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Anno XXXIII, n. 1
RIVISTA DI STUDI ITALIANI
Giugno 2015
CONTRIBUTI
MOMÒ FU CALASCIBETTA:
RITRATTO DELL’ARTISTA DA VAGABONDO
NINO ARRIGO
Università degli Studi di Enna Kore
Caminante no hay camino, camino se hace al andar.
(Antonio Machado)
S
iciliano per caso, come ama definirsi, Antonio Calascibetta rinasce in arte
con il nome di MoMò intorno all’anno 2000, recuperando così le sue
radici e la sua identità “mediterranea”. Un’identità complessa e per
niente monolitica che vuole l’artista “nessuno” come Ulisse, “uno, nessuno e
centomila” come il Vitangelo Moscarda pirandelliano, come i poeti “stregoni”
detentori della conoscenza della metamorfosi nella Grecia arcaica. Oppure, alla
maniera del Nietzsche che in Ecce Homo varca le colonne d’Ercole della
ragione: “tutti gli uomini della storia”.
Ed è un ritratto dell’artista quel MoMò Calascibetta che, con il suo sguardo
un po’ blasé, una paglietta in testa ed una sigaretta in bocca che non respira
(“ho smesso di fumare senza smettere di fumare”, racconta), somiglia tanto ad
un nomade, un ribelle, un adolescente mai cresciuto come tanti protagonisti
della letteratura americana. Un Ulisse contemporaneo. E il pensiero corre al
giovane Holden di Salinger, ad Huckleberry Finn, a Bartleby, lo scrivano
melvilliano che “preferisce di no”, al barone rampante di Calvino.
È attorno ad una tavola imbandita, con una famiglia religiosamente riunita,
che matura la “disobbedienza” di Cosimo Piovasco di Rondò, il personaggio
protagonista del racconto calviniano.
Un rifiuto, quello di Cosimo, che sembra evocare la “formula” con la quale
Bartleby, lo scrivano protagonista di uno dei più enigmatici racconti
melvilliani, si congeda dalla “comunità dei padri”: I would prefer not to
(preferirei di no).
Un “no” contro l’ottusa verticalità gerarchica dei ruoli, contro l’assurdo
“potere” del pater familias.
Anche MoMò sembra un “orfano”, un “eletto” della stirpe dei fratelli,
pronto a combattere la battaglia “riformista”, per una società democratica e
“orizzontale”, alla maniera del Cosimo calviniano. Cosimo incarnerà, infatti, la
curiosa figura del “rivoluzionario-riformista”. Allo stesso modo in cui
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parteciperà a imprese brigantesche (sostenendo il brigante Gian dei Brughi),
non si sottrarrà dalla vita politica attiva, sostenendo le idee repubblicane in
favore di Napoleone. Bizzarro freak (Cosimo non sembrerà mai assumere i
connotati di un uomo maturo), buffo trickster che si muove leggiadro tra le
fronde e i rami degli alberi, la sua fuga, una vera e propria scomparsa,
cominciata “strappando la tovaglia” del potere paterno, non lo vedrà tornare
sulla terra neppure da morto. Sulla tomba di famiglia lo ricorderà una scritta:
“Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì
in cielo”1.
Ahi, quanto somiglia questo costume a quello di MoMò Calascibetta! Il
ritratto dell’artista dipinto dal pittore siciliano sembra allora esprimere la
soggettività nomade descritta da Deleuze e Guattari in quella sorta di manifesto
della rivoluzione sessantottina che è L’Anti-Edipo2. L’artista, come lo scrittore,
riesce a cogliere l’ambivalenza e la paradossalità dell’esistenza: “sapevo, come
avevo saputo da bambino, di essere un personaggio strano, diverso dagli altri.
Mi sentivo predestinato all’assassinio, alla rapina in banca, alla santità, alla
clausura, all’eremitaggio. Avevo bisogno di un posto isolato dove
nascondermi”, fa dire Bukowski ad uno dei protagonisti dei suoi romanzi3.
L’artista, dunque, allo stesso modo dello “schizo rivoluzionario” preferisce
aprirsi all’ebbrezza dionisiaca, piuttosto che “chiudersi” nell’individuazione
apollinea. Eternamente in fuga dalle angustie della storia, la sua condizione è
quella del “nomade del pensiero”, che non si rassegna alla rinuncia delle infinite
possibilità dell’esistenza e, alla barbarie dei propri tempi, preferisce, obbedendo
ai propri demoni, inventare altri tempi.
È un immaginario potentemente satirico e dolcemente perverso, che oscilla
continuamente tra i poli opposti dell’innocenza e della colpa, quello di MoMò
Calascibetta. Dove atmosfere vagamente felliniane sembrano scandire,
nietzscheanamente, la morte di Dio. Svelando quell’universo secolarizzato del
disincanto che è la nostra era tardomoderna4. Un mondo mitico, popolato di
1
Cfr. I. Calvino, Il barone rampante, in Romanzi e racconti, “I Meridiani”,
Milano: Mondadori, 2003.
2
Cfr. G. Deleuze-F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia
(1972), Torino: Einaudi, 1975.
3
Cfr. C. Bukowski, Ham on Rye, Parma: Guanda, 2000.
4
Cfr. G. Vattimo, Credere di credere, Milano: Garzanti, 1996 e Dopo la
cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Milano: Garzanti 2002. Sui
rapporti tra cristianesimo, religione e secolarizzazione il dibattito filosofico e
pubblicistico è stato, negli ultimi anni, piuttosto acceso e dominato dal
confronto tra la filosofia di Vattimo e l’antropologia di Girard. Per un primo
approccio a questo dibattito rimandiamo a: R. Girard-G. Vattimo, Verità o fede
debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, a cura di P. Antonello,
Massa: Transeuropa, 2006. Si veda anche R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della
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tauromachie, dove Eros e Thanatos giocano a dadi. Dove le piazze della sua
città, Palermo, si popolano di creature bizzarre e fantasiose, unicorni e
coccodrilli, che scorrono come in un teatro barocco. Dove creature corpulente
e fameliche come nella grande abbuffata di Ferreri, sottomettono esistenze
ridotte all’essenza come nelle sculture di Giacometti, in una sarabanda
neobarocca con reminiscenze arabe, il gusto della miniatura dei bestiari
medievali e la bellezza dei mosaici bizantini. Un mondo popolato di archetipi
ma che non sfugge alla drammaticità dell’attualità. E così l’ipocrisia della
chiesa, l’ingiustizia della giustizia, l’imperialismo americano, l’ottusità del
potere, l’ingordigia del mercato (anche quello dell’arte! Sempre più pieno di
vuota e sterile provocazione), l’orrore della guerra, vengono sferzati con l’arma
pungente dell’ironia, dando vita ad opere di grande impatto visivo, ricche di
significati simbolici ed allegorici (Comiso Park) ma capaci anche di
commuovere, al riparo dalla retorica, e di trasformarsi in poesia quando
raccontano l’emarginazione e l’abbandono dei bambini vittime delle guerre,
soli tra i rifiuti del mondo, come gli orfani e i trovatelli raccontati da Dickens.
È un poeta della tardomodernità MoMò Calascibetta, dell’era in cui – come
afferma Gianni Vattimo – anche la demitizzazione si è rivelata un mito5.
“Sapere di sognare e continuare a sognare” era il motto con cui Nietzsche,
nella Gaia Scienza, scandiva il disincanto dell’era moderna. Anche MoMò
sembra accettare le sfide del mito, nell’era della demitizzazione e del
nichilismo, con brio e ironia. Il mito, d’altronde, è una forma di conoscenza e,
forse, la più potente. Quella conoscenza della metamorfosi incarnata da
Dioniso, il Dio della tragedia, dell’ambivalenza e del paradosso. E non è un
caso che lo strumento privilegiato per stuzzicare le corde dell’immaginario del
pittore siciliano sia, allora, il disegno satirico, la caricatura raffinata. E cos’è la
caricatura, se non il momento in cui Apollo è posseduto da Dioniso – e si agita,
religione. Solidarietà, carità, ironia, a cura di S. Zabala, Milano: Garzanti,
2005. Le tesi di Vattimo si rifanno alle intuizioni di Max Weber, argomentate
più recentemente da Marcel Gauchet, il quale sostiene che il cristianesimo sia
“la religione dell’uscita dalla religione”, ossia che la secolarizzazione – e quindi
il laicismo – siano sostanzialmente prodotti del cristianesimo, cfr., M. Gauchet,
Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Torino: Einaudi,
1992. Sul concetto di “disincanto del mondo” nel pensiero di Max Weber
rimandiamo a M. L. Giacobello, Pensiero e giudizio in Max Weber e Hannah
Arendt, Messina: Armando Siciliano, 2009. Di notevole interesse sono, inoltre,
le tesi espresse da Mauro Ceruti e Giuseppe Fornari in Le due paci.
Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato, Milano: Raffaello
Cortina, 2005.
5
Cfr. G. Vattimo, La società trasparente (1989), Milano: Garzanti, 2000.
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soffrendo si deforma, ora diminuendo ora ingrandendosi a dismisura ‒, ma non
ne è ancora sconfitto?
Riesce a coniugare l’aulico e il popolare il pittore siciliano, alternando la
forza della figurazione classica, con ambizione rinascimentale, ad atmosfere da
graphic novel.
E ci prende per mano accompagnandoci in una discesa ad inferum, una
catabasi senza anastasi, negli arcani labirinti dell’inconscio, con la forza
maliarda di un “divino anarca”. Una discesa nelle sentine del vizio, dove la
forza trasfiguratrice del mito e il gusto della parodia e del calembour (come in
“Lady Leda”) non riescono a cancellare la realtà dei “bordelli”, con l’odore “di
piscio e cemento” che stuzzica le narici, di una infernale Palermo.
Perché è Palermo la musa del poeta MoMò Calascibetta, una Palermo
“buttana” che sogna di essere casta e casta che sogna di essere “buttana”. La
capitale di una terra le cui contraddizioni sono tante quanto i suoi paesaggi, le
etnie, le lingue, le culture. Una terra in cui l’ombra della rivalità dei siculi e dei
sicani segna soltanto il confine di un caleidoscopio iridescente di tradizioni, riti,
miti, religioni, che mutano al mutare del paesaggio. Da Messina a Trapani,
passando attraverso le Madonie, i Nebrodi e i paesi etnei, per giungere ad
Agrigento, Porto Empedocle, Ragusa e Siracusa. Perché la Sicilia non è una
regione, ma un mondo.
Una terra che MoMò Calascibetta, artista capace di rinnegare il proprio
nome per andare alla ricerca della propria vera identità (come il Pascal
pirandelliano), non ha mai abbandonato. La casa, infatti, è “la geografia della
memoria”, quello spazio mitico e della costruzione del senso che l’artista
siciliano, come una tartaruga, porta sempre sulla schiena.
Vagabondo e apolide, esiliato e “marrano”, MoMò Calascibetta porta
sempre sulla schiena la sua casa e la sua città, ovunque vada alla ricerca di una
“tradizione”. Perché “avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto
cercandola che si può viverla”6. E non esiste cammino se non quello tracciato
dal nostro stesso andare.
__________
6
Cfr. C. Pavese, “Herman Melville”, in Saggi letterari, Torino: Einaudi, 1968.
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