Come Quando Fuori Piove, ovvero: sulla molteplicità

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Come Quando Fuori Piove, ovvero: sulla molteplicità
Come Quando Fuori Piove, ovvero: sulla
molteplicità dei significati.
Credo sia relativamente importante provare a dare un qualche tipo di forma ad una questione che da un
po’ di tempo mi ronza in testa come una mosca fastidiosa eppure, al contempo, estremamente
interessante agli occhi di chi, come me, ha compiuto una scelta di carriera di un certo tipo: quella di
coloro che sono (saranno?) portati a confrontarsi giornalmente con il concetto di ‘significato’, in molte
delle sue sfumature.
L’idea principale che mi muove, in questa che non vuole essere una analisi né esaustiva né
minimamente saggistica o di meta-ricerca sulla questione dell’attribuzione di significato da parte dei
singoli individui, delle singole culture o dei gruppi di persone, istituzioni, interessi, è quella che,
fondamentalmente, il concetto significato in sé stesso, preso a singolo e/o oggettivato in una qualche
forma di verità statica o assoluta è nient’altro che un illusione che, comodamente, ci portiamo appresso
da tempi immemori nella storia del pensiero umano.
Dico ‘comodamente’ perché quello che mi propongo di fare, nel corso non solo della mia futura (spero)
carriera di psicologo e/o psicoterapeuta, ma anche nel corso della costruzione di una mia personalissima
visione del mondo, di una qualche forma di filosofia di vita da seguire più o meno consciamente, più o
meno con sistematica intenzione e volontà, è un compito che ritengo tenda costantemente a sfuggire con
una certa insistenza da quella che credo sia una inclinazione abbastanza tipica sia della singola mente
umana che del/dei processo/i culturale/i in senso più ampio: la tendenza a ricercare e godere dell’ombra
che una Verità (una Verità dotata di una piacevole ‘V’ maiuscola) proietta sulle nostre teste e sulle
nostre visioni della realtà, al fine di proteggersi da quell’insopportabile luce che si emana brutalmente
dalla massa indistinta di tutti i significati possibili ed immaginabili, attribuibili e no a fatti, pensieri,
azioni, non-azioni, eventi, eccetera; in sintesi a tutto ciò che quotidianamente circonda non solo lo
spazio estremamente ristretto delle nostre singole vite, ma anche tutto ciò che ci tocca in modi solo
marginali (o apparentemente tali), o che non ci tocca affatto, a cose come eventi politici, legislativi,
storici, economici politici…e la lista rischia di essere potenzialmente infinita. Dando uno sguardo anche
solo fugace alla storia del pensiero occidentale è evidente che ad esso di può attribuire (tra i tanti
attribuibili, è ovvio) un senso: è stata una battaglia, una guerra, un reciproco massacro per la supremazia
e la dominanza di una Verità su tutte le altre, anche quando a questa supremazia si sarebbe potuto dare il
nome di parricidio: condicio sine qua non dell’affermazione di una qualche forma di pensiero è spesso
stata la distruzione del pensiero e della verità altrui; distruzione fisica ai tempi delle eresie e dei roghi,
distruzione intellettuale ai tempi della nascita di fenomeni quali il positivismo, o gli assolutismi politici.
Ma la tendenza a ricercare un solo modo di vedere la realtà, a mio parere, non è limitata a dinamiche di
ampia portata come quelle sopracitate e quelle non citate, ma è piuttosto un meccanismo intimamente
umano, che si esprime quotidianamente anche nelle vite di tutti noi, con le nostre soggettività, le nostre
esperienza ed i nostri modi di attribuire loro un significato. Dare una spiegazione agli eventi ed al
contempo mantenere il più possibile stabile questa spiegazione è infatti estremamente comodo. Non
solo: è anche conveniente sotto un punto di vista, diciamo, economico, legato cioè all’immediatezza,
all’automatismo, alla spendibilità momento per momento: se dovessimo, per ogni cosa che ci avviene e
soprattutto per ogni scambio comunicativo in una relazione tra due o più persone, valutare ogni
possibile significato, semplicemente saremmo costantemente paralizzati dallo stesso processo di
attribuzione di significati e di interpretazione della realtà circostante, costantemente impossibilitati a
compiere una qualsiasi scelta o una qualsiasi azione di risposta/reazione , poiché impegnati in un esame
infinito (ed inutile) di significati e delle loro infinite conseguenze: la vita relazionale per come la
conosciamo semplicemente non esisterebbe. E’ invece estremamente rassicurante il fatto che tendiamo
invece a dare alla realtà una serie di significati più o meno stabili, a costruire cioè nel corso del nostro
sviluppo e della nostra vita delle griglie di interpretazione che ci aiutino a non doverci costantemente ed
incessabilmente soffermare a riflettere e valutare il dispiegarsi d’ogni possibilità; insomma, che ci
facciano agire. Questa tendenza è stata ampiamente dimostrata non solo da ‘saperi’ non propriamente
scientifici come la psicoanalisi del caro buon vecchio zio Sigmund ma anche da progetti di ricerca,
teorie sullo sviluppo infantile e sull’attribuzione di significato a situazioni di tipo relazionale/emotivo,
sulla costruzione di quelle ‘mappe’ mentali che gli psicologi cognitivisti chiamano ‘scripts’, copioni,
ovvero di tutte quelle conoscenze procedurali del mondo che usiamo nella stragrande maggioranza dei
casi in modo non consapevole, automatizzato e soprattutto impercettibilmente rapido. La ricerca
psicologica e recentemente anche neurologica sull’argomento e sui meccanismi cerebrali che guidano
queste funzioni è cresciuta incredibilmente negli ultimi quarant’anni.
Ed è proprio alla luce di queste conoscenze che mi trovo a pensare che l’innata tendenza a reificare la
nostra visione della realtà, a trattarla spesso ed automaticamente come se fosse l’unica possibile, è solo
una mera illusione, sia individuale che collettiva. Non siamo portati in modo naturale ed istintivo dalla
nostra struttura mentale ad osservare tutte le varie possibili interpretazioni poiché è molto, molto più
comodo (e spesso direi anche più piacevole, meno doloroso) non indossare i panni mentali del nostro
prossimo, ma limitarci piuttosto a vivere ed a percepire nel modo in cui siamo, da sempre, stati abituati
a vivere e percepire il mondo: il nostro preziosissimo punto di vista. Non è l’unico, probabilmente non è
il migliore - una parte di noi può anche saperlo – ma è il nostro, ed è estremamente difficile eluderlo,
sfuggirne. E’ un paio di lenti che spesso si impone con una forza ed una prepotenza che, a meno di non
invece imporsi in maniera attiva e volontaria d’ignorarlo e di sforzarsi per piegarlo ad una visione più
ampia e diciamo empatica, tende ad invadere ogni percezione, ogni vissuto e pensiero su quel che ci
circonda. Siamo estremamente centrati su noi stessi: immaginarsi i protagonisti della propria personale
storia è facile, immediato, piacevole. Probabilmente è anche dettato da potenti fattori culturali e non è
un caso che la società occidentale sia stata descritta come la società individualistica (personalmente io
credo che la nostra sia più una società del narcisismo, ma questo esula dallo scopo immediato della mia
riflessione).
Per illustrare questo semplice fatto della nostra vita mentale negli ultimi tempi ho sentito la necessità di
sforzarmi e di riflettere su una frase che, per diversi motivi, è una parte relativamente della mia storia
personale, della mia narrativa autobiografica, ma che solo ultimamente si è riproposta a livello
cosciente: ‘Come Quando Fuori Piove’. Una frase che , come spero di spiegare, non va presa affatto
come un monolitico pezzo una di Verità – quella Verità che invece vorrei intimamente imparare a
sfuggire- e che non va letta per il suo apparente banale significato, ma che va piuttosto compresa,
afferrata, come se fosse una semplice metafora; ancora una volta banale ma estremamente utile ad
illustrare un mio personale punto di vista, condividibile o meno.
Mia nonna giocava spesso a poker; era il suo diletto e l’occasione per passare un pomeriggio in
compagnie delle sue amiche, ed è per questo che, figlio allevato dai propri nonni, nella loro casa, sono
cresciuto familiarizzando con questa frase, avendola liberamente in circolo per i canali del mio cervello,
a girare e ripetersi a volte senza che ci fosse un preciso senso, senza che vi fosse una vera e propria
motivazione a dare una prima spinta, a fungere da Primus Movens, per le circonvoluzioni di queste
quattro parole tra le spire della mia mente. E così che mi è sempre stata intima, come mi è sempre stata
familiare, allo stesso modo non si è imposta alla mia attenzione: per anni essa non ha rotolato
attivamente tra i miei pensieri ma infine, ultimamente, è tornata con una certa forza sotto il riflettore
della mia attenzione e m’ha dunque portato a riflettere, a sentirla dentro, in me, questa frase – Come
Quando Fuori Piove – a sguisciarmi in bocca, a pensarla ed, inevitabilmente, a pensarci su.
Cuori Quadri Fiori Picche - Come Quando Fuori Piove – diceva mia nonna, ed era il gioco di magia, il
segreto dell’esperto per ricordare la giusta gerarchia dei semi nel gioco del poker francese, un gioco
ormai in disuso in questi anni di poker alla texana, il trucco per farmi vincere (grazie, nonna) quelle
partitelle fasulle e rilassanti che spesso giocavamo affinché il tempo passasse, il mio ed il suo, tra una
noia e l’altra.
Ed ora che questa sequenza verbale è prepotentemente tornata in me, ho imparato a capire che essa non
va presa come per intero nel suo suono, ma va piuttosto spezzata nelle sue diverse sfaccettature: non è
solo una frase su quanto sia bello o malinconico stare lì fermi ad osservare, immobile, lo scorrere
verticale dell’acqua fuori dalla finestra, mentre banalmente sto al calduccio, come organi in un corpo,
sotto un tetto a non bagnarmi e godere di quella saggia intuizione che m’ha detto di restare oggi in casa,
come fosse una voce che dice: ‘Placati, non uscire a comprare il pane, o a lavorare, a fare una
passeggiata, o a leggere un libro sotto il mancato solleone, nel parco e nel profumo dei suoi alti pini, o a
correre e perdere calorie ed energia e peso e fiato e malessere, o ancora a mangiar fuori con quel tuo
vecchio amico, quel vecchio e caro amico che m’aveva oggi invitato dopo tanto tempo, o a compiere
uno qualsiasi degli atti tra tutti quelli necessari a chi si prepara ad abbandonare quel luogo fisicomentale che gli anglofoni chiamano home , distinguendo così tra la gretta materia fatta di tegole e legno
e calcestruzzo e mattoni impilati e la sensazione di calore che un luogo tuo emana’. Una voce che dice:
resta fermo. Questo è solo uno dei primi significati (e se non ricordo male qualche cantantaccio ci avrà
scritto una canzone, al riguardo).
“Come Quando Fuori Piove”.
Non è una solo una frase su questa bella sensazione d’ignavia e non-movimento – su quel volontario
presagio dolce che grida : ‘Oggi non indosserò scarpe, non laverò il mio volto, non vestirò abiti decenti.
Non perderò affannosamente il mio e tempo e la mia pazienza a cercare; a cercare le chiavi, a cercare gli
occhiali, o l’apposita pezzuola – sopra vi è stampata una foto antica d’una baia che pare Napoli – e forse
lo è – la pezzuola per pulirne le lenti. Non perderò tempo a controllare con cronometrica ed ansiosa
precisione che ora sia e a capire che – diavolo! – sono in ritardo, siamo in ritardo come il Bianconiglio.
Resterò invece in casa a crogiolarmi ed a naufragare in questo dolce mare, nella voglia di non fare, di
non uscire, di restare immobile a pensare ed osservare la pioggia – Come Quando Fuori Piove –
assecondando un capriccio non così raro, ma così spesso trascurato’. Sembra una frase siffatta, ma non è
solo questo, lo giuro sui miei cari.
“Come Quando Fuori Piove” è invece una frase che è come uno scrigno: rinchiude in sé una serie
di tesori nascosti, livelli diversi di lettura e rimandi e significati. Il secondo a cui istintivamente penso è
quello che ci racconta di come le cose vengano spesso in una qualche forma d’ordine: il concetto di
priorità. E, ancora, essa riassume in sé i vari e molteplici significati che il termine ‘priorità’ può
assumere in relazione alle diverse eventualità che la vita davanti ci para. Nel suo senso più elevato come
in quello più pragmatico: le Priorità della Vita. Le Priorità nell’Amore. Le Priorità in un progetto od in
un semplice gesto quotidiano. Esempio banale: prima di allacciarti una scarpa devi infilarci dentro il
piede, fare in modo che ben calzi, che il suo tessuto, o la sua pelle, vada caldamente a combaciare con
quella che è la nostra pelle. Prima di gettarsi a capofitto in un complesso lavoro è prioritario che noi si
abbia appreso l’abicì di quello specifico compito e – perché no? - il come muoversi fa i milioni di
meandri che l’ambiente sia fisico che mentale in cui dobbiamo svolgerlo ci pone e ci propone. Ed
ancora: prima di conoscere gli altri è prioritario conoscere sé stessi. E questo è già molto meno banale e
richiederebbe tutta una trattazione a parte.
Ed ancora, è una frase che nasconde in sé anche il senso delle gerarchie. E’ una frase che – col suo
carico di incomprensibilità e potenziale metaforico, col suo sintetico richiamo ai semi delle carte –
Come Quando Fuori Piove, Cuori Quadri Fiori Picche - vorrebbe illuminarci su quanto siano importanti
ed utili le gerarchie in questo mondo, checché ne possano pensare i simpatici simpatizzanti d’ogni
sistema o ideale politico che delle gerarchie rifiuta sia il concetto in quanto tale che l’utilizzo nella
pragmatica del nostro essere animali prettamente sociali, nati in gruppo e per il gruppo. Come dire:
nessun uomo è un isola. Ma non dobbiamo dimenticarci che ci sono isole più o meno importanti, o
grandi e che solo una può essere la capitale dell’arcipelago. Perché, non lasciamoci ingannare, le
gerarchie non solo sono sempre esistite – già prima dell’avvento di una qualsiasi forma di socialità
organizzata, già dal tempo del branco, sin dai tempi del leone alfa, comodamente stravaccato all’ombra
dell’unico albero nel giro di miglia, nel cuore di quell’immensa savana ch’era il mondo prima di noi, o
del lupo capobranco alla testa del suo gruppo di mordenti e affamati canidi, la gola esposta all’aria che
vibra nell’ululato, nel canoro grido rivolto - oh! Quanta inutile e selvaggia poesia! – alla luna che in
alto barcolla la sua dose quotidiana di orbita - non solo sono sempre esistite queste nostre gerarchie, ma
hanno dato addirittura l’impulso alla nascita di ogni loro opposto e di ogni loro sovvertimento, di ogni
cambiamento che per i motivi più disparati è avvenuto nella concezione e nella politica dell’uomo. Delle
concezioni politiche del lupo e del leone non sapremmo dire, né sapremmo come domandarlo ai diretti
interessati.
Come Quando Fuori Piove è invece una frase che misteriosamente, senza dirlo, ci parla dello
stratificarsi dei significati, del concetto di libera interpretazione e di multi-sfaccettatura del linguaggio e
della realtà, scritta o umana o divina che sia. In essa come sedimenti s’incastrano le pietre di diverse
visioni, di numerose inclinazioni e rotazioni che potremmo imprimere a questo cubo di Rubik che
chiamiamo la percezione del reale. E potrebbe essere un gioco tanto interessante quanto tremendo, e
perché no? noioso, e spaventante - sotto un certo non immediato punto di vista – quello di sforzarsi e
piegarsi alle pieghe ed alle piaghe che ci possono infliggere i mutevoli significati che questa frase
assume e sussume. E quanto sforzo questo gioco – questo gioco sia particolare che universale, sia
specificatamente individuale che generalmente umano – quanto sforzo questo gioco della ricerca di
diverse, supposte e più o meno invisibili verità richieda è una questione che rimane ancora aperta
all’investigazione. Una ricerca che va avanti da tempi tanto immemori quanto non sospetti. Credo che
già i primi cristiani ed i primi eretici potrebbero dire – potrebbero dire non fossero morti – o ci
dicono in quanto eternamente vivi tra i meandri della nostra storia e della nostra mentalità – credo già
questi primi cristiani potrebbero dircene qualcosa di questa cosiddetta Verità e della sua stupida ricerca
– Oh, Sant Graal dei molto intelligenti! La verità! Come ve ne fosse una sola di queste verità, invece che
i tanti lati di quel solido che si presentano e s’accumulano in verità potenzialmente infinite, ognuna
soggettivamente tanto vera quanto fasulla ad un livello d’oggettività. Prova ne sia tutto il tempo passato
a bruciare/torturare/ammazzare/cancellare dissidenti ed eretici ed infedeli. Prova ne sia il fetore di carne
e capelli sfrigolanti che echeggia nei secoli dei secoli amen.
Dunque: “Come Quando Fuori Piove”. Non sono ancora esauriti i vari livelli possibili: ancora essa ci
dice delle cose che vengono prima e di quelle che vengono dopo. Di quelle più pesanti come di quelle
più leggere. Degli uomini più importanti prima dei meno notabili. Dei metodi di classificazione
dell’importanza dell’uomo, dei tanti modi di creare piramidi e gerarchie, dal più accurato al più lasco, al
più flessibile. E delle stelle per luminosità e dimensione. E degli animali per peso e taglia. E delle vite
per durata. Degli amori per livello di incidenza ed influenza sulle nostre vite, sui nostri modi di essere. E
delle strade ordinate per la loro lunghezza ed il loro carico medio di merci: per la loro struggente
bellezza nel paesaggio. Dei semi delle carte. Del susseguirsi delle età nell’uomo. Dei sistemi sociali. Dei
posti numerati in un cinema, o in un treno, o un aereo. E così via. Sia compito personale di ciascuno
vederci dentro ciò che più desidera, o ciò che non può fare a meno di vederci dentro.
“Come Quando Fuori Piove”.
Questa frase mi ricorderà sempre che le cose non esistono di per sé. Che la verità è solo una costruzione
a posteriori. Che la parole (e così i gesti e le espressioni non verbali) possono avere diversi significati;
che questi non si sanno mai tutti e che non si possono mai escludere a vicenda, come se vi fossero
soluzioni semplici a quel grosso problema che è la comunicazione fra esseri umani ed in generale il
tempo passato a viverla, tale comunicazione. Questa frase, grazie a tutte le sfumature diverse che mi
suggerisce il suo suono, mi vuole forse dire che dovremmo sempre sforzarci di capire se è la
malinconica acqua sui vetri ad avere importanza, ora, in questo momento, o se siano invece le priorità, o
le gerarchie, od ogni altra cosa che questa frase può dire ad un altro diverso da me in un tempo diverso
dal mio. Questa frase mi insegna che non ci sono solo io e la mia imprescindibile, egoistica ed
autocentrata visione del mondo, ma che dovrei piuttosto sempre sforzarmi di cogliere il delicato senso
che questa frase – Come Quando Fuori Piove - può assumere di volta in volta nella bocca di chi in
questo momento la pronuncia, o in questo momento la legge.
Mi sento, infine, di dover qui aggiungere, in fondo ad una riflessione che, come penso sia tautologico,
non si propone di essere esaustiva o complessa o nemmeno bella, uno di quei pezzi di letteratura che
ultimamente ha riattivato in me questa necessità di pensare in un senso ampio soprattutto quando si
pensa di e con esseri umani, una necessità che provi a sfuggire a quella limitata gabbia che è il nostro
individuale modo di vedere e sentire il mondo e la realtà che ci circonda. E’ tratta dalla trascrizione di
un discorso che è stato pronunciato da quello che reputo un ottimo se non forse il migliore (ma anche
questa è la mia visione) scrittore americano degli ultimi trent’anni in occasione di una cerimonia di
laurea nell’università umanistica in cui insegnava, nel maggio 2005, tre anni prima che si concludesse
prematuramente la sua vita. E’ solo un estratto, non è tutto il discorso, che è invece molto più ampio e
completo e che s’inserisce in un ragionamento sull’importanza degli studi umanistici e della cornice che
essi ci offrono per guardare alla realtà. Ma trovo che sia stranamente commovente, ed umano, ed
empatico, e che per questo meriti una citazione abbastanza estesa e che spero mi venga perdonata per
avere aggiunto ulteriori righe alle mie righe.
QUESTA E’ L’ACQUA
“Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella
direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani
nuotano un po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua? (…)
Eccovi un’altra storiella didascalica. Ci sono due tizi seduti a un bar nel cuore selvaggio dell’Alaska.
Uno è credente, l’altro è ateo, e stanno discutendo l’esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che
viene fuori dopo la quarta birra. L’ateo dice: «Guarda che ho le mie buone ragioni per non credere in
Dio. Ne so qualcosa anch’io di Dio e della preghiera. Appena un mese fa mi sono lasciato sorprendere
da quella spaventosa tormenta di neve lontano dall’accampamento, non vedevo niente, non sapevo più
dov’ero, c’erano quarantacinque gradi sottozero e così ho fatto un tentativo: mi sono inginocchiato nella
neve e ho urlato: “Dio, sempre ammesso che Tu esista, mi sono perso nella tormenta e morirò se non mi
aiuti!”». A quel punto il credente guarda l’ateo confuso: «Allora non hai più scuse per non credere –
dice -, sei qui vivo e vegeto». L’ateo sbuffa come se il credente fosse uno scemo integrale: «Non è
successo un bel niente, a parte il fatto che due eschimesi di passaggio mi hanno indicato la strada per
l’accampamento». (…)
Mettiamo, per dire, che sia una normale giornata nella vostra vita di adulti: la mattina vi alzate, andate al
vostro impegnativo lavoro impiegatizio da laureati, sgobbate per nove o dieci ore e alla fine della
giornata siete stanchi, siete stressati e volete solo tornare a casa, fare una bella cenetta, magari rilassarvi
un paio d’ore e poi andare a letto presto perché il giorno dopo dovete alzarvi e ripartire daccapo. Ma a
quel punto vi ricordate che a casa vostra non c’è niente da mangiare – questa settimana il vostro lavoro
impegnativo vi ha impedito di fare la spesa – e così dopo il lavoro vi tocca andare a prendere la
macchina e andare al supermercato. A quell’ora tutti escono dal lavoro, c’è un traffico mostruoso e il
tragitto richiede molto più del necessario e, quando finalmente arrivate, scoprite che il supermercato è
strapieno di gente perché a quell’ora tutti gli altri che come voi lavorano cercano di ficcarsi nei negozi
di alimentari, e il supermercato è orribile, illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e
canzoncine capaci solo di abbrutire, e voi dareste qualsiasi cosa per non essere lì, ma non potete
limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi, iperilluminati e caotici per trovare
quello che vi serve, manovrare il carrello scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col
carrello, e ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini iperattivi che
bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi di chiedere permesso in tono gentile ma poi,
quando finalmente avete tutto l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte
anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo e vi manda in bestia, ma
non potete prendervela con la cassiera istrica, oberata com’è quotidianamente da un lavoro così noioso e
insensato che tutti noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo immaginiamo…fatto
sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate il vostro cibo, aspettate che una macchinetta
autentichi il vostro assegna o la vostra carta di credito e vi sentite augurare “buona giornata” con una
voce che è esattamente la voce della morte, dopodiché mettete quelle raccapricciante buste di plastica
sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita che tira a sinistra, attraversate tutto il
parcheggio intasato, pieno di buche e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che
non esca dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al traffico lento,
congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera, eccetera (…).
Il punto è che la scelta entra proprio in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco conto come questa.
Perché il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per
pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, sarò incazzato e
giù di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perché la mia modalità predefinita naturale dà per
scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente me. La mia fame, la mia
stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avrò la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino.
E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo mentre se ne stanno in
fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con l’occhio smorto e niente di umano; e che odiosi poi quei
cafoni che parlano forte al cellulare in mezzo alla fila. Certo che è proprio un’ingiustizia: ho sgobbato
tutto il santo giorno, muoio di fame, sono stanco e non posso nemmeno andare a casa a mangiare un
boccone e a distendermi un po’ per colpa di tutte queste stupide, stramaledette persone. Oppure, se gli
studi umanistici fanno propendere la mia modalità predefinita verso una maggiore coscienza sociale,
posso trascorrere il tempo imbottigliato nel traffico di fine giornata a inorridire per tutti gli enormi,
stupidi Suv, Hummer e pickup col motore da 12 valvole che bloccano la corsia bruciando tutti e
centottanta i litri di benzina che hanno in quei loro serbatoi spreconi e egoisti, posso riflettere sul fatto
che gli adesivi patriottici o religiosi sembrano sempre appiccicati sui veicoli più grossi e schifosamente
egoisti, guidati dagli autisti più osceni, spericolati e aggressivi, che di norma parlano al cellulare mentre
ti tagliano la strada per guadagnare sei stupidi metri nel traffico congestionato, e posso pensare che i
figli dei nostri figli ci disprezzeranno per aver sperperato tutto il carburante del futuro, mandando in
malora il clima, e a quanto siamo viziati, stupidi, egoisti e ripugnanti, e a come fa tutto
veramenteschifo e chi più ne ha più ne metta…
Guardate che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla
così diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla così è la mia modalità
predefinita naturale. E’ il modo automatico e inconsapevole di affrontare le parti noiose , frustranti e
caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione automatica ed inconsapevole
che io sono il centro del mondo, e che sono le mie sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire
l’ordine di importanza delle cose. Il fatto è che in frangenti come questo si piò pensare in tanti modi
diversi. Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi intralciano, non è da escludere
che a bordo dei Suv ci sia qualcuno che in passato ha avuto uno spaventoso incidente e ora ha un tale
terrore di guidare che il suo analista gli ha ordinato di farsi un Suv mastodontico per sentirsi più sicuro
alla guida; o che al volante dell’Hummer che mi ha appena tagliato la strada ci sia un padre che cerca di
portare di corsa in ospedale il figlioletto ferito o malato che gli siede accanto, e che la sua fretta è
maggiore e più legittima della mia: anzi, sono io ad intralciarlo. Oppure posso scegliere di prendere mio
malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano
annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile,
tediosa e sofferta della mia. Vi prego ancora una volta di non pensare che voglia darvi dei consigli
morali, o che vi stia dicendo che “dovreste” pensarla così, o che qualcuno si aspetta che lo facciate
automaticamente, perché è difficile, richiede forza di volontà e impegno mentale e, se siete come me,
certi giorni non ci riuscirete proprio, o semplicemente non ne avrete nessuna voglia. Ma quasi tutti gli
altri giorni, se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una scelta, potrete scegliere di guardare in modo
diverso quella signora grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante in fila alla cassa che ha appena
sgridato il figlio: forse non è sempre così; forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al
marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla
Motorizzazione col minimo salario che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un problema
burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto
verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa volete prendere in
considerazione. Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero
importanti – se volete operare in modalità predefinita – allora anche voi, come me, probabilmente
trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a
prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di
affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa
ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte
le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a
decidere come cercare di vederla”. (”Questa è l’acqua”, di David Foster Wallace, 25 maggio 2005, edito
Mondadori).
Vittorio – Project 451