maestri i michele provinciali isia urbino

Transcript

maestri i michele provinciali isia urbino
maestri
i
michele provinciali
isia urbino
© Proprietà letteraria riservata – Gangemi Editore SpA, Piazza San Pantaleo 4, Roma · www.gangemieditore.it
Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni.
isbn 88-492-1022-1
La collana maestri del design
nasce dalla collaborazione tra i quattro
Istituti Superiori per le Industrie Artistiche:
isia di Faenza, isia di Firenze
isia di Roma, isia di Urbino
Michele Provinciali
Décor du Caravanserail
nota critica di bruno bandini
Istituto Superiore per le Industrie Artistiche
Progettazione grafica e comunicazione visiva
Via Santa Chiara 36 – 61029 Urbino (pu)
tel. 0722.320195· www.isiaurbino.it
Dedicato a Massimo Dolcini
Con il patrocinio di
Progetto grafico
Antonio Motolese, Franz Ramberti
Impaginazione
Elio Di Raimondo
Editing
Alessandro Ramberti
Riproduzioni fotografiche
Alessandro Dolcini – Studio Pelicula, Pesaro
Grazie a
Anna Rita Paffumi
Marinella Fraticelli
Valter Toni
Alessandro Ramberti
design:
Antonio Motolese, Franz Ramberti
È un vero piacere per l’isia di Urbino tenere a battesimo il primo
volume della collana dedicata a quei maestri del design italiano
che hanno riversato nella didattica degli isia la loro esperienza
professionale. E quando il maestro è Michele Provinciali la soddisfazione è maggiore perché il personaggio ha frequentato non
solo il territorio della grafica, ma anche quello del design del prodotto, ivi comprendendo la ceramica, le tre anime degli isia.
Terminata l’esperienza di Albe Steiner – che del Corso Superiore
d’Arte Grafica, progenitore dell’attuale Istituto, era stato co-fondatore con Francesco Carnevali – con Provinciali si aprì un periodo antitetico al primo ma altrettanto esaltante: Steiner aveva
condotto gli studenti verso una grafica rigorosa, sottesa da una
evidente geometria, Provinciali li portò in un mondo poetico, fatto di leggerezza e di emozioni per gli oggetti. Tra gli studenti di
quegli anni mi piace ricordare, in particolar modo, Massimo Dolcini, anch’egli nostro docente e che l’anno scorso ci ha lasciato.
Come ben la definisce Francesco Ramberti, la didattica di Provinciali fu “…un antidoto, somministrato in anticipo contro
l’aggressività e la banalità del mercato delle immagini e la loro
monotona ripetizione ad opera delle tecnologie. E un monito a
chi vuol fare questo mestiere. Soprattutto oggi.”
Ed è con la speranza che il volume, oltre che essere un doveroso
omaggio a un grande maestro, sia letto con interesse dai giovani grafici, che ringrazio Bruno Bandini, Francesco Ramberti e
Antonio Motolese per aver contribuito, con impegno e professionalità a concretizzare l’idea nata durante la mostra “Michele
Provinciali: senza perdere la tenerezza”, tenuta all’isia di Urbino
nell’estate del 2005.
Franco Mariani
Oggetto grafico, 1965.
ouverture
Michele “bambino pierrot”, 1926.
Oggetto Grafico Lunare, 2005.
10
Dipinto. Lampione di un landò,
Tempietto Dorico sulla riva adriatica, 1938.
Foto ritratto di Michele.
Disegno a china degli amici L. Bocchi e M. Colombi Guidotti, 1939.
11
12
12-13. Tre dipinti materici, 1949.
13
14
Collages realizzati durante il corso di Hugo Weber,
Chicago 1951-1952.
Foto autoritratto di Michele, Chicago.
Nucleo urbano “Loop”, Chicago 1951-1952.
15
16
16-17. Oggetto grafico e dipinto a china su carta,
Chicago 1952.
17
18
Oggetto grafico, Chicago 1952.
Dipinto a china su carta, Chicago 1952.
19
20
Dipinto a china su carta, Chicago 1952.
Foto di ringhiera, Chicago 1952.
21
Ogni lettura è un fraintendimento. Eppure il malinteso non è
affatto inutile. Più che difetto della comunicazione, direi che abbiamo a che fare con un tentativo di dare ordine ai “fatti” che
sovente si scontra con due circostanze alquanto infide: il sistema
delle apparenze (che, per definizione, ingannano) e il sistema dei
desideri (vorremmo che le cose stessero come ce le aspettiamo).
È dunque il linguaggio lo strumento del malinteso, per la sua
caoticità, per la polisemia delle singole parole, per la sua ineliminabile ambiguità.
Se questo è vero per ogni lettura, figuriamoci per un titolo capace
di restituire nella massima condensazione il senso del labirinto
di una ricerca che si dispiega da ben oltre mezzo secolo, come
accade per Michele Provinciali.
Dopo aver riflettuto, ritengo che l’idea del «décor del caravanserraglio» fosse, con alcune precisazioni, il titolo più sensato. Sempre secondo la mia lettura, il mio fraintendimento.
I due termini, “decoro” e “caravanserraglio”, sottendono – di solito in modo del tutto ingiustificato – una valutazione negativa,
come se “decoro” fosse sinonimo di superficialità, patina, mera
abilità combinatoria che mortifica il talento. E “caravanserraglio”
inducesse a pensare alla confusione, alla casualità, all’insicurezza
del disordine.
Le parole registrano una declinazione culturale, storica e retorica,
non sempre felice, per quanto giustificata essa sia. Ragion per cui
vorrei chiarire immediatamente che per caravanserraglio intendo
etimologicamente quel luogo nel quale si concede ospitalità, ristoro e riparo, agli uomini e ai mezzi di trasporto – un tempo cavalli e cammelli – durante i lunghi spostamenti verso un Oriente
22
Immagini dell’Iran nelle spedizioni avvenute nel 1968-1972.
23
più o meno lontano. Un poco come l’ “ospitale” per i pellegrini,
il caravanserraglio svolge una funzione analoga per i viandanti.
Ma, come ci ha insegnato Friedrich Nietzsche, la distanza fra il
viandante e il pellegrino è a dir poco notevole.
L’idea insidiosa di decorazione, d’altra parte, fa riferimento alla
messa in atto di quei dispositivi ottici – tanto cari a Claude Monet e a Henri Matisse, ma anche a Piet Mondrian e a Robert
Delaunay, a Kazimir Malevič e a una frangia non marginale del
costruttivismo russo, così come a quello straordinario pittore di
impervie astrazioni liriche che è Osvaldo Licini – capaci di focalizzare la visione e la figura. Il décor altro non è se non ciò che
dispone un luogo ad uno sguardo, per uno sguardo.
Sono persuaso che questa coppia concettuale disegni l’arco dell’attenzione che Michele Provinciali, grafico, designer e insegnante, ha manifestato nei confronti della memoria e della visione, del
viaggio e del senso dell’ordine, del gioco e del progetto.
1. La grande
metamorfosi
«Le parallele esistono dopo, non prima del postulato di Euclide»
Gaston Bachelard
Una premessa di ordine storico-culturale ritengo si renda inevitabile per delineare lo spazio in cui si dispiega la metodologia
della progettazione di Michele Provinciali. Questa infatti prende
corpo nel momento in cui, all’indomani della Seconda Guerra
Mondiale, si gettano le basi di un nuovo modo di intendere il
concetto di “artisticità”, di “creatività”, di “artefatto” visivo.
Che cosa sta accadendo? L’universo delle estetiche contempora-
24
nee – una volta dissolti gli ordini della composizione e dell’immagine con le prime avanguardie, una volta riconosciuta la convenzionalità delle norme che vincolano un segno ad un significato
con le esperienze decisive del dadaismo e del costruttivismo nelle
loro molteplici declinazioni – pare disporsi all’incontro con due
originali modi di pensiero, con due paradigmi delle riflessione
che condizioneranno sensibilmente la “cultura del progetto”: la
fenomenologia e la nuova filosofia della scienza.
La fenomenologia, da Edmund Husserl a Martin Heidegger, fino
alla pratiche decostruttive di Jacques Derrida e di Jean-Luc Nancy,
ci invita a non assolutizzare il “campo” artistico: l’oggetto artistico è un atto, un evento che diviene tale in virtù del “riempimento
intenzionale” che lo dota di senso. Le differenti determinazioni
funzionali – anche quelle che si rivolgono alla comunicazione e ai
suoi processi – fanno parte di questo “riempimento”.
La nuova filosofia della scienza, da Otto Neurath a Rudolf Carnap, da Ludwig Wittgenstein a Gaston Bachelard a Karl Popper,
ci informa che un “fatto” esiste solo se è inserito in un sistema
di osservazione in grado di rilevarlo. Il problema, allora, non è
tanto quello di “descrivere”, quanto piuttosto quello di costruire strutture che mi permettano di rilevare i fatti nel modo più
determinato. Come dire – e questo ritengo continui ad essere
metodologicamente utile per quanti “progettano”: un problema
(oggetto, atto, opera) e le sue ipotetiche soluzioni non sono mai
indipendenti dai vincoli che essi contraggono con il sistema di
riferimento all’interno del quale acquistano senso.
Se dopo la Grande Guerra la risposta era stata il razionalismo, la
fiducia nelle possibilità di coniugare civiltà e civilizzazione, cultu-
25
ra e progresso, arte e tecnica, ora i termini del problema appaiono
molto più complicati e Michele Provinciali rientra nello stuolo
di quanti si sono venuti formando nel campo di tensione che si
dispiega tra esistenzialismo francese e pragmatismo americano se
si vuole, tra “informale” ed “action painting”, tra richiami alle radici e alle ragioni dell’esperienza e ricerca di nuovi nessi armonici
e funzionali tra i prodotti dell’esperienza.
Credo che questa tensione si manifesti in modo piuttosto netto
nella primitiva produzione visiva di Provinciali, come le chine su
tela e su gesso realizzate nella seconda metà degli anni Quaranta,
in quella Urbino dove si è recato per laurearsi in Lettere: opere di
seducente lirismo, nelle quali la lezione di Paul Klee sembra confrontarsi con le pratiche visionarie di un certo surrealismo, con le
varianti del clima astrattista in cui “costruzione” dell’immagine e
vaghezza paiono convivere.
La cultura italiana d’altro canto sta vivendo la sua grande metamorfosi: nel cinema, nella letteratura, nelle arti visive, nell’architettura. Rientra dagli usa Lionello Venturi e la nostra percezione
di quanto accade nelle arti dall’altra parte dell’oceano prende a
chiarirsi. Giulio Carlo Argan inaugura una nuova riflessione sull’arte francese post-impressionista. Enrico Prampolini inaugura a
Roma l’ “Art Club” dove la “linea astratta” potrà dispiegare le proprie potenzialità. A Milano viene fondato il mac, il Movimento
Arte Concreta, di Bruno Munari, Gianni Monnet, Gillo Dorfles,
Atanasio Soldati, dove convivono il concretismo dell’astrazione
geometrica di Piet Mondrian, Theo Van Doesburg, Luigi Veronesi, Manlio Rho, Luigi Radice, Mauro Reggiani, Max Bill,
impronte organiche, tardo-futuriste, lirico-oniriche, ma, soprat-
26
Pieghevole dell’Institute of Design di Chicago, 1951.
27
tutto, attenzioni originali nei confronti della grafica, dell’idea di
“multiplo”, di “serialità”. Non è un caso che al mac si avvicini
verso il 1952/53 lo stesso Provinciali. Lucio Fontana diffonde i
manifesti sullo “Spazialismo” per la ricerca di una forma e di una
spazialità artistica adeguate alle nuove conquiste della scienza e
della tecnologia. Decisamente meno ottimista l’approccio alle
relazioni tra arti e scienza – tra l’ironico e l’ambiguità surreale
– dell’ “Arte nucleare” di Enrico Baj, Sergio Dangelo e Joe Cesare
Colombo. La ricerca della forma acquista connotati orfico-intimisti nel gruppo “Origine” di Alberto Burri, Mario Ballocco e
Giuseppe Capogrossi, nello sforzo di liberare l’arte dal dominio
dell’esigenza espressiva e comunicativa. Decisamente più “politici” nella “Forma 1” di Piero Dorazio, Carla Accardi, Pietro Consagra, Giulio Turcato e Antonio Sanfilippo.
Alla Biennale veneziana del 1948 sono allestiti i padiglioni di Wassilij Kandinskij, Paul Klee, Alberto Magnelli. E Peggy Guggenheim,
nello stesso anno, mostra la propria collezione, dove spiccano le
opere fino ad allora sconosciute di Jackson Pollock e di Willem de
Kooning, di Arshile Gorky e di Robert Motherwell.
Si tratta di una sorta di anti-ideologica implosione delle forme e
dei materiali che si accompagna ad una rinata attenzione nei confronti delle leggi della visività, ma anche di ciò che appare come
frammentario, occasionale, soggettivo. Composizione delle forme ed esistenza, spazio e gesto, oggetto e segno, sono solo alcune
delle coppie concettuali attorno alle quali si agita la ricerca visiva
italiana tra fine della guerra e primissimi anni Cinquanta.
L’Italia si renderà nota in modo particolare grazie al cinema, a
quella stagione “neorealista” dei Luchino Visconti, Roberto Ros-
28
sellini, Vittorio de Sica; tuttavia sarebbe un errore imperdonabile
dimenticare come in quegli anni – sovente a diretto contatto con
le nuove esperienze artistiche – la “cultura del progetto” italiana
si stia ridefinendo.
Dopo le esperienze di «Campo Grafico» di Carlo Dardi e Attilio
Rossi, fucina di straordinarie sperimentazioni tecniche e compositive, dopo «Casabella» di Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico,
attenta alla cultura razionalista sia in campo tipografico che architettonico, grazie alla vivacità dello Studio Boggeri, per il quale
progettano Erberto Carboni e Marcello Nizzoli, Luigi Veronesi
e Bruno Munari, Max Huber e Xanti Schawinsky, Albe Steiner e
Carlo Vivarelli, Giovanni Pintori e Remo Muratore, si pongono
le basi per la costituzione di un’area specifica della progettazione
grafica, professionalmente definita e autonoma rispetto al multiverso della progettazione industriale. Nuove vesti pubblicitarie
del prodotto, interesse per la relazione tra grafica e comunicazione, segno visivo e segno verbale, studio del marchio e dell’immagine coordinata dell’azienda: sono momenti che sembrano
intersecarsi in modo inscindibile, delineando un progetto della
comunicazione visiva di massa capace di veicolare nuovi valori,
informazioni, comportamenti. E lo stesso accade nel campo della
progettazione industriale: basti pensare gli oggetti “disegnati” da
Gio Ponti e Vico Magistretti, da Carlo Mollino e Ettore Sottsass,
da Achille e Pier Giacomo Castiglioni, da Bruno Munari e Roberto Sambonet, da Franco Albini e Luciano Baldessari.
Tutto questo è in atto, quando Michele Provinciali, grazie ad una
borsa di studio Fullbright su segnazione di Giulio Carlo Argan,
Lionello Venturi e Walter Gropius, arriva a Chicago. È il 1951.
29
2. Scenografie
«Mi sono divertito a introdurre l’idea di felice e infelice nei ready-made»
Marcel Duchamp
Duchamp sta commentando una delle “trappole visive” più
singolari e controverse: il dono inviato alla sorella Suzanne in
occasione delle sue nozze con Jean Crotti nel 1919. Un vecchio
compendio di geometria che doveva essere appeso al balcone del
loro appartamento: il vento avrebbe dovuto consultare quel libro,
scegliere da sé i problemi, sfogliare le pagine, strapparle. Un’operazione concettuale “infelice”, capace di prevedere il modo – anche se non il tempo esatto – della propria fine. Quel ready-made
non esiste più: il tempo, con le sue variabili atmosferiche, lo ha
distrutto.
A quest’attenzione nei confronti del tempo, della sua relazione
con il caso, nei confronti dell’immagine e del suo legame – ambiguo e insondabile – con la memoria, non è immune Michele
Provinciali, fin dagli anni del suo ingresso all’Institute of Design
di Chicago fondato da Lázló Moholy-Nagy.
Moholy-Nagy è ormai scomparso da qualche anno, ma non per
questo il peso della cultura europea nelle grandi istituzioni americane è venuto meno.
Le premesse dell’espressionismo astratto sono già poste: Robert
Motherwell, dopo le prime esperienze surrealiste, fonda a New
York, assieme a Mark Rothko, Barnett Newman e William Baziotes, “Studio 35”, fucina dell’espressionismo astratto. Jackson
Pollock, anche lui non immune da influenze surrealiste, ma
profondo ammiratore della composizione spaziale di Mondrian,
30
sperimenta il dripping. Tengono le prime personali Ad Reihardt,
Franz Kline e Willem de Kooning.
Ma è la cultura che proviene dalla vecchia Europa a disegnare la
mappa di un dna creativo che permetterà alla cultura americana
di eccellere nella seconda metà del Novecento. Marcel Duchamp
è indubbiamente un tramite d’eccezione negli anni Venti e Trenta, ma la diaspora europea è infinitamente più complessa.
Salvador Dalì fa conoscere gli esiti della poetica surrealista. Nel
1940, a New York, approda Piet Mondrian, con la sua capacità
di modulare lo spazio visivo che impressionerà Jackson Pollock.
Raymond Loewy sembra ridisegnare i canoni della comunicazione pubblicitaria all’interno di una società in cui i consumi
tendono ad espandersi a dismisura.
Eppure, in modo tutt’altro che sotterraneo, è il Bauhaus a suggerire i percorsi possibili di una nuova ricerca.
Walter Gropius e Marcel Breuer insegnano ad Harvard. Josef
Albers approda al Black Mountain College, in North Carolina.
Moholy-Nagy, come detto, a Chicaco, dove fonda il “New
Bauhaus”, poi trasformato in Istituto per il Design. Ludwig
Mies van der Rohe, sempre a Chicago, è direttore dell’Armour
Institute. Xanti Schawinsky, dopo una prima esperienza al Black
Mountain College, approda al “New Bauhaus”.
A Chicago inoltre – e la cosa a mio avviso è tutt’altro che secondaria – opera dal 1938 la International Encyclopedia of Unified Science, diretta da Otto Neurath, Rudolf Carnap e Charles Morris: una
sorta di ideale confluenza di empirismo logico, teoria del linguaggio e semiotica, ma anche un’ipotesi teorica che per molti versi
sembra anticipare la teoria della complessità oggi tanto in voga.
31
La Chicago di Michele Provinciali, nel biennio 1951/52, risulta
essere un evento cruciale per la formazione della sua metodologia
progettuale. Matura il suo interesse per la “forma progettata”, per
il design, sia nelle forme oggettuali, sia in quelle specificamente
grafiche. Ha modo di conoscere una rivoluzionaria sperimentazione fotografica che al “New Bauhaus” ha un esponente di rilievo in Harry Callahan, i cui studi sulla luce e sulla distorsione
focale – capaci di coniugare formalismo modernista e emozione
nei confronti dei dati del quotidiano – produrranno i leggendari
scatti sull’architettura di Chicago molto apprezzati da Mies van
der Rohe. Callahan è uno dei collaboratori più stretti di quella
singolare figura di pittore-educatore che è Hugo Weber, i cui corsi sono frequentati da Provinciali. Weber viene dalla geometria
analitica di Sophie Taeubner-Arp, ma anche dalla “scrittura automatica” di derivazione surrealista. Arriva a Chicago nel 1946: le
sue serie di figure energetiche votate al movimento lo inducono
a sperimentare l’ipotesi del generarsi della linea a partire da un
movimento spontaneo. Segni calligrafici o figure formano composizioni ritmiche che spesso sono utilizzati all’interno di vere
e proprie “installazioni ambientali”. Un po’ quello che sarebbe
accaduto a Provinciali, invitato da Weber a “ritrovare” la propria
gestualità, il proprio segno, giocando ad hockey sul tetto della
scuola con un’asta alla cui estremità stava un gessetto. Decisione,
precisione e leggerezza nel giocare la propria partita.
Chicago è questa situazione e questo stimolo: da una parte, la
possibilità di immaginare un gesto, un segno, come qualche cosa
che si svincola – per quanto è possibile – dal controllo razionale,
che si dà come pura spontaneità, come scelta non condizionata.
32
Pagina pubblicitaria per Editoriale Domus,
Milano, anni ‘50.
33
Dall’altra, il riconoscimento di questa modalità d’accesso al fenomeno creativo, non significa affatto abdicazione nei confronti
della realtà che ci circonda, ma piuttosto sforzo per riarticolarne
i profili, quelli che dagli anni Venti definiamo “configurazioni”,
Gestaltungen. C’è Hugo Weber, ma si riconosce altresì che il procedimento che ci conduce alla creatività, per quanto distante possa essere da quello delle scienze, deve dotarsi – come vogliono sia
Moholy-Nagy, sia Josef Albers – di una propria scientificità, di
una propria metodologia.
Come dire: l’ipotesi su cui si fondava il movimento modernista,
l’utopia di rendere visibile e operante un principio di razionalità
accettato da ognuno per la sua irrevocabilità, deve essere corretta.
Ci sono altri elementi storici e culturali che devono essere presi
in considerazione: le strategie della progettazione non possono
essere sempre e comunque le stesse.
E per Michele Provinciali questo clima risulta il più idoneo a
coniugare la convinzione che i nostri artefatti non si diano ormai
più come “rappresentazione” di qualche cosa, ma piuttosto come
eventi autonomi, segnati dal tempo, carichi di durata, impregnati di memoria, e necessità di conferire ordine, metodo, alla loro
“vita culturale”, al loro divenire in quanto “progetto”.
Si tratta, in fondo, di far convivere alcune convinzioni che in
Provinciali sono ormai maturate. Per un verso, la centralità del
linguaggio, la relazione tra parola e lettura e tra parola e immagine, il darsi del linguaggio come artificio capace di produrre significati, come strumento del ricordo, del “restituire alle ragioni del
cuore” emozioni che paiono sopite; per l’altro, l’attenzione per
la cultura come fatto che mi permette di indagare il “circostante”
34
– come Provinciali ama sottolineare – vale a dire quell’insieme
di accadimenti che ci circondano, che spesso appaiono insignificanti e non degni di essere memorati, ma nei quali in ogni caso
si cela la verità. In fondo, quel che occorre è fare in modo che la
logica in apparenza cristallina del Palazzo Ducale di Urbino non
confligga con la scenografia hollywoodiana dell’America, con il
suo dinamismo on the road, alla Jack Kerouac, con il ritmo sincopato di un jazz che si viene progressivamente raffreddando.
Detto in altre parole: progettare ha a che fare con il luogo e con
l’altrove, con la luce e con il buio, con la ragione e con il sentimento. Un poco come accadeva nella natia Parma, dove la realtà,
il tratto diurno, conviveva sempre con il rifugio intimo, denso di
ricordi, di memoria. Fosse essa la sala cinematografica o il retro
della pasticceria paterna.
35
3. Immagini e tempo
«Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che anche lui era una
parvenza, che un altro stava sognandolo»
Jorge Luis Borges
Michele Provinciali “grafico”, quanto meno da un punto di vista
metodologico, è profondamente legato al biennio di Chicago. Al
rientro in Italia si tratta di avere l’opportunità di mettere in pratica quel bagaglio di conoscenze. Opportunità che arrivano subito
a definire la doppia matrice della sua attività progettuale: da una
parte l’insegnamento, dall’altro il rapporto con l’industria.
Nel 1954 Provinciali viene chiamato ad insegnare all’Umanitaria
di Milano, dove coordina il Corso di Fotografia. «Iniziai il corso con l’esercizio dei fotogrammi – scrive lo stesso Provinciali
– durante il quale gli allievi componevano sulla carta fotosensibile pezzi di plastica, frammenti di vetro, piccoli oggetti d’uso
quotidiano. La casualità compositiva, mirata al rapido processo
dell’immagine ottenuta con fiotti di luci e successivo sviluppo, rivelava una costante tendenza a comporre o sul centro della carta
o su insiemi simmetrici o sulla distribuzione ordinata di pieni e
di vuoti». La poetica di Provinciali è tutta compresa nella pratica
del suo insegnamento. Sceglie il fotogramma, uno degli strumenti
di lavoro preferiti da Moholy-Nagy, ma ne stravolge l’assunto costruttivo. La stessa opportunità di “comporre” ricorrendo ai “resti”
del quotidiano, quindi ad una materia consumata e abbandonata
dal tempo, caricano la pratica progettuale di un’attenzione decisamente insolita nei confronti dell’evento fortuito che tuttavia è
in grado di “raccontare” molte cose sul modo di vedere lo spazio
da parte degli studenti. La composizione è decisiva nella creazione
36
Bassoli Clichés Fotomaster, “medagliere 1959”.
37
dell’immagine, ma non deve essere schiava degli stereotipi attraverso i quali ordiniamo lo spazio. Lo spazio nasce e si definisce
sulla scorta delle operazioni che noi conduciamo; non si dà in
astratto. I “vuoti” sono importanti quanto i “pieni”; ogni gesto
che si manifesta tende ad escludere, produce separazioni, esclusioni, che sono significative quanto il segno che le ha generate.
Sono questi gli anni in cui Provinciali è vicino al mac di Munari e Dorfles, in cui elabora alcune memorabili copertine per «Il
Verri» di Luciano Anceschi, ma, soprattutto, sono gli anni in cui
la sua ricerca visiva lo porta ad elaborare tavole in cui ad venire
collezionato pare proprio essere il tempo.
Un’affezione per l’epica del quotidiano che non abbandonerà più
Provinciali. Oggetti d’uso, oggetti che paiono rifiutati dalla storia
se non come testimonianza di un trascorso che li ha – per un attimo – umanizzati, che diventano immagine grafica, segni della
composizione e, contemporaneamente, memoria.
Dall’altro lato, nel 1954, prende il via l’attività professionale di
Provinciali come “direttore artistico” per alcune tra le più importanti aziende italiane e internazionali. E in questa esperienza, il
richiamo all’ambiguità del tempo, al suo carattere vertiginoso e
alla sua finzione, emergono con altrettanta forza. Non è un caso
che Provinciali vinca il Compasso d’oro, in collaborazione con
Gino Valle, per la progettazione di un orologio, Cifra 5.
Un sistema di misurazione del tempo assolutamente astratto, che
rinuncia alla spazializzazione classica del quadrante, che elimina
ogni indicazione che non sia la pura cifra che lo scandisce, il
segno grafico del numero che si somma: non sono conosciuti il
giorno e la data, solo i numeri che moltiplicano le ore.
38
Dopo aver curato la parte grafica e ordinato l’impianto espositivo
della sezione sul disegno industriale per la X Triennale di Milano
– occasione che gli procura ampi riconoscimenti internazionali,
la collaborazione di Provinciali con l’industria si fa più serrata:
Kartell, Zanotta, Cassina, Snaidero, Pirelli, Arflex, Gavina, rai,
Banca d’Italia, Vogue, John Player’s, Benson & Edges.
Altrettanto decisiva la sua frequentazione con le riviste, da «Domus» ad «Abitare» per cui progetta pagine e copertine, ad «Edilizia Moderna» diretta da Vittorio Gregotti, per la quale elabora
un nuovo sistema di impaginazione; e con gli architetti-designer
Vico Magistretti, Gio Ponti, Valerio Morpurgo, e, soprattutto, i
fratelli Castiglioni.
Ma è probabilmente «Imago», la rivista ideata e impaginata per la
ditta Bassoli, l’evento nel quale l’idea dell’ “oggetto grafico” riesce
a trovare quell’equilibrio sconcertante tra ricerca visiva, impaginazione, scelta del carattere e dei materiali, tale da fare una
sorta di manifesto per la progettazione grafica che si affaccia agli
anni Sessanta. L’oggetto grafico è una singolare operazione di selezione, catalogazione, composizione e impaginazione dei relitti
della memoria, dei detriti del tempo – sulla cui matrice duchampiana si potrebbe inevitabilmente disquisire – che in Provinciali
diventerà cifra innanzi tutto poetica e successivamente stilistica.
Il “medagliere” dei clichés della ditta Bassoli, dove ogni aspetto
celebrativo sembra smobilitare di fronte ad un’ironia feroce, è un
esempio cardinale. Come lo saranno i tappi di champagne, che
festeggiano l’uscita del secondo numero della rivista, il biglietto
ferroviario utilizzato, la scarpa da cerimonia: veicoli visivi che
si ripresenteranno nell’investigazione matura di Provinciali, che
39
potrebbe coincidere con i suoi anni di insegnamento all’isia di
Urbino. Le serie sui gessetti colorati, le saponette, i puntapanni
di legno, e, commoventi, i bastoncini per il gelato, costituiscono
altrettanti momenti di questa ansia di “collezionare” i detriti della
storia direttamente vissuta dagli uomini. Segni sui quali ognuno,
e in modo del tutto anonimo, ha lasciato una traccia indelebile,
unica, identitaria, eppure ignota. Il “collezionista”, il grafico, restituisce ad una dignità quasi etica quel lacerto di memoria, quel
brano vivo, concreto, che l’attività dell’uomo ha attraversato.
Detto in una battuta, al fondo del concetto dell’oggetto grafico,
di questo singolare ready-made rettificato compositivamente, agisce un’ironia che non è mai fine a se stessa, che non indulge mai
al sarcasmo, per lasciar emergere un fondamento umanistico dal
sapore forse un poco amaro. Ipotizzo che, all’interno di questo
intrico di elementi retorico-visivi, si faccia sentire la frequentazione di Provinciali con gli ambienti letterari cui si è sentito maggiormente legato: da Carlo Bo a Mario Luzi, da Oreste Macrì ad
Attilio Bertolucci. Senza dimenticare la passione di Provinciali
per il cinema, che lo condurrà ad una collaborazione stretta con
Michelangelo Antonioni.
Un po’ come se i “testimoni oculisti” del Grande Vetro di Marcel
Duchamp fossero diventati “collezionisti” delle immagini sulle
quali si esercitano le pulsioni di vita, dei desideri e delle emozioni, che pervadono la vita nella sua concreta manifestazione.
40
Foto realizzata al Corso di Fotografia
all’Umanitaria, 1955.
41
4. Memoria
«Le caratteristiche di Tabriz sono un panorama di monti dai colori sfarzosi, cui
si accede da un tratto pedemontano color limone; un vino bianco bevibile e
una birra schifosa; parecchie miglia di superbi bazar dalle volte in mattoni…
Ci sono due monumenti: le rovine della famosa moschea azzurra, rivestita di
mosaici del XV secolo; e l’Arca, o Cittadella, una montagna di piccoli mattoni
color ruggine posati con arte consumata»
Robert Byron
Certo, niente a che vedere con la bellezza di Isfahan, che “si infila
nella mente inavvertitamente”, rendendo indelebile il tesoro della
sua immagine. Eppure a Provinciali il caos multicolore dei bazar di
Tabriz deve essere parso comunque degno di nota: uno di quei luoghi dove è possibile “trovare” molte cose. Come la “premessa” per
quel candeliere che magicamente moltiplica le immagini dell’unica
sorgente di luce progettato assieme a Riccardo Arbizzoni nel 1973.
A Milano, nel corso degli anni Sessanta, l’attività di Provinciali, la
sua personale poetica incardinata sull’ “oggetto grafico”, sulle procedure compositive cui esso da luogo, sui sapienti accostamenti di iconografie popolari e colte, tradizionali e moderne, di segno e immagine fotografica, sembra essere ormai compiutamente consolidata.
Al punto che, con Ilio Negri, Pino Tovaglia e Giulio Confalonieri,
verso la metà del decennio, Provinciali dà vita ad uno studio che
– primo in Italia – affronta il nodo della corporate image, di quel
continuum progettuale che sostanzia la comunicazione aziendale.
Eppure, «mi congedavo dalla grafica nel 1968, per compiere lunghi viaggi in Persia. In quegli spazi trasparenti e remoti – scrive
Provinciali nel 1986 – avrei ritrovato il sentimento della mia prima
formazione umanistica». E su queste affermazioni i commenti de-
42
vono necessariamente essere pochi e sommessi. Provinciali “stacca
la spina”. Non tanto con la ricerca visiva, anzi; quanto piuttosto
con un modo di pensare la progettazione grafica che non riesce più
a trattenere legami profondi con l’umanesimo che comunque deve
sostenerla.
La Persia – o in ogni caso l’idea del viaggio, visto come transito capace di dilatarsi e di reiterarsi – appare come il luogo dove il senso
del lavoro e della ricerca possono essere corroborati. Non so quanto
di spleen nei confronti delle mitologie indoeuropee ci sia nella scelta iranica. Due ipotesi mi paiono sensate: Provinciali è un lettore
acuto e conosce Robert Byron e i resoconti dei suoi viaggi che sono
pubblicati – nell’edizione originale in inglese – nel 1937. La Persia,
fin dai tempi di Alessandro Magno, è un laboratorio di sincretismi
culturali impressionante, che ha dato origine ad una delle tradizioni letterarie e iconografiche più raffinate, dove convivono, assieme
alle culture araba e turca, tradizioni antichissime. Ma è soprattutto
il solo luogo conquistato alla religione islamica che non rinunci a
confrontarsi con i temi della rappresentazione della realtà umana e
naturale. Come dire: non solo la calligrafia come veicolo per rappresentare il mondo inneggiando Dio – come accade in tutta la
tradizione araba – ma anche possibilità di nominare il corpo e di
esibire la sua figurazione. È, ancora, un luogo in cui elementi decorativi e vita quotidiana sembrano aver trovato un equilibrio che si è
culturalmente consolidato, come testimoniano le ceramiche d’uso,
gli oggetti in rame sbalzato, e, soprattutto, i tappeti, così cari a Provinciali.
Siamo alla fine degli anni Sessanta, età di rinascite e di rivoluzioni,
età in cui la modernità sembra collassare per presentare un ventaglio
43
linguistico estremamente variegato. Certo è che per l’intero universo della ricerca visiva si tratta di riprogettare l’esistente. Nel tempo
della “crisi dell’oggetto artistico”, c’è chi cerca di raggiungere questo
obiettivo attraverso una sorta di identificazione con i linguaggi di
massa, rappresentando senza mediazioni l’immagine proposta dalla
società dei consumi fino al punto irreversibile di modificare l’assetto e il senso stesso dell’immagine, fino a farci entrare in quella
che è stata definita “società dei simulacri”. La Pop Art costituisce
probabilmente il momento di massima contestazione del gusto
per il sublime che era emerso con l’espressionismo astratto, proponendo al centro del problema “arte visiva” il quotidiano, il banale,
l’interesse per l’universo urbano, l’oggetto domestico. Come se i
suoi processi di identificazione, ripetizione e simulazione fossero in
grado di fornire a chi osserva gli strumenti idonei a comprendere
lo stesso meccanismo di funzionamento dell’immagine. In fondo,
come ha scritto Jean Baudrillard, «non c’è più ideologia, ci sono
soltanto immagini», anonime, indifferenti, scelleratamente seduttive. È la riflessione visiva che è alla base dei lavori “new dada” di
Robert Rauschenberg e di Jasper Jones, ma soprattutto della poetica dell’Independent Group londinese di Richard Hamilton, David
Hockney, Peter Blake, Ronald Kitaj, cui si avvicinano anche architetti come James Sterling. Riflessione che approderà in seguito nelle
opere di Andy Warhol, Jim Dine, Roy Lichtenstein, nella grafica
di Saul Bass, di Milton Glaser, di Seymour Chwast, ma anche in
quella del Paul Rand che, nel 1965, scrive il fondamentale saggio
sulla comunicazione Design and Play Instinct, nella composizione
tipografica dell’Herbert Lubalin della rivista «U&lc».
Ma c’è altresì chi è convinto che la nostra sensibilità possa essere
44
ripristinata pensando ad un’arte senza residui, de-materializzata, ad
un’arte, che mira a rendere visibili i pensieri, indifferente ai processi
compositivi della “buona forma”. È l’esito delle varie forme dell’esperienza concettuale, anticipata in Europa da artisti come Yves
Klein e come Piero Manzoni, ma che ha il proprio padre putativo
in Marcel Duchamp. Una ricerca che reagisce ai vincoli convenzionali del “fare arte” e all’ironia troppo ammiccante e ormai poco
seduttiva dell’ondata “pop”. E il riferimento in questo caso va al
minimalismo di Carl Andre, Sol Le Witt, Robert Morris, Donald
Judd, alle ricerche visivo-linguistiche di Dan Flavin, di Joseph Kossuth, di Bruce Nauman e di Lawrence Weiner, alla “poesia visiva”,
all’arte programmata.
Gli insegnamenti della “Neue Grafik” di Joseph Müller-Brockmann, votati alla gerarchia del significato, all’oggettività grafica che vuole sfuggire ad ogni interferenza decorativa, ma anche
le immagini create da AG Fronzoni e da Franco Grignani, così
come la produzione del Pentagram Studio di Alan Fletcher, Robert Gill e Colin Forbes, i pittogrammi di Olt Aicher, la tipografia di Wim Crouwel e di Adrian Frutiger, sono ascrivibili a questa
costellazione concettuale.
Nell’era della crisi della modernità, la coppia che oppone il “cinismo”
pop al “moralismo” concettuale, le pratiche seduttive agli ordini informativi, non appare che un aggiornamento della vecchia contrapposizione razionalista tra “virtù” e “furore”, “controllo” e “passione”,
“regola” ed “emozione”. Michele Provinciali a questa forbice vuole
sottrarsi e per questo ci comunica il suo “congedo” dalla grafica,
datandolo proprio al 1968, anno in cui si comincia a mettere in
discussione il principio di autorità in ogni ganglio della “microfisica
45
del potere”, dagli ordini sociali alla famiglia, dall’ideologia al sapere
e alla sua trasmissione. Non cessa la sua attività di grafico, ma indubbiamente essa cambia registro. Prende tempo. Osserva il “circostante” e le cose che lo rendono vivo e che lo umanizzano. Rallenta.
Come se ormai risultasse chiaro che il tempo non va frustato come
un cavallo riottoso: ma rallentato, sfibrato, ingannato, perché solo
un tempo rallentato può essere assaporato con tutti i sensi. Il tempo
– ce lo ricorda Jorge Luis Borges a più riprese – è una finzione, una
finzione infida e sottile, che tuttavia noi possiamo manipolare.
La stagione grafica che si apre con gli anni Settanta e che si prolunga
fino ai giorni nostri, quella dei viaggi in Persia, della scelta di vivere
a Novilara e dell’insegnamento all’isia di Urbino è connotata da
questa capacità di smarcarsi rispetto alle classificazioni fin troppo
facili nel loro schematismo.
Il “corso propedeutico” che Provinciali istituisce all’isia di Urbino è
spietatamente il risultato di una complicata matassa di luoghi, immagini, figure, di commozioni e di emozioni che si sedimentano
e che sembrano avvertirci del fatto che la ricchezza dell’esperienza,
la sua pluralità, è la sola garanzia per la ricerca progettuale. Il progetto non cresce su se stesso, ma in relazione alla nostra capacità di
sondare in profondità il mondo che ci circonda. La “responsabilità”
del grafico risiede nella sua capacità di non confondere i mezzi con
i fini, di non compiacersi di fronte a un incalzare della tecnologia
(sia questa la fotocopiatrice, il fax, letraset, il computer) che – essa sì
– persegue solo il proprio “bene”, il proprio compimento.
Solo un radicale coinvolgimento emotivo rende possibile la gestione equilibrata di un progetto, evitando da un lato il tecnicismo esasperato e dall’altro l’arida astrazione intellettuale, e questa “emozio-
ne” è ripristinabile avventurandosi «in quel vasto territorio – come
ha recentemente osservato Francesco Ramberti – che divide le idee
dalle forme visibili. Operando in questo spazio si scopre che spesso
le idee migliori non sono frutto di un’indagine sistematica, lineare,
né d’altra parte l’intuizione è sufficiente da sola a orientarsi». Come
dire: rigore, abilità e, se ne disponiamo, talento, non possono che
cooperare, dialogare, perché “generare figure è come inventare parole”, ma le parole sono ricche di senso quanto più intense, articolate, sorprendenti, sono le loro relazioni con le “cose”. Per questo
nell’approccio alla progettazione stupore e gioco svolgono una funzione cardinale.
Il “corso propedeutico” di Provinciali è una sorta di evento, qualche
cosa che accade e che nel suo svolgersi tende a modificare e a chiarire la nostra percezione delle forme della visività un po’ come accade
negli happening che nascono in America negli anni Cinquanta e dei
quali le sperimentazioni di Hugo Weber a Chicago costituiscono
un plausibile anticipo. Un evento nel quale Provinciali lascia convivere senza eccessive tensioni lo spirito di un romantico e l’istinto
di un trovatore provenzale, per farci comprendere come la vertigine
“propedeutica” per lo smarrimento possa anche superare il piacere
per la soluzione progettuale.
Provinciali, in un certo senso, ci ha insegnato un piacere sottile e
perverso: quello del “perdersi”. «Non sapersi orientare in una città
– ha scritto Walter Benjamin – non vuol dire molto. Ma smarrirsi in
essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare». In quello smarrimento fatto di tante stupefazioni si è costretti a
ricominciare dall’inizio, senza fretta, ma con coraggio, perché non
ci sono vincoli, né regole imposte. Non ci sono alibi.
Bruno Bandini
46
47