“Avanguardia della tradizione” Le Corbusier Professoressa Maria

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“Avanguardia della tradizione” Le Corbusier Professoressa Maria
“Avanguardia della tradizione”
Le Corbusier
Professoressa Maria Bonaiti
Lezione del 24 febbraio 2012
Professor Ruggero Zanin:
Oggi entriamo nel cuore del pensiero architettonico di Le Corbusier. Parlo di pensiero architettonico
perché di questo si tratta, non soltanto architettura, ma anche urbanistica e forse, io mi permetto di
dire, anche politica, perché la forma della città in qualche modo condiziona il modo in cui noi
viviamo la città, e quindi la politica a tutti gli effetti.
Ringraziamo la professoressa Bonaiti per aver accettato di intervenire e le cediamo subito la parola.
Professoressa Maria Bonaiti:
Sono io che ringrazio per questa occasione che mi viene data. So che qualche giorno fa, insieme al
professor Dal Co, avete già discusso intorno all’opera di Le Corbusier. Oggi rivedremo forse alcune
cose che avete già avuto modo di vedere e discutere, ma credo che Le Corbusier sia un tale
continente, che sia possibile attraversarlo infinite volte senza mai annoiarsi e imparando sempre
qualcosa di nuovo. Le vicende di cui ci occuperemo oggi ruotano tutte intorno a questa vera e
propria avventura, che è la progettazione e costruzione della città di Chandigarh.
Chandigarh è una città di nuova fondazione, significa che è costruita da zero, e impegna Le
Corbusier dal 1951 fino alla sua morte, nel 1965. Voi non siete architetti, però potete capire che
cosa può essere per un architetto veder costruire una città, come giustamente ha citato il vostro
professore, incidere, in qualche modo anche guidare i modi di vita, il modo di abitare la terra.
Questa esperienza è particolarmente significativa per Le Corbusier che di fatto ha dedicato una
parte considerevole della sua vita alla città, ad un’idea di città, a un’idea di abitare, eppure, nel
momento in cui ha l’occasione di costruire questa sua idea di città, un’idea, ripeto, intorno alla
quale aveva ragionato, riflettuto, per la quale aveva lottato l’intera sua vita, nel momento in cui avrà
l’occasione di costruirla, ne metterà in scena la crisi.
Le vicende che hanno portato alla progettazione e costruzione di Chandigarh sono legate alla
riorganizzazione politica dell’area asiatica nel secondo dopoguerra, all’indomani del disfacimento
dell’Impero britannico. L’India era una colonia inglese e si trova ad essere un Paese indipendente.
Nasce l’India come Paese indipendente, nascerà il Pakistan come Paese indipendente. Questa
riorganizzazione politica che voi potete immaginare, in qualche modo violenta perché cade dall’alto
sulla testa della popolazione, crea delle tensioni anche molto drammatiche, ci saranno masse di
musulmani che si sposteranno verso il Pakistan, masse di induisti che si sposteranno verso l’India e
in questi movimenti di popolo ci saranno anche degli scontri cruenti ed estremamente drammatici.
Bene, un’area a nord dell’India, la regione del Punjab, di fatto perde una porzione considerevole del
suo territorio, che si trova ad essere in territorio pakistano, e perde la sua capitale, Lahore, che
infatti oggi è in Pakistan. La regione quindi ha bisogno di dotarsi di una nuova capitale. Nessuna
delle città esistenti è in grado di assumere questo nuovo ruolo e così si decide di fondare da zero
una nuova città. In India, nei primissimi anni cinquanta, verranno costruite diverse città di nuove
fondazione, ma fra tutte Chandigarh assume un significato assolutamente particolare. Il Primo
Ministro indiano Pandit Nehru, nel discorso di inaugurazione che tiene nel Campidoglio della città,
spiega bene che cosa doveva essere Chandigarh. Questa città non era una città qualsiasi, non era
solo la capitale di una Regione a nord dell’India, ma diventa l’occasione per dimostrare al mondo
che cosa sarebbe stata l’India. Doveva essere il simbolo di un’India moderna, di un’India finalmente
indipendente, di un’India capace di competere con l’occidente, capace di tendere la mano
all’occidente e di liberarsi delle proprie tradizioni. Chandigarh, dunque, simbolo della modernità
dell’India.
Leggimao alcuni passaggi di questo discorso di inaugurazione molto particolare: “Ho accettato con
molto favore – dice Nehru – in India un grande esperimento che ben conoscete: Chandigarh. So che
è molto discusso, ad alcuni piace e ad altri no. E’ in India il più grande esempio di sperimentazione
architettonica, ma ciò è del tutto secondario. L’importante è che vi colpisca, vi faccia pensare e
assorbire idee nuove. Non mi piacciono tutti gli edifici di Chandigarh. Alcuni mi piacciono molto.
Mi piace il concetto generale della città, mi piace l’approccio creativo che non si sottomette a
quanto è stato realizzato dagli antenati, ma pensa in termini innovativi: di luce, di aria, di acqua, di
suolo, di bisogni umani. Le funzioni sociali di oggi pesano sulla nostra architettura tradizionale, non
potremmo mai, anche se ne avessimo la capacità, ricostruire Taj Mahal, sarebbe slegato dalla
società contemporanea”.
Questo è un passaggio fondamentale per capire il progetto, il programma che cominciava a
costruirsi intorno a questa città. Si sceglie per Chandigarh un’area a nord di Nuova Delhi, circa 200
chilometri a nord di Nuova Delhi, in un ampio altipiano, dove il clima tra l’altro è ottimo, e che è
servito dalle vie di comunicazioni regionali, è ricco d’acqua. Un ampio altipiano popolato da alcuni
villaggi, che ovviamente vengono rasi al suolo per far posto alla nuova città. I villaggi vengono
dedicati alla dea Chandi, da cui appunto la città prende il nome: Chandigarh è la “città dedicata alla
dea Chandi”.
Ora, in un primo momento la scelta del progettista non cade su Le Corbusier. Si sceglie un
architetto americano, Albert Mayer, che sembrava essere l’architetto più adatto: americano,
moderno, conosceva la realtà indiana. Qual è il problema che gli viene affidato? Gli si chiede di
costruire una capitale, non una città industriale, ma una città amministrativa, per 150.000 abitanti,
ma che doveva poter crescere fino ad accoglierne 500.000. Le previsioni attuali stimano che nel
2012 la popolazione di Chandigarh raggiungerà i 2 milioni. Una città pensata e costruita per
accogliere al massimo 500.000 abitanti, ne accoglie oggi 2 milioni: come vedremo, ciò crea una
serie di problemi.
Ora, com’è il piano di Mayer? E’ molto semplice: pensa alla città come una sorta di grande corpo
umano, divisa in funzioni molto precise: la testa che è rappresentata dal Campidoglio, dove
dovevano sistemarsi i palazzi governativi; il cuore, grande centro commerciale che doveva
accogliere il terziario della città; un piccolo polo industriale; infine, le unità residenziali. Perché
l’idea di Albert Mayer è quella di articolare tutta la città attorno a un concetto, il principio della
unità di vicinato.
E’ importante, perché qui dobbiamo capire
qual è l’idea di città che comincia a
maturare nella testa di questo architetto.
Che cos’è l’unità di vicinato? C’è un
gruppo di residenze che si raccolgono
intorno a un’area libera, dove vengono
sistemati piccoli servizi collettivi, capaci di
soddisfare le prime esigenze di una
comunità. Poi, come vedete, tre unità
residenziali insieme formano questo blocco,
che Mayer chiama (tissen). Vedete, la città
viene proprio pensata come una specie di
montaggio
di somma spontanea di queste
Albert Mayer, piano di Chandigarh, 1950
unità di vicinato. Perché è importante?
Perché questa dimensione dell’unità di
vicinato è un po’ la dimensione del villaggio
indiano, quindi Mayer nella sua testa pensa a questa capitale come una sorta di compromesso tra
l'idea di modernità perseguita dal Primo Ministro Nehru e la dimensione tradizionale del villaggio
indiano. Cerca, cioè, di trovare una mediazione tra modernità e tradizione; sarà proprio questo,
invece, l’aspetto che non piacerà per niente al Primo Ministero indiano.
L’architetto che avrebbe dovuto concretamente costruire il piano di Mayer era un giovane architetto
polacco che muore in un incidente aereo nell’agosto del 1950. Ed è a questo punto che il destino
bussa alla porta di Le Corbusier. Manca l’architetto: c’è bisogno dell’architetto capace di realizzare
il piano disegnato per Chandigarh.
Le Corbusier, in un primo momento, rifiuta. Il secondo dopoguerra è un momento di profonda crisi
personale e professionale per l’architetto: i suoi piani urbanistici vengono tutti sistematicamente
rifiutati. Quindi è chiaro che non ha nessuna voglia di accettare questa avventura, che oltretutto
rendeva necessario trasferirsi in India per tutto il tempo necessario alla costruzione della città, cosa
impensabile per Le Corbusier, anche perché negli anni cinquanta si aprono i grandi cantieri, la
cappella di Ronchamp, l’Unité d’Habitation di Marsiglia. Sono progetti architettonici molto
significativi e certamente Le Corbusier non può abbandonare il suo studio di Parigi.
Ma si trova una soluzione di compromesso, come sempre, e Le Corbusier viene affiancato da una
equipe di architetti, due architetti inglesi, marito e moglie, Maxwell Fry e Jane Drew, che avevano
già lavorato in Paesi subtropicali, che si rivelano immediatamente disposti a trasferirsi in India per
tutto il tempo necessario. A questi si aggiunge poi il fidatissimo collaboratore di Le Corbusier, che è
Pierre Jeanneret, che si trasferirà in India, restando affascinato da questa realtà, che vi resterà per il
resto della sua vita.
L’equipe è pronta. Nel marzo del 1951 viene firmato il contratto da Le Corbusier. E cosa dice
questo contratto? Questo contratto chiede a Le Corbusier di costruire, di realizzare
architettonicamente il piano di Mayer, di non toccare quindi il piano di Mayer, cosa che
puntualmente non avverrà. Le Corbusier introduce quelle che lui dirà delle piccole variazioni,
piccole ma così significative che trasporteranno il piano Chandigarh all’interno di quella idea di
città ideale intorno alla quale Le Corbusier stava ragionando da oltre trent’anni.
Per capire che cos’è Chandigarh, per andarla poi a vedere da vicino, per capire che cosa Le
Corbusier sia riuscito a costruire in questa città nel nord dell’India nel 1951, dobbiamo fare un
piccolo passo indietro e chiarire che cos’è questa idea di città ideale intorno alla quale Le Corbusier
ostinatamente stava lavorando dai primi anni venti.
Andiamo al Salon d’Automne, grande salone che si tiene a Parigi nel 1922. In quell’occasione, Le
Corbusier presenta la “Maison Citrohan”, che poi è la sua seconda tipologia di casa. La “Maison
Domino” è il punto di partenza delle ville di Le Corbusier; la “Maison Citrohan” possiamo
considerarla come la cellula base dell’idea di città di Le Corbusier. “Maison Citrohan” è una
storpiatura del nome di Citroen, dell’industria di automobili. Questa è una delle prime volte che Le
Corbusier presenterà la sua casa come una macchina per abitare, un’idea della casa che doveva
essere prodotta e distribuita in serie, come una macchina.
Alle spalle della “Maison Citrohan”, nella stessa occasione, Le Corbusier presenta la tavola di
quella che lui propone come la città
contemporanea. Tenete presente che siamo in
una sorta di fiera, e lui appende sui muri queste
tavole senza nessuna spiegazione. Quindi
immaginate anche il dibattito, lo scalpore che
suscita, sembra quasi una provocazione da parte
di Le Corbusier. Che cosa vediamo in questa
tavola? Innanzitutto, è una città vista dall’alto:
c’è già l'idea dell’occhio dell’architetto che
domina il paesaggio. Poi, è una città dominata
dalla tecnica. Siamo nel 1922, ci sono aeroplani
un po’ da tutte le parti, auto strane che corrono,
si intravedono degli strati sopraelevati e
scintillanti grattacieli. Certamente una città dominata dalla tecnica, moderna. Ma dov’è questa città?
Non c’è nessun riferimento, di fatto non possiamo capirlo: non ci sono riferimenti geografici, non ci
sono riferimenti storici. E’ una città ideale, che potrebbe essere costruita ovunque. Come dicevo,
una tavola di questo tipo suscita grande scalpore tra i visitatori della fiera, tanto che Le Corbusier
approfondisce la propria posizione, le proprie riflessioni intorno alla città e nel 1925, qualche anno
dopo, pubblica un libro che si intitola Urbanistica, nel quale presenta in maniera sistematica la sua
idea di città.
Le Corbusier spiega che il primo gesto dell’architetto è
quello di tracciare due assi cartesiani, due assi
ortogonali: un angolo retto. Il primo compito
dell’architetto – egli spiega – è quello di separare uno
spazio dallo spazio indefinito, illimitato, indecifrato,
separare uno spazio, dominato dalla geometria, dal
bisogno di ordine e misura che caratterizza l’uomo.
Le Corbusier contrappone la strada curva, le strade
curve che noi vediamo nelle nostre cittadine, e si
riferisce soprattutto alle città nel centro Europa, che
aveva visitato nel corso dei suoi viaggi giovanili, alla strada dritta, dato che la geometria per Le
Corbusier è espressione proprio del bisogno di ordine e misura che caratterizzano l’abitare, il
macchinismo. Questo è un passo tratto da una conferenza che Le Corbusier tiene nel 1924:
“Abbiamo constatato che tale civiltà si fonda sulla geometria. Abbiamo stabilito che l’uomo vive
praticamente solo di geometria. La specificità dell’uomo è stabilire ciò che è ortogonale rispetto a
lui, classificare, ordinare, vedere chiaramente davanti a sé. Egli lotta contro la natura per dominarla,
classificarla, mettersi a proprio agio. In una parola, per installarsi in un mondo umano che non sia il
luogo di una natura antagonista, un mondo che ci appartenga, fatto di ordine geometrico. L’uomo
lavora solo intorno alla geometria”. La geometria diventa una vera e propria ossessione per Le
Corbusier, in modo particolare proprio nell’ambito dell’idea di città che egli matura. Tale geometria
è di fatto il suo stesso linguaggio, intendendo con questo che l’ordine è una modalità della
geometria e che l’uomo si manifesta unicamente attraverso l’ordine. La città che si pone dunque
come una sorta di antagonista rispetto alla natura: la città moderna, la città dominata dalla tecnica, è
in qualche modo sradicata dalla natura, è altro dalla natura, ed esprime un bisogno di ordine e di
misura tipicamente umani. Dovremo cercare di capire bene che cosa significa.
Ma proviamo a vedere ora questa città di che cosa è
fatta, com’è costruito questo piano di Le Corbusier. La
città di Le Corbusier è in maniera semplice composta
di alcune funzioni, organizzata per funzioni: ci sarà al
centro la città terziaria, il luogo del lavoro, una delle
funzioni principali; ci saranno poi le residenze, la
funzione dell’abitare; e fondamentale, poi, il circolare,
la circolazione, le strade, dove la tecnica avrà un ruolo
fondamentale per Le Corbusier. Le residenze si
presentano con grandi condomini, con grandi unità
d’abitazione. Le unità residenziali sono giganteschi
condomini formati all’interno da cellule abitative tutte
uguali. Queste unità residenziali sono staccate dalla
natura, sollevate dalla natura, una sorta di mondo
artificiale. E poi, dicevo, la circolazione: le vie di traffico – importanti per capire poi Chandigarh –
vengono immaginate da Le Corbusier una sopra l’altra, una sorta di organizzazione gerarchica a
livelli stratificati l’uno sull’altro. Immagina il traffico quotidiano, dove ci sono le autostrade, le
metropolitane, le ferrovie, mezzi pesanti, uno sopra l’altro, come un'organizzazione verticale, ma
soprattutto concepisce le strade come quella struttura capace di dare ordine alla città.
Il cuore della città di Le Corbusier è come una piattaforma artificiale, uno spazio separato dalla
natura. E che cosa troviamo nel cuore della città di Le Corbusier? Se voi camminate nelle nostre
città, che cosa trovate nel cuore della città? Troviamo la cattedrale. E qui, al posto della cattedrale
gotica, Le Corbusier immagina un aeroporto, il cuore della città contemporanea è il luogo della
tecnica per eccellenza: un aeroporto. La tecnica che si presenta come un nuovo valore attorno a cui
organizzare l’intera città. Ma che cos’è la tecnica per Le Corbusier? Perché la tecnica al posto di
una cattedrale? Le Corbusier continuamente ragiona intorno alla macchina, intesa proprio come il
portato storico dell’epoca contemporanea, la civiltà delle macchine, della tecnica, tema su cui
all’inizio del ‘900 si confrontano dadaisti, surrealisti, futuristi. Anche Le Corbusier sulle pagine
della sua rivista continuamente si confronta con la macchina che all’inizio del Novecento viene
condannata quasi come la causa di tutti i mali: la macchina che ha sradicato l’uomo, che l’ha
allontanato dalla natura. Ma cos’è la macchina per Le Corbusier? Forse è più facile ragionare al
contrario: che cosa la macchina non è per Le Corbusier? Non troverete mai in Le Corbusier retorica
sulla velocità, sulla potenza; è molto critico, da questo punto di vista, nei confronti dei futuristi. Non
troverete quasi mai, o raramente, riflessioni di tipo sociale: la macchina come ciò che può
migliorare le condizioni di vita. La macchina, per Le Corbusier, è calcolo: è espressione di ordine e
di misura. Il calcolo, dice Le Corbusier, è il sistema creativo umano che investe il nostro mondo,
spiegando con delle proporzioni esatte ai nostri occhi l’universo, la natura che vediamo. Questa è la
macchina, una bellezza matematica, una forma altamente spirituale, espressione dell’intelligenza
creativa dell’uomo. E’ questa lezione che Le Corbusier vuole portare nella vita di tutti i giorni,
questo è il compito dell’architetto, la macchina per abitare: portare nella vita di tutti i giorni la
lezione della macchina, è una lezione di economia, è una lezione di ordine, è una lezione di misura.
La città di Le Corbusier si presenta esattamente così: una città a scala umana dove l’uomo è un
uomo tipo, è un uomo universale. Si apriranno anni molto bui per l’Europa, gli anni Trenta, e Le
Corbusier sta ragionando intorno a un uomo universale, al di là delle differenze di razze, di popoli,
di lingue, di cultura, un uomo universale, che riconosce nella ragione la propria dignità, ed è per
questo uomo che Le Corbusier vuole costruire la città del futuro, quella che lui chiamerà la “città
felice”, la città che non conosce differenze, la città per l’uomo moderno, che riconosce nella ragione
la sua suprema guida.
E la storia? La nostra eredità, la nostra tradizione, che ruolo ha la storia nella città di Le Corbusier?
In quel progetto di città contemporanea, non sembrano esserci tracce, testimonianze che in qualche
modo riportino ritmi di vita che appartengono al passato. La città di Le Corbusier sembra essere
soltanto una città di oggi, una città del presente. Questo è vero solo in parte. Nel piano che Le
Corbusier propone per Parigi, Plan Voisin, del 1925, Le Corbusier immagina di abbattere interi
quartieri parigini e, al loro posto, costruire grattacieli, anch’essi a pianta rigorosamente ortogonale,
con al centro l’aeroporto. Le Corbusier salva però alcuni monumenti. Ciò che rade al suolo è la città
stratificata, che lentamente si costruisce nel tempo, quella città che proprio in quegli anni, invece, i
surrealisti hanno registrato come piena di rumori, di suoni, di odori, di colori. Rasa al suolo. Ma
salva i monumenti che ritroviamo in un capitolo del suo libro “Verso l’architettura”, dedicato ai
tracciati regolari. Le Corbusier misura gli edifici. Quando viaggia attraverso i Balcani, la Grecia, la
Turchia, l’Italia, è sempre accompagnato da diari, da quaderni, e se voi potete – sono tutti pubblicati
– avete la voglia, la pazienza di andare a sfogliarli, vedrete come Le Corbusier continuamente
misura. Dobbiamo veramente immaginare Le Corbusier che gira con un metro e continuamente
misura: misura le colonne del Partenone, misura i muri di Santa Sofia a Istanbul, continuamente
misura, cerca misure. E sono queste misure che poi continuamente troviamo nei suoi dipinti, i
famosi tracciati regolatori, queste misure che regolano anche le facciate delle sue architetture. Sono
queste misure il principio che Le Corbusier cerca. Convinto che ogni società, ogni epoca, all’apice
del proprio sviluppo, si esprima secondo dei medesimi principi, va cercando questi principi, questa
idea di architettura che è una architettura di sempre, per un uomo che è un uomo di sempre. Sono
queste misure che avvicinano la storia, che gli rendono la storia amica. Sono queste misure che gli
consentono un confronto così provocatorio, come quello che viene pubblicato sulle pagine di “Verso
l’architettura”, dove si arriva a confrontare il Partenone, l’esempio della classicità, con una Gran
Sport del 1921, che era quanto e forse più all’avanguardia in quel momento. Che cos’è che unisce il
Partenone con una automobile? Tra l’altro la foto del Partenone di Le Corbusier è una foto che lui
ha scattato, ritoccata perché ha cancellato la città di Atene che doveva essere lì, ai piedi
dell'Acropoli. Anche qui il Partenone come mito del Partenone, modello ideale del Partenone,
modello di ordine e misura. È la misura, è la geometria che unisce il Partenone alla modernità,
quella ricerca di ordine e misura che, secondo Le Corbusier, caratterizza l’uomo in tutti i tempi.
Questa è la sua idea di città, la vera e propria affermazione di un nuovo umanesimo, di un ordine
totalmente umano.
Questa idea di città di Le Corbusier non è un sogno isolato, ma è un’idea condivisa dai suoi
contemporanei, discussa con i suoi contemporanei, nell’ambito di quelli che sono i CIAM. I CIAM,
acronimo che significa Congressi Internazionali di Architettura Moderna, sono congressi che
vengono fondati proprio da Le Corbusier nel 1928, a cui partecipano tutti i più vivaci e curiosi
architetti contemporanei per discutere insieme intorno alla città, per decidere insieme le strategie
per affrontare i problemi che la città contemporanea sollevava. L’idea iniziale era quella di trovarsi
una volta all’anno, ogni volta in una città diversa, e affrontare i problemi dell’abitare a scale
gerarchiche e successive. Nei primi CIAM si discute dell’alloggio minimo, poi si discuterà dei
quartieri e poi si arriverà anche a discutere della città. Un intero congresso, quello che si terrà nel
1933, è dedicato alla città. 1933, ancora un anno difficilissimo, buio per l’Europa, per l’ascesa di
Hitler. Molti saranno infatti gli architetti tedeschi non presenti al congresso, architetti che
sceglieranno di abbandonare l’Europa, di lasciare la Germania. E’ un congresso, dunque, che nasce,
si sviluppa in un momento storico estremamente faticoso, dove appunto parlare della città significa
parlare delle aspettative future, significa pensare, ragionare intorno al destino dell’uomo
contemporaneo, intorno alla via che questa modernità sta scegliendo, a quale direzione stava
prendendo l'umanità che sembrava riconoscersi sempre di più soltanto nella distruzione, nello
sradicamento. Quale possibilità di ordine, quale possibilità di misura, quale possibilità di felicità per
questa umanità?
Non è soltanto un convegno dedicato alla città. E’ un momento di riflessione
assolutamente significativo intorno al destino dell’uomo. Ed è un convegno
particolarissimo, perché si tiene a bordo di una nave, in viaggio tra Marsiglia
e Atene, caricandosi di simbologie complesse. La nave è un simbolo per Le
Corbusier, è modello per l’architettura. Sulla copertina di Verso
un’architettura compare un ponte di una nave in prospettiva centrale, poi
sopra il titolo. E’ l’idea di un cammino, di un percorso, in cui l'architettura è
un qualcosa da raggiungere, la nave è modello cui tendere per l’architettura:
modello di ordine, di armonia, di città ideale. La grande nave è una comunità
ideale, indipendente, autonoma, ordinata e organizzata.
Ecco quindi il convegno a bordo di una nave. Qual è la meta? Atene. La
classicità, l’ordine, la misura. Questa è la domanda che continuamente Le
Corbusier si pone: quale ordine per una società che si riconosce nella
distruzione? Quale ordine per un mondo che si afferma nella continua distruzione? Ebbene, nel
viaggio di andata in nave, si discute intorno alla città contemporanea, nel viaggio di ritorno i
congressisti cercano di mettere a punto un documento guida per gli urbanisti, per gli architetti,
quello che si chiama la Carta d’Atene. Il documento, salutato come un vero e proprio manifesto
dell’urbanistica contemporanea, in realtà non è altro che un codice, una vera e propria normativa,
una successione di punti, in cui l’idea che emerge è proprio l’idea di città di Le Corbusier. L’indice
contiene diverse funzioni di una città: l’abitare, il tempo libero, il lavoro, la circolazione. Sono le
funzioni principali con cui, abbiamo visto, viene organizzata la città di Le Corbusier.
Quella città ideale intorno alla quale prima abbiamo discusso è proprio un’idea di città che Le
Corbusier in qualche modo condivide con i suoi contemporanei, almeno fino alla seconda guerra
mondiale, quando le cose cominciano a cambiare. È un’idea di città che si ripete anche in maniera
monotona. Gli anni trenta sono gli anni ormai della gravissima crisi economica, di lavoro non ce
n’è, o ce n’è pochissimo, soprattutto per gli architetti, mentre invece c’è un gran tempo per Le
Corbusier per discutere, ragionare, riflettere, elaborare questo modello di città ideale che si presenta
come una città sempre ordinata, pianificata, geometrica, ripetitiva anche, assolutamente monotona,
se vogliamo anche semplicistica nell’affrontare i temi che una città contemporanea solleva. Così si
presentano tutti i progetti di Le Corbusier, ad eccezione di un piano, di cui affrontiamo alcuni
passaggi, che è il Piano per Algeri del 1931, una vera e propria deviante eccezione nell’ambito della
progettazione urbanistica di Le Corbusier. Ma ci sono alcuni aspetti di questo Piano che ci
consentiranno di capire che cos’è Chandigarh.
Le Corbusier viene invitato ad Algeri nel 1931, l’anno in
cui si festeggia il centenario della fondazione della
colonia francese. Algeri è una colonia francese, anzi è la
capitale di tutto il Nord Africa francese. Le Corbusier
viene invitato a tenere una conferenza, presenta questa
sua idea di città intorno alla quale in maniera sistematica
stava ragionando da dieci anni, però tra una conferenza e
l’altra passeggia nella città, la ridisegna e rimane
totalmente affascinato dalla città araba.
Ridisegna la casbah, la città araba, dove vive la maggior
parte del popolazione araba, caratterizzata da queste
strette strade che si arrampicano sulla collina, sulla quale
si affacciano le abitazioni che si organizzano intorno ad
un grande patio centrale, quindi sono tutte case introverse. L’esterno sembra essere estremamente
muto, silenzioso, in qualche modo misterioso. Le Corbusier è affascinato da questa città e decide di
tornarci per le sue vacanze. Un viaggio straordinario attraverso la Spagna, il Marocco, l’Algeria,
visita le città del deserto algerino, un viaggio che ricorda i suoi viaggi giovanili, accompagnato dai
taccuini, dove disegna, riprende le immagini dei suoi viaggi. Che cos’è che a noi interessa? Che
cos’è che percepisce? Percepisce un mondo completamente diverso da quell’occidente, da quella
civiltà della macchina che stava mettendo in scena e celebrando nei suoi progetti urbanistici. Le
Corbusier ci descrive il mondo che qui incontra come un mondo altro. Lo descriverà come un
oriente. Per Le Corbusier, francese, che viaggia come colono francese, tutto ciò che sta al di là dei
Pirenei è oriente, anche la Spagna la descrive come oriente, inteso come mondo esotico, un mondo
lontano, come un mondo alternativo ai lumi francesi.
Da un lato, la civiltà della macchina, l’occidente, questo mondo sradicato; dall’altro invece questo
popolo dove lui dice che il tempo si è fermato, scorre lentissimo, sempre uguale, dove la gente –
dice – ancora può vivere una vita legata alla terra, quella terra divenuta estranea per l’uomo
contemporaneo. Percepisce un contrasto, una contrapposizione, questo mondo è ciò che l’occidente
non sarà più, che non sarà mai. Nel Piano per Algeri, per la prima volta, mette in scena questo
scontro. Abbiamo visto come la città di Le Corbusier sia una città ordinata, geometrica, misurata,
espressione del bisogno di ordine e di misura; il Piano per Algeri è qualcosa di diverso. Organizzato
sempre per funzioni, questo è il piano che lui offre alla città e che altrettanto gentilmente la città
rifiuta, ma dobbiamo immaginarlo appunto come un piano ideale, un grande gesto. È costituito da
tre parti: la città degli affari, la zona residenziale e poi un incredibile viadotto che per chilometri
corre lungo la costa algerina. Le unità residenziali, che riguardano un po’ le unità residenziali di una
città contemporanea, sono tutte piegate, tutte curve; monumentali sculture che sembrano quasi
danzare sulle colline algerine e cercare un colloquio con il paesaggio circostante, che ricordano
quelle forme che in quegli stessi anni Le Corbusier stava dipingendo nelle sue tavole.
Straordinario protagonista è il viadotto, una sorta di grattacielo sollevato, sul cui tetto corre
l’autostrada e che scavalca, attraversa la natura. In realtà Le Corbusier aveva già pensato qualcosa
di simile per Rio De Janeiro qualche anno prima. “Sulla storia della terra – scrive - si innesta quella
dell’intelligenza umana e della sua capacità tecnica”. Ciò che Le Corbusier sta cercando
continuamente è che cosa sia il tempo della terra, mettendo in scena qui una sorta di vero e proprio
corpo a corpo tra la città dell’uomo e, appunto, la storia della terra, il tempo della terra.
Ma è la prospettiva che è fondamentale per capire Chandigarh. Una
prospettiva che è una sorta di lente di ingrandimento su questo viadotto
che, velocissimo, per chilometri corre sulla costa algerina, espressione
della velocità e della tecnica, del suo continuo divenire, del suo
continuare trasformarsi. Voi oggi comprerete un computer che fra
cinque anni potete già buttare via, è già vecchio. La tecnica
continuamente diviene, contempla un continuo trasformarsi. E qui Le
Corbusier cosa ci fa vedere? Unità d’abitazione modernissima e poi,
vicino questa, una specie di casa araba, e poi sopra una specie di casa
turca. Sono cose diversissime, una vicina all’altra. Questa città può
accogliere al proprio interno la diversità, può accogliere al proprio
interno la trasformazione. Sono cellule, cassetti che posso
continuamente cambiare, trasformare, ma questa varietà è tenuta
insieme, è ordinata dal piano e dal progetto, tentativo di tenere insieme, di dare ordine alla continua
trasformazione che caratterizza il tempo della tecnica.
E sotto questo viadotto che corre a una velocità infinita, miracolosamente Le Corbusier salva la città
araba. Ed è questo che ci sta mostrando. Tutti coloro che si sono occupati del Piano per Algeri, per
quanto abbiano studiato le tavole, hanno visto che non è previsto nessun collegamento tra il Piano
di Le Corbusier e la città araba: uno sopra all’altro, ma non c’è modo di entrare in contatto. Dalla
città nuova non si scende nella città preesistente. Si guardano a distanza. E’ un confronto che Le
Corbusier sta mettendo insieme, fra il velocissimo tempo della tecnica e il tempo lento, sempre
uguale, immobile, rappresentato da quella cultura che egli aveva conosciuto e incontrato nel Nord
Africa.
E’ quindi un progetto in cui viene messo in scena uno scontro, il tema del doppio. Nei dipinti di Le
Corbusier, proprio negli anni trenta, accanto a quegli
oggetti tipo che popolano la pittura lecorbuseriana,
oggetti artificiali, compaiono oggetti di altro tipo:
oggetti presi dalla natura. Fino a quel momento la
pittura di Le Corbusier era solo popolata da oggetti
artificiali; ora, improvvisamente, irrompono questi
oggetti naturali. Una conchiglia, un osso, un sasso.
Oggetti che incontra nel corso delle sue passeggiate,
che raccoglie e che improvvisamente irrompono nei
suoi quadri, quasi fossero degli oggetti surrealisti, la
cui funzione è proprio quella di creare uno
Le Corbusier, Coquillage, 1934
spaesamento, di testimoniare una realtà altra, diversa,
estranea a quel mondo tutto ordinato e misurato. Il tema del doppio, la contrapposizione che
comincia a essere messa in scena, questa tensione continua, elemento solare e elemento lunare,
questo doppio che popola la produzione lecorbuseriana è certamente la sua pittura, che affiora nella
sua architettura e che abbiamo visto nella sua città, la città ordinata, misurata, classificata, ad
eccezione del Piano per Algeri.
Dopo Algeri la città di Le Corbusier torna ad essere ordine, misura, geometria, classificazione,
almeno fino al secondo dopoguerra, quando le cose cambiano. E’ una fase in cui si apre un periodo
di profonda crisi personale e professionale di Le Corbusier, proprio l’idea di città che abbiamo visto
fino a questo momento comincia ad essere discussa, criticata in maniera durissima da una nuova
generazione di architetti che si affaccia sul panorama internazionale e che assume come oggetto
della critica proprio Le Corbusier, proprio la sua idea di città, proprio la Carta d’Atene. C’è un
momento di vera e propria ribellione generazionale e la posizione di Le Corbusier è sempre più
isolata.
Sono gli anni della ricostruzione, quando spera di
costruire i suoi piani urbanistici, la sua idea di città
del futuro, e invece i suoi piani vengono tutti
sistematicamente rifiutati. Del Piano che presenta
per Marsiglia, un’idea di città intera che deve
essere ricostruita, realizza soltanto un oggetto,
l’Unité d’Habitation di Marsiglia, alla quale Le
Corbusier lavora dal 1946 al 1952 circa. Se noi la
pensiamo come parte di un intero progetto per la
città, è veramente un’utopia negativa, è un edificio
che mostra il suo non poter essere ciò che è: un
pezzo di una città. E’ un frammento, come se fosse
una grande nave arenata. Le Corbusier lascia una
parete cieca, perfettamente chiusa perché lì doveva saldarsi un altro pezzo e poi un altro ancora e un
altro ancora. Era un intero mondo, un’idea di città, un’idea di Europa quella che Le Corbusier stava
costruendo, non un condominio. E’ un frammento, ciò che resta di un’idea di città, una nave
arenata, che dentro ha tutto, perché vuole essere come una vera e propria nave, un vero e proprio
transatlantico, un mondo perfettamente organizzato, autonomo e indipendente. Ci sono le
abitazioni, ma poi accanto alle unità residenziali era stata pensata un’intera via commerciale, con
tutti i negozi; c’è una palestra e sul tetto, in terrazza, c’è un asilo. Scuole, attività sportive, cinema,
spazio per il tempo libero, lavanderia: una comunità perfettamente autonoma. Ma è un pezzo, è un
frammento. Cambia il linguaggio architettonico, che comincia ad assumere forme che aveva
conosciuto nella sua pittura; forme plastiche, forme espressive, forme che sembrano stabilire un
dialogo con il paesaggio circostante, porsi in ascolto dell’indecifrabile bellezza del paesaggio
circostante. Ricordate la Maison Dom-ino, sollevata su quei pilastri intonacati. Fate un confronto
con questi pilastri, fate un confronto con la loro matericità. Queste forme sembrano quasi nascere
direttamente dalla terra, in un momento in cui davvero il linguaggio architettonico lecorbuseriano
assume una espressività totalmente nuova. Non c’è bisogno di soffermarci su queste opere, che
avete analizzato, ve le mostro soltanto per collocarle cronologicamente negli stessi anni: sono gli
anni in cui Le Corbusier sta lavorando a questa straordinaria opera che è la cappella di Ronchamp
che sarebbe davvero una meta significativa: se avete occasione di fare un piccolo viaggio con i
vostri amici, andateci, perché la visita della cappella di Ronchamp credo sia davvero una delle
esperienze architettoniche più prepotenti che ciascuno di noi possa fare. La cappella di Ronchamp,
il convento de la Tourette, e poi ancora le opere che comincia a costruire in India, come villa
Shodan, le cui finestre ricordano fortissimamente quegli oggetti che cominciano ad apparire sempre
di più nella sua pittura di quegli anni. Forme che cominciano a
contaminarsi, a mescolarsi tra di loro, quell’universo tutto ordinato,
misurato, che sembra in qualche modo esplodere, come esplode il
fronte dello straordinario edificio dei Cotonieri, che si trova ad
Ahmedabad. Ancora il tema del doppio, il tema della
contaminazione. Ed è in questo momento, quando il linguaggio
architettonico di Le Corbusier si fa sempre più complesso, che i
suoi progetti urbanistici vengono sempre più rifiutati. E’ in questo
contesto che Le Corbusier presenta, a un convegno in Cina nel
1951, la sua idea, il suo piano per Chandigarh, che andiamo a
vedere da vicino.
3
marzo 1951, viene firmato il contratto. Le Corbusier ci ha lasciato
un bellissimo disegno per celebrare Chandigarh, la nascita di una
capitale. Vi si vede una figura di donna, colta di spalle, con un
bimbo. E’ una nascita, un evento felice, come la nascita di una
nuova capitale deve essere. Ma c’è di più: è la città felice, che Le
Corbusier aveva presentato nel suo libro nel 1935. Le Corbusier ci
sta presentando la città in India come la sua città, una città contemporanea, felice, quella città per
l’uomo del futuro intorno alla quale aveva ragionato per oltre trent’anni.
Le Corbusier viene dunque chiamato per realizzare architettonicamente il Piano di Albert Mayer
che prima abbiamo visto, rispetto al quale peraltro introduce qualche variante, piccola, ma
assolutamente significativa. Adesso noi abbiamo gli occhi allenati, pronti per capire cosa sta
facendo Le Corbusier. Mantiene la distribuzione funzionale della città, non ci mette mano: il
Campidoglio, al centro il quartiere commerciale, a sud-est un piccolo polo industriale, a nord-ovest
una piccola area dedicata all’Università. Mantiene anche, quell’idea di unità di vicinato che era,
come abbiamo visto, il cardine della città di Mayer, i quartieri residenziali. Mentre in Mayer
vediamo tre piccoli villaggi che si organizzano in unità di vicinato, in Le Corbusier abbiamo quello
che lui chiamerà “il settore”, 800 per 1.200 metri, unità residenziali che si organizzano intorno a
un’area collettiva, con dei servizi comuni. L’idea di città sembra essere la stessa, ma è così? In
realtà, Le Corbusier introduce una variante significativa, che cambia tutto. Mayer aveva pensato il
Campidoglio organizzato in due cittadelle, quindi aveva due assi diafani, più o meno liberi, più o
meno curvi o più meno dritti, che attraversano la città
da nord a sud. Le Corbusier unisce queste due
cittadelle in un’unica area monumentale: il
Campidoglio. E questo cosa significa? Che avrà un
unico asse viario che attraversa la città da nord a sud.
Questo asse si incrocia con un asse che la attraversa da
ovest ad est e dall’incrocio verrà definito appunto il
cuore commerciale: l’angolo retto, gli assi cartesiani. Il
primo gesto, il gesto di fondazione, è quello di
tracciare due assi. La città di Chandigarh è luogo
geometrico, trionfo della geometria, uno spazio
separato dal paesaggio circostante, uno spazio ordinato
e misurato. Intorno a questo gesto centrale Le
Corbusier organizza poi un sistema viario che viene a creare una maglia esatta, all’interno della
quale collocare le residenze. Questa è la differenza. La città di Mayer spontaneamente nasceva per
aggregazioni di unità residenziali; la città di Le Corbusier è una città ordinata e misurata, all’interno
della quale si collocano le unità residenziale. Le Corbusier immagina un sistema di sette strade,
gerarchicamente organizzato, dove ogni strada ha una sua funzione. Ma noi questo l’abbiamo già
visto, l’abbiamo già visto nella città del 1922. Solo che lì la circolazione, le strade erano una sopra
l’altra. Qui, invece, vengono distribuite orizzontalmente. Ciò che Le Corbusier costruisce a
Chandigarh è proprio la sua città, la città di Le Corbusier, anche nelle forme: non più sviluppo
verticale, ma sviluppo orizzontale, per cercare di adattarsi ai metodi costruttivi, a ciò che era
possibile costruire in un’India che forse nel 1951 era veramente tra i Paesi asiatici più
sottosviluppati. Ma l’idea è quella. Immagina la V1, che è un grande asse che collega la città alle
autostrade regionali; la V2, che chiamerà una strada a percorrenza veloce, che collega il
Campidoglio con il centro commerciale; le V3 sono le strade che definiscono i settori; la V4 è una
strada commerciale, fatta solo di negozi, che attraversa tutti i settori e che costituisce il tessuto
connettivo della città: da ciascuna residenza posso
uscire, raggiungere la mia via commerciale e
percorrerla tutta. Poi ci sono le V5, che sono strade
ad anello, interne ad ogni settore. Le V6, che sono
piccole strade d’accesso alle residenze. E infine le
V7, che sono le strade pedonali che, invece,
attraversano verticalmente la città, affinché da
ciascuna residenza si possa raggiungere la via
pedonale, a piedi senza mai incontrare
un’automobile.
Dentro la maglia viaria tutta ordinaria e misurata,
una sorta di griglia, di città pianificata, dovrà crescere la città. Nella foto Le Corbusier appare con la
pianta e la figura del suo modulor, una sorta di unità di misura che egli comincia a mettere appunto
nel 1947, sulla base della quale tutta la città di Chandigarh è misurata, con un sistema che consente
di inquadrare le immagini dall’alto. È una città di nuova formazione, che si costruisce su una
spianata totalmente deserta a partire dal grande asse che collega il Campidoglio con la città che
comincia a costruirsi.
La grande via, che collega il Campidoglio al centro città è l’esempio delle V3, che definiscono i
singoli settori, che poi sono sempre chiusi, recintati da muri, all’interno dei quali intuiamo le
famose V5, le strade ad anello, e la via pedonale, il percorso che attraversa i settori.
Ma che cosa doveva essere Chandigarh nel 1951, con le sue strade dritte, a percorrenza veloce, per
una popolazione che si spostava a piedi, o con i carri trainati dai buoi? Il contrasto tra il modello di
città e il modello di vita che in questa città andava ad innestarsi deve essere stato drammatico. Le
V3 definiscono i settori, ancora oggi sono le strade a percorrenza veloce. Certo, ci sono le auto,
Chandigarh sta diventando un riferimento, una città moderna e importante, con le strade percorse da
auto, ma anche da trattori, da risciò, da carri, biciclette, pedoni. Questa è l’India del 2000, non del
1951. E questa è un’immagine della strada commerciale, di questa via che attraversa appunto
l’intera città, tra l’altro con forti specializzazioni. Un grande parco, una sorta di polmone verde,
attraversa la città, ancora oggi davvero perfettamente tenuto, dove spesso sotto gli alberi ci sono
moltissime persone intente nella meditazione yoga.
Le Corbusier mette a punto un Piano, non può costruire tutta la città, che infatti viene costruita dai
suoi collaboratori e anche da numerosi architetti indiani che vengono istruiti dall’equipe europea.
Le architetture sono definite da regolamenti molto severi, ma sono anche molto diverse l’una
dall’altra, perché diversi sono gli architetti che operano, perché diversa è l’utenza: ci saranno
residenze diverse per le diverse categorie sociali. Nei settori più vicini al Campidoglio sorgono le
residenze più ricche, case unifamiliari, altrove case estremamente più modeste, capaci di accogliere
teoricamente gli strati più poveri della popolazione. Teoricamente perché invece gli strati più poveri
della popolazione non sono accolti, perché di fatto già negli anni sessanta il costo delle case più
economiche era circa dieci volte lo stipendio di uno degli operai chiamato a costruire la città di
Chandigarh.
Sono piccole case una diversa dall’altra, una a fianco
all’altra, in continua trasformazione e costruzione, perché
Chandigarh è una città in continua costruzione, in cui
continuamente gli alloggi vengono modificati. Abbiamo
una casa tipica degli anni cinquanta, accanto ad una
tipologia del tutto analoga, in cui però i proprietari hanno
aggiunto dei terrazzini perché forse avevano bisogno di
appendere i panni. Di fatto, il contrasto più forte è proprio
quello tra un modello di città e il modo di vita e la cultura
di un popolo che si scontra con un modo di vita e una
cultura completamente differente. Da qui il continuo
bisogno di trasformare la città.
Ad un’unità sono stati aggiunti una sorta di tempietti all’antica, un'altra è stata colorata. Insomma,
abitazioni una diversa dall’altra, una accanto all’altra, ma in qualche modo ordinate, tenute insieme
da quella maglia pianificata. Non è diversa da quello che Le Corbusier già aveva pensato, una città
capace di accogliere la trasformazione, questa idea di moderno capace di accogliere anche il
diverso. Chandigarh, quindi, ha questa capacità di accogliere il divenire, di accogliere il diverso, ma
di dare a questo un ordine, una misura.
Ma questo è vero fino ad un certo punto. Nelle foto scattate da un bravissimo fotografo proprio tra il
1952 e il 1954, quindi negli anni in cui la città cominciava a prendere forma, vediamo come
accanto alla città ordinata, pianificata, che si stava costruendo, accanto alla bellezza di quegli edifici
residenziali che potevano offrire tutti i servizi più moderni alla popolazione, comincia a sorgere una
città abusiva, una città che accoglie davvero gli strati più poveri della popolazione, gli operai
chiamati a costruire Chandigarh. Nel 1952, Chandigarh vive questo contrasto, che non poteva
sfuggire certo all’occhio dell’architetto, questa contrapposizione tra la città pianificata e la città
altra, abusiva, che sta a testimoniare una cultura altra, dei ritmi di vita altri, un mondo altro. Questo
contrasto nel tempo non ha fatto altro che acuirsi. Chandigarh è una città che è stata progettata per
accogliere, per offrire servizi al massimo a 500.000 abitanti e che oggi ne accoglie quasi 2 milioni.
Il problema del sovraffollamento, dell’abusivismo è un problema oggi fortissimo: la città abusiva
lentamente ma inesorabilmente si è insinuata tra le maglie della città pianificata e ne costituisce una
sorta di vero e proprio controcanto. Sempre di più oggi la sottopone a consumo, la sta
contaminando. Io credo che, se dovessimo trovare un termine capace di descrivere oggi Chandigarh,
dovremmo usare questo: contaminazione. E’ una città contaminata da questo mondo altro che si è
insinuato e sta lì, mette in scena questa dualità, che non è componibile. Da un lato palazzi del
Governatore e dall’altro ritmi di vita totalmente estranei a quell’occidente, a quel macchinismo
celebrato nei processi di Le Corbusier.
Le critiche a Le Corbusier sono state feroci, sono tuttora feroci. La monografia dedicata a Le
Corbusier contiene importanti saggi dedicati dagli architetti indiani alla città di Chandigarh, e le
critiche sono dure, feroci: l’architetto viene accusato di aver costruito in India una città totalmente
estranea alla realtà culturale di questo Paese.
Possibile che Le Corbusier non
potesse pensare a questo? E’
possibile che Le Corbusier,
quando nel 1951 costruisce la
sua
città,
non
potesse
immaginare che questo sarebbe
successo a Chandigarh? Io
credo proprio di sì: Le
Corbusier lo sapeva benissimo
e ha costruito la sua idea di città e l'ha poi abbandonata al suo destino, che è un destino di
contaminazione, che avrebbe messo in scena con il tempo quelle tensioni, quella dura realtà, quel
doppio che abbiamo visto caratterizzare tutte le sue opere, i progetti maturi almeno dagli cinquanta.
Costruisce la sua città, la lascia al suo destino, che è un destino di contaminazione, e si ritira sul
Campidoglio. Le Corbusier mantiene per sé la costruzione del Campidoglio. Con le sue matite, dà
forma all’acropoli della città: sotto, la città contaminata, la città che si sta stratificando, la città che
si sta mescolando e, sopra, l’acropoli. Anche oggi sulla strada a percorrenza veloce, accanto alle
auto, vediamo biciclette e uomini a piedi. Contrasti fortissimi.
Le Corbusier immagina una grande piazza, una grande spianata
circondata dagli edifici principali, che dovevano essere il
Segretariato, il Parlamento, l’Alta Corte e il Palazzo del
Governatore, l’unico che non è stato realizzato. Fra questi edifici
immagina giardini di pietra, grandi monumenti e piante,
terrazzamenti, che dovevano collegare alcuni edifici tra di loro.
Oggi si presenta così come è stata costruita da Le Corbusier, una
spianata totalmente deserta. 500 metri separano un edificio
dall’altro; sullo sfondo l’edificio dell’Alta Corte, osservando dal
Parlamento, 500 metri che vanno percorsi sotto il sole accecante
dell’India, una spianata che, invece che unire gli edifici, sembra
essere lì per consentirci di percepire l’infinita distanza tra questi
edifici, la loro solitudine, la impossibilità a comunicare tra loro.
L'edificio dell’Alta Corte, la cui base pare un antico acquedotto romano, è un resto, una rovina
lasciata lì. Costruire rovine, quasi un ossimoro. Anche il Segretariato sembra essere una rovina, un
resto, con la sua parete che sembra tutta bucata, tutta rotta. In alto c'è l’edificio del Parlamento, dal
quale fuoriescono dei giganteschi oggetti scultorei.
Sembra, dunque, che Le Corbusier costruisca questi edifici come
fossero dei resti, delle rovine nella sua idea di città. Oggi
Chandigarh, tra l’altro, è una capitale condivisa tra due Stati, Punjab
e Haryana, quindi il Campidoglio è diviso in due da un filo spinato
che viene controllato da forze armate, che rendono ancora più
drammatica la percezione di questo luogo.
L'edificio dell’Alta Corte sembra una grande scatola in cemento,
all’interno della quale vengono inserite le aule di giustizia
caratterizzate da una parete, che si chiama frangisole, una sorta di
telaio, di griglia in cemento armato che doveva proteggere dal sole.
che a distanza sembra davvero evocare antiche rovine romane.
Colpiscono la bellezza dell'ombra, che cerca di entrare in risonanza
con il paesaggio circostante, l’ingresso, la bellezza della rampa.
Soffermiamoci sulla rampa: all’interno della villa Savoye era uno dei beni caratteristici del
vocabolario architettonico di Le Corbusier. La rampa introduce il concetto della passeggiata
architettonica: l'architettura che non posso vedere da un unico punto di vista, ma che devo
attraversare, e l’architetto mi guida in questa visita. L'architettura si dà come una successione di
episodi, di esperienze, di eventi, in qualche modo tenute insieme dalla mano dell’architetto. La
rampa torna, monumentale, negli edifici di Chandigarh, ma è tutta rotta, tutta bucata, è una rampa
che mi apre una sorta di finestre, di squarci sul Campidoglio, dalle quali riesco a percepire solo dei
frammenti. Non è più ciò che mi consente di avere una visione unitaria, ma frammenti, parti, lacerti
di un progetto più ampio. Così l’edificio del Segretariato è un frammento, come lo erano intere
abitazioni nella città lecorbuseriana, chino su un prospetto, ne viene realizzato metà. Dall’alto, le
rampe che ci portano attraverso l’edificio sembrano due grandi orecchie di elefante, due grandi
sculture, l’elemento assolutamente classico. La rampa è caratterizzata da tante finestre, una vicino
all’altra, e possiamo pensarle come delle postazioni successive: l’architetto, come un regista,
decide che cosa noi dobbiamo vedere salendo. Dall’interno, salendo e affaccinadosi da queste
finestre si hanno delle visioni parziali, di frammenti, di parti. Più su dal tetto, che ricorda, memoria
lontana, i tetti giardini delle ville parigine, si ha la visione della catena dell’Himalaya sullo sfondo.
C’è proprio uno sfondo, un confronto diretto tra l’opera dell’uomo e l’indecifrabile bellezza della
natura, quel corpo a corpo che attraversa Le Corbusier qui è proprio percepibile.
Anche se non c’entra con Le Corbusier, un libro che vi consiglierei di leggere è “La favola
pitagorica” di Giorgio Manganelli, un libro di viaggio attraverso l’Italia. Nella introduzione di
questo libro Manganelli ci confida una sua riflessione che, secondo me, è così utile per capire che
cosa Le Corbusier sta facendo. Ci scrive: “Rammento quando vidi per la prima volta il Partenone. Il
Partenone era ai miei occhi, in modo sublime, un mito che deve stare, la chiarezza intellettuale, la
superbia geometrica, l’ignoranza del magma, del disordine, dei demoni, dell’incubo. Avevo di
fronte l’ossessivo mito di ciò che sarebbe stata l’Europa, ma avevo in mente gli spazi planetari, il
fango organico dell’arte, la sua splendida paura, l’indecifrabile bellezza degli animali, la riluttanza
alla forma, l’incuranza di qualsivoglia
geometria”. La stessa dualità che qui si
percepisce, l’idea di un corpo a corpo, questa
indecifrabile bellezza che comincia a
contaminare la città ideale di Le Corbusier.
Il Parlamento, con i suoi straordinari oggetti,
sembra drammaticamente stabilire un chiaro
colloquio con il paesaggio circostante. Sotto
il portico che protegge dal sole o dall’acqua, a
seconda delle stagioni, il profilo della
grondaia, corna dei buoi che Le Corbusier
disegna, proprio oggetto e reazione poetica
tradotto in figura architettonica. Con la porta
che ci introduce al Parlamento Le Corbusier definisce anche quella che è Chandigarh, un vero e
proprio inno al sole, un inno all’elemento apollineo: la linea dell’orizzonte, sopra il cosmo, con il
suo ritmo del tutto indipendente dall’uomo; sotto, la terra. Prima della presenza della vita e poi, qui,
l’apparire della vita nelle sue forme via via più complesse, fino alla presenza dell’uomo. L’uomo
che, con l’orizzonte, traccia un angolo retto: il bisogno di misura, il bisogno di ordine, l’inno
apollineo. Eppure, quando la porta si apre ed entriamo all’interno del Parlamento, il lato opposto
della porta non è più un inno al sole, ma un inno alla luna, e sembra uno spazio totalmente negativo,
totalmente intonacato di nero, totalmente buio. C’è solo alla piccolissima fessura, una sorta di pausa
costruttiva tra il muro e il tetto che consenta al sole di entrare all’interno, di illuminare un po’ lo
spazio, in modo che si possa percepire l’oscurità nella quale siamo sprofondati. Siamo entrati
nell’altro, il doppio, l’altro da me. E’ veramente una messa in scena architettonica di quel tema del
doppio, che continuamente accompagna l’opera di Le Corbusier. Dentro delle colonne nell' oscurità,
sembrano rievocare un’altra memoria di viaggio, come la cisterna di Costantino, che Le Corbusier
aveva visitato nel sottosuolo di Istanbul, come una rovina, ancora una memoria. Anche qui muri
rotti all’interno del palazzo. Tra gli edifici isolati, come se fossero delle navicelle che arrivano, delle
astronavi che arrivano là, sole, lacerti di un mondo, rovine, ciò che resta di un’idea di città, al
centro, il monumento alla mano terra. La mano che troviamo spesso nei dipinti di Le Corbusier, un
simbolo complesso, ma che certamente rappresenta la volontà dell’architetto: è la mano che misura,
che conosce lo spazio, e lo trasforma, è la mano che costruisce. Questo simbolo così importante
viene costruito a Chandigarh al centro della fossa della meditazione, posto alla sommità di un’asta
di metallo che gira. La mano dell’uomo che progetta e domina la natura, qui è in balia del vento, in
balia di quel caso che sempre scompiglia e limita i nostri progetti.
Dobbiamo pensare alla mano aperta di Le
Corbusier come a un vero e proprio simbolo
autobiografico. Dopo aver dedicato l’intera sua vita
alla costruzione di Chandigarh, sul Campidoglio si
guarda indietro e vede il giovane che aveva accolto
la tradizione dei maestri, vede l’uomo maturo,
quando aveva avuto il coraggio di ribellarsi ai
maestri e di proporsi come profeta di un mondo
diverso, di un nuovo mondo. E si vede adesso, alla
fine della sua vita: di fronte alla irrealizzabilità,
alla fatica di poter costruire quell’idea di mondo,
quell’idea di città per tutti che costruisce nel 1951
in una landa desolata del nord dell’India. Mette in scena questa sua impossibilità, la fine di un’idea
di mondo. Stava scrivendo un libro che si chiamava proprio La fine di un mondo, il declino
dell’occidente, la fine di un’idea di occidente, che così tante volte è entrato in crisi, e la cui crisi
così tante volte è stata rappresentata. Di tutte le rappresentazioni, certamente quella messa in scena
da Le Corbusier è tra le più drammatiche.
Eppure, sullo sfondo di queste monumentali rovine, attraverso questo simbolo della mano aperta,
dirà Le Corbusier: a coloro da cui le mani ho ricevuto, a chi le mani avrei voluto donare. Questo
simbolo, la colomba della pace, sta proprio lì ad indicare che nonostante tutto, nonostante la
consapevolezza della crisi, nonostante la consapevolezza dei limiti del nostro fare, all’idea di questa
città diversa, di questa città di tutti, di questa città migliore, a questa idea non è lecito rinunciare. E
davvero forse questo simbolo, che credo insieme tutti possiamo assumere come il lascito più
significativo della lezione di Le Corbusier, tutti i giorni testimoniata dalla città di Chandigarh.
Professor Ruggero Zanini:
Grazie veramente per questa lezione. Mi viene in mente un’altra città che, tra il ’50 e il ’60, stava
crescendo, ed era Mestre. Però questa è la città della pura contaminazione: non c’è progetto, c’è
solo contaminazione così come è cresciuta.
Professoressa Maria Bonaiti:
Volevo solo ringraziarvi per la vostra pazienza, però invitarvi molto anche a muovervi, a viaggiare.
Questa io credo sia la cosa più importante che si possa fare, viaggiare, andare a vedere da vicino
questi progetti, queste costruzioni, che sono il risultato di tentativi, di lotte che hanno impegnato
delle vite, insomma, la cui forza e la cui pregnanza ci deve vedere tutti responsabili nei confronti
della nostra quotidianità.
Professor Maurizio Piasentini:
Un’ultima considerazione su quanto abbiamo visto stamattina. Mi è venuto in mente, sulla chiusura
della professoressa, come l’idea dell’architettura e dell’urbanistica in generale, pensate da Le
Corbusier come attività miranti all’accettazione e alla socializzazione, per l’uomo, poi abbia
rischiato di essere anche elemento di esclusione, in definitiva. Credo sia, indubbiamente, un grande
problema.
Mi ricordo che, quando ero studente ad Architettura, ho studiato il Cordiale di Ludovico Quaroni e
una sera d’estate ho sentito alla televisione, in una intervista, lo stesso architetto che alla fine
diceva: io, in un posto così, forse non ci andrei mai ad abitare. Questa per me è stata una delusione
cocente, indubbiamente. Forse anche per questo ho deciso di fare l’insegnante e non l’architetto. E’
una riflessione, direi.
Professoressa Maria Bonaiti:
Questa è una riflessione importante e significativa. Come dicevo, è un mestiere che richiama la
responsabilità quotidiana allo scarto continuo tra l’idealità, il progetto e la realtà in cui poi questo
progetto viene calato, la realtà che questo progetto è capace di creare.
Forse l’unico commento possibile è quello proprio di un invito alla responsabilità, un partire
dall’uomo, che non significa partire da bisogni e funzioni, ma dall’uomo appunto colto nella sua
complessità, e forse davvero l’importanza del messaggio lecorbuseriano, con i limiti anche che
questo messaggio ha avuto nel tempo, è quello della continua ricerca, non stancarsi mai di
interrogarsi intorno a quello che sia l’architettura, la costruzione dell’ambiente in cui poi la vita si
compie, non stancarsi mai di porsi la domanda, ma continuamente chiedersi, continuamente
interrogarsi su che cosa sia l’uomo, che cosa significhi abitare, che cosa significhi accogliere l’atto
e il gesto dell’abitare.
Credo che non ci siano risposte, se non l'invito a continuamente porsi la domanda. Non stancarsi
mai di interrogarsi, non essere pigri in questo senso. Io credo che questa sia forse l’unico tipo di
riflessione che mi sento di fare a proposito di questo grandissimo tema che coinvolge l’abitare nel
suo senso più ampio: non stancatevi mai di essere curiosi, non accontentatevi.
Professor Ruggero Zanini
Noi finiamo qui, con la possibilità di un ulteriore incontro, a latere del percorso su Le Corbusier,
con il professor Marchiori, un giovane matematico, che potrebbe dirci qualche cosa rispetto alla
prospettiva nel futuro dei computer, sulla complicazione.
Ancora grazie alla professoressa Bonaiti.

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