seminare buone pratiche. analisi di una fattoria sociale in irpinia, tra

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seminare buone pratiche. analisi di una fattoria sociale in irpinia, tra
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN DISCIPLINE ETNO-ANTROPOLOGICHE
SEMINARE BUONE PRATICHE.
ANALISI DI UNA FATTORIA SOCIALE IN IRPINIA,
TRA AGRICOLTURA E DECRESCITA
Tesi di laurea:
Stefano Porrazzo
Relatore:
Chiar.mo prof. Luciano Li Causi
Anno accademico 2011/2012
1
Indice
Introduzione……………………………………………………………….. 3
1.
Storia della Fattoria Sociale e Storia dell’Irpinia...................... .. 6
1.1.
Irpinia: storia e agricoltura……………………………….... 6
1.2.
Storia umana e politica alla base della
Fattoria Sociale……………………………………….…..... 13
1.3.
La nascita della Federazione Italiana
Città Sociale………………………………………….…….. 16
2.
1.4.
Sviluppo sostenibile e decrescita…………………….….…. 19
1.5.
Politiche integrate………………………………….………. 27
1.6.
La Fattoria Sociale e il Territorio………………….…….… 29
Buone pratiche. Tra assistenza e produttività…………………... 36
2.1.
Caratterizzazione della Fattoria Sociale…………………... 36
2.2.
La Fattoria Sociale Isca delle Donne…………………..….. 38
2.3.
Un’impresa fondata sulla sostenibilità
e sulla produttività………………………………………..... 41
2.4.
L’agricoltura sociale…………………………………….… 43
2.5.
Parco etologico e zoo-antropologia……………………….. 54
2
3.
Analisi della Fattoria Sociale Isca delle Donne………………. 56
3.1.
L’antropologia politica: definire politica
e potere …………………………………………………. 56
3.2.
L’antropologia anarchica e la rivoluzione……………… 61
3.3.
James C. Scott. “Il dominio e l’arte
della resistenza” ……………………………………..…. 64
3.4.
Peter Lamborn Wilson. Agricoltura e resistenza……….. 68
3.5.
Resistenza e politica nella Fattoria Sociale…………….. 71
Conclusioni……………………………………………………………. 76
Appendice Iconografica………………………………………………. 79
Materiale………………………………………………………………. 84
Bibliografia………………………………………………………….… 90
Sitografia……………………………………………………………… 92
3
Introduzione
Spesso i periodi di crisi sociale ed economica rappresentano l’occasione per
interessarci/avvicinarci a questioni prima ignorate o forse date semplicemente per
scontate. La dimostrazione evidente di questa dinamica si vive in questi ultimi anni
(2008-2012), attraversati trasversalmente da una fra le più grandi recessioni economiche
e politiche dei Paesi occidentali. Un lessico “tipico” dei momenti di crisi ha iniziato a
riempire i “contenitori” della comunicazione mediatica invadendo specularmente anche
le “chiacchiere” dei cittadini. Parole come “crisi, declassamento, spread, crescita
economica” non sono utilizzate soltanto sui teleschermi e dai giornali ma anche da
larghe fasce della popolazione, consapevoli o meno del loro significato. Vocaboli e
tecnicismi di cui era difficile (e forse ritenuto non necessario) conoscere il significato,
entrano nel bagaglio linguistico e semantico non solo di politici, economisti e
giornalisti, ma pervadono le coscienze e le conoscenze di molti cittadini. L’abitudine e
forse anche la stanchezza per un uso-abuso di questi concetti in maniera statica e
improduttiva da parte di politici, politicanti, cronisti e amici, unita alla conoscenza di
nuove esperienze sociali, insoliti termini politici ed economici provenienti da terre a me
familiari, hanno attirato la mia curiosità “giovanile” e stimolato un forte interesse; il
tutto si è incrociato e “fuso” con i miei studi antropologici.
Ascoltavo nozioni inusuali come qualità dello sviluppo, sostenibilità,
innovazione, qualità del lavoro, inclusione sociale, zooantropologia. Approfondendo la
mia conoscenza ho incontrato autori come Serge Latouche che teorizza ed individua la
“decrescita” come una vera e propria cura delle patologie prodotte dallo sviluppo
invasivo e distruttivo del nostro mondo.
Ricordo di aver vissuto come un incentivo alla mia curiosità su queste tematiche
il corso di Antropologia Politica A tenuto dal professore Umberto Pellecchia nell’anno
accademico 2011/12. E’ stato un produttivo confronto/studio con il docente su
argomenti politici e “contro-politici”, a motivare la mia curiosità e a portarmi ad
approfondire la conoscenza della Fattoria Sociale.
4
Il docente mi ha offerto la possibilità, insieme ad altri studenti del corso, di
preparare un elaborato su una associazione politica da frequentare e studiare per un
sufficiente periodo, presentandogli i risultati della mia osservazione in sede d’esame. E’
così che ha inizio il mio lavoro di ricerca sulla Fattoria Sociale che, grazie
all’esperienza sul territorio, ha l’obiettivo di far emergere il valore politico delle attività
in essa avviate.
La preparazione di uno sfondo antropologico, in questo caso identificabile con
parte dei territori irpini della Campania, la conoscenza diretta degli operatori e dei loro
ruoli nella gestione di questo piano di lavoro, l’esame delle “buone pratiche” agricole e
sociali portate avanti, mi permettono di considerare questa Fattoria come una nuova
“visione” dell’associazionismo. La Fattoria Sociale Isca delle Donne di Avellino e
quindi la F.I.C.S. (Federazione Internazionale Città Sociale), che ha sede a Napoli e
gestisce nel territorio campano molte cooperative tra cui proprio la Fattoria, tratteggiano
e percorrono nelle loro pratiche l’idea di un nuovo modello di cittadino, di stato e di
bisogni. E’ innovativo oggi parlare in Italia di Agricoltura Sociale, di nuove tecniche
d’inclusione, di qualità delle relazioni e della vita. Il loro lavoro è focalizzato su questo,
riguadagnare “potere” con la partecipazione e con le “buone pratiche” sul territorio,
senza contrapporsi allo Stato.
L’iniziativa è partita dal territorio campano, dove indubbiamente ha proposto
innovazione individuando nuove prospettive e coinvolgendo/collaborando sempre con i
“piani” regionali e nazionali. Una collaborazione, che si può esprimere anche come
compensazione di “distrazioni politiche”. Mentre “fuori” continuavano a imperversare
linguaggi tecnici e in televisione era possibile vedere soltanto diagrammi economici di
crescita e sviluppo, sono andato, grazie alla conoscenza della Fattoria, al di là degli
slogan che dominano la comunicazione, ottenendo il significato concreto di alcune
parole come sviluppo, crescita e consumo.
Di grande importanza è stato il rapporto maieutico che ho stretto con Salvatore
Esposito, presidente della FICS e Direttore generale della Fattoria Sociale. Si è reso
molto disponibile nel guidarmi alla scoperta di nuove prospettive nel mondo del sociale
interessandosi alla mia ricerca sul campo, iniziata nel dicembre 2011. Un reciproco
coinvolgimento quindi, perché lui è ben consapevole che un’osservazione di questo
genere può essere utile ad alimentare la diffusione di buone pratiche.
5
La sua intervista mi ha permesso inoltre di cogliere gli aspetti essenziali del
progetto, aiutandomi a ricostruirne il valore politico e sociale. Di grande aiuto per
inquadrare l’Irpinia, cioè il contesto storico, sociale ed economico nel quale si inserisce
la Fattoria Sociale, è stato l’incontro con lo scrittore irpino Franco Arminio. La sua
interpretazione dei luoghi e degli avvenimenti, mi ha permesso una visione non
superficiale e distante dei luoghi, consentendomi di “sentire” nel profondo la storia e le
tradizioni irpine.
Con l’aiuto e il soccorso (per eventuali sbandamenti metodologici) del docente
ho proseguito la mia ricerca attraverso un continuo confronto con l’opera “Cultura e
Poteri” di Stefano Boni, “Frammenti di un’antropologia anarchica” di Graeber e “Il
dominio e l’arte della resistenza” di James C. Scott, accompagnando la mia analisi con
alcune riflessioni di Peter Lamborn Wilson. Ho quindi cercato di cogliere, dopo un
attenta analisi complessiva dell’orizzonte teorico proposto, dei metodi di lavoro, e dei
risultati ottenuti, la Fattoria Sociale in quanto organizzazione strutturata che mira ad
interventi con valenza politica e sociale.
6
Primo Capitolo
Storia della Fattoria Sociale e Storia dell’Irpinia
«L’idea è stata quella di collegare l’economia no-profit del mezzogiorno con un’attività produttiva
che si poteva realizzare con l’agricoltura sociale. Nasce così una cosa che abbiamo chiamato Fattoria
Sociale»1.
Ricostruire la storia della Fattoria Sociale Isca delle Donne implica un’attenta
analisi in primo luogo dell’area regionale in cui s’instaura, propedeutica alla
comprensione dei legami e delle continuità che la Fattoria Sociale conserva con il
territorio; inoltre necessita un’adeguata ricostruzione del background umano, lavorativo,
sociale e politico che è alla base di questo singolare e innovativo progetto.
1.1
L’Irpinia: storia e agricoltura.
Ripercorrendo la storia della regione Campania complessivamente, emerge la
natura eterogenea di questa realtà, che ha sempre dovuto fare i conti con delle
endemiche difformità. A queste discordanze intrinseche al territorio si sommano
appunto numerose e differenti radici storiche. Napoli non riesce mai ad essere una
metropoli regionale dando forma ad un territorio omogeneo; «oltre il 1860, resta o
aspira ad essere un centro sovra-regionale, sebbene in progressiva crisi»2:
fondamentalmente la regione è considerata «povera di radici unitarie»3.
Per quanto riguarda l’esperienza dell’agricoltura in Campania, è «spezzata
anch’essa fra il paesaggio monoculturale e demograficamente debole delle fasce interne
1
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
Paolo Macry e Pasquale Villani (a cura di), Storia d’Italia. Le Regioni dall’unità ad oggi. La Campania.
Giulio Einauidi Editore, Torino, 1990 pp. XIX
3
Op. cit.
2
7
e la ricca produzione dell’area costiera e vesuviana»4. Ciò testimonia le difficoltà e i
limiti di crescita del centro della regione; la complessità, nonostante la forte stabilità di
società rurali, è amplificata dalle asperità del territorio montuoso. Questo esempio è
rivelatore dell’eterogeneità strutturale della Campania, dove si distingue una zona
costiera, denominata “Campania felix” (la prosperosa Campania) dai Romani per la
fertilità, coincidente precisamente con il territorio del comune di Capua e quello
limitrofo, e la zona dell’entroterra, molto meno produttiva e decisamente più arretrata5.
L’Irpinia (Fig. 1), corrispondente all’area appenninica interna e costituita da
montagne e colline tra nord-ovest e sud-est della regione, era storicamente abitata dai
Sanniti e dai Lucani. E’ stata attraversata da molti popoli, Etruschi, Greci, Romani,
Goti, Longobardi, arricchendosi di un patrimonio di arte e cultura vastissimo.
L’etimologia della denominazione Irpinia risale al termine “Hirpus”, cioè il lupo nella
lingua parlata dalla stirpe degli Osci, antica popolazione insediata su queste terre
intorno al VI Secolo A. C.; è in questo periodo che il lupo diventa simbolo del territorio,
originariamente proprio a causa della sua presenza massiccia tra questi monti. Con la
conquista di queste terre, Longobardi e Normanni si sovrappongono ai presenti sostrati
etnici dando una nuova conformazione alla regione: con i Longobardi si assiste alla
nascita di numerosi borghi medievali, affermandosi così nel tempo il carattere
policentrico della regione. Questa connotazione è destinata però ad attenuarsi con lo
sviluppo “solitario” di Napoli, divenuta capitale del nuovo regno. Soltanto a cavallo tra
il quinto e il sesto secolo A. C. si consolida l’unità etnica degli Irpini, prima minacciata
dalla dispersione soprattutto nell’area sud orientale; si unirà alla Lega Sannitica per
combattere i Romani invasori, ma poi, con il crollo dell’impero romano l’Irpinia sarà
ancora attraversata da diversi invasori6. Il crescente polo d’attrazione napoletano
prevaleva su tutti i più deboli richiami delle altre città, e questo predominio, costituito
dal 1200 al 1400, si consolida poi nel 1500. La peste del 1656 portò una decimazione
catastrofica della popolazione della regione che ritroverà vigore tra il 1600 e il 1700.
Con l’avvento di Carlo di Borbone inizia un nuovo periodo di splendore, crescita e di
grande sviluppo anche demografico; questa espansione formatasi nel corso di alcuni
secoli e consolidatasi nel settecento è a mio parere un importante punto di partenza per
4
Ibidem, pp.XX
Paolo Macry e Pasquale Villani (a cura di), Storia d’Italia. Le Regioni dall’unità ad oggi. La Campania.
6
ibidem
5
8
la considerazione delle successive linee di sviluppo. Emerge, come preliminarmente
precisavo, il dato di una già accentuata differenzazione tra la zona costiera e collinare
intorno a Napoli, e la zona montuosa dell’entroterra: «la profonda divaricazione, il
contrasto tra la cosiddetta zona costiera e la zona interna della regione»7.
Nella seconda metà del 700 si diffonde la coscienza delle differenze e cresce il
desiderio di conoscere anche la realtà provinciale e il mondo delle campagne: Giuseppe
Maria Galanti viene incaricato di visitare le provincie del regno. Egli descrive il
territorio tra Napoli e Capua come «ancora la porzione più nobile e ferace di tutto il
regno»8; il suo giudizio sulla zona interna descrive le numerose difficoltà: «le maremme
piane della Campania sono quasi tutte sotto le acque, ed in conseguenza sono senza
coltura e senza abitatori»9. Nelle pagine di Nicola Onorati, tra la fine del settecento e i
primi anni dell’ottocento, troviamo una precisa distinzione di alcune zone agrarie del
territorio campano: l’autore, definito scrittore di “cose rustiche” dopo aver descritto
l’agricoltura praticata nelle zone di Capua, Salerno e Cilento, identifica un altro
territorio corrispondente alla provincia di Avellino e alle altre provincie del regno, che
sono rappresentate da una «agricoltura ancor barbara»10. I sistemi agrari della Campania
furono condizionati dall’idrografia e, soprattutto, dall’orografia della regione; ci fu
bisogno dell’opera dell’uomo e di una organizzazione sociale capaci di modellare nel
profondo le varie zone per modificarne ed abolirne i contorni e per mutarne il
contenuto. Certamente ha un importante valore per la comprensione della natura della
regione, il giudizio di Giuseppe Galasso:
«Attraverso tante alternanze di condizioni e di vicende appare una caratteristica peculiare della
regione quella di aver mantenuto forte, per ininterrotta tradizione, il fondamento essenzialmente
agrario della sua vita economica e civile, col quale si affaccia alla luce della storia, benché il mare
sia tanta parte del suo paesaggio e delle sue vicende»11.
7
Pasquale Villani, L’eredità storica e la società rurale, cit. in P. Macry e P. Villani (a cura di), Storia
d’Italia. Le Regioni dall’unità ad oggi. La Campania, pp. 9
8
Maria Galanti Nella cultura del settecento napoletano, Napoli, 1984, cit. in P. Villani, L’eredità storica
e la società rurale, cit. pp. 12.
9
Op. cit.
10
Nicola Onorati, Delle cose rustiche, prima edizione Napoli 1791, cit. in P. Villani, L’eredità storica e
la società rurale, cit. pp. 19
9
Con queste parole l’autore desidera chiarire preliminarmente che la fisionomia
complessiva della regione non è caratterizzata dal mare; l’elemento peculiare e costante
di queste terre, nonostante siano attraversate da differenze storiche e naturali, è la natura
fondamentalmente agricola dell’economia.
Anche la “regione” Irpinia, all’interno dell’eterogenea Campania, presenta al suo
interno alcune differenze, su cui voglio concentrarmi dopo un breve esame complessivo
del territorio. Nell’opera “Cinquant’anni di bonifica"12, l’intellettuale napoletano
Manlio Rossi Doria, rappresenta l’Irpinia distinguendo le sue tipicità e caratteristiche.
Riportando le parole della rivista “Nord e Sud” del giugno ’68, individua infatti nel
complesso del territorio alcune aree ad economia montana, ed altre con agricoltura
tradizionale. Inoltre considerava l’ampio gruppo di aree ad agricoltura intensiva diviso a
sua volta in piccole aree di pianura a prevalente indirizzo ortofrutticolo (soprattutto
nelle zone di Valle di Lauro, Valle Caudina e Piana di Montoro) e aree arborate con
prevalente coltura del nocciuolo (zona Avellinese). L’alta Irpinia, denominazione
attribuita alla parte più meridionale ed interna della provincia di Avellino, comprende
nei suoi confini il comune di Pratola Serra: complessivamente l’area si estende su una
superficie di oltre 175.000 ettari dei quali più di 135.000 rappresentano la superficie
agraria utilizzata13. Il territorio è di carattere prevalentemente montuoso e collinare,
tuttavia è provvista di terreni vallivi e pianeggianti coltivabili, corrispondenti a circa il
17% della superficie totale. E’ fornita di cospicue risorse idriche, utilizzate anche per
sistemi idrici esterni come l’Acquedotto Pugliese e dell’Alto Calore. Sono presenti
importanti infrastrutture sia principali che secondarie: la viabilità basilare e secondaria è
sufficientemente sviluppata, inoltre è attraversata dall’autostrada Napoli-Bari e dalla
Ferrovia Napoli-Avellino.
Il distretto, così superficialmente descritto, si articola in sei “zone” distinte:
l’Alta valle del Sele, l’Alta Valle d’Ofanto, l’Altopiano Irpino, Montagna del Terminio,
Valle del Calore, Baronia; ciascuna di queste presenta specifiche caratteristiche14.
11
Giuseppe Galasso, Storicità della struttura regionale, Citato in Cesare Deseta e Alfredo Buccaro (a
cura di) Iconografia delle Città in Campania. Le Provincie di Avellino, Benevento, Caserta, Salerno,
Napoli, Electa, Napoli, 2007 pp. 13
12
Manlio Rossi-Doria, Cinquant’anni di bonifica, Bari, Laterza, 1989
13
Università di Napoli: centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno.
Progetto di studio operativo sull’emigrazione meridionale nelle zone di esodo. Parte seconda: risultati
dell’indagine condotta nei comuni pilota dell’Alta Irpinia. Portici, giugno 1975.
14
ibidem
10
La Montagna del Terminio e l’Alta Valle del Sele sono zone a prevalente
economia montana, con rispettivamente il 51% e il 43% della superficie complessiva
occupata dal bosco, e soltanto 8,5% e il 19,5% occupata dal pascolo e dall’incolto.
Dispongono entrambe comunque di una piccola area pianeggiante e insieme formano il
grosso complesso montano del Terminio-Cervialto, attrezzato per un consistente
sviluppo turistico15. L’Alta Valle dell’Ofanto, l’Altopiano Irpino e Baronia sono le più
estese e popolate. Di conformazione collinare permettono, su circa l’80% del territorio,
orientamenti agricolo-cerealicoli-zootecnici estensivi. Sono caratterizzati da molti
insediamenti in campagna e dalla diffusione delle colture arboree, in particolare vite,
olivo e fruttiferi su circa il 10% della superficie. Le macchie boscose coprono anch’esse
un’area di circa il 10% della superficie complessiva ed è molto presente in questo
territorio, in cui è situato Pratola Serra, la corilicoltura, cioè la coltivazione degli alberi
di nocciuolo16. L’ultima zona, la Valle del Calore, anche se in parte montuosa, è
caratterizzata da un’agricoltura promiscua o arborata che sulle terre più fertili raggiunge
una certa intensità; poco territorio è destinato al pascolo e all’incolto17.
Quest’esame del luogo è a mio parere molto importante, perché chiarisce
importanti aspetti morfologici ed economici del territorio in cui nasce l’esperienza che
analizzo. Emergono in questo modo l’assetto paesaggistico predominante, tipicamente
montano, ed accanto ad esso l’utilizzo del territorio improntato sulla coltivazione della
vite, del nocciuolo e dell’ulivo. Certamente è un territorio che ha conosciuto recenti
momenti di depressione, caratterizzati dallo squilibrio economico e sociale. Ha subito
infatti nella seconda metà del XX secolo il grave fenomeno dell’emigrazione, costituito
soprattutto dalla partenza di giovani. Manlio Rossi-Doria considera proprio la bonifica e
l’emigrazione, i due principali processi che hanno incentivato la trasformazione della
società e dell’economia della Campania. Si calcola che nel ventennio tra 1951 e 1971,
periodo di massima intensità del fenomeno, siano partite circa 110.000 unità. Lo scarso
sviluppo del reddito agricolo e la mancanza effettiva di qualsiasi altra sostanziale fonte
di reddito ed occupazione sono le cause determinanti individuate da Manlio Rossi-Doria
per spiegare l’emigrazione da queste aree. Lo scrittore afferma che soltanto un’azione di
radicale riorganizzazione dell’agricoltura, per accrescere la produzione e per rendere
15
ibidem
ibidem
17
ibidem
16
11
maggiori le dimensioni aziendali e migliorare la struttura delle campagne, può portare
ad una più efficiente pianificazione dei mercati e consentire l’arresto della degradazione
di questa provincia favorendone la ripresa. Manlio Rossi Doria riprende una tematica a
mio parere centrale per il rilancio della regione, valida ancora oggi, cioè l’immediata e
tempestiva valorizzazione delle risorse del territorio, finora lasciate praticamente inerti.
Sostiene che sia necessario, preliminarmente, un sistematico completamento di tutte le
infrastrutture mancanti sia per aumentare l’ efficienza della produzione agricola sia per
migliorare la condizione di vita della popolazione agricola e individua, poi, tra le azioni
importanti da svolgere sul territorio, la ricostituzione viticola specializzata e
l’incremento della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti tipici,
favorendo un’attenta conservazioni delle loro caratteristiche tradizionali. Manlio RossiDoria incentiva inoltre un rinnovamento e potenziamento del patrimonio zootecnico,
pilastro essenziale dell’economia della zona. Considero questi aspetti molto interessanti
perché coincidono con molte linee progettuali della Fattoria Sociale.
Un avvenimento tristemente di rilievo nella storia prossima dell’Irpinia è stato il
terremoto che il 23 novembre 1980 scosse la Campania centrale e la Basilicata centrosettentrionale. Caratterizzato da una forte scossa di magnitudo 6,5 sulla scala Richter,
con epicentro nei territori della provincia di Avellino, la scossa causò 280.000 sfollati,
8.848 feriti e 2.914 morti. Lungo la fascia epicentrale furono danneggiati, e alcuni
completamente distrutti, circa centotre comuni avellinesi, sessantasei di Salerno e
quarantacinque potentini. Moltissimi i danni causati dalla scossa; danneggiamenti e
rovine colpirono le città di Avellino, Benevento, Caserta, Napoli, Salerno e Potenza.
Inoltre furono molti i comuni interessati e interi nuclei urbani risultarono addirittura
cancellati.18 Un elemento che aggravò gli effetti della scossa fu l’estremo ritardo dei
soccorsi, causato dalla difficoltà di raggiungere con i pesanti mezzi di soccorso la zona
montuosa dell’entroterra. Il ventisette novembre di quell’anno, in un’edizione
straordinaria del Tg2, Sandro Pertini denunciava proprio il ritardo e l’inadempienza dei
soccorsi:
18
http://terremotoirpinia.ilcannocchiale.it/
12
«Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si
19
levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi» .
Gli errori continuarono anche nella fase di ricostruzione, uno dei peggiori
esempi di speculazione sulla tragedia; le inchieste e le sentenze della magistratura
testimoniano i loschi interessi e lo spreco dei fondi per la ricostruzione. In Irpinia la
ricostruzione venne imperniata sul rilancio industriale e, nonostante il territorio non
presentasse le caratteristiche opportune, la pioggia di contributi fu una tentazione
irrefrenabile per molti imprenditori. Queste terre divennero centro di speculazione
edilizia, riciclaggio di soldi e di forzature dell’equilibrio ambientale preesistente. Lo
scrittore Franco Arminio durante l’intervista mi racconta come lui, da abitante di queste
terre, ha vissuto questo infelice episodio: «Il terremoto è chiaro che ha segnato una
specie di spartiacque, come un prima e dopo Cristo»20. Agli endemici problemi
caratterizzanti della realtà meridionale italiana, si aggiungono quindi le conseguenze
post-terremoto. Effetto immediato di questo avvenimento, «sempre comunque una
disgrazia»21, è stato:
«la nascita di una serie di speranze nella popolazione che si potesse cambiare marcia portando
l’industria in montagna. (…) L’idea che i paesi si sarebbero ingranditi, che l’emigrazione si sarebbe
interrotta, che si sarebbe un po’ cambiato il segno della storia. (…) C’era disillusione nel territorio
che andava ad aggiungersi agli elementi di crisi di tutto l’Appennino e nel territorio meridionale in
particolare. (…) E’ come se questi posti avessero tutti i mali dell’occidente senza avere raggiunto i
benefici dell’occidente. Per cui noi abbiamo la solitudine tipica dell’occidente, l’alienazione…Ma
non abbiamo i servizi sanitari tipici delle realtà più avanzate dell’occidente. Ecco un po’ questa mi
sembra la contraddizione»22.
L’altalena tra illusioni e delusione è stata favorita senz’altro dalle molte promesse
politiche e oggi l’Irpinia paga anche questo: lo sviluppo non c’è stato, e la crescita
portata dallo sviluppo si è concretizzata nella realizzazione di paesi di “manica larga”23,
19
http://www.youtube.com/watch?v=o1WChq0gQcA
Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista
21
ibidem
22
ibidem
23
ibidem
20
13
quelli dove puoi trovare più case che abitanti effettivi, dove l’ingrandimento ha causato
elevata dispersione urbanistica e frammentazione.
Franco Arminio ha vissuto in prima persona queste conseguenze: queste frenetiche
trasformazioni, «cambia un po’ il metabolismo del luogo»24, creano quelle che lui
definisce «desolazioni: cioè passare dal mondo contadino alla desolazione della
modernità incivile»25. Un prezzo carissimo, soprattutto in termini relazionali in quanto
muta il modo in cui le persone «usano il paese: è stata un po’ una beffa perché al
cittadino è stata data la casa ed è stato tolto il paese»26. Politicamente sono di certo stati
fatti degli errori è l’esplicito commento dell’intellettuale. L’idea quantitativa per cui
ingrandendosi il paese diventava città si è dimostrato un modello sbagliato, perché «in
realtà il paese deve funzionare come un paese e la piccola città come una piccola
città»27. Lo scrittore è convinto che però queste terre, prima tradizionalmente di
retroguardia e duramente colpite dagli sversamenti della criminalità, adesso, se la storia
cambia segno, «si trovano a diventare posti d’avanguardia in qualche modo»28. Ci sono
stati certamente degli errori:
«il valzer delle betoniere, la cementificazione, l’Irpinia resta una terra bellissima e conserva il
prezioso capitale del paesaggio; la terra, proprio nel momento in cui tutto l’occidente è in crisi, torna
ad essere l’elemento cruciale delle politiche di sviluppo»29.
1.2
Storia umana e politica alla base della Fattoria Sociale
In varie occasioni ho sfruttato il tempo che mi ha concesso Salvatore Esposito,
sempre disponibile ad essere testimone privilegiato nel mio studio. Ho così potuto
ricostruire il suo percorso umano e lavorativo, e questo mi ha certamente aiutato a
comprendere il significato e la portata del progetto sostenuto dalla Fattoria Sociale Isca
Delle Donne.
24
Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista
ibidem
26
ibidem
27
ibidem
28
Ibidem
25
14
Salvatore Esposito nasce a Napoli nel 1957. Negli anni ’70 studia psicologia
all’Università di Roma. La psicologia dell’età evolutiva è il ramo degli studi che lo
interessa maggiormente in quegli anni. Questo settore disciplinare studia il processo di
sviluppo e organizzazione psicologica dei bambini nell’arco della loro crescita. Si presta
particolare attenzione ai processi cognitivi e maturativi, nel periodo di tempo che
intercorre dalla nascita fino all’età della piena maturazione sessuale e la piena
integrazione nell’ambiente sociale. Consegue la laurea con una tesi sulla Psicologia
clinica e studia per essere abilitato come psicoterapeuta, psicologo esperto nel
trattamento sanitario di pazienti colpiti da psicopatologie. In questi anni il suo lavoro lo
conduce ad occuparsi principalmente di bambini affetti da disabilità. A mio parere è
evidente quanto proprio in questo periodo maturi una certa attenzione e sensibilità per
alcune problematiche. L’impegno nel suo lavoro e su certi temi sociali, ritengo segnino
una continuità con il progetto e la mission della Fattoria. Nell’ ’80 decide per una
maggiore responsabilità del suo lavoro, di occuparsi dell’organizzazione dei servizi
sociali territoriali, ripetendomi diverse volte quanto fossero confusi in quegli anni. Si
affronta per la prima volta il problema dei diritti universalistici e si emanano le prime
leggi quadro sui Servizi Sociali. Nel 1978 ricordiamo che fu approvata la legge 180,
legge quadro detta anche legge Basaglia, che impose la chiusura dei manicomi e
regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentali
pubblici30. L’attenzione di Salvatore Esposito durante l’intervista è indirizzata sempre
sulla difesa e sulla promozione dei diritti sociali dei cittadini, in quegli anni poco
garantiti. Investe infatti molto nella ricerca in prima persona e per incentivare i percorsi
di recupero inventa nei primi dell’ ’80 i “Centri Socio Educativi Regionali della
Campania”31. Sono strutture a carattere semiresidenziale articolati in spazi polivalenti
qualificati da una pluralità di servizi e attività. Lo scopo dei centri è di ridurre i
fenomeni di emarginazione favorendo il sostegno individuale della persona disabile. È
un tentativo di affermare il principio di “normalizzazione” e valorizzazione dei
diversamente abili, sostenendo il loro ruolo sociale, la partecipazione attiva ed il senso
di appartenenza al territorio. Anni chiave nel percorso che lo porterà a ragionare e
praticare per la Fattoria Sociale sono il 2006/07, quando svolge il ruolo di Coordinatore
29
Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista
http://www.legge180.it
31
http://www.pianosociales4.it/ViewCategory.aspx?catid=e18a4e22093c46d5be66d4f7c30b0387
30
15
delle politiche sociali della regione Campania. Nella posizione di Direttore Generale
aveva un compito di programmazione strategica, e infatti promuove alcuni progetti a
suo parere molto importanti. Tra questi ricorda anzitutto la Legge Regionale sulle
politiche sociali; la Legge 11 del 2006, che recepiva la 328, porta la sua firma.
L’importanza innovativa della legge 328, detta “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali”32, è segnare il passaggio dalla
concezione di utente, quale portatore di un bisogno specialistico, a quella di persona
considerata nella sua totalità complessiva. Quindi il soggetto è costituito anche dalle sue
risorse e dal suo contesto familiare e territoriale, passando ad un servizio di protezione
sociale attiva, per rimuovere il disagio e favorire il reinserimento sociale della persona
incrementando percorsi accompagnati ed interventi articolati svolti da una pluralità di
attori tra cui quelli del terzo settore. L’affermazione di un’idea sistematica dei servizi
sociali sul territorio è la preoccupazione maggiore di Salvatore Esposito: «Ancora una
volta affronto l’esigenza dei bisogni sociali come una risposta organica, di sistema»33.
La Legge regionale 11 è il primo tentativo di organizzare sistematicamente una rete di
servizi sociali territoriali. Contemporaneamente a questo progetto si confronta con un
altro problema, durante l’intervista definito “tipico” della cultura del mezzogiorno. Il
riferimento è al cattivo utilizzo, allo spreco di soldi sul territorio. I fondi trasferiti agli
enti locali per i servizi sociali erano sprecati perché «la tradizione della classe politica
del mezzogiorno era una tradizione tipica d’invadenza rispetto alle competenze dei
servizi»34. Un forte peso clientelare grava sulla gestione dei servizi, che considera in
continuità con la “tradizione clientelare assistenzialistica”35. Quindi in risposta al
problema, promuove l’idea che i progetti socio-sanitari formativi siano individualizzati,
favorendo ed incentivando così l’idea che le risorse dovevano essere legate alla reale
presa in carico delle persone: «Tanti soldi ti porto quanti disabili prendi in carico»36. Si
prevede un perfetto allineamento delle risorse con i bisogni dei singoli; si delineano così
le condizioni per cui il comune, associazione, Ente locale pubblico e privato garantisca
una presa in carico complessiva dei bisogni del paziente in cura. L’orizzonte di senso
della ricerca e del lavoro proposto nasce da una preoccupazione definita “prioritaria”
32
http://www.parlamento.it/parlam/leggi/00328l.htm
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
34
ibidem
35
ibidem
36
ibidem
33
16
dall’intervistato: l’aiuto ed il soccorso ai nuclei familiari di ogni fascia sociale, perché
non siano abbandonate le famiglie a sostenere da sole il peso che impone una disabilità
grave.
Nella necessità umana e professionale di creare una rete strutturale di servizi
integrati per il sostegno e l’aiuto delle fasce deboli della popolazione, si possono a mio
parere desumere chiaramente molti aspetti che sono oggi propri del progetto della
Fattoria: mi riferisco alle strategie inclusive e partecipative promosse dalla Fattoria
Sociale, in quanto sistema integrato d’intervento. Un solo esempio, il parco etologico: il
parco è inclusivo perché da opportunità lavorative a persone che altrimenti sarebbero
escluse dal mercato del lavoro; il parco “alleggerisce il carico” dello Stato perché
risparmia in termini di assistenza verso il mondo della disabilità; i diversamente abili
impegnati trovano nelle attività oltre ad un impegno produttivo, anche un mondo di
relazioni ed affettività dal quale altrimenti sarebbero esclusi (questa attività, a valenza
sociosanitaria, di solito è svolta all’interno di interventi medicalizzati a carico dello
Stato). Proprio per questo motivo ho deciso di dedicare spazio a raccontare alcuni
momenti da me considerati rilevanti per la comprensione. Approfondirò la tematica
riguardo le tecniche di lavoro, le attività e le progettualità della Fattoria Sociale nel
capitolo successivo, dedicato in parte proprio alle “buone pratiche” 37 d’inclusione
sociale ed ai diritti delle fasce deboli della cittadinanza.
1.3
La nascita della Federazione Internazionale Città Sociale
E’in questi anni che il progetto della Fattoria è sempre più attuale, perché
Salvatore Esposito ed altri operatori del terzo settore riflettono a proposito di come
riuscire a «legare i diritti sociali alla questione ambientale»38.
Il 2006 è un anno decisivo per l’implementazione del progetto della Fattoria: nasce a
Napoli la F.I.C.S (Federazione Internazionale Città Sociale), rete di Enti no-profit
37
Per “buone pratiche” si intende tutte quelle attività svolte dalla federazione verso il sociale. Sono buone
pratiche se riescono a garantire oltre che l'assistenza e la cultura anche entrate economiche, riuscendo a
sostenersi autonomamente.
38
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
17
(Onlus ,Cooperative e Imprese Sociali) della Campania, coesi da una tradizione
scientifica e culturale laica, e promotori degli ideali di giustizia, legalità e libertà intese
come buone pratiche territoriali e di cittadinanza39. Salvatore Esposito è il presidente
nazionale dell’impresa, che conta ben più di 120 cittadini operatori, ancor più di mille
utenti e circa quaranta unità operative complesse solo in Campania. Anche la Fattoria
Sociale Isca delle Donne, rientra in questa rete ed elabora e pratica molte considerazioni
della Federazione. La prima associazione Onlus della rete nasce negli anni ’80 a Somma
Vesuviana (Na), quando padre Ernesto Santucci40 converte una fabbrica di cartucce in
una comunità per tossicodipendenti. S’incrementa l’impegno di un gruppo di operatori i
cui servizi di accoglienza e consulenza ora si estendono in generale a tutto il mondo
dell’esclusione sociale. Negli anni ’90 questo volontariato laico ed anticipatore diventa
una larga rete di servizi integrati. S’incentiva un costante impegno auto formativo ed
una forte apertura per la ricerca teorica, in quanto le buone pratiche si nutrono proprio di
approfondimento giuridico e filosofico, di una profonda riflessione epistemologica e di
un permanente confronto con esperienze sociali e culturali europee. Salvatore Esposito
spiega così l’attività svolta con l’associazione:
«La F.I.C.S. sta promuovendo una riflessione sul rapporto fra buone pratiche sociali e crisi del
modello di sviluppo»41.
La F.I.C.S. segue l’attività di ogni singola cooperativa investendo molto, come
testimonia Salvatore Esposito, «in termini di supervisione, di ricerca e di formazione»42.
La novità consiste nel continuo esame di modelli organizzativi, indagati in una
riflessione scientifica e culturale. Ha valorizzato diversi approcci, il presidente nel
parlarmene inizia proprio da quello etologico ed ecologico. Certamente, è attento a
precisare, questo non è l’unico percorso innovativo della F.I.C.S., ma negli ultimi anni
si sono aperte molte linee di ricerca. Ne individua allora quattro principali, il cui nucleo
centrale è sempre una considerazione profonda sui diritti, la loro esigibilità ed
39
http//:www.cittàsociale.eu
Prete napoletano molto attivo in iniziative di solidarietà. E’ tra i primi missionari a giungere in Albania
alla fine della dittatura comunista ed è autore anche di articoli e libri come “Sullo stretto marciapiede
della terra”.
41
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
42
ibidem
40
18
indivisibilità. Molta importanza è attribuita alla condizione del lavoro operaio,
considerata una delle evidenti contraddizioni del sistema industriale del Paese.
Durante la mia partecipazione come osservatore alle riunioni della F.I.C.S., ho
avuto occasione di conoscere Antonio DeLuca, operaio in cassa integrazione del
direttivo Fiom di Napoli43, che portava nelle riunioni la voce densa di paura e orgoglio
lavoratore degli operai dello stabilimento:
«L’impressione è di essere in presenza di qualcosa di molto preoccupante per il nostro paese, che
rischia di incidere direttamente non solo sulla qualità del lavoro in fabbrica, ma sulla società tutta. È il
toyotismo che esce dalle mura alte e grigie dello stabilimento e diventa parte della vita quotidiana di tutti.
A leggere le denunce degli operai sembra di essere di fronte a una struttura autoritaria aziendale che si
organizza, come ai tempi di Valletta, secondo le leggi della discriminazione e secondo la disciplina e i
principi della caserma»44.
Un’altra linea di pensiero e di ricerca, che ho spesso visto ribadire e difendere
soprattutto dalle donne vicine al progetto della Fattoria e della F.I.C.S, è il pensiero
della differenza tra donna e uomo dentro i sistemi di lavoro capitalistici. Soprattutto
nella riunione antecedente l’arrivo di Serge Latouche a Napoli, Adriana Maestro,
filosofa napoletana e presidente dell’associazione Giancarlo Siani45, ha sostenuto
l’importanza di riservare a questo tema ampio spazio nell’incontro con il pensatore
francese. E’ importante ricordare a mio parere anche l’attenzione dedicata al terzo
settore, che è la base in cui molti operatori della Fattoria si sono formati. Infine,
specialmente nelle riunioni cui ho partecipato antecedenti i convegni di Serge Latouche,
la discussione ruotava completamente intorno al pensiero di decrescita proposto
dall’autore francese.
Ognuna delle attività perseguite dalla F.I.C.S. rispetta sette parole d’ordine o
principi, che possiamo considerare lo scheletro profondo della rete e dei suoi
programmi. La difesa dei diritti delle donne e degli uomini, è il nucleo centrale del
pensiero, cui deve associarsi l’etica di responsabilità verso i beni comuni. I diritti e
l’etica sono propedeutici a mio parere alla comprensione del significato del lavoro,
43
http://www.fiom.cgil.it/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/15/pomigliano-dossier-fiom-accusa-discriminati-operai-iscrittisindacati/177433/
45
Associazione culturale di Napoli, impegnata su iniziative per l’educazione alla legalità, finalizzate alla
lotta contro la criminalità organizzata. http://www.giancarlosiani.it
44
19
inteso in quanto dignità del lavoratore e come forza creatrice di benessere e,
emancipazione e libertà. Altra parola chiave è ambiente, inteso come ecosistema da
salvaguardare e proteggere valorizzando le risorse rinnovabili e il capitale sociale46,
animale e del territorio naturalmente presente. In più occasioni ho sentito ripetere il
concetto di partecipazione, intesa come una personale consapevolezza ed una collettiva
responsabilità politica di tutte le persone, e quindi di intere comunità, verso i beni
comuni, la libertà e la democrazia. Di rilevante importanza antropologica e politica sono
anche le ultime due parole, infatti tra le parole chiave c’è la differenza, interpretata nella
sua dinamica di scambio produttivo, quindi differenza per imparare e conoscere l’altro e
l’altra. Tutti questi concetti necessitano infine (e in partenza) della pace, scelta come
vera e propria condizione irrinunciabile e indispensabile del confronto e del conflitto47.
1.4
Sviluppo sostenibile e decrescita
Durante la mia ricerca ho constatato quanto molte dinamiche e parole prodotte nella
Fattoria Sociale dagli operatori siano connesse con il lavoro di Serge Latouche. Scopro
che tra la Fattoria Sociale e il pensatore francese esiste un reciproco rapporto entusiasta
sia dal punto di vista teorico che personale. Gli operatori della Fattoria hanno avuto
occasione di confrontarsi personalmente con lo studioso francese, e infatti conoscono
molto bene la sua opera e il suo pensiero. Salvatore Esposito lo definisce «un rapporto
di grande fecondità»48.
Serge Latouche nasce in Francia nel 1940. Filosofo ed economista, è professore emerito
all’università di Paris XI e all’Institut d’Etudes du devoloppement économique et social
(IEDS). E’ considerato il principale promotore dell’idea della decrescita ed è tra gli
46
Con il termine “capitale sociale” sono intese le relazioni, le interazioni e i reticoli che si formano nella
comunicazione e nello scambio tra soggetti appartenenti ad una determinata area, gruppo o comunità.
L’appartenenza di un individuo ad una comunità presuppone la condivisione di norme, valori,
obbligazioni, mutuamente riconosciute tra i partecipanti. Nelle aree rurali l’idea di capitale sociale è
spesso legata alla presenza di reti di relazioni organizzate su basi di reciprocità tra famiglie e gruppi e su
un’attitudine alla collaborazione e alla presa in carico dei problemi della località, spesso dettata dalle
necessità. (Massimo Rete e Paolo Scarpino, Associazioni rete Fattorie Sociali)
47
http://www.cittàsociale.eu
48
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
20
oppositori più noti della globalizzazione occidentale del pianeta. Contrariamente
sostiene la decrescita conviviale e il localismo.
La prefazione all’opera “Il tempo della decrescita”, compendio del pensiero di
Serge Latouche, è scritta dall’antropologo Italiano Marco Aime. In questo breve testo
esamina analiticamente il concetto di sviluppo e crescita, «parole chiave legate a filo
doppio da un legame apparentemente indissolubile»49. Fondamentalmente, osserva lo
studioso, «l’idea di sviluppo dominante nella nostra cultura intende mostrare ciò che
distingue le società moderne da quelle che le hanno precedute»50. In una prima
definizione lo sviluppo è costituito da quelle insieme di pratiche che assicurano la
riproduzione sociale, costringendo però a trasformare e distruggere l’ambiente naturale
e i rapporti sociali, finalizzata alla produzione sfrenata di merci: «Letto in questi
termini, lo sviluppo, come lo conosciamo noi, non è altro che l’espansione planetaria
del sistema di mercato»51. Secondo Aime però lo sviluppo non è solo questo, anzi esso
costituisce il mito fondante della nostra società senza il quale tutto crollerebbe. Lo
sviluppo è quindi l’elemento principale della moderna religione economista. «La
credenza nello sviluppo è paragonabile, dunque, ai miti delle società non occidentali»52.
L’idea di sviluppo/crescita è conforme a tutti gli effetti ad una religione, inscritta
nell’immaginario collettivo occidentale, a cui si crede, e si deve credere per fede. Lo
sviluppo, inteso come inevitabile progresso, attecchisce ad un’idea di evoluzione sociale
ricavata da una forzata esegesi delle teorie darwiniane, circoscritte dallo scienziato
naturalista al regno animale:
«Il termine sviluppo come lo concepiamo noi appartiene al mondo della natura, è la
metafora di un processo naturale, che noi applichiamo ai fenomeni sociali, facendo come se quel che
è vero dell’uno dovesse esserlo necessariamente dell’altro»53.
L’evoluzionismo sociale è stata così la chiave per giustificare sul piano politico
schiavismo e colonizzazione.
49
Marco Aime, Prefazione, in Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, Eleutera,
Milano, 2011 pp. 7
50
Ibidem, pp. 8
51
Op. cit.
52
Op. cit.
21
La contraddizione di questa comparazione, chiarisce Marco Aime, è che un organismo
naturale nasce, cresce fino a raggiungere un apice e poi inizia naturalmente a declinare
fino a terminare inevitabilmente la sua vita; quest’ultima parte viene dimenticata nella
trasposizione della metafora natura società, e quindi «lo sviluppo, così come è concepito
dai suoi sostenitori, non finisce mai»54. Secondo il pensatore non si tiene conto della
storia, perché mentre la natura segue criteri regolari, naturalizzare la storia significa non
tener conto di quegli eventi di natura umana come migrazioni, guerre e conquiste, che
determinano cambiamenti di rotta nelle strategie delle società umane: «lo sviluppo non è
un aspetto inevitabile della storia»55. In un esame del concetto di sviluppo nel corso
della storia, Serge Latouche evidenzia quanto la nostra era costituisca un’eccezione
storica per il particolare dinamismo della crescita, basandosi su modelli di crescita
esponenziale. Lo sviluppo e la crescita sono quindi connessi in un binomio strutturale.
Gli ecologisti hanno però sostenuto, contraddicendo così molti economisti, che è
possibile ipotizzare uno sviluppo senza crescita. Nuove etichette collegate al concetto di
sostenibilità, umanità e compatibilità, hanno continuato ad incentivare la crescita senza
realmente considerare le capacità dell’ecosistema terra. Si tende a considerare lo
«sviluppo durevole un invito a far durare la crescita e non la capacità dell’ecosistema
terra a sostenerlo»56. Serge Latouche considera ipocrite queste aggettivazioni dello
sviluppo, e invita considerare accanto ai possibili e numerosi vantaggi offerti dalla
modernizzazione, anche ciò che è andato perduto. In una breve rassegna etnografica
proposta da Marco Aime intorno al concetto di sviluppo, si registra che molte società
non considerano la loro sopravvivenza legata all’accumulazione continua di beni e
saperi, svincolandosi da principi fondamentalmente economici. La decrescita proposta
da Serge Latouche quindi, mette al centro della sua analisi la critica radicale della
nozione di sviluppo, che è argomento chiave per la critica al capitalismo e alla
globalizzazione.
Il pensatore, partendo da questa riflessione, «procede a una vera e propria
“decostruzione” del pensiero economico»57. Una riflessione che riesamina le nozioni di
crescita, povertà, bisogno, scambio. Viene rimesso in discussione il concetto di sviluppo
53
ibidem, pp. 10
Marco Aime, Prefazione, in Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, 2011 pp. 11
55
Op. cit.
56
ibidem pp. 13
57
http://www.decrescita.it
54
22
realizzando una “sovversione cognitiva”, condizione preliminare per un sovvertimento
politico, sociale e culturale, indirizzato alla realizzazione di una società realmente
alternativa a quella di mercato. La globalizzazione, considerata «il trionfo planetario del
mercato»58, ci obbliga a concepire una società nella quale i valori economici non siano
più unici. La vita dell’uomo deve riguadagnare lo spazio sottratto dall’economia e dalla
folle ricerca di un consumo sempre maggiore. La realizzazione di questo progetto
prevede due effetti immediati: scongiurare la distruzione definitiva delle condizioni di
vita sulla terra, ma soprattutto la possibilità di «fare uscire l’umanità dalla miseria
psichica e morale»59. La necessità è la decolonizzazione del nostro immaginario e
quindi di una diseconomicizzazione delle menti, indispensabile per cambiare il mondo
prima che lo stesso mondo lo imponga traumaticamente.
«Bisogna cominciare a vedere le cose in altro modo perché possano divenire altre, perché sia
possibile concepire soluzioni veramente originali e innovatrici»60.
Decolonizzare le nostre menti significa mettere al centro della vita umana significati
diversi dalla produzione e dal consumo. E’ necessaria quindi l’emancipazione da quella
impresa distruttiva e dissennata che costituisce l’ideologia dello sviluppo.
Serge Latouche nell’introduzione del libro “Il tempo della decrescita” comincia con
un’analisi precisamente sul tempo; una riflessione tragica, «(…) è troppo tardi»61, la
dinamica degli effetti della devastazione dell’ecosistema sono inevitabili: «se
riducessimo la nostra impronta ecologica fino a raggiungere un livello sostenibile,
avremo due gradi in più prima della fine del secolo»62. In termini disillusi scrive che la
catastrofe è arrivata, stiamo vivendo la sesta estinzione di massa della specie,
contrassegnata dalla velocità del fenomeno: «le specie (vegetali e animali) scompaiono
a una velocità tra le cinquanta e le duecento al giorno»63, un ritmo molto superiore
rispetto quello delle ere geologiche passate. La nostra crescita, che ha significato la
devastazione e la trasformazione degli ecosistemi ha provocato la scomparsa, secondo la
FAO, di circa tre quarti delle diversità genetiche delle colture. Il sovrasviluppo e
58
http://www.decrescita.it
ibidem
60
ibidem
61
Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, pp 21
62
Op. cit.
59
23
l’iperconsumo hanno dimostrato avere un costo largamente maggiore rispetto ai
benefici:
«Paradossalmente, è come se la prospettiva di un suicidio collettivo ci sembrasse meno
insopportabile della rimessa in discussione delle nostre pratiche e del cambiamento dei nostri stili di
vita»64.
Lo sviluppo e la crescita, non possono essere infinite, questo è impossibile perché il
pianeta è costituito da risorse finite, il pianeta in sé è un mondo finito. Alcuni studi
prevedono il collasso della società della crescita in relazione a tre variabili: intorno al
2020, la prima crisi in seguito alla fine delle risorse non rinnovabili, seguita nel 2040
con la crisi prodotta dall’inquinamento, e infine nel 2070 dalla crisi alimentare. Serge
Latouche sostiene quindi l’arrivo imminente se non tardivo del tempo della decrescita:
«La società della frugalità per scelta, (..), avrà come presupposto quello di lavorare meno per vivere
meglio, di consumare meno ma meglio, di produrre meno rifiuti, di riciclare di più»65.
Questo significa ritrovare il senso della misura, che è il valore della frugalità, nei
criteri di un’impronta ecologica sostenibile. Questo processo presuppone una seria
decolonizzazione dei nostri immaginari, e per realizzare questa rottura è necessario
capire come siamo arrivati a questo punto. Serge Latouche propone il programma delle
8 R per prevenire gli effetti negativi della crescita, e per attivare circoli virtuosi legati
alla decrescita. La riduzione del saccheggio sfrenato della biosfera corrisponde ad un
miglior modo di vivere, ma questo programma comporta otto obiettivi interdipendenti,
le otto R, che possono condurre alla decrescita felice: occorre innanzitutto rivalutare,
ripensare ai nostri valori fondamentali, passaggio a mio parere possibile solo
ricontestualizzando, cioè modificando il contesto emozionale e concettuale della propria
vita, così da mutarne il senso. L’autore poi prevede una ristrutturazione per adattare le
strutture economiche, i modelli di consumo e i rapporti sociale alla decrescita. Invita a
rifocalizzare, cioè a sostenere l’economia locale consumando essenzialmente prodotti
locali, evitando così i costi legati ai trasporti e riguadagnando in termini di relazioni
63
64
Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, 2011 pp. 23
Ibidem, pp. 24
24
sociali e con il territorio. E’ necessario inoltre garantire a tutti gli abitanti del pianeta
l’accesso alle risorse naturali, con una ridistribuzione della ricchezza. Ridurre l’impatto
sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare, per tornare ad un’impronta
ecologica sostenibile del pianeta, quindi riutilizzare e riciclare per recuperare gli scarti
superando l’ossessione a usare e gettare funzionale intrinsecamente alla società dei
consumi66.
La Fattoria Sociale ha assunto come riferimento pratico e teorico della sua
attività, la teoria della decrescita di Serge Latouche, ritrattando così in parte la
concezione di sviluppo sostenibile e modellandola sugli insegnamenti del pensatore
francese. In generale quindi persegue e valorizza l’attenzione per un’impronta etologica
ed ecologica sostenibile. A mio parere è molto interessante sottolineare la continuità e la
corrispondenza dell’impianto teorico latoucheano con gli obiettivi e le pratiche per
raggiungerli impiegati della Fattoria: la Fattoria propone di valorizzare la filiera corta
nelle produzioni di comunità, come modo di affrontare la globalizzazione e le sovraproduzioni dannose, tramite un’agricoltura sostenibile. Questo è, a mio parere, in linea
con il passaggio in cui Serge Latouche scrive: «la priorità va data ai circuiti brevi di
distribuzione, alla rilocalizzazione delle attività produttive e soprattutto al ripristino di
un’agricoltura contadina»67. La Fattoria tenta di promuovere un nuovo approccio alla
terra, rispettando i bisogni di tutti gli abitanti del pianeta, determinando il passaggio
radicale ma necessario dallo sfruttamento invasivo, depauperante e velenoso, ad un uso
rispettoso della fertilità e delle risorse naturali. Anche questo credo possa essere letto
con le parole di Serge Latouche, quando afferma: «La sostituzione di un’agricoltura
industriale con una contadina, molto più ricca di posti di lavoro, orientata
esclusivamente verso i mercati di prossimità, può diventare il nuovo modello capace di
ispirare i produttori del Nord come quelli del Sud»68. Infine l’impegno della Fattoria, a
promuovere tramite il Parco Etologico, attività di tutela e protezione degli animali con
un approccio etologico di difesa della biodiversità nell’ecosistema locale, e rispettoso
del rapporto uomo-animale. Questo messaggio è rintracciabile nelle parole di Serge
Latouche quando scrive: «L’alternativa che cerco di offrire sarebbe la bioregione,
65
Ibidem, pp. 26
http://www.terraemadre.com/2010/08/8-r-per-la-decrescita-secondo-serge-latouche/
67
Serge Latouche Didier Harpages, Il tempo della decrescita, pp. 74
68
Ibidem, pp. 77
66
25
ovvero una regione naturale in cui i greggi, le piante, gli animali, le acque e gli uomini
formino un insieme unico e armonioso»69.
La Fattoria Sociale riconosce sicuramente il debito teorico al pensatore francese,
da cui, come ho voluto chiarire, riprendono principi e obiettivi della loro esperienza.
All’impronta ecologica ed etologica sostenibile, legano un’impronta sociale sostenibile.
Sperimentano un modello innovativo che coniuga agricoltura sociale (multifunzionalità
e sostenibilità dell’approccio), con il Welfare di comunità, cioè una strategia territoriale
integrata dei servizi sociali, sanitari e formativi, su un distretto territorialmente
governabile, per raggiungere un’esclusione uguale a zero. Obiettivo è anche la
produzione di Economia Civile70, vale a dire una missione sociale dotata di un’alta
qualità produttiva al servizio dei territori e delle popolazioni. La Fattoria Sociale dunque
promuove “dal basso” la diffusione di stili di vita in linea con la decrescita, e perciò
contro lo spreco. A mio parere assume un grande valore simbolico la coltivazione di
piante grasse nella Fattoria perché, come mi risponde Adriana Maestro 71 sul perché di
questa scelta, la pianta grassa ha l’intrinseca capacità di “lavorare quotidianamente” a
tutela della risorsa naturale-acqua (vedi fig. 2).
Gli operatori della Fattoria Sociale considerano Serge Latouche un maestro, un
grande personaggio anche dal punto di vista umano e dello stile di vita. Serge Latouche
è stato ospite della F.I.C.S. dal 16 al 21 gennaio 2012. La rete infatti ha voluto invitare
il teorico della decrescita a Napoli per poter promuovere un confronto ed una riflessione
sui temi della crisi dello sviluppo e sulla connessione scientifica, culturale e pratica fra
ecologia sostenibile, equità sociale e partecipazione. il concetto di decrescita quindi si
contrappone a quello dello sviluppo distruttivo fondato sul PIL72. Il ruolo chiave che il
pensatore francese assume all’interno del percorso pratico e teorico per Salvatore
Esposito e per la F.I.C.S, obbliga un ripensamento ed una ridefinizione degli obiettivi di
base.
69
Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano. 2007, pp. 177-178.
Economia civile significa ridare al nostro sistema capitalistico, la sana capacità sociale di
redistribuzione degli utili. L'utile della tua impresa deve avere una redistribuzione che non è solo
finalizzata al profitto.
71
Vedi pp. 11
72
http://www.cittasociale.eu-latouche-a- napoli
70
26
Non si può credere più, dopo questa critica estrema, neanche «all’impostura dello
sviluppo sostenibile»73, proprio per il paradosso che secondo Serge Latouche è
veicolato dall’accostamento di queste due parole. Il problema dello sviluppo sostenibile
non è tanto nella parola sostenibile quanto nella tossicità della parola sviluppo intesa
con le connotazioni individuate dal pensatore francese.
Il significato storico e pratico della parola sviluppo, intrinsecamente unito al
programma della modernità, è estremamente contrario al concetto di sostenibilità.
Sviluppo indica lo sfruttamento, la ricerca continua del profitto dalle risorse naturali e
umane, proprio ciò che secondo il pensatore domina il pianeta da almeno due secoli.
L’aggiunta dell’aggettivo sostenibile accanto al concetto di sviluppo, evidentemente
non rimette veramente in discussioni i paradigmi fondamentali dello sviluppo; al
massimo lo scopo è di edulcorare la definizione con una parzialmente fittizia
componente etologica.
Serge Latouche ha certamente il merito di segnalare questi dubbi, svalutando
l’approssimativo accostamento delle nozioni di sostenibilità e sviluppo. Non ha più
valore credere nell’ossimoro, nella chimera dello sviluppo sostenibile. Nella mia ricerca
ho infatti potuto osservare la “dinamica di rottura” segnata da momenti di dibattito
importanti tra diversi operatori, il cui cardine era il concetto di decrescita contrapposto a
quello di sviluppo. La decrescita come medicina, unica medicina per un corpo sociale,
economico e per una struttura politica affetti da uno stato avanzato di malattia, patologia
dello stato declinante del capitalismo. Nel corso della riunione organizzativa per
l’incontro con Serge Latouche, ricordo l’emozione e la consapevolezza nelle parole di
tutti i partecipanti. Fu affrontato il tema dello sviluppo e dell’intrinseca
distruzione/devastazione ad esso associata, e le risultanze della riunione, condivise da
tutti i presenti, erano amare e pessimistiche. Infatti il senso dell’incontro era incentrato
sul futuro che ci attende, cioè sulla fine delle risorse non rinnovabili e sul disastro
ambientale connesso. A mio parere si potrebbe riassumere il senso della discussione con
una frase espressa durante l’incontro: «siamo un’umanità di cannibali, stiamo
mangiando i nostri figli»74; fu il concetto espresso nella riunione e condiviso da tutti i
membri
dell’incontro.
Non
bisogna
secondo
me
interpretare
erroneamente
l’avvicinamento al pensiero della decrescita, come un totale abbandono delle
73
http://www.decrescita.it
27
prospettive di sviluppo, ma intendere quest’ultimo in una dimensione di significato
diverso. Serge Latouche ha senza dubbio insegnato molto sul progresso, e quindi
segnato il principio fondamentale alla base dell’azione della Fattoria. Molto importante
è stata la capacità di ripensare anch’essa lo sviluppo sostenibile, in una chiave
latouchana, e quindi correggere le eventuali derive di questa strategia. La parola chiave
accanto a sviluppo non è più soltanto sostenibile, ma i concetti di qualità, di etologia ed
ecologia sono diventati allo stesso modo centrali. Nel corso della mia ricerca ho
sperimentato il valore umile e dinamico di quest’associazione, capace di rimettere in
discussione i propri paradigmi e ricominciare la ricerca e lo studio di altre opportunità.
Nell’intervista infatti Salvatore Esposito riconosce di aver imparato da Serge Latouche
ad avere un approccio più radicale, più riformista ma «più attento agli inganni delle
trasformazioni capitalistiche»75. L’approccio sostenibile si dimostra allora incompatibile
con le oggettive distruzioni del pianeta, e ora pretendono da loro stessi e dai governi che
ci siano vere politiche di rispetto della natura e dell’ambiente.
Dunque la F.I.C.S., presieduta da Salvatore Esposito, è descritta e tratteggiata
come un vero laboratorio di nuove vie di ricerca, di nuovi stimoli, che prova però a
trasformare il suo impegno in pratiche economiche, culturali, educative e formative:
«E’ come inventare un prodotto nuovo, è come inventare una strategia produttiva nuova»76.
1.5
Politiche integrate
Su questo background ideologico e culturale si sedimenta sempre più l’idea di
reagire all’insufficienza infrastrutturale delle politiche sociali. Salvatore Esposito coglie
il limite delle politiche sociali, e afferma: «Sono sempre state considerate politiche
deboli per i deboli, politiche marginali»77. Nonostante riconosca l’esistenza di alcune
sperimentazioni considerevoli e la forza innovativa della legge quadro 328, critica il
sistema di politiche sociali che nel nostro paese è assolutamente marginale, spiegando
74
Riunione F.I.C.S., Gennaio 2011, Pollica (SA)
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
76
ibidem
75
28
che «non siamo riusciti a passare dalle politiche familistiche a una dimensione
universalistica»78. Ciò che il presidente della F.I.C.S. contesta è l’incapacità di
«muovere da un Welfare poggiato solo sulla posizione familiare a un Welfare associato
alle politiche sociali»79. Afferma che questa incapacità pesa di più sul mezzogiorno
dell’Italia, riconoscendo che nell’Italia centro-settentrionale esiste comunque una rete di
servizi socio-sanitari che copre i bisogni delle persone, e sicuramente c’è un
investimento maggiore sui servizi sociali da parte degli Enti locali. «Le quote capitarie
dedicate ai servizi sociali nel mezzogiorno sono assolutamente inutili»80, è la condanna
di Salvatore Esposito durante l’intervista, e la stessa regione Campania non ha
finanziato la legge regionale sulle politiche sociali. Per quota capitaria s’intende il
finanziamento necessario per assicurare la copertura economica relativa agli specifici
livelli di assistenza sociale e sociosanitaria. La pervasiva inadeguatezza dei servizi
sociali sul territorio campano, derivano secondo Salvatore Esposito, «da una cultura
istituzionale che non dà priorità a questi diritti»81, cui aggiunge un punto che abbiamo
già affrontato, cioè l’incapacità di programmazione strategica sul piano sociale. Sostiene
che ciò che non è stato fatto è proprio una programmazione strategica integrata sul
territorio che veda agricoltura, turismo, artigianato e formazione connesse tra loro. E’
stata fatta una «politica separata»82. Lo psicologo è convinto che nel tempo si sono
perseguite troppo spesso logiche di potere clientelare e di appartenenze ed è questo che
ha inquinato nel tempo la politica su questo territorio. Nella sua esperienza lavorativa si
è dovuto confrontare spesso con l’insufficienza dei finanziamenti regionali per le
politiche sociali: ciò ha significato non finanziare i diritti fondamentali dei cittadini. Fa
notare come è mancata una reazione adeguata anche dalle forze sindacali perché, a suo
parere, «nel Mezzogiorno del nostro Paese la cultura dei diritti sociali non c’è, è molto
carente o considerata marginale»83. Con il suo lavoro, e insieme a lui gli altri operatori e
lavoratori della Fattoria Sociale, vuole cambiare proprio quest’idea.
77
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
ibidem
79
ibidem
80
ibidem
81
ibidem
82
ibidem
83
ibidem
78
29
L’obiettivo dunque, come sostengono diversi operatori con cui ho parlato, è
trasformare le politiche sociali in politiche forti, superando «questa debolezza
culturale»84.
1.6
La Fattoria Sociale e il territorio
«Il punto era trasformare il quadro legislativo in un’esperienza reale sul territorio»85.
Salvatore Esposito spiega ed esemplifica la sua idea basilare di Fattoria Sociale
scomponendone il nome, e analizzando i due distinti frammenti concettuali da cui è
composto. Quindi Fattoria indica il suo essere un’attività agricola, estesa su un aria
territoriale piccola media; alla multifunzionalità dell’agricoltura si connettono i prodotti
agricoli e la zootecnia, e ancora attività di microcultura e di filiera corta. Certamente è
un’attività produttiva, ma si propone anche una mission culturale e sociale. Quindi
l’inclusione delle fasce deboli della popolazione tramite agricoltura sociale, ma anche
programmi di ricerca e formazione sui temi riguardanti ambiente e società. L’intero
progetto si emancipa dalla consueta logica economica di guadagno profit, servendosi di
strategie no-profit. Al centro dell’azione politica senza dubbio la conservazione
dell’equilibrio etologico ed ecologico, soprattutto in un territorio come quello campano
distrutto dagli sversamenti della camorra, dalla mancanza di difesa del territorio da un
punto di vista urbanistico, dalla mancanza di un piano regolatore e infine da
un’insufficienza di valorizzazione delle risorse della terra. Una buona consapevolezza
della consistenza di queste problematiche nel territorio è importante per cogliere il
valore che conserva il “luogo regionale” per la Fattoria.
Al registro delle Fattorie Sociali della Regione Campania risulta iscritta, con il
nr. 18FS01, la società operativa Gea Irpina Impresa Sociale Onlus, soggetto gestore sul
piano giuridico e operativo della Fattoria Sociale “Isca delle Donne”, ubicata nel
comune di Pratola Serra (AV); aderente al circuito della Federazione Internazionale
Città Sociale e ai relativi principi etici, scientifici, produttivi e di legalità che guidano
84
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
30
l’intera rete territoriale di attività e servizi connessi all’implementazione di un modello
integrativo di welfare e territorio alternativo.
Salvatore Esposito racconta la nascita della Fattoria Sociale come «una
particolare contingenza»86. S’incontrano la sensibilità locale della Caritas Diocesana di
Avellino che crede nella voglia e le idee di un gruppo di operatori del terzo settore.
Quindi la Caritas disponendo di un bene agricolo e di una struttura inutilizzata e senza
progetto, accoglie il programma avanzato da Salvatore Esposito e altri lavoratori e
proprio su questi terreni s’innesca l’idea della Fattoria Sociale. Prende così avvio il
lungo lavoro, non ancora concluso, di implementazione strutturale. Viene creata dunque
l’esperienza numero uno di Fattoria Sociale della Regione Campania, e Salvatore
Esposito, tra i principali promotori, sceglie di abbandonare i ruoli pubblici e dedicarsi
«come terzo settore a costruire dal basso questa esperienza sul territorio»87. Nasce
nell’entroterra della Campania, lungo la catena dell’Appennino che attraversa la
Provincia di Avellino. Questa zona è compresa all’interno della vasta aria geografica
denominata Irpinia. Oggi l’Irpinia è immediatamente identificata con l’area provinciale
di Avellino ma tale identità è menomante, perché storicamente questa “regione” era
molto più vasta: ne fanno parte anche luoghi oggi appartenenti alla provincia di
Benevento, Foggia, Salerno e Potenza.
L’Irpinia è descritta da Salvatore Esposito come «un’area rurale provinciale interna alla
regione che conserva una serie di potenzialità e tradizioni assai importanti»88. Sottolinea
il forte carattere di questa terra, che custodisce molti valori e un grande impegno dal
punto di vista meridionalista, contando personalità come Manlio Rossidoria impegnato
per una valorizzazione del genius loci dell’Irpinia. Tra le figure di rilevo attualmente in
Campania considero anche lo scrittore Irpino Franco Arminio, che ho avuto modo
d’intervistare.
Ero ospite in Alta Irpinia proprio nel suo paese natale Bisaccia, piccolo comune
di circa quattromilacinquanta abitanti appartenente alla provincia di Avellino. Vengo
invitato a casa sua, situata nella parte nuova della città. Il violento terremoto dell’ottanta
che distrusse parte dell’Irpinia, aveva colpito il paese distruggendolo totalmente. Questa
85
ibidem
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
87
ibidem
88
ibidem
86
31
parte di paese è appunto chiamata Bisaccia vecchia. Avevo effettuato delle ricerche
precedenti all’incontro, approfondendo il suo testo “Terracarne, viaggio nei paesi
giganti dell’Irpinia” e provando a capire le motivazioni e gli obiettivi della sua opera
letteraria. L’autore è attento a precisare, sin dall’inizio dell’intervista, la sua personale
visione riguardo questo territorio:
«Il concetto d’Irpinia è abbastanza vago, nel senso che forse dopo il terremoto e con la squadra di
calcio è venuta un po’ fuori questa categoria d’Irpinia. Poi negli anni successivi pure io sono stato
uno di quelli che la messa più in circolazione»89.
Sottolinea perciò quanto per lui “Irpinia” sia una nozione relativamente nuova
motivando con due spiegazioni questa idea:
«Perché geograficamente la regione, più che una provincia è una regione, cioè è molto grande ma
soprattutto è molto divisa da un sistema di valli che spesso si danno le spalle. Per cui quello che
accade, che so a Senerchia è molto lontano rispetto a quello che accade a San Martino Valle
Caudina. (…) in realtà anche da un punto di vista agricolo. Sono territori molto diversi, perché noi
abbiamo il territorio della castagna, questo è il territorio del grano, poi c’è il territorio del vino, poi
c’è il territorio della nocciola»90.
Nelle sue parole si evince l’eterogenea struttura dell’Irpinia, contraddistinta al suo
interno da precise peculiarità ambientali e agricole.
Franco Arminio nel 2003 si presentò al suo pubblico come “paesologo”, creando una
nuova branca della scienza moderna. Questa innovativa (e per alcuni discutibile)
disciplina sconfina nell’antropologia, nella psicologia, nell’etologia e nell’etnologia,
occupandosi di studio del folklore, di tradizioni popolari, del paesaggio, dell’architettura
rurale, e quindi della civiltà contadina e di quella post-moderna. Lo stesso autore
definisce la paesologia come «scrivere col corpo dei luoghi in cui si vive o dei luoghi
che si attraversano»91. Afferma che la prerogativa della paesologia è l’educazione ad
89
Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista
ibidem
91
Cit. internet intervista Franco Arminio di Alberto Saibene www.doppiozero.com
90
32
una «forma di attenzione in cui l’osservazione del mondo esterno e quella del mondo
interno s’intrecciano continuamente»92.
Un impegno ed una concentrazione quindi non unilaterale ma complessa ed “inquieta”,
pronta a lasciarsi trasportare dall’osservazione. Nella sua opera “Terracarne” lo scrittore
descrive il lavoro del paesologo come quello di colui che va in giro per i paesi,
utilizzando «il punto di vista del cane»93. Questa riflessione è successiva ad
un’importante distinzione in cui identifica coloro che «vengono dalla città, (…) ,
pensano di essere sempre in piedi, in sella al cavallo del mondo e di poter andare alla
conquista di chissà che»94, ed il “Paese” a cui si attribuisce, a mio modo di vedere un
peculiare spirito; un paese vitale che coloro che abitano devono scegliere di vivere, un
paese «che parla se accogli la sua lingua, ti dice che devi dismettere l’arroganza di chi
pensa di essere padrone della Terra»95. Un metodo di osservazione e di scrittura che non
abbraccia stili o poetiche particolari, ma una «scrittura sgretolata (…) ed
un’osservazione del territorio fatta da un animale affratellato ai suoi pericoli, al suo
sgomento»96. La profondità del suo sguardo si propone di cogliere «il funzionamento di
quei particolari organismi che sono i paesi»97. Nel raccontare questi paesi, ripercorre
frammenti di storia personale e collettiva scoprendo i numerosi protagonisti anonimi,
dai cittadini, alle case fino agli edifici pubblici, che insieme intrecciano parte della
trama esistenziale della comunità, piccola o media che essa sia. Attraverso il suo
percorso il paesologo affronta temi diversi «quali il tramonto della civiltà contadina e la
nascita di un’incompiuta civiltà post-industriale, la contrapposizione città-campagna,
centro-periferia, la politica e i suoi fallimenti, le fughe degli emigranti e dei giovani, i
ritorni e la nostalgia»98, e ancora le sconfitte e la rassegnazione, il conflitto tra Napoli e
le provincie, le ostilità e le difficoltà, «e la speranza di una rinascita e di una nuova
umanità attraverso la proposizione di un’alter-nativa meridiana al processo industriale
del capitalismo post-moderno»99.
92
ibidem
Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e giganti del Sud Italia, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano, 2011 pag 9
94
Op. cit.
95
Op. cit.
96
Paolo Saggese, Crescita zero. L’Italia del terzo millennio vista da una provincia del sud, Delta 3
edizioni, Nusco (AV), 2011 pag 103
97
Ibidem, pp. 104
98
Ibidem, pp. 105
99
Op. cit.
93
33
Salvatore Esposito ha avuto modo di conoscerlo personalmente durante
l’incontro con Serge Latouche organizzato dalla Fattoria Sociale.
Considera lo scrittore un buon interprete del genius loci dell’Irpinia, perché è
impegnato a «difendere le tradizioni ed i valori senza essere un conservatore»100 ed a
promuovere l’innovazione culturale con la creazione di nuove reti. Condivide poi
essenzialmente la chiave ermeneutica utilizzata dall’autore, che interpreta il «paesaggio
come risorsa e non come natura morta»101. Il presidente della F.I.C.S. enumera alcune
caratteristiche tipiche dell’Irpinia, iniziando con un’ eccellenza tipica della zona come il
vino, poi considerando la disposizione storica per determinate coltivazione e
produzioni, e ancora la bellezza “malinconica”102 dei piccoli centri portatori di grandi
tradizioni culturali. L’interesse maturato da Salvatore Esposito per l’Irpinia è nelle
potenzialità intrinseche del territorio, ma probabilmente non uniche a questo. Al centro
della riflessione c’è perciò l’Irpinia intesa come “bene relazionale”, contrapposto e
certamente «diverso da quello dei grandi centri urbani, delle metropoli. L’Irpinia e il
Sannio conservano una qualità relazionale e una potenzialità molto più etologicamente
sostenibile»103. Credo che questa distinzione si adegui ad una macro analisi del rapporto
tra città, intesa in quanto dispersione di alcuni legami e rapporti umani, diversa dal
paese considerato come culla e vivaio per questo insieme di relazioni. A mio parere
Arminio nella sua opera “Terracarne” affronta precisamente questa problematica,
inserita in un discorso sul significato della modernità non solo in termini generali ma
specificatamente adattati al territorio dell’Irpinia.
La Fattoria Sociale è inclusa in un quadro di relazioni territoriali, sociali ed
economiche che etologicamente sono molto più sostenibili, meno distrutte di quelle con
cui Salvatore Esposito e gli altri operatori si confrontano nelle aree metropolitane. Lo
stesso Salvatore Esposito ripercorre il suo percorso esistenziale e lavorativo trascorso a
Napoli e nella sua Provincia dove i «rapporti sono molto danneggiati dall’urbanistica
disordinata, dalla pressione della distruzione ambientale»104. Sannio e Irpinia a
differenza delle zone urbane e periurbane delle metropoli conservano un’enorme
potenzialità di relazioni e di territorio. Nell’intervista Salvatore Esposito afferma che
100
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
ibidem
102
Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e giganti del Sud Italia
103
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
104
ibidem
101
34
appunto questo si cerca di valorizzare dell’Irpinia, ma precisa più volte la loro
consapevolezza nell’evitare sterili estremismi e nel correre rischi d’isolarla.
L’obiettivo è costruire «percorsi etologici ed ecologici che proteggano il bene
relazionale senza isolarlo, proteggendolo e proponendolo come modello»105. Senza
alcun dubbio questa “regione geografica” conserva un patrimonio storico, culturale e
politico che richiede un’attenta analisi.
L’Irpinia è descritta come una terra piena di luoghi, uno diverso dall’altro e
perciò prezioso patrimonio di socio-diversità. Lo scrittore Franco Arminio chiama
“umanesimo delle montagne”106 il valore di capitale sociale e di qualità ecologica che il
paese, in quanto cellula elementare della società, conserva. Rispetta la città e non
considera il paese come la soluzione ai mali del nostro tempo, ma il suo obiettivo e
valorizzare e risemantizzare il paese, abbandonando una prospettiva minimalista che lo
individua come un luogo vuoto e in cui mancano le cose. Il suo ragionamento sovverte
il paradigma secondo cui al piccolo paese coincidono piccole cose, ma associa un valore
aggiunto al paese. Riconosce il valore e ammira il progetto della Fattoria Sociale, anche
se ammette di conoscerla poco. Sostiene comunque che ciò che s’impianta nella realtà
contadina, nella terra, non per depredarla ma per riscattarla dallo sviluppo modernista
distruttivo e invasivo, è degno di merito. «Il vero arcaismo è la modernità ed il vero
futuro è invece l’antico, la terra»107. Incoraggia quindi la diffusione sulla rete delle
buone pratiche perché tutti le conoscano, una dinamica che unisca «il computer al pero
selvatico»108.
La Fattoria Sociale promuove questi aspetti. Si costruiscono percorsi che
integrano complessivamente le varie funzioni descritte. Quindi le Fattorie, piccole e
medie attività produttive, valorizzano le tradizioni del territorio, mantenendo una buona
qualità relazionale e facendo inclusione di persone fragili, cosa che secondo i promotori
del progetto non si realizza con sistemi di welfare chiusi, separati, sanitarizzati, ma con
sistemi di accoglienza, di emancipazione, di promozione dell’autonomia delle persone:
«Infatti il disabile alla Fattoria Sociale lavora, realizza le sue potenzialità stando a
contatto con la terra e gli animali, non viene parcheggiato»109.
105
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
Franco Arminio. 17/4/2012. Bisaccia, intervista
107
ibidem
108
ibidem
109
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
106
35
La Fattoria Sociale s’inserisce dunque in un territorio molto complesso dal punto di
vista ecologico ed etologico. Come ho già avuto modo di sottolineare la Campania è
uno sfondo antropologico e sociale difficile da immaginare come esempio e nelle vesti
di paladina delle virtù etologiche ed ecologiche. La Regione situata nel meridione
d’Italia, è appartenente alla fittizia categoria socio-economica delle Regioni del
Mezzogiorno, che preliminarmente la caratterizza in negativo. I fattori sottintesi in
questa definizione e connessi dunque all’accezione di meridione sono diversi e la
Campania rappresenta alcuni di questi: sicuramente l’avvelenamento ambientale e
culturale del territorio emerge con maggior evidenza dalle immagini che vediamo. Vari
problemi endemici come quello del traffico di rifiuti, dell’edilizia abusiva, e dei limiti
politici problematizzano la realtà di questa regione. La zona urbana e peri-urbana del
capoluogo Napoli e della provincia Caserta, sedi e basi di molti dei suddetti traffici,
evidenziano in diversi aspetti lo stato di degrado e abbandono della Regione.
L’Irpinia, come la Fattoria Sociale si propone di segnalare, conserva molte potenzialità
etologiche ed ecologiche, ma è un territorio che nella storia del terzo millennio è stato
messo a dura prova.
36
Secondo Capitolo
Buone pratiche. Tra assistenza e produttività.
La Fattoria Sociale Isca delle Donne è un’impresa no-profit impegnata
nell’agricoltura sociale, e gestita dalla Fics. Il nome, Isca delle Donne, fa riferimento a
un luogo collinare vicino Pratola Serra, dove anticamente le donne si recavano per
lavare i loro vestiti presso un ruscello.
2.1
Caratterizzazione della Fattoria Sociale
«Definizioni delle caratteristiche funzionali della Fattoria Sociale per la promozione di programmi
di sviluppo sostenibile nella Regione Campania»110.
La Fattoria Sociale è definita come:
«impresa no profit economicamente e finanziariamente sostenibile, condotta con etica di
responsabilità verso la comunità e verso l’ambiente ... che utilizza fattori di produzione locali e
svolge attività agricola e zootecnica ... che nel proprio statuto prevede l’inserimento socio-lavorativo
di giovani appartenenti alle fasce deboli, oltre che eventualmente la fornitura di servizi culturali e/o
educativi e/o assistenziali e/o formativi a vantaggio di soggetti con fragilità sociale beneficiari del
Welfare locale ... che soprattutto attraverso l’inserimento lavorativo nell’ambito di attività coerenti
con il modello di sviluppo sostenibile è disponibile a collaborare con le istituzioni pubbliche e con
gli altri organismi del terzo settore in modo integrato, attivando sul territorio reti di relazioni,
creando mercati di beni relazionali, aumentando la dotazione di capitale sociale e offrendo risposte a
bisogni sociali latenti o che i servizi tradizionali non sono in grado di soddisfare ... [che] laddove ciò
110
Delibera della Giunta regionale su Fattorie Sociali. Seduta 6 luglio 2007. Vedi pp. 84
37
è possibile, riutilizza i beni sottratti alle organizzazioni criminali e quindi promuove quale ulteriore
valore aggiunto la cultura della legalità»111.
In conformità alle direttive del Piano Sociale Regionale, la Fattoria Sociale
propone quindi azioni nel campo dell’agricoltura sostenibile e del sociale. La
deliberazione N. 1210, presa nella seduta della Regione Campania il 6 luglio 2007,
articola in 5 punti le funzioni distintive della Fattoria Sociale112: il concetto
fondamentale, che a mio parere garantisce maggiore coerenza al progetto, è il carattere
no profit dell’impresa, che è economicamente e finanziariamente sostenibile, teorizzata
e condotta con un etica di responsabilità verso la comunità e il territorio. La continuità
con il territorio prevista nel secondo punto della delibera, come ho avuto modo di
provare nel corso della mia ricerca è sostenuta anche con l’utilizzo di fattori locali e
svolgendo attività agricola e zootecnica. Nello statuto è previsto inoltre la fornitura di
servizi culturali e assistenziali rivolti a vantaggio di soggetti con fragilità sociale
beneficiari del Welfare locale, quindi un’attenzione secondo me di rilievo per le fasce
deboli della popolazione. Coerentemente con il modello di sviluppo sostenibile
ecologicamente proposto da Latouche, si impegnano anche per l’inserimento lavorativo
e per la collaborazione con istituzioni pubbliche ed altri organismi del terzo settore in
modo integrato, attivando così reti di relazioni e aumentando il capitale sociale del
territorio. Si soddisfano con queste pratiche il terzo e il quarto punto della delibera,
occupandosi di tematiche legate al lavoro e alla valorizzazione del capitale sociale e
relazionale. Rispettando l’ultimo punto del decreto, laddove sia possibile, queste
imprese riutilizzano beni sottratti alle organizzazioni criminali promuovendo quale
valore aggiunto la cultura della legalità. La rete FICS, che come dicevo gestisce la
Fattoria Sociale, collabora con l’associazione “Libera. Associazioni, nomi e numeri
contro le mafie”113, che dal 1995 promuove la cultura della legalità e della giustizia, ed
111
ibidem
ibidem
113
Nata nel 1995, Libera ha lo scopo di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere
legalità e giustizia. Ora Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, scuole, realtà di base,
territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la
cultura della legalità. La legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità
democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, le attività antiusura, sono
concreti impegni di Libera. E’ riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della
Solidarietà Sociale. Nel 2008 è l'Eurispes la inserisce tra le eccellenze italiane. Nel 2012 la rivista The
Global Journal la comprende nella classifica delle cento migliori Ong del mondo: è l'unica organizzazione
italiana di "community empowerment" che figuri in questa lista, la prima dedicata all'universo del noprofit. (www.Libera.it)
112
38
è centrale nella lotta a tutte le mafie. Da questa delibera si tracciano quindi le cinque
funzioni principali sopra riportate, ma questo scenario poteva già prefigurarsi in diversi
decreti regionali. E’ tra il 2006 e il 2007 che la giunta regionale emana le norme
istitutive della Fattoria Sociale. Il D.D.L regionale del novembre 2006, occupandosi di
dignità e cittadinanza sociale, disciplina la programmazione e la realizzazione di un
sistema organico di interventi e servizi sociali, che implica il concorso di istituzioni
pubbliche e di formazioni sociali. Inoltre, la già citata Legge quadro n. 328 per la
realizzazione del sistema integrato d’interventi e servizi sociali del 2000, prevede la
realizzazione degli interventi e dei servizi sociali, in direzione di una politica integrata e
unitaria.
2.2
La Fattoria Sociale Isca delle Donne
La Fattoria Sociale Isca delle Donne, come detto, nasce nel Comune di Pratola
Serra nel 2007, e si estende su un area di circa 300.000 quadrati (fig. 3).
Pratola Serra è un piccolo paese in prossimità del fiume Sabato distante circa 21 km da
Avellino, che ospita poco più di 3200 abitanti. Dal 2007 i lavori d’implementazione
strutturale proseguono incontrando nel loro completamento soltanto ostacoli di carattere
naturale. Superando l’ingresso alla struttura si ha accesso ad un ampio parcheggio
“naturale”, coperto di terra battuta e privo di cementificazioni di qualsiasi tipo. Alla
sinistra si apre un’ampia parte del complesso adibita alla coltivazione degli ulivi, pianta
tipica della vegetazione Campana, presente in buona parte della zona appenninica. Poco
dopo è visibile l’imponente serra, destinata alla coltivazione di piante grasse. Questo
fabbricato, costato alla Fattoria inizialmente 15.000 euro, una volta attivo sarà un
importante contributo per la sussistenza economica del progetto, producendo articoli
inseriti in filiere corte del mercato. Il suo completamento è stato ritardato da incidenti
causati dalle intense nevicate di febbraio 2012. La neve, appesantendone criticamente il
39
rivestimento superiore, ha causato alcuni crolli nell’edificio114. Le spese complessive
della costruzione in totale sono più ingenti.
Continuando sulla sinistra troviamo l’entrata del Parco etologico, che si estende per
circa 5.000 metri quadrati all’interno dell’area complessiva. Poco più avanti arriviamo
all’ex casa rurale ora adibita a sede degli uffici della Fattoria (fig. 4). Quest’edificio,
formato da diverse stanze funzionali, permette di ospitare l’archivio cartaceo dei
progetti della Fattoria, di essere sede delle riunioni tra gli operatori e anche di accogliere
all’interno di un’ampia stanza incontri ufficiali con istituzioni o con altri enti del terzo
settore. Superati alcuni piccoli recinti per animali di piccola taglia, troviamo la porzione
di terreno più estesa della Fattoria fittamente coperta da piante di vite, in quest’aria sono
stati prodotti quattromila litri di Fiano di Avellino D.O.C.G115.
La Fattoria Sociale è sostanzialmente un luogo nel quale gli spazi e le
coltivazioni vengono gestiti e coltivati da gruppi misti di operatori e persone
svantaggiate, che si prendono cura della terra e delle aree laboratoriali privilegiando un
metodo di produzione biologico, con attenzione a proteggere l’ambiente e il paesaggio,
nel rispetto etologico delle specie animali e rispettando i processi naturali di
trasformazione dei prodotti. Non vuole essere solo un luogo di produzione sostenibile,
ma anche un luogo di relazioni e di formazioni. La responsabilità verso tutti gli
organismi viventi, e quindi di tutta la natura, è la sintesi della responsabilità e della
riflessione riguardo il futuro del pianeta. Ogni diversa abilità, capacità e risorsa acquista
quindi un profondo significato e una precisa funzione nella rete integrata dei rapporti,
114
Irpinia ancora nella morsa della neve e del ghiaccio. E' la quarta giornata di emergenza. Purtroppo
dalla Protezione civile non arrivano notizie confortanti. E' previsto da stanotte e fino a domani un nuovo
peggioramento. In arrivo una nuova precipitazione nevosa che potrebbe portare altri 10-15 centimetri di
neve. (Emergenza neve in Irpinia. Situazione ancora drammatica. www. Irpiniaoggi.it)
115
Zona di produzione: intero territorio dei comuni Avellino, Lapio, Atripalda, Cesinali, Aiello del
Sabato, S. Stefano del Sole, Sorbo Serpico, Salza Irpina, Parolise, S. Potito Ultra, Candida, Manocalzati,
Pratola Serra, Montefredane, Grottolella, Capriglia Irpina, S. Angelo a Scala, Summonte, Mercogliano,
Forino, Contrada, Monteforte Irpino, Ospedaletto D'Alpinolo, Montefalcione, Santa Lucia di Serino e San
Michele di Serino, in provincia di Avellino. Il ruolo dell'Irpinia nella storia della viticoltura campana era
talmente rilevante che alla linea ferroviaria Avellino Rocchetta Sant'Antonio venne dato il nome di
"Ferrovia del vino". Completamente circondata da vigneti, la provincia di Avellino offre vini di fama
internazionale come il Greco di Tufo, il Taurasi e il Fiano. Quest'ultimo prende il nome dal vitigno
omonimo, che i latini chiamavano Vitis apiana, grazie alle api, particolarmente ghiotte della dolcezza di
queste uve. Questo vino molto apprezzato già nel Medioevo, ha un'origine millenaria. Nel registro di
Federico II di Svevia, vissuto nel XIII secolo, è annotato un ordine per tre "salme" di Fiano. Anche Carlo
d'Angiò doveva amare il buon vino, al punto da impiantare nella propria vigna reale ben 16.000 viti di
Fiano. (www. Agraria. Org)
40
quindi nella qualità dell’ordinamento produttivo fondata sul rispetto delle risorse
personali e sulla responsabilità dei compiti condivisi.
Gli obiettivi principali che sono perseguiti sono la produzione di qualità
sostenibile, connessa ad una costante lotta al mondo dell’esclusione sociale. La funzione
di orientamento e formazione di giovani si collega con quella fondamentale della
responsabilità sul progetto di formazione e lavoro.
Dopo quanto detto intorno all’organizzazione dello spazio e ai progetti avviati,
possiamo affermare e descrivere la Fattoria Sociale come luogo aperto sia da un punto
di vista strutturale, sia come comunità formativa. Viene valorizzato il radicamento
territoriale, con un programma d’integrazione dello sviluppo locale che promuove reti
nazionali ed internazionali di solidarietà. La base su cui si fonda la Fattoria Sociale sono
i principi di autogestione e le potenzialità pubbliche di finanziamento di servizi
necessari alla garanzia dei diritti di cittadinanza delle persone. In termini giuridici per
cittadinanza s’intende la condizione della persona fisica, appunto il cittadino, alla quale
lo Stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici. Il concetto di cittadinanza si
ricollega quindi alla titolarità indiscutibile di determinati diritti che sono enunciati nella
Costituzione, quindi diritti civili, politici e sociali. Il termine Welfare è riferito allo
Stato Sociale e rappresenta quell’insieme di provvedimenti che uno stato adotta per
promuovere l’uguaglianza sociale, fornendo alla popolazione quei servizi concepiti
come diritto di ogni cittadino. L’ispirazione e l’impegno solidaristico non intendono
sostituire le funzioni istituzionali pubbliche, ma proporre, in territori socialmente
complessi come quello campano, sistemi di assistenza alle politiche pubbliche.
La proposta avanzata dalle pratiche promosse dalla Fattoria Sociale, è di un patto
di cittadinanza fondato su un Welfare rigenerativo116. La qualità del Welfare di
comunità è l’orizzonte teorico e di senso, cui si dà risposta con una agricoltura
socialmente responsabile per rispondere ai nuovi bisogni della collettività, delle
persone, e del futuro delle generazioni. A mio parere la Fattoria Sociale concretizza
attivamente molte di queste linee guida indicate nella costituzione. Incentivando nelle
sue pratiche l’inclusione e la partecipazione, anche per fasce deboli della popolazione,
116
welfare rigenerativo nelle aree rurali, in quanto si tratta di attualizzare le reti di mutuo-aiuto e i valori
della reciprocità, che da sempre hanno costituito i caratteri peculiari del mondo rurale. (Rete Fattorie
Sociali) welfare rigenerativo, cioè capace di rivitalizzare l'autenticità delle risorse rurali per soddisfare i
bisogni reciproci che legano città e campagna (Alfonso Pascale Forum delle Fattorie Sociali della
Provincia di Roma)
41
ritengo importante riconoscere una validità fortemente politica al progetto. La sua
funzione sociale nel contesto territoriale mi sembra indubitabile, dato l’impegno a
garantire servizi e prestazioni sociali ai cittadini, non esclusivamente quelli che
usufruiscono del sistema di Welfare nazionale.
Ritengo inoltre, nel momento in cui si riconosce il valore del pensiero di
Latouche, che le attività e le progettualità della Fattoria siano inserite in una riflessione
molto attenta ai bisogni del cittadino, alla sua felicità e al suo futuro. Infatti la
promozione di un programma produttivo, con una marcata impronta etologica ed
ecologica, garantisce nel territorio in questione molti elementi di positività e benessere.
2.3
Un impresa sociale fondata sulla sostenibilità e sulla produttività
Un’impronta etologica ed ecologica coerente ha richiesto un sostanzioso
processo di auto-formazione per stare attenti a non utilizzare metodi, tecniche di lavoro
che sono assimilabili all’agricoltura intensiva e distruttrice della terra. «E’ come
inventare un prodotto nuovo, è come inventare una strategia produttiva nuova»117.
Salvatore Esposito, sottolinea che da questo punto di vista: «Non abbiamo trovato molti
maestri sul territorio»118.
La Fattoria Sociale Isca delle Donne è un’impresa economicamente e
finanziariamente sostenibile, condotta in forma associata da una rete di soggetti del
terzo settore, che svolge l’attività produttiva agricola e zootecnica proponendo i suoi
prodotti sul mercato, in modo integrato con l’offerta di servizi culturali, educativi,
assistenziali, formativi e occupazionali a vantaggio di soggetti deboli (portatori di
handicap, tossicodipendenti, detenuti, anziani, bambini e adolescenti) e di aree fragili
(montagna e centri isolati), in collaborazione con istituzioni pubbliche e aziende private.
Alcune delle funzionalità che ho descritto e mi propongo di descrivere, non sono ancora
attive proprio perché il processo d’implementazione strutturale e logistico ancora non è
del tutto completato. Negli ultimi mesi del 2012, sarà già riconoscibile il profilo
definitivo del complesso: tra i mesi di settembre e novembre è prevista la conclusione
117
118
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
ibidem
42
della costruzione del Parco Etologico, e ritengo che poco dopo la fine dei lavori esso
possa essere attivo. E’ prevista la riparazione della serra adibita alle piante grasse
nell’arco dei prossimi tre mesi, e anche questa come il Parco sarà centrale nei processi
d’inclusione sociale ed educazione/formazione all’ambiente.
Il lavoro nella vigna è invece già attivo. Nei progetti prossimi della Fattoria è
prevista anche l’apertura di un centro per la vendita dei prodotti della Fattoria,
sottoforma sia di commercio dei beni, sia di ristorante sociale, cioè un’attività
economica che prevede il consumo delle merci stesse della Fattoria. La vendita e i ricavi
del commercio, naturalmente saranno investiti nel progetto della Fattoria. Il piano di
lavoro centrale della Fattoria è di carattere pratico, vuole produrre e fare scelte
produttive funzionali al mercato e funzionali alla buona vita delle persone. La
valorizzazione commerciale dei prodotti potrà avvenire sia mediante la vendita diretta,
sia rifornendo i gruppi di acquisto solidale da promuovere nelle Unità Operative della
rete solidale di riferimento mediante l’etichettatura etica. Cruciale è il contatto diretto
dei consumatori con l’azienda. Le attività sociali della fattoria si potranno estendere a
tutte quelle persone che possono e vogliono, responsabilmente, contribuire allo sviluppo
delle attività laboratoriali dell’impresa sociale.
La mia analisi deve fare i conti quindi con un progetto ancora non del tutto
avviato, che si sta costruendo e rafforzando grazie ad una rete di impegno, da parte di
operatori, di sindaci e cittadini sempre più vasta. Parlare di alcune delle progettualità
che si stanno lentamente concretizzando, a mio parere è molto utile per avere un quadro
più completo della Fattoria Sociale. Sono previsti per il futuro anche soggiorni periodici
che potrebbero coincidere con le visite scolastiche, e dar luogo a forme organizzate di
trasmissione delle esperienze dalle generazioni più mature ai ragazzi. Si potranno
insediare ludoteche e centri di produzione artistica. Si potranno installare servizi internet
e postali, punti vendita di libri, giornali e materiale multimediale, sportelli di enti ed
associazioni, soprattutto nei piccoli centri dispersi dove queste attività non sono
economicamente sostenibili se svolte in via principale. La fattoria sociale, in sostanza,
dovrà essere intesa come centro di servizi sociali, ma anche di aggregazione delle aree
rurali, dove la comunità si potrà ritrovare, con le persone che vi operano, nelle più
svariate iniziative, da quelle culturali a quelle ricreative e turistiche.
43
E’ per questo motivo che nell’agricoltura sociale praticata dalla Fattoria Sociale,
la responsabilità sociale d’impresa non è un nobile orpello etico, un “habitus” per
edulcorare il lavoro di un’attività che invece ha la sua ragion d’essere nella
realizzazione di valore economico. Ma anche solo per rimanere sul piano economico, la
responsabilità sociale in agricoltura è un investimento dal quale aspettarsi ritorni non
solo per l’impresa agricola ma anche per tutta la società, verso la quale i suoi obiettivi
sono finalizzati. In sostanza, investire in responsabilità sociale per un’azienda agricola
significa non solo produrre consenso e reputazione, ma "beni pubblici": più qualità, più
tutela ambientale e paesaggistica, più utilizzo virtuoso ed efficiente delle risorse
energetiche, più relazioni improntate al mutuo aiuto, più sviluppo che tenga conto dello
spirito civico. E ciò giustifica e pretende la piena considerazione dell’agricoltura nelle
politiche economiche e sociali ad ogni livello di governo, dal Municipio all’Unione
europea.
2.4
L’agricoltura sociale
Molte delle informazioni e definizioni riportate in questo capitolo sono
contenute nel libro “Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone
pratiche per il Mezzogiorno del Paese”, scritto da diversi operatori e studiosi della
Fattoria Sociale e a cura di Salvatore Esposito. Sarà pubblicato nei prossimi mesi.
L’agricoltura sociale è uno dei principi che a mio parere esemplifica al meglio il
progetto della Fattoria Sociale, perché racchiude intrinsecamente la maggior parte degli
aspetti caratterizzanti di questo innovativo modello di Welfare e di cittadino. Credo
perciò sia necessario concentrarsi ora sul concetto di agricoltura sociale, coglierne il
significato articolato e complesso. La relazione che lega i due concetti veicolati
nell’espressione agricoltura sociale, fornisce una chiave d’interpretazione determinante
per la piena comprensione del progetto, perciò ho deciso di dedicare parte del mio
lavoro ad una riflessione ampia su questo tema. La “innovativa” connessione valorizza
44
la funzione sociale dell’agricoltura tradizionale. Si è cercato di racchiuderne l’ampio
significato in questa definizione:
«attività che impiega le risorse dell’agricoltura e della zootecnia, la presenza di piccoli
gruppi, famigliari e non, che operano in realtà agricole per promuovere azioni terapeutiche, di
riabilitazione, di inclusione sociale e lavorativa, di ricreazione, servizi utili per la vita quotidiana e di
educazione»119.
Ciò nonostante, il ragionamento intorno ai suoi caratteri, alle sue potenzialità e
ai suoi limiti resta, ovviamente, del tutto aperto. Come palesemente evidenziato dalla
mancanza, ad oggi, di una sua definizione puntuale ed unanimemente condivisa. Da
quando, nel 2001, le Università della Tuscia e di Pisa e l’Agenzia Regionale per lo
Sviluppo e l’Innovazione nel settore agricolo-forestale della Regione Toscana avviarono
i primi studi sull’argomento, quello dell’“agricoltura sociale” ha smesso di essere un
tema sconosciuto al dibattito scientifico ed istituzionale italiano120. Da allora il crescente
interesse di enti di ricerca, attori politici ed associazioni, ne ha fatto l’oggetto di un
confronto significativo, favorendo non poco la diffusione delle pratiche e la
condivisione delle esperienze.
Gli operatori della Fattoria Sociale con cui ho affrontato questa riflessione, più
che di una tematica consolidata mi parlano ancora d’una «ipotesi di lavoro» che
necessita di un’attenta analisi per essere assunta come effettivo strumento d’intervento.
Pertanto, sottolineano i miei informatori, possiamo riferirci ad essa solo in quest’ampia
e alquanto generica prospettiva. Ho riportato prima la definizione che prova a
racchiudere l’ampio significato. Approfondendo queste tematiche si comprende come a
rendere ulteriormente complesso il quadro del ragionamento scientifico e delle
prospettive concrete dell’agricoltura sociale sta la natura multidisciplinare e per alcuni
versi ambivalente che innegabilmente la caratterizza. Quando si parla di intervento
sociale attraverso le risorse dell’ambiente agricolo è infatti possibile utilizzare almeno
119
F. Di Iacovo, Agricoltura sociale: quando le campagne coltivano valori, FrancoAngeli, Milano, 2008,
pp. 14. cit. in AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e
Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese, in corso di pubblicazione
120
Cfr. F. Di Iacovo, L’agricoltura sociale: nicchia o pratica inclusiva, in A. Ciaperoni (a cura di),
Agricoltura biologia e sociale, strumento del welfare partecipato, Quaderni AIAB, Roma, 2008, pp. 63.
45
tre differenti approcci, che afferiscono ad altrettante tematiche “forti” e particolarmente
attuali121.
L’approccio più comune riguarda il carattere articolato dell’agricoltura, che i
miei intervistati sono soliti descrivere come la «multifunzionalità dell’agricoltura»122.
Con questa espressione s’intende la capacità dell’impresa di «erogare, accanto ai
tradizionali beni agroalimentari e agro-industriali, una pluralità di servizi in prevalenza
indirizzati alle persone e alle comunità locali»123. L’offerta delle suddette prestazioni
sociali era ed è spesso tralasciata dal dibattito sull’argomento, ma ora il suo valore si sta
affermando sempre di più come risposta ideale alle esigenze che sottendono la stessa
idea di multifunzionalità. Ciò consente innanzitutto una diversificazione dell’offerta
altamente sostenibile e incidente in modo significativo sullo stesso contesto nel quale
l’impresa opera, contribuendo così a garantire la riproduzione di quel capitale sociale la
cui scomparsa è avvertita quale conseguenza diretta dell’egemonia dei processi di
“industrializzazione” del settore. Un ulteriore approccio preme invece più direttamente
sulla questione dell’evoluzione delle forme di Welfare dello Stato contemporaneo. La
crisi del welfare state, il conseguente passaggio a forme di welfare community e la
valorizzazione dei percorsi di sussidiarietà orizzontale all’interno del sistema dei servizi
sociali pongono infatti per le campagne questioni ulteriori rispetto a quelle delle aree
urbane, dove la difficoltà nel reperire ed utilizzare le risorse territoriali si presenta in
maniera senz’altro meno impellente. L’ultima, non meno importante questione concerne
il nuovissimo tema dell’economia civile, una «concezione che guarda all’esperienza
della socialità umana e della reciprocità all’interno di una normale vita economica»124.
Le pratiche di agricoltura sociale appaiono, per l’alta sostenibilità e la forte capacità di
generare beni relazionali che in genere le caratterizzano, una frontiera estremamente
promettente alla quale rivolgersi.
121
S. Senni, L’agricoltura sociale tra welfare e mercato, in A. Ciaperoni (a cura di), Agricoltura biologia
e sociale, strumento del welfare partecipato, Quaderni AIAB, Roma, 2008 pp. 42 cit. in AA.VV. (a cura
di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone pratiche per il
Mezzogiorno del Paese
122
AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone
pratiche per il Mezzogiorno del Paese
123
http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=912
124
L. Bruni, S. Zamagni, Economia civile: efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2004,
pp. 18 cit. in AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e
Decrescita. Buone pratiche per il Mezzogiorno del Paese
46
L’agricoltura ha posseduto sempre intrinsecamente un aspetto sociale. Mi
riferisco al valore di solidarietà e reciprocità che ha sempre caratterizzato le aree rurali:
quindi i legami di scambio tra le famiglie agricole; l’inserimento lavorativo delle
persone marginalizzate; il rapporto maieutico che si stringeva tra gli anziani e i giovani
della comunità perché spesso, le donne e gli anziani, si facevano carico dell’educazione
dei più giovani. L’agricoltura, nella sua dimensione sociale e relazionale, è stata già al
centro di un dibattito psichiatrico ottocentesco. Riporto un sunto di alcune
considerazioni di psichiatri vissuti a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo
secolo, periodo in cui la psichiatria era ancora stagnata su discorsi sulla malattia mentale
rinnegati dalla psichiatria moderna. Alcuni psichiatri comunque, come l’americano
Benjamin Rush, l’illuminista Philippe Pinel e Wilhelm Griesinger colsero il ruolo
pervasivo dell’agricoltura per il trattamento delle malattie mentali. Il giardinaggio, il
lavoro agricolo e complessivamente il contatto con la natura e gli animali risultarono già
allora una efficace terapia nella lotta contro le malattie mentali125.
Un primo embrionale tentativo di conciliazione strutturale uomo-natura-animale
per scopi sociali è avvenuto nel 1872 in Inghilterra, quando William Tuke studia e
sperimenta delle cure per malati mentali attraverso il contatto con gli animali di piccola
taglia e il giardinaggio. Capisce che queste tecniche sono fonte di stabilità ed equilibrio,
al contrario dell’assoluta inattività e della mancanza di coinvolgimento delle persone
con problemi, che così peggiorano la loro situazione. L’attività manuale a contatto con
la terra e con la natura favorisce il processo di guarigione. L’Europa rurale aveva
sperimentato quindi, già nel passato, le possibilità offerte dall’agricoltura,
dall’allevamento e dalla cura di animali nelle pratiche d’inclusione sociale. Ricordiamo
esperienze simili anche a Gheel, cittadina Belga vicina ad Anversa, dove persone con
problemi psichici venivano affidate alle famiglie dei contadini, che li ospitavano nelle
loro fattorie.
Storicamente importante anche la colonia agricola di Clermont-Ferrand126 in
Francia, dove prende piede il modello della fattoria distaccata dall’ospedale psichiatrico.
Anche a York si verifica una vicenda simile, permettendo a diversi soggetti affetti da
disturbi psichici di vivere in una casa in campagna, con la possibilità di coltivare orti e
giardini e a contatto con il mondo esterno.
125
126
http://www.psicoterapie.org/451.htm
http://www1.inea.it/pdf/AgricolturaSociale.pdf
47
Soltanto in tempi recenti l’agricoltura sociale ha attirato l’attenzione delle
istituzioni europee e nazionali, maturando consapevolezze e ottenendo successi in
alcuni paesi particolarmente, come nel caso dei Paesi Bassi che l’hanno riconosciuta
attraverso una normativa apposita. La Fattoria promuove un’idea di agricoltura sociale
che travalicando i confini dell’agricoltura tradizionale trova la sua forza nell’ottica della
multifunzionalità del contesto rurale, inteso come luogo produttore di benessere.
Certamente durante il ventesimo secolo si sono sperimentate ed hanno acquisito valore
alcune terapie che prevedono attività connesse alla natura. Osserviamo adesso il
dibattito contemporaneo su alcune funzioni terapeutico-riabilitative. Una di queste
diffusasi a partire dagli anni trenta del ‘900 è la terapia assistita dalle piante
(horticultural therapy127). Si sviluppò nei paesi anglosassoni come vera e propria
disciplina curativa che coniuga competenze mediche con quelle botaniche. Può
applicarsi a numerose tipologie di disagio, e consiste nel coinvolgere il singolo
individuo in operazioni di giardinaggio che promuovono il suo benessere, e ciò che
produce diventa prodotto stesso del suo processo di guarigione. Quando si parla invece
dell’healing gardens128, i giardini che curano, ci riferiamo ad una pratica della medicina
olistica, quel settore della disciplina che considera il malato dal punto di vista fisico e
psichico caricandolo della responsabilità delle scelte per la sua salute. Questo approccio
terapeutico si collega strettamente al rapporto uomo-natura e, in particolare, al giardino
come utile complemento della cura. Durante gli anni ’50 si sono sviluppate negli Usa
anche cure e terapie basate sull’interazione tra uomo e animali, concrete esperienze di
zooantropologia. Comunque è dall’inizio degli anni ’60 che si è identificato l’utilizzo di
animali da compagnia con il termine “pet therapy”, sostituito sempre più dalle più
appropriate locuzioni “Animal Assisted Therapy” (A.A.T.) e “Animal Assisted
Activities” (A.A.A.)129. Da oltre trent’anni nel nostro paese si pratica l’ippoterapia, che,
combinandosi virtuosamente con l’equitazione, ha contribuito alla diffusione
dell’equitazione sociale. Concludiamo con l’onoterapia, diffusa negli ultimi anni, che si
basa sulle relazioni particolarmente intense ed empatiche che l’asino riesce a stabilire
con le persone.
127
http://attraversogiardini.it/2006/08/26/agriverde-venti-anni-di-horticultural-therapy/
http://www.healingarden.it/healing%20gardens.html
129
http://www.pettherapyitalia.it/?page_id=307
128
48
Questo tipo d’agricoltura inevitabilmente s’intreccia con il Welfare, tramite il
principio di sussidiarietà, interagendo con l’economia civile, stabilendo una rete di
relazioni nuove al suo interno ed all’esterno, e soprattutto ponendo al centro del suo
agire l’uomo. Da questa prospettiva l’agricoltura sociale si connette strettamente ad altri
settori quali la sanità, l’assistenza sociale, l’istruzione e lo sviluppo territoriale
sostenibile. Le Nazioni appartenenti alla comunità europea hanno affrontato la
questione dell’agricoltura, tentando di valorizzarne i benefici. Ogni stato membro della
comunità europea infatti ha l’obbligo di presentare il Piano Strategico Nazionale
(PSN)130. Il PSN per lo sviluppo rurale ha la finalità di garantire la coerenza strategica
tra i piani comunitari, nazionali e regionali, e gli obiettivi sono la valorizzazione delle
risorse ambientali, quindi biodiversità, paesaggio, suolo, clima e poi l’interazione tra le
attività agricole e gli altri settori dell’economia dei territori rurali, tra cui anche il
turismo. Per quanto riguarda il PSN italiano 2007-2013131 i punti principali sono il
miglioramento dell’ambiente e dello spazio rurale, favorendo la competitività del settore
agricolo forestale, e puntando ad un incremento della qualità della vita nelle zone rurali.
Questo Piano di lavoro nasce dalla necessità di uno stretto collegamento tra
l’impostazione strategica comunitaria e quella locale, quindi la necessità di una
maggiore coerenza nelle scelte strategiche che seguono un filo rosso tra i vari livelli di
programmazione. Questo PSN pubblicato nel 2009 non dedica all’agricoltura sociale
una sufficiente attenzione. L’ultima versione del 2010 ha ampliato lo sguardo
sull’agricoltura sociale includendola così in un programma ampliato di sviluppo. Quindi
al miglioramento del settore agricolo e forestale si accompagna la promozione
dell’ammodernamento e dell’innovazione nelle imprese rurali e dell’integrazione nelle
filiere. Si punta inoltre ad avvalorare l’attrazione dei territori rurali per le imprese e la
popolazione.
Le mie ricerche evidenziano quanto tutto questo programma si stia
concretizzando senza essere ancora pervenuti ad una definizione ufficiale di agricoltura
sociale. La definizione più autorevole europea è quella fornita dalla “Green Care in
agricolture”, secondo la quale l’agricoltura sociale fa riferimento all’«utilizzo delle
130
Nel modello programmatorio delineato dal nuovo Reg. Ce 1698/2005, il Piano Strategico Nazionale
per lo Sviluppo Rurale ha, come noto, lo scopo di rendere coerente la pianificazione agricola regionale
con gli obiettivi di settore stabiliti a livello comunitario
131
http://www.esportareilterritorio.coldiretti.it/Documenti/PSN%20maggio%202006.pdf
49
attività agricole come base per promuovere salute mentale e fisica e migliorare la
qualità di diverse tipologie di utenti»132. A mio parere la definizione scientifica di
agricoltura sociale soffre ancora una certa fragilità, prodotta dalla mole di esperienze e
risultati diversificati da contesto a contesto. Per questo motivo gli operatori della
Fattoria Sociale la considerano ancora un’ipotesi di lavoro, ma si comprende quanto una
normativa scientifica condivisa renda più semplice un’analisi e uno studio di questo
fenomeno. La Fattoria Sociale e i suoi stessi operatori considerano la multifunzionalità
dell’agricoltura sociale uno dei cardini strategici sul quale implementare un modello
equo e sostenibile di sviluppo capace d’interpretare i nuovi output dei processi agricoli
non strettamente connessi allo specifico mercato. Infatti i valori enucleati
dall’agricoltura sociale, istruzione, benessere dei singoli, bellezza dei contesti rurali e
promozione di pratiche a basso impatto ambientale, sono elementi imprescindibili e
importanti quanto il bene materiale.
Si può affermare in ultima istanza che la finalità è quella di utilizzare il processo
produttivo agricolo per produrre cibo qualitativamente ottimo, ma allo stesso tempo
generare benessere individuale e sociale. Non è senza dubbio marginale inoltre l’aiuto
offerto a persone svantaggiate in termini occupazionali e d’integrazione in un contesto
di vita dove possano esprimere al meglio le loro capacità personali. La risorsa terra così
ottimizzata torna ad essere l’elemento principale con cui interagire con tecniche che
riducano al minimo l’impatto ambientale e dove la ricerca del bene primario e si collega
si connette con l’importanza del bene relazionale. Per relazione s’intende non solo il
mero aspetto produttivo o esclusivamente il rapporto con i soggetti svantaggiati, ma la
sua portata si deve estendere alla totalità dei rapporti con il territorio circostante che
interagisce nelle varie fasi della produzione.
Mi sono già occupato di sottolineare il ruolo centrale che il territorio acquista
nell’impegno teorico e nelle attività pratiche della Fattoria Sociale presa in
considerazione. Ritengo molto importante l’impegno nel mercato della filiera corta,
concentrandosi su una vendita a chilometro zero, ri-cerca e simultaneamente tenta di
ri-creare relazioni umane sia esterne che interne. A mio parere si coglie il valore sociale
di questo tipo di agricoltura, con il suo contributo alla coesione sociale della collettività.
Tramite l’esperienza di questo nuovo ruolo dell’agricoltura, si supera la prima ristretta
132
AA.VV. (a cura di Salvatore Espsosito), Agricoltura Sociale, Welfare, Comunità e Decrescita. Buone
pratiche per il Mezzogiorno del Paese
50
definizione di multidimensionalità che è concentrata solo sulla produzione di servizi
ambientali e sulla fruibilità turistica delle arie rurali. Si afferma quindi il fine sociale
delle risorse biologiche, e cioè un vero e proprio sviluppo innovativo delle arie rurali
verso un aumento dei servizi e una redistribuzione della ricchezza.
In tutti i Paesi europei si possono rilevare forme di utilizzo dell’agricoltura a fini
integrativi, terapeutici e riabilitativi di disabili o altri soggetti in situazione di disagio
sociale. Manca in ogni caso uniformità d’azione e si registrano realtà organizzative e
forme d’intervento assai diverse da paese a paese.
L’Olanda è sicuramente il Paese oggi più avanzato in termini di sviluppo e
diffusione dell’attività agricolo-sociale. Le Social Care Farms, letteralmente “fattorie
sociali assistenziali” nascono negli anni ’90 come modello di auto-organizzazione. E’
possibile ripercorrere l’incremento esponenziale di questa pratica in Olanda, che è
passata da 75 unità attive sul territorio nel1998 ad oltre 800 oggi. Oggi inoltre l’attività
terapeutica fornisce entrate superiori rispetto al ramo agricolo dell’impresa.
Storicamente le care farms hanno ospitato diverse tipologie di clienti: infatti partendo
con l’assistenza alla disabilità mentale e psichica, oggi il sostegno è garantito anche ad
anziani, soggetti con dipendenze, disadattati, disoccupati stabili, ex-detenuti, immigrati
e profughi con difficoltà d’inserimento sociale, adolescenti e bambini difficili133. Anche
in Francia esistono diverse reti d’iniziative a finalità sociale. Le più note sono
sicuramente quelle dei Jardins de Cocagne, attività che riunisce aziende impegnate in
progetti agricoltura sociale, gestite da organizzazioni non a fini di lucro la cui primaria
finalità è di promuovere inclusione sociale e fornire impiego a persone caratterizzate da
difficoltà sociale, professionale e personale. Il lavoro è caratterizzato dalla gestione
sostenibile dei giardini attraverso la produzione di prodotti biologici venduti a gruppi di
cittadini organizzati. Le percentuali di questi anni testimoniano il successo dei jardins
per quanto riguarda il reinserimento di soggetti deboli nel mercato del lavoro con circa
133
Nel solo 2006 le attività “sociali” in fattoria hanno generato circa 600 nuovi posti di lavoro. È stato
inoltre dimostrato come la percentuale di imprese che resistono al passaggio fra generazioni all’interno
dello stesso nucleo familiare è molto più alta (79% contro 60%) nei casi delle care farms rispetto alle
fattorie tradizionali, mentre ben il 35% agricoltori non potrebbe più proseguire l’attività primaria senza il
reddito proveniente dai servizi di cura. F. Di Iacovo, D. O’ Connor (a cura di), Supporting Policies for
Social Farming in Europe: Progressing Multifunctionality in Responsive Rural Areas, ARSIA, Sesto
Fiorentino (FI), 2009, p. 123.
51
il 33% di riuscita, e con i restanti 2/3 in cui si riscontrano comunque buoni risultati in
termini di capacità di relazione134.
Esperienze di questo genere in Europa sono rintracciabili anche in altri stati
europei come la Norvegia, il Belgio e la Germania.
Da questa breve analisi storica possiamo far emergere i tre punti principali a cui
l’agricoltura sociale oggi dovrebbe aspirare. Uno è l’impulso alla multifunzionalità e
alla diversificazione, cui si unisce la possibilità di creare economia civile e infine di
fornire servizi sociali, contribuendo alla creazione di un Welfare innovativo.
Le prime esperienze Italiane di utilizzo dell’agricoltura a fini sociali sono
tradizionalmente collocate alla fine degli ’60 del secolo scorso, stagione di consistente
mobilitazione collettiva che investì larga parte della società italiana e che ebbe come
obiettivo anche il superamento delle forme tradizionali di trattamento della marginalità.
Contemporaneamente alla lotta per l’abolizione delle istituzioni manicomiali,
cominciarono a costituirsi senza nessun supporto istituzionale cooperative sociali ante
litteram, con lo scopo di favorire il reinserimento lavorativo di persone fragili o
svantaggiate. Dopo una lunga fase di sperimentazione “dal basso”, solo all’inizio degli
anni ’90 si giunge ad un esplicito riconoscimento di queste realtà. Infatti la Legge 381
del 1991 prefigurava un quadro normativo certo con il quale confrontarsi e nuove
opportunità lavorative a quanti già operavano nel settore135.
Esperienze più evolute di questo tipo, con il coinvolgimento delle aziende tradizionali,
che hanno cercato d’introdurre nella prospettiva più ampia la multifunzionalità
dell’agricoltura, la ricerca di servizi che integrassero l’offerta di beni alimentari con
134
Tra le strutture associative che legano i diversi jardins una menzione particolare merita, per
dimensioni e caratteristiche assunte, la Reseau de Cocagne. Si tratta di infatti una rete che tiene assieme
125 realtà (110 delle quali già attive e 15 ancora in fase di realizzazione) provenienti prevalentemente dal
mondo del no profit e coinvolge oltre 26 mila fra “giardinieri”, famiglie dei soggetti presi in carico,
lavoratori e volontari. Il suo scopo è la conciliazione del reinserimento socio-lavorativo delle fasce deboli
(soprattutto disoccupati di lunga durata) con la produzione e vendita di agricoltura biologica, realizzata
attraverso un sistema di filiera corta che si affida alla distribuzione settimanale di “panieri” a gruppi di
acquisto solidale che aderiscono all’iniziativa. Numerosissime indicazioni sono contenute nel sito,
all’indirizzo www.reseaucocagne.asso.fr.
135
La Legge n. 381 dell’8 novembre 1991 disciplina, come noto, la cooperazione sociale in Italia,
indicando all’articolo 1 due grandi aree di intervento per il settore: la gestione di servizi socio-sanitari ed
educativi (cooperative di tipo A) e lo svolgimento di attività produttive finalizzate all’inserimento
lavorativo di persone svantaggiate (cooperative di tipo B). Sebbene anche il primo presenti esperienze di
conciliazione fra dimensione agricola e intervento sociale, è stato tuttavia il secondo ambito ad offrire
negli anni le opportunità più interessanti in questo senso. L’impegno in agricoltura delle cooperative di
tipo B realizza infatti la condizione più nota, e probabilmente più diffusa, di agricoltura sociale nel nostro
paese. http://www.uil.it/cooperazione/legge381-1991.pdf
52
prestazioni di carattere sociale, si è comunque avuta solo in anni più recenti. Anche per
queste, come per le iniziative precedenti, si è trattato di un processo nato in maniera
pioneristica, animato spesso da spinte individuali dei singoli imprenditori.
Differentemente a quanto avvenuto in altre parti d’Europa, in Italia il terzo settore è
stato a lungo il solo protagonista della sperimentazione e della diffusione delle pratiche
di agricoltura sociale. Per terzo settore s’intende tutto ciò che si differenzia sia dalla
sfera pubblica (stato, regioni, enti locali, altri enti) che da quella privata, ossia dal
mercato (o dall’impresa così come definita dalla legge). Al contrario di quello che si
potrebbe pensare, ciò che rimane dopo l’individuazione dei primi due settori è un
universo molto vasto, composto da soggetti disomogenei che hanno però in comune la
capacità di sviluppare nuove offerte per rispondere alla domanda di servizi che né lo
Stato né il privato sono in grado di soddisfare: è questa la nuova economia sociale,
che non ha una forma giuridica consolidata, un modello univoco di riferimento, ma è un
ambito in cui sono presenti strutture organizzate di tipo sociale con forme giuridiche
molto differenti.
Comunque quale diretta conseguenza della recente diffusione dell’agricoltura
sociale, il settore pubblico è venuto ad assumere un ruolo più importante, limitandosi
per ora a funzioni di supporto e monitoraggio delle iniziative nate in ambito privato e,
molto più raramente, come promotore di esperienze dirette nelle proprie strutture.
Anche gli enti di ricerca sembrano acquisire un peso crescente in questo settore. Sono le
espressioni del volontariato e dell’associazionismo relativo al mondo agricolo,
particolarmente attivo nella promozione di esperienze di questo genere e nella creazione
di strutture di rete. La presenza di numerosi attori qualificati con proprie caratteristiche
e motivazioni, rende ulteriormente complesso e diversificato il quadro dei soggetti
coinvolti.
L’insieme degli ambiti di intervento è oggi assai vasto ed eterogeneo, ma si
tende a suddividerlo in “grandi aree di lavoro” quali la riabilitazione e la cura, la
formazione professionale e l’inserimento lavorativo, la ricreazione e la qualità della
vita, l’educazione e i servizi sociali utili alla vita quotidiana. La prima funzione riguarda
strutture riconosciute, tanto pubbliche quanto del privato sociale, che operano
sovvenzionate da alcune convenzioni. Sono soprattutto cooperative sociali di servizi alla
persona, e sono identificate dalla legislazione nazionale come cooperative di tipo A. In
53
questi casi le attività agricole hanno valore di “laboratorio socio-terapeutico”, ma si
stanno diffondendo pratiche di “inserimento socio-terapeutico” per utenti in uscita da
stadi acuti di disagio. Per quanto concerne la formazione professionale e l’inserimento
nel mondo del lavoro, sono per lo più cooperative sociali d’inserimento lavorativo,
definite cooperative di tipo B. La formazione si realizza attraverso la promozione di
specifici progetti dalla durata definita, in direzione di un inserimento lavorativo stabile,
e talvolta può prevedere borse-lavoro per gli utenti che partecipano direttamente alle
attività dell’impresa. Quando si parla di “ricreazione e qualità della vita” si includono
tutte quelle esperienze che puntano alla semplice creazione di beni relazionali e che
spesso utilizzano spazi pubblici nelle aree urbane e periurbane. Un esempio chiaro è
quello degli “orti sociali”.
L’ambito dei servizi all’educazione e alla vita quotidiana è composto da
iniziative molto diverse ed emerge con maggiore evidenza l’incertezza definitoria che
ancora caratterizza l’argomento. Nonostante le differenze tra le varie aree lavorative, e
che la loro gestione sia di imprese private o privato-sociali, le ricerche svolte dagli
operatori,
hanno
evidenziato
come
queste
esperienze
ripropongano
spesso
caratteristiche ben definite. utili a costruire uno stabile punto di partenza per provare a
prospettare interventi comuni. Queste affinità sono le dimensioni medio-piccole delle
attività, che si collocano solitamente in strutture abbandonate e utilizzano fondi
inutilizzati. Poi un’elevata diversificazione dei servizi con una particolare attenzione per
le produzioni tipiche del territorio, il biologico o comunque per tecniche di produzione
eco-compatibile. Ricordiamo l’utilizzo di forme di vendita diretta e i numerosi contatti
con gruppi d’acquisto solidale Si contraddistinguono infine per una forte apertura verso
l’ambiente esterno e la vocazione all’integrazione in reti locali o sovra locali.
Come ho modo spesso di notare nella mia ricerca,molti di questi aspetti toccano
l’essenza stessa della “buona pratica” della Fattoria Sociale, intesa come nuovo modo di
concepire l’intervento sociale impiegando le caratteristiche migliori della dimensione
rurale, dai suoi ritmi di lavoro, al contatto con la natura fino alle forme di solidarietà
spontanea che questa è capace di generare. Altri trovano la loro giustificazione nel
fondamento etico che accompagna l’avvio e lo sviluppo di queste iniziative. Alcuni
aspetti si spiegano soprattutto nel bisogno, nella necessità di spezzare e sanare
condizioni di isolamento e marginalità che circondano certe realtà.
54
2.5
Parco Etologico e zoo-antropologia
La ricerca e lo studio di pratiche alternative spinge gli operatori della Fattoria
Sociale a sperimentare nuovi metodi d’inclusione e produttività sostenibile.
Nel quadro della promozione di attività e progetti innovativi il parco etologico ha un
grande valore per la sua natura complessa rispetto ad un “normale” parco naturale.
Con il termine Etologia si indica quella Scienza biologica che studia il comportamento
degli animali, uomo compreso. L’idea di un parco etologico, primo nel meridione,
ricopre nell’ottica della Fattoria diverse funzioni sociali. L’idea di un canile vissuto e
gestito come un parco, nasce da un’intuizione di Adriana Mastro, animalista che ha
sempre agito contro il maltrattamento degli animali e, come risulta dalla nostra
conversazione, soprattutto contro lo sfruttamento operato dalla camorra che arriva a
condannare i cani al “mercato” dei combattimenti clandestini: «Impegno animalista che
si è tradotto con un’ipotesi di costruzione di un canile demaniale»136. Il lavoro su questo
progetto dura circa da dieci anni, finché non è stato «intercettato un fondo europeo della
regione Campania. E’ da qui che nasce l’idea di un Parco Etologico regionale, primo
Parco Etologico del meridione»137. Il parco etologico deve connettersi con le strategie
della Fattoria, in quanto le «funzioni integrate garantiscono una discreta autonomia
produttiva e significativi programmi d’inclusione territoriale»138.
Il Parco, struttura dai caratteri fortemente innovativi, primo esempio in
Campania e nel Mezzogiorno del Paese di canile sanitario/rifugio e parco etologico, è
stato ideato quale luogo per l’accoglienza di cani e animali d’affezione abbandonati e/o
randagi, rispettoso dell’ambiente e finalizzato a promuovere la qualità del rapporto
uomo/animale secondo i moderni principi della zooantropologia, della vivibilità degli
spazi e della sostenibilità delle attività. La zooantropologia ha come obbiettivo di
ricerca lo studio del rapporto uomo-animale negli eventi interattivi e relazionali,
valutandone i contributi apportati all’uomo. Il fondamento di questo tipo di analisi è il
ritenere che non sia possibile comprendere l’uomo nelle sue caratteristiche
ontogenetiche e culturali prescindendo dal contributo offerto dall’alterità animale. La
136
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
ibidem
138
ibidem
137
55
referenza animale è pertanto il presupposto più importante e l’obiettivo focale della
ricerca zooantropologica.
Oltre ad accogliere i piccoli randagi, il Parco promuoverà la pet therapy e i
processi di inclusione sociale delle persone tramite il lavoro e l’impegno di cittadinanza.
Ciò al fine di tramutare in realtà, nell’approccio culturale ed economico innovativo che
la Fattoria sta promuovendo per contrastare l’attuale crisi strutturale del Welfare,
l'aspirazione al lavoro di giovani disabili in una struttura etologica ed etica, sociale e
produttiva, dunque in aperta rottura con i ricoveri-lager della camorra. L’idea di questo
parco, si sposa anche con un’idea di formazione di relazioni dal basso, perché si vuole
utilizzare la relazione con l’animale per ottenere effetti positivi sull’uomo.
I servizi di pet therapy, realizzati secondo l’approccio zooantropologico, si basano
sull’interrelazione con l’animale, promuovendo il benessere della persona, una sua
integrazione sociale e affettiva, una possibile facilitazione di processi riabilitativi e
quindi il supporto alle attività terapeutiche vigenti. I possibili fruitori di questi servizi
infatti sono molteplici, e varie le condizioni problematiche che trovano giovamento con
questo tipo di attività: autismo, Alzheimer, deficit dell’attenzione, tossicodipendenza,
anoressia e bulimia, disturbi mentali, schizofrenia, problemi d’integrazione sociale,
disagio affettivo, depressione, sindromi ansiogene, disturbi ossessivo-compulsivi. Si
offre una singolare ma qualitativa risposta ad una “vasta gamma” di problematiche
psicologiche e sociali.
Credo personalmente che il valore del parco etologico, non si limiti solo a quei
vantaggi terapeutico-sanitari sopracitati, ma possa comprendere in una visione olistica
l’intera esperienza dell’uomo-cittadino rispetto alla natura e al suo territorio. Infatti
l’apertura del Parco prevista per la fine del 2012 offrirà anche uno spazio ricreativo e
relazionale importante al centro del territorio irpino. Un progetto innovativo che credo
possa avere una buona risonanza anche e non solo nel territorio, favorendo così la
diffusione del programma sostenuto dalla Fattoria. (Fig. 5)
56
Terzo Capitolo
Analisi della Fattoria Sociale ISCA delle Donne
In questo capitolo propongo di analizzare la Fattoria Sociale e le sue pratiche
innovative attraverso un costante confronto con la visione politica di David Graeber,
autore dell’opera “Frammenti di un’antropologia anarchica”, con il libro “Cultura e
Poteri” di Stefano Boni, e ancora con il “Dominio e l’arte della resistenza” di James C.
Scott. Bisognerà preliminarmente ripercorrere parte dell’opera
di
Balandier
“Antropologia Politica”, connessa alla riflessione di Boni sul potere, utile ad un
rigoroso inquadramento metodologico e necessario per collocare la mia ricerca nel
campo politico dei suoi studi. Sarà questa la chiave metodologica per la lettura delle
buone pratiche avviate in Fattoria e per verificare differenze e continuità esistenti. La
ricerca vuole appurare il valore politico delle pratiche innovative, delle tecniche
inusuali, e in generale del carattere autonomo ma sempre rispettoso e mai eversivo della
Fattoria; aspetto evidenziato anche nell’intervista a Salvatore Esposito.
3.1
L’antropologia politica: definire politica e potere
L’antropologia
politica,
inizialmente
strettamente
interconnessa
con
l’antropologia sociale della quale era considerata solo un settore di studi, si è impegnata
per identificare con più precisione l’ambito del politico, suo ambito preciso di studi:
perfezionando e cambiando la stessa definizione antropologica di politica questa ha
acquisito, nel tempo, lo status di disciplina. Si costruisce, nel corso della storia del
settore, un’antropologia dinamica che considera le società politiche non solo dal punto
di vista dei principi che ne regolano l’organizzazione, ma anche in funzione delle
pratiche e delle strategie che le stesse politiche provocano. L’antropologo Georges
Balandier ripercorre nel libro “Antropologia Politica” la storia degli studi antropologici
57
che hanno come oggetto della loro ricerca il campo del politico. Evidenzia così i limiti,
le astrazioni e le difficoltà che hanno attraversato la concettualizzazione e la definizione
precisa di questo campo di studio.
Le prime ricerche svolte da antropologi e ricercatori in questo ambito
pretendevano di analizzare il politico partendo da una dicotomia di massima con radice
etnocentrica: si distingueva tra «società senza organizzazione politica/ società con
organizzazione politica, senza Stato, con Stato, senza storia o con storia ripetitiva/ con
storia cumulativa ecc»139. Il problema e la ricerca del politico era inevitabilmente
connesso al problema dello Stato, creando opposizioni a volte ingannevoli. I primi
antropologi interessati ai fenomeni politici hanno analizzato soprattutto le loro genesi
senza mai, come denuncia Gluckman, affrontare realmente il problema politico. I primi
studiosi di riferimento, molto discussi per le loro teorie, sono Henry Maine e Lewis
Henry Morgan. Quest’ultimo nella sua opera “Ancient society” riconosce due tipologie
di massima di governo distinte ed esplicative dell’evoluzione delle società: un governo
fondato sugli individui e sulle relazioni personali, considerate una società (societas); un
governo basato sul territorio e sulla proprietà, valutato in quanto Stato (civitas). Da
queste definizioni si determina e si circoscrive la politica alle strutture territoriali,
privando così della sfera politica un vasto numero di società studiate dagli etnografi.
Soltanto dopo il 1920 l’antropologia politica riuscirà ad “emanciparsi” da alcune
problematiche irrisolte. I lavori elaborati da MacLeod e da Lowie risentono però ancora
di una stessa preoccupazione. Nel 1927 Lowie pubblica “The origin of the State“ nel
quale l’autore indica la presenza attiva di fattori interni e di fattori esterni al corpo
sociale, entrambi determinanti nel processo di formazione degli Stati. Ricordiamo anche
Frazer che, studiando i rapporti tra magia, religione e regalità, si preoccupa di chiarire il
rapporto esistente tra Sacro e potere. Questa fase embrionale dell’antropologia politica
seguiva un procedimento di tipo genetico, ponendosi principalmente il problema
dell’origine e dell’evoluzione delle società, focalizzando l’attenzione sul passaggio da
una società arcaica basata sulla parentela, alla costituzione dello stato primitivo.
Gli antropologi politici moderni ben presto hanno capito la necessità di scindere
la teoria politica dalla teoria dello stato. E’ durante gli anni trenta, con il moltiplicarsi
delle ricerche sul campo e delle successive elaborazioni teoriche, che avviene una
139
Georges Balandier, Antropologia Politica, Armando Editore, Roma, 2000 pp. 17
58
determinante rivoluzione antropologica. I numerosi studi dedicati alle società
segmentarie o senza Stato, alle strutture di parentela e ai modelli di relazione che le
regolano permettono una più precisa delimitazione del campo del politico, facilitandone
anche la migliore comprensione in situazioni differenti dal contesto culturale
occidentale.
In ambito africanista gli sviluppi della materia compiono rapidi progressi. Infatti
nel 1940 vengono divulgate tre opere fondamentali per la moderna definizione
antropologica di politica. Evans Pritchard pubblica la sua ricerca sui Nuer, società
nilotica apparentemente priva di governo, ma attraversata da una precisa rete di
relazioni e istituzioni politiche, tanto da essere definita dall’autore “un’anarchia
ordinata”140. Ancora Pritchard edita “The Political System of the Anuak”, che è il
resoconto etnografico dello studio della suddetta popolazione Sudanese che prevedeva
due forme opposte e concorrenti di governo. La terza opera è “African Political
System”, una raccolta collettiva diretta da Pritchard e Meyer Fortes: un lavoro di
comparazione di casi etnografici nettamente distinti tra loro. Nell’introduzione a
quest’opera Max Gluckman definisce questo lavoro «il primo contributo volto a
conferire uno statuto scientifico all’antropologia politica»141, e inoltre slega l’analisi del
politico dalla teoria dello Stato. Ora il politico non è un ambito limitato solo alle
organizzazioni con sistemi istituzionali politici e di potere. Nella seconda metà degli
anni ’40 aumenta notevolmente il numero di politologi e ricercatori africanisti.
Distanziandosi dall’ambito africanista, riveste una grande importanza l’opera che nel
1954 Edmund Leach dedica alle strutture e alle organizzazioni politiche dei Kachin
della Birmania, “Political System of Highland Burma”. La novità inaugurata da
quest’antropologo è l’elaborazione di uno strutturalismo dinamico che evidenzia
l’instabilità relativa degli equilibri socio-politici, l’incidenza delle contraddizioni, il
divario tra il sistema di relazioni sociali e politiche e il sistema di idee associato a queste
ultime.
Importanti progressi nella ricerca si hanno con l’introduzione del procedimento
funzionalista, che identifica le istituzioni politiche considerando l’analisi delle funzioni
assunte nel determinato contesto. Radcliffe-Brown considera l’organizzazione politica
come un preciso aspetto dell’organizzazione complessiva della società.
140
141
E.E. Evans-Pritchard, I Nuer: un’anarchia ordinata, Franco Angeli Editore, Milano, 2002
Georges Balandier, Antropologia Politica, pp. 23
59
La definizione di politica viene ampliata, e l’analisi si applica tanto a istituzioni e
strutture
politiche
propriamente
riconoscibili,
quanto
anche
ad
istituzioni
multifunzionali utilizzate a fini politici. Comunque anche questo procedimento
favorisce ancora poco la comprensione totale del fenomeno politico, il quale è
considerato come composto da due gruppi di funzioni: ci sono quelle che regolano e
gestiscono la cooperazione interna per il mantenimento dell’ordine sociale, e quelle che
assicurano la difesa dell’unità politica garantendo la sicurezza. Le diverse funzioni
collaborano alla conservazione dell’organismo politico. Allo studio genetico e
funzionalista si sostituirà uno studio politico orientato alla comprensione dei modelli
strutturali. Si considera il politico come attributo di ogni relazione formale relativa ai
rapporti di potere tra gli individui ed i gruppi. Questa metodologia di analisi si esplica in
due momenti di studio: il riconoscimento delle relazioni strutturali proprie di ogni
organizzazione del sistema, e poi l’interpretazione dell’insieme di queste cellule
sistemiche studiate in un’analisi combinatoria. La critica avanzata a questo metodo
d’esame è il riferirsi sempre alle strutture di sistemi d’equilibrio statici. Queste sono
situazioni irreali perché non prevedono il cambiamento e le trasformazioni all’interno
del sistema stesso. Il procedimento dinamista corregge e completa quei punti “scoperti”
dell’analisi strutturalista. Si propone di cogliere la dinamica delle strutture, prendendo
in considerazione le contraddizioni, gli scontri, il potere e il contro-potere,
incompatibilità e il «movimento inerente a ogni società»142. Infatti Leach durante la
ricerca invita a considerare gli aspetti contraddittori e conflittuali del sistema:
«Questo orientamento si rivela necessario al progresso dell’antropologia politica, in quanto
il politico nasce, in primo luogo, grazie al conflitto di interessi e alla competizione»143.
Gli antropologi della scuola di Manchester, influenzati da Max Gluckman,
impostarono le loro ricerche tramite l’interpretazione dinamista delle società. Nei suoi
lavori Gluckman ha esaminato la natura delle relazioni esistenti tra il costume e il
conflitto (“Custom and Conflict in Africa”) e tra l’ordine e la ribellione (“Order and
Rebellion in tribal Africa”). La ribellione è considerata come un processo costante che
condiziona le relazioni politiche, mentre il rituale è l’espressione del superamento dei
142
143
Georges Balandier, Antropologia Politica, pp.28
Op. cit.
60
conflitti attraverso l’affermazione dell’unità della società. Max Gluckman ha il merito di
riconoscere «la dinamica interna come costitutiva di ogni società»144, ma non indica la
sua portata modificatrice. La problematica che ha incessantemente attraversato le varie
ricerche dell’antropologia politica è la caratterizzazione definitiva dell’ambito del
politico. Le prime teorie furono dense di etnocentrismo, perché l’intera riflessione era
incentrata sull’analisi dello Stato, precludendo ed escludendo così l’osservazione
politica di molte realtà extra-occidentali. Filosofia politica significava infatti filosofia
dello Stato. Balandier nel suo saggio riporta alcune delle domande e dei quesiti alla base
di queste ricerche: «Come identificare e qualificare il politico? Come costruirlo se non è
un’espressione manifesta della realtà sociale?»145. La questione preliminare è quindi la
localizzazione e la delimitazione del campo politico.
A questo punto la definizione di politica non può prescindere da un
approfondimento/ragionamento sul potere. Stefano Boni affronta proprio questa
questione, esaminando le molteplici innovazioni teoriche che le scienze umane hanno
elaborato negli ultimi decenni. L’impostazione accademica porta a concepire il potere
come un campo, un’entità scissa dalla società. Negli ultimi decenni si è definita una
prospettiva che considera il potere non individuandolo solo nello stato o in specifiche
istituzioni, perché esso pervade l’intero corpo sociale. Si inizia ad intendere il potere
come la capacità di condizionare ed indirizzare i comportamenti altrui, ed è una
potenzialità che tutti possono esercitare sebbene con mezzi e fini diversi. Il potere
quindi non è descritto come un preciso ambito della società e in parte slegato da essa,
ma come la dimensione effettiva di ogni relazione sociale. Esso inoltre ha la capacità di
plasmare le società e le culture come le conosciamo, sia dal punto di vista delle pratiche
che delle idee. Nella chiave di lettura proposta di Stefano Boni, il potere deve essere
ripensato ed è necessario ridiscutere i limiti e le caratteristiche del politico. Si riconosce
l’importanza dello spazio concettuale e simbolico, ambito fondamentale dell’esercizio
del potere, distinguendo così due accezioni. La prima è la politica retorica, cioè il
campo discorsivo ufficiale, espresso nel senso comune e contenitore dell’immaginario
di coerenza e legittimazione del potere istituzionale stesso. La politica retorica è
soprattutto funzionale ad occultare le reali azioni di potere praticate, e queste
costituiscono il secondo ambito del politico.
144
145
Georges Balandier, Antropologia Politica pp. 29
Ibidem, pp. 31
61
Questa sfera del politico, definita socio potere e spesso sottovalutata, è la forma di
dominio che maggiormente si dispiega nella vita dei cittadini con effetti concreti.
Lo sguardo critico rivolto alla politica retorica permette di esaminare l’utilizzo e gli
effetti del socio potere nella sua diffusione quotidiana, consentendo il riconoscimento
della pervasività e della minuziosità dell’intervento di condizionamento e repressione.
3.2
L’antropologia anarchica e la rivoluzione
L’antropologo Americano David Graeber, nelle sue opere realizza una precisa
analisi della società e della politica contemporanea, riflettendo in profondità sulla
globalizzazione e sui nuovi attivismi politici, al centro dei quali c’è l’anarchia. La sua
opera “Frammenti d’una Antropologia Anarchica” offre innovativi approfondimenti
teorici, in cui riflette sulle molteplici forme di etnocentrismo, esamina le peculiari
caratteristiche della modernità occidentale, e propone originali riflessioni sulle teorie
dello stato moderno e sulle organizzazioni politiche non centralizzate. Questo lavoro
propone l’esperimento di incrociare l’antropologia con la filosofia politica anarchica,
funzionale anzitutto a decostruire e svelare i meccanismi intrinseci delle forme di potere
e di dominio. La disciplina antropologica che studia la varietà storica e contemporanea
delle società umane, conferisce molteplici esempi di esperienze dirette. Alla base di
questo testo c’è quindi la connessione tra Antropologia e Anarchia, espressa nei termini
di uno scambio produttivo di conoscenze e potenzialità. David Graeber esprime il
bisogno che l’antropologia ampli e indirizzi il suo sguardo sui numerosi mutamenti in
corso, per comprenderli e dare loro una risposta. La scelta di questa disciplina non è
casuale, ma necessaria perché l’antropologia come scienza ha sempre implicato un
contatto diretto con la società umana.
Un passaggio del libro molto interessante per una valutazione sulla Fattoria
Sociale è quello dedicato alla ridefinizione del concetto di rivoluzione e di azione
rivoluzionaria. L’antropologo organizza la sua considerazione su questi temi iniziando
dalla decostruzione del significato “ufficiale” del termine rivoluzione.
62
Infatti è comunemente accettata la spiegazione che il filosofo della scienza Thomas
Kuhn propone nella sua opera “La Struttura delle rivoluzioni scientifiche”: il filosofo
considera la rivoluzione in quanto mutamento complessivo degli orientamenti teorici,
delle assunzioni metafisiche, e delle procedure sperimentali che caratterizzano una data
comunità scientifica. L’insieme di questi elementi è il Paradigma, e la prevalenza di un
dato paradigma segna una fase di scienza normale. Per rivoluzione s’intende il
passaggio da un paradigma all’altro. La rivoluzione apre un periodo di crisi
caratterizzato dall’elaborazione di nuovi concetti e dalla ricerca di nuove ipotesi
sperimentali.
David Graeber propone un’idea di trasformazione e di azione rivoluzionaria
fondata su un lento allargamento dei modelli culturali, quindi la creazione di nuove
comunità con un conseguente svuotamento del potere statale. Non prevede perciò uno
scontro violento tipico della teoria basata sui paradigmi rivoluzionari. La definizione
comune di rivoluzione ha e deve sempre implicare l’idea di un cambiamento di
paradigma, una netta interruzione con una frattura fondamentale nella natura della realtà
sociale. Le rivoluzioni, come quella francese e industriale, hanno in comune soltanto di
essere entrambe uno spartiacque con tutto ciò che le precedeva. Ma l’antropologo
ritiene che non si possono far coincidere i grandi mutamenti sociali attribuendogli lo
stesso valore rivoluzionario dato ad un grande mutamento tecnologico. Se così fosse,
ogni giorno assisteremo ad una diversa rivoluzione (cibernetica, informatica ecc...).
L’antropologo invece vuole centrare la sua attenzione sul concetto di rivoluzione sociale
e politica, analizzandone le caratteristiche e prescindendo, a mio parere, da alcuni
comuni idealismi. Le due possibili conseguenze di una rivoluzione armata sottolineate
dall’antropologo, sono l’inimmaginabile spargimento di sangue che causerebbe, e
l’insicurezza che essa porti ad un effettivo annichilimento del potere, non limitandosi a
sostituirlo con altre forme provvisorie. Presenta allora la sua idea di rivoluzione, o più
precisamente di azione rivoluzionaria, privandola della sua proprietà essenziale di
rottura improvvisa di un determinato sistema e, a mio avviso, includendola in un
programma riformista:
«Cosa sarà allora la rivoluzione? (...) Una rivoluzione di dimensioni mondiali – prosegue Graeber
- avrà bisogno di molto tempo. Ma forse è già in corso. La maniera migliore per rendersene conto è
63
smettere di pensare alla rivoluzione come a una cosa», (la rivoluzione, il grande cataclisma, il punto
di rottura) e chiedersi invece: «Che cos’è un’azione rivoluzionaria? ». Ecco la risposta di Graber:
«un’azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di
dominio e di potere, e che nel frattempo, alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni
146
sociali, anche all’interno della collettività»
.
Stefano Boni, continuatore dei percorsi di ibridazione tra antropologia e pensiero
anarchico, nel suo libro “Cultura e Poteri”, esamina la distribuzione e l’invadenza del
potere analizzando le teorie sviluppate dalle scienze umane durante gli ultimi decenni. Il
focus del suo lavoro è, quindi, il potere; la sua ricerca antropologica esamina i passaggi
essenziali
che
hanno
trasformato
le
primitive
culture
egualitarie
portando
all’accentramento del potere tipico dei moderni Stati nazionali.
Nel suo lavoro lo studioso invita ogni cittadino a riguadagnare potere, in risposta
alla progressiva sottrazione indebita della loro capacità decisionale. Denomina questo
genere di poteri con il termine di socio poteri, identificando così non un tipo specifico di
poteri o un settore preciso della politica, ma piuttosto l’insieme reticolare dei
meccanismi di dispiegamento sociale e culturale del potere e del dominio, trasversale
alle diverse ideologie e tipologie politiche e pervasivo in ogni società e cultura con
diversa intensità. I socio poteri, già individuati da Focault, sono quella rete invisibile di
obblighi, doveri e costrizioni che opprime il cittadino ma da cui è possibile affrancarsi
servendosi di saperi, prassi e valori capaci di sovvertirla. Per comprendere il valore di
questi discorsi è necessario un riesame delle prospettive antropologiche sul potere.
In questa interpretazione il potere è certamente considerato attivo perché innesca
dei meccanismi come la “sanzione”, e produce alcuni risultati come la modifica di stili
di vita introducendo nuove condotte comportamentali sia individuali che sociali. A
differenza del potere inteso nella sua accezione più immediata, quindi rivolto a momenti
specifici della socializzazione, il socio potere è olistico, pervasivo e onnipresente
nell’organizzazione completa delle cognizioni e delle pratiche. C’è una precisa e attenta
“selezione culturale” per cui alcune nozioni vengono marginalizzate e, inoltre, tramite la
dinamica della “standardizzazione”, viene limitato il margine di possibilità e libertà di
non seguire le norme egemoniche. Questi processi hanno l’obiettivo di formare
146
David Graber. Frammenti di un’antropologia anarchica, Eleuthera, Milano, 2006 pp.45
64
l’immaginario del cittadino, creando delle credenze diffuse in un circuito culturale, che
l’autore chiama “antropologie di senso comune”147. Le forme culturali e sociali che si
affermano sono quindi il risultato dei singoli atti di potere che subiamo e pratichiamo
quotidianamente. Lo studioso sostiene che solo riguadagnando potere possiamo limitare
il grado d’invadenza dei governi occidentali, svincolandoci da antropologie di senso
comune. Quindi bisogna estraniarsi da alcuni meccanismi culturali per mettere in
discussione queste rappresentazioni. Stefano Boni sottolinea la possibilità di produrre
un’antropologia rispettosa dei canoni di scientificità riconoscendo «la pervasività transculturale dei meccanismi di potere nella gestione dell’immaginario e individuando i
principi di falsificazione del reale che nutrono il dominio»148. L’autore auspica che la
conoscenza e la coscienza dei meccanismi di deformazione si diffonda, permettendo
così una redistribuzione del potere in maniera orizzontale ed egualitaria; tale obiettivo
comporta e implica una «riformulazione complessiva del paradigma culturale oggi
dominante»149.
3.3
James C. Scott. “Il dominio e l’arte della resistenza”
Scott, nell’opera “Il dominio e l’arte della resistenza”, propone un analisi molto
interessante del potere, focalizzato particolarmente sul rapporto conflittuale tra dominati
e dominanti. A giudizio dello studioso, la relazione tra queste categorie sociali, basata
sul potere, è intrisa di inganno e dissimulazione, perché i subordinati tendono a
manifestare e simulare deferenza verso i dominanti, e allo stesso tempo i detentori
dell’autorità impongono e recitano la loro supremazia. Scott esamina le diverse
recitazioni degli attori sociali nei ruoli che ricoprono. Distingue allora tra due momenti,
a mio parere complementari, in cui emergono le strategie diversificate di entrambi i
protagonisti, dominato e dominante. Riconosce l’esistenza di discorsi e pratiche adottate
“sulla scena” pubblica, che definisce appunto “verbale pubblico”, e poi un “verbale
segreto”, che rappresenta le attività e le concezioni che non possono essere dichiarate
147
Stefano Boni, Cultura e poteri, Un approccio antropologico, Cremona, Eleuthera, 2011 pp. 157
Ibidem, pp. 177
149
Ibidem, pp. 203
148
65
apertamente, e quindi limitate ad essere svelate soltanto “dietro le quinte”. Il
comportamento pubblico del subordinato sarà modulato, per prudenza, paura o
interesse, in maniera adeguata alle aspettative di chi detiene il potere. Entrambe le parti,
comunque, sono attente a dissimulare il rispettivo verbale segreto, collaborando
tacitamente ad una rappresentazione falsata. Più il potere sarà minaccioso, tanto più i
subordinati devono essere fedeli e attenti al verbale pubblico, assumendo un
«atteggiamento stereotipato, ritualistico»150. L’autore descrive questa dinamica,
valutando che un potere aggressivo, produce nei subordinati delle “maschere
impenetrabili”. Ritengo che in questi passaggi l’autore voglia sottolineare quanto la
conoscenza del verbale pubblico offra una conoscenza parziale delle relazioni di potere.
Il verbale segreto, costituito quindi dai discorsi fuori scena, conferma,
contraddice o più semplicemente modifica ciò che appare nel verbale pubblico. Le
relazioni di potere, però, non hanno caratteristiche univoche e sempre ordinarie, perciò
non si può qualificare tutto ciò che è pertinente al verbale pubblico come falso e dettato
dalla necessità, e tutto il contenuto del verbale segreto come veritiero e espressione di
libertà. Certamente analizzando le discrepanze esistenti tra i due, si può avere una prima
valutazione del grado d’ingerenza e coercizione del potere. Il verbale pubblico è l’autorappresentazione dell’elite dominanti, ed è solitamente programmato per sostenere e
legittimare il proprio potere, nascondendo o edulcorando gli aspetti pericolosi o negativi
del dominio. Di primaria importanza per la classe predominante, è la produzione della
giustificazione ideologica del loro potere rispetto l’inferiorità dei sudditi.
Dall’esame della distinzione tra verbali, si possono distinguere quattro varietà di
discorso politico tra i gruppi di subordinati. Il criterio che guida questa differenzazione e
la maggiore o minore conformità al discorso ufficiale. Individua innanzitutto la forma
più sicura e pubblica di discorso politico, basato proprio sull’immagine prestabilita che
l’elite da di se stessa. Una seconda forma, contrapposta alla prima, è quella del verbale
segreto stesso, dove i subordinati, fuori dal controllo e dallo sguardo del potere, possono
produrre una visione contraria a quella imposta. La terza varietà del discorso
subordinato è quella che strategicamente si pone a metà tra i primi due. Questa utilizza
il travestimento, e sfruttando l’anonimia si può manifestare in pubblico, esprimendo
tramite pettegolezzi, storie popolari, barzellette e canzoni un doppio significato che
150
James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale,Eleuthera,
Milano, 2006 pp. 16
66
trasmette, celandola, parte del verbale segreto. Infine quel discorso, che a mio parere si
può definire di aperto distacco e di polemica manifesta al potere, nel quale si rompe il
cordone sanitario politico che sostiene e separa il verbale pubblico e quello segreto. E’
molto interessante per comprendere l’idea di resistenza tracciata dall’antropologo una
riflessione sulla concezione d’“infrapolitica” delineata dall’autore. Nella sua opera Scott
usa l’espressione dandogli un’importanza e un valore semantico basilare per una
valutazione dei meccanismi di potere e resistenza. Al termine infrapolitica associa
infatti l’idea di un aspetto poco evidente del conflitto politico: «(…) la lotta circospetta
condotta giorno per giorno dai gruppi subalterni è, come i raggi infrarossi, al di là della
banda visibile dello spettro»151. Se queste pratiche restano invisibili, secondo Scott, è
per una scelta tattica di prudente attenzione a non intaccare gli equilibri di potere
prestabiliti. L’infrapolitica comprende in questa accezione anche tutto ciò, che a livello
culturale e strutturale è alla base di un’azione politica più visibile. L’autore quindi cerca
di dimostrare come:
«ogni ambito di resistenza aperta alla dominazione sia oscurata da una sorella gemella che mira agli
stessi risultati strategici, ma il cui basso profilo si adatta meglio al compito di resistere ad un
avversario che probabilmente potrebbe vincere in un qualsiasi scontro aperto»152.
Propone in questo capitolo l’esame della teoria che definisce “della valvola di
sfogo”, intesa come rovesciamento aperto di parte del verbale segreto in quello
pubblico. Solitamente però, queste manifestazioni di sovvertimento, sono ritualizzate e
inserite in canali gestiti e controllati. La possibilità data ai gruppi subalterni «di giocare
alla ribellione entro certe regole specifiche e in tempi stabiliti»153, secondo Scott ha
l’obiettivo di contribuire ad impedire forme più pericolose di aggressività.
Aggiunge però, riportando nel testo alcuni casi specifici, che spesso la rabbia
fuori scena o “permessa” è stata la preparazione per l’esplosione finale, e non
un’alternativa soddisfacente. Non si può considerare quindi una regola attendibile che
rituali
di
aggressione
controllata
spostino
l’attenzione
dal
reale
bersaglio.
L’insufficienza di questa teoria è rintracciata nel fondamentale errore idealista che ne è
151
James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale,Eleuthera,
Milano, 2006 pp. 244
152
ibidem pp. 245
153
Ibidem pp.246
67
alla base. Esaminando il dibattito e strutturandolo nei parametri di una lotta concreta,
materiale, è impossibile separare la resistenza simbolica e celata dalla lotta pratica per
moderare o deviare lo sfruttamento. Il verbale segreto perciò non è descritto solo come
una lamentela o una critica fuori scena, ma anche come pratica, che agisce tramite
strategie di basso profilo. Il verbale segreto non si limita a chiarire o spiegare i
comportamenti, ma contribuisce attivamente a formarlo. Spesso si manifesta nella
pratica come scelta di esercitare i propri diritti «poco alla volta e senza rumore»154.
A mio parere, lo sforzo che si propone l’autore in queste pagine è soprattutto far
emergere l’incessante dialettica tra il verbale segreto e la resistenza pratica: «In
sostanza, è più esatto vedere nel verbale segreto una condizione per la resistenza pratica
più che un sostituto di essa»155. La forza e l’energia che può motivare forme di
resistenza infrapolitica possono essere molteplici, per lo più inserite nello spettro che si
forma tra il livello di rabbia e necessità della popolazione subordinata, e le contromisure
di controllo e punizione. L’intensità della resistenza può variare in conformità con le
circostanze, ma è molto raro che essa scompaia del tutto. Piuttosto l’autore afferma la
pervasività del verbale segreto, che «come una massa d’acqua preme contro una
diga»156. Le forme quotidiane in cui si frammenta la resistenza di basso profilo teorica e
pratica incanalano gli sforzi aprendo la strada alla sfida aperta e collettiva.
Un’osservazione eseguita nelle attuali democrazie liberali dell’occidente, anche
considerando esclusivamente l’azione politica pubblica/aperta potrebbe cogliere molto
della vita politica. Con la conquista storica delle libertà politiche di parola e
associazione si è guadagnato molto in termini di espressione politica aperta. Ma
comunque, riprendendo le parole dello stesso Scott nel “Dominio e l’arte della
resistenza”, «la sola considerazione della resistenza dichiarata non ci aiuterebbe a capire
il processo attraverso cui nuove forze e richieste germinano, prima di esplodere sulla
scena»157. Invece l’autore accredita la tesi secondo cui l’infrapolitica, cioè quella forma
di resistenza travestita, accompagna sempre silenziosamente anche le forme più sonore
di resistenza pubblica. L’infrapolitica è intesa perciò sostanzialmente come la forma
strategica che la resistenza dei subalterni assume contro censure e coercizioni del
154
James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale,Eleuthera,
Milano, 2006 pp. 251
155
ibidem pp. 253
156
ibidem pp. 257
157
ibidem pp. 261
68
potere. Il basso profilo, coerente con l’infrapolitica, significa per l’autore lasciare poche
tracce del proprio passaggio, minimizzando o eliminando completamente prove che
potrebbero coinvolgere il cittadino. L’autore valuta l’infrapolitica come la forma
primaria, basilare di politica, nel quale si può elaborare un discorso contro egemonico
con più sincerità, continuando a premere e saggiare i limiti del permissibile.
«L’nfrapolitica è infatti vera politica»158. Questa attenta esegesi del lavoro di ricerca sul
politico, mette in luce un aspetto metodologico per la completezza del determinato
studio a mio parere molto importante:
«Mettendo a confronto il verbale segreto del debole con quello del potente ed entrambi con
il verbale pubblico delle relazioni di potere si ottiene la possibilità di capire in modo sostanzialmente
nuovo la resistenza al dominio»159.
3.4
Peter Lamborn Wilson. Agricoltura e resistenza
In questo paragrafo intendo brevemente evidenziare la riflessione, a mio parere
stimolante e coerente con il tema del mio lavoro, proposta dallo scrittore e poeta
statunitense Peter Lamborn Wilson. La fama di quest’autore è strettamente connessa
con l’innovativo concetto delle “Zone Temporaneamente Autonome” (TAZ)160, di cui è
il primo propositore.
158
James Scott, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia ufficiale, pp.263
Ibidem pp. 11
160
Conosciuto principalmente per l’innovativo concetto delle “Zone Temporaneamente Autonome”
(TAZ), che si basano sulla rivisitazione storica delle Utopie Pirata. Le TAZ delineano una tattica
sociopolitica consistente nella creazione di zone temporanee, eludendo le strutture ufficiali di controllo
sociale. Per consentire a questa zona di esistere, il lettore deve giungere preliminarmente alla
comprensione di quale sia il metodo migliore per creare un sistema non gerarchico basato sulle relazioni:
il suo compito è quindi di proiettare tutto nel presente permettendo a tutti di emancipare la propria mente
dai meccanismi sovraimposti. L’informazione è un concetto chiave per la formazione di queste zone,
perché una giusta e attenta informazione, libera da censure ed influenze del potere, permette di dubitare
del sistema. Dal dubbio prende forma un nuovo “territorio mentale” nel soggetto, ma se questo si sviluppa
in più soggetti può divenire reale. La permanenza e l’eccessiva durata di una TAZ è nociva, perché rischia
di deteriorare sino a divenire un sistema strutturato, debilitando così la creatività individuale che si
sviluppa nel processo di creazione.
159
69
In un piccolo opuscolo dal titolo “Avant Gardening”, l’autore affronta la
tematica del contatto con la terra e con la natura ai nostri tempi. A suo parere
l’esperienza diretta con la terra, nel giardinaggio e nell’agricoltura, possono offrire non
soltanto una possibile zona di autonomia dai circuiti dominanti del commercio, ma in
più rappresentano un’effettiva azione di resistenza. Ripercorrendo le teorie di Charles
Fourier, rintraccia lo stretto legame che unisce l’agricoltura alla nascita della gerarchia e
della separazione. L’agricoltura a suo parere, sin da quando ha preso il posto
dell’orticoltura presente nelle società di raccoglitori, ha iniziato un percorso di
mercificazione collegandosi sempre di più nel profondo all’idea di Capitale. L’autore in
questa analisi si riferisce alle agricolture estensive che hanno sempre di più separato i
contadini dalle loro terre e dai loro prodotti. E’ a mio parere un’analisi a-posteriori sul
significato di agricoltura e terra nel mondo contemporaneo: «Le piante si coltivano
ancora nella terra, ma il loro DNA può essere proprietà di multinazionali»161. Lo
sviluppo ha portato alla moderna tecnica industriale che in nome del profitto, tramite le
bioscienze, punta a rendere la natura sempre meno “caotica”, più omologata al mercato
e distruggendo così tracce genetiche di biodiversità:
«Un tempo lo stato di New York produceva 106 varietà di mele, ciascuna con un aspetto e
un sapore diversi. Senza dubbio tutta questa varietà piaceva agli amanti delle mele, ma si ricavava
parecchio inefficace dal punto di vista del mercato. Sarebbe stato molto più sensato se ci fossero stati
solo tre o quattro tipi di mele. L’aspetto e la durata della conservazione sarebbero stati importanti,
ma non il sapore. Anzi meglio eliminare il sapore, poiché a persone diverse piacciono sapori diversi.
(…) Se invece tutte le mele hanno lo stesso aspetto e lo stesso sapore, ben presto tutti
dimenticheranno che le mele siano state diverse»162.
Si creano delle immagini, immagini globali che trascendono i corpi meramente
accidentali delle varietà di mela. Una “gestalt” unica riassume tutte le forme possibili di
mela. L’autore parla allora di “mistica del Capitale”, perché si trascende il corpo, il
piacere e la vita nell’apoteosi del puro scambio commerciale. E’ per questo motivo che
gli agricoltori e orticoltori liberi da questi processi rappresentano la prima linea di
resistenza al capitale. La figura che l’autore definisce avant-giardiniere, usa il lavoro
161
162
Peter Lamborn Wilson, Avant gardening, Torino, Nautilus, 2011 pp.17
Ibidem, pp.22
70
sulla terra come una “via” spirituale e considera la sua attività un arte; allora, continua
l’autore, deve esistere in questo campo anche una connotata dimensione politica, un
livello chiaro di consapevolezza, perché: «curare un orto è diventato, almeno
potenzialmente, un atto di resistenza. Ma non è soltanto un gesto di rifiuto. E’ un atto
positivo. Una pratica»163. La terra è intesa come libertà, cibo, creatività e piacere.
Lamborn Wilson nel suo testo offre spunti innovativi rispetto ai meccanismi
globali, presentando pratiche come la “permacoltura”, descritta come «la più brillante
sintesi di tutte le tendenze agricole alternative del XX secolo»164. Nata in Australia, la
permacoltura è un processo integrato di progettazione, basata sui concetti di
biodiversità, sostenibilità, equilibrio e piacere. Permacoltura significa quindi ecologia
ed etologia, inventare e progettare il nostro essere integrati nel mondo. Secondo l’autore
però, il limite della permacoltura «sta nella sua stessa perfezione. (…) non riesce a
competere con un sistema globale apertamente basato sul saccheggio, sul monopolio,
sull’immiserimento e sulla forza schiacciante del Capitale puro»165.
Ritengo che questa breve analisi offra diversi spunti su cui ragionare.
Innanzitutto è possibile rintracciare diverse coincidenze con il pensiero di Latouche,
come nell’amara riflessione: «Quando la maggior parte di noi occidentali avrà capito la
vera questione, potrebbe essere troppo tardi»166. Anche in questo autore, accanto al
senso di inevitabilità opprimente, troviamo la severa critica al sistema produttivo che
distrugge e devasta l’ecosistema mondiale. Soltanto un’agricoltura slegata da certe
logiche di profitto e di potere e connessa con la vita stessa degli uomini può risollevare
le sorti del pianeta. E’ in questo tipo di agricoltura e di produzione che si attua la reale
resistenza.
163
Peter Lamborn Wilson, Avant gardening, pp.8
ibidem pp.10
165
Op. cit.
166
ibidem pp.19
164
71
3.5
Resistenza e politica nella Fattoria Sociale
La Fattoria Sociale, attiva e innovativa nelle sue pratiche e produttrice di forme
riformiste di sviluppo e resistenza, non può essere definita “rivoluzionaria” in ottica
graeberiana. E’ vero che per diversi aspetti e per alcune finalità che riveste può rientrare
nei confini della definizione proposta, ma certamente l’azione della Fattoria non è di
scontro o abbandono completo di coinvolgimenti istituzionali così come prevede
l’accezione graberiana. Infatti, se è vero che si riscontra un tentativo di affrancamento è
anche vero l’intento, implicito e manifesto nelle buone pratiche, di apportare modifiche
ed emendamenti a determinate insufficienze dell’azione statale; quest’ultime vanno
rivisitate e corrette, attraverso una ridiscussione dell’azioni e delle finalità future
proponendo una visione alternativa a quella imposta dalla politica ufficiale. Una forma
di associazionismo autonomo e promotore di progetti innovativi non vincolati al
paradigma dello statale, finalizzati alla creazione di nuovi rapporti sociali e di potere
indicativi per una nuova comunità relazionale. La promozione di un nuovo modello di
crescita/decrescita, di cittadino, di un nuovo rapporto qualitativamente etologico con la
natura e l’intero pianeta, non coincidono tuttavia con una pressoché totale
emancipazione dalle dinamiche statali. Si mantiene senza dubbio una distanza, e si
sottolinea questo basso livello di sincronismo teorico e pratico, senza però orientarsi
verso un totale abbandono. Non si riscontra quindi una coincidenza sufficiente con la
proposta rivoluzionaria avanzata da Graeber, ma a mio parere questo non sminuisce la
portata innovativa e riformista del progetto.
Per alcuni aspetti ho considerato la Fattoria Sociale come un esempio di
resistenza alle imposizioni culturali e sociali del nostro tempo. Ritengo infatti che la
promozione di un diverso modello di sviluppo, di cittadino e di relazioni, si sottragga in
parte dal discorso egemonico, presentando alternative altrettanto valide e soprattutto
non circoscritte nel campo imposto dalla standardizzazione sociale. A mio parere questo
passaggio ha un grande valore intrinseco perché, se pensiamo alle parole di Scott, un
vero dominio non è tale se non convince i dominati che non esistano alternative
possibili alla situazione presente. E’ per questo motivo che ritengo molto importante il
ruolo sociale della Fattoria, come impegno per scoprire i limiti imposti dalla
72
standardizzazione culturale, evidenziando così le eventuali negatività e i possibili errori
che si assumono automaticamente come inevitabili.
Ricollegandomi all’analisi di Scott, ritengo sia molto interessante l’impegno
attivo praticato dagli operatori della Fattoria; a mio parere infatti le finalità ultime, che
connotano nel profondo le azioni che si implementano nella Fattoria, rappresentano la
confluenza del “verbale segreto”, nell’azione pubblica. La Fattoria Sociale chiarisce,
senza veli o maschere, i suoi presupposti, i suoi principi e i suoi obiettivi rendendo
palesi, in questo modo, le preferenze e le scelte politiche e sociali che appoggia e
desidera valorizzare. In questo senso, ritengo, è un movimento politico d’avanguardia e
di resistenza, con rilevanti caratteristiche riformiste da prendere seriamente in
considerazione. La fattoria sociale è un esempio di rottura di quello che Scott definisce
cordone sanitario di separazione tra verbale pubblico e segreto. Ogni iniziativa e
proposta politica/economica è un tentativo di rendere pubblico e fruibile quel sostrato
teorico di cui è difficile delimitarne “il segreto e il pubblico”. Certamente, come spiega
l’antropologo nel “Dominio e l’arte della resistenza”, con le libertà politiche concesse
nelle democrazie occidentali, questo non è né un fattore esclusivo né comunque
sufficiente ai fini dell’esame. La novità, probabilmente, è che proprio in questa
concordanza si esplica la forza e la dignità del loro piano di lavoro.
Nel corso dell’intervista con Salvatore Esposito ho avuto modo di delineare la
visione politica della Fattoria. L’intervistato ha risposto alle mie domande sottolineando
la totale estraneità e indipendenza dalle logiche di partito, da qualsiasi schieramento e
ideologia politica con modelli di riferimento statici. Si tratteggia quindi un carattere
politico profondamente dinamico, difficilmente implicabile e riducibile in definizioni
categoriche. Politicamente la Fattoria non si schiera con i partiti, rifiutando
sostanzialmente qualsiasi sistema di potere:
«Contro chiunque usi la politica come logica di potere, strumento di controllo e strumento
clientelare, come scambio di diritti e di favori»167.
Il loro impegno si manifesta nello schierarsi sempre dalla parte dei più deboli, degli
ultimi, ma soprattutto di leggere la complessità delle difficoltà e di progettare interventi
167
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
73
partendo dalla loro angolazione. E’ questa secondo Salvatore Esposito la condizione
prima che ci ha insegnato la politica della differenza. La politica, e soprattutto l’azione
politica incentivata dalla Fattoria, è ed è in ciò che le loro stesse pratiche raccontano e
rivelano:
«la politica è nelle nostre pratiche sociali, nelle nostre esperienze di produzione sostenibile, di
cittadinanza. Noi pensiamo, con la schiena dritta, che anche il terzo settore debba schierarsi per una
politica di cittadinanza, per una politica del rispetto dell’uomo, della natura e delle altre specie
viventi»168.
Prosegue argomentando la sua visione politica con ragioni antropologiche e sociali:
incoraggia un modello di uomo che non deve essere considerato come essere superiore
ma come una risorsa consapevole di un nuovo equilibrio di rapporti, favorendo una
nuova forma di rispetto per le risorse del pianeta. Il loro rapporto con le istituzioni
segue questo filo rosso, perciò se l’istituzione rispetta e favorisce queste buone pratiche
possono collaborare insieme con grande entusiasmo:
«Non abbiamo governi amici, non abbiamo governi nemici, abbiamo governi che garantiscono un
impronta ecologica ed etologica sostenibile, governi che rispettano e favoriscono le cittadinanze, e
governi che no. Ci schieriamo su questi contenuti»169.
Intervenire su temi come la politica e il potere, conduce a riflettere sulla nostra
democrazia e quindi sulle problematiche ad essa connesse. Salvatore Esposito afferma
che il punto più vulnerabile della nostra democrazia è proprio «la condizione di potere
della democrazia, che sostituisce la responsabilità»170. Ogni cosa, la rappresentanza, il
ruolo e la partecipazione dei partiti si gioca su questi punti. Distingue tra una buona
rappresentanza, fondata e strettamente connessa con il pensiero della responsabilità, da
una cattiva rappresentanza basata sul potere. Riconosce, manifestando consapevolezza e
amarezza, che purtroppo nel tempo «si sono sedimentate molte logiche di potere che si
separano dai bisogni»171. Conferisce un valore completamente differente alle logiche
168
Salvatore Esposito, 29/2/12, Benevento, intervista
ibidem
170
ibidem
171
ibidem
169
74
della responsabilità, perché «interpretano, leggono e danno risposta ai bisogni
fondamentali delle comunità e delle persone»172. Questo tipo di atteggiamento
distaccato verso il governo e la politica è prodotto dallo scarso impegno dello Stato
nell’incentivare il lavoro del terzo settore e dalla poca presenza sul territorio “reale”.
Emerge chiaramente un atteggiamento in parte di avvicinamento e collaborazione, in
parte di rottura e superamento nei confronti delle istituzioni.
A mio parere, il resoconto dell’audizione in Senato della Fattoria Sociale, è un
esempio esplicativo della loro concezione politica, e della compresenza di verbale
pubblico e segreto. Da molte delle parole usate in questo breve testo scritto da Salvatore
Esposito, è possibile afferrare il rispetto verso le “gerarchie”, che si unisce però alla
consapevolezza e alla valorizzazione delle qualità e potenzialità insite nelle progettualità
presentate. Il 27 marzo del 2012, accompagnati da Alfonso Andria, senatore del PD e
vicepresidente della commissione agricoltura, una delegazione della Fattoria Sociale è
invitata in Senato per presentare il Progetto. Nella descrizione di questo evento non si
nascondono le difficoltà per “l’ambasciata” di sostenere l’approccio al “palazzo”, in più
osteggiati dagli sguardi di alcuni senatori:
«(…) Già Alfonso aveva consigliato di non essere troppo informali. Di rispettare i ruoli, di
ringraziare. Chissà perché aveva voluto avvisarci. Forse la squadra appariva troppo disinvolta. Don
Tonino aveva da poco finito, con molta franchezza, di mandare al diavolo un prete. Io arrancavo
sofferente per un dolore di ernia. Luisa dissacrava ogni cosa solo con lo sguardo. Adriana
commentava, con la solita auto-ironia, il nostro approccio al “palazzo”. Solo Enzo Sacco ci faceva
una bella figura con un vestitino signorile e con uno stile distinto. Ma nel gruppo tutto si mischiava
in una strana sensazione d’inadeguatezza (...)»173.
Racconta questo disagio alimentato da quel «mondo lontano e separato» che gli ha
concesso un’audizione solo grazie alla cortesia di Alfonso Andria. Superate le formalità,
i diversi operatori raccontano le loro storie suscitando un vivo interesse da parte di molti
dei senatori presenti. Continua la descrizione dell’evento, delineando i motivi che hanno
animato la voglia di essere ospiti al senato. Inoltre è molto interessante la presa di
coscienza e di consapevolezza verso i propri obiettivi e le pratiche per attuarli, che
172
ibidem
http://www.cittasociale.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=117:senato-audizioneoperatori-sociali-fics&catid=2:uncategorised&Itemid=101
173
75
rimarca la presa di distanza e il non sentirsi dignitosamente implicati con le
improduttive dinamiche statali:
«Un´improbabile delegazione per parlare di storie poco di moda in Parlamento. Parco etologico,
fattoria sociale, welfare e decrescita. Soprattutto povertà di cittadini e di operatori. (…) Come faccio
a dire che gli indecenti sono loro. Come faccio a dir loro sul grugno che, noi, affrontiamo il potere e
la camorra a viso aperto.
Che mentre loro sono clienti degli evasori fiscali noi parliamo di Antonio Genovesi. (…)Voi siete i
legislatori, provate a capire le norme di cui ha bisogno il Paese. Noi siamo il territorio, possiamo
anche consentirci di essere un passo avanti al Parlamento. Voi dovete ascoltare con rispetto. Qui si
tratta della vita di tutti i nostri figli. Si tratta di contrastare la criminalità e la camorra, di promuovere
lavoro, di difendere diritti. Insomma, cari senatori, è vero che ci ha portato Alfonso Andria, ma non
siamo clienti di nessuno e lavoriamo sodo per parlarvi di queste innovazioni, di imprese sociali
libere e di questa ricerca sociale straordinaria ed unica nel Mezzogiorno. Ma vi rendete conto che
questo sviluppo distruttivo non ci porta da nessuna parte? Che il Mezzogiorno ha bisogno di
agricoltura sociale? Ma state capendo che la questione è seria ...? Guardate, noi oggi siamo venuti,
ma non possiamo mica perdere sempre tempo con Voi. Su, datevi una mossa. Il quadro esplicito e
implicito è più o meno questo. (…) Sono tutti senatori. Stanno tutti lì, a convivere, per sopravvivere
come casta e come potere. Al bar dei nominati, prendiamo, schivi, solo un caffè. Ostentiamo una
certa distanza»174.
A mio parere nella riflessione politica suggerita da Lamborn Wilson, possiamo
riscontrare delle coincidenze con il progetto della Fattoria Sociale. In entrambi i discorsi
ritengo che il valore attribuito alla terra, intesa in quanto organismo da difendere e
tutelare, presenta diversi aspetti in comune. Ancora è molto importante il significato del
lavoro agricolo: nel pensatore statunitense è elevato ad un’attività a tutti gli effetti
artistica ed estetica, una via spirituale e l’unico modo per una reale emancipazione e
resistenza dai mercati e dalle logiche mondiali; ritengo che simbolicamente e
concretamente sia questo il valore attribuito alle attività rurali praticate nella Fattoria.
Da una parte infatti, si valorizza il lavoro d’agricoltura e sul territorio, nel senso di una
vera e propria educazione all’ambiente. Dall’altra, inoltre, si creano e favoriscono con le
proprie produzioni circuiti alternativi di scambio, favorendo la produzione locale e nel
totale rispetto dei “bisogni” della terra.
174
http://www.cittasociale.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=117:senato-audizioneoperatori-sociali-fics&catid=2:uncategorised&Itemid=101
76
Conclusione
Ho provato a raccontare in queste pagine un’esperienza densa di significato
antropologico, approfondendo così la riflessione sulle questioni di crescita e modernità.
La ricerca sul campo in Irpinia mi ha offerto la possibilità di cogliere il valore politico
della Fattoria Sociale; infatti dalla mia analisi è emersa la natura dell’associazione: ho
individuato che l’organizzazione ruotava attorno ai concetti di qualità dello sviluppo e
di patrimonio ecologico ed etologico del territorio, proponendo un’alternativa al
modello attuale di progresso e crescita. Certamente nella Fattoria Sociale si promuove
un tipo di politica che è caratterizzata soprattutto, riprendendo l’etimologia greca del
termine, dall’attenzione verso il “polites”, il cittadino, considerato nel suo essere
soggetto attivo e partecipante per il benessere comune. La partecipazione di tutti intesa
come una nuova consapevolezza della responsabilità politica delle persone e delle
comunità verso i beni comuni, la libertà e la democrazia.
La storia professionale di Salvatore Esposito, fondamentale per la comprensione
della Fattoria Sociale, racconta bene la complessità politica e umana del progetto. Nel
sua percorso esperenziale confluiscono le problematiche legate al contesto dei servizi
sociali in Campania, unite all’impegno personale e alla collaborazione con altri
operatori sociali per ricercare ed elaborare nuovi modelli organizzativi. La Fattoria
Sociale infatti, gestita dalla rete FICS, individua la propria strategia di educazione e di
rispetto all’ambiente e agli altri esseri viventi, immaginando e delineando i suoi
interventi e le sue progettualità nell’ottica dello sviluppo sostenibile. Come ho spiegato
già nel corso del lavoro, la posizione riguardo specifiche tematiche attraversa sempre
importanti momenti di riflessione-critica e rinnovamento. Lo studio dell’opera di Serge
Latouche e della decrescita ha favorito la discussione e la rielaborazione dello sviluppo
sostenibile, inteso come reale priorità per il benessere dell’ecosistema abbandonando le
logiche del profitto. La Fattoria Sociale alla luce di questo working progress, raccoglie
le sollecitazioni e le intuizioni di diverse scuole di pensiero, ma non è soltanto
un’iniziativa astratta che si nutre esclusivamente di teoria. Le attività già avviate e
quelle che sono ancora solo in progetto, hanno come obiettivo la produzione di
un’economia civile individuata sul territorio, per sostenere il Welfare locale. Quindi è
77
opportuno leggere le “buone pratiche” favorite dalla Fattoria Sociale con questa duplice
chiave di lettura: riuscire a garantire oltre che l'assistenza e la cultura anche entrate
economiche, riuscendo a sostenersi autonomamente. Nel corso del lavoro ho spiegato il
significato di agricoltura sociale, attività che unisce al lavoro agricolo importanti
programmi d’inclusione sociale. Tra le buone pratiche offerte, è prevista entro la fine
del prossimo ottobre, l’apertura del Parco Etologico, canile rifugio che ospiterà randagi
e/o animali abbandonati. Il Parco, struttura dai caratteri fortemente innovativi, è il primo
esempio esistente in Campania e nel Mezzogiorno del Paese di esperienza
zooantropologica, offrendo inoltre la possibilità d’interventi terapeutici legati a nuove
concezioni del rapporto uomo animale.
Nonostante le molte funzioni svolte dalla Fattoria Sociale, ritengo che la forza
principale di questa impresa economico-sociale sia proprio nell’attenzione riservata al
territorio in cui s’instaura. Purtroppo è noto che la Campania, dal punto di vista
paesaggistico e tradizionale, è una regione molto a rischio per la poca attenzione verso
le numerose particolarità naturali e culturali che conserva. Sono molteplici infatti le
dimostrazioni che testimoniano una situazione complessa e difficile per la regione,
escludendo alcune “oasi” dove l’attenzione all’ambiente e alla qualità della vita è
maggiore. L’esperienza che racconto si sta implementando precisamente nell’Irpinia
raccontata da Franco Arminio, autore che descrive la sua terra attraverso il viaggio nei
paesi del territorio. L’Alta Irpinia, che ospita la Fattoria Sociale, conserva al suo interno
un ricco patrimonio di tradizioni culturali e colture agricole. Infatti da centinaia di anni
nelle sue terre vivono anche grazie alle fiorenti attività legate alla viticoltura,
all’olivicoltura e alla corilicoltura. Tradizioni, relazioni e saperi centenari che rischiano
di scomparire con l’avvento incondizionato di un modernismo distruttivo. A questo
proposito, riprendendo Franco Arminio, esiste la paura che l’Irpinia venga ingoiata
dall’industria del commercio e della globalizzazione. Pertanto la Fattoria Sociale, con le
sue buone pratiche, ponendosi nel filone delle tradizioni locali, assume un ruolo centrale
per la protezione delle tradizioni e la valorizzazioni di questi luoghi.
Queste tematiche hanno indirizzato la mia ricerca verso autori, che con le loro
elaborazioni e le loro intuizioni, incrociavano aspetti interessanti della mia ricerca.
Infatti antropologi come George Balandier, James C. Scott, Stefano Boni e David
Graeber, con i loro lavori mi hanno aiutato a sviluppare uno sguardo politico anche in
78
contesti dove apparentemente questo non è esplicito ed evidente. Loro testimoniano
infatti quanto la rete del potere e i meccanismi di forza siano presenti con diverse
intensità in ogni manifestazione sociale. Questi studiosi sostengono l’importanza di un’
osservazione politica pervasiva nella società. Il mio lavoro è consistito nel tentativo di
analizzare le attività della Fattoria Sociale attraverso le chiavi lettura offerte dagli
approfondimenti di questi studi.
79
Appendice Iconografica:
Fig. 1
Raffigurazione geografica dell’Irpinia
80
Fig. 2
Progetto Piante grasse
81
Fig. 3
Planimetria generale della Fattoria Sociale
82
Fig. 4
Foto della Fattoria Sociale
83
Fig. 5
Progetto Parco Etologico.
84
Materiale
REGIONE CAMPANIA - Giunta Regionale - Seduta del 6 luglio 2007 - Deliberazione
N. 1210 - Area Generale di Coordinamento N. 18 - Assistenza Sociale, Attività Sociali,
Sport, Tempo Libero, Spettacolo – N. 11 - Sviluppo Attività Settore Primario Definizioni delle caratteristiche funzionali della Fattoria Sociale per la promozione di
programmi di sviluppo sostenibile nella Regione Campania.
PREMESSO
-CHE la Giunta Regionale con deliberazione n. 1042 del 1 agosto 2006 ha approvato il
Documento Strategico Regionale per la Politica di Coesione 2007/2013, in cui constata
che l’indice di dotazione delle infrastrutture sociali (sanitarie, per l’istruzione, sociali,
culturali e ricreative, ecc.) evidenzia in Campania un forte squilibrio territoriale, e
quindi rileva la necessità di potenziare e riqualificare la rete delle infrastrutture da
destinarsi ai servizi sociali e di sostegno alle responsabilità familiari e di favorire un
deciso ampliamento quali-quantitativo del sistema d’offerta di servizi, per avvicinarlo
maggiormente ai bisogni dei cittadini.
-CHE il Piano Strategico Nazionale per lo Sviluppo Rurale del Ministero delle politiche
agricole alimentari e forestali del 20 dicembre 2006, anche al fine del mantenimento dei
posti di lavoro, propone la diversificazione dell’attività agricola e la promozione di
attività e servizi innovativi per le popolazioni rurali, prevedendo nel terzo asse
strategico, accanto ad interventi a favore delle economie locali, azioni finalizzate al
miglioramento della qualità della vita attraverso la
promozione dei servizi socio-
economici (istruzione, servizi sanitari, ecc.), dell’animazione e dell’inclusione sociale;
-CHE la Giunta Regionale con deliberazione n. 453 del 16 marzo 2007 ha approvato il
Piano di Sviluppo Rurale della Regione Campania 2007/2013 relativo al FEASR, in cui
la Misura 3.4 “Servizi essenziali alle persone che vivono nei territori rurali”, con il
proposito di supportare lo sviluppo dei servizi essenziali per migliorare la qualità della
vita della popolazione rurale e favorire lo sviluppo di attività economiche - sociali nelle
aree rurali marginali, propone l’avviamento e l’ampliamento di servizi alla popolazione,
individuando tra le tipologie di intervento la «fattoria sociale», quale impresa sociale
85
conduttrice di un fondo agricolo nella quale spazi e/o coltivazioni vengono dedicati a
persone svantaggiate (portatori di handicap, tossicodipendenti, detenuti, anziani,
bambini e adolescenti, ecc) con l’esplicito proposito di coinvolgere soggetti con bisogni
speciali, anche attraverso lo svolgimento di programmi di inclusione individualizzati.
-CHE la Giunta Regionale con deliberazione n. 453 del 16 marzo 2007 ha approvato la
proposta del Programma Operativo FSE per la attuazione della Politica Regionale di
Coesione 2007/2013, in cui
al fine di sviluppare percorsi di integrazione sociale
prevede di agire con attenzione ai target ma anche alle condizioni di contesto che
determinano i rischi di esclusione e marginalità, avendo riguardo alla costituzione e
sviluppo di servizi di sostegno e di reti di solidarietà e di assistenza formali ed
informali per favorire anche la diffusione della cultura della legalità.
RILEVATO
-CHE l’attività agricola condotta con modalità ecocompatibili ed ecosostenibili, per la
molteplicità e la varietà di azioni esercitate, consentendo un’organizzazione del lavoro
in cui possono essere valorizzate competenze ed abilità che in altri settori produttivi
incontrano maggiori difficoltà di impiego, presenta un’ampia gamma di opportunità
lavorative per persone diversamente abili, troppo spesso escluse da cicli produttivi in
cui le performances richieste non tengono conto delle caratteristiche e dei bisogni
individuali;
-CHE l’attività agricola, condotta con etica di responsabilità verso la comunità e verso
l’ambiente, per la molteplicità di situazioni ed attività in cui dar spazio ad una pluralità
di esigenze espressive, per il significativo contributo ad un corretto orientamento
spazio-temporale, per il favorire relazioni interpersonali in cui le diverse soggettività
sono elementi di ricchezza, facilita la costruzione di percorsi di inclusione di soggetti
deboli;
-CHE oltre ad opportunità di immediato re/inserimento lavorativo, quindi, i servizi
offerti possono:
- anche attraverso puntuali percorsi formativi, favorire processi di ri/acquisizione
di capacità, per cui persone diversamente abili ed in condizione di temporanea
difficoltà possono acquisire competenze utili per favorire il reinserimento
sociale;
86
- supportare i processi terapeutici e riabilitativi di persone affette da disabilità
psichiche e/o motorie, grazie alle caratteristiche intrinseche dei contesti rurali,
alle attività connesse all’agricoltura che, per i suoi ritmi, la sua varietà, e
soprattutto per il rapporto con esseri viventi come piante e animali, ha
significativi effetti positivi sugli equilibri psichici;
- favorire la costruzione ed consolidamento di reti di protezione sociale, la
diffusione di livelli di responsabilità sociale più estesi nelle comunità;
CONSIDERATO
-CHE la legge n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali” dell’8/11/2000, prevede che per la realizzazione degli
interventi e dei servizi sociali, in forma unitaria ed integrata, è adottato il metodo della
programmazione degli interventi e delle risorse, dell’operatività per progetti, della
verifica sistematica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni,
nonché della valutazione di impatto di genere;
-CHE nelle Linee Guida Regionali - Anno 2006 (V Annualità), approvate dalla Giunta
Regionale con delibera n. 838 del 23/06/2006, viene indicato quale orizzonte
progettuale la costruzione della “Campania sociale”, che presenta tra le condizioni di
attuazione l’individuazione di scelte selettive di Welfare di comunità sia come strategia
di contrasto alle dinamiche di esclusione, sia come strategia di promozione dell’agio e
della qualità della vita in un Welfare positivo e della felicità;
-CHE la Giunta Regionale con delibera n. 679 del 18/04/2007 promuove, tra le azioni a
titolarità regionali,
le buone pratiche sperimentali ed innovative di sviluppo sostenibile ed inclusione
sociale delle fasce deboli;
-CHE il D.D.L. regionale per la dignità e la cittadinanza sociale (D.G.R.C. n° 109 del
26/01/2006), licenziato dalla VI commissione Consiliare permanente in data 21/11/2006
(Reg. Gen. N° 63/I), disciplina la programmazione e la realizzazione di un sistema
organico di interventi e servizi sociali, che si attua con il concorso delle istituzioni
pubbliche e delle formazioni sociali, attraverso l’integrazione degli interventi e servizi
sociali, sanitari, educativi, delle politiche attive del lavoro, delle politiche abitative e di
sicurezza dei cittadini, dell’apporto dei singoli e delle associazioni;
87
RITENUTO
-CHE gli interventi integrati in cui sono previste azioni:
a) di promozione dello sviluppo sostenibile e di promozione dell’agricoltura
b) di promozione e di inclusione sociale che insistono sulle aree di intervento del
sistema integrato
dei servizi sociali della Campania
c) che favoriscono la diffusione della cultura della legalità
si possono configurare come vere e proprie azioni di sistema fortemente innovative di
interesse
strategico per la Regione Campania;
-CHE tali interventi possono essere promossi dalla «Fattoria sociale», intesa quale
impresa sociale, economicamente e finanziariamente sostenibile, che utilizzando in gran
parte fattori di produzione locali svolge attività produttiva agricola e zootecnica, ed al
contempo in collaborazione con le istituzioni pubbliche e con gli altri organismi del
terzo settore favorisce l’inserimento socio-lavorativo di giovani appartenenti alle fasce
deboli;
-CHE la «Fattoria sociale» così definita, favorisce l’attivazione sul territorio di reti di
relazioni, creando mercati di beni relazionali, aumentando la dotazione di capitale
sociale e offrendo risposte a bisogni sociali latenti o che i servizi tradizionali non sono
in grado di soddisfare;
-CHE data la grande varietà di servizi che possono offrire le Fattorie sociali oltre
all’inserimento socioriabilitativo, é necessario che ciascuna di esse nel proporsi come
fornitore al sistema integrato di servizi sociali della Campania, formalizzi i propri
interventi in un progetto in cui siano esplicitate le finalità, gli specifici bisogni
territoriali che intende soddisfare, le sue caratteristiche educative ed assistenziali,
nonché le modalità organizzative di realizzazione delle attività, le caratteristiche
strutturali degli immobili e degli spazi ad essi destinati;
88
propone e la Giunta in conformità a voti unanimi
DELIBERA
per le motivazioni ed i riferimenti espressi in narrativa che qui si intendono
integralmente riportati di:
a) qualificare come «Fattoria sociale»:
1. una impresa no profit economicamente e finanziariamente sostenibile,
condotta con etica di responsabilità verso la comunità e verso l’ambiente;
2. una impresa che utilizza fattori di produzione locali e svolge attività agricola e
zootecnica;
3. una impresa che nel proprio statuto prevede l’inserimento socio-lavorativo di
giovani appartenenti alle fasce deboli, oltre che eventualmente la fornitura di
servizi culturali e/o educativi e/o assistenziali e/o formativi a vantaggio di
soggetti con fragilità sociale beneficiari del Welfare locale;
4. una impresa che soprattutto attraverso l’inserimento lavorativo nell’ambito di
attività coerenti con il modello di sviluppo sostenibile è disponibile a collaborare
con le istituzioni pubbliche e con gli altri organismi del terzo settore in modo
integrato, attivando sul territorio reti di relazioni, creando mercati di beni
relazionali, aumentando la dotazione di capitale sociale e offrendo risposte a
bisogni sociali latenti o che i servizi tradizionali non sono in grado di soddisfare;
5. laddove ciò è possibile, riutilizza i beni sottratti alle organizzazioni criminali e
quindi promuove quale ulteriore valore aggiunto la cultura della legalità;
b) arricchire l’offerta dei servizi sociali del Welfare campano con gli interventi
innovativi della «Fattoria sociale», al fine di favorire il miglioramento delle condizioni
di vita dei cittadini e delle comunità locali in cui opera;
c) disporre che oltre ad attività di re/inserimento lavorativo, eventuali ulteriori interventi
offerti dalle «Fattorie sociali» siano formalizzati in una proposta progettuale in cui siano
esplicitate le finalità, gli specifici bisogni territoriali che intende soddisfare, nonché le
modalità organizzative di realizzazione delle attività e le caratteristiche strutturali
dell’immobile destinato, da inviare al Comune territorialmente competente al fine di
ottenere la prevista autorizzazione;
d) dare mandato al Settore 01 dell’AGC 18 “Assistenza Sociale, Programmazione e
Vigilanza sui Servizi Sociali”, attraverso successivi atti Dirigenziali adottati d’intesa
89
con il Settore 03 dell’AGC 11 “Interventi sul territorio agricolo, bonifiche ed
irrigazione”, di istituire il registro regionale delle «Fattorie sociali»;
e) trasmettere il presente provvedimento ai seguenti Settori Regionali per quanto di
rispettiva competenza:
Settore 01 dell’AGC 18 “Assistenza Sociale, Programmazione e Vigilanza sui Servizi
Sociali”,
Settore 03 dell’AGC 11 “Interventi sul territorio agricolo, bonifiche ed irrigazione”,
Settore 01 dell’AGC 03 “Piani e Programmi di Intervento Ordinario e Straordinario”.
Il Segretario
D’Elia
Il Presidente
Bassolino
90
Bibliografia
Arminio, F., Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e giganti del Sud Italia, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano, 2011
Balandier Georges, Antropologia Politica, Armando Editore, Roma, 2000 (ed. or. 1967)
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Deseta Cesare e Buccaro Alfredo (a cura di) Iconografia delle Città in Campania. Le
Provincie di Avellino, Benevento, Caserta, Salerno, Napoli, Electa, Napoli, 2006
Graeber David. Frammenti di un’antropologia anarchica, Eleuthera, Milano, 2006 (ed.
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Latouche Serge Harpages Didier, Il tempo della decrescita, Eleutera, Milano, 2011
Latouche Serge, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano. 2007
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Rossi-Doria Manlio, Cinquant’anni di bonifica, Bari, Laterza, 1989
Saggese Paolo, Crescita zero. L’Italia del terzo millennio vista da una provincia del
sud, Delta 3 edizioni, Nusco (AV), 2011
Scott James, Il dominio e L’arte della resistenza. I verbali segreti dietro la storia
ufficiale,Eleuthera, Milano, 2006
Università di Napoli: centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno.
Progetto di studio operativo sull’emigrazione meridionale nelle zone di esodo. Parte
seconda: risultati dell’indagine condotta nei comuni pilota dell’Alta Irpinia. Portici,
giugno 1975.
92
Sitografia
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0b0387
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Sito Ufficiale della F.I.C.S,, http//:www.cittàsociale.eu
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/15/pomigliano-dossier-fiom-accusadiscriminati-operai-iscritti-sindacati/177433/
Manifesto decrescita, http://www.decrescita.it
93
Intervista a Franco Arminio di Alberto Saibene,
http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/tre-domande-franco-arminio
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http://www.terraemadre.com/2010/08/8-r-per-la-decrescita-secondo-serge-latouche/
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http://www.irpiniaoggi.it/index.php/cronaca-in-irpinia/2-cronaca/81249-ha-ripreso-anevicare-la-situazione-e-nuovamente-di-emergenza.html
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94
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Colonia Agricola di Clermont-Ferrand altre esperienze europee di Agricoltura Sociale
www1.inea.it/pdf/AgricolturaSociale.pdf
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96