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ALIENI
(RACCONTI DA UN ALTRO
PIANETA)
ALIENI
Anselmo è alla finestra della sua camera da letto e tiene l’occhio fisso sull’oculare del suo
telescopio nuovo. Glie l’hanno regalato per il giorno del suo nono compleanno, dopo mesi e mesi di
insistenze. Sua madre è dietro di lui, tiene un libro tra le mani e mastica patatine rotonde al
formaggio. Dice “bravo” al figlio ogni volta che lui le indica una costellazione ad alta voce, poi
solleva lo sguardo e guarda verso l’orologio appeso sulla parete di fronte a lei.
“Ancora un altro po’, Anselmo, e poi si va a nanna”, e mentre lo dice sbadiglia.
Anselmo però non ha sonno. Segue attentamente ogni gruppo di stelle indicato sulla mappa celeste
che ha aperto al suo fianco e si aspetta da un momento all’altro di trovare qualche traccia di suo
padre. Questo alla mamma però non glie lo dice. Sa già che si alzerebbe e subito metterebbe a posto
il suo telescopio nuovo, ordinandoli di correre a dormire. Ma se il papà è lassù come dice sempre
lei, pensa, qualche traccia dovrà pur averla lasciata, qualche volta, no?
Così vaga da un angolo all’altro del cielo, da un lato al lato opposto, e osserva in quello spazio
vuoto in cui prima non aveva guardato, poi tra quel gruppo di stelle poco più in alto e poi...
Anselmo stacca l’occhio dal telescopio, se lo strofina con il dorso della mano destra e poi
ricomincia. Su e giù, destra e sinistra, un attimo e poi ancora più su.
Fino a che, ad un tratto, non vede qualcosa.
Si ferma, mette meglio a fuoco e rimane immobile trattenendo il respiro. La mamma dietro di lui
sgranocchia una patatina dietro l’altra, poi gli fa:
“ancora cinque minuti Anselmo, poi a nanna…”.
Ed eccolo di nuovo un raggio luminoso attraversare quell’angolo di cielo su cui Anselmo ha puntato
il telescopio. “Sarà papà”, pensa, e sposta lo strumento un po’ più in giù, nella direzione in cui ha
visto viaggiare quel bagliore. Così eccolo ancora, questa volta un po’ più vicino, un po’ più a lungo.
Anselmo non può credere ai propri occhi. Si gira verso sua madre, lei ha ripreso a leggere e non si è
accorta di nulla. Ha finito le patatine e ora tiene il sacchetto vuoto appallottolato in una mano, lo
stringe al seno e si lecca un po’ le labbra. Su nel cielo intanto sta accadendo l’incredibile: il bagliore
di poco prima si è fatto un po’ più forte, più grande, un po’ più vicino. Ormai è possibile vederlo ad
occhio nudo e Anselmo tende il collo verso la finestra, una mano sul davanzale, l’altra attaccata al
telescopio. La cosa su in cielo si muove velocemente, a scatti, ora irradia una strana luce azzurra,
ora giallo ocra, poi rosso fuoco ed infine di nuovo di un azzurro paonazzo.
Anselmo ha appoggiato il mento sul davanzale e non riesce più a staccare gli occhi dal cielo.
Osserva quella cosa avvicinarsi e piano piano prendere forma. Ora assomiglia ad una navicella di
metallo, come quelle che si vedono nella “Guerra dei Mondi”. Ha due grandi oblò sul fianco e una
strana cupola sulla cima. E’ da lì che irradia la luce.
“E’ papà, è papà”, pensa Anselmo tutto eccitato. Sorride. Fa ciao con la manina e trattiene a stento
un urlo, muovendo convulsamente le gambe e sbattendo i piedi in calzini sul pavimento. Forse ora
dovrebbe dirlo alla mamma. Si gira e sta per aprire bocca, quando si accorge che lei ora dorme, il
libro sulle gambe, mentre stringe ancora la busta delle patatine appallottolata sul seno. Ha le labbra
sporche di sale e nel sonno bisbiglia: “E’ ora di andare a nanna, Anselmo”.
VOLEVA FARE LO SCRITTORE
Erano circa le nove del mattino quando Leonardo suonò il campanello e rimase in attesa che gli
venisse aperto.
Si era svegliato nervoso quella mattina, si era alzato ed era andato a sedersi sul divano, senza
nemmeno fare colazione (solo un caffè con un dito di grappa) e non aveva nemmeno acceso il
televisore come al solito.
La sera prima l’aveva passata vagabondando per la città, senza una meta precisa, bevendo birra
calda da cinquanta centesimi, finché non era finito sul lungomare a guardare la notte come fosse un
ragazzino malinconico. C’era un gruppo di prostitute rumene lì, vicino a lui. Una di queste gli aveva
chiesto una sigaretta che lui aveva offerto volentieri, con un’altra aveva scambiato due parole
mentre una gli aveva detto: “ora in pausa, ma se tu vuoi…”. Lui aveva stappato qualche altra
bottiglia con il culo dell’accendino, le aveva distribuite e “no, non ho mai dovuto pagare per
scopare, grazie…”.
Poi bum, non ricordava più nulla se non di essersi svegliato sul divano di casa sua alle sette con un
gran mal di testa sulle spalle e senza neanche sapere come diavolo ci fosse tornato, in quella casa.
Poco male, aveva cacciato quei pensieri dalla mente sventolandosi una mano davanti agli occhi:
quel giorno aveva un lavoro importante da fare.
Si era lavato sotto le ascelle, si era fatto il bidet, aveva indossato una camicia sgualcita che aveva
trovato sul dorso della sedia in camera da letto, un paio di jeans sgualciti anche loro e il suo paio di
stivali preferito, gli scamosciati che calzava sempre. Poi aveva preso i ferri (una ventidue, una
beretta e un cacciavite), li aveva avvolti in alcuni fogli di carta di giornale e si era messo il
pacchetto sotto il braccio.
La macchina per fortuna l’aveva trovata subito, sotto casa, parcheggiata sul marciapiedi con una
bella multa infilata tra i tergicristalli anteriori. “Ma porca di quella…”, aveva detto senza scatti
d’ira. Aveva strappato la multa, era salito in auto, aveva nascosto il pacco sotto il sedile passeggeri
e aveva guidato per una ventina di minuti, prima di arrivare all’appartamento di Gianni.
E adesso era proprio davanti la porta di casa del suo socio.
Gianni ci mise cinque minuti prima di aprirgli e dopo lo squadrò per qualche istante prima di
chiedere: “avevamo appuntamento?”.
Leonardo non rispose, diede un colpo allo stipite con la punta della scarpa e Gianni, che non oppose
resistenza, lasciò che la porta si spalancasse.
Leo entrò e andò dritto verso la cucina, prese una sedia, si accomodò vicino il tavolo e sollevò il
caffè che probabilmente Gianni stava per bere prima del suo arrivo. Lo buttò giù tutto d’un sorso e
poi disse “che merda…”.
“Sarà buono quello che compri tu. Se ti fa così schifo, lascialo bere a me…”.
“Che ne sapevo che faceva così schifo…”.
“Fai così ogni volta che vieni qui, la mattina presto…”.
“Sono le nove. Non è mattina presto. E’ solo mattina!”.
“E il mio caffè fa schifo…”.
“Sì, il tuo caffè fa schifo. Adesso mettiti i pantaloni e andiamo, abbiamo da fare!”.
Gianni era in mutande e canottiera. Senza dire altro, trascinò i piedi in un paio di ciabatte di spugna
e scomparve dietro la porta della camera da letto.
Leo osservò per un attimo la polvere di caffè che era rimasta sul fondo della tazzina, chiedendosi
cosa diavolo dicesse, cosa ci potesse essere da leggere li dentro.
La sua ex, Cristina, leggeva i fondi di tazzine di caffè e lo faceva per mestiere. Aveva una piccola
bottega da qualche parte nella città vecchia e ci faceva pure un bel po’ di soldi.
“Non puoi immaginare quanta gente venga a trovarmi, ogni giorno.”, gli aveva detto una volta, tanti
mesi prima, quando ancora stavano insieme.
“Immagino sia per il caffè gratis, tesoro…”.
“Un caffè non lo paghi cinque euro. Non in questa città, almeno.”.
“Ma quello è per il servizio. Vecchie zitellone che vorrebbero sapere quando troveranno marito.
Mai, se continueranno a passare la vita con il culone sulle panchine. Dovresti dirglielo. Forse loro lo
sanno già, ma intanto vengono da te, si bevono il caffè, fanno quattro chiacchiere e si sentono un
po’ meno sole.”, aveva concluso lui.
Leo prese la tazzina e l’allontanò, posandola al centro della tavola sporca di zucchero e di cetriolini,
avanzo di qualche hamburger di Mc Donald. Non voleva pensare alla sua ex, la cosa gli faceva
aumentare il mal di testa.
Proprio in quel momento Gianni riemerse dalla camera da letto, vestito e lavato ma non pettinato.
Con quei lunghi capelli e la barba ispida assomigliava ad un barbone.
Fece un cenno con la testa a Leo, che si alzò e si avviò per primo verso la porta d’ingresso. Gianni
lo seguì, aspettò che il suo socio uscisse, poi uscì anche lui e chiuse a doppia mandata.
“Chi cazzo credi che possa voler entrare in questo porcile?”.
“Non si sa mai. L’incubo peggiore della mia vita è tornare a casa e scoprire che ci sono stati i
ladri.”.
“E cosa dovrebbero rubare i ladri? I cetriolini che hai sul tavolo? O il tuo bel caffè di merda?”.
“Non è tanto per quello che potrebbero rubare. E’ perché qualcuno avrebbe violato la mia intimità.
Mi sentirei violato, non ci potrei più stare in una casa in cui ci sono stati i ladri. Magari poi non
trovano nulla e ti cagano nel letto. Io non ci potrei mai più dormire su quel cazzo di letto, anche se
bruciassi il materasso.”.
“Cazzate, tu vivi in un porcile…”.
“Sì, ma è il mio porcile. E’ il mio sporco. Sono i miei avanzi. E’ la mia merda.”.
“Ora tutto ha un senso…”.
Intanto erano arrivati alla macchina. “Prendiamo la mia.”, disse Leo strappando una nuova multa
dal parabrezza e imprecando a bassa voce. Aveva di nuovo parcheggiato sul marciapiedi. Dannato
dopo sbornia.
Diede un calcio alla ruota anteriore destra. “Guida tu, io ho mal di testa.”, disse poi a Gianni.
I due salirono in macchina. “Dov’è che dobbiamo andare?”, chiese Gianni.
“Allo sfasciacarrozze, da Alfredo.”.
“Chi, quello senza un braccio? Che lavoro di merda fai se puoi perderci un braccio?”.
“Il braccio l’ha perso perché si faceva di eroina. Con gli aghi sbagliati. Il suo lavoro non c’entra
niente.”.
“Come in quel film, come si chiama?”.
“Non lo so, non mi piace il cinema.”, concluse Leo. Quelle chiacchiere lo innervosivano.
“ E che cosa avrebbe fatto Alfredosenzaunbraccio?”.
“Non lo so. Non sono affari miei. Più che altro, hai letto il racconto che ti ho mandato l’altro
giorno?”.
“Sì. Bello. Però parli sempre delle stesse cose: puttane, derelitti, relazioni andate male. Omicidi.”.
“Di cos’altro dovrei parlare?”.
“Che ne so, racconta di un prato fiorito, di un bambino che impara ad andare in bicicletta. Del
petrolio, della guerra. Che ne so…”.
“La gente vuole quello, vuole sentire parlare di cose come quelle. Vuole sporcarsi un po’ leggendo
di ‘ste cose che scrivo io perché non ha le palle per sporcarsi con la vita reale.”.
“Sarà, ma io poi mi annoio a leggere di ‘ste cose.”.
“Forse perché tu sei sporco già lo sei…”.
Intanto Gianni guidava piano, rispettava i rossi, non andava mai oltre il limite, facendo passare le
vecchiette sulle strisce pedonali e dando sempre la precedenza.
“Cos’è la storia che si sente raccontare in giro?”, riprese Leo mettendo fine al silenzio che si era
creato.
“Quale storia…”, chiese Gianni che pareva concentrato a guardare la strada.
“Quella su di te e sulla tizia che è morta!”.
“Povera, mi è dispiaciuto.”.
“In giro si dice che l’hai uccisa tu.”.
“Un paio di palle. Raccontano un sacco di stronzate, in giro.”.
“Non le hai passato tu la roba?”.
“Sì, ma ascolta: la roba era mia. Era quella che do agli amici. Ora ti spiego tutto.”, disse tirando
fuori una sigaretta, accendendola e aprendo il finestrino dal suo lato.
“Io ero alla stazione, sai, aspettavo gente e intanto mi stavo bevendo una birra ghiacciata. Vedo sta
tizia avvicinarsi. Si ferma e mi fa: “ciao”. Al che io rispondo: “ciao”. Parliamo un po’, mi dice che è
tornata in città dopo un paio d’anni. Io lo capisco subito dove vuole arrivare. Le guardo le braccia e
le faccio: “Sei stata ad Amsterdam in questi anni?” e lei mi risponde “Sì, Amsterdam” e io ancora
“qui non è così facile, bisogna rivolgersi alla gente giusta” e lei “e qual è la gente giusta” e io “sono
io la gente giusta”. Era proprio lì che voleva andare a parare. Allora sai, la porto a casa, la faccio
sedere sul divano e le dico “questa è la roba che vendo agli amici, te la faccio provare gratis e poi
mi dici”. Ma lei “no, no, la pago, la pago, i soldi non sono un problema”. Io alzo le spalle “come
vuoi” glie ne vendo cinquanta euro. Poi lei mi fa “posso andare in bagno a provarla?”. “Vai, vai, ma
non sporcare in giro” le rispondo io e lei scompare in bagno.”.
“E lì è morta!”.
“No, no, te l’ho detto, io non centro. Passano dieci minuti, intanto mi faccio un drink. Poi passa un
quarto d’ora e decido di andare a vedere che cazzo di fine ha fatto. Busso alla porta ma non
risponde. “Starà cagando”, penso. Però apro la porta lo stesso per controllare e la trovo stesa sul
pavimento, con la faccia nel suo stesso vomito. Non era cosciente ma respirava ancora. Allora
penso “Oh cazzo, Oh cazzo”, la sollevo di peso e la carico in macchina. Quando l’ho lasciata
davanti l’ospedale respirava ancora. Che colpa ne ho io se poi è morta? Io non centro niente!”.
“Ma è morta. E la gente dice che è colpa tua.”.
“La vorrei incontrare questa gente. Poi dovrebbe dirmelo in faccia e allora sì che qualcuno
morirebbe a causa mia.”.
Intanto erano ormai arrivati fuori città. Lo sfasciacarrozze di Alfredo non era molto lontano.
“Gira a destra.”, disse Leonardo, “Poi a sinistra. E non fare il duro, che tu non sei un duro.”.
“Io non faccio il duro.”, rispose Gianni piccato. “Io faccio il lavoro che faccio, e se mi sputtani in
giro poi non vendo più niente.”.
“Ma almeno lo sapevi chi era questa? No le avevi chiesto il nome?”.
“Luana mi sembra abbia detto. Ma poi chi se ne frega? Che mi fregava del nome? Era una tossica
come un’altra, niente di più.”.
“Sai che la nipote del capo è tornata in città, qualche giorno fa? Ora gira a sinistra, in quella
stradina.”, continuò Leo. Gianni svoltò e l’entrata dello sfasciacarrozze era proprio lì, di fronte a
loro.
“Perché, il capo ha una nipote? Non lo sapevo. E’ carina?”.
“Accosta lì… lì, vicino i bidoni.”, disse Leo senza rispondere alla domanda.
Con una mano tirò fuori il pacco da sotto il sedile. Poco lontano da loro un gruppo di persone
chiacchierava animatamente. Tra loro c’era un uomo senza un braccio, alto, grosso, calvo, con una
maglia da lavoro sporca di grasso.
“Chissà che cosa ha fatto quel povero diavolo.”, disse Gianni guardando nella loro direzione.
Intanto Leo aveva aperto il pacchetto e aveva preso la ventidue. Tolse la sicura.
“Comunque sì, il capo aveva una nipote, si chiamava Luana.”, disse un istante prima di sparare a
Gianni dritto in testa.
Leonardo guardò gli schizzi sul parabrezza e sul finestrino. Sul volante era finito qualche pezzo di
cervello. Aveva fatto un bel macello, la camicia gli si era sporcata tutta e anche la faccia. La faccia
di Gianni invece non esisteva più.
Leo scese dalla macchina, fece un fischio e il gruppo di persone con l’uomo senza un braccio gli si
fece incontro. Leonardo tirò fuori dal taschino una sigaretta e l’accendino. Pure le scarpe di velluto
si era sporcato, maledizione. Il mal di testa era diventato quasi insopportabile.
“Alfrè, tirate fuori il corpo e buttatelo nella pressa. Poi datemi una pulita alla macchina. Intanto
qualcuno mi porti una maglietta pulita. Pulita, eh? Vado a darmi una lavata.”, disse accendendosi la
cicca.
“Povero diavolo, chissà cosa ha fatto.”, esclamò uno degli uomini, biondo e zoppo, mentre
prendeva il cadavere di Gianni per i piedi.
Un’ora dopo Leonardo era di nuovo in auto, che si allontanava dallo sfasciacarrozze. La macchina
sembrava come nuova, lui invece indossava una maglietta con su scritto “I love Rock ‘n Roll”. Il
corpo di Gianni probabilmente era diventato un cubetto di carne.
Gli dispiaceva, ma il lavoro era lavoro. E dire che voleva fare lo scrittore, tanto tempo prima. Ce
l’aveva messa tutta per diventarlo. Aveva scritto tanti racconti e tante poesie, che aveva mandato in
giro per gli editori, senza ricevere quasi mai una risposta. E anche quando ne aveva avute erano
sempre state negative.
Alla fine aveva lasciato perdere e si era lasciato inscatolare in quel lavoro. Non che ne andasse
fiero, ma guadagnava, a volte anche bene. E intanto continuava a scrivere cose che non mandava
più a nessuno. E si sentiva un animale in gabbia. E non ne poteva più uscire. “Sono fregato.”, si
disse fermandosi a un semaforo. Era fregato.
Leonardo guidò verso nord. Ad ogni semaforo rosso si fermava e ad ogni semaforo verde ripartiva.
Dava sempre la precedenza. Era quasi mezzogiorno e il sole alto nel cielo illuminava auto e persone
in quella città esausta. “Tutti inscatolati.”, pensò svoltando a destra. Forse avrebbe raggiunto il
mare. Avrebbe passato qualche ora a guardarlo e poi ci avrebbe tirato contro i sassi. Sapeva di non
poterlo uccidere ma poteva ancora cercare di ferirlo, almeno per qualche istante.