, come sempre, non
era stata annunciata per motivi di
sicurezza. «Al momento non ci sono prove che il conducente sapesse
chi c’era sull’aereo», ha affermato
un portavoce del Pentagono, il capitano John Kirby, aggiungendo
che «non ci sono indicazioni che si
sia trattato di un attacco intenzionale». Di certo, dopo il massacro
domenica scorsa di 16 civili afghani
da parte di un sergente americano
(che ieri è stato peraltro portato via
dall’Afghanistan) e dopo il rogo di
alcune copie del Corano in una base americana, la missione di Panetta
è stata circondata da una forte tensione, scandita anche da due attentati in cui ieri hanno perso la vita
una decina di persone, di cui otto a
Helmand, proprio vicino alla base
dove si trovava Panetta.
In quest’atmosfera, il capo del
Pentagono ha però detto ai soldati
nella base che «non lasceremo che
singoli incidenti minino la nostra
determinazione in questa missione,
o di allontanarci dalla strategia che
abbiamo messo a punto». Un messaggio chiaro, ripetuto negli ultimi
giorni più volte anche dal presidente statunitense Barack Obama, e
che lo stesso Panetta ribadirà di
persona anche al presidente afgha-
no, Hamid Karzai, e ai massimi dirigenti del Paese che incontrerà oggi a Kabul nella sua visita di due
giorni in Afghanistan. Certo, le manifestazioni di ostilità e per chiedere agli americani di andarsene prima della fine del 2014 si susseguono da tempo in varie zone del Paese — anche oggi migliaia di afghani
sono scesi in piazza nella città di
Qalat, nella provincia di Zabul, vicino Kandahar — mentre persino
nelle basi militari americane l’atmosfera è sempre più pesante, di sospetto. Come ha riferito il quotidiano «New York Times», ai marines
e ad altri soldati che a Camp Bastion volevano ascoltare il discorso
del segretario alla Difesa è stato
chiesto ieri dal loro comandante di
deporre tutte le loro armi personali
— fucili d’assalto e anche le pistole
— prima di entrare nella tenda dove
parlava Panetta. Che gli afghani in
situazioni del genere siano disarmati è normale, ma che lo siano anche
i soldati statunitensi non lo è.
Nel frattempo, nonostante il deterioramento della situazione sul
terreno, Stati Uniti e Gran Bretagna, non cambiano la propria exit
strategy in Afghanistan, che prevede l’uscita completa delle truppe
solo nel 2014. Il presidente Obama,
ha ribadito che non ci sarà alcun
improvviso cambiamento nei piani,
come invece era stato richiesto da
più parti sull’onda di un serie di
brutti incidenti. Nella conferenza
stampa congiunta con il premier
britannico, David Cameron, il presidente statunitense ha detto che rimane inalterata la tabella di marcia
attuale (il piano di transizione Nato, che comporta prima il passaggio
delle truppe a un ruolo di supporto
nel 2013, poi il completo ritiro nel
2014, il tutto anticipato dal rientro
nella prossima estate di altri 23.000
soldati statunitensi). «Non possiamo perdere di vista che le nostre
forze hanno fatto progressi in Afghanistan», ha osservato, escludendo però qualsiasi tipo di «repentino
cambiamento al piano già in piedi». Obama ha definito «tragico» il
massacro dei 16 civili afghani, ma
ha aggiunto che la strage è un segnale della natura estremamente
complessa della missione in Afghanistan e ha sottolineato che entrambi i Paesi rimangono impegnati a
completarla «responsabilmente».
Negoziato faticoso e dall’esito incerto tra i Governi di Khartoum e Juba
Una famiglia sudanese sfollata (Reuters)
Al Shabaab rivendica un attacco suicida al palazzo presidenziale
Strategia del terrorismo a Mogadiscio
La deflagrazione durante la visita del ministro degli Esteri kenyano
MO GADISCIO, 15. Le milizie radicali
islamiche di al Shabaab, che guidano l’insurrezione contro il Governo
somalo, internazionalmente riconosciuto,
del
presidente
Sharif
Ahmed, hanno rivendicato l’attentato sferrato ieri da un terrorista
suicida nel complesso di Villa Somalia, il palazzo presidenziale a
Mogadiscio. Secondo la polizia,
l’attentato ha provocato cinque
morti e dieci feriti. Di 17 morti e
trenta feriti ha parlato invece il
portavoce di al Shabaab, Abdiasis
Abu Musab, rivendicando l’attentato con una telefonata all’agenzia di
stampa britannica Reuter e annunciando altri attacchi di uguale tenore. Le milizie di al Shabaab, costrette nei mesi scorsi a ritirarsi da
Mogadiscio dai contingenti dell’Amisom, la missione dell’Unione
africana in Somalia, appoggiati dalle forze governative, hanno messo
in atto da allora una strategia di at-
Nell’esplosione di un ordigno
Lettera di Jalili all’Unione europea
Ucciso
il capo della polizia di Peshawar
L’Iran auspica la ripresa
dei colloqui sul nucleare
ISLAMABAD, 15. Il comandante della
polizia di Peshawar, Kalam Khan, è
stato ucciso oggi in un attentato
suicida in città, a Pishta Khara
Chowk. «Il sovrintendente della
polizia Kalam Khan è morto
nell’esplosione e la sua guardia del
corpo è rimasta ferita», ha riferito
l’agente di polizia Tahir Ayub
all’emittente Geo News.
«L’attentatore
ha
azionato
l’esplosivo che aveva addosso vicino alla jeep di Khan», ha aggiunto
il capo della squadra per la
disattivazione degli ordigni Hukum
Khan. L’attentato si è verificato su
una strada in costruzione a
Peshawar, nel quartiere Pishta
Khara, dove i lavori imponevano
all’auto di Khan di viaggiare lentamente. Domenica scorsa Khan era
sfuggito a un attentato mentre si
recava al lavoro, a Badaber, e un
attentatore suicida aveva colpito un
funerale uccidendo 15 persone.
Due degli agenti feriti nell’attentato a Khan sono morti successivamente in ospedale per le ferite riportate nell’attentato suicida. Lo ha
riferito il vice ispettore generale
della polizia di Peshawar, Shafqat
Malik, che ha aggiornato quindi a
tre agenti uccisi il bilancio delle vittime dell’assalto odierno.
La polizia ha circondato la zona
dove è stato compiuto l’attentato,
alle 9 e 30 di questa mattina ora locale, e sei sospetti sono stati arrestati. Dalle prime indagini emerge
che sono stati usati sei chilogrammi
di esplosivo per compiere l’attentato. Al momento non ci sono rivendicazioni e l’attentatore suicida non
è stato identificato.
Nel frattempo, due cittadini svizzeri sono stati liberati dai talebani
pakistani che li tenevano in ostaggio da otto mesi. Lo riferiscono oggi i media a Islamabad. L’annuncio
del rilascio è stato fatto dal porta-
voce dell’ufficio stampa dell’esercito, il generale Athar Abbas. Un
portavoce dell’Ufficio stampa dell’esercito pakistano (Ispr) ha confermato all’Ansa il rilascio di Olivier David Och, 31 anni e di Daniela Widmer, 28 anni. «Sono stati recuperati a Miranshah (Waziristan
settentrionale) e poi sono stati trasferiti a Peshawar. Stanno bene». I
due erano stati sequestrati il primo
luglio 2011 nella provincia pakistana
del Baluchistan dal movimento denominato Tehreek-e-taleban Pakistan (Ttp), considerato vicino ai
terroristi di Al Qaeda.
TEHERAN, 15. Il negoziatore iraniano Saeed Jalili ha detto che
Teheran guarda con favore a una
prossima ripresa dei negoziati sul
suo programma nucleare con il
gruppo cinque più uno (i membri
permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu: Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia, Russia e Cina;
più la Germania) e ha invitato a
regolari contatti tra le due parti
per fissare sede e date dei nuovi
colloqui. È quanto Jalili ha scritto
in una lettera all’alto rappresentante per la politica Estera e di sicurezza comune dell’Ue, Catheri-
ne Ashton. Jalili, segretario del
Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, ha anche ribadito
l’interesse dell’Iran in colloqui
«costruttivi e senza precondizioni», in linea con una crescente
collaborazione tra le due parti.
Intanto, il presidente degli Stati
Uniti, Barack Obama, e il premier
britannico, David Cameron, sono
d’accordo sul proseguire l’azione
diplomatica con l’Iran. «C’è tempo e spazio» per l’azione diplomatica, ha detto il capo della Casa Bianca durante una conferenza
stampa congiunta a Washington.
tacchi terroristici nella capitale somala.
L’attentato di ieri è avvenuto poco dopo l’arrivo a Villa Somalia del
ministro degli Esteri kenyano, Moses Wetangula, per una visita, non
annunciata, per discutere con le autorità di transizione somale i termini del previsto inquadramento
nell’Amisom delle truppe kenyane
presenti in Somalia. Mesi fa, il Governo di Nairobi ha avviato una
sua operazione militare con il dichiarato intento di mettere in sicurezza le aree somale a ridosso della
sua frontiera fino a quel momento
controllate da al Shabaab.
La scorsa settimana, il Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite ha
autorizzato un aumento degli effettivi e un’estensione del mandato
dell’Amisom. Due giorni fa, il
primo ministro kenyano, Raila
Odinga, ha incontrato a Bruxelles
il presidente del Consiglio europeo,
Herman Van Rompuy, da quale ha
avuto assicurazione dell’impegno
dell’Unione europea a portare a
cento milioni di euro il suo contributo economico all’Amisom per il
2012. Van Rompuy ha anche confermato la disponibilità europea a
«prorogare fino al 2014 nel Corno
d’Africa e nell’Oceano Indiano la
presenza di unità militari degli Stati membri, con l’obiettivo di contrastare l’attività di pirati e terroristi».
Morti e feriti durante una manifestazione a Puerto Maldonado
Scontri tra polizia e minatori in Perú
Un momento dei disordini a Puerto Maldonado (LaPresse/Ap)
LIMA, 15. Almeno tre manifestanti
sono morti e più di trenta sono stati
feriti in scontri scoppiati ieri tra minatori indipendenti e forze di polizia
peruviane a Puerto Maldonado, nella regione amazzonica sudorientale
di Madre de Dios, a ridosso della
frontiera con il Brasile, 1.200 chilometri a est di Lima. Un comunicato
del ministero degli Interni, nel riferire sugli scontri, ha precisato che sono rimasti feriti anche nove agenti e
che sono state arrestate una sessantina di persone quando i manifestanti
hanno incendiato veicoli e tentato di
occupare il mercato e l’aeroporto locale. Il comunicato ministeriale accusa i manifestanti di aver utilizzato
armi da fuoco ed esplosivi e specifica, comunque, che per ora non sarà
disposto lo stato d’emergenza nella
zona, come avevano ipotizzato fonti
di stampa.
I minatori protestano da tempo
contro decreti che pongono fine alla
loro attività nella regione di Madre
de Dios, considerata illegale dal Governo che ha deciso una riorganizzazione del settore.
Tra le motivazioni addotte dal
Governo c’è la tutela ambientale della regione di Madre de Dios, ricca
di biodiversità, dove i minatori indipendenti utilizzano il mercurio per
estrarre oro dai sedimenti dei fiumi,
arrecando gravi danni all’ambiente.
Secondo la Federación Minera de
Madre de Dios, che raccoglie i minatori, i provvedimenti governativi —
varati con un decreto dell’aprile
2010, che prevede anche fino a dieci
anni di carcere per il reato di estrazione illegale – punta in realtà a cancellare un’attività di sussistenza largamente diffusa in tutto il Perú, lasciando campo libero alle grandi
aziende minerarie straniere per lo
sfruttamento delle risorse del sottosuolo della regione.
JUBA, 15. L’imminente arrivo della
stagione delle piogge minaccia di
rendere insostenibile la condizione
delle almeno ottantamila prersone
rifugiatesi in Sud Sudan per sottrarsi ai combattimenti in atto da mesi
nello Stato sudanese del Nilo Azzurro tra le forze governative di
Khartoum e i ribelli del Movimento
di liberazione del popolo sudaneseNord. Agenzie dell’Onu e organizzazioni non governative attive
nell’area parlano di difficili sfide dal
punto di vista logistico per avere accesso ai rifugiati nei campi di Doro
e Jaman e portare loro assistenza. I
profughi, che raccontano di continui
bombardamenti e combattimenti nel
Nilo Azzurro, a Doro e Jamam hanno trovato un rifugio, ma si tratta di
un ambiente difficile in una località
desertica, dove la loro capacità di
sopravvivenza è messa a dura prova.
Con l’inizio delle piogge, di solito a
fine aprile, la zona si trasforma in
una vasta palude nella quale saranno destinati ad accrescersi gli ostacoli all’azione di assistenza umanitaria.
Resta intanto faticoso e incerto il
negoziato tra Sudan e Sud Sudan
sui contrasti lasciati irrisolti dalla
proclamazione
dell’indipendenza
sudsudanese, lo scorso 9 luglio.
Nessun passo in avanti si è registrato nelle trattative ad Addis Abeba,
con la mediazione dell’Unione africana, sul nodo cruciale della divisione delle risorse petrolifere, situate in
massima parte in Sud Sudan. Da
tempo, il Governo sudanese pretende che la divisione rimanga quella
ipotizzata dall’accordo di pace del 9
gennaio 2005, che pose fine all’ultraventennale conflitto civile, mentre le
autorità di Juba intendono invece
gestire in proprio le perforazioni, limitandosi a pagare a Khartoum
l’utilizzo degli oleodotti. In risposta
Khartoum ha fissato un prezzo di 32
dollari al barile, mentre il Governo
di Juba è disposto a pagare solo in
linea con le tariffe internazionali,
cioè circa un dollaro al barile.
Da mesi è in atto un braccio di
ferro, con il Governo di Juba che ha
bloccato la produzione e ha avviato
trattative con Kenya, Uganda ed
Etiopia per la costruzione di oleodotti che lo affranchino dalla dipendenza da quelli di Khartoum. Il capo dei negoziatori sudanesi ad Addis Abeba, Idriss Mohamed Abdul
Gadir, ha detto che «sono necessari
ancora molti negoziati sul trasporto
del petrolio prodotto nel sud attraverso gli oleodotti di proprietà del
nord», confermando che il suo Governo chiede il pagamento degli arretrati.
Sviluppi positivi, invece, ci sono
stati sul versante della libera circolazione dei cittadini dei due Stati e
per avviare la demarcazione dei confini. Secondo Gadir, accordi in merito saranno firmati in una cerimonia
ufficiale durante l’incontro previsto
a Juba nei prossimi giorni tra il presidente sudanese, Omar Hassam el
Bashir, e quello sudsudanese, Salva
Kiir Mayardit. L’accordo sulla libertà di movimento, residenza, lavoro e
proprietà dei cittadini nei due Stati
prevede la creazione di una commissione copresieduta dai due ministri
dell’Interno che ne definisca i dettagli. La commissione accelererà anche
i processi di rimpatrio volontario nei
due Stati.
Primo comune
sminato
in Colombia
BO GOTÁ, 15. Il comune di San
Carlos, nel dipartimento nordoccidentale di Antioquia, è il primo
della Colombia a essere dichiarato
ufficialmente libero dalle mine antipersona. San Carlos è stato formalmente riconosciuto dal presidente colombiano Juan Manuel
Santos come il primo municipio
che è riuscito a bonificare totalmente il suo territorio, nel quale
sono stati individuati e rimossi
settecento ordigni. L’opera di sminamento ha consentito il rientro
di circa 2.700 sfollati costretti negli ultimi anni ad abbandonare le
proprie case.
La Colombia ha ratificato nel
2000 la Convenzione di Ottawa
sulle mine antipersona, che dal
1990 hanno causato 2.028 morti e
7.614 feriti accertati in tutto il Paese. Secondo il Governo, la guerriglia continua però a usarle.
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L’OSSERVATORE ROMANO
venerdì 16 marzo 2012
venerdì 16 marzo 2012
Da ricerche di archivio emerge la vicenda biografica di Giuseppe Bastia, primo direttore dell’«Osservatore Romano» con Nicola Zanchini
Il linguaggio di cinema, musica e televisione
Dalla provincia ma per nulla provinciale
C’è un solo modo di essere credibili
quando si parla di etica
La sua figura e la sua storia dimostrano anche la vitalità della presenza dei cattolici nelle terre emiliane e romagnole
di PAOLO POPONESSI
embra quasi un segno potente che indica il percorso
di una vita il fatto che
Giuseppe Bastia, cattolico
convinto e “intransigente”,
compagno di Nicola Zanchini nella
fondazione
e
nella
direzione
dell’«Osservatore Romano», abbia
aperto gli occhi nell’ormai lontano
1827 a Cento, attualmente in provincia di Ferrara, in una casa posta di
fronte alla chiesa del Rosario. Dinnanzi a questo luogo, scrigno che
racchiude le testimonianze dell’arte
di uno dei grandi della pittura, il
Guercino, dove si esprime da secoli
la devozione dei centesi, nacque il
28 dicembre 1827 Giuseppe Ercole
Bastia che, insieme al forlivese Zanchini, avrebbe avuto il coraggio di
combattere per la Chiesa e per il Papa una dura battaglia sul terreno del
giornalismo.
Anche Bastia, come del resto Zanchini, proveniva dai territori delle
cosiddette ex legazioni, nel caso del
centese da quella di Ferrara, che, a
seguito della vittoriosa campagna
franco piemontese contro gli austriaci del 1859, sarebbe stata strappata al
Papa per entrare a far parte del nascente Regno d’Italia. La figura e la
storia di Bastia ci confermano l’esistenza di un contesto assai significativo di laici, non liquidabili come
isolate personalità filopapaline, ma
segnali di una vitalità della presenza
dei cattolici; si confuta così una immagine ideologicamente viziata e totalizzante che assegna tout court a
queste terre emiliane e romagnole la
palma dell’anticlericalismo.
Bastia, con la sua aperta scelta di
campo per la Chiesa e per il Papa è
in qualche modo agli antipodi di un
altro personaggio centese, di lui
molto più noto e ricordato, comunque anch’esso riconducibile al mondo cattolico, almeno come origine,
che è Ugo Bassi (1801-1849). Frate
barnabita, seguace di Garibaldi che
seguì durante la Repubblica Romana, catturato dagli austriaci dopo la
caduta di Roma, venne poco dopo
fucilato a Bologna. In proposito è
curioso ricordare che la strada di
Cento ove si trovava la casa natale
S
due servitori.
Come per il forlivese Zanchini, al
quale è paragonabile per la personalità
poliedrica, anche su
Bastia
è
sceso
l’oblio,
rendendo
non molto agevole
ricostruirne la vicenda personale. In
questo senso un
contributo estremamente significativo
per ricostruire la vita e le opere del
centese che, come
vedremo,
sarebbe
riduttivo
definire
semplicemente solo
un pioniere della
informazione cattolica, è La Selva alfabeticamente disposta di nomi e cose
centesi e di quant’
altro in richiamo a
Cento appartiene di
Antonio
Orsini
(1858-1928). Si tratta di una monumentale opera storica
(ottantasette
quaderni manoscritti raccolti in sei voLa casa di Bastia si trovava di fronte alla chiesa del Rosario a Cento
lumi) riscoperta da
due ricercatori di
Cento, Guido Vancini e Giuseppe
di Bastia è oggi intitolata proprio a
Sitta, di prossima pubblicazione
Ugo Bassi.
(grazie all’impegno finanziario della
Come scopriamo consultando il
Fondazione Cassa di Risparmio di
registro dei battesimi della collegiata
Cento, Amministrazione comunale,
di San Biagio che si trova nel cuore
Lions e Leo Club, Associazione
di Cento, i genitori di Bastia erano
Amici della Pinacoteca e AssociazioAntonio, che si sarebbe spento nel
ne Imprenditori Centesi per la Cul1835 lasciando cinque figli piccoli, e
tura). In questa sorta di enciclopedia
Annunziata Farnè. Il padre era un
centese, attendibile e assai considerericco macellaio al quale la grande
vole fonte di conoscenza relativa a
floridezza degli affari consentì di copersonaggi, luoghi e storia della citstruire un bel palazzo proprio di
tà di Cento e del suo territorio, trofronte alla chiesa del Rosario; in
viamo quindi numerose informazioni
questa casa, secondo lo “stato delle
su Bastia e il contesto nel quale opeanime” della Collegiata di San Biarò.
gio, vivevano nel 1835 la vedova AnProbabilmente la condizione agianunziata e i cinque figli: Maria, la
ta della famiglia consentì a Giusepprimogenita, quindi Giuseppe e i
pe di accedere agli studi di giurifratellini più piccoli Giovanni, Anna
sprudenza alla vicina e prestigiosa
e Teresa e, a testimonianza della
università di Bologna dove si laureò
agiatezza della famiglia Bastia, prenel 1850. Gli anni di studio nella citstavano servizio nel palazzo anche
tà petroniana avranno senz’altro
avuto come effetto quello di favorire
e intensificare i contatti con i cattolici bolognesi come testimonia la presenza di Bastia e di suo fratello più
giovane, Giovanni, tra i fondatori
nel 1850 della Associazione cattolicoitaliana che vide tra i suoi animatori
Giambattista Casoni, figura significativa dell’associazionismo cattolico
del tempo e giornalista attivissimo
che nel 1890 sarebbe divenuto direttore dell’«Osservatore Romano»,
dopo una breve precedente condirezione in affiancamento al marchese
Baviera.
Bastia si era radicato fortemente a
Bologna come è confermato dalla
documentazione custodita nell’archivio anagrafico del comune bolognese tanto che vi mantenne formalmente la residenza, nonostante gli
anni passati a Roma dalla quale
rientrò definitivamente nel giugno
del 1870 e il periodo dal 1884 al 1887
trascorso a Verona. A Bologna Bastia si sposò nel 1855 con Sofia Mei,
una bolognese di sei anni più giovane e, come risulta dagli archivi
dell’anagrafe, la coppia non ebbe figli. Proprio nella città emiliana Bastia si spense il 7 maggio 1893 nella
sua casa di via del Poggiale, ribattezzata dopo la Grande guerra, via
Nazario Sauro, mentre la moglie gli
sarebbe sopravvissuta fino al 1914.
La caduta del regime pontificio
nei territori emiliano-romagnoli determinò un forte innalzamento della
tensione tra la Chiesa e le autorità
del nascente Stato unitario italiano
che, ad esempio, sfociarono in clamorosi arresti in ambito bolognese
di alti prelati come monsignor Ratta,
vicario dell’archidiocesi, e monsignor
Canzi, arcivescovo supplente, i quali
pagarono a caro prezzo l’avere indicato al clero bolognese l’adozione di
comportamenti non certo favorevoli
al nuovo potere e a quanti lo appoggiavano.
Con la sua solida preparazione
giuridica e le sue capacità di avvocato, Bastia partecipò in prima linea a
quella tormentata stagione vissuta
dalla Chiesa bolognese assumendo il
ruolo di difensore in sede processuale, come ampiamente documentato
nel testo stampato a Bologna nel
1860 che illustra la strategia difensiva adottata nel caso di Ratta, vicario
della diocesi bolognese. Questi, arrestato addirittura mentre si recava ad
assistere l’arcivescovo Viale Prelà che
Il suo certificato di battesimo (1° gennaio 1828)
era in punto di
morte, fu condannato a tre anni di
carcere, scontandone però solo poco
più di tre mesi, per
non avere autorizzato il clero bolognese a partecipare
alle
celebrazioni
per
l’anniversario
dello Statuto Albertino. Sempre tre
anni di carcere — in
questo caso effettivamente scontati —
furono inflitti in seguito a monsignor
Canzi, arcivescovo
supplente per avere
dato la disposizione
di negare la comunione a quanti erano attivamente impegnati a fianco del nuovo potere.
Il ruolo di difensore di parte cattolica in sede processuale e l’essere
autore di un articolo nel quale si
esprimeva sostegno alla ultima resistenza borbonica nella fortezza di
Gaeta contro le truppe di Vittorio
Emanuele II contribuirono a creare
un clima molto ostile attorno a Bastia da parte dell’opinione pubblica
più anticlericale inducendolo a lasciare gli ex territori pontifici per
raggiungere Roma ove avrebbe dato
inizio con Zanchini all’impresa
dell’«Osservatore Romano».
Tuttavia è probabile che questa
scelta sia stata determinata piuttosto
dalla convinzione della necessità di
sviluppare un più deciso impegno a
difendere la libertà della Chiesa che
si riteneva grandemente minacciata
dall’attacco al potere temporale papale. Come documenta la Selva di
Antonio Orsini, Bastia evidenziò doti anche in campo letterario tanto da
essere menzionato, oltre che come
romanziere, anche, appena diciottenne, come autore di versi celebrativi
dell’amnistia concessa da Pio IX dopo la sua elezione.
Da vivace polemista, il futuro fondatore dell’«Osservatore Romano»
si batté come difensore del ruolo e
dei diritti della Chiesa e del Papa.
Di questo suo impegno è testimonianza Il dominio temporale dei papi
Per la Chiesa, nello Stato
Per meglio conoscere Giuseppe Bastia, il
suo impegno e le sue posizioni è utile analizzare due sue pubblicazioni che, pur appartenenti a diversi periodi, sono comunque
unite dal filo ideale di un coerente schierarsi a difesa della Chiesa e della sua presenza
nella realtà italiana del tempo.
Difesa dell’illustrissimo e reverendissimo
Monsig. Gaetano Ratta davanti al tribunale
criminale di prima istanza in Bologna, pubblicato nel 1860 nella stessa città ove si era
celebrato il processo, rivela conoscere come
Bastia, in qualità di avvocato, difese davanti
ai giudici monsignor Gaetano Ratta, protagonista di uno dei primi scontri che caratterizzarono i rapporti tra il nuovo Stato e la
Chiesa. Ratta infatti pagò prima con l’arresto e la reclusione nel carcere bolognese del
Torrone e poi con la condanna il rifiuto del
clero bolognese (secondo le direttive del Papa), di celebrare con rito religioso l’anniversario dell’emanazione dello Statuto Albertino. Il vicario della diocesi, con l’arcivescovo
Viale Prelà così gravemente malato da spirare al momento dell’arresto di Ratta, si trovò
quindi in prima linea nel sostenere le conseguenze di una posizione non certo conciliante con il nuovo regime.
L’apertura dell’arringa difensiva di Bastia
è tutta sul filo del diritto, con la contestazione dell’arbitrarietà dell’arresto di Ratta
avvenuto senza autorizzazione della magistratura, prescindendo dalla considerazione
che non vi era alcun pericolo di fuga del
prelato. Tutta la strategia difensiva si incentra in seguito sulla arbitrarietà dell’imposizione alla Chiesa bolognese di festeggiare lo
Statuto quando la legge stessa imponeva alle autorità laiche di concertare tali celebrazioni con le autorità religiose rispettandone
l’ordinamento e la gerarchia.
Quello che Bastia contesta è l’intromissione dello Stato in un ambito, quello dei riti e
delle cerimonie religiose, che la legge stessa
attribuiva all’esclusiva competenza delle autorità ecclesiastiche. Da un livello giuridico
formale l’avvocato centese si distacca per
scendere su un terreno a lui altrettanto congeniale e certamente assai caro sul piano
ideale. Infatti la difesa del vicario arrestato
si trasforma in una appassionata apologia
della libertà di coscienza e, in particolare,
dei diritti del credente di fronte all’autorità
dello Stato, sempre comunque supportata
con consumata esperienza di uomo di legge
da riferimenti al quadro normativo e allo
Nel 1860 Bastia pubblicò un testo che ricostruiva
la sua difesa di monsignor Gaetano Ratta
Statuto Albertino. Al contrario, secondo Bastia, ci si deve chiedere se «la voce del capo
della Chiesa dichiarante la soluzione di un
dubbio morale deve persuadere una mente e
vincolare una coscienza cattolica». La questione, allora, secondo l’appassionata difesa
condotta dal futuro fondatore dell’«O sservatore Romano», è «se un sacerdote, un
cattolico qualunque, possa agire contro la
sua coscienza illuminata dal Capo di quella
Religione che è Religione di Stato».
Al di là di altre considerazioni formali
questa è la fondamentale argomentazione
attorno alla quale ruota la strategia difensiva messa in atto da Bastia. «La vera grandezza è la grandezza morale che sorge
nell’uomo dalla coscienza dè suoi doveri e
della impavida risoluzione della loro osservanza», come ha testimoniato il comportamento di monsignor Ratta coerente con la
sua fede.
Accanto a questo tema della libertà dei
cattolici di vivere la loro fede in obbedienza
al Papa, per Bastia era egualmente da difendere con vigore il principio della libertà della Chiesa e del Pontefice garantita dal potere temporale. Questa tematica fu costantemente al centro della sua riflessione e della
sua opera per tutta la vita, come testimonia
il suo saggio Il dominio temporale dei Papi
dal 1815 al 1846 nel quale, tre anni prima
di morire, raccoglieva undici articoli scritti
in difesa del potere temporale papale.
Nell’introduzione Bastia si dice spinto a
pubblicare questo suo lavoro per l’impressione suscitata dalla lettura dell’enciclica di
Leone XIII Dall’alto dell’Apostolico seggio (15
ottobre 1890) con la quale il Papa aveva
nuovamente messo in guardia i cattolici sul
pericolo dell’attacco ai valori del cattolicesimo condotto con particolare durezza dalla
massoneria. C’è un passo dell’enciclica che
deve avere colpito in misura significativa
Bastia, là dove Leone XIII sottolinea come
«si cominciò col rovesciare sotto colore politico il principato dei Papi: ma la caduta di
esso nelle intenzioni segrete dei vari capi,
apertamente poi dichiarate, doveva servire a
distruggere o almeno tenere in servitù il supremo potere spirituale dei Romani Pontefici». È un tema particolarmente caro a Bastia: il potere temporale quale garanzia per
la Chiesa di potere svolgere liberamente la
sua missione spirituale. Così in questo saggio ripercorre i caratteri del dominio pontificio dalla Restaurazione all’elezione di Pio
IX, analizzando l’opera dei quattro Papi Pio
VII, Leone XII, Pio VIII e Gregorio XVI.
Da raffinato polemista, Bastia utilizza alcuni giudizi di un avversario, Luigi Carlo
Farini, tratti dal saggio di quest’ultimo Lo
Stato Romano, per rafforzare le proprie argomentazioni a sostegno della necessità e
utilità del potere temporale papale. Il futuro direttore dell’«Osservatore Romano»
esprime un incrollabile giudizio incondizionatamente positivo sull’azione di governo
dei quattro Papi, impegnandosi a fondo nel
confutare alcuni degli argomenti utilizzati
dagli anticlericali per contestare la legittimità del potere temporale.
In primo luogo smentisce che vi sia mai
stato uno spirito di ribellione diffuso a livello popolare nello Stato Pontificio; rivolte e
insurrezioni, secondo l’autore, sono stati fenomeni perlopiù indotti dall’esterno se è vero che «i principali cospiratori negli Stati
della Santa Sede sono sempre forestieri ai
quali tutt’al più si consocia la feccia indige-
na che mai manca in nessun paese. Il qual
fatto per sé eloquentissimo in favore della
fedeltà dei sudditi pontifici vien posto in
sodo dal mentovato Farini, mentre pure si
argomenta di calunniare come inetto e crudele il governo dei Papi». Conseguentemente Bastia cerca di mettere in evidenza il consenso del quale godeva il governo papale da
parte degli abitanti dello Stato Pontificio
«paghi di lor sorte e nemici di turbolenze o
novità». Si trattava, per l’autore, di un consenso bollato da Farini come «Sanfedismo
settario» che assumeva carattere di massa.
«Non è chiaro — si chiede polemicamente
Bastia — che l’opinione pubblica, come oggi
la chiamerebbero, batteva all’unisono col sistema, coll’indirizzo, col pensiero, colla volontà del Governo? Che l’universalità dei
sudditi stava col Principe, paga delle sue
leggi e del suo reggimento, perché omogeneo e rispondente ai bisogni, agl’interessi,
alla prosperità di tutto quanto lo Stato?».
Frontespizio del saggio «Il dominio temporale dei Papi
dal 1815 al 1846» (1890)
Bastia si preoccupa anche di confutare
l’accusa che lo Stato Pontificio si sia retto
esclusivamente sull’appoggio politico e militare di Stati esteri, in particolare l’Austria.
Sostiene che in realtà le ingerenze straniere
sarebbero state causate dalla cospirazione
esterna ai territori pontifici e, in particolare
sotto Gregorio XVI, subite più che incoraggiate dal governo papale. Bastia si preoccupa anche di respingere l’accusa di ferocia repressiva del governo papalino nei confronti
degli oppositori. Dopo avere sottolineato lo
spirito di clemenza che generalmente ha
permeato l’azione della giustizia pontificia,
nota come «quei che accusano di ferocia
politica il Governo Papale sono gli autori
delle fucilazioni di massa nel Regno di Napoli; son quelli pei quali era mandato a
morte chiunque fosse trovato con un tozzo
di pane in tasca; sono quelli che misero a
ferro e a fuoco Casalduni e Ponte Landolfo
ed altri villaggi e borgate».
Ma proprio al termine del saggio troviamo un interessante giudizio di Bastia, comunque rivelatore del sentimento di italianità vissuto dalla parte cattolica “intransigente”, sul compimento dell’Unità della quale
non viene contestata la legittimità dell’aspirazione ma il metodo e i principi di realizzazione: «Lo Stato Pontificio non era
d’ostacolo all’indipendenza e alla grandezza
d’Italia, e nemmeno alla sua politica unità.
Non quella ibrida e antistorica che le sette
massoniche le hanno imposto, ma quella
che l’indole sua, la sua struttura topografica, le sue antiche tradizioni le avrebbero indicate, e la quale, si fata deum, si mens non
laeva fuisset, si sarebbe senza fallo ottenuta,
rinnovellando la sapienza politica degli avi
nostri, che conobbero il segreto della forza
e della gloria nazionale italiana».
Rileggendo queste pagine, sembra che il
maturo militante cattolico scriva nella consapevolezza di dover passare il testimone di
un impegno ideale a una generazione più
giovane che ha, comunque, il dovere di conoscere quella che egli ritiene essere la verità storica, precisando che, in una fase della
vita italiana non certo facile in primo luogo
per i cattolici e la Chiesa, «queste sono le
conclusioni fluenti della storia del passato,
queste sono le speranze dell’avvenire. E diciamo speranze, non essendo possibile che
duri eterna una condizione di cose, diametralmente opposte a tutti i principi rivelati e
naturali, su cui si fonda e si svolge l’umano
consorzio». (paolo poponessi)
di CARLO BELLIENI
Giuseppe Ercole Bastia
dal 1815 al 1846, saggio pubblicato
a Bologna nel 1890, a pochi anni
dalla morte, segno di un forte orientamento e convincimento che lo animarono costantemente per tutta la
vita.
Il notevole spessore culturale di
Bastia appare evidente considerando
che proprio a lui si deve la traduzione dal francese del libro pubblicato
a Bologna nel 1861 Roma, l’Italia e
l’Europa senza il Papa, opera di Felix
Antoine Philibert Dupanloup (18021878), personalità di rilievo della
Chiesa dell’Ottocento, arcivescovo
di Orleans, del quale si ricorda anche l’importante contributo dato alla
discussione su Sillabo e infallibilità
papale.
Riscoprendo la figura di Bastia
dobbiamo anche ricordare un altro
centese suo contemporaneo che ebbe
un ruolo nella fase pionieristica
dell’«Osservatore Romano». Si tratta di Paolo Pultrini, citato tra i primi componenti del gruppo di redazione del giornale; la Selva orsiniana
ci fornisce qualche altra informazione che permette di delineare meglio
i contorni di questo personaggio.
Inizialmente si dedicò all’insegnamento nella vicina cittadina di San
Pietro in Casale ricoprendo l’incarico pubblico di maestro ma gli eventi
successivi alla elezione a Papa di
Mastai Ferretti portarono Pultrini
lontano da una tranquilla carriera di
insegnante in un borgo di una provincia della Stato Pontificio. Travolto, come tanti altri, dall’entusiasmo
suscitato dal provvedimento di clemenza emanato da Pio IX all’inizio
del suo pontificato, Pultrini compose in quei giorni del 1846 versi celebrativi dell’amnistia che furono dati
alle stampe. Emergevano così le sue
doti di scrittore che lo portarono in
seguito a Roma ove fece parte della
prima redazione dell’«O sservatore
Romano». Pultrini, che si stabilì definitivamente a Roma fino alla morte, collaborò a lungo con il giornale,
conquistandosi la considerazione
pontificia tanto che fu «insignito di
Ordini equestri pontifici, essendo
d’ognora caro a Pio IX e Leone XIII»
come sottolinea Orsini ne La Selva.
La vicenda di Pultrini conferma
ancora una volta come dalla “provincia” vennero personalità — e Bastia
ne è il chiaro esempio come il collega Zanchini — le quali, con una
mentalità e impostazione per nulla
“provinciali”, furono capaci di realizzare un giornale come «L’O sservatore Romano» da subito caratterizzato
da una tecnica giornalistica moderna
e dinamica e da una grande e appassionata apertura alla conoscenza e
alla discussione di quanto la realtà
dei loro tempi proponeva.
Essere credibili nel parlare di etica
significa raccontare e mostrare la
realtà. La realtà non inganna, e introduce alla natura delle cose: è un
criterio fondamentale introdotto dal
cristianesimo, e quando la realtà
viene mostrata bene — e non spiegando solo come sfuggirla — chiunque resta colpito e affascinato.
Certe trasmissioni televisive suggestivamente mostrano la realtà
della fatica umana e dell’eroismo
quotidiano di certe famiglie (per
esempio Extreme Makeover Home
Edition, prodotto dall’americana
Abc) senza sentimentalismi ma con
candido tratteggio della malattia e
della solidarietà che la fatica umana
suscita. E certe produzioni cinematografiche mostrano un ritratto
dell’amore di cui difficilmente sentiamo parlare tanti esperti; tra queste, la più recente e avvincente è la
saga di Twilight. È la storia di Bella
Swan che si innamora perdutamente di un vampiro, e in cui troviamo,
raccontato con le parole di oggi, la
bellezza di un amore che potrebbe
distruggere l’altro, che ne avrebbe
la forza e l’impeto, e che invece si
strugge e languisce per cogliere
l’amore dall’altro con rispetto. Non
è il “vampiro” o il sangue che attrae i ragazzi in questa serie di libri-film, ma l’amore giovane e fedele di Edward e Bella: di sangue,
vampiri e amori in cui nessuno crede sono pieni i rotocalchi, ma la
storia di un amore che non “usa e
getta” l’altro, come invece invita a
fare la cultura postmoderna, attrae
e colpisce.
Già questo basta a qualificare la
produzione: non è casuale che da
un rispetto simile, la ragazza giunga a venerare il momento del matrimonio, e a rifiutare l’aborto.
Come non notare che invece il
panorama televisivo è pervaso dal
sentimentalismo delle lacrime facili,
sotto forma di reazioni spropositate, di malattie ostentate come spettacolo da libro dei record, di scienza vista come qualcosa che ci terrorizza per i suoi rischi o spacciata
come una magica risoluzione ai
problemi, di catastrofi annunciate?
La sofferenza diventa spettacolo
e questo non è un buon modo per
narrare il reale; così come la scienza
che diventa magia. È la vittoria della cultura dell’opinione personale e
delle sensazioni: proprio quel tipo
di cultura per cui, in barba alla
scienza, si chiede allo Stato nuovi
modi di morire invece di sistemi
forti per essere curati meglio, o il
“diritto alla droga libera” invece del
diritto a giornate piene di vita.
L’unico rimedio a questa deriva è
mostrare e raccontare con arte la
realtà, l’eroismo quotidiano di chi
vive con una malattia, e la colpevole trascuratezza di chi potrebbe occuparsene a livello sociale e politico; l’eroismo di un infermiere o di
una maestra; la forza di mille madri
e padri.
Come non ricordare la poesia
commovente con cui certi cantanti
descrivono la realtà e che vale più
di cento libri? Quella ad esempio
di Lucio Dalla, da poco scomparso,
che descriveva i senzatetto della
metropoli, i personaggi anonimi ma
veri, ritratti nelle prigioni o nei
porti e che ancora affascinano i
giovani?
La gente, e i ragazzi in particolare, vuole incontrare la realtà, men-
perché non si può costruire su un
campo minato, alterato dalla paura
del domani o dalla perdita di capacità di costruire e sperare.
Bisogna riprendere a mostrare e
raccontare con arte la
grammatica etica (cfr.
Occorre superare la logica delle lacrime
Caritas in veritate,
48): i giovani sanno
facili e della sofferenza spettacolarizzata
individuare e affezioBisogna invece raccontare con arte la realtà narsi a questi lampi
perché questa non inganna
di verità, quando li
incontrano. È compito dei media facilitare
Non è prima di tutto — come vorartisti e produttori che sanno racrebbe chi vuole un’etica basata solo
contare e mostrare la realtà: che
sull’analisi delle conseguenze — diinevitabilmente, se raccontata con
squisire sulle conseguenze o sulle
sincerità, arte e verità, mostra la
innovazioni, ma mostrare il tipo di
legge che ha dentro, e il disegno
uomo che vogliamo e che siamo,
buono di cui è parte.
tre troppo spesso riceve solo una
serie di stimoli indotti dal mercato.
Il problema etico di oggi è proprio
qui: ricostruire un terreno “umano”
e non di sensazioni o di paura.
Bella ed Edward, i protagonisti di «Twilight»
Nel prossimo numero della «Civiltà Cattolica»
Intelligenza collettiva
La diffusione delle tecnologie digitali permette alle persone di rimanere «connesse», di aprire cioè con
immediatezza e gratuitamente canali di comunicazione senza barriere o
distanze: è da questa consapevolezza che parte Antonio Spadaro, sul
numero in uscita de «La Civiltà
Cattolica», nell’articolo Le sfide
dell’“intelligenza collettiva”.
«L’intelligenza interconnessa —
scrive il direttore della rivista dei
gesuiti — ha fatto immaginare a
qualcuno la prospettiva di un corpo
unico che, vivendo di connessioni
fitte, si esprime come unità pensante, intelligente. Il maggior teorico
di tale visione è il filosofo francese
Pierre Lévy, con il suo libro L’intel-
ligenza collettiva. Per un’antropologia
del cyberspazio. Leggendolo però,
prosegue Spadaro, «ci si rende conto che le radici del suo pensiero sono molto antiche. L’intelligenza
collettiva realizzata dalle Reti ha infatti una radice esplicitamente teologica di origine medievale. Lévy
costruisce la sua teoria di comprensione dell’intelligenza in Rete basandosi sulla teologia neoplatonica
dei filosofi islamici dell’XI secolo
quali Al-Fârâbi e Ibn Sina, conosciuto come Avicenna. Essi hanno
posto al cuore della loro antropologia l’idea di un’intelligenza unica e
separata, identica per tutto il genere
umano, e che dunque può essere
considerata un intelletto comune,
una coscienza collettiva. L’intelletto
comune in tale quadro è concepito
come congiunzione tra Dio e gli
uomini».
Ebbene, Lévy si fa ispirare da
questa visione «e la ribalta, operando una conversione dal trascenden-
te all’immanente, dalla teologia
all’antropologia. Invertendo i termini dello schema, Dio si tramuta in
una possibilità aperta per il divenire
umano, il mondo angelico o celeste
diviene la regione dei mondi virtuali attraverso i quali gli esseri umani
si costituiscono in “intellettuali collettivi”».
«Nei ragionamenti di Lévy —
prosegue Spadaro — è attiva una
sfida. Come pensare una intelligenza comune tra gli uomini? La soluzione da lui adottata è l’adozione
dello schema teologico neoplatonico islamico, perché esso gli sembrava adatto a fornire categorie di pensiero. La sua strategia è stata quella
di capovolgerne la natura teologica
per farla diventare antropologica e sociologica fino a esiti di
carattere marxista. Uno dei
problemi maggiori dello schema è il ruolo della singola persona all’interno del sistema. La
sfida è dunque la seguente: sarà possibile pensare a una forma di intelligenza comune senza che essa diventi «collettiva»
in modo tale da assumere i
tratti di una utopia collettivistica
e
spersonalizzante?».
Derrik De Kerckhove «ha cercato di integrare l’approccio
del suo amico Lévy, preferendo
la definizione di “intelligenza
connettiva” a quella “collettiva”, valorizzando la prassi,
l’apertura alla connessione, piuttosto che la dimensione collettivista.
Ma la sfida resta aperta».
Spadaro conclude quindi citando
il vescovo di Ratisbona Gerhard
Ludwig Müller: «Nell’ottica della
costituzione Gaudium et spes del
concilio Vaticano II, internet è
un’eccellente possibilità per mettere
in rilievo la responsabilità della
Chiesa nella formazione di una cultura umana collettiva, per la quale
la società odierna, con la sua rete di
connessioni internazionali — globali
— fornisce del resto degli ottimi
presupposti».
«Il
periodo
filosofico
dell’epoca moderna — scrive
il gesuita Giovanni Cucci
nell’articolo Il peccato originale
nel pensiero moderno su «La
Civiltà Cattolica» — appare a
prima vista del tutto antitetico alle problematiche teologiche e religiose proprie dell’epoca medievale. Le sue radici vengono indicate nella rivoluzione scientifica, nell’autonomia del potere politico,
nella rivendicazione della razionalità come criterio unico
di verità». Eppure, continua
l’autore, «se dalle impressioni
globali si passa a esaminare
nel dettaglio le vicende e le
Il peccato non coincide
con il senso di colpa psicologico
il rimprovero spietato
del narcisista o il tormento
senza pace dello scrupoloso
opere dei principali filosofi di
questo periodo, si scopre con
stupore che le problematiche
speculative con cui si sono
confrontati hanno spesso avuto come interesse di ricerca
questioni proprie dell’indagine teologica». L’esempio più
chiaro è il problema del male
e un tema specificamente biblico e teologico come il peccato originale.
Un nodo che mette in
questione la supposta bontà
innata dell’uomo (vedi Rousseau), e nello stesso tempo
destabilizza il pensiero, interrogandolo circa il possibile
fondamento di senso per il
sapere, la vita, la storia. Se
infatti siamo radicalmente
abitati dal male, quale scopo
potrebbe avere opporsi all’ingiustizia,
alla
malvagità,
all’errore? La filosofia, e dunque l’uomo in quanto tale,
può rassegnarsi al male come
a un dato di fatto, così come
si accetta una giornata nuvolosa? Si tratta di interrogativi
che inquietano il percorso filosofico attuale; la modernità,
nata con l’esaltazione entusiasta della dignità dell’uomo e
del potere della ragione, finisce per constatare il declino
inesorabile di entrambi, costretti a lasciare il posto alle
derive dell’irrazionalità. Di
fronte al male — scrive
Cucci citando Finitudine
e colpa di Paul Ricœur —
il racconto della Genesi
contiene soprattutto una
promessa di salvezza, a
differenza dei miti tragici
e cosmogonici, o del ciclo delle reincarnazioni
dell’anima esiliata. Lo
sguardo di Dio, che ricorda la
colpa commessa, è un elemento decisivo, perché colloca la realtà del male in un
ambito relazionale, e apre alla
possibilità del perdono. La
relazione con Dio differenzia
il peccato dal senso di colpa
psicologico, dal rimprovero
spietato del narcisista o dal
tormento senza pace dello
scrupoloso. Una conseguenza
filosofica di questa lettura è
che il male non può essere
concepito come una sostanza
in sé autonoma, contrapposta
specularmente al bene; il bene rimane l’unica realtà, mentre il male è il suo venir meno, la sua distruzione.
Miró al Chiostro del Bramante
Un 17 marzo di festeggiamenti
«Bilancio e significato delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia». È questo il titolo dell’incontro che Giorgio
Napolitano, presidente della Repubblica Italiana, terrà sabato 17 marzo al
Palazzo del Quirinale per chiudere, nel giorno del compleanno dello Stato, l’anno di festeggiamenti per il centocinquantenario dell’unificazione. Il
17 marzo sarebbe dovuto anche essere il giorno di chiusura della mostra
«Il Quirinale. Dall’unità d’Italia ai nostri giorni», apertasi il 30 novembre
scorso. Il grande successo di pubblico — oltre centomila visitatori a oggi —
ha però indotto gli organizzatori a prorogare fino al 1° aprile l’esposizione
che illustra il contributo specifico svolto negli anni dalla Presidenza della
Repubblica nello svolgimento del ruolo affidatole dall’articolo 87 della
Costituzione del 1948, quello di rappresentante dell’Unità nazionale.
Con la giornata di sabato, si chiude anche la mostra documentaria
«Stato e Chiesa. Dal Risorgimento ai nostri giorni» allestita al Senato italiano, nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani. Curata da Emilia Campochiaro (responsabile dell’Archivio storico del Senato) e dal nostro Raffaele
Alessandrini, l’esposizione celebra il non casualmente coevo anniversario
della fondazione dello Stato italiano e dell’«Osservatore Romano», attraverso documenti inediti e preziosi provenienti dagli archivi della Segreteria
di Stato, dall’Archivio Segreto Vaticano, dall’Archivio storico del Senato,
dalla Biblioteca del Senato, dall’Archivio centrale dello Stato e dall’archivio del nostro giornale.
La questione del male
e il mondo moderno
Ottanta opere dell’artista catalano per la prima volta in Italia
Incontri e mostre per la chiusura del centocinquantenario dell’Unità d’Italia
Il palazzo del Quirinale
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Joan Miró, «Senza titolo» (1978)
«L’incontro di fantasia e di controllo, di oculatezza e di generosità, che forse si può considerare
una caratteristica della mentalità catalana, può
spiegare, in parte almeno, la base fondamentale
dell’arte e della personalità di Joan Miró» scrive
Gillo Dorfles in un saggio sull’artista che lasciò
un segno inconfondibile nell’ambito delle avanguardie europee; fantasia e controllo della forma si
incontrano anche nella mostra «Miró! Poesia e luce» ospitata dal 16 marzo al 10 giugno nella cornice rinascimentale del Chiostro del Bramante a Roma. L’esposizione presenta oltre ottanta lavori mai
giunti prima in Italia, tra cui cinquanta olii di
grande formato, ma anche terrecotte, bronzi e acquerelli. Si potranno ammirare tra i capolavori, gli
olii Donna nella via (1973) e Senza titolo (1978); i
bronzi come Donna (1967); gli schizzi tra cui quello per la decorazione murale per la Harkness
Commons-Harvard University, tutti provenienti
dalla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di
Maiorca. La curatrice, María Luisa Lax Cacho, ha
voluto illustrare l’ultima fase della produzione
dell’artista, quando egli finalmente concretizzò a
Maiorca nel 1956 il sogno di un ampio spazio tutto suo, dove lavorare protetto dal silenzio e dalla
pace. Lo studio che Miró aveva tanto desiderato è
stato ricostruito scenograficamente all’interno degli spazi espositivi; il catalogo è pubblicato da
24ore Cultura - Gruppo 24ore e presenta saggi di
Elvira Cámara, María Luisa Lax Cacho, Josep
Luís Sert e due interviste a Miró di Yvon Taillandier.
L’OSSERVATORE ROMANO
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venerdì 16 marzo 2012
Nuove prospettive di formazione presso l’Università cattolica del Pernambuco
Intervista ad Al Jazeera del cardinale Tauran
Sacerdoti brasiliani
a scuola di ecumenismo
Perché alla primavera
non segua l’inverno
di RICCARD O BURIGANA
«La nuova missione dell’Università
cattolica di Recife non è stata progettata: si è trattato di una chiamata
improvvisa, perché niente lasciava
immaginare la possibilità di creare
un percorso di formazione filosofico-teologica per i seminaristi da
parte dell’università, creando una
sempre più stretta collaborazione
con la Chiesa locale». Così il gesuita Pedro Rubens Ferreiro Oliveira,
rettore dell’Università Cattolica del
Pernambuco (Unicap), parla del
progetto di formare i futuri sacerdoti dell’arcidiocesi di Olinda e Recife
e degli ordini religiosi locali all’interno dell’ateneo.
Il progetto è venuto maturando
nel 2010, poco dopo la nomina del
benedettino
Antônio
Fernando
Saburido ad arcivescovo di Olinda e
Recife. Il presule si è fatto interprete della volontà di creare un percorso comune per tutti coloro che
nell’arcidiocesi si preparano all’ordinazione sacerdotale. Si è venuta così
configurando una «nuova missione»
dell’Università cattolica che si è trovata a operare sul piano locale con
forme completamente nuove rispetto a quelle che hanno caratterizzato
la sua attività di formazione fin dalla fondazione del 1951.
Padre Ferreiro Oliveira, docente
di teologia, che ha studiato a Parigi
con Christoph Theobald, ricorda la
«nuova missione» al termine di una
giornata di studio dedicata all’approfondimento della lettera apostolica di Papa Benedetto XVI Porta fidei sull’Anno della fede. L’incontro
è stato pensato soprattutto per gli
studenti in teologia nell’ambito di
questo cammino di formazione, arricchito da incontri e seminari per
una sempre maggiore attenzione al
presente della Chiesa cattolica.
L’appuntamento è stato aperto anche al clero dell’arcidiocesi di Olinda e Recife per riaffermare l’impegno a una formazione permanente
in campo teologico, con un particolare attenzione al dialogo ecumenico
e a quello tra le diverse religioni.
Proprio la dimensione del dialogo
è stato uno dei temi più dibattuti
nell’incontro, al quale hanno preso
anche parte i docenti dei corsi di
teologia e di storia, offrendo un
contributo multidisciplinare alla riflessione sulla lettera apostolica e
della nota della Congregazione per
la Dottrina della Fede riguardante
le indicazioni pastorali per l’Anno
della fede.
Da questa lettura multidisciplinare sono stati sottolineati l’importanza dell’inizio di una nuova evangelizzazione da parte della Chiesa cattolica a partire dalle realtà nelle
quali si sperimenta l’assenza dei valori cristiani. Senza però circoscriverla a questi ambienti, poiché si
deve promuovere un rinnovamento
delle comunità locali, che in Brasile
convivono con nuove forme di religiosità che, talvolta, si richiamano
solo apparentemente al cristianesimo. Si è posto così l’accento sulla
centralità della conoscenza dei documenti del concilio Vaticano II in
un anno nel quale se ne celebra il
50° anniversario dell’apertura, con la
consapevolezza che su questo aspetto ancora molto deve essere fatto
per la scoperta del suo ricco patri-
monio dogmatico, pastorale e spirituale.
Sulla conoscenza dei testi del Vaticano II, il rettore della Unicap ha
successivamente insistito ricordando
che «i documenti del concilio non
devono essere semplicemente letti o
citati, ma devono essere conosciuti
in profondità», poiché essi rappresentano una straordinaria fonte per
la riflessione e per l’insegnamento
della teologia. Si devono immaginare delle occasioni, soprattutto
nell’ambito dell’insegnamento della
teologia, in grado di favorire la conoscenza dei documenti conciliari
per i giovani studenti che sono ormai lontani cronologicamente dai
tempi della celebrazione del Vaticano II.
Nell’incontro dedicato alla Porta
fidei si è anche parlato della testimonianza quotidiana per l’unità dei
cristiani alla quale i cattolici sono
chiamati per una fedeltà alle parole
rivolte da Cristo alla Chiesa, così
come è stato chiaramente indicato
dal Vaticano II e dai Pontefici, da
Paolo VI a Benedetto XVI. Aspetto,
sottolineato in numerosi interventi,
nei quali non sono mancate le precisazioni sulla diversa natura del dialogo ecumenico rispetto al dialogo
tra le religioni.
Queste precisazioni hanno costituito un passaggio particolarmente
importante dell’incontro, tenuto
conto della situazione religiosa del
Brasile dove la Chiesa cattolica è
chiamata a confrontarsi non solo
con un sempre maggior numero di
comunità dell’universo pentecostale,
spesso in contrasto al loro interno,
ma con espressioni di sincretismo
religioso che niente hanno a che vedere con il cristianesimo, se non per
il richiamo alla figura di Gesù in un
pantheon di maestri di vita, senza alcun riferimento teologico alla missione salvifica di Cristo.
Come ha ricordato padre Ferreiro
Oliveira il tema della vocazione al
dialogo della Chiesa cattolica è centrale nell’esperienza della Unicap,
che chiede a tutti gli studenti iscritti
la frequenza a almeno due corsi di
teologia, uno dedicato al rapporto
della Chiesa con la società e l’altro
alla trascendenza di Dio nella storia
dell’uomo. L’impegno per la conoscenza della dottrina riguardante il
dialogo ecumenico e interreligioso
ha assunto sempre nuove forme nella Unicap nel tentativo di arricchire
la formazione filosofico-teologica e
di operare con maggiore efficacia
nella Chiesa e nella società contemporanea del nord-est del Brasile. Tra
le iniziative va segnalato il master in
Scienza delle religioni, coordinato
da Gilbraz de Souza Aragão. Questo corso, che è riconosciuto come
una delle realtà più dinamiche e
propositive nel campo delle scienze
della religione in Brasile, si propone
di offrire una conoscenza scientifica
della situazione religiosa brasiliana
in relazione al mondo della cultura
e alla società e delle tradizioni giudaico-cristiane, con una prospettiva
che non vuole essere circoscritta al
pur articolato contesto brasiliano.
Anche per questo il presente anno
accademico è stato aperto da una
prolusione sulle dinamiche interconfessionali, interreligiose e interculturali del Mediterraneo, alla luce del
confronto tra cristiani e istituzioni
europee sul tema dell’unità e del
contributo delle religioni alla «primavera araba».
Con questa offerta formativa e
culturale per il dialogo nella tradizione dell’insegnamento della Chiesa cattolica l’Unicap intende prendere parte al dibattito che caratterizza il presente della società brasiliana, che per padre Ferreiro Oliveira
«vive una stagione nella quale è
fondamentale offrire non solo conoscenze per il dialogo, ma soprattutto una metodologia del dialogo senza il quale si rischia di perdere di
vista la vera natura del dialogo». In
questa stagione la Chiesa è chiamata «a prendere parte alla riflessione
sui diritti umani, tanto viva in Brasile, ma soprattutto a testimoniare la
scelta irreversibile in favore dell’unità della Chiesa, così come è stato affermato dal Vaticano II».
ROMA, 15. Se i cristiani saranno costretti ad abbandonare il Medio
Oriente sarà una «tragedia»: è uno
scenario di desolazione che va assolutamente scongiurato quello che il
cardinale presidente del Pontificio
Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Jean-Louis Tauran, delinea in
un’intervista ad Al Jazeera, l’emittente televisiva più seguita nel mondo islamico. Un’occasione inedita
per affrontare temi spinosi come le
persecuzioni religiose e l’esodo dei
cristiani dal Medio Oriente, la complessa situazione dei Luoghi Santi,
come pure le prospettive della cosiddetta Primavera araba e l’intolleranza verso i musulmani immigrati
in Europa, dove lo «scontro di civiltà» rischia di diventare uno «scontro di ignoranze».
I contenuti dell’intervista, realizzata il 24 febbraio scorso a Roma
dal giornalista saudita di nazionalità
britannica Sami Zeidan, sono stati
anticipati oggi sul «Corriere della
Sera» da Marco Ventura, il quale
sottolinea come sia «la prima volta
che un ministro della Curia si rivolge all’universo arabo-musulmano in
un faccia a faccia televisivo». In
pratica, «una svolta comunicativa»
afferma Ventura. La parte centrale
dell’intervista — che da sabato andrà
in onda per tre giorni nel programma «Talk to Al Jazeera» e sarà accessibile gratuitamente sul sito (http:
//english.aljazeera.net/programmes/
talktojazeera) — riguarda le violenze
subite dai cristiani in diversi Paesi.
Spariranno, dunque, le comunità
cristiane dal Medio Oriente? «I cristiani — dice il cardinale nell’intervista secondo le anticipazioni del quotidiano italiano — condividono il destino dei popoli di quella regione e
dove non c’è pace, la gente soffre.
Per me la grande tentazione per i
cristiani in Medio Oriente è quella
di emigrare». Tuttavia, «se i cristiani lasciano il Medio Oriente — continua il porporato — sarà una tragedia, perché lasciano la terra in cui
sono nati. I cristiani hanno sempre
vissuto in Medio Oriente, se vanno
via i Luoghi Santi diventeranno musei, e sarebbe una catastrofe». Attualmente però, i cristiani sono
«bersagli di una specie di opposizione, si sentono cittadini di seconda classe in Paesi in cui i musulmani sono la maggioranza».
Un’altra importante questione riguarda la tutela dei Luoghi Santi.
Per il cardinale Tauran — secondo
l’anticipazione
dell’intervista
all’emittente — la posizione della
Chiesa «a volte è stata ignorata, ma
se il problema dei Luoghi Santi non
viene adeguatamente risolto, non ci
sarà pace in Medio Oriente. La
Santa Sede è l’unica che ha sempre
detto: per favore, non lasciate questo tema per l’ultimo minuto, è un
problema molto complesso, va trattato con grande intelligenza e buona conoscenza della storia. La Santa
Sede è favorevole a uno status sociale internazionalmente garantito per
la parte di Gerusalemme in cui i
Luoghi Santi delle tre fedi monoteistiche siano aperti ai credenti». Infine, una battuta sulla Primavera araba: «Le aspirazioni sono buone, è
nata da giovani in cerca di dignità,
libertà e lavoro, valori condivisi da
cristiani e musulmani, ma speriamo
che vada verso l’estate, non verso
l’inverno».
Padre Pizzaballa sulla basilica della Natività
Terra Santa
e tutela dell’Unesco
BETLEMME, 15. Il possibile inserimento della basilica della Natività
di Betlemme tra i siti tutelati
dall’Unesco suscita «perplessità»
tra i rappresentanti delle Chiese
cristiane di Terra Santa. A confermarlo è padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, che
annuncia su questo tema una presa
di posizione comune con il Patriarcato greco e quello armeno,
con cui quotidianamente viene divisa la gestione della basilica.
«Non abbiamo nessun problema
per il riconoscimento della città di
Betlemme come patrimonio Unesco — ha dichiarato il padre custode all’agenzia Sir — non siamo invece molto entusiasti per ciò che
riguarda la Natività». Infatti, «si
tratta di un’iniziativa che ci complica la gestione perché secondo le
norme dell’Unesco il responsabile
della gestione dei luoghi, davanti
all’agenzia Onu, è il Governo e
non il proprietario del sito».
Secondo i programmi, da parte
delle Autorità palestinesi verrà pre-
sto presentato all’Unesco un elenco di venti siti di rilevanza storica
e archeologica in vista di un eventuale riconoscimento come patrimonio dell’umanità. La presentazione è resa possibile dopo che lo
scorso 8 marzo è entrato in vigore
l’ingresso della Palestina nell’O rganizzazione delle Nazioni Unite
per l‘educazione, la scienza e la
cultura, votato il 31 ottobre 2011.
La lista, che verrà discussa
dall’Unesco nel prossimo giugno,
a San Pietroburgo, dovrebbe contenere, secondo quanto riferisce il
Patriarcato di Gerusalemme dei
Latini, siti quali la basilica della
Natività di Betlemme, Hebron, le
grotte di Qumran e le zone costiere di Gaza. «Come Custodia, Patriarcato greco e armeno abbiamo
ufficialmente chiesto all’Autorità
palestinese di fare richiesta solo
per la città lasciando fuori la basilica. Nei prossimi giorni ci incontreremo per redigere un testo comune ufficiale».
In Ucraina i presuli cattolici chiedono l’intervento dello Stato
Per salvaguardare il diritto di nascere
KIEV, 15. L’aborto non è mai una
soluzione. Per quanto difficili e
complesse possano risultare le circostanze, la soppressione di una vita
umana innocente nel grembo materno non può mai essere considerata
una via d’uscita moralmente accettabile. È quanto ribadiscono i presuli
cattolici — il sinodo della Chiesa
greco-cattolica e la Conferenza episcopale ucraina di rito latino — in
un messaggio congiunto, in cui
espressamente si chiede alle istituzioni governative di difendere il diritto alla vita, vietando per legge
l’interruzione volontaria di gravidanza. Messaggio, in cui i vescovi
ricordano anche gli effetti negativi
prodotti sulla società ucraina da un
massivo ricorso alla pratica abortiva.
E nel quale si richiamano i medici
alla coerenza con la nobiltà della lo-
ro professione, il cui compito è,
sempre e unicamente, quello di salvaguardare la vita umana.
I presuli cattolici affermano pertanto che «la comunità cristiana si
trova di fronte a una grande responsabilità morale nei riguardi di coloro
che considerano l’aborto come una
via d’uscita alle situazioni difficili».
In questa prospettiva, si rinnova
l’appello alle istituzioni. «Chiediamo che lo Stato ucraino confermi a
livello legislativo il diritto alla vita
degli esseri umani non ancora nati,
ma concepiti, vietando l’aborto».
Nel documento vengono poi richiamati i principi dottrinali fondamentali che la Chiesa pone alla base
del suo insegnamento. In particolare, si ribadisce come la vita umana
sia «sacra e intoccabile», in quanto
proviene e appartiene soltanto a
La festa di san Benedetto
nella tradizione bizantina
«Il 14 del mese di marzo, memoria
del nostro santo padre Benedetto.
Per la sua santa intercessione, o
Dio, abbi pietà di noi e salvaci.
Amen». Con questa indicazione il
sinassario bizantino segna la celebrazione di san Benedetto, celebrazione molto vicina a quella occidentale del 21 marzo, fatto che
indica una tradizione molto arcaica della commemorazione a marzo
del transito di san Benedetto. Nella ricorrenza, proprio la sera di
mercoledì 14 si è celebrata nella
chiesa di Sant’Atanasio in via del
Babuino, accanto al Pontificio
Collegio Greco di Roma, la Liturgia dei Doni Presantificati, che è
una liturgia del vespro con la comunione con i Santi Doni del
Corpo e del Sangue di Cristo consacrati la domenica precedente, come avviene in quaresima.
Alla liturgia, celebrata dal rettore archimandrita Manuel Nin e
cantata dai seminaristi del Collegio Greco, hanno preso parte nu-
merosi fedeli. Tra gli altri, erano
presenti il Patriarca melchita di
Antiochia Gregorio III Laham, il
vescovo Hilarion Capucci, della
stessa Chiesa melchita, l’abate Bruno Marin, presidente della Congregazione benedettina sublacense,
monsignor Maurizio Malvestiti,
sottosegretario della Congregazione per le Chiese orientali, l’archimandrita padre Sergio Gajek, della
Chiesa greco-cattolica della Bielorussia, padre Gabriel Buboi, rettore del Pontificio Collegio Pio Romeno, l’archimandrita Simeon
Katsinas, alcuni esponenti della
Chiesa greco-ortodossa a Roma e
il direttore del nostro giornale.
Hanno preso parte alla suggestiva
celebrazione liturgica anche numerosi monaci benedettini e cistercensi provenienti dai diversi monasteri romani e molti altri fedeli assidui alle liturgie di Sant’Atanasio.
La celebrazione si è conclusa con
un’agape fraterna nel Pontificio
Collegio Greco.
Dio. In questa luce, la tradizione
ecclesiale ha sempre vietato l’aborto,
indipendentemente dalla settimana
di gestazione. Infatti, la Chiesa considera «la distruzione di una vita
umana attraverso l’aborto alla stregua dell’omicidio intenzionale di
una persona». Una posizione che
non scaturisce solo dalla fede religiosa, ma che trova anche un’autorevole conferma nella scienza medica. In particolare, i presuli citano i
risultati dei moderni esami prenatali
effettuati attraverso test a ultrasuoni, i quali mostrano chiaramente come il feto, sin dai primissimi stadi
di vita, reagisca alle sollecitazioni e
sia estremamente sensibile al dolore.
Di qui anche l’invito rivolto ai medici a tenere in maggiore considerazione l’etica professionale. Infatti
l’aborto, viene sottolineato, rappresenta anche una grave violazione
dell’«alta vocazione dei medici», il
cui compito è quello di «occuparsi
della vita umana non per distruggerla, ma per salvarla».
Nel documento vengono poi citate le conseguenze dannose che la
pratica abortiva produce nella società ucraina. In particolare, viene citato l’alto tasso di sterilità delle famiglie (problema che riguarda circa un
milione di coppie) in gran parte
conseguente al ricorso all’interruzione di gravidanza.
In Ucraina, infatti, la mentalità
abortiva è assai diffusa e radicata.
Nel Paese la legislazione abortista è
stata introdotta sin dagli anni Venti
del secolo scorso, quando l’Ucraina
era parte dell’ex Unione Sovietica.
Attualmente, secondo dati ufficiali,
nel Paese, che conta poco più di 46
milioni abitanti, vengono praticati
ogni anno circa 200.000 aborti, quasi il doppio della media europea. E
uno su dieci viene effettuato su ragazze con meno di 19 anni. Nei fatti
l’aborto è largamente considerato alla stregua di un comune metodo
contraccettivo. Tanto che quando è
effettuato nell’arco delle prime sei o
sette settimane di gestazione non
viene neppure considerato come
aborto e, pertanto, non viene nemmeno inserito nei conteggi statistici.
Si comprende allora come i reali
tassi di abortività siano ancora più
allarmanti. Una recente ricerca condotta da una clinica cattolica della
cittadina di Mukacheve su migliaia
di donne ucraine ha messo in rilevo
come il tasso di recidività raggiunga
quasi il 90 per cento.
†
La Segreteria di Stato comunica che è
deceduta la
Signora
MADELEINE ROBIN
madre della Dott.ssa Monique Robin,
Addetto di Segreteria della Sezione
per gli Affari Generali della Segreteria
di Stato.
I Superiori ed i Colleghi partecipano al dolore della Dott.ssa Robin e dei
suoi Familiari, assicurando la vicinanza
nella preghiera per la cara defunta, che
affidano all’amore misericordioso del
Signore risorto.
L’OSSERVATORE ROMANO
venerdì 16 marzo 2012
pagina 7
L’episcopato cattolico in Argentina su una recente decisione della Corte Suprema di Giustizia
Le priorità del piano quadriennale di Caritas Brasile
La vita è sempre
un dono meraviglioso
Sviluppo solidale
e tutela ambientale
BUENOS AIRES, 15. «Non c’è nulla
che possa giustificare l’eliminazione
di una vita innocente». L’episcopato
cattolico in Argentina torna con forza a ribadire la ferma opposizione
alla diffusione dell’aborto, in una
dichiarazione del presidente, l’arcivescovo di Santa Fe de la Vera
Cruz,
monsignor
José
María
Arancedo, a commento della recente
decisione della Corte Suprema che
ha ratificato una sentenza emanata
da un tribunale distrettuale con la
quale si riconosce la possibilità, senza alcuna eccezione, di praticare
l’interruzione volontaria di gravidanza per le donne vittime di violenze
sessuali. Il presule, che ha anche
avuto un incontro con il presidente
della Corte Suprema, Ricardo
Lorenzetti, ha aggiunto, al termine
del colloquio, che si tratta di una
decisione che «indebolisce la difesa
della vita e che ora praticare un
aborto è più facile». La Corte Suprema, in particolare, ha ratificato la
sentenza di un tribunale della provincia settentrionale di Chubut che
riguarda il caso di una minorenne
vittima di abusi familiari. Il Codice
penale argentino stabilisce che
l’aborto non è punibile se la gravidanza è frutto di atto commesso
contro una donna affetta da disturbi
mentali o nei casi in cui sia a rischio
la vita o la salute della donna, ma
nello specifico è stata riconosciuta
dal tribunale la legittimità della volontà di abortire anche in assenza di
disturbi mentali della minorenne.
L’aborto nel Paese continua comunque a essere illegale, salvo in alcuni casi specifici e i medici che non
rispettano la legge sono punibili con
il carcere, tuttavia si osserva che la
ratifica da parte della Corte Suprema consente ora di accogliere nella
giurisprudenza il principio che
l’aborto causato da abuso è legittimo in ogni caso. Dall’episcopato —
riferisce l’agenzia Aica — si esprime
sorpresa per la decisione dell’organo
supremo di giustizia che di fatto legalizza l’aborto frutto di violenza sia
nel caso si tratti di donne sane che
affette da disturbi mentali. Nella dichiarazione del presidente della
Conferenza episcopale si sottolinea
che «l’aborto è la soppressione di
una vita innocente e non esiste alcun motivo o ragione che giustifichi
l’eliminazione di una vita innocente,
neppure nel caso triste e deplorevole
di violenza». Dall’episcopato, inol-
tre, si richiama il messaggio pubblicato lo scorso agosto dalla commissione permanente in occasione
dell’Anno della vita che si è celebrato nel 2011.
I vescovi ribadiscono che è assolutamente prioritario proteggere le
madri, soprattutto quelle che si trovano in uno stato di emarginazione
sociale o di gravi difficoltà al momento della gravidanza». La vita, è
aggiunto nel messaggio, «è un meraviglioso dono di Dio e che rende
possibili tutti gli altri beni umani».
Secondo i presuli quando una donna è incinta non si parla di una sola
vita, ma di due: quella della madre e
quella del nascituro. «Entrambi — si
puntualizza — devono essere tutelati
e rispettati. La biologia lo indica in
modo sorprendente: lo si vede attraverso il DNA, con la sequenza del genoma umano, che mostra come dal
momento del concepimento ci sia
una nuova vita umana, che deve
perciò essere protetta giuridicamente. Il diritto alla vita è il diritto
umano fondamentale».
I vescovi si dicono anche disponibili «ad ascoltare, seguire e capire
ogni situazione, assicurando che tutte le parti sociali interessate siano
corresponsabili nella tutela della vita
sia per il bambino sia per la madre
e siano rispettati, senza cadere in
scelte false. L’aborto non è mai una
soluzione». E nel concludere, fra
l’altro, auspicano: «Siamo convinti
che non possiamo costruire una nazione per tutti, se nel nostro progetto di Paese non prevale il diritto primario di tutti, senza eccezione: il diritto alla vita dal concepimento, proteggendo la vita della madre incinta,
fino alla morte naturale. Dobbiamo
trovare il modo di vigilare sulla vita
della madre e del bambino non ancora nato».
Il Presidente della Corte Suprema, Ricardo Lorenzetti, ha tenuto a
sottolineare che la sentenza «non
apre la strada» alla legalizzazione
dell’aborto, su cui può pronunciarsi
solo il Parlamento. Da parte sua, il
ministro della Giustizia, Julio Alak,
ha dichiarato che il Governo non ha
nessuna intenzione di presentare
una legge che legalizzi l’aborto, sottolineando che si tratta di «una questione che richiede un approfondito
dibattito». Tuttavia, a seguito della
decisione, è spiegato «i medici non
avranno più bisogno dell’approvazione dei tribunali. Dovranno solo
avere una dichiarazione delle vittima
o del suo legale in cui si afferma che
la gravidanza è l’esito di una violenza». Dalla Corte Suprema si puntualizza anche che la decisione «ha
posto fine ad alcune incertezze in
merito all’applicazione della legge»
e che le vittime di abusi «non possono essere esentate dall’esercitare i
loro diritti». La decisione della Corte è sostenuta da diverse organizzazioni e istituti. Secondo alcune stime in Argentina ogni anno vengono
praticati circa 500.000 aborti. Numerose sono le donne che muoiono,
soprattutto le più povere e le più
giovani, che si sottopongono alla
pratica in condizioni spesso di
degrado. L’aborto clandestino è la
prima causa di morte materna: dal
1983 a oggi sono morte oltre tremila
donne.
RIO DE JANEIRO, 15. Impegno nella
costruzione dello sviluppo solidale
sostenibile e territoriale, nella prospettiva di un progetto popolare di
società democratica. Questo, in sintesi, quanto stabilito nel piano quadriennale (2012-2015) di Caritas
Brasile. Numerosi operatori provenienti da tutto il Paese hanno preso
parte, nei giorni scorsi, al forum nazionale organizzato dall’ente caritativo.
A differenza del precedente piano quadriennale, la rete Caritas ha
definito come linea guida generale
di azione il proprio impegno nella
tutela e nella salvaguardia dell’ambiente e delle popolazioni indigene.
Nello specifico, sono state stabilite
tre priorità che guideranno le azioni
nei prossimi quattro anni. La prima
riguarda la «promozione e il rafforzamento delle iniziative locali e territoriali di sviluppo solidale e sostenibile». A tal fine sono stati individuati i seguenti obiettivi: promuovere la critica e la denuncia del modello di sviluppo capitalistico e dei
suoi effetti sociali e ambientali; riaffermare la costruzione del progetto
popolare per il Brasile a partire dalle esperienze locali e territoriali;
contribuire allo sviluppo di strategie di convivenza con l’ambiente
naturale e il suo ecosistema, tutelando e difendendo i territori dei
popoli e delle comunità tradizionali; promuovere e rafforzare le iniziative di sovranità e sicurezza alimentare e nutrizionale; infine favorire lo
sviluppo e il coordinamento di iniziative di economia popolare solidale. I programmi nei quali è impegnata la Caritas brasiliana includono altresì corsi di formazione sulla
salvaguardia dell’ambiente. Questo
genere di programmi vertono
sull’educazione delle persone riguardo l’importanza di conservare
il patrimonio naturale, in particolare le foreste e i bacini fluviali.
La seconda priorità prevede l’impegno della Caritas per la «tutela e
la promozione dei diritti, nonché la
mobilitazione e il controllo sociale
delle politiche pubbliche». A tal riguardo l’ente caritativo ha definito
altri quattro obiettivi: promuovere e
sostenere iniziative di tutela dei diritti delle popolazioni più vulnerabili in stato di emergenza; rafforzare la mobilitazione sociale e la capacità di influenzare le politiche
pubbliche; sviluppare il coordinamento della rete Caritas con le organizzazioni della società civile e i
movimenti sociali; articolare azioni
della rete Caritas nelle aree urbane
nella prospettiva del diritto alla cittadinanza.
La terza priorità riguarda l’organizzazione e il rafforzamento di Caritas Brasile. Nello specifico, ampliare la rete Caritas, con particolare attenzione alle realtà diocesane e
regionali; incorraggiare il coordinamento tra le entità-membro già esistenti; rafforzare la comunicazione
per una mobilitazione sociale e delle risorse; garantire processi di formazione nell’ambito della rete Caritas; favorire la gestione condivisa
tra tutti gli organismi; rafforzare e
articolare la rete con le pastorali sociali, le associazioni e tutta la Chiesa; promuovere il volontariato e,
infine, ravvivare l’esperienza spirituale della Caritas in una prospettiva ecumenica e di dialogo interreligioso.
Per il prossimo quadriennio, il
forum ha individuato e stabilito diversi gruppi di lavoro: gioventù, gestione di rischio, formazione, mobilitazione delle risorse, relazioni internazionali, volontariato e questione urbana. Inoltre, sono state stabilite le reti di agenti della comunicazione e di economia popolare solidale.
A termine dei lavori del forum
nazionale di Caritas Brasile si è
svolta la 78ª riunione del consiglio
consultivo dell’ente. Si tratta di uno
spazio di dialogo tra il segreteriato
nazionale e le Caritas regionali. Tra
i principali temi affrontati la sostenibilità e la regolamentazione della
rete di coordinamento per «Rio
+20», la conferenza sul clima e la
sostenibilità che si svolgerà dal 20
al 22 giugno prossimo a Rio de Janeiro. L’evento rappresenta una sfida importante che permetterà, attraverso uno sforzo congiunto da
parte dei Governi e dell’intera società civile, di raggiungere obiettivi
comuni e tutelare gli equilibri del
pianeta, verso un nuovo assetto per
lo sviluppo sostenibile globale e per
l’umanità. Obiettivo finale è rafforzare l’impegno politico per lo sviluppo sostenibile con l’identificazione di un nuovo paradigma di
crescita economica, socialmente
equa e ambientalmente sostenibile.
Accordo tra i vescovi e l’Istituto penitenziario del Perú
Appello del cardinale Julio Sandoval Terrazas contro il crescere del numero di linciaggi in Bolivia
Carcere
e dignità della persona
La risposta alla violenza
non è mai la violenza
LIMA, 15. Rendere più umana la vita nel carcere, promuovere, difendere la dignità e i diritti della persona, incoraggiare e sviluppare
l’assistenza religiosa e le attività
complementari legate al reinserimento sociale dei detenuti ospitati
nelle carceri del Paese, attraverso
l’azione della pastorale carceraria
in ciascuna giurisdizione ecclesiastica. Con questi intenti i rappresentanti della Conferenza episcopale peruviana (Cep) e dell’Istituto
nazionale penitenziario del Perú
(Inpe) hanno firmato un accordo
che rinnova i legami di cooperazione tra le due istituzioni. L’incontro si è svolto, nei giorni scorsi,
nell’auditorium della Conferenza
episcopale, a Lima, alla presenza
di monsignor. Salvador Piñeiro, arcivescovo di Ayacucho e presidente
della Conferenza episcopale peruviana; di Juan Jimenez Mayor, ministro della Giustizia; di José Luis
Pérez Guadalupe, capo dell’Inpe.
Con l’accordo si cercherà di stabilire, attraverso i direttori delle prigioni e in coordinamento con la
Commissione pastorale della Chiesa cattolica, quali siano i meccanismi e i requisiti necessari perché
«il programma di lavoro per la
promozione umana e lo sviluppo
personale integrale sia accettato
come parte del trattamento dei detenuti, maschi e femmine, e la loro
partecipazione possa essere considerata nelle relazioni psicologiche
e sociali». La nota inviata dalla
Conferenza episcopale del Perú all’agenzia Fides conclude affermando che questi, tra gli altri, sono gli
impegni che «uniscono per la cura
di ogni fratello e sorella, fatti ad
immagine di Dio e con pari dignità, che per varie ragioni finiscono
nelle carceri del Perú».
Le carceri del Paese sono assai
affollate. Ve ne sono alcune fornite
di qualche comodità, ma in altre le
condizioni di vita sono assai precarie, per non dire indegne dell’essere umano. I dati — hanno denunciato, in più occasioni, i vescovi —
sono sotto gli occhi di tutti e «ci
dicono che questa forma punitiva
in genere riesce solo in parte a far
fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di
quelli che tenta di risolvere».
In questa realtà, i presuli peruviani, dando voce ai forti e ripetuti
appelli giunti dalle carceri del Paese, hanno sollecitato soprattutto un
adeguamento delle strutture carcerarie insieme con una revisione della legislazione penale. Per i vescovi
dovrebbero essere finalmente cancellate dalla legislazione tutte quelle norme «contrarie alla dignità e
ai fondamentali diritti dell’uomo»,
come pure le leggi che ostacolano
l’esercizio della libertà religiosa per
i detenuti. Saranno anche da rivedere i regolamenti carcerari che
«non prestano sufficiente attenzione ai malati gravi ed a quelli terminali; ugualmente andrebbero potenziate le istituzioni preposte alla
tutela legale dei più poveri. Le
problematiche relative alla carcerazione — evidenziano i presuli —
non riguardano solamente le condizioni di detenzione ma si riferiscono alla fase del reinserimento
sociale degli ex-detenuti. In questo
senso il carcere dovrebbe aprirsi
sempre di più al territorio. È cresciuta l’esigenza di stabilire una rete di contatti tra il carcere e il territorio, anche in vista della liberazione del detenuto e del suo reinserimento nella società.
SANTA CRUZ, 15. «Siamo chiamati a
dare risposte concrete e urgenti a
tutto ciò che si oppone alla vita, perché la Parola del Signore è chiara
quando dice “non uccidere”. In questo, Dio è determinato, chiaro e preciso, non si può reinterpretare la volontà di Dio, il Dio della vita non
vuole la morte». È quanto ha sottolineato il cardinale Julio Sandoval
Terrazas, arcivescovo di Santa Cruz
de la Sierra e presidente della Conferenza episcopale boliviana (Ceb),
deplorando i linciaggi e gli omicidi
che si sono verificati di recente nel
Paese. Il porporato ha chiesto di fermare queste azioni violente, rigettando «la morte data da leggi umane,
che possono sempre sbagliare e commettere ingiustizia, e la morte decisa
da alcuni con le proprie mani». Una
settimana fa nella comunità di Quila
Quila (a 25 km da Sucre, la capitale
costituzionale del Paese ), gli abitanti del luogo hanno sorpreso due persone che stavano rubando nella chiesa del paese e, dopo averle legate e
picchiate, le hanno sepolte vive vicino alla chiesa. La polizia ha ritrovato i corpi dopo diversi tentativi di
dialogo con la gente del posto, che
continuava a ripetere «il popolo ha
fatto giustizia». Inoltre, quattro giorni fa, l’intervento delle autorità avvisate da un sacerdote cattolico ha evitato il linciaggio di altri due presunti
ladri, sempre da parte degli abitanti
di Quila Quila. Nella zona non è la
prima volta che accadono episodi
del genere. Il cardinale Terrazas ha
chiesto di «non ripetere quanto avvenuto nel passato, e di non lasciarsi
ingannare da coloro che cercano
l’odio e la vendetta, o da coloro che
applaudono misure sempre più severe ma non riescono ad arrivare al
cuore di ciò che provoca il danno, le
lesioni, il male». Il porporato ha
esortato anche di non abituarsi a
sentire parole di morte e di vendetta
con le proprie mani, perché in questo modo si introduce una pericolosa
cultura della morte nelle famiglie e
nella gente. Nel tempo privilegiato
del cammino quaresimale — ha detto
ancora — tutti e ciascuno, specialmente i cristiani e gli uomini di buona volontà, sono chiamati a «scrollarsi di dosso la pigrizia spirituale in
cui viviamo chiedendo al Signore di
purificare le menti e i cuori. Solo così è possibile ricostruire le personali
relazioni con Dio e con i nostri fratelli».
Il tragico e crescente fenomeno
dei linciaggi in varie parti del Paese
sta assumendo caratteristiche di violenza brutale e disumana, giustificandosi con argomenti insostenibili.
In più occasioni la Conferenza epi-
scopale boliviana (Ceb) ha espresso
il dolore e l’ansia per questi atti di
violenza che stanno sfilacciando la
convivenza, diffondendo paura, insicurezza, diffidenze e chiusure tra la
gente. «È importante notare — scrivevano i vescovi — che questi casi
sono dovuti anche ad una fraintesa
“giustizia comunitaria”, forse alimentata dall’ambiguità nella legislazione
vigente, che non regolamenta l’ambito delle applicazioni e delle responsabilità, e nella quale si cerca di proteggere molti degli autori di tali crimini». Il testo riaffermava la validità
dei principi cristiani: «Una vera democrazia non si costruisce sulla morte, bisogna avere la capacità di trovare alternative per riabilitare le persone che commettono reati gravi, ma
non eliminarle mai, non è etico, non
è umano, tanto meno cristiano». In
tutti gli interventi i presuli hanno
lanciato un appello alla comunità
cristiana e alle autorità: «In quanto
Chiesa cattolica, chiediamo a tutti i
boliviani di sconfiggere e di bandire
definitivamente dal nostro Paese
queste pratiche disumane, per riscoprire i veri valori umani e cristiani
che nascono dalla fede nel Dio della
vita e dell’amore. Chiediamo agli organi responsabili, civili e della polizia, di sforzarsi al massimo e di
prendere urgentemente tutte le misure necessarie, fondate sul diritto, per
bandire questo flagello». Secondo i
vescovi della Bolivia «non è possibile che Governo e istituzioni della società possano accettare queste azioni.
È necessario un lavoro urgente, al
quale sono chiamate tutte le componenti della società, per prevenire
questo genere di fatti, evitando che
le famiglie boliviane continuino a
piangere. Si tratta, più in generale,
di perseguire la via del bene comune».
L’OSSERVATORE ROMANO
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venerdì 16 marzo 2012
A colloquio con l’arcivescovo di Dublino sul congresso eucaristico internazionale
La campana chiama a raccolta
la Chiesa in Irlanda
di MARIO PONZI
Non evento isolato ma momento di
grazia, soprattutto per un cattolicesimo che sta cercando di rinnovarsi
dopo un tempo difficile e, per tanti
aspetti, drammatico. Così la Chiesa
che è in Irlanda intende vivere la celebrazione del cinquantesimo congresso eucaristico internazionale,
convocato a Dublino dal 10 al 17
giugno prossimi sul tema «L’Eucaristia: comunione con Cristo e tra di
noi». «La nostra comunità — dice
l’arcivescovo di Dublino Diarmuid
Martin nell’intervista rilasciata al nostro giornale — è ferita, addolorata
per le sofferenze che ancora oggi
sopportano i minori vittime degli
abusi subiti, per quelle dei loro familiari. Ma è anche una Chiesa che
ha decisamente preso la strada del
rinnovamento più profondo, sulle linee tracciate da Benedetto XVI nella
sua lettera ai vescovi del Paese. E il
congresso eucaristico che stiamo preparando, costituisce un elemento
fondamentale di questo nostro cammino. Dunque lo viviamo come un
evento destinato a protrarsi per noi
nel tempo, proprio perché il ritrovarci attorno all’Eucaristia tutti insieme
per riscoprire il senso della nostra
comunione con Gesù e tra di noi,
costituisce il nucleo centrale del rinnovamento della Chiesa che è in Irlanda».
Dopo ottanta anni l’Irlanda ospita di
nuovo un Congresso eucaristico internazionale. Quello del 1932 capitò in
un periodo di profonde divisioni, dovute
in gran parte agli esiti di una guerra
che aveva spaccato in due il Paese. Divisioni che, nonostante fossero passati
dieci anni, ancora persistevano. Trova
delle analogie tra i due eventi?
Certamente anche il congresso eucaristico internazionale celebrato nel
1932 fu un grande evento. Si svolse
nelle forme tradizionali proprie del
tempo, con grandi processioni per le
vie cittadine, con una grande partecipazione di folla. Quello che stiamo
per celebrare non sarà così, nel senso che si guarderà molto più alla sostanza, al contenuto piuttosto che alla forma. Ma io non credo siano
queste le analogie. Effettivamente
quel primo congresso giunse in un
momento molto difficile per il Paese.
L’allora arcivescovo di Dublino si
era adoperato tantissimo per scongiurare la guerra civile che sconvolse
il Paese dal 1920 al 1922. Era consapevole dei disastri che avrebbe comportato e non solo sul piano materiale. Non riuscì nel suo intento.
Preoccupato per il perdurare delle
divisioni a dieci anni dalla conclusione del conflitto, pensò che l’organizzazione e la partecipazione a un
evento come il congresso eucaristico
sarebbero state un’occasione da cogliere per riunire insieme le due anime d’Irlanda in conflitto tra di loro
e ricondurle alla riconciliazione. Bene io credo che il prossimo congresso avrà i medesimi effetti. Vedrà i
cattolici irlandesi lasciar da parte
contrasti e divisioni causati da un
periodo che io considero tra i più
dolorosi della storia della nostra
Chiesa, per collaborare insieme nella
realizzazione di un evento che ritengo fondamentale proprio per riscoprire la necessità di stare insieme nel
cammino di ricostruzione.
Quali reazioni ha suscitato la notizia
della celebrazione del congresso a Dublino proprio all’indomani di un momento così difficile?
Inizialmente è stata accolta con
molto scetticismo. In tanti hanno
pensato che volevamo riportare la
Chiesa indietro nel tempo per non
guardare al presente. Però con il trascorrere dei giorni, ma soprattutto
grazie all’insegnamento di vescovi e
sacerdoti sul significato vero di questa nuova convocazione attorno
all’Eucaristia, l’interesse aumenta e
anche i media nazionali riservano attenzione a quello che ora viene definito un «grande evento». Direi che
il cinismo che aveva accolto l’annuncio sta via via cedendo il passo alla
percezione dell’importanza di questo
evento, non solo per la Chiesa ma
per tutto il Paese.
Lei ha fatto cenno al cammino di rinnovamento intrapreso dalla Chiesa in
Irlanda. Ci vuole indicare quale strada
è stata scelta e in quale modo potrà
contribuire il Congresso?
Naturalmente il cammino intrapreso segue i passi ispirati da Benedetto XVI attraverso la lettera indirizzata ai presuli del Paese il 19 marzo
suggerimenti offerti all’episcopato
dal Papa stesso con la sua lettera.
2010. L’idea che ci guida è quella di
chiamare a raccolta tutte le forze vive della Chiesa attorno all’Eucaristia
per riscoprire il senso della nostra
comunione. Dunque il congresso è
l’occasione giusta per rendere esplicita la convocazione e anche per verificare la risposta dei fedeli. Per
questo motivo, tanto per fare un
esempio, ho voluto che a rendere
l’idea della convocazione per il congresso fosse il pellegrinaggio nel
Paese di una piccola campana, quella stessa benedetta dal Papa durante
l’udienza generale di mercoledì scorso. Proviene da una piccola chiesa
diroccata. Ci è stata donata affinché
non andasse dispersa. E abbiamo
pensato di farla peregrinare in tutto
il Paese proprio per chiamare a raccolta i fedeli attorno a un avvenimento fondamentale per la vita nuova della nostra comunità. Non solo:
l’abbiamo fatta girare anche tra gli
anglicani e le altre comunità cristiane La campana è il simbolo per eccellenza della convocazione per la
preghiera. Ecco, intendiamo chiamare a raccolta i fedeli per pregare. La
preghiera è il viatico necessario al
rinnovamento pastorale e spirituale
soprattutto dopo le difficoltà procurate dagli scandali che si sono verificati.
Per esempio?
Il primo impegno riguarda la formazione dei futuri sacerdoti. Dunque il seminario. Ci sono norme
nuove per l’ammissione dei candidati, più rigide e che conferiscono più
poteri ai rettori. Si tratta soprattutto
di norme che mirano non solo a una
rigorosa selezione qualitativa degli
aspiranti al sacerdozio ma anche alla
qualità dell’insegnamento che viene
dato, dunque alla qualità dell’insegnante. E su questo c’è una fitta rete
di controllo. Per ciò che riguarda le
singole diocesi a tutti i vescovi è stato rivolto l’invito a rivedere e a rafforzare le norme a protezione dei
bambini in tutte le attività della
Chiesa. È stata istituita una commissione nazionale che controlla a ogni
livello che le norme siano rispettate.
Lo fa attraverso verifiche periodiche,
programmate e strutturate in ogni
singola diocesi. È stato poi istituito
l’obbligo della verifica delle qualità
morali di ogni persona destinata a
un lavoro pastorale con i bambini.
La verifica si attua anche attraverso
una specifica collaborazione con gli
organi di polizia. Quello però che
mi preme sottolineare è che si tratta
non di singoli processi o di singoli
provvedimenti: tutto rientra in un
unico progetto di rinnovamento pastorale, che riguarda tutti i campi
dell’operare della Chiesa e non è legato soltanto a situazioni contingenti, come appunto gli scandali che ci
hanno sconvolto. In questo senso viviamo anche il Congresso eucaristico
come parte integrante di questo progetto. Incentrato sull’Eucaristia esso
richiama perfettamente l’attenzione
sul punto centrale del rinnovamento
in corso, l’Eucaristia appunto.
Per una società sempre più attratta da
correnti secolariste pensa sia sufficiente
l’invito alla preghiera per recuperare
immagine e credibilità così compromesse?
Indubbiamente l’Irlanda, come
del resto molti altri Paesi, è attraversata da una pericolosa corrente secolarista, e in alcuni casi addirittura
anticlericale. Del resto è una cultura
che sta cambiando, a prescindere dagli avvenimenti, e anche la Chiesa è
coinvolta in questo cambiamento.
Nessun dubbio dunque che dobbiamo puntare al rinnovamento, soprattutto a quello spirituale e dunque
pastorale. E la preghiera ci da la forza necessaria per farlo. È evidente
però che non ci si può limitare a
questo, bisogna tradurre la preghiera
e la pastorale stessa in fatti concreti.
Come ho detto ci stiamo muovendo,
come Chiesa, secondo le indicazioni
scaturite dalla visita apostolica e
contenute nella relazione finale, che
sarà pubblicata a breve, e secondo i
In tutto questo processo che posto occupano i minori vittime degli abusi e le
loro famiglie?
Costituiscono una ferita difficilmente rimarginabile nel cuore di una
Chiesa addolorata per le sofferenze
che devono sopportare ancora oggi
tante persone. C’è un grande impegno da parte nostra per restituire loro serenità, per ottenere il perdono
necessario a ricostruire un legame
violato. In ogni diocesi è stato costi-
tuito un centro di assistenza a loro
dedicato; in ogni parrocchia ci sono
centri di accoglienza, di ascolto, di
sostegno. A quanti si rivolgono a
questi centri viene assicurata vicinanza e assistenza immediata, di qualsiasi tipo.
Ci può fare un esempio?
La richiesta più frequente è quella
di un aiuto a superare il trauma subito. Nel giro di una ventina di giorni viene messo a disposizione uno
psicologo in modo gratuito. Diversamente si riesce ad accedere a un servizio di questo tipo in non meno di
un anno. Poi inizia il lavoro di accompagnamento e condivisione di
tutto il cammino che si vorrà o si
dovrà compiere insieme.
Quanti sino a oggi si sono rivolti alla
Chiesa per essere assistiti in questo
senso?
È difficile dare cifre, soprattutto
perché c’è di mezzo la salvaguardia
dell’anonimato. Io credo però, stando almeno alle notizie a me pervenute, che si tratti di diverse centinaia
di persone.
E in tutto questo come è cambiato, se è
cambiato, il rapporto con le autorità?
Dopo un primo momento di irrigidimento, le cose vanno lentamente
ma progressivamente migliorando.
In pratica è come se fosse iniziato
un rapporto nuovo che deve raggiungere il suo compimento. Certamente c’è considerazione del grande
impegno che la Chiesa ha messo in
campo.
Cosa si attende in definitiva la Chiesa
in Irlanda dal prossimo appuntamento
eucaristico?
Un forte richiamo alla corresponsabilità di tutti per andare avanti
verso un rinnovamento centrato
sull’Eucaristia. Che ciò sia possibile
lo dimostra proprio la risposta che
prima di tutti è venuta dalle Chiese
locali di altre nazioni. La partecipazione annunciata dai vescovi di tutti
i Paesi è straordinaria, in alcuni casi
eccezionale. È un messaggio chiaro.
Come risponderanno i fedeli è tutto
da verificare. Però proprio grazie al
pellegrinaggio della nostra campana,
possiamo dire di avere fiducia. Il
San Patrizio, patrono d’Irlanda, la cui memoria liturgica ricorre sabato 17 marzo
congresso, si svolgerà in sette giornate incentrate su convegni, il cui
momento centrale sarà comunque la
messa quotidiana. Si concluderà con
la celebrazione comune nello stadio
di Dublino presieduta dal Legato
pontificio.
Qual è il programma?
Il primo giorno sarà dedicato al
battesimo, un sacramento che accomuna tutti i cristiani. Abbiamo invitato, per sottolineare questo aspetto,
l’arcivescovo anglicano di Dublino;
ci sarà anche un metropolita della
Chiesa ortodossa russa, uno della
Chiesa ortodossa greca, il capo della
comunità dei focolari, il priore di
Taizé. Il secondo giorno tratteremo
il tema del matrimonio e della famiglia; il terzo il sacerdozio e il servizio nel ministero della comunione; il
quarto giorno sarà dedicato alla riconciliazione, argomento molto importante per la Chiesa in Irlanda; il
quinto giorno lo dedicheremo a sofferenza e guarigione; il sabato infine
sarà dedicato a Maria. Sarà dunque
una panoramica completa di quella
missione sacerdotale che il Papa ha
chiesto a tutti i vescovi per farci cre-
Il cardinale Stanisław Dziwisz a Genova ricorda Giovanni Paolo
scere, soprattutto noi vescovi e sacerdoti. Non bisogna dimenticare che
qui ci sono tanti sacerdoti — e sono
poi la maggioranza — i quali hanno
lavorato bene, hanno aiutato tanti
giovani a trovare il loro spazio, il loro futuro. D’altra parte questo è accaduto e non doveva assolutamente
accadere. Le vittime sono quelle che
portano una ferita profonda, che
non guarisce in pochi giorni. Sono
loro la prima, vera, grande preoccupazione ed è a loro che oggi dedichiamo tutta la nostra attenzione.
Infine vorrei sottolineare il fatto che
il congresso non è e non resterà un
fatto isolato. Fa parte di quest’ampio
progetto di rinnovamento già avviato. La partecipazione internazionale
è notevole, anche ad altissimo livello. E questo è un fatto non trascurabile. Ci auguriamo di riuscire a
smuovere il popolo irlandese. Noi ci
poniamo come una grande fiera di
idee per il rinnovamento della Chiesa al quale tutti sono invitati a partecipare. Costruire una grande Chiesa
credo significhi anche offrire un contributo importante per la costruzione di una grande società.
II
Un Papa e un esempio per il nostro tempo
di SERGIO CASALI
Quarant’anni di servizio come
segretario particolare di Karol
Wojtyła. Una vita al fianco dell’uomo che ha viaggiato e incontrato
persone come nessuno aveva mai
fatto. E poi udienze, incontri, il sostegno nei momenti difficili dell’attentato e della malattia. Fino alle
ultime ore, quando fu lui a impartire al Papa in punto di morte la benedizione degli infermi. «Eppure la
mia avventura con Giovanni Paolo
II continua ancora. Perché mi ha
fatto suo esecutore testamentario,
ma soprattutto perché sono rimasto
il custode della sua memoria». Stanisław Dziwisz oggi è un cardinale,
arcivescovo di Cracovia, ma per tanti lui rimane don Stanislao, il segretario di Papa Wojtyła: e mentre lo si
ascolta tratteggiare il carattere e la
spiritualità di Giovanni Paolo II, è
davvero difficile non visualizzare
l’immagine vivissima del Papa venu-
to da lontano. Mercoledì sera il cardinale Dziwisz era a Genova, su invito dell’arcivescovo della diocesi ligure, il cardinale Angelo Bagnasco,
che ha voluto centrare sul ricordo
del Pontefice polacco l’ultimo incontro del fortunato ciclo «Cattedrale aperta». Nel pomeriggio, Dziwisz ha visitato la basilica dell’Annunziata, il «quartier generale» della Comunità di Sant’Egidio di Genova per un saluto alla comunità e
per benedire una nuovissima icona
del beato Giovanni Paolo II. Il cardinale ha ricordato il grande affetto
di Papa Wojtyła per Sant’Egidio e
per i movimenti ecclesiali e la sua
gratitudine per il lavoro di pace, di
incontro con le religioni, di amore
per i poveri. «Oggi si parla di nuova evangelizzazione — ha spiegato —
e questa espressione è stata coniata
dal santo padre Giovanni Paolo II
tanti anni fa: la Comunità di
Sant’Egidio ha fatto propria questa
vocazione fin dall’inizio, preoccu-
pandosi dei bisognosi, della gioventù, di quelli che cercavano aiuto. Il
Papa era molto unito al vostro movimento, aveva bisogno di gruppi
come il vostro e anche il vostro movimento è molto legato a lui». La
visita a Genova è proseguita di sera,
con l’incontro nella cattedrale di
San Lorenzo. Il cardinale Dziwisz
ha salutato l’arcivescovo e tutta la
diocesi con affetto, ricordando le
due visite a Genova di Giovanni
Paolo II e ha voluto donare due reliquie. Poi, la descrizione di alcuni
tratti fondamentali del carattere e
della spiritualità di Karol Wojtyła
che resta — come ricorda il titolo
della conferenza — «un Papa e un
esempio per il nostro tempo». Visse
un tempo difficile, sperimentando la
ferocia del totalitarismo nazista come di quello comunista «la dittatura del proletariato diviene sempre
dittatura sul proletariato», spiegava,
e fu durante la seconda guerra mondiale che maturò la sua vocazione
sacerdotale: «È l’esperienza della vita di Wojtyła che spiega la sua sensibilità sul tema della dignità
dell’uomo». Il Papa si era reso conto di come tutti i regimi autoritari
costruiscano il loro potere sulla paura — ha spiegato ancora il cardinale
— «e per questo riteneva che l’arma
più efficace fosse la liberazione dalla paura, come anche la verità e la
libertà. Era convinto che non ci può
essere programma di lotta migliore
della solidarietà». Fine intellettuale,
uomo colto e sensibile al fascino
dell’arte, «Karol Wojtyła capiva il
mondo della scienza e quando incontrava gli uomini di cultura parlava come uno di loro, ma sapeva anche accompagnarli nel profondo e
indicare il senso ultimo, trascendente, della ricerca. Voleva una Chiesa
vicina al mondo e il mondo più vicino alla Chiesa: per questo era necessario secondo lui evangelizzare la
scienza, perché essa condiziona il
modo di pensare degli uomini». Fu
molto attento ai problemi dell’uomo
contemporaneo e maturò una simpatia istintiva e profonda verso i
giovani, fino all’intuizione delle
Giornate mondiali della gioventù:
«Che non sono solo grandi eventi —
ha detto l’arcivescovo di Cracovia —
ma riescono a infrangere lo spirito
dell’individualismo e a far crescere
nei giovani il senso di appartenenza
alla famiglia umana e alla Chiesa
universale». Karol Wojtyła, dunque,
fu un uomo del dialogo: con la storia, con il mondo della cultura, tra
le diverse generazioni, ma anche
con le altre confessioni cristiane e le
tradizioni religiose. L’immagine forse più nota ed eloquente fu quella
dell’incontro di Assisi, nel 1986 che
spiega come «Giovanni Paolo II riteneva che di fronte ai gravi problemi del mondo, le grandi religioni
dovessero parlare con una voce sola». Resta comunque aperto il mistero della vita di questo grande uomo spirituale, che traeva la sua for-
za da un’intensa vita di preghiera,
dall’eucarestia quotidiana, da un
dialogo ininterrotto con il Signore:
«Un uomo — ha affermato il suo ex
segretario — che ha tenuto discorsi,
ha insegnato, ha scritto documenti
fondamentali, ma, alla fine, ha parlato nel modo più significativo con
la sua sofferenza e la sua santità».
Ed è questo ricordo che ha sottolineato anche il cardinale Angelo Bagnasco. «Con Giovanni Paolo II —
ha ricordato l’arcivescovo di Genova
— con la potenza della sua intelligenza, della sua cultura, dell’amore
per Dio e per l’uomo, la Chiesa è
diventata più presente, più coraggiosa, più umilmente fiera del dono
del Vangelo». E ha ricordato l’immagine dell’anziano Pontefice affacciato su piazza San Pietro, frustrato
dall’impossibilità di rivolgersi ai fedeli: «La sua incapacità di parlare è
diventata una grande parola capace
di abbracciare il mondo. Abbiamo
tutti ancora bisogno di Giovanni
Paolo II, perché abbiamo tutti ancora bisogno di sentirci ripetere “non
abbiate paura”».
Affidate a due
coniugi
le meditazioni
per la Via Crucis
Benedetto XVI ha affidato ai coniugi Danilo e Anna Maria Zanzucchi, iniziatori, nell’ambito dei
Focolarini, del Movimento Famiglie Nuove, la composizione dei
testi di meditazione per le Stazioni della Via Crucis che si svolgerà la sera del 6 aprile, Venerdì
Santo, al Colosseo. Le riflessioni
faranno riferimento al tema della
famiglia.