Siria, le urne di Assad

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Siria, le urne di Assad
Siria, le urne di Assad
Martedì 28 Febbraio 2012 00:00
di Michele Paris
Mentre proseguono gli scontri tra le forze di sicurezza e l’opposizione, domenica il regime
siriano ha tenuto il promesso referendum costituzionale che dovrebbe teoricamente aprire il
sistema politico del paese al multipartitismo. L’iniziativa di Damasco è stata tuttavia bocciata sia
dalla stessa opposizione, sia dalle monarchie sunnite del Golfo e dai governi occidentali,
appena usciti dal primo vertice degli “Amici della Siria” a Tunisi senza un progetto unitario per la
rimozione del presidente Bashar al-Assad.
I media occidentali hanno raccontato di seggi semi-deserti e cittadini sfiduciati nei confronti
delle proposte di riforma di Assad, pur ammettendo una significativa affluenza in alcune località,
ad esempio nel centro della capitale.
Le organizzazioni con sede all’estero vicine all’opposizione hanno diffuso sul web filmati di
manifestazioni di protesta contro il voto. Per i Comitati di Coordinamento Locale, un gruppo di
opposizione attivo in Siria, le forze di sicurezza avrebbero fatto inoltre 55 vittime nella sola
giornata di domenica, quasi tutte a Homs, dove non è stato possibile organizzare le operazioni
di voto, e altre 33 lunedì. In alcuni sobborghi della capitale, poi, la polizia sarebbe intervenuta
per disperdere dimostranti anti-referendum.
La stampa ufficiale del regime, al contrario, ha dato ampio spazio al referendum, descritto come
il primo passo verso la libertà e la democrazia in Siria sotto la guida del presidente. L’agenzia di
stampa SANA ha scritto di una imponente manifestazione andata in scena domenica a favore
del processo di riforma e del referendum costituzionale nella piazza Saba Bahrat di Damasco.
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Secondo i dati diffusi lunedì sera dal ministro dell’Interno, Mohammad Ibrahim al-Shaar, la
nuova Costituzione è stata approvata dall’89,4% dei votanti, mentre l’affluenza alle urne
sarebbe stata del 57,4%, pari cioè a più di 8,7 milioni di elettori.
Il referendum sulla nuova Costituzione è il punto centrale del piano promosso da Assad per
riformare il regime. Il leader siriano lo annunciò già lo scorso mese di giugno, anche se
l’evoluzione della crisi lo fece ben presto passare in secondo piano. Soprattutto, da qualche
mese qualsiasi passo fatto da Damasco per venire incontro, sia pure in maniera molto cauta,
alle richieste della piazza viene bollato dall’opposizione armata e dai suoi sponsor occidentali
come un tentativo di guadagnare tempo per intensificare la repressione delle proteste.
I dettagli della nuova Costituzione sono stati resi pubblici solo da alcune settimane e
prevedono, tra l’altro, la fine del monopolio sul sistema politico siriano del Partito Baath. Viene
poi fissato un limite di due mandati presidenziali di sette anni ciascuno, un tetto che non
verrebbe però applicato retroattivamente ad Assad, al potere dal 2000, ma scatterebbe solo dal
2014.
Per candidarsi alla presidenza sarebbe necessario anche aver vissuto per almeno dieci anni
consecutivi in Siria - i leader dell’opposizione sono in gran parte dissidenti ed esuli che vivono
da tempo all’estero - e non avere un coniuge nato all’estero. Infine, viene consentita
l’organizzazione di partiti politici, purché non su base religiosa o etnica, escludendo così un
movimento proprio per i Fratelli Musulmani, in prima linea nella lotta contro il regime, o per la
minoranza curda.
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In Occidente, tra le voci più critiche del voto tenuto in Siria nel fine settimana c’è stata quella del
Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, la quale da Rabat, in Marocco, ha parlato di un
“finto referendum che serve ad Assad per giustificare le sue azioni contro i propri cittadini”. La
consultazione è stata invece appoggiata in pieno da Russia e Cina, le cui pressioni, secondo
alcuni, avrebbero anzi convinto Assad ad anticipare di un mese la data del voto, così da dare
qualche legittimità al sostegno garantito da Mosca e Pechino di fronte alla comunità
internazionale.
Nonostante l’accordo per creare zone cuscinetto in territorio siriano, i cosiddetti “Amici della
Siria” continuano ad essere divisi sull’opportunità di fornire armi all’opposizione, anche se in
realtà quest’ultima riceve da qualche tempo sostegno materiale in maniera più o meno ufficiale
da paesi come Turchia, Giordania, Arabia Saudita e Qatar.
Gli scrupoli, soprattutto americani, a fronte di una maggiore decisione mostrata dalle autocrazie
del Golfo, sono stati espressi ieri dalla stessa Clinton in un’intervista alla CBS. La ex first lady
ha ricordato come l’opposizione sia ancora divisa, dall’identità incerta e, oltretutto, appoggiata
pubblicamente sia dal numero uno di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che più recentemente da
Hamas, la cui leadership fino a poco tempo fa aveva sede proprio a Damasco.
A conferma del fronte tutt’altro che unitario all’interno di un’opposizione formata da disertori,
integralisti islamici, dissidenti screditati, uomini vicini a governi e servizi segreti occidentali,
lunedì è stata annunciata la formazione del Gruppo Patriotico Rivoluzionario da parte di una
manciata di membri del Consiglio Nazionale Siriano scontenti della gestione a loro dire troppo
moderata del presidente Burhan Ghalioun. La nuova formazione comprenderebbe una
quarantina di individui e intende concentrare i propri sforzi sulla lotta condotta dal Libero
Esercito della Siria contro le forze del regime di Assad.
Quest’ultimo, intanto, ha incassato una nuova conferma del sostegno di Mosca. In un’intervista
pubblicata lunedì dal quotidiano Moscow News, Vladimir Putin ha messo in guardia da un
intervento armato in Siria e in Iran. Il premier russo ha anche affermato che i governi occidentali
avrebbero appoggiato le rivolte della Primavera Araba solo per promuovere i loro interessi nella
regione, mentre riguardo alla Siria ha ribadito la fermezza di Mosca nel chiedere che sia le forze
di sicurezza di Assad sia l’opposizione armata cessino le violenze.
Gli USA e i loro alleati, tuttavia, continuano ad attribuire la responsabilità della crisi in Siria
unicamente ad un regime che sono sempre più determinati a rovesciare. L’Unione Europea lo
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ha confermato in un recente summit dei ministri degli Esteri da cui sono uscite altre sanzioni
contro Damasco.
A sette ministri di Assad verranno così congelati i beni in Europa e negato l’ingresso nei paesi
dell’Unione. Allo stesso modo, i beni della Banca Centrale Siriana saranno bloccati, mentre gli
scambi commerciali considerati “legittimi” potranno proseguire solo dietro autorizzazione UE. I
cargo siriani, infine, non potranno più atterrare negli aeroporti europei e verrà interrotto il
commercio di metalli preziosi con la Siria.
L’escalation del conflitto, causata in buona parte proprio dalle manovre occidentali, minaccia
sempre di più anche la stabilità di paesi come Iraq e Libano. Entrambi i governi sono sostenuti
da maggioranze politiche sciite ma devono fare i conti con massicce minoranze sunnite che si
stanno mobilitando a favore dell’opposizione siriana. Questi paesi hanno finora cautamente
evitato di dissociarsi dal regime di Assad, soprattutto per il timore che l’aggravarsi della
situazione in Siria possa tornare a scatenare violenze settarie all’interno dei loro confini.
In Libano, in particolare, scontri e manifestazioni a favore di entrambi i fronti in lotta in Siria si
sono moltiplicati nelle ultime settimane. Mentre il governo guidato da Hezbollah e dal premier
Najib Mikati, miliardario sunnita vicino a Damasco, ha finora respinto le pressioni occidentali per
isolare Assad, l’opposizione sunnita filo-americana e filo-saudita dell’ex premier Saad Hariri si è
schierata apertamente con l’opposizione siriana.
L’eventuale caduta di Assad avrebbe profonde conseguenze sul Libano, da dove la Siria fu
costretta a ritirare il proprio esercito nel 2005 dopo l’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri e
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l’esplosione della cosiddetta “Rivoluzione del Cedri” patrocinata da Washington. Gli eventi del
2005 furono il primo passo verso il tentativo di rompere i legami tra Hezbollah e Damasco, un
rapporto fondamentale per il fronte di resistenza anti-americano in Medio Oriente e che
consente un canale diretto tra il “Partito di Dio” e Teheran.
Con il regime siriano in crisi, per gli Stati Uniti si presenta ora la possibilità di spezzare una volta
per tutte il cordone ombelicale che collega Damasco ed Hezbollah, assestando così un colpo
mortale all’Iran e indebolendo il movimento sciita libanese che diventerebbe a sua volta
vulnerabile di fronte ad una nuova eventuale aggressione israeliana.
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