Reportage dall`Azerbaigian: Ganja e le Zone del

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Reportage dall`Azerbaigian: Ganja e le Zone del
Francesco
Ricapito
Reportage dall'Azerbaigian: Ganja e le Zone del Confine Militarizzato
- Parte 5
23 ottobre
2015
27 marzo 2015 ore 21.53 Baku
Dopo pranzo Rufat ci mostra il resto di Barda, che in verità consiste quasi solo nel nuovissimo parco
pubblico (ovviamente intitolato ad Heydar Aliyev). Il parco deve essere ancora inaugurato
ufficialmente e per questo l’entrata è circondata da nastro segnaletico e sorvegliata dalla polizia.
Tuttavia Rufat parla con uno dei poliziotti che ci lascia passare senza problemi. Il parco ha lo stesso
stile di quelli che si possono vedere a Baku: pochi alberi, molte strade eleganti con panchine e
fontane, scarsi prati veri e propri e una possente statua di Heydar Aliyev al centro. Molto più
interessanti sono i resti di un vecchio ponte risalenti al periodo d’oro di Barda: la struttura in
passato doveva essere abbastanza lunga, oggi purtroppo ne restano solo tre arcate di mattoni sotto
le quali ormai non scorre più niente.
Il fiume infatti si divide in due ramificazioni che costeggiano il ponte per poi ricongiungersi subito
dopo, formando quindi una specie di piccola isola. Un nuovissimo collegamento pedonale passa di
fianco alle rovine partendo dal parco e arrivando all’argine opposto del fiume. Lo percorriamo,
nonostante l’entrata sia chiusa da un bancale di legno. Ci fermiamo qualche minuto per fare qualche
foto e poi raggiungiamo la riva opposta, da dove ci dirigiamo verso l’ultima attrazione di Barda che
Rufat vuole mostrarci, l’Imamzade. Si tratta di un piccolo santuario dove la tradizione vuole che ci
sia la tomba del principe Ismail, nipote di un famoso Imam. Il luogo è da secoli meta di pellegrinaggi
e la costruzione che vi si trova ora risale al XII secolo: un piccolo santuario in mattoni sormontato da
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una cupola e decorato da quattro graziosi minareti. Il colore azzurro di alcune piastrelle e dell’arcata
all’ingresso lo fanno assomigliare molto agli edifici religiosi dell’Asia Centrale, in particolare a quelli
presenti in Uzbekistan.
Dentro il santuario, sotto una teca di vetro si può vedere un roccia rettangolare coperta da un
drappo verde e oro, sormontata da una classica scimitarra araba a due punte. Offerte in denaro
vengono lasciate nella teca dai fedeli in pellegrinaggio, i quali probabilmente compiono diversi giri
intorno alla teca stessa come ci fanno capire i numerosi tappeti che la circondano. All’esterno il
santuario è circondato da un cimitero misto, sia islamico che cristiano. Parte di esso è in
ristrutturazione e così le lapidi meglio conservate sono adesso messe in fila lungo il largo corridoio
che porta all’entrata del tempio. L’innata eleganza della scrittura araba con cui sono decorate le
rende decisamente affascinanti. Di fianco al santuario vediamo anche una grande area coperta da
una tettoia di metallo arcuata. Sarà lunga quasi cento metri e Rufat ci dice che serve per alcune
festività, quando i pellegrini sono particolarmente numerosi e non possono stare tutti all’interno
dell’edificio. In fondo, dove la tettoia finisce, vediamo una gigantografia di una moschea al tramonto
circondata da fedeli in preghiera a lato della quale un mediocre lavoro di fotomontaggio ha
posizionato un’altra foto: un giovane soldato azerbaigiano che regge su una spalla una grossa
mitragliatrice. Vedendo l’espressione interrogativa che appare sulle nostre facce Rufat ci spiega che
quello è un giovane locale morto mentre prestava servizio lungo il confine con il Nagorno-Karabakh,
ma che prima di morire riuscì ad uccidere qualche soldato armeno. Alla memoria del suo eroico
gesto i concittadini gli hanno dedicato questa sorta di monumento celebrativo.
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Lasciamo il santuario, torniamo in centro per recuperare i nostri zaini dall’hotel dove li abbiamo
lasciati e poi con un taxi Rufat ci porta al nostro alloggio per la notte. Arriviamo poco fuori dal
centro, in una zona residenziale vicino ad un parco pubblico. Bussiamo ad un cancello e ci apre un
uomo sulla sessantina con una pancia piuttosto prominente, che ci fa entrare nel cortile della sua
casa. Qui ci sembra quasi di essere catapultati in una fattoria: un piccolo albero fa ombra ad un
rubinetto dell’acqua, un paio di galline scorrazzano pacifiche e un sottile manto d’erba copre il
terreno. Oltre alla casa c’è pure una specie di magazzino che il signore ha adibito a stanze con letti,
che affitta alle persone che passano per Barda, in genere per motivi di lavoro. Una sorta di Bed &
Breakfast molto basico e senza breakfast: una stufa, un tavolo, cinque letti, delle sedie e qualche
immancabile tappeto sul pavimento è tutto ciò che c’è nella stanza. Le pareti sono dipinte di un
bianco sporco e vicino all’entrata cè una decrepita stufa a legna. La sensazione è quella di trovarsi in
una camera d’ospedale, solo più sporca. Il bagno è fuori, anche se di bagno non si può proprio
parlare visto che si tratta di un semplice buco nel terreno coperto da qualche asse e che si trova in
un piccolo casotto in cortile. Un rubinetto per lavarsi e per bere è posizionato di fianco al “bagno”.
Marco sembra piuttosto sconcertato dal dover dormire in quel posto, Rufat sembra capirlo e ci dice
che se vogliamo possiamo cercare qualcos’altro. Io ho già dormito in posti simili in Azerbaigian,
anche se mi trovavo in mezzo alle montagne e lo stile “spartano” era più prevedibile. Non ci metto
molto a convincere Marco che quattro euro a testa per una notte qui è un prezzo più che ragionevole
e quindi accettiamo. Lasciamo i nostri zaini nella camera e usciamo di nuovo per andare a prenderci
un tè nel vicino parco pubblico.
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Prima però Rufat si accorda con un tassista in modo che questo venga a prenderci la mattina dopo
per portarci alla stazione degli autobus, da dove poi ripartiremo alla volta di Baku. Sbrigata pure
questa formalità ci spostiamo nel parco, al cui centro si trova un grazioso bar con tavoli all’aperto e
affiancato da un grande monumento dedicato alle madri dei caduti durante la guerra del Karabakh:
una grande statua scura di una donna inginocchiata e con l’espressione triste. Il sole ormai è
prossimo al tramonto, ma i suoi ultimi raggi riscaldano ancora rendendo l’atmosfera perfetta per un
tè accompagnato dalle classiche murabba, tradizionali conserve di frutta.
Con Rufat stavolta la discussione verte sulla condizione femminile da queste parti: un argomento che
si rivela se possibile ancor più interessante del conflitto con l’Armenia. Per farla breve, capiamo che
la cosa più facile che una donna possa fare a Barda (ma probabilmente anche in buona parte
dell’Azerbaigian rurale) è rovinarsi la reputazione ed essere additata come sgualdrina. Farsi vedere
fuori casa con il buio, uscire a prendere un tè con un ragazzo che non sia un fratello o un parente
stretto, vestire in un certo modo o anche andare a vivere da sole in un’altra città, tutto può essere
fonte di dicerie e maldicenze. Rufat ci fa capire che nonostante tutti questi problemi lui ha
frequentato qualche ragazza e ci viene allora spontaneo chiedere come. Ci dice che una volta un
sistema era frequentare gli stessi posti ritenuti “neutri” come corsi d’inglese o d’informatica,
prendere gli stessi autobus o andare nel negozio dove si sa che lui o lei lavora. Metodi tuttora
utilizzabili, ma che oggi sono stati affiancati dalla tecnologia, facebook infatti si è rivelato per i
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giovani amanti della zona uno strumento prezioso, anche se spesso controllato dai genitori. Ci
colpiscono molto le disparità di trattamento tra donne e uomini. Quest’ultimi possono naturalmente
uscire quanto vogliono di giorno e di sera senza che nessuno dica niente e soprattutto nessuno batte
ciglio se raccontano di aver fatto sesso con questa o quella ragazza, anzi spesso questo è motivo di
vanto, quando per una ragazza invece la questione è decisamente più complicata. Rufat ci racconta
di avere ben più di una sola “amante” e che in effetti tutte queste regole sono fastidiose, ma che
molte ragazze sono disposte ad infrangerle anche a rischio di pesanti conseguenze per il loro futuro.
Va infatti ricordato che una ragazza di venticinque anni che non sia ancora sposata con figli è in
genere additata come zitella a vita. Noi sapevamo e ci aspettavamo che la condizione femminile in
Azerbagian non fosse delle migliori, ma le parole di Rufat ci lasciano letteralmente a bocca aperta.
Finito di bere il nostro tè io e Marco siamo piuttosto stanchi, ma Rufat insiste per portarci a
conoscere qualche suo amico. Camminando per circa un quarto d’ora, in cui interroghiamo ancora
Rufat sulle metodologie di approccio adottate dai ragazzi verso le ragazze locali, arriviamo ad una
scuola d’informatica dove lavora il suo amico. Si tratta di uno di quei rari posti di cui ci ha parlato e
in cui ragazzi e ragazze possono incontrarsi senza destare troppi sospetti. Questo suo amico ha circa
la nostra età, è molto magro e asciutto e parla un inglese elementare. La scuola altro non è che una
bottega con un paio di stanze, qualche tavolo, molte sedie e molti computer. Oltre al fondatore
conosciamo anche un altro paio di ragazzi e pure una ragazza. Ci fanno accomodare al tavolo, ci
chiedono cosa ci facciamo qua e se ci piace Barda. Visto che l’ospitalità in Azerbaigian richiede del
tè, Rufat va a chiedere al bar di fianco alla scuola che ci portino un paio di teiere. Così facendo si
sparge la voce della presenza di due italiani, attirando la curiosità di tutti gli avventori del bar, che
sono praticamente solo giovani ragazzi. Tutti accorrono a vedere quello che forse è l’evento più
eccitante avvenuto a Barda negli ultimi giorni, entrano nella stanza e si presentano stingendoci la
mano, solo un paio parlano inglese, ma in presenza degli altri si vergognano troppo per provarci
seriamente. A dire il vero sembrano essere tutti un pochino intimiditi, quasi come non sapessero
come relazionarsi con due stranieri. La più spigliata sembra la ragazza, la quale ci spiega che non
vive più a Barda, ma si è trasferita a Baku per lavorare in un’agenzia turistica. Ogni tanto torna a
casa per visitare i suoi però ci dice che preferisce vivere a Baku, dove per una donna ci sono molte
meno restrizioni sociali. Finito il tè Rufat, su suggerimento del suo amico, vuole portarci a vedere un
complesso di antiche tombe che si trova poco fuori città. Noi continuiamo ad essere piuttosto
stanchi, ma non vogliamo sembrare maleducati e così accettiamo. Con noi viene una buona parte
della combriccola. Andiamo con la macchina dell’amico di Rufat e, siccome siamo in sei, ci tocca
stingerci in quattro nei sedili dietro. Approfitto del fatto che la macchina è una classica Lada
estremamente comune in tutto l’Azerbaigian per chiedere all’amico di Rufat quanto costi e perché
tutti ce l’abbiano. Lui mi dice che non costa troppo e che molte persone la comprano in quanto facile
da riparare, visto che, a differenza di altri modelli e marche, i ricambi si trovano molto facilmente. Io
avevo teorizzato un’idea simile e sono contento di aver finalmente trovato una conferma. Rufat era
sembrato piuttosto sicuro di come arrivare a queste tombe, ma ben presto scopriamo che si
sbagliava. Forse per colpa del buio o delle idee discordanti sulla strada da prendere che sorgono tra
lui e gli altri, ci perdiamo per una buona mezz’ora per strade sterrate tra campi e case dall’aspetto
cadente. Ad un certo punto ci accostiamo per chiedere informazioni ad un passante, il quale dice che
sta andando in quella direzione e che se lo facciamo salire ci porta sulla strada giusta. Sembra una
presa in giro chiedere un passaggio ad una macchina che ha già sei passeggeri, ma nessuno batte
ciglio così Rufat, che si trova sul sedile del passeggero, si sposta leggermente verso sinistra e fa
salire l’uomo, il quale non è nemmeno troppo magro, ma miracolosamente si siede senza troppi
problemi. Seguendo le sue indicazioni torniamo sulla strada principale, proseguiamo per un paio di
chilometri e poi giriamo in una strada secondaria, qui lasciamo il passeggero che ci dice che le
tombe sono poche centinaia di metri più avanti su quella strada. Seguiamo la sua indicazione e
arriviamo davanti a un deprimente cancello di ferro aperto su un cimitero. L’erba cresce piuttosto
alta e per entrare dobbiamo superare una grande pozzanghera. Non abbiamo ben capito di quali
tombe si tratti, a che periodo risalgano o di chi siano e nella guida non ho trovato nessuna
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informazione al riguardo. Ci ritroviamo davanti ad una decina di lapidi alte almeno due metri e
decorate con motivi vegetali e scritte in arabo. Molte hanno ceduto al tempo e sono piuttosto
inclinate rispetto al terreno e, visto che le uniche luci presenti sono quelle dei nostri telefonini,
sembra di trovarsi in una classica scena di un film dell’orrore.
Oltre alle lapidi c’è pure una costruzione circolare di mattoni sormontata da un soffitto a piramide
quadrata. Una specie di piccolo mausoleo al cui interno non si trova nulla eccetto un persistente
odore di urina. Quando ripartiamo cerchiamo di essere il più convincenti possibile nel dire a Rufat
che quanto abbiamo visto ci è molto piaciuto. Ormai il nostro unico desiderio sarebbe di distenderci
nei nostri letti, ma la serata non è ancora finita. Con tutta la combriccola andiamo in quello che ci
viene descritto come il principale punto di ritrovo serale per i giovani della città. In pratica è un bar
al primo piano di un centro commerciale e dotato di qualche tavolo da biliardo, un calcetto e un
tavolo da ping-pong. Sono circa le venti e trenta e ci sono numerosi avventori, tutti di un’età
compresa tra i venti e trent’anni. Ovviamente non c’è nemmeno una donna e Rufat stesso ci dice che
sebbene non sia ufficialmente vietato, se una donna entrasse qui verrebbe guardata come se fosse
un alieno e naturalmente considerata “poco seria”. Ci sediamo ad un tavolo per un tè e un narghilè.
Il piacevole calore della sala mi fa rapidamente venire un sonno incredibile e così per evitare di
addormentarmi sul tavolo sfido uno dei ragazzi a ping-pong. Non gioco da anni ma, modestia a parte,
ai tempi del patronato non me la cavavo per niente male e infatti dopo un po’ di riscaldamento riesco
a battere il mio avversario. A sua difesa va detto che sono abbastanza convinto che mi abbia lasciato
vincere per non sconfiggere, e quindi dare un dispiacere, un ospite. Quando torno al tavolo vedo
Marco occupato in una animata discussione in russo con uno dei ragazzi e così mi siedo col mio tè a
cercare di ascoltare. Sebbene l’inglese non sia molto comune nemmeno tra i giovani, il russo lo è già
di più, vuoi perché magari la famiglia stessa è di etnia russa o vuoi perché in effetti esistono scuole
dove s’insegna russo. A pensarci bene, qui il russo può essere molto più utile dell’inglese come
seconda lingua. Per fortuna il resto della serata scorre veloce e alla fine Rufat ci riporta indietro. Ci
scorta fino alla porta della camera e ci ringrazia per la giornata. Noi gli siamo sinceramente grati
per tutto quello che ci ha fatto vedere e per le interessantissime conversazioni e lo ringraziamo
calorosamente promettendogli ospitalità se dovesse venire a Baku nei prossimi mesi. Non abbiamo
cenato ma siamo talmente stanchi da non avere nemmeno fame, ci cambiamo e ci mettiamo a letto. Il
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padrone di casa ci ha acceso la stufa a legna la quale nonostante l’aspetto decrepito svolge bene il
suo dovere, anche se Marco ha dei dubbi sulla sua sicurezza. I letti hanno entrambi una
scricchiolante rete di ferro, ma i diversi piumoni ci tengono al caldo. Spegniamo le luci, ma prima di
addormentarci ci scambiamo idee e opinioni su tutte le cose che abbiamo visto e sentito oggi. Ne
emerge una bellissima conversazione di un’ora sull’Azerbaigian, il conflitto, la sua situazione politica
e il suo futuro. Il giorno dopo ci svegliamo sulle otto, facciamo colazione con qualche biscotto e dopo
aver pagato usciamo in strada, dove ci aspetta il tassista con cui ci siamo accordati il giorno prima.
Alla stazione degli autobus arriviamo giusto in tempo per prenderne uno in procinto di partire per
Baku. Gli ultimi due posti disponibili sono in fondo, nell’ultima fila, leggermente sopraelevati rispetto
agli altri. Mi siedo vicino al finestrino e, oltre ad avere il solito problema della mancanza di spazio
per le gambe, scopro anche di toccare con la testa sul tetto. Di certo non la migliore delle posizioni,
tuttavia quando partiamo scopro che la mia persona s’incastra talmente bene in quello spazio che
quando l’autobus trova una buca non sbatto nemmeno la testa perché questa è già perfettamente
incastrata sotto il tetto. Il viaggio dura tre lunghe ore in cui il paesaggio resta sempre lo stesso;
piatto deserto. Negli ultimi cento chilometri la già scarsa vegetazione diminuisce ulteriormente e
vediamo qualche collina rocciosa. Arriviamo a Baku verso l’ora di pranzo. Ci sembra difficile credere
di essere partiti solo due giorni fa talmente tante sono le cose che sono successe e quelle che
abbiamo imparato. Un viaggio breve nella durata e in luoghi che di certo non possono essere
consigliati da un punto di vista turistico, ma che ci ha lasciato dei ricordi e ci ha dato delle lezioni
che di certo non dimenticheremo tanto presto.
Per approfondire:
https://en.wikipedia.org/wiki/Barda,_Azerbaijan
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-10-09/elezioni-azerbaijan-ri…
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