La psicologia penitenziaria

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La psicologia penitenziaria
La psicologia penitenziaria
è, per alcuni, quella parte della psicologia giuridica che
troverebbe applicazione all'interno delle strutture penitenziarie (MESTITZ), per altri una
disciplina autonoma caratterizzata dall'oggetto dell'indagine e dal campo di indagine
(BRUNETTI - SAPIA). Oggi di psicologia penitenziaria si parla a più livelli e questa
disciplina, anche grazie all’attivazione di corsi universitari e master di qualità, ha
finalmente cessato di essere la cenerentola della psicologia,quella frangia occupazionale
un tempo opzionata per lo più esclusivamente da psicologi alle prime armi o, viceversa,
da professionisti consolidati e di buon livello ma propensi a vivere l’esperienza
professionale intramuraria come residuale rispetto ad incarichi ben più prestigiosi e
remunerativi piuttosto che come settore degno di attenzione, approfondimento ed
investimento di energie primarie. Ovviamente il cammino verso un tale obiettivo è lungo
ed accidentato.
L’intervento dello psicologo in carcere poggia sull’idea-guida che il sostegno ed il
trattamento possano rispettivamente supportare l’Io nelle fasi più critiche ed incidere
significativamente sulla organizzazione esistenziale del soggetto promuovendone il senso
di colpa, di responsabilità e l’autocritica e motivandolo al reinserimento sociale. Va da sé
che questi ineccepibili presupposti teorici continuamente si confrontano e si scontrano con
i vincoli e le richieste istituzionali che li rendono a fatica compatibili con la quotidianità
detentiva e con la precarietà che ancora, nonostante gli sforzi innumerevoli realizzati,
caratterizza il nostro operare “al di là del muro”. Nella psicologia penitenziaria il
committente (la società, l’Amministrazione penitenziaria, la Magistratura di Sorveglianza
…) non corrisponde all’utente (detenuto). A differenza di altri ambiti, il “doppio
mandato” non è episodico bensì strutturale.
Contesto Penitenziario:
Psicoterapia o Counseling?
di Brunetta Caprasecca
Le riflessioni che voglio presentare traggono spunto dalle ricerche e dagli studi sulla
devianza e sulla personalità criminale, nonché dalla mia esperienza negli istituti
penitenziari su un antico nodo:
E' possibile la psicoterapia in carcere?
Dalla norma al Trattamento
Lo psicologo svolge il mandato conferitogli dal Ministero di Giustizia attraverso due
diversi servizi che riguardano due principali aree:
- L'Area Prognostica, di pertinenza del servizio "Nuovi Giunti", che ha come finalità la
rilevazione dei livelli di rischio suicida e dei comportamenti aggressivi della persona al
suo ingresso in carcere
- L'Area Trattamentale, attuata attraverso il servizio "Osservazione e Trattamento" ed
indirizzata a quei detenuti già condannati che potrebbero usufruire delle misure
alternative alla detenzione.
All'interno di queste aree si richiede l'applicazione della specifica disciplina giuridica che
le contraddistingue.
In particolare per quanto riguarda l'Osservazione e Trattamento dei detenuti, il campo di
indagine dello psicologo si rivolge :
- alla conoscenza dei bisogni connessi con le eventuali carenze affettive, educazionali,
sociali che hanno concorso con l'evento pregiudiziale (fase di Osservazione)
- Alla formulazione di indicazioni finalizzate alla "rieducazione". Questa deve contemplare
l'elaborazione del reato ed il recupero del ruolo genitoriale mediante una riflessione sugli
effetti che il reato ha prodotto nell'ambito familiare. (fase del Trattamento).
Per la norma giuridica la detenzione ha come obiettivo il cambiamento delle
problematiche psicologiche che hanno condotto la persona a delinquere.
Se per il giurista e per l'operatore l'obiettivo è definito nel cambiamento del soggetto
ristretto, per il detenuto spesso la detenzione viene vissuta secondo una logica diversa.
Così ad esempio le carenze affettive, educazionali sono utilizzate per giustificare il reato,
la sofferenza che lo stato detentivo produce all'interno della famiglia è indirizzata per
chiedere permessi e/o benefici e l'elaborazione del reato viene spesso liquidata con un: "si,
Dottoressa io sono sincero/a con lei, non nego di aver commesso il fatto".
All'interno di questo tipo di relazione e prima ancora di iniziare il suo lavoro, lo psicologo
deve sciogliere un antico quesito:
"E' possibile fare psicoterapia in carcere?"
A tuttora la questione è quanto mai controversa. In questo articolo desidero soffermarmi
su quegli aspetti che sono di ostacolo alla relazione psicoterapeutica.
Alcuni di questi riguardano:
- La volontarietà - nel contesto penitenziario il soggetto detenuto si sottopone al
trattamento per richiesta altrui e a volte suo malgrado, diversamente dal soggetto libero
che sceglie autonomamente un percorso psicoterapeutico.
- La consapevolezza del disagio, della sintomatologia o della problematica - spesso è
assente nei soggetti ristretti, i quali non ritengono di aver bisogno di alcuna "cura" e
frequentemente non sanno di avere dei problemi.
- La collaborazione - il paziente, pur con resistenze inconsapevoli, cerca la collaborazione
con il proprio psicoterapeuta, la persona detenuta per lo più omette, simula o dissimula a
seconda del suo interesse processuale.
- La parcella - nel contesto penitenziario l'onorario viene corrisposto dal Ministero di
Giustizia o della Sanità all'esperto psicologo, nel contesto privato il paziente sostiene
l'onorario del professionista.
- I processi di transfert e controtransfert sono analizzati nel contesto privato, in quello
penitenziario può anche verificarsi che il controtransfert preceda l'eventuale transfert.
- Il paziente cerca di essere aiutato attraverso processi di comprensione, integrazione delle
esperienze ed autocritica, nel contesto penitenziario la persona detenuta usualmente porta
avanti le sue personali ragioni.
- Il segreto professionale rappresenta un vincolo tra terapeuta e paziente in un contratto a
due mani. La situazione è diversa se l'esperto risponde del proprio mandato ad una
persona, ente od organizzazione diversa da quella del paziente, oltre le eccezioni presenti
nella normativa in caso di perizie e segreto professionale.
Considerati questi come alcuni degli aspetti essenziali, senza i quali non è possibile
raggiungere una adeguata alleanza terapeutica, ritengo che il rapporto di consulenza
possa offrire, nel contesto penitenziario, maggiori vantaggi.
"Detenute" dall'inconscio
di Brunetta Caprasecca
(Rebibbia Femm.le - Nuovo Complesso)
Cogliere l'inconscio
E' proprio durante l'ascolto che si acquisiscono informazioni "hic et nunc" sugli aspetti
emozionali e cognitivi inconsci che si manifestano attraverso la comunicazione
metaverbale.
Le memorie procedurali e i funzionamenti pre-rappresentazionali hanno notevole
incidenza durante le interazioni e le ritroviamo nella mimica, nella vocalità delle parole,
nella distanza fisica tenuta rispetto all'interlocutore (questo tipo di memoria è accessibile
solo attraverso la prestazione poiché corrisponde ad una modalità pre-simbolica di
processare le informazioni, Lichtenberg, 1995).
Così si può scoprire durante la narrazione del reato che lo sguardo si accenda e
possacomparire una specie di sorriso.
Se si confronta la persona sulla modificazione somatica avvenuta, spesso capita che venga
riconosciuto lo stato di eccitazione legato all'evento deviante ma che non venga
riconosciuta la paura nel compiere l'azione proibita.
A volte la paura si trova in storie dove sono presenti traumi, trascuratezze, abbandoni,
istituzionalizzazioni, storie che a volte evidenziano uno sviluppo evolutivo avvenuto in
ambienti svantaggiati sia culturalmente sia socialmente.
Il bambino impara presto da dove può giungere l'evento pericolosoe l'adrenalina che si
libera è una sferzata di energia che gli permette di fronteggiarlo. Il vantaggio è di sentirsi
attivi almeno chimicamente e di superare la depressione dovuta all'impotenza delle
circostanze. Il costo, specie quando tali esperienze si avvicendano frequentemente, è
quello di perdere la consapevolezza della funzione protettiva della paura e di ricercare
attivamente situazioni entro le quali l'adrenalina venga liberta automaticamente per
sentirsi potenti.
Queste sensazioni rimangono impresse non solo nella memoria e nel cervello ma
producono anchemodificazioni a livello cellulare. Oggi sappiamo che ripetute esperienze
traumatiche producono alterazioni precoci dei circuiti cerebrali implicati nei processi di
valutazione e attribuzione di significati e possono avere profondi effetti sui meccanismi
che influenzano direttamente la natura delle esperienze emotive, la regolazione delle
emozioni (LeDoux 1990), nonché delle azioni.
Una prima riflessione è se alcune recidivanze possano trovare in questo tipo di alterazioni
una loro spiegazione, mentre una difficoltà al "trattamento" potrebbe essere ricercata
nell'impossibilità, da parte del soggetto, di riconoscere emozioni meno aggressive e
relazioni meno pericolose dalle quali rifornirsi.
Un altro sentimento potentissimo che si riscontra nelle storie detentive è la rabbia.
Anche la rabbiafornisce un'attivazione eccitatoria che viene a volte indirizzata a potenziare
aspetti narcisistici come la propria superiorità, il desiderio di sottomettere, di esercitare il
controllo, o di realizzare l'avidità.
Dietro questo tipo di funzionamento di solito ci sono storie di attaccamento nelle quali il
potere genitoriale è improntato sul controllo indirizzato alla sottomissione accompagnata
dal disprezzo.
Questo tipo di persone interagiscono con l'ambiente carcerarionegando o rifiutando il
proprio stato detentivo, sostenendo e sottolineando la distanza sociale, culturale ed
emotiva dalle altre donne ristrette. Spesso hanno titoli di studio superiori o conseguito una
laurea.
Le relazione sono vissute per controllare o sottomettere le donne più deboli anche
all'interno del regime penitenziario.
I contenuti che sono disposte a condividere sono descrizioni di sé come persone capaci ed
orgogliose di se stesse, raramente vogliono soffermarsi sul reato.
Portare la persona da una posizione di competizione e grandiosità ad una di
collaborazione difficilmente viene ricercato se non in vista di vantaggi secondari,
raramente la collaborazione intesa come alleanza per un percorso di revisione critica è
realizzabile.
Da altre storie emerge che il dolore non può essere sentito e la rabbia lo distanzia
ulteriormente in modo efficace.
In queste situazioni alienarsi il sentimento del dolore significa non solo proteggersi dalla
sofferenza ma anche perdere definitivamente la capacità di tollerare gli eventi frustranti.
In questi casi le frustrazioni vengono affrontate attraverso un tipo di rabbia fortemente
aggressiva e persecutoria tendente ad eliminare le situazioni vissute come limitative o
mortificanti. Il piano di vita della persona sembra perseguire la vendetta con il
conseguente abbandono dei sentimenti di perdono nei confronti degli errori o differenze
altrui e della compassione verso il limite umano.
In tali situazioni è presente un introietto genitoriale punitivo, persecutorio e violento che
spesso si ritrova nella narrazione delle esperienze evolutive, dove il bambino impara
molto presto che bisogna essere cattivi per poter sopravvivere e per non rimanere vittima
"dei cattivi".
All'interno di questi vissuti il dolore viene distanziato attraverso la rabbia e, aiutare la
persona a far contatto con il suo sentimento potrebbe, in alcuni casi, riportare la persona
ad una posizione di "disperata impotenza" che, all'interno del regime carcerario potrebbe
risultare rischiosa per la vita stessa della persona. Alcuni suicidi ad esempio si verificano
quando la persona sperimenta un'impotenza assoluta, una disperazione senza più una
"prova d'appello", in assenza di strategie, che ne garantiscano il vivere.
Proprio per la delicatezza delle problematiche che si riscontrano nelle personalità
antisociali sono previste all'interno del "Trattamento" diversi tipi di attività: come quelle
culturali, sportive, lavorative, di formazione e ricreative.
Nella strutturazione del tempo detentivo queste attività ricoprono un grande valore,
potenzialmente già terapeutico di per sé. Basti pensare a quelle donne che possono inviare
i denari alla famiglia disagiata, o far continuare gli studi ai figli od anche apprendere un
mestiere. La possibilità di sentire la fatica ed indirizzare questa verso fini costruttivi
permette di conoscere le reazione emotive e cognitive che nascono dall'esperienza basata
sul rispetto delle regole e delle responsabilità che ogni attività comporta.
Attraverso l'esperienza di compiti socialmente accettati, si può orientare la persona verso
un ri-esame di pensieri, azioni e sensazioni al fine di individuare, stimolare e verificare
una reale disponibilità al cambiamento dei valori esistenziali.
Per l'importanza che ricopre il lavoro è opportuno che i compiti lavorativi vengano
assegnati dopo un periodo di riflessione e revisione critica, almeno parziale sulle proprie
scelte esistenziali e di valore, onde evitare che possano essere vissuti solo come passatempi
o diversivi al tempo detentivo
Le attività trattamentali forniscono un'opportunità verso un'esperienza che può
sensibilizzare la persona detenuta nei confronti delle sue problematiche inconsce e
dell'orientamento che queste assumono.
L'obiettivo del mandato è non solo di promuovere un re-inserimento sociale ma anche
quello di stimolare una consapevolezza più adeguata nei confronti di disagi personali,
consapevoli e non, che hanno concorso con l'evento deviante, al fine di indirizzare la
persona ristretta verso una "cura" che potrebbe continuare fuori dal carcere con altri
professionisti.
Conclusioni
Solo liberando l'inconscio dai legami delle sue antiche memorie, la mente può continuare a
svilupparsi e modificarsi attraverso esperienze che incidano più positivamente sugli
aspetti neuro-psico sociali dai quali è rappresentata.
La relazione di aiuto verso una persona (paziente, individuo, cliente ecc. il nome cambia
appunto a secondo della formazione professionale dell’operatore, del setting che si
struttura ecc.) può essere attuata con diverse tecniche e dispositivi a secondo del punto di
vista teorico/pratico a cui il professionista fa riferimento.
Ma la relazione di aiuto deve comunque avere un unico obiettivo: “L'efficacia dell'aiuto
che deve condurre al cambiamento psichico e comportamentale, positivo".
La relazione di aiuto prevede appunto una relazione psicologica/psicoterapeutica
(emotiva -empatica), di solito duale, in cui coloro che fanno richiesta dovranno ottenere
dei vantaggi tramite tale relazione e quindi tramite il consulente/professionista. Quindi gli
psicologi si mettono a disposizione dell'altro per raggiungere insieme un certo obiettivo
che di solito è quello del benessere psico/fisico dell’interessato.
La relazione di aiuto con il detenuto diventa un po’ più complessa, in quanto il percorso
per avviare qualsiasi forma di intervento psicologico nel penitenziario, é già all’inizio
perverso poiché ad esempio; l’istituzione prevede che il professionista che effettua il primo
colloquio con il soggetto incriminato non deve essere lo stesso che poi dovra prenderlo in
carico per i successivi colloqui di sostegno e/o per l’eventuale osservazione e trattamento.
Inoltre, un altro elemento di particolare rilevanza negativo, e degno di attenzione, è uno
dei dispositivi del setting: l’ambiente, dove e come si svolgono i colloqui (ambienti poco
gradevoli, deprimenti, con barriere fisiche ecc.).
Ancora, é da tenere presente che il soggetto non é quasi mai automotivato alla
consultazione dello psicologo; a ciò si aggiunge il fatto che il detenuto spesso (anzi quasi
sempre, specialmente per il primo colloquio all’entrata in Istituto) non e’ lui che richiede la
relazione di aiuto.A tale riguardo è facile comprendere come le modalità
in cui si svolge il colloquio diventano altrettanto significative e determinanti.
Da ultimo, ma non certo per importanza, c’è da considerare che in particolar modo nel
settore penitenziario l’approccio sanitario, psicologico e pedagogico al detenuto dovrebbe
ampiamente prevedere un’operatività di equipe che invece è sporadica, piuttosto latente.
L’istituzione carceraria è nella nostra realtà sociale molto discussa, ma altrettanto poco
conosciuta.
Si tratta di una organizzazione complessa in cui operano, in stretta interazione tra loro,
diverse figure professionali sia interne (direttore, agenti, educatori, assistenti sociali) che
esterne (medici, infermieri, psicologi, criminologi, insegnanti, assistenti volontari, etc.).
Negli ultimi anni è diventata sempre più marcata la necessità del contributo della
psicologia sia attraverso gli interventi degli psicologi penitenziari, sia attraverso
l’aumentata sensibilità degli operatori penitenziari professionali rispetto agli aspetti
psicologici, alle relazioni, alla comunicazione. L'introduzione della figura dello psicologo
nell’Istituzione detentiva per adulti avviene con la legge n. 354 dei 1975.
L'art. 80 di tale legge, prevede, al quarto comma che: "Per lo svolgimento delle attività
d’osservazione e di trattamento, l’amministrazione peniten-ziaria può avvalersi di
professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia
clinica".
Proprio per questo ci sembra ormai più adeguata la definizione di “psicologi
penitenziari”, in quanto è stata maturata una sufficiente esperienza teorica e pratica e, di
fatto, si è verificato un passaggio dal ruolo di “esperto” ad una presenza stabile e
continuativa: lo psicologo si coordina con tutti gli altri operatori (direttore, educatore,
polizia penitenziaria, assistente sociale, medico), ha acquisito nuove competenze (presidio
nuovi giunti, presidio
tossicodipendenze), è nata l’esigenza di una maggiore presenza sulla base di nuovi bisogni
e dell’aumento della popolazione penitenziaria.
Per ciò che concerne problematiche più complesse riguardanti la personalità del soggetto,
è richiesta la competenza professionale dell'esperto. In particolare quando le difficoltà
presentate dal soggetto riguardano la sua personalità e le dinamiche sottese alla
strutturazione dell'Io, si ricorre allo psicologo, il cui ruolo, nell'ambito operativo, si
configura rispetto a problemi di ordine diagnostico e terapeutico.
Lo psicologo conduce ad un'anamnesi del caso per situare il momento criminogenetico
nella storia totale del soggetto; ne deriva una diagnosi del comportamento in rapporto ad
una stato psicologico e psicopatologico, la quale va verificata in base alle ipotesi formulate
dagli altri operatori. In tal modo il soggetto viene conosciuto non come un deviante o
detenuto, somma di sintomi e comportamenti, ma come unità personale, cioè come il
risultato di un processo motivazionale che ha origine nelle esperienze vissute e
nell'ambiente socio-culturale.
Questa metodologia si traduce nella tecnica del colloquio clinico, condotto secondo un
approccio non direttivo, che attua una partecipazione conoscitiva delle problematiche
piena e consapevole, sia dell'esperto che del detenuto in osservazione.
Nei casi in cui emergono note psicopatologiche o qualora lo si ritenga opportuno per una
diagnosi più approfondita, lo psicologo potrebbe somministrare test proiettivi quali,
Rorschach, Machover, Koch, si privilegiano interpretazioni di tipo qualitativo a quelle
quantificate come i test mentali, in quanto questi ultimi codificherebbero solo i sintomi e
non si risalirebbe ad una conoscenza eziologica che tra l'altro sarebbe impossibile.
Effettuata la psicodiagnosi, l'esperto stabilisce un'azione terapeutica e il programma di
intervento sulla base dei dati dinamici e strutturali del caso. Tale ipotesi viene portata in
équipe al fine di concordare, in linea di massima, le modalità più opportune e più adatte
da seguire da parte dei diversi operatori, in modo da effettuare un intervento organico,
basato su una metodologia uniforme.
A livello operativo lo psicologo interviene su problematiche di tre ordini:
Problemi derivanti dal singolo: non accettazione, ansietà, situazioni conflittuali;
Problemi derivanti dalla comunità carceraria: noia, omosessualità, abbandono familiare,
difficoltà di adattamento alle regole subculturali della realtà;
Problemi emergenti in prospettiva dell'atto di dimissione: impreparazione, difficoltà di
inserimento nell'ambiente socio-familiare.
Per elaborare tali tematiche l'esperto attua un tipo di psicoterapia mirante soprattutto ad
un pieno coinvolgimento del soggetto e che, partendo da un'analisi critica e completa del
comportamento, induce una progressiva coscientizzazione, in modo che, sollecitato dalla
sua stessa analisi, il soggetto reagisce al 'setting terapeutico', elaborando i problemi e
riadattando le risposte in termini possibilmente risolutivi. Sia l'esame della personalità che
le principali linee operative vengono relazionate in modo da fornire elementi utili ai
diversi livelli di intervento, sia a fini rieducativi che al reinserimento del soggetto nella
comunità esterna.
Qualora invece il caso presenti connotazioni di tipo psicologico a carattere
neurovegetativo, si richiede l'intervento del neuropsichiatra, al fine di curare e prevenire
turbe della personalità o scompensi derivanti dalla permanenza in istituto o
dall'assunzione di sostanze stupefacenti e psicotrope, con idonee terapie di natura
farmacologica e/o psicologica.
Si richiede poi la collaborazione del criminologo qualora risulti necessario approfondire
particolarmente certi fattori che hanno determinato la devianza del caso, e inquadrarlo in
una più ampia prospettiva che tenga conto sia del contesto socio-culturale in cui tale
devianza si è manifestata, e da cui ha ricevuto la sua particolare connotazione, sia dal
modo in cui si manifesta, al momento dell'assunzione e in prospettiva futura, il vissuto del
soggetto, nei confronti del comportamento criminoso.
L'esperto criminologo, in tal caso, con opportuni metodi sollecita e riferisce su questi
particolari aspetti, stimolando al contempo il soggetto verso un superamento delle sue
dinamiche negative.Non va sottovalutata l'importanza dell'altro compito richiesto al
criminologo, cioè quello della formulazione di una prognosi delinquenziale.
Dopo avere esaminato gli ambiti e le modalità d’intervento dello psicologo, è possibile
definire un modello d’intervento che offre ai soggetti che si trovano in regime di detenzione un
percorso di continuità articolato secondo tre fasi:
L'Accoglienza;
L'Analisi della domanda;
L''Orientamento,
Nella fase dell’Accoglienza l’attenzione dello psicologo è rivolta alla gestione dell’impatto
emotivo dei soggetto con il sìstema carcerario, soprattutto nei casi che presentano
maggiore problematicità, come i soggetti tossicodipendenti in crisi d’astinenza o quelli alla
prima esperienza detentiva. In tale momento, all’interno di una relazione stabile con gli
operatorì, il soggetto vìene preso in carìco, attraverso attività d’ascolto e sostegno,
finalizzate a mitigare il trauma della detenzione.Nel primo contatto necessarìo a creare i
presupposti per la continuazione dei rapporto.
Segue il momento dell’Analisi della domanda. L'attenzione dello psicologo è, infatti,
successivamente rivolta alla comprensione dei bisogni e delle istanze di cui il soggetto è
portatore, per consentire a quest’ultimo di riflettere criticamente su di sé. in tal modo, nel
detenuto, potrà essere attivato un pensiero progettuale che guardi il momento detentivo
come una situazione ponte tra un passato che ha prodotto la condizione attuale ed un
futuro che potrebbe svilupparsi seguendo nuove direttive e registri.
In un senso più ampio tale fase coincide con la chiarificazione dei rapporto con lo
psicologo sia sul piano della presa di consapevolezza da parte dei soggetto della propria
condizione e delle proprie richieste, sia sulle reali possibilità d’intervento da parte dello
psicologo.
Il momento dell’Orientamento coincide con la definizione degli obiettivi da raggiungere,
sia relativamente alla richiesta dì un percorso trattamentale extramurario, sia
relativamente alla possibilità di intraprendere un lavoro psicologìco su se stessi, durante il
periodo della detenzione.
E' importante notare, inoltre, come nelle istituzioni penalì per adulti l’incontro tra
psicologo e detenuto assume aspetti che lo differenziano rispetto ad altri contestì. Un
elemento di differenziazìone è evidenziabile dalla domanda che viene posta ai
professionista.
In genere, un individuo che si rivolge allo psicologo espone il suo problema esprimendo
una richiesta esplicita d’aiuto per il superamento delle proprie difficoltà. Di primaria
ìmportanza, per instaurare il rapporto terapeutico, è indagare sulle motivazioni che
sottostanno a ciò che è stato espresso come domanda esplicita, analizzando e
comprendendo i messaggi relazionali ìmpliciti per giungere ad una comune definizìone di
ciò che è la reale domanda d’aiuto del soggetto.
Negli istituti detentivi questo processo appare dífficoltoso perché, prevalentemente, è lo
psicologo a "chìamare a colloquio" il soggetto detenuto, necessitando d’elementi di
conoscenza finalizzati all’esigenza di rispondere ai quesiti provenienti da altri livelli
istituzionali (Direzione dell’istituto, Magistrato di Sorveglianza).
In questo senso la popolazione detenuta non sembra costituire una vera e propria utenza:
chi si serve della professionalità dei consulente è la stessa committenza, nel momento in
cui è chiamata a prendere delle decisioni che riguardano il detenuto o al fine di poterne
gestire la permanenza, nel modo meno problematico possibile.
Crescente è, inoltre, la richìesta da parte delle Direzioni di un parere predittivo sulla
concessione dei permessi premio per il quale, prima della decisione dei magistrato
competente, è la direzione stessa a dover esprimere un parere d’opportunità. Non ultima
la Magistratura di Sorveglianza che può richiedere la relazione d’osservazione scientifica
della personalità, al fine di acquisire conoscenze utili alla concessione dei benefici previsti
per legge ai soggetti che ne fanno richiesta.
E’ ormai opinione condivisa dalla grande maggioranza degli operatori che nel nostro
Paese si occupano di Psicologia Penitenziaria che essa dovrebbe inserirsi all’interno degli
Istituti di pena come uno “strumento in più” a disposizione di tutte le persone che si
muovono in questa complessa realtà: operatori ed utenti. Essa dovrebbe quindi trovare la
propria ragione di essere presente all’interno degli Istituti di pena non solo nell’area
dell’Osservazione e Trattamento dei detenuti, ma anche nel lavoro con il personale in
un’ottica diretta, soprattutto, alla Formazione Permanente.
I contenuti della Psicologia Penitenziaria potrebbero pertanto essere schematicamente così
rappresentati:
Per gli utenti: Osservazione psicologica, Trattamento psicologico
Per gli operatori: Formazione: teorica, esperienziale (contenimento – prevenzione rischio burnout)
Ai fini di una corretta lettura dell’intervento psicologico nel Penitenziario è quindi
importante definire i concetti di “Osservazione psicologica” e di “Trattamento
psicologico” differenziandoli, da un lato, sia dall’Osservazione che dal Trattamento
“penitenziari” e, dall’altro, sia dalla Diagnosi che dal Trattamento “medico-psichiatrici”.
Parlare di Diagnosi e di Trattamento “psicologici” implica infatti la creazione di uno
spazio e di un servizio specifico, in cui dovrebbero peraltro rientrare tutte le tecniche di
intervento psicologico inclusa, quando possibile, anche la psicoterapia.
Per “Trattamento psicologico”, inteso in senso generale, si intende l’uso di strumenti propri
della Psicologia atti a stimolare un cambiamento, inteso come crescita, della persona: esso,
che proprio per questo si differenzia quindi nella metodologia e nei contenuti sia dal
Trattamento penitenziario complessivamente inteso che da quello medico-psichiatrico,
come esso specialistico, costituisce uno strumento utile al fine della riduzione del disagio
psichico ma anche, coerentemente con la legge 354/75, per “promuovere un processo di
modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione
sociale”.
Di tutto ciò, la “Diagnosi psicologica” è evidentemente la necessaria premessa: con questo
termine si intende infatti un processo di organizzazione critica dei dati osservati per
comporre un quadro delle funzioni mentali e delle capacità personali al fine di decidere un
Trattamento. In altre parole, una volta inquadrato il disturbo fondamentale della
personalità o le parti non funzionanti, si valuta quali aspetti sani e risorse interiori possono
essere mobilitati in favore di un migliore equilibrio, e quale percorso trattamentale sia più
opportuno in quello specifico caso.
La Psicoterapia è, invece, uno degli strumenti del Trattamento, finalizzato a stimolare un
pensiero intorno a sé ed alla propria esperienza nel momento in cui si crei nell’utente una
motivazione in tal senso. Non significa risoluzione di una patologia, né implica l’idea che
il deviante sia un malato, ma offre delle possibilità di contenere una sofferenza psichica,
legata allo stato di restrizione e/o a tutta quell’area di disagio che non appartiene alla
psicopatologia in senso stretto ed in cui rientrano, ad esempio, i disturbi di personalità. Il
riconoscimento della funzione psicoterapeutica dello Psicologo nelle carceri, oltre a cercare
di rispondere alle esigenze di tutela della salute psichica degli individui detenuti,
riprenderebbe e darebbe attuazione a quanto la legge 354/75 definisce quando essa,
testualmente, afferma che “gli interventi sono volti a promuovere un processo di
modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione
sociale”.
Sotto questo punto di vista, pertanto, appare evidente come una componente
estremamente significativa della Psicologia penitenziaria e criminologica si caratterizza
decisamente per la sua impostazione “Clinica”, ed è forse questa la ragione per la quale
tale componente dell’attività lavorativa dello Psicologo in ambito penale si avvicina
particolarmente, sino a volte a sovrapporsi almeno parzialmente ad essa, con quell’altra
disciplina scientifica - non di esclusivo appannaggio della Psicologia e degli Psicologi, ma
applicata anche da parte di altri operatori quali ad esempio i Medici - che ricade sotto il
nome di “Criminologia Clinica”.
Uno specifico approfondimento al riguardo appare pertanto in questa sede
particolarmente opportuno, tenendo proprio presente sia il fatto che spesso è proprio uno
Psicologo che vuole operare in ambito penale ad acquisire, dopo la laurea e la successiva
iscrizione all’Ordine degli Psicologi, anche un diploma di Specializzazione in
Criminologia Clinica, sia il fatto che l’aggettivo “Clinica”, oltre ad accompagnarsi in
questo caso al sostantivo “Criminologia”, in misura altrettanto adeguata e forse ancor più
frequente nella pratica operativa si ritrova accompagnato al sostantivo “Psicologia” per
denominare quel suo vastissimo settore applicativo che va appunto sotto il nome di
“Psicologia Clinica”.
La “Clinica” è quella scienza che si accosta alla persona ammalata, sofferente, bisognosa
di aiuto, e che cerca di interpretarne la specifica situazione soggettiva al fine di eliminare o
almeno alleviare lo stato di disagio che si è determinato in quella persona e nell’ambiente
ad essa circostante. Si può quindi definire la Criminologia Clinica come quella branca
della Criminologia Generale che utilizza, nell’approccio agli eventi criminosi, una
modalità di interpretazione specificatamente rivolta a comprendere i sentimenti, le
esperienze ed i vissuti soggettivi sia degli autori sia delle vittime di reati, al fine di
intervenire (assieme ad altre modalità interpretative di vario tipo, soprattutto quelle
sociologiche e giuridiche) per una riduzione dei comportamenti penalmente sanzionati e
della sofferenza che ad essi solitamente si accompagna.
Quella del Criminologo Clinico, sia esso o meno Psicologo, si caratterizza perciò
marcatamente come un’attività di intervento e di aiuto verso il singolo individuo, più che
verso la Società nel suo complesso, e si inserisce a pieno titolo tra quelle che gli Autori
anglosassoni tendono oggi a definire con il significativo termine di “helping professions”.
Vi è pertanto, nel lavoro del Criminologo clinico, un primo momento fondamentale:
quello della diagnosi, intesa non tanto come classificazione nosologica (che per quanto
importante non è sicuramente di per sé esauriente), bensì come comprensione profonda e
razionale delle cause che determinano le manifestazioni patologiche del comportamento
ed eventualmente del pensiero.
In Criminologia clinica la diagnosi non va quindi considerata come necessità di un
“etichettamento”, ma come comprensione del problema nucleare che costituisce la causa
dei comportamenti penalmente rilevanti del soggetto: l'importante è giungere in possesso
degli elementi oggettivamente significativi per avvalorare le ipotesi di partenza, oppure
per disconfermarle.
Vi sono infatti alcune fondamentali differenze tra l'approccio più strettamente medico e
quello più specificatamente criminologico, sia in fase diagnostica, sia nell'eventuale
successiva fase d'intervento.
Nel primo modello la diagnosi viene infatti compiuta ricercando soprattutto i punti di
debolezza del paziente, mentre per il secondo è fondamentale individuare soprattutto,
oltre ai punti di debolezza, anche i punti di forza, perché è solo su questi ultimi che il
criminologo clinico può contare per cercare di avviare di nuovo il processo evolutivo
bloccato. Inoltre, nel modello medico la diagnosi implica il riconoscimento di una
disfunzione verso cui è possibile intervenire sulla base di protocolli prestabiliti, cioè
agendo attraverso la propria competenza professionale.
In ambito criminologico, invece, essa viene utilizzata per istituire una situazione in cui
risulti possibile avviare una riflessione sui bisogni che nel soggetto hanno richiesto
l'intervento del professionista.
Il lavoro clinico in senso criminologico, almeno nella sua impostazione generale e di base,
è quindi molto più vicino a quello dello Psicologo che a quello del Medico: si rifiuta cioè
una diretta azione diretta dall’esterno sul paziente (tipica del lavoro medico) e si sospende
l'agire quotidiano usuale per instaurare invece rapporti di riflessione e di pensiero
(operazione tipica, invece, del lavoro dello Psicologo). Si tratta cioè di rendere le emozioni
“pensabili” al fine di favorire i processi di comprensione e di elaborazione verbale dei
vissuti soggettivi: si tratta, in altri termini, di avviare nella persona quel fondamentale
processo di mentalizzazione che per il Criminologo clinico costituisce il primo obiettivo
metodologico, di carattere pertanto generale, dove risulti possibile individuare l'obiettivo
specifico di ogni singola attuazione successiva.
Sono possibili per il Criminologo clinico anche alcuni tipi di interventi parziali che si
basano sul concetto secondo cui, essendo la persona un'unità integrata, un intervento
anche circoscritto su di un settore specifico si ripercuote inevitabilmente, modificandola,
anche sul resto della situazione interna del paziente. I più comuni esempi di interventi
parziali sono costituiti dal cosiddetto “intervento sul periodo di crisi” e dalla “consultazione
terapeutica”.
L'intervento sul periodo di crisi
In questo caso il Criminologo clinico lavora focalizzando la propria attenzione, insieme al
paziente, sul problema che è alla base di un preciso disturbo o del comportamento che tale
disturbo determina, puntando decisamente sull'avvenimento specifico che ha determinato
la crisi. L'utilizzazione di questa tecnica necessita tuttavia di una formazione assai
specifica in quanto richiede un rapido utilizzo del controtransfert ed un rapporto empatico
e profondo col soggetto, ed è quindi di fatto ammissibile solo per chi, Psicologo o Medico
iscritto al rispettivo Albo professionale, abbia anche conseguito oltre alla qualifica di
Criminologo clinico anche l’abilitazione all’esercizio della Psicoterapia.
La consultazione terapeutica
Questa metodologia d'intervento si differenzia dalla classica diagnosi in quanto consiste
in un lavoro fatto non “sul” soggetto, bensì “insieme” al soggetto, al fine di verificare quali
spazi di mentalizzazione sono utilizzabili in quella specifica situazione per: a) prendere le
distanze, da parte del Criminologo, dalla propria teoria di riferimento, per non rischiare di
fare un lavoro che rimarrebbe ancora sostanzialmente teorico; b) allacciarsi alle modalità
di funzionamento mentale del soggetto ed alla sua “visione del mondo”, almeno per
quegli aspetti intorno ai quali si è costruita la sua specifica situazione attuale; c) costruire
un'ipotesi di lavoro attuabile per affrontare i problemi concreti di quella persona in modo
per lei credibile, elaborando di volta in volta tale ipotesi sulla base degli assunti
precedenti.
Obiettivo di questo tipo d'intervento è in primo luogo il “Sé” del soggetto (vale a dire l’
individuo stesso come egli si percepisce e vive a livello profondo), che deve divenire per
entrambi un oggetto di conoscenza. Il lavoro del Criminologo si accentra quindi in questo
caso sull'identità personale del soggetto: la propria conoscenza di sé viene infatti a
coincidere con la conoscenza degli pseudoragionamenti che rendono problematica la
propria realtà esistenziale, e ciò viene attuato con un lungo processo di riflessione e di
elaborazione che può però già dare concreti risultati anche in tempi brevi (soprattutto. ad
esempio, con gli adolescenti) e che richiede anch'esso una formazione specifica.
Va comunque ancora precisato, riguardo a questi temi, che spesso il Criminologo clinico,
proprio perché non sempre ha anche un’adeguata formazione psicologica e
psicoterapeutica, corre il rischio di prescindere dal contesto “attuale” di vita del paziente:
può lavorare cioè “sul-col” soggetto come se lo stato detentivo non producesse "di per sé"
effetti sugli atteggiamenti e sugli affetti, consolidando o all’opposto rendendo più fragili
significative aree della personalità.
Questa è, invece, quella che dovrebbe sempre essere non solo l’ottica del Criminologo
clinico, ma anche l'ottica dello Psicologo penitenziario: che è “penitenziario” non solo o
semplicemente perché lavora in carcere, ma soprattutto perché conosce e tiene presente
l'interferenza della variabile carcere sul soggetto (e su di sé).
Sul Criminologo, sullo Psicologo e sugli altri operatori che svolgono la propria attività sia
all’interno dei penitenziari che nei vari altri Servizi territoriali che fanno capo
all’Amministrazione della Giustizia grava comunque, in genere, un'utenza numerosa,
estremamente bisognosa, comunque portatrice di problematiche di norma complesse e
non di rado anche inquietanti. Tutti questi operatori devono perciò essere sufficientemente
forti e consapevoli per poter reggere un carico cosi pesante, sia sotto il profilo quantitativo
sia qualitativo: se tale condizione non sussiste la sindrome del “burn-out” e la cosiddetta
“esportazione del conflitto” si configurano, pertanto, come rischi sempre estremamente
presenti.
Non è mai da sottovalutare, inoltre, il già citato pericolo dell'emersione sia nel soggetto sia
nell’ambiente che lo circonda di fantasie di onnipotenza: in situazioni di questo tipo,
pertanto, è sempre possibile l’utilizzazione del conflitto come “risorsa”, cioè come stimolo
per la necessità di affrontare i problemi.
Quando qualcuno viene portato da altri componenti del suo sistema familiare
all’attenzione del Criminologo clinico, a maggior ragione se esso è anche Psicologo, egli
deve di norma analizzare sempre il “sistema” intero.
Nel caso di situazioni problematiche coinvolgenti anche minori, essi si devono avvicinare
per ultimi e soltanto se vi sono fondate motivazioni al riguardo. Il minore deve infatti
sempre essere, anche secondo la legge, particolarmente protetto: perciò, nel caso di un
bambino che entri in relazione diretta con il Criminologo clinico, si deve sempre compiere
l’ “analisi della domanda“ raccogliendo gli elementi necessari anche da altri adulti, e non
solo da quelli che l'hanno accompagnato dallo specialista.
In caso, poi, di situazioni caratterizzate da particolari difficoltà iniziali, lo specialista
Criminologo può anche venirsi a trovare in una vera e propria condizione di blocco e di
apparente impotenza (“impasse”). La cosa migliore da fare allora è quella di invitare il
paziente o comunque chi ha portato il caso ad un secondo colloquio, per chiarire ciò che
eventualmente potrebbe emergere nel tempo intermedio: ciò può dare sia allo specialista
sia al paziente il tempo necessario per riflettere e per chiarirsi meglio le idee. Lo specialista
Criminologo, nell'esporre tale invito, dovrebbe però cominciare ad inserire nel rapporto
qualche rappresentazione della realtà diversa rispetto a quella portatagli inizialmente, per
cercare di toccare tasti emotivamente significativi per i propri interlocutori al fine di
cercare di aprir loro la via per un “pensare”.
Occorre anche prestare particolarmente attenzione all'“effetto placebo” che può scaturire
da un semplice incontro tra Criminologo o Psicologo clinico e paziente, perché, in
quest'ultimo, un apparente miglioramento senza che vi siano cause ragionevolmente
credibili potrebbe celare meccanismi difensivi di carattere reattivo.
Per riassumere, nel lavoro clinico il Criminologo, sia esso Medico o Psicologo, deve tenere
sempre ben presente che:
Nell'incontro col paziente, egli non deve portare nulla di preconfezionato ed esterno alla
realtà del paziente stesso, ma semplicemente accompagnarlo alla ricerca della sua realtà
soprattutto “interna”, cercando di scoprire insieme a lui ciò che di sé stesso egli non mai
riuscito a vedere.
Occorre sempre essere disposti a “cambiare registro”, nel caso in cui il lavoro impostato in
un certo modo non risulti concretamente proficuo.
Non si deve mai prendere nessuna decisione se non si è reciprocamente del tutto convinti
della stessa. Per questo non ha senso tirare fuori improvvisamente , ad esempio, un
questionario di personalità o addirittura le tavole di un test proiettivo: ha molto più senso
per il lavoro dello specialista esprimere, con il paziente, i propri dubbi, le proprie
perplessità, le proprie incertezze. Ciò apre per entrambi un nuovo spazio per la
mentalizzazione rispetto al materiale che non è ancora stato adeguatamente elaborato, e
può consentire di proseguire il lavoro in modo più fecondo.
In caso di “impasse” per il Criminologo clinico, è sempre meglio che egli ”'prenda tempo”
per riflettere e pensare sul materiale che il paziente ha portato. Una consultazione
terapeutica vera e propria, prolungata nel tempo, va pertanto iniziata soltanto se è sentita
come necessaria e desiderata da entrambi.
Non si possono e non si debbono mai dare “ricette generali” a situazioni che sono
appunto “cliniche”, cioè vanno comprese e determinate di volta in volta, caso per caso.
Nel nostro Paese, ma questa è una considerazione che in realtà si può estendere a
pressoché tutte le Società occidentali contemporanee, vi sono infatti sempre più persone
che vivono secondo criteri assai diversi da quelli della maggioranza e che non chiedono
che di riuscire a vivere secondo tali criteri: non esiste, pertanto, un modello ideale al quale
sacrificare lo stato di benessere soggettivo.
In conclusione, quindi, la Criminologia Clinica e la Psicologia Penitenziaria e
Criminologica appaiono come due discipline ancora teoricamente distinte ma che in realtà
risultano per molti aspetti strettamente intrecciate, e che ben si armonizzano entrambe con
un’impostazione generale che proprio nella Psicologia Clinica può evidenziarne gli aspetti
reciprocamente comuni.
L’applicazione della Psicologia Penitenziaria e Criminologica al lavoro non con i detenuti,
bensì con il personale degli Istituti di pena, è un altro capitolo, ampio e complesso, di ciò
che può essere sviluppato dallo Psicologo che opera all’interno del sistema carcerario.
In sintesi, tale applicazione può essere effettuata in particolare attraverso due differenti
ambiti di intervento:
Teorico, per l’acquisizione di concetti e teorie utili ad osservare e decodificare
comportamenti e dinamiche di una realtà estremamente complessa;
Esperienziale, inteso come strumento per riflettere, confrontarsi, elaborare le esperienze
attraverso il lavoro di gruppo e sul gruppo. Il lavoro in carcere, come è noto, rientra infatti
tra i lavori psicologicamente più usuranti: è pertanto necessario contenere, attraverso
l’applicazione di misure di “formazione continua”, sia i rischi di incidenti critici da stress
sia, più in generale, il cosiddetto “burn-out” degli operatori.I concreti compiti specifici che
lo Psicologo penitenziario si trova di fatto più comunemente a svolgere sono attualmente i
seguenti:
Prima accoglienza dei detenuti nella fase dell’ingresso in carcere;
Osservazione scientifica della personalità (anche in riferimento al reinserimento attraverso
misure alternative);
Trattamento per favorire modificazioni soggettive durante il tempo della detenzione;
Sostegno psicologico;
Sviluppo della “relazione d'aiuto” commista con la funzione di influenza sul meccanismo
di espiazione della pena (cioè “relazione d'aiuto-terapeutica”);
Prevenzione dei suicidi e delle condotte aggressive (auto ed eterodirette);
Assistenza a tossicodipendenti e soggetti affetti da HIV+;
Partecipazione al Consiglio di disciplina per l’applicazione della misura dell’art. 14 bis
dell’Ordinamento penitenziario (“Regime di sorveglianza particolare”);
Consulenza psicologica su casi e situazioni particolari;
Sviluppo di modelli specifici di intervento su gruppi diversi e specifici di carcerati in
funzione dell'attenuazione del disagio connesso alla detenzione e per il recupero degli
stessi;
Analisi della struttura e del funzionamento della struttura carceraria;
Progettazione ed attuazione di modelli di intervento psicologico nelle strutture carcerarie;
Formazione e aggiornamento del personale carcerario in funzione del recupero e della
reintegrazione dei reclusi.
Per essere in grado di intervenire con un minimo di efficacia in tali complesse situazioni
organizzative, quindi, uno Psicologo penitenziario deve essere oggi in grado di conoscere
e di saper affrontare adeguatamente almeno le problematiche specifiche elencate, e che
sono riportabili sostanzialmente a tre ben definite aree di intervento: la Psicologia della
devianza, la Psicologia penitenziaria propriamente detta e le Dinamiche istituzionali e di
gruppo.
Al di là, comunque, delle competenze tecniche qui sopra specificate, occorre sottolineare
che nel corso della propria formazione lo Psicologo Penitenziario dovrebbe anche aver
sufficientemente elaborato al proprio interno le contraddizioni legate ai temi
dell'espiazione, della trasgressione, del giudizio assolutorio/di condanna. A ciò vanno
aggiunte,le competenze che sono necessarie per lavorare in un ambito che, comunque, è
giudiziario, cioè all'interno del Diritto: non che si debba conoscere, in altri termini, tutto il
Codice di procedura penale, ma il linguaggio del penale e la "filosofia" del giuridicogiudiziario.
Occorre comunque tenere infine presente, riguardo a questa particolare necessità di
“specializzazione”, anche il fatto che in Italia quello dello Psicologo penitenziario è
attualmente, oltre alla Psicoterapia e, per alcuni aspetti, la Psicologia giuridica e forense,
una delle pochissime attività di Psicologo che in qualche modo è soggetta ad una
procedura iniziale di valutazione di ulteriori titoli ed abilità, oltre alla semplice
abilitazione all’esercizio della Professione attraverso l’esame di Stato successivo al
tirocinio post-lauream che viene invece richiesta a tutti gli Psicologi che intendano
esercitare professionalmente.
Tale specifica valutazione per poter operare all’interno del sistema penitenziario viene
effettuata attraverso una selezione per titoli ed esami che si tiene periodicamente presso le
sedi dei vari Provveditorati Regionali dell’amministrazione penitenziaria: essa, se
adeguatamente superata, conferisce appunto il titolo di Esperto ex art. 89 L. 354/75 nella
disciplina di Psicologia.
In sintesi, per lo Psicologo che intende lavorare in questo ambito dovrebbe pertanto essere
necessario prevedere, nel concreto, la reale possibilità di acquisizione di:
Una specifica competenza dell’intero processo di sviluppo infantile ed adolescenziale sotto
gli aspetti affettivi, relazionali, sociali e cognitivi;
Una sufficiente conoscenza delle manifestazioni e delle dinamiche legate ai
comportamenti normali e patologici degli individui adulti;
Specifiche competenze tecniche in relazione all’approccio alla devianza ed ai
comportamenti penalmente perseguibili;
Una concreta esperienza clinica come diagnosta, della durata di almeno due anni, fondata
sull'acquisizione di competenze specifiche nel campo della psicologia della devianza e
della crIminalità;Uno specifico addestramento al lavoro all’interno di un’Èquipe
multiprofessionale integrata (non importa se pubblica, privata o “mista”, l’importante è il
fatto che sia, appunto, “multidisciplinare” ed “integrata”).