ossier - Rivista Missioni Consolata
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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO MENSILE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA FONDATO NEL 1899 PER SOSTENERE I MISSIONARI DELLA CONSOLATA già «La Consolata» (1899-1928) Tramite “Missioni Consolata Onlus” L a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi del Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI CONSOLATA, offre reportages di prima mano, inchieste, dossier, interviste esclusive, documenti fotografici originali, rubriche, inserti speciali e molto altro ancora. Tutti coloro che, con contributi in denaro, collaborano ai nostri progetti RICEVONO LA RIVISTA MENSILMENTE PIÙ IL CALENDARIO e godono anche di qualche vantaggio fiscale. NON , . Sono graditi però contributi liberali per le spese di produzione, stampa e spedizione. 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CONSOLATA, con sede a Torino in C.so Ferrucci 14, può ricevere EREDITÀ e/o LEGATI. Istituto Missionari di Maria SS.Consolata Ufficio Legale Corso Ferrucci, 14 - 10138 TORINO Tel. 011/4.400.400 NON quello allegato intestato a «Missioni Consolata Onlus». Le offerte per sante Messe non sono deducibili. 2 MC DICEMBRE 2013 Corso Ferrucci, n.14 - 10138 Torino tel. 011.4.400.400 - fax 011.4.400.459 E-mail: [email protected] Sito internet: www.rivistamissioniconsolata.it Proprietario: Collegio Internazionale della Consolata per le Missioni Estere, C.so Ferrucci 14 - 10138 Torino Editore: Fondazione MISSIONI CONSOLATA O.n.l.u.s. Iscrizione presso il Tribunale di Torino al n. 79 del 21/06/1948 Iscrizione R.O.C. n. 22050 Direzione: Luigi Anataloni (direttore) Francesco Bernardi (direttore resp.) Redazione: Luigi Anataloni - [email protected] (.494) Luca Lorusso - [email protected] [.408] Marco Bello - [email protected] (.436) Paolo Moiola - [email protected] (.458) Collaboratori: B. Balestra, M. Bandera, D. Biella, China Files, G. P. Casiraghi, C. Caramanti, D. Casali, P. Farinella, S. Frassetto, A. Lano, G. Mancini, R. Novara, M. Pagliassotti, P. Pescali, U. Pozzoli, R. Remigio, S. Siniscalchi Sito Web: team redazionale Archivio fotografico: Franca Fanton Progetto grafico: Kreativezone, Torino Grafici: Stefano Labate e Angelo Campo Spedizioni arretrati, correzioni e cancellazioni: Angela, Miriam e Filomena [email protected] Stampa: Gruppo Grafico Editoriale G. Canale e C. S.p.a. Borgaro T.se - Torino MISSIONI CONSOLATA ONLUS Amministratore: Guido Filipello, tel. 011.4.400.400 Ufficio segreteria: Antonella V. e Dina A. tel. 011.4.400.400, fax 011.4.400.411 [email protected] Conto corrente postale n. 33.40.51.35: si ringraziano vivamente i lettori che sostengono l’impegno di formazione ed informazione di «MISSIONI CONSOLATA ONLUS». Tutti i contributi o offerte sono deducibili dalla dichiarazione dei redditi. 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Perché detta col cuore richiede il rifiuto del «tutto (mi) è dovuto e garantito» e l’apertura gioiosa al dono e alla gratuità. Allora... Grazie per il dono di padre Benedetto che è arrivato alla méta del suo lungo cammino e degli altri 17 missionari e altrettante missionarie della nostra famiglia che negli ultimi dieci mesi (gennaio - ottobre) sono stati accolti al Grande Banchetto di tutti i popoli. Grazie per tutti i missionari: preti, fratelli, suore e laici, che in umiltà e fedeltà si mescolano come lievito nella pasta dell’umanità per far emergere i segni del Regno. Grazie a voi, lettori, parenti, amici e benefattori, sostenitori, membri di onlus e ong amiche, perché anche in questo anno difficile ci siete stati molto vicini nonostante le obiettive difficoltà economiche, sociali e politiche che tutti stiamo vivendo. Grazie perché insieme con noi credete ancora che è possibile un mondo di condivisione, di rispetto, di riconciliazione e pace, un mondo più giusto dove la vita sia accolta, amata e rispettata, dove i popoli - nella loro diversità - possano cantare insieme la meravigliosa sinfonia dell’amore di Dio che è Padre di tutti e ha cura di tutti e di ognuno. Grazie per il dono del Natale che ci offre la possibilità di riscoprire il volto umano dell’amore divino. Un avvenimento che non solo ci parla dell’amore «senza se e senza ma» di Dio, ma ci stimola ad «amare da Dio» gratuitamente e liberamente, accogliendo coloro con cui Gesù stesso si è più identificato: «poveri, orfani, vedove e stranieri». Grazie anche per questi tempi difficili, per questa crisi che ci offre un’occasione insperata - anche se dura - di ripensare il nostro stile di vita. Non per tornare alla povertà di una volta, ma per recuperare quei valori di umanità che abbiamo buttato via con la povertà: sobrietà, condivisione, semplicità, risparmio, tempo per stare insieme e far famiglia, valorizzazione di risorse locali, cura dell’ambiente... Grazie per il nuovo anno che viene, un nuovo dono della pazienza di Dio, amante della vita, che non si è ancora stancato di noi e ci dà ancora tempo per crescere, capire e tornare a lui tornando agli altri, raccogliendo soprattutto la sfida della giustizia e pace, perdono e riconciliazione nel mondo. D a tutti i missionari e missionarie della Consolata: grazie a voi. Non vi mandiamo regali, non vi promettiamo favori. Vi assicuriamo solo il nostro impegno a essere quello che il nostro Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, voleva che noi fossimo: dei canali di amore verso i più poveri, più lontani, oppressi e dimenticati, e delle conche, non pozzanghere, ma laghi, dove l’amore di Dio possa riversarsi in abbondanza per tutti. Pregate per noi. Mentre chiediamo con insistenza il riconoscimento della santità del beato Allamano, vorremmo davvero prima di tutto imitarlo nella santità. Buon Natale e un benedetto anno nuovo. DICEMBRE 2013 MC 3 SOMMARIO 12 | DICEMBRE 2013 | ANNO 115 10 Il numero è stato chiuso in redazione il 12 Novembre 2013. La consegna alle poste di Torino è avvenuta prima del 30 Novembre 2013. 3 Ai lettori GRAZIE di Gigi Anataloni OSSIER 5 Dai lettori CARI MISSIONARI (lettere a MC) 33 ARTICOLI 10 Siria SULLA PELLE DEI SIRIANI 17 di Enrico Vigna e Paolo Moiola 17 Zambia IL LAGO CHE DÀ VITA di Ermina Martini RISPONDERE AI DELITTI SENZA COMMETTERNE ALTRI 21 Brasile / Sertão DOVE I CONTADINI SONO POETI GIUSTIZIA RIPARATIVA di Silvia Zaccaria 25 Indigeni LASCIAMOLI IN PACE DI ANNALISA ZAMBURLINI, CAROLINA BEDOYA MAYA E LUCA LORUSSO 53 di Francesca Casella 53 Perù / Salute 2 JAMPI WASI, LA CASA DELLA SALUTE RUBRICHE di Paolo Moiola 60 Burkina Faso PASTORI: NON MOLLATE IL GREGGE di Marco Bello 8 Chiesa nel mondo di Sergio Frassetto 60 30 «Così sta scritto» di Paolo Farinella 66 Italia VOGLIA DI TENEREZZA 75 Cooperando di Chiara Giovetti di Giampietro Casiraghi 71 Libertà Religiosa - 15 LO YOM KIPPUR ALLA CORTE DI STRASBURGO di Paolo Bertezzolo 79 4 chiacchiere con di Mario Bandera IN COPERTINA: occhi dell’anima (Foto: © Glenn Shepard, Survival International). 81 Indice a cura di Gigi Anataloni Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore. - I dati personali forniti dagli abbonati sono usati solo per le finalità della rivista. Il responsabile del loro trattamento è l’amministratore, cui gli interessati possono rivolgersi per richiederne la verifica o la cancellazione (D. LGS. 196/2003). 4 MC DICEMBRE 2013 WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT DAI LETTORI Cari mission@ri SCRIVETECI! Che problema avete? Non vi cerca più nessuno? A volte mi verrebbe da scrivervi, fosse anche un disappunto, ma non ne ho il tempo, poi ne passa troppo e infine penso, «tanto a voi cosa ve ne frega della mia opinione? È comunque in contrasto con la vostra, perché scrivere?». Posso dirvela una cosa? Finché non ho letto tutto il dossier della rivista di ottobre, avevo un’angoscia dentro, «una tristezza da spararsi», meno male che nelle ultime due pagine mi tirate su il morale. So che la mia vita da cristiana non è perfetta e me lo spiaccicate in faccia come una sberla, il cammino lungo e faticoso della conversione non finisce con l’incontro con Cristo – c’è la sequela, la coerenza, e questo è un altro punto dolente. [...] Con mia nipote, classe 1981, ho provato a fare «proselitismo» (se così si può dire) richiamandola al suo battesimo. La reazione è stata violenta. «Zia basta. Siete tutti bigotti, credo in Dio e non nella chiesa! La verità la sto cercando, e non l’ho ancora trovata». A me non resta che piangere e pregare per lei e tanti altri familiari. È riduttiva la fede vissuta in casa? Intendo dire: la crisi m’impedisce di prendere l’auto ogni giorno per andare a messa, e a volte gli orari non combaciano con il mio tempo libero. Allora mi metto in casa davanti al crocefisso. Ma secondo voi è sempre una fede da poco, da gente tiepida, troppo prudente, non azzardata, accomodante, pigra, inetta fino al rigurgito di Cristo. Che dire di altri sacerdoti che ho incontrato: alcuni troppo hard e altri rigorosi fino al rifiuto dell’assoluzione. […] Adesso capisco perché la Madonna a Medjugorje insiste con il pregare per i sacerdoti. Siete sotto attacco? O lo siete sempre stati nel mirino del Nemico? Mi piace molto anche quando Papa Francesco chiede di pregare per lui. Ciò che vorrei chiedervi è questo: una conferma o una smentita. Mi han detto che ci sono dei missionari cattolici che sono costretti a sposarsi, per non essere diversi dagli altri, sennò non sono credibili nell’annuncio. Ho obbiettato dicendo che vivranno da fratelli e sorelle! La risposta è stata: «No, no! Fanno figli e anche tanti. Dovrebbero essere in Oceania». Me ne sto zitta poiché non conosco tutto il mondo missionario [...]. Un’altra cosa volevo dirvi. Un nostro amico circa dieci anni fa fece un’esperienza vocazionale in Ecuador con dei missionari. Ne tornò sconvolto perché ci disse che là ogni prete ha minimo dieci donne a disposizione. Noi gli abbiamo detto: «Esagerato!». Risultato, lui non frequenta più la chiesa, obbiettando che è un moralismo inutile, un’ipocrisia lampante. Avete il coraggio di dire la verità? Caspita, se lo trovate avete un fegato da vendere! Cordiali saluti. Piccola figlia della Luce, San Zenone degli Ezzelini, 13/10/2013 Gentile lettrice, grazie di averci scritto. Provo a essere breve. Scrivere. Ci sembra un modo importante per una comunicazione a due vie, non autoritaria, come rischia comunque di essere quella stampata. Il diritto al dissenso è importante e una contestazione argo- mentata e intelligente ci aiuta ad approfondire idee e argomentazioni o ci obbliga a spiegarci meglio. Sacerdoti. È pregare per i sacerdoti è bello ed essenziale, perché il sacerdote ha bisogno del sostegno della comunità. L’ordinazione non rende il sacerdote invulnerabile al peccato, inattaccabile dalla tentazione. Il sacerdote è e rimane sempre un uomo e come tale percorre un cammino di conversione continua, rinnovando ogni giorno il suo sì a Dio. Come uomo può cadere, sbagliare ed essere contraddittorio. Qualche volta può cercare la popolarità facendo il moderno e il disinibito, altre volte può usare la tradizione e l’intransigenza senza misericordia come scudo alle sue paure. Ma la maggioranza vive con umiltà («timore e tremore» scriverebbe Kierkegaard) il proprio stato sapendo che il Salvatore è uno solo: Gesù Cristo. Certo, il cammino del prete è più impegnativo di quello dei semplici cristiani, perché se un sacerdote cade, non è solo lui a cadere, ma fa male a tanti. «Nel mirino del Nemico», dice lei. È vero. E il Nemico si serve anche di tanti buoni cristiani che invece di sostenere i loro sacerdoti, li criticano, credono a mille dicerie, generalizzano e malignano. E anche di quelli che confondono la Chiesa col prete, si dimenticano che per il battesimo anch’essi sono Chiesa diventando giudici impietosi che si difendono accusando di «bigottismo, ipocrisia e falso moralismo». Purtroppo non solo è più facile far così, tirandosi fuori «dal gruppo», ma il nostro sistema stesso di vita oggi incoraggia questo indivi- dualismo assoluto per cui uno risponde solo a se stesso (al suo «dio»). Missionari che si sposano? Onestamente è la prima che sento parlare di missionari che si devono sposare, per non essere diversi. Da secoli i missionari «sono diversi» e non solo per il celibato. Sono diversi per il colore della pelle, per la lingua che non conoscono, per il modo di vivere e «anche» perché non si sposano. Nella storia, più di uno ha pagato con la vita la fedeltà al celibato che lo rendeva «diverso» e anche pericoloso agli occhi di certi popoli. Che poi ci siano dei missionari che abbiano amato una donna, generando anche dei figli, non dovrebbe stupire nessuno, eccetto coloro che li ritengono degli automi programmati e non degli uomini in carne e ossa. Ma che questa sia la situazione normale e accettata («dieci donne a testa»), è tutto da provare. La realtà è ben diversa. Quando si sentono voci sui preti, bisognerebbe avere più senso critico, più amore della verità (come dice anche lei), tanta misericordia e un po’ di autocritica. Fede da poco. L’ultima cosa che vogliamo fare è sottovalutare la fede delle persone e la grazia di Dio. La fede non è mai «da poco». È vero, scrivendo si rischia di generalizzare ed enfatizzare. Anzi, a volte si deve alzare il tiro per riallinearci alle esigenze della Parola, quella vera, senza diluirla nel «minimo comun denominatore» della mediocrità del «fan tutti così». Ma il cuore delle persone solo Dio può giudicarlo. DICEMBRE 2013 MC 5 [email protected] [email protected] LA TEOCRAZIA IRANIANA Caro p. Gigi, condivido il suo no comment al lettore che ha disdetto l’abbonamento a causa del suo editoriale di luglio. Non l’avevo letto a suo tempo, ma, incuriosito, l’ho cercato e letto dal vostro sfogliabile (ottima iniziativa) e davvero non c’è nulla da dire. 1. Sono favorevole alla vostra scelta di articoli lunghi, cosa per la quale mi risulta che altri vi critichino. Adesso è diffusa la mania di dover scrivere poco perché la gente si stanca a leggere e ha poco tempo per farlo. Allora lasci perdere di leggere. [...] 2. Nel dossier di A, Lano sull’Iran (MC, ago. 2013) sembra che quella nazione sia lo stato migliore del mondo. Può essere che sia davvero così, anch’io diffido della comunicazione di massa che orienta l’opinione pubblica, quindi sono naturalmente e favorevolmente predisposto verso l’informazione «alternativa». Ciò premesso, però, avrei fatto domande più «dure» all’interlocutore. Ad esempio, è vero o no che il precedente presidente voleva la distruzione dello stato di Israele? E ora come la si pensa in proposito? Su altra rivista missionaria l’Iran non è definito una repubblica così meravigliosa, chi sbaglia? Giovanni Guzzi Vimercate (MI), 11/10/2013 6 MC DICEMBRE 2013 Caro lettore, non ho descritto l’Iran come una «Repubblica meravigliosa», ma come una Repubblica islamica teocratica basata su meccanismi della cosiddetta «democrazia». È una democrazia teocratica con molti problemi da affrontare e risolvere, dunque non certo perfetta. Ma esiste una democrazia perfetta? Gli Stati Uniti lo sono, forse, con la loro pena di morte, le extraordinary renditions, i tanti dissidenti «missing» e lo spiare anche gli alleati? Lo sono gli stati europei, con una repressione sempre più forte delle proteste dei cittadini? Lo è Israele, stato mediorientale che bombarda civili? Nel mio dossier ho poi paragonato alcuni principi chiave dello sciismo con quelli del sunnismo, deducendone una maggiore possibilità d’interpretazione razionale e libertà di pensiero del mondo sciita, che, nella mia pluridecennale esperienza di studiosa sul campo di Islam, ho notato più «colto» e interessato alla cultura di quello sunnita. Questo non toglie che durante l’era di Ahmadinejad ci fossero molti problemi interni, oltre che esterni, dovuti al suo populismo e a posizioni estremiste, nonché censure di vario tipo - tra cui internet -, di cui ho parlato nel mio articolo. L’era di Rohani sembra aprire nuove frontiere e nuove speranze, e molti critici interni del passato regime stanno appoggiando con fiducia il nuovo presidente. Quanto alle invettive contro Israele, ormai famose, in parte si è trattato di traduzioni errate dal farsi - la famosa frase “scomparirà dalla mappa geografica” aveva altro significato che non la fine fisica di Israele -, in parte di retorica populista dell’ex presidente. Le offro un consiglio, comunque: faccia un viaggio in Iran, e capirà che paese e che popolo accogliente è. Poi vada in qualche altro stato del Golfo, tipo l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi. O anche solo l’Egitto, e ci racconterà cosa ne pensa. Angela Lano ANCORA YANOMAMI Carissimo Fratel Carlo (Zacquini), prima di tutto ti voglio ringraziare; grazie perché mia figlia Martina, dopo aver parlato della tua intervista e delle condizioni del popolo Yanomami (MC, ott. 2013) mi ha detto di te qualcosa che mi ha toccata profondamente: che «Conoscerti è stata una vera fortuna», che «tu ci aiuti a diventare persone migliori. Siamo tutti persone “normali” che stanno sedute aspettando che siano altri a cambiare il mondo. [Se] poi c’è una persona che si alza e prova a cambiare il mondo, quella è una persona migliore e m’insegna che anch’io posso e devo alzarmi dalla mia normalità-mediocrità e diventare migliore» [...]. A volte gli amici mi chiedono perché mi interessano tanto gli Yanomami. È semplice: perché sono dei nostri fratelli. Punto. Condividono con noi la fortuna di far parte di questo meraviglioso creato. E non è abbastanza? Noi apparteniamo alla razza che si sente padrona del creato, superiore agli indigeni di qualsiasi parte del mondo, e con il nostro egoismo e la nostra presunzione non riusciamo e non cerchiamo di comprendere altre culture. Possibile che non ci sia una via percorribile di evoluzione e di progresso in cui non venga calpestata la dignità umana? In cui sia presente la dovuta tutela dell’ambiente dal quale tutti indistintamente dipendiamo? Oggi ci sono uomini che distruggono la foresta e ingannano i popoli che ci vivono, ricchi che diventano sempre più ricchi a scapito della cultura, degli usi e dei costumi degli indigeni che vengono sfruttati e resi dipendenti dal dio denaro che tutto permette di avere. Bisogna alzarsi e combattere per un mondo più giusto. Ci sono molte persone che ti sono vicine in tutto il mondo, ma forse ancora non bastano. Credo che sia necessario coinvolgere più persone possibili [...]. È molto triste quando tu dici che gli stessi brasiliani si vergognano dei loro fratelli indigeni, ma lo comprendo. Anche qui gli immigrati cercano di nascondere le loro origini il più possibile, ma, per i popoli indigeni della foresta deve essere diverso, loro sono i fratelli custodi di quella grande foresta di cui tutti noi abbiamo bisogno. Mi piacerebbe invertire il loro status da vittime a protagonisti orgogliosi che con la loro vita e cultura e rispetto salvano la foresta di cui tutti abbiamo bisogno. Non più esseri inferiori, e i paesi che li ospitano devono sentirsi orgogliosi di occuparsi di loro. Caro Carlo se questa inversione di considerazione non avviene, prima o poi un governo o un altro troverà un «buon motivo» per annientarli per sempre in nome della civiltà. Con immenso affetto e riconoscenza. Nicoletta Testori 18/09/2013 Cari mission@ri LA FORMICA ALLA CICALA Egregio direttore, ho appena letto la risposta che Lei si è permesso di dare al sig. Giorgio Rapanelli (MC ott. 2013) e ne sono rimasto profondamente indignato. Il sig. Giorgio può sicuramente permettersi di parlare a nome degli italiani, quantomeno di quelli che pagano le tasse. Non so invece a chi si riferisca Lei quando scrive che «siamo noi che continuiamo a rubare». Spero che si riferisca a chi vive a scrocco degli altri e non agli italiani che lavorano e che si sono faticosamente guadagnati il loro benessere senza per questo doversi sentire in colpa. Egregio direttore, sono un italiano che paga le tasse (quindi anche il suo 8 per mille), cattolico praticante e volontario in Africa (sempre a spese mie). Ho girato l’Africa in lungo e in largo quindi posso affermare con sicurezza che gli europei hanno dato all’Africa molto più di quello che hanno preso, sia in termini di infrastrutture che in termini di aiuti umanitari. Sono europei quei tanti suoi confratelli missionari e volontari laici che in Africa fanno solo ed unicamente del bene, spendendo la loro vita al servizio degli altri, anche a costo del martirio. Che poi ci siano anche le multinazionali è un altro discorso, anche perché queste ultime non sfruttano solo l’Africa ma chiunque e qualunque cosa. Smettiamola di dare sempre la colpa all’Occidente! Vede, credo in Dio e non nel denaro, ma l’esperienza mi ha insegnato che coloro i quali dicono che il denaro non è importante solitamente non sono abituati a guadagnarselo e tendono a vivere sulle spalle degli altri e in questo, probabilmente, Lei non fa eccezione. Se ha voglia di contestarmi, mi parli della sua dichiarazione dei redditi e di quanti migranti lei ospita a casa sua e a spese sue. Il benessere che noi italiani ci siamo guadagnati (lei escluso) deriva dal lavoro, e chi lavora onestamente e faticosamente (senza tanti “pole pole”) non deve certamente sentirsi in colpa del proprio benessere né responsabile di tragedie che sono imputabili unicamente alla disperazione e a coloro che, sulla tratta delle persone, costruiscono le loro fortune economiche. Anche nelle missioni si chiudono a chiave le porte di casa, eppure Lei ci viene a dire che dovremmo fare entrare in Italia chiunque, senza alcun controllo, quando l’immigrazione clandestina è considerata illecita in tutto il mondo, anche nei paesi africani dove addirittura sono previste pene molto più severe per chi entra nel paese illegalmente. Vede, egregio direttore, la solidarietà è un valore cristiano ma non la si può imporre, e gli ipocriti non sono i più adatti a insegnarla. Se Lei si sente in colpa per le tragedie dei migranti, vada ad aiutarli a casa loro o li accolga a casa sua, ma lo faccia in silenzio e a spese sue, e non sempre a spese di Pantalone. Solo così, sarà un buon cristiano e, se vorrà, potrà venirci a insegnare l’accoglienza con meno ipocrisia. Smetta di fare la cicala e inizi a fare la formica, come tanti suoi confratelli che lei disonora con le sue parole offensive per tutti noi che la solidarietà la facciamo in silenzio, a spese nostre. Alessio Anceschi Sassuolo (MO), 14/10/2013 Caro Sig. Anceschi, quando scrivo che «siamo noi che continuiamo a rubare», non lo dico io, ma statistiche che sono pubblicamente disponibili. Sistema «che ruba». Segnalo solo pochi dati. Il «nostro» mondo, troppo semplicisticamente definito «l’Occidente», ha il 20% della popolazione e consuma l’80% delle risorse mondiali. L’Italia consuma ogni anno quattro volte più della sua biocapacità; fa meglio di altri paesi, ma è sempre sopra il livello di guardia. L’Europa butta il 15% del cibo che produce; in Italia il 25% del cibo comperato finisce nella pattumiera. È vero che la maggior parte degli italiani sono grandi e onesti lavoratori (o candidati a esserlo, visto l’incredibile livello di disoccupazione), ma è anche vero che siamo dentro un sistema che non funziona e si regge sulle spalle di chi vive sotto la soglia della povertà grazie a un sofisticato sistema di rapina delle risorse di cui nessuno sembra essere responsabile. Le famose multinazionali che oggi sfruttano tutto e tutti, anche noi (il mostro che mangia se stesso!), non sono un prodotto della fantasia dei poveri, ma il frutto più alto e perverso del sistema economico di cui noi viviamo. Rifugiati. I paesi africani ospitano molti più rifugiati di quanti noi non ne riceviamo in dieci anni. Da noi non esiste una realtà come il campo profughi di Daabab in Kenya, con le sue centinaia di migliaia di disperati provenienti dalla Somalia. E quanti sono i rifugiati in Congo RD, in Ciad, in Sudafrica, in Ruanda, in Tanzania, tanto per nominare solo alcuni paesi? Le statistiche parlano di oltre quattro milioni. Tutti clandestini schedati dalla polizia? Lascio poi ai lettori il resto del suo intervento. La cicala ipocrita. Per quel che mi riguarda - mi permetta questa autodifesa -, preciso che da quando ho finito gli studi nel 1976 e sono stato ordinato sacerdote, lavoro una media di 8-12 ore al giorno - fine settimana incluso -, e non ho pesato sull’8x1000 e neppure sul sistema sanitario nazionale fino ai 60 anni compiuti. Quando nel 2010, rientrato in Italia dopo 21 anni di servizio in Kenya, sono diventato viceparroco (mentre i miei coetanei andavano in pensione), ho ricevuto il mio primo stipendio di 699,00 euro netti al mese, tasse pagate, che mi lucra un totale annuo di ca. 8200,00 euro, tredicesima compresa, troppo per essere esente dal ticket sanitario. Quanto ai migranti, o potenziali tali, li ho aiutati quando ero a casa loro e continuo ad aiutarli da qui, perché ritengo che la cosa migliore sia metterli in condizione di vivere una vita dignitosa restando a casa propria. Come fanno tanti miei confratelli in Africa, America Latina e Asia, cui dò voce attraverso questa rivista, e come possono testimoniare le centinaia (non ho mai tenuto il conto!) di ragazzi e ragazze che ho fatto, e continuo a fare studiare con l’aiuto di tanti amici. Essi - ragazzi e amici sanno bene che sono più una formica e che una cicala, anzi più un «canale che una conca», per dirla col Beato Allamano, perché quello che «mendico» dagli amici e benefattori va tutto per aiutare chi è nel bisogno, creando non poche ansietà al mio amministratore con i miei conti perennemente in rosso. Che il Signore e i lettori mi perdonino questo momento di vanità. • DICEMBRE 2013 MC 7 La Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto CINA PALADINA DEI DISABILI dare lavoro e inserimento sociale ai disabili mentali. (Elisabetta Pioltelli) l premio internazionale “Vittorino Colombo” 2013 è andato a IMeng Weina che da anni si batte NEPAL per l’opportuna assistenza a favore dei disabili cinesi abbandonati. Il prestigioso riconoscimento promosso dalla Fondazione Vittorino Colombo in collaborazione con il Comune di Albiate, paese natale del senatore brianzolo cui è intitolato il premio, è stato conferito domenica 20 ottobre in Villa Campello. Figlia di un eroe della guerra contro i giapponesi, Meng Weina ha fondato e dirige la Huiling, una grande opera caritatevole a favore dei meno fortunati. Convertita al cattolicesimo nel 1998, ha preso il nome di Teresa in onore della Beata di Calcutta. La Ong fondata da Meng Weina ha registrato legalmente i suoi servizi a favore dei disabili sociali in 13 metropoli della Cina e opera in molte altre. Conta più di un centinaio di case, circa 300 operatori con più di mille persone disabili accolte o operanti nei vari servizi. Ha pure sviluppato due specifiche realtà: “La Chiocciola”, che è una rete di migliaia di disabili che si conoscono in internet e organizzano attività per incontrarsi, e la catena di panifici “Emmaus” (ancora all’inizio) per UNA PAROLA CHE LIBERA L a lettura della Bibbia costituisce una spinta fortissima per combattere la disuguaglianza sociale e l’ingiustizia in Nepal. Ne è prova l’aumento del numero di non cattolici che decidono di partecipare alla messa domenicale e i giovani che intraprendono il catecumenato, perché attratti dal messaggio di uguaglianza e dignità dell’essere umano proclamato dalla Chiesa cattolica. Il 20 ottobre scorso, Giornata Missionaria Mondiale, il parroco della cattedrale dell’Assunzione a Kathmandu, p. Robin Rai, ha letto il messaggio del Santo Padre e le oltre 500 persone presenti hanno trovato le parole del Papa “perfettamente adatte” ai bisogni del Nepal, dove molte persone subiscono discriminazioni e oppressioni quotidiane. Rita Adhikari, un membro della casta più bassa della società nepalese racconta di essersi convertita al cattolicesimo otto anni fa, perché ha scoperto che in questa religione non esiste discriminazione. Per sfuggire alle ingiustizie derivanti dalla sua bassa e- strazione sociale spiega di aver dovuto addirittura cambiare cognome per non essere identificata come appartenente a quella casta. (AsiaNews) BOLIVIA INTEGRAZIONE TRA LE CHIESE La Paz, in Bolivia, dal 21 al 24 ottobre si è svolto il V incontro A trilaterale delle Chiese di Bolivia, Perù e Cile, con la partecipazione di quindici vescovi latinoamericani. Al centro della riunione, l’integrazione politica ed economica regionale, la situazione della gioventù in questi paesi e del fenomeno migratorio sotto la prospettiva delle sfide pastorali che questi temi rappresentano per la Chiesa. L’incontro si proponeva di rafforzare la comunione e la fratellanza tra queste Chiese locali e analizzare la realtà ecclesiale della regione alla luce del discorso di Papa Francesco al Consiglio Episcopale Latinoamericano (Celam) riunito a Rio di Janeiro in coincidenza con la Giornata Mondiale della Gioventù. I rapporti storici, geografici e socio-economici che accomunano questi tre paesi, rilevano il bisogno di progetti comuni di pastorale che rispecchino l’unità del popolo di Dio in queste terre di frontiera. I temi ricorrenti negli ultimi incontri riguardano l’incremento del narcotraffico e la minaccia che rappresenta per le nuove generazioni, e la povertà, un flagello che colpisce soprattutto le popolazioni indigene a causa della disuguaglianza, il cambiamento climatico e i progetti di sfruttamento di risorse naturali che arriva fino all’espropriazione delle loro terre. (Radio Vaticana) # Albiate - Meng Weina ringrazia per il premio “Vittorino Colombo”. 8 MC DICEMBRE 2013 La Chiesa nel mondo INDIA LIBERTA’ RELIGIOSA ibertà religiosa per tutte le minoranze, pari diritti per dalit, L cristiani e musulmani, la legge per la sicurezza alimentare: sono alcuni dei temi che il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Conferenza episcopale indiana (Cbci), ha discusso con Sonia Gandhi, presidente della United Progressive Alliance (Upa), coalizione al governo in India. Il porporato ha dichiarato che l’incontro «è stato un’occasione non per chiedere favori speciali, ma solo giustizia, uguaglianza e protezione per tutti i cittadini, come garantisce la Costituzione del nostro paese». Durante il confronto il cardinale si è congratulato con il presidente dell’Upa per l’approvazione della Food Security Bill, definendo il decreto - che prevede la distribuzione di cibo a basso costo per 800 milioni di poveri - «un grande passo del governo verso la cura dei bisognosi e degli oppressi». La Gandhi ha assicurato all’arcivescovo che «le preoccupazioni espresse saranno affrontate in modo serio», e ha dichiarato di apprezzare «i servizi resi dalla comunità cattolica in molti campi, soprattutto quello dell’istruzione e della sa- nità». «La nostra unica richiesta, sottolinea il presidente della Cbci, è di poter lavorare e vivere liberamente, secondo i diritti proclamati dalla Costituzione. E questi includono il diritto a praticare la propria religione». (AsiaNews) CUBA DIPLOMA DI IMPRENDITORE a Chiesa cattolica cubana ha avviato nuovi corsi di formazioL ne per conseguire il diploma di imprenditore. Grazie alla collaborazione con una università messicana, i nuovi imprenditori vengono quindi messi in grado di aprire un’impresa nell’isola di Cuba. Questi corsi offrono la formazione e la consulenza, ma non il capitale iniziale. Due dei progetti, un workshop di tre mesi, e due anni per il diploma, sono gestiti dalla Compagnia di Gesù e dai Fratelli delle Scuole Cristiane (La Salle), mentre un altro corso di un mese è gestito direttamente dalla stessa arcidiocesi de L’Avana. I requisiti necessari variano a seconda del progetto scelto. «Il nostro corso è stato progettato per insegnare alle persone a gestire un’attività in modo elementare. Offre quindi gli elementi di base necessari per adattare il progetto al no- stro paese» riferisce il direttore del progetto Cuba Emprende dell’arcidiocesi de L’Avana. (Fides) PAKISTAN OBIETTIVO FORMATIVO di testo delle scuole pakistane pongono il jihad, l’uccisioInelibri dei cristiani, degli indù e di altre minoranze religiose come “obiettivo formativo” che aiuterebbe gli stessi membri della minoranza a cercare il martirio per la fede. È quanto emerge da un rapporto pubblicato alla fine di settembre dal Middle East Media Research Institute (Memri). Secondo la ricerca, i testi sono diffusi nella maggior parte delle scuole pubbliche primarie pakistane e anche i cristiani e membri di altre minoranze sono costretti a leggerli e studiarli. Gli autori dei libri guidati dai leader religiosi hanno modificato il significato del termine “minoranza”, che ora viene percepito con significato negativo. Nel 2011 sono stati pubblicati vari studi da cui è emerso che migliaia di studenti non-musulmani sono costretti a studiare l’islam ed elementi della religione musulmana, nel timore di discriminazioni. (AsiaNews) COSTA D’AVORIO: “APATAM” arandallah, al Nord della Costa d’Avorio, è un’area isolata e difficile da raggiungere a causa dello stato precario delle infrastrutture e delle vie di comunicazione. Il comune di Marandallah conta 26 villaggi e 33 insediamenti con una popolazione stimata di 41 mila persone, la maggioranza di religione mussulmana. Sia l’elettricità che l’acqua corrente sono raramente disponibili in questa zona. Nella parrocchia Saint Jean Baptiste di Marandallah i missionari della Consolata gestiscono una serie di attività tra le quali un dispensario e una maternità. Altissimo è il tasso di analfabetismo: mentre a livello nazionale è analfabeta il 45% della popolazione, in questa regione la percentuale arriva fino all’80-85%. Questa situazione, già problematica # Costa d’Avorio - esempio di “apatam” per uso scolastico. di per sé, è ancora più grave considerando le particolarità dell’area, abitata da una popolazione fortemente multietnica e spesso proveniente da paesi confinanti. A raccogliere la richiesta dei missionari è intervenuta l’Opam (Opera di promozione dell’alfabetizzazione nel mondo) che sta sostenendo la costruzione di diversi apatam. L’apatam è una sorta di paillote, o grande capanna, una delle più diffuse strutture per l’aggregazione e, nelle sue varianti più grandi, è in grado di ospitare fino a quattrocento persone. Grazie a queste strutture, sarà possibile organizzare la formazione e l’alfabetizzazione e contribuire a rendere le persone di Marandallah cittadini più consapevoli e capaci di partecipare ai cambiamenti in corso nel loro paese. (Imc) M DICEMBRE 2013 MC 9 SIRIA di ENRICO VIGNA* con PAOLO MOIOLA È uno dei pochi paesi mediorientali dove è stata possibile la convivenza tra etnie e fedi religiose diverse. Dove esiste una Costituzione, un governo laico e in cui la donna ha un ruolo paritario. Da oltre 30 mesi questo paese è sconvolto da eventi tragici. Un paese in cui vari stati stranieri - mediorientali e occidentali - stanno combattendo per i propri interessi e dove si sono moltiplicate le bande jihadiste, incontrollabili e molto pericolose. Mentre tutto si svolge sempre e soltanto sulla pelle dei Siriani. © testiweb.com # In alto: proteste contro il possibile intervento armato Usa in Siria. 10 MC DICEMBRE 2013 SULLA PELLE DEI SIRIANI D a oltre 30 mesi la Siria è sconvolta da tragici eventi. Per cercare di districarsi è importante capire cosa sia quel paese, come sia strutturato, quali siano le differenze con gli altri paesi del Medio Oriente, soprattutto di quelli che si sono schierati a fianco dei ribelli. Fino a oggi la Siria ha garantito la convivenza tra almeno 7 etnie e 17 fedi religiose diverse. In Siria il governo (laico) non distingue i cittadini in base all’appartenenza etnica o religiosa. Tra mille contraddizioni, errori, limiti e, in alcune fasi della storia siriana, anche durezze e repressioni feroci, per quarant’anni la Siria è riuscita ad essere questo. È riuscita a costruire una società con uno stato sociale minimo garantito (sanità, scuole, università), con un ruolo paritario della donna, con diritti civili e sociali superiori alla media dei paesi mediorientali. Se si fa un sintetico raffronto con i paesi dell’area, emergono dati e situazioni a dir poco sconcertanti. ECCO CHI SONO I PALADINI DELLA DEMOCRAZIA La domanda è: paesi come l’Arabia Saudita, il Bahrein, il Qatar, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti come possono ergersi a paladini della democrazia - armando e finanziando le bande criminali e terroriste che stanno insanguinando la Siria e la sua popolazione -, quando a casa loro tutto ciò che invocano e pretendono da Damasco è totalmente negato o inesistente? Questi paesi, in prima linea con gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali (Gran Bretagna e Francia in primis), nell’attaccare - mediaticamente, politicamente e militarmente - la società siriana, a MC ARTICOLI IL MOSAICO SIRIANO POPOLAZIONE: 23 milioni di abitanti, di cui il 52% nelle campagne e il 48% nelle città. COMPOSIZIONE ETNICA: il 90% dei siriani è arabo, circa il 5% è curdo e il restante comprende varie minoranze (armeni, drusi, circassi, beduini, palestinesi). FEDI RELIGIOSE: i musulmani sono circa l’87%, mentre i cristiani sono il 13%. All’interno di questi due gruppi ci sono diverse denominazioni. I musulmani sono al 60-65% sunniti, i restanti sono sciiti, in cui rientrano anche alawiti, drusi, ismaeliti. I cristiani comprendono varie confessioni: cattoliche, ortodosse, protestanti. Tra le cattoliche ricordiamo la Chiesa maronita, la Chiesa armena, la Chiesa sira, la Chiesa caldea e la Chiesa greco-melchita (intervista a pag. 12). casa loro negano qualsiasi tipo di diritto civile minimo alle minoranze etniche, religiose e politiche e non solo alle minoranze. Sono paesi dove la condizione della donna è ferma al medioevo. Da decenni, in Siria le donne sono ministri, medici, docenti, giudici e anche ufficiali dell’esercito, normalmente. Sono paesi dove la fede religiosa può essere solo quella dei regnanti e le altre non possono essere dichiarate o praticate. In Arabia Saudita, il più grande e fedele alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente in quell’area, il solo fatto di portare una croce al collo può essere causa di arresto. In Siria sono riconosciute e sostenute dallo stato 17 fedi diverse, persino la sinagoga ebraica di Damasco è stata ristrutturata con i contributi del governo. Sono paesi dove le minoranze etniche non hanno alcun diritto civile e non sono riconosciute. In Siria da decenni 7 etnie hanno medesimi diritti e doveri, e ogni cittadino è uguale davanti alla legge. La struttura statale è fondata su una rigida ripartizione delle cariche e dei funzionari. Per esempio, il 62% dei medici, degli ingegneri, dei giudici, degli insegnanti, sono sunniti, il 12% sono cristiani, il 7% alawiti, e poi armeni, curdi, drusi. Identica divisione percentuale si ha nell’esercito siriano. Sono paesi dove i diritti sociali di lavoratori e immigrati non sono minimamente riconosciuti o praticabili. In questi paesi orari di lavoro, paghe, contratti, sicurezza sono a discrezione dei vari sceicchi e padroni, e, ove siano reclamati, si va incontro all’accusa di sedizione e sovversione, o al car- cere. In Siria esistono vari sindacati di settore, legalmente riconosciuti con relativi diritti e relative proteste. Sono paesi dove non esistono opposizioni politiche e dove, come accaduto in Arabia Saudita o in Bahrein, pacifiche dimostrazioni popolari vengono schiacciate nel sangue da feroci repressioni con decine di morti nelle piazze, migliaia di arresti e decine di condanne a morte, coprifuoco per settimane. In Siria qualsiasi manifestazione pacifica e non armata è legale; da sempre esiste una opposizione politica legale al governo, esistono partiti politici (anche due partiti comunisti), non allineati e critici al governo. E dopo la riforma del 2012 ci sono diciotto partiti nuovi legalizzati e nell’attuale governo del presidente Bashar al-Assad, due ministri appartengono all’opposizione. Sono paesi dove il diritto allo studio, a essere curati, a migliorare la propria condizione sociale è esclusiva delle famiglie dei funzionari dello stato e dei clan regnanti, o discende dall’appartenenza alla fede religiosa dominante. In Siria ogni cittadino parte dalle stesse possibilità, qualsiasi sia la sua etnia, la sua fede religiosa, il suo ceto sociale. Da ultimo, un aspetto che, se non avesse risvolti tragici, sarebbe comico: l’Arabia Saudita chiede modifiche e riforme della Costituzione siriana quando in quel paese non esiste una costituzione! Ma c’è un altro paese dell’area mediorientale che sta fomentando questa guerra ed è storicamente coinvolto da oltre sessant’anni in tutti i conflitti di quell’area: Israele. Un paese che con forza e arroganza chiede il disarmo delle dotazioni chimiche dell’esercito siriano (in sè una cosa giusta, se valesse per tutti), ma che possiede ufficialmente senza che alcun paese importante osi protestare - armi nucleari, armi di distruzione di massa e chimiche. Un paese che invoca il rispetto dei diritti umani in Siria, ma che ha la possibilità del cosiddetto «arresto amministrativo», la possibilità cioè di detenere una persona anche senza accuse specifiche, e che in questi decenni ha portato centinaia di migliaia di cittadini (ovviamente palestinesi) nelle carceri israeliane come forma di prevenzione. Un paese che ha la tortura legalizzata e praticata normalmente. Insomma, viene da dire: da che pulpiti provengono le morali dirittumaniste per la Siria! LE PAROLE DELLA MINORANZA CRISTIANA E DEL PAPA Mons. Giuseppe Nazzaro, francescano, ex vicario apostolico di Aleppo, racconta: «Per come io la conosco, la Siria era il paese islamico più democratico di tutto il Medio Oriente (…). Quello che mi sta a cuore è che in Europa si sappia bene che cosa sta succedendo qui e in tutto il Medio Oriente e per colpa di chi. Questa è soprattutto una guerra di commercio. Siamo in una nuova colonizzazione che si traduce così: “Io vi dò le armi, voi vi autodistruggete e poi vengo io a ricostruire tutto”». «Io lancio un allarme per tutta la situazione che siamo obbligati a vivere oggi. I potenti della terra che l’hanno causata, la devono smettere, la devono finire. Noi stavamo benissimo. Vivevamo in pace. Ci hanno portato una guerra che è diventata guerra fratricida, che sta distruggendo un paese che era bellissimo, ricco di storia, ricco di civiltà». Un discorso che viene confermato dalla testimonianza di padre Daniel Maes, sacerdote cattolico belga del Monastero S. Giacomo di Qara: «Qualche anno fa, quando siamo venuti in Siria, non abbiamo incontrato una società politica perfetta, ma abbiamo incontrato una società prospera e (segue a pagina 14) DICEMBRE 2013 MC 11 SIRIA Incontro con mons. Haddad della Chiesa cattolica greco-melchita IL PAESE STRAPPATO E LA GUERRA IMPORTATA Il mosaico religioso della Siria è stato infranto da una guerra importata. Mercenari pagati dai paesi sunniti (Arabia Saudita, in primis) e armati dai paesi occidentali (Stati Uniti e Francia in testa), stanno distruggendo l’unico paese arabo in cui la convivenza interconfessionale era una pratica quotidiana, l’unico dotato di una Costituzione laica. Da quest’intervista esce un quadro molto diverso da quello dipinto dalla maggior parte dei media internazionali. Roma mons. Mtianos Haddad è rettore della Basilica A di Santa Maria in Cosmedin. La chiesa sorge in piazza Bocca della Verità. Proprio sotto il portico della chiesa è collocato - dall’anno 1632 - il notissimo mascherone in marmo dove tutti introducono la mano per dimostrare che non mentono. «E anch’io oggi dirò la verità, signor Paolo», aggiunge con un sorriso il prelato (*). Siriano, archimandrita della Chiesa cattolica greco-melchita a Roma, mons. Haddad appare come una persona pacifica e gioviale, ma con idee molto chiare sull’«amata Siria», un paese dilaniato da una guerra importata da siriani espatriati e da gruppi islamici foraggiati dai soldi di alcuni paesi sunniti (in primis, Arabia Saudita e Qatar) e dalle armi vendute dai paesi occidentali. Mons. Haddad, la Siria è un paese dalle molte confessioni religiose. «La Siria è una culla della cristianità. I cristiani e gli ebrei sono lì da ben prima dell’islam. Dopo 600 anni sono arrivati anche i musulmani. Un mosaico religioso, ben vissuto e ben accettato, che è diventato una ricchezza. Prima di questi ultimi 32 mesi, “maledetti” (mi scuso del termine, ma è così), la Siria era un esempio della convivenza e convivialità tra cristiani (cattolici, ortodossi, protestanti), musulmani e comunità ebraiche. Come prova di quanto affermo, ricordo che, da tanti anni, il governo ha cancellato la voce “religione” dalla carta d’identità, cosa impensabile negli altri paesi arabi. Così, al momento di iscriversi all’Università, nessuno ti chiederà quale sia la tua fede. Ma c’è di più. Nelle scuole pubbliche, che sono gratuite, pure le differenze sociali tra ricchi e poveri sono state azzerate introducendo per ogni studente la stessa uniforme. Anche in questo modo il governo ha aiutato tutti noi a essere semplicemente cittadini siriani. Io sono orgoglioso di essere siriano». © Paolo Moiola GLI ANTI-ASSAD 12 MC DICEMBRE 2013 ESERCITO SIRIANO LIBERO: nato nel luglio 2011, è stata la prima formazione antiAssad, ora molto indebolita dalle defezioni. Si potrebbe però obiettare che le decisioni di governo sono prese da un solo partito... «Con tutte le cose che possiamo dire sul Bath - partito unico, dittatore e altro -, dobbiamo ammettere che esso ha dato stabilità alla Siria. Ricordo che Michel Aflaq (1910-1989, ndr), il suo fondatore, era un cristiano. Egli riteneva che con un unico partito laico si sarebbe potuti andare oltre le differenze dell’appartenenza religiosa. Ricordo che, prima dell’avvento del Bath, la vita media di un governo non superava gli 11 mesi. Oggi si protesta contro la lunga permanenza al potere di Assad, dimenticandosi che in Germania Angela Merkel è appena stata eletta per il terzo mandato». Dal marzo 2011 in Siria c’è un conflitto. Come spiegarlo? «Hanno iniziato a dire che in Siria era arrivata la primavera araba e che il governo doveva andarsene. Vediamo cos’è successo negli altri paesi. In Egitto, si è tornati a prima della primavera: un fallimento. In Iraq, la maggior parte della popolazione e delle minoranze rimpiange i tempi del dittatore. I giornali non ne parlano più, ma la pace di oggi costa (almeno) 60 vittime al giorno. In Libia, la liberazione è costata migliaia di morti e adesso il paese è diviso tra tribù. Io come cristiano non posso andare in Arabia Saudita con la bibbia e con la croce. In quel paese le donne non possono neppure guidare un’automobile! L’esempio della Siria era pericoloso per i paesi del Golfo. Pertanto, hanno cominciato a lavorare per distruggere il modello siriano. E non dimentichiamo la confinante Turchia. Quando era in amicizia con Israele, era contro la Siria. Poi, dopo l’incidente della “Freedom Flotilla per Gaza” (maggio 2010, ndr), i due paesi si sono riavvicinati. Adesso le cose sono di nuovo cambiate, dato che Erdogan sogna di far rivivere il califfato ottomano». Per questo lei parla di una guerra importata... «Per abbattere il governo sono arrivati in Siria combattenti jihadisti da 17 paesi! Si parla di 80-100 mila uomini armati stranieri nel paese. Sono mercenari, jihadisti per vocazione o fanatici. Un esempio. Sono arrivati nella bellissima Aleppo, città di cultura e commerci, e si sono impossessati di un quartiere. Ebbene, questi personaggi hanno imposto la sharia nella zona conquistata. Hanno usato le persone come scudi umani, hanno ucciso bambini davanti ai familiari. Altri fanatici jihadisti hanno attaccato (settembre 2013, ndr) il villaggio cristiano di Malula1». Abbiamo parlato dei paesi arabi. Vediamo adesso il comportamento dei paesi occidentali. «È stato negativo. Si pensi alla Francia. È andata in Mali a ESERCITO ISLAMICO: il Jaysh al-Islam è nato a fine settembre 2013, include 43 gruppi islamisti. ALLEANZA ISLAMICA: nato a metà settembre 2013, include 13 gruppi islamisti, tra cui il Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham. MC ARTICOLI combattere al-Qaeda. Adesso la stessa Francia vuole abbattere - assieme ad al-Qaeda - il governo siriano. Dunque, per Parigi al-Qaeda è un diavolo in Mali e un santo in Siria. Dato che non può essere così, è evidente che si tratta soltanto di una questione di interessi. Vediamo ora gli Stati Uniti, che predicano la democrazia dei popoli. Perché vanno contro un governo eletto dal popolo siriano? E infine non dimentichiamo Israele». Già, non possiamo dimenticare Israele… «Prima di tutto, io voglio distinguere tra lo stato di Israele e la popolazione ebraica. In Siria, l’ho già ricordato, viviamo bene con le comunità ebraiche. Se gli Stati Uniti vogliono essere gli arbitri o i garanti della giustizia internazionale, allora debbono occuparsi anche del popolo arabo palestinese, privo dei suoi diritti dal 1948. Questa ingiustizia è una spina nel fianco di tutto il mondo arabo. Israele e gli Stati Uniti ne sono responsabili. Ma c’è dell’altro. Perché non si parla mai del nucleare israeliano? Perché non si parla delle emissioni radioattive della centrale di Dimona2?». Mons. Haddad, diciamo due parole anche sui paesi più vicini alla Siria come la Russia e l’Iran. «La Russia è sempre stata legata alla Siria per questioni strategiche e commerciali (il grano e il gas, ad esempio). L’Iran vedendo questa coalizione di paesi sunniti contro la Siria - ha pensato di aiutare Assad per riequilibrare la situazione nella regione. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex presidente egiziano Morsi, esponente dei Fratelli musulmani, ha fatto chiudere l’ambasciata siriana al Cairo (giugno 2013, ndr)». Lei nega che quella siriana sia una guerra tra sunniti e sciiti. «Certamente. In Siria abbiamo tra il 60 e il 65 per cento di sunniti. Hanno il 60 per cento dei posti nell’amministrazione e nell’esercito oltre che una parte rilevante della ricchezza. Se fosse stata una guerra tra sunniti e sciiti, il governo di Assad avrebbe potuto resistere soltanto alcune settimane». Come sono le relazioni con il Libano dopo i conflitti degli anni passati? «È una bella storia di vicinanza. La Siria ha bisogno del Libano per accedere al mare, al tempo stesso il Libano ha bisogno della Siria. La guerra iniziò da uno scontro con i palestinesi (aprile 1975, ndr) e poi da alcuni comportamenti dell’esercito siriano che era andato lì per ripristinare la pace. Quel conflitto si trasformò in una trappola per Damasco, come quando fu accusata di aver ucciso il primo ministro Hariri (14 febbraio 2005, ndr). Tuttavia, i nostri popoli sono rimasti in ottimi rapporti come dimostrano i numerosi matrimoni tra cittadini dei due paesi. Durante la guerra in Libano molti si rifugiarono in Siria, mentre adesso avviene il contrario». Chi sono i ribelli? E soprattutto chi sono i loro capi che parlano dalle capitali europee? «Abbiamo già detto che la quasi totalità dei combattenti non sono siriani. Poi ci sono alcune persone che hanno lasciato la Siria perché avevano problemi con il governo (per esempio, non volevano fare il servizio militare) e che sono fuori del paese da oltre 20 anni. I loro figli neppure sanno dove sia la Siria! Io non li giudico (molti di loro hanno lasciato il paese per la paura - legittima - delle guerre), ma vogliono decidere le sorti del paese senza averne più diritto. CONSIGLIO NAZIONALE SIRIANO: nato nell’agosto 2011, è un’autorità politica anti-Assad con sede a Istanbul. Io rispetto l’opposizione siriana che dialoga con il governo per cambiare le cose, ma non quella che chiede l’intervento di eserciti stranieri per colpire il paese. Questo è un tradimento. Questi personaggi (che spesso vivono in hotel a 5 stelle) non mi rappresentano. Adesso sono stati chiamati a partecipare alla conferenza di “Ginevra 2”3, ma non ci vogliono andare perché pretendono di imporre le loro condizioni. Il governo al contrario non ne ha poste. A Obama hanno dato il premio Nobel della pace prima che facesse qualcosa. Vediamo se adesso saprà meritarselo». Dell’opposizione siriana non armata si parla poco. Ci dica lei qualcosa al riguardo. «Nell’attuale governo di Damasco ci sono 2 ministri dell’opposizione siriana pacifica. Uno è ministro della riconciliazione4. È una dimostrazione della serietà del governo, che vuole ascoltare i bisogni dei suoi cittadini, lavorando per la pace. Anche la Costituzione è stata cambiata: nell’articolo 8 non si parla più di partito unico». Il presidente Assad viene quasi sempre dipinto come un dittatore sanguinario e senza scrupoli. «Assad non è nato nell’esercito. È un uomo di cultura, che parla bene le lingue. È un medico oculista. È un uomo che rimane umile anche nella sua vita personale. Quando fummo ricevuti come rappresentanti della Chiesa melchita, ci salutò uno a uno dialogando con ognuno. È un presidente laico e di fede. Va a pregare nelle festività musulmane, va a porgere gli auguri ai patriarchi5 nelle festività cristiane. È stato detto che Assad ha accettato la soluzione sulle armi chimiche perché ha avuto paura. E se invece fosse soltanto un uomo di buona volontà? Per questo e altro Assad è un presidente che non può fare paura». Come si fa per uscire da questa situazione di guerra e ricostruire un paese distrutto. «La prima cosa è chiedere l’aiuto dell’Onu. La seconda è rispedire a casa ogni jihadista affinché nel paese rimangano soltanto i siriani». Un bel proposito, ma come fare per realizzarlo? «Occorre chiudere i rubinetti: quando non arriveranno più soldi, i jihadisti se ne andranno. Agli oppositori non armati che chiedono cambiamenti va ripetuto: parliamoci. Adesso i siriani hanno perso la fiducia. Occorre riconquistarla. Senza armi sarà molto più facile arrivare a una riconciliazione. Una riconciliazione che sia fondata sulla giustizia e sulla dignità». Paolo Moiola NOTE 1 - Il villaggio siriano di Malula è molto noto in quanto vi si parla ancora l’aramaico, lingua antichissima diffusa nel Medio Oriente prima di es sere soppiantata dall’arabo. 2 - La centrale di Dimona è anche famosa per l’incredibile vicenda di Mordechai Vanunu, il tecnico rapito e imprigionato per aver osato svelare i segreti del nucleare israeliano. 3 - Conferenza di pace sulla Siria alla presenza di Onu, Usa e Russia. 4 - Ali Haidar, medico, è stato nominato ministro per la riconciliazione nazionale nel giugno 2011, pochi mesi dopo lo scoppio della guerra. 5 - La capitale siriana Damasco ospita i patriarchi di alcune chiese cri stiane, sia cattoliche che ortodosse. (*) Questa intervista - riprodotta soltanto nei suoi passaggi essenziali - nasce da due incontri con mons. Haddad. Il secondo di questi è integralmente visibile su YouTube. Il link è riportato sul sito della rivista: www.rivistamissioniconsolata.it. SPONSORS POLITICI E/O FINANZIARI DEGLI ANTI-ASSAD: paesi sunniti mediorientali (Arabia Saudita, Qatar, Turchia), Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Israele. FONTI MEDIATICHE ANTI-ASSAD: Osservatorio siriano per i diritti umani (Londra), al-Jazeera (Qatar), al-Arabiya (Arabia Saudita). DICEMBRE 2013 MC 13 SIRIA CRONOLOGIA - DALL’IMPERO OTTOMANO A GINEVRA 2 L’Impero ottomano domina su Siria e Libano, parti della regione denominata «Grande Siria». Dopo la fine della prima guerra mondiale e il trattato di Versailles, la Francia ottiene il protettorato su Siria e Libano. Nasce e si sviluppa il partito Ba’th (Baath). Uno dei fondatori è il cristiano Michel Aflaq. Trattato (segreto) di Sykes-Picot: Gran Bretagna e Francia si spartiscono il Medio Oriente. 1516-1918 1916 Indipendenza della Siria. 1919-1946 1940-1946 14 MC DICEMBRE 2013 Dopo la «guerra dei sei giorni», Israele si annette unilateralmente il territorio siriano delle Alture del Golan, da cui non si è mai ritirato. Diventa presidente della Siria Hafiz al-Assad, alawita del partito Ba’th. Il partito Ba’th va al potere. 1946 1963 16 maggio sicura, e abbiamo anche sperimentato l’uguaglianza di tutti i gruppi religiosi. C’era la libertà di religione, l’ospitalità e una sana e serena vita di famiglia. Nella vita pubblica, discriminazioni, furti e criminalità erano sconosciuti. All’improvviso sono apparse le atrocità più orribili. Si massacra, si saccheggia e ci sono attentati in tutto il paese. Quella società abbastanza armonica si è trasformata in un incubo. I villaggi cristiani circostanti sono stati distrutti e tutti i fedeli che potevano essere catturati sono stati uccisi, secondo una logica di odio settario. Per decenni cristiani e musulmani hanno vissuto in pace in Siria. Il fatto che bande criminali possano scorrazzare e terrorizzare i civili, questo non è contro le leggi internazionali?... I giovani sono delusi, perché le potenze straniere dettano loro l’agenda. I musulmani moderati sono preoccupati, perché salafiti e fondamentalisti vo- A CURA DI PAOLO MOIOLA gliono imporre una dittatura totalitaria di stampo religioso. I cittadini sono terrorizzati perché vittime innocenti di bande armate». Parole isolate? Non proprio se anche Papa Francesco, durante l’Angelus dell’8 settembre 2013, ha detto: «Sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra o è una guerra commerciale per vendere queste armi o è per incrementarne il commercio illegale. (...) Preghiamo perché cessi subito la violenza e la devastazione in Siria e si lavori con rinnovato impegno per una giusta soluzione del conflitto fratricida… Dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Questi sono nemici da combattere uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune». TRAME E REGISTI OCCULTI (O INDICIBILI) Un’altra domanda da porsi è: chi sta dietro questa guerra? chi sono i registi occulti? Un dato emerge chiaramente: questa guerra è parte di disegni, strategie di cui la Siria è sola- 1967 1971 - 2000 Viene varata la prima Costituzione siriana. 1973 marzo mente un tassello, in realtà la partita si gioca su tutto il Medio Oriente nel suo insieme. Quella che segue è una sintetica e parziale documentazione, ma dà notevoli elementi di riflessione. • Nel febbraio 1982 viene pubblicato A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties, un saggio di Oded Yinon, allora alto funzionario del ministero degli Esteri di Israele, dove si indica un progetto strategico di disgregazione e frammentazione dell’intero Medio Oriente e paesi arabi, in parti le più minuscole possibili, fomentando e favorendo conflittualità su basi etniche e religiose, fino allo smantellamento di tutti gli stati vicini o ostili a Israele. Nell’articolo si indicano nello specifico, persino descrivendo le province e regioni di ciascun paese, dal Libano all’Iraq, dall’Egitto alla Siria, con Libia compresa. Per la Siria si descriveva - siamo nel 1982 - come andasse disgregata: dividerla su basi etnico-religiose in più stati (sulla costa uno stato alawita e sciita, nella regione di Aleppo sunnita, nella regione del Golan druso, eccetera). «Questo progetto è l’obiettivo prioritario di Israele a lungo termine, a breve nel frattempo l’obiettivo è la dissoluzione militare di questi stati (...). È un progetto alla nostra portata». • Il 15 settembre 2001, a Camp David, subito dopo gli attentati # Sopra: il presidente Assad e la moglie Asma al referendum sulla nuova Costituzione (2012). Qui a sinistra: Gregorio III Laham, patriarca della Chiesa greco-melchita. A destra in basso: Kirill I, patriarca della Chiesa ortodossa russa, con Assad. MC ARTICOLI Diventa presidente Bashar al-Assad, di professione medico, figlio di Hafiz. Viene approvata la nuova Costituzione siriana: non c’è più il partito unico (art. 8) e sono posti limiti alla carica presidenziale (art. 88). Nasce l’«Alleanza islamica»: ne fanno parte 13 gruppi ribelli fuoriusciti dalla «Coalizione nazionale siriana». Nel programma dell’Alleanza c’è l’applicazione della sharia alla nuova Siria. Assad annuncia che nel 2014 si ricandiderà. Gli Usa contestano la decisione. Nasce l’«Esercito islamico»: ne fanno parte 43 gruppi ribelli. Accordo tra Usa e Russia per evitare un attacco internazionale alla Siria guidato da Washington. Inizia il conflitto interno sulla scia delle cosiddette «primavere arabe». Il Consiglio di sicurezza dell’Onu adotta la risoluzione 2118 in base alla quale debbono essere distrutte le armi chimiche in dotazione alla Siria. Il compito viene assegnato a Opcw, l’organizzazione contro le armi chimiche (premiata con il Nobel per la pace 2013). 2013 2013 2000 2011 2012 2013 2013 2013 luglio marzo febbraio 14 settembre metà settembre fine settembre 27 settembre 21 ottobre alle Torri gemelle, dall’amministrazione Bush vengono pianificati una serie di attacchi: Afghanistan, Iraq, Somalia, Sudan, Libia e infine Siria e Iran. Lo rivela pubblicamente il generale Wesley Clark, a capo di una cordata di alti ufficiali che ritengono non sia interesse degli Usa fare queste guerre, sostenute da lobby filoisraeliane negli Stati Uniti. • Il 15 marzo 2005, il Washington Institute for Near East Policy (www.washingtoninstitute.org), un ramo molto influente della lobby israeliana, detta una strategia per la Siria, indicata da Robert Satloff, l’ebraico direttore dell’Istituto, che consigliava tre tipi di azioni: 1) la raccolta del massimo di informazioni sulle contraddizioni sociali ed etniche dentro la Siria; OPINIONE / LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA UNA «SINFONIA» CONTRO I FANATISMI a Chiesa ortodossa russa non è solo la più grande delle Chiese ortodosse nel mondo, ma anche quella che storicamente non è mai stata sotto una dominazione musulmana. Questa combinazione le ha permesso lungo i secoli di difendere gli interessi dei cristiani ortodossi perseguitati, in particolar modo quelli del Medio Oriente. Oggi, il sostegno al popolo siriano, espresso attraverso la preoccupazione per la minoranza cristiana a rischio in Siria, trova le dichiarazioni dei portavoce del patriarcato di Mosca e dello stato russo tanto concordi che è difficile distinguere da chi vengano gli appelli, nonostante negli ultimi anni ci sia stata una coerente pratica di non interferenza nelle rispettive sfere di competenza: si vede qui realizzato il principio di «sinfonia» tra Chiesa e Stato che ha caratterizzato per oltre un millennio l’Impero romano (il riferimento è all’Editto di Tessalonica del 27 febbraio 380 con cui si proclama il cristianesimo niceno religione ufficiale dell’Impero, ndr). Le campagne di raccolte di aiuti per i cristiani in Siria nelle chiese ortodosse del Patriarcato di Mosca, e le prese di posizione del governo russo per scongiurare un intervento armato straniero in territorio siriano (nonché l’appoggio statunitense a bande di ribelli islamisti che di siriano non hanno nulla) sono ben più di un’alleanza per fini politici comuni: sono un esempio di rappresentazione della volontà popolare che avrebbe qualcosa da insegnare alle nostre «democrazie». L’accordo tra leader di stato e di fede è ancor più sorpren- L La Conferenza di pace «Ginevra 2» è in forse a causa delle richieste e divisioni dei ribelli. 2013 novembre/ dicembre 2) cominciare ad agitare campagne sui temi della democrazia, dei diritti umani, sullo stato di diritto; 3) non offrire al regime siriano alcuna via d’uscita, a meno che Assad non sia disposto a recarsi in Israele per negoziare, o non espella tutte le forze anti-israeliane da lui protette e non rinunci alla «resistenza nazionale». • Nel dicembre 2003 il Congresso dente quando si pensa che da poco più di un ventennio la Russia è uscita da una lunga esperienza di ateismo di stato. Curiosamente, la diffidenza verso il fanatismo di matrice musulmana sembra andare di pari passo con la diffidenza verso il fanatismo laicista nel mondo occidentale. La Russia un tempo ufficialmente atea dimostra un grado di democrazia maggiore di quello del mondo cosiddetto libero, rispettando la volontà della stragrande maggioranza della popolazione più di quanto facciano i regimi occidentali, sia in tema di intervento militare (che vede l’opposizione di una maggioranza della popolazione in tutti i paesi), sia in tema di introduzione di false leggi di «tolleranza», forme di suicidio anticristiano non sostenute dalle popolazioni locali, sia in Russia che in Occidente. Padre Ambrogio , Chiesa ortodossa russa di Torino (*) (*) Padre Ambrogio (al secolo Andrea Cassinasco) è dal 2001 il parroco della chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca a Torino. Il Patriarcato di Mosca (noto anche con il nome di Chiesa ortodossa russa) è rappresentato in Italia da oltre una cinquantina di parrocchie e comunità. Sito web: www.ortodossiatorino.net. DICEMBRE 2013 MC 15 SIRIA Usa approva il Syrian Accountability Act, che dà il mandato al presidente Bush di preparare l’attacco alla Siria. • Nel 2006 relazioni pubblicate da ex agenti dei Servizi segreti francesi, definiscono la politica statunitense in Medio Oriente fondata sulla «instabilità costruttiva», una strategia che, come essi dicono, «posa su tre principi: creare e gestire conflitti a bassa intensità, favorire lo spezzettamento politico e territoriale dell’area e promuovere il settarismo e la pulizia etnico-confessionale». • Il 5 marzo 2007 sul New Yorker, Seymour Hersch rivela che Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita, Fratellanza musulmana siriana e Hariri in Libano, hanno costituito, finanziato e armato frange di estremisti e fondamentalisti qaedisti per rovesciare la Siria e il Libano. Si potrebbe, anzi si dovrebbe, continuare con altri attori e burattinai occulti, di solito nascosti dietro fondazioni o istituti di ricerca nonprofit. Come il Canadian Centre for Responsibility to Protect (www.ccr2p.org), l’Albert Einstein Foundation (www.aeinstein.org), la Freedom House (www.freedomhouse.org), l’International Republican Institute (www.iri.org), il National Democratic Institute (www.ndi.org), la National Endowment Democracy (www.ned.org), o la lobby saudita dei Sudairi, ecc. Ma sarebbero necessarie molte più pagine di quelle disponibili. LA DISINFORMAZIONE STRATEGICA Per poter perseguire questi obbiettivi vi è un’arma senza la quale, come stabilì il dipartimento di Stato Usa, non si possono più vincere le guerre: è la cosiddetta «Quarta Armata», la Disinformazione Strategica. Quella scienza cioè, che prepara, manipola, falsifica, occulta, inganna e orienta le opinioni pubbliche internazionali (a dire il vero, soprattutto quelle occidentali). Una vera e propria guerra mediatica scatenata contro popoli e paesi con le loro leadership, da aggredire e conquistare poi con le armi, anzi con le «guerre umanitarie». La «Quarta Armata» funziona sulla base di uno schema ormai collaudato negli ultimi vent’anni, e con meccanismi di dispiega- 16 MC DICEMBRE 2013 mento quasi fissi, passaggio dopo passaggio. Essa consiste in una serie di fasi: • Una campagna mediatica martellante e incessante di Tv, giornali, radio, siti web, sui temi dei diritti umani, della democrazia, del regime, dei diritti di opposizioni ininfluenti o residenti all’estero, di minoranze etniche oppresse non sufficientemente tutelate. Una comunicazione ossessiva su quanto siano democratiche le forze di opposizione e la cosiddetta società civile, le Ong create ad hoc e su quanto sia importante finanziare questi attori per lottare contro il regime. • Si passa poi a sanzioni ed embarghi contro i governi che non collaborino o non siano disponibili ad accettare i diktat. • Terzo passaggio è la demonizzazione e criminalizzazione scientifica e incessante dei leader, dei partiti, forze locali «renitenti o recalcitranti», o non disponibili a svendere la loro politica e gli interessi nazionali o indipendenti. Nel mentre, se nel paese cominciano insorgenze militari, si inizia a paventare la «minaccia e la necessità di un intervento» o l’apertura di «corridoi umanitari e no fly zone». • Scatta l’aggressione militare, naturalmente sotto la veste di «guerra umanitaria», per portare democrazia e libertà in quel paese, e difendere i diritti umani. Il paese recalcitrante viene occupato militarmente e affidato alle forze «nuove» garanti di un nuovo sistema libero e democratico come Al Qaeda in Libia o personaggi alla Quisling (nome di un noto collaborazionista norvegese, ndr) screditati dalle popolazioni locali (come Karzai in Afghanistan o Chalabi in Iraq), se non mafiosi (come in Kosovo). Nel frattempo le risorse di quel paese passano sotto la «tutela» delle varie multinazionali occidentali e vengono installate basi militari Nato o Usa. Come abbiamo cercato sinteticamente di spiegare, l’uso dei media e della guerra mediatica per assopire le opinioni pubbliche occidentali, sono fondamentali e imprescindibili nel nostro tempo per qualsiasi aggressione e conflitto. Pensiamo quali tragedie umane e sociali e quali conse- guenze hanno prodotto le ultime guerre umanitarie in Somalia, Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia. Sarà lo stesso per la Siria? PRESERVARE POPOLI, CULTURE E FEDI È necessario sottolineare e ribadire che a essere contro la guerra in Siria e a chiedere la fine dell’aggressione, dell’ingerenza delle potenze occidentali e delle violenze delle milizie qaediste, non si difende un partito, un presidente, una ideologia, una fazione. Agendo così si difende la realtà di un popolo, di una società, di un sistema politico e sociale, fondati sulla laicità dello stato, la multireligiosità, la multietnicità, la multiculturalità. Si difende, in altri termini, la ricchezza di un mosaico di popoli, culture e fedi millenarie, l’equilibrio di un sistema unico in tutta l’area mediorientale. Nell’essere dalla parte della Siria e del suo popolo, si stabilisce che il presidente Assad e il governo siriano sono e devono essere un problema dei siriani che vivono in quel paese. Scelte e decisioni sul presente e sul futuro di quel paese spettano soltanto a loro. Enrico Vigna* (*) ENRICO VIGNA è presidente di «Sos Yugoslavia Onlus», associazione di solidarietà che, a dicembre 2012, ha ricevuto a Belgrado il «Premio Novosti», il più alto riconoscimento della Serbia. È autore di numerosi saggi. Il suo ultimo lavoro è: Le Chiese d’Oriente e il “regime” siriano, prefazione di padre Haddad, Zambon Editore, Francoforte 2013 (www.zambon.net). ZAMBIA Testo e foto di ERMINA MARTINI Al confine tra Zambia e Congo Rd, il lago Mweru è una risorsa per decine di migliaia di persone. Ma negli ultimi anni i pesci sono diminuti, mentre i pescatori sono aumentati a dismisura. Occorre puntare su attività alternative, come la piscicoltura. Mentre la Cina sta invadendo il mercato di pesce surgelato. REPORTAGE DAL LAGO MWERU IL LAGO CHE DÀ VITA M weru significa «lago» in alcune lingue Bantu, per questo, spesso, quando la gente del posto si riferisce al lago Mweru, lo chiama semplicemente Mwelu (la pronuncia locale sostituisce la r con la l). Da sempre le acque del lago, che fanno parte del bacino del fiume Congo, secondo per portata d’acqua solo al Rio delle Amazzoni, hanno costituito un’immensa fonte di ricchezza per gli abitanti dei due paesi confinanti: lo Zambia, sull’argine meridionale e la Repubblica Democratica del Congo al Nord. Nonostante la passata gloriosa ricchezza delle acque, oggi pe- scatori, commercianti e contadini fanno tutti la stessa constatazione: «Nel lago Mweru non ci sono più pesci». La pesca dagli anni Settanta è diventata in queste zone un’attività sempre più attrattiva. Essendo libera, perché non è richiesta alcuna licenza, e priva di regolamentazione, il numero di pescatori è cresciuto immensamente e nel 2011 sul lago se ne contavano oltre 22.000. Per contrastare l’impoverimento delle acque dal 1986 lo Zambia ha attivato un periodo annuale di divieto di pesca, che va dal primo dicembre al primo marzo, per permettere ai pesci di riprodursi. Nel 2011 è stata anche promulgata una legge che istituisce il reato della pesca illegale: chi durante il periodo di divieto ZAMBIA viene sorpreso a pescare o in possesso di pesce è sanzionabile con multe e con la reclusione. Tuttavia, le autorità responsabili non hanno mezzi sufficienti per garantire l’applicazione del divieto. Ernest Ngula, del Dipartimento della Pesca nel municipio di Nchelenge, lo dice chiaramente: «Le barche che abbiamo per il pattugliamento sono vecchie, non abbiamo sufficiente benzina e non sempre siamo scortati dagli agenti della polizia». RISORSE DA CONDIVIDERE Come ci spiega Joyce Nsamba, la rappresentante per il ministero dell’Agricoltura e Allevamento dello Zambia (che si occupa anche di pesca) nella provincia di Luapula, nel Nord del paese, il fiume Luapula, che traccia il confine tra Zambia e Rd del Congo prima di gettarsi nel lago Mweru, non è una vera frontiera. I pescatori di entrambi i paesi ne traggono la loro unica fonte di sostentamento e lo attraversano quotidianamente. Sono numerosi i congolesi che vivono sul versante dello Zambia. Pochi sono registrati ufficialmente, ma preferiscono questo lato perché i servizi e le infrastrutture, malgrado siano scarse, sono migliori che sull’altro versante. In generale non ci sono problemi di convivenza, ma non ci sono neanche politiche di gestione comune, né un sistema condiviso per raccogliere informazioni sullo stato delle risorse ittiche. Lo stesso vale per il lago Mweru. Anzi, gli approcci utilizzati sono molto distinti. Lo Zambia ha optato per una co-gestione della pesca, ovvero un sistema dove vengono coinvolti in comitati locali i pescatori, le autorità tradizionali e i funzionari del ministero, per promuovere una gestione sostenibile delle risorse anche attraverso la sensibilizzazione e la diversificazione delle fonti di reddito. In Congo, invece, il sistema di controllo è gestito dall’esercito, spesso corrotto. A inizio giugno, un pescatore dello Zambia è stato ucciso dai militari perché trovato in acque congolesi mentre praticava la pesca illegale. In passato, si sono spesso verificati casi di arresti e detenzione, ma la morte del pescatore ha suscitato scalpore. Il presidente del distretto di Nchelenge, Mudenda, spiega che adesso anche dal lato dello Zambia arriveranno alcuni contingenti dell’esercito per aiutare nel controllo del lago e per ridurre la pesca illegale. Malgrado sia necessaria una gestione più uniforme ed efficace del lago, il rischio in questo modo è di promuovere una militarizzazione delle acque. LA PESCA È VITA I pescatori sono persone semplici e a basso reddito, spesso la pesca è la loro unica fonte di sostentamento e con l’attuale stato delle risorse ittiche, usare metodi illegali è diventato per loro il solo MC ARTICOLI # In queste pagine: immagini della vita intorno al lago Mweru. Il giovane Chisela mostra la sua preda. Le commercianti prendono d’assalto le barche dei pescatori. Pesce secco e un banco al mercato. Alcune imbarcazioni utilizzate per la persca sul Mweru. modo per riuscire a sopravvivere. I metodi più diffusi sono l’utilizzo di reti molto fini, come le zanzariere, per riuscire a catturare i pesci anche di piccola taglia, ma si ricorre anche a esplosivi rudimentali e al veleno chiamato localmente ububa. Di notte nel lago si possono vedere delle tenui luci galleggianti: sono i pescatori che cercano di scappare ai controlli. Il dottor Abila, esperto di risorse ittiche che lavora nella Provincia di Luapula per fornire assistenza tecnica al ministero dell’Agricoltura e Allevamento, è convinto che occorra insistere sul princi- pio di co-gestione della pesca e promuovere attività alternative per i pescatori, in particolare l’acquacoltura: «Il pesce fa parte della dieta locale, la domanda di questo prodotto è superiore all’offerta disponibile, e per questo la pesca di allevamento ha potenziali enormi. Però occorre appoggio tecnico, e un credito iniziale per avviare l’attività. Ci sono già oltre 2.000 vasche di allevamento nella regione, ma la produttività è bassa e poco redditizia, specie per il costo degli alimenti da dare ai pesci. Stiamo portando avanti il principio di allevamento inte- grato, ovvero associare all’acquacoltura, la produzione agricola e l’allevamento di polli, galline e maiali, perché gli scarti animali e vegetali sono un ottimo alimento per i pesci. Ma ci va del tempo per avere risultati, e i cinesi sono già dietro l’angolo con i loro pesci surgelati, pronti a invadere il mercato». Attualmente infatti si calcola che l’80% del pesce consumato in Zambia sia importato da Cina e Zimbabwe. In Cina la pesca d’allevamento è sussidiata e i prezzi sono più competitivi, mentre in Zambia l’acquacultura è ancora molto disorganizzata, non beneficia di economie di scala e non riceve sufficiente supporto dalle politiche governative. L’agricoltura è sempre stata sussidiata dallo stato, attraverso la distribuzione di fertilizzanti e l’acquisto del mais a un prezzo sovvenzionato, invece la pesca e l’allevamento non hanno beneficiato di analoghi incentivi. COMMERCIO AL FEMMINILE Se la pesca sul lago Mweru è attività principalmente maschile, la commercializzazione dei pesci è riservata alle donne. Si riuniscono all’alba sulle rive del lago e aspettano, armate di bacinelle, l’arrivo delle piccole barche sgangherate dei pescatori, che sono letteralDICEMBRE 2013 MC 19 ZAMBIA INSIEME PER IL LAGO ella regione di Luapula il ministero dell’Agricoltura e l’Allevamento, supportato dai programmi di cooperazione promossi da Finlandia e Giappone, ha istituito 136 comitati di villaggio per la gestione della pesca. Sono gruppi di volontari, in media otto per ogni comitato, eletti a livello di villaggio, che hanno ricevuto formazioni specifiche e assumono la responsabilità di promuovere il rispetto delle norme della pesca attraverso la sensibilizzazione e il controllo. Fare parte del comitato è vissuto come un onore, ma non mancano le frustrazioni. Spesso i membri dicono di non avere nessuno strumento per operare, e usare il controllo sociale e dare il buon esempio non sono sufficienti. Bisogna promuovere attività alternative per i pescatori, come l’agricoltura e l’allevamento, ma il ministero manca dei mezzi. Nelle sensibilizzazioni si parla anche dell’aspetto ambientale per prendere coscienza di come il lago stia cambiando e del problema dell’Hiv. E.M. N # Sopra: vista del lago Mweru al tramonto. # A fianco: un piatto a base di pesce e pasta di manioca al ristorante. mente prese d’assalto ancora prima di toccare terra. «Siamo troppe commercianti, ormai è diventato durissimo ottenere il pesce da vendere. È una vera lotta, ogni mattina. Non c’è abbastanza pesce per tutte» spiega Janet, del quartiere di Queens, municipio di Nchelenge. Lei, insieme ad altre donne, fa parte dell’Associazione della Pesca di Luapula. Hanno uno spazio dove fare il mercato, i prezzi sono prestabiliti e la qualità è garantita. Il principale prodotto del lago è la tilapia, la comprano a unità, sei pezzi costano 50 kwacha (la valuta locale, circa sei euro), e li rivendono a 60 kwacha. In media vendono circa sessanta pesci a giornata, per un ricavo totale di 60 kwacha. I prezzi variano in base alla stagione, ma il ricavato è abbastanza costante. Poi c’è il periodo del divieto della pesca, dove è proibito commercializzare il pesce fresco. Resta il pesce sotto sale e affumicato che si conserva a lungo. Disposti sui 20 MC DICEMBRE 2013 banchi, infatti, si vedono anche ordinati i pesciolini dorati e bianchi, conservati con delle tecniche tradizionali tipiche degli isolani. «I pesci secchi li preparano gli indigeni delle isole, è da loro che li compriamo» ricorda Janet. Nel lago Mweru ci sono varie isole flottanti, e sul versante dello Zambia due sono le più estese e abitate da oltre 28.000 persone. Sulle due isole però non c’è alcun tipo di servizio: né scuole, né ospedali, né elettricità. In queste comunità, la piaga dell’Hiv è ancora preoccupante: l’alta mobilità dei pescatori, le relazioni di potere con le commercianti, i flussi transfrontalieri e lo scarso accesso a strutture sanitarie ne favoriscono la diffusione, malgrado si possa constatare una generale consapevolezza e informazione sulla malattia. Lungo la strada che costeggia il fiume Luapula si vedono ragazzini con pesci in mano che cercano di vendere alle rare macchine che passano. Chisela ha un sorriso fulminante mentre mostra la sua «preda»: è un pesce gatto di oltre quattro chili. Il dottor Abila spiega che i pesci nella stagione della pioggia, tra maggio e ottobre, risalgono dal lago il corso del fiume dove si riprodu- cono. «Vedendo pesci di questa taglia è difficile affermare che ci sia un sovra-sfruttamento biologico delle risorse ittiche; è invece più corretto parlare di sovrasfruttamento economico delle acque dovuto a una crescita sproporzionata del numero di pescatori, barche e reti. Oggi, per darvi un dato chiaro, la resa della pesca annuale di un pescatore è di circa la metà di quindici anni fa: si è passati da 1,3 tonnellate a 0,6». Morgan, coordinatore del comitato per la gestione della pesca del villaggio di Chitondo lo dice chiaramente: «Mwelu non è più quella miniera d’oro che era in passato; dobbiamo prenderne atto, e comportarci di conseguenza». Ermina Martini BRASILE © Archivio Sertão Vivo di SILVIA ZACCARIA SERTÃO / INCONTRO CON ZÉ VICENTE Il sertão è una regione semiarida del Nord-est brasiliano. A Orós, nello stato di Ceará, abbiamo incontrato Zé Vicente, noto poeta e musicista, vicino alla Teologia della liberazione e alle Comunità ecclesiali di base. L’artista è anche ideatore di «Sertão vivo», un progetto di sviluppo alternativo che - partendo dall’arte, dall’educazione ambientale, dalla salvaguardia delle tradizioni contadine cerca di costruire il bem-viver, il «buon vivere». DOVE I CONTADINI SONO POETI O rós (Ceará). «Il problema del sertão non è la siccità ma il recinto del padrone»1 recita un detto popolare del Nord-est brasiliano. Ancora oggi è questa la realtà sociale della regione semi-arida del Brasile, che Zé Vicente, poetacontadino-ecologista, mistico, cantante e autore di musica popolare celebrativa, descrive nelle sue composizioni. Rime e ritmi che hanno le radici nella tradizione nordestina dei repentistas, maestri dell’improvvisazione, e degli agricoltori poeti del Ceará, come Patativa de Assaré, che trovava nel lavoro della terra i motivi della sua ispirazione. Negli anni ’90, Zé Vicente ha ideato il progetto «Sertão vivo», con questa convinzione: uno sviluppo alternativo è possibile e, nel caso del sertão, significa imparare a con-vivere con la siccità, partendo dal rispetto della na- tura, riscattando e valorizzando i saperi tradizionali. Contro la logica delle grandi opere che devastano l’ambiente e sradicano dai loro territori migliaia di persone. Per intervistarlo siamo andati nel municipio di Orós, centro-sud dello stato del Ceará, a 400 km dalla capitale Fortaleza, nel sitio2 Aroeiras, sede del «Sertão vivo». Qui si realizzano attività di arte ed educazione ambientale rivolte agli abitanti delle comunità vicine e si incontrano alternativamente teologi della liberazione e operatori olistici, custodi delle sementi e «profeti della pioggia» per apprendere e celebrare l’arte del bem-viver (buon vivere) nel sertão. # In alto: progetto «Sertão vivo», laboratorio di pittura e ambiente per i bambini della comunità Guassussé. DICEMBRE 2013 MC 21 BRASILE Zé Vicente, innanzitutto vorrei chiederti qual è la definizione che più ti si addice: artista, attivista/ecologista, educatore popolare, mistico o piuttosto tutte queste cose insieme? «Sono un essere umano, poetaagricoltore, innamorato del mio popolo e della mia terra, del pianeta e delle sue radici sacre. Vivo nella costante ricerca di una dimensione superiore. Attraverso la poesia e la musica solidarizzo con la mia gente e con tutti coloro, soprattutto i giovani, che sono in cerca di una fede matura e impegnata di fronte alle profonde trasformazioni sociali ed ecologiche del nostro tempo». © Archivio Sertão Vivo Zé, tu sei molto attivo in campo sociale nello stato del Ceará ed in altri stati del Nord-est collaborando con le Comunità ecclesiali di base (Cebs). Secondo te, che capacità ha oggi la Chiesa brasiliana di negoziare con le istanze politiche del tuo paese legate a un modello economico «sviluppista» che produce conseguenze ambientali irreparabili e che aumenta le diseguaglianze sociali? «Penso che stiamo attraversando un momento molto delicato: la situazione della vita sulla terra e dello stesso pianeta desta molta inquietudine e preoccupazione. Siamo in una situazione di emergenza. Di fronte a tutto ciò le Chiese e le religioni, così come tutte le altre grandi istituzioni economiche e politiche non possono restare a guardare ma al contrario devono incoraggiare i popoli ad assumere le attitudini necessarie ad affrontare questa situazione. Non bastano i grandi meeting, i congressi, i documenti, i culti: c’è bisogno di intraprendere azioni che abbiano impatto in tutti i campi della società. Anche noi ar- # A destra: laboratorio di pittura. In basso, a sinistra: la sede di «Sertão vivo» con il cactus mandacarù, simbolo del sertão, in primo piano. In basso a destra: Zé Vicente. tisti possiamo, anzi, abbiamo l’obbligo di esprimere, attraverso l’arte, l’utopia e di dare voce alle rivendicazioni del nostro tempo. Se poi le chiese rimarranno in silenzio, nuove forze nasceranno per fare clamore e lottare. Io credo che i settori rappresentativi della Chiesta cattolica abbiano ancora la forza morale e l’obbligo etico di dialogare e far pressione su tutte le istanze del potere e sui governi affinché prendano decisioni in difesa della giustizia, della pace e della vita in tutti i settori della società, specialmente in favore delle moltitudini di esclusi ed emarginati dal sistema». IL SERTÃO, TRA SICCITÀ E INGIUSTIZIE l sertão (dal portoghese «desertão») è una regione semi-arida che abbraccia gli stati del Nord-est brasiliano: Bahia, Sergipe, Alagoas, Pernambuco, Paraiba, Rio Grande do Norte, Piauí e Ceará e il Nord dello stato di Minas Gerais. La vegetazione caratteristica di questa regione è la caatinga, che consiste principalmente di cespugli bassi e spinosi, capaci di adattarsi al suo clima estremo. Tra le specie originarie della caatinga c’è il cactus mandacarù, i cui frutti rossi spiccano nella macchia. La zona è soggetta periodicamente a secas (siccità), causando spesso negli anni gravi carestie. Durante quella del 1877, considerata la peggiore di tutte, solo nel Ceará morirono 500.000 persone, dando origine al fenomeno dei retirantes, migranti che, abbandonato tutto, andavano verso le grandi città costiere o verso il sud del paese in cerca di fortuna e di migliori condizioni di vita. Una migrazione che non si è mai fermata. Questa regione ha ispirato una ricca ed originale produzione letteraria e cinematografica, tra cui spiccano il romanzo Grande Sertão di João Guimaraes Rosa e il film Deus e o diabo na terra do Sol («Il dio nero e il diavolo biondo») di Glauber Rocha: in una terra senza stato, dove vige la legge del più forte, vaccari e piccoli contadini cercano di sfuggire alla miseria e allo sfruttamento dei padroni mettendosi al seguito di santoni fanatici o dei banditi, i cangaçeiros. La siccità e i retirantes, i movimenti millenaristi e l’epopea del cangaço sono inoltre il tema ricorrente della letteratura di cordel (lett. «dello spago») illustrata con la tecnica della xilografia, della musica e della poesia popolare, di cui uno dei maggiori esponenti è stato il cearense Patativa do Assaré (1909-2002). Zé Vicente si inserisce nella tradizione inaugurata da Patativa, che conobbe da giovane e da cui, come dice lui stesso, fu influenzato. La principale tematica dell’opera di Patativa è la seca, problema cronico del sertão, mentre Zé Vicente addita un nemico ancora più odioso: l’ineguale distribuzione delle terre e la mancanza di accesso all’acqua. Silvia Zaccaria I MC ARTICOLI Devo dire però che mi sento ancora più legato alle piccole pratiche quotidiane realizzate nella base e ai tanti leader popolari che agiscono nell’ombra, lontano dai media. Sono loro che, a mio parere, fanno la differenza. Sono giovani, lavoratrici e lavoratori, che troviamo per le strade, nelle campagne, senza terra, senza tetto e senza molte altre cose, ma pieni di volontà. Finché esisterà una sola persona esclusa, oppressa, la Teologia della liberazione avrà significato e dovrà vivere per annunciare la buona novella della liberazione, che Gesù ci ha dato e che lo Spirito rivela ogni momento». Zé, so che hai rapporti stretti con alcuni esponenti della Teologia della liberazione: Marcelo Barros, Carlos Mesters, tra gli altri. Ritieni che si tratti di una corrente ancora espressiva in Brasile? «È vero, ho buone relazioni con gli amici e le amiche della Teologia della liberazione. Credo che essa rappresenti ancora oggi un riferimento vivo nella nostra “camminata”. Ho avuto l’opportunità di conoscere personalmente il progetto di sviluppo alternativo che porti avanti nella tua terra d’origine, il sertão cearanse. Un progetto basato sulla sensibilizzazione, coscientizzazione e lavoro rivolto alla sostenibilità economica, socio-ambientale e culturale a livello familiare e comunitario. Potresti raccontarci la nascita e le finalità del progetto? Si tratta di un caso isolato o può funzionare da modello di riferimento nella regione, nello stato del Ceará e in altre zone del Brasile? «L’esperienza che ha portato alla nascita del progetto “Sertão vivo” è il segno più concreto della mia passione artistica, come poeta e musicista, per la camminata del mio popolo. La mia arte sarebbe incompleta se non sapessi creare nella mia famiglia e nella gente della mia regione l’“incanto” per qualcosa di più immediato, più concreto, più vicino alla vita, come la cura della terra, dell’ambiente e dell’essere umano. Ogni mese da Fortaleza, città dove sono emigrato, torno nel sitio Aroeiras, nella casa dei miei genitori, per mantenere vivo il legame con la mia famiglia, con gli antenati e sensibilizzare la mia comunità attraverso le giornate di “Arte e Vita”: seminari sull’alimentazione naturale (na roça e na comida sertão vivo com mais vida3, lo slogan utilizzato per questa giornata) e nuove pratiche agricole e di preservazione della natura di cui siamo parte – per coltivare senza bruciare il terreno e TEMPO DI POESIA «Per questo nostro tempo trafitto dal dolore, segnato dalla guerra, di notti insonni porto in me una meta: la poesia concreta esplicita lucida attraente fatta corpo emancipato nella primavera della vita! Ho qui nel mio petto un progetto: il nostro campo un rifugio da piantare coltivare ricreare e raccogliere, i fiori e i frutti del sogno vivo divenuto alimento cibo per gli sposi e per le feste, con sapore, intenso, d’amore! Metto sulle labbra di questo giorno qualcosa di più. La certezza dell’incontro della comunione, superando l’indifferenza colmando l’assenza, lasciando che succeda la più bella sapienza: stare insieme danzare insieme... La canzone degli intenti delle rime dei riti dei ritmi del bene più grande dell’allegria piena! Il nostro canto!» Zé Vicente*, dicembre 1996 (inedita) * Per leggere e ascoltare le poesie di Zé Vicente: www.letras.mus.br. DICEMBRE 2013 MC 23 © Archivio Sertão Vivo © Silvia Zaccaria BRASILE # In alto, a destra: la sede del progetto «Sertão vivo» con i murales di Francisco Daniel in omaggio a Dona Suzana e Zé Vicente padre, fondatori del sitio Aroeiras. In alto, a destra: edicola votiva domestica con la statuetta di padre Cicero, santo popolare del Nord-est. Qui a destra: murales realizzati nei laboratori di Arte e ambiente dall’artista Ivo Souza. 24 MC DICEMBRE 2013 Q uest’anno (2013) Zé Vicente ha lanciato il suo ultimo album Zé Vicente da esperança, nuovo nome del poeta ecologista e contadino, figlio del © Archivio Sertão Vivo senza usare agrotossici, camminate ecologiche, laboratori di musica, teatro, pittura, medicina naturale e alternativa, incontri con i “custodi delle sementi e delle esperienze della pioggia”4, senza trascurare le nostre feste tradizionali come San Giovanni, celebrata nel mese di giugno, dove la gente, tra canti e danze, esprime una fede profondamente radicata nella cultura. Tutte queste attività sono realizzate utilizzando il linguaggio e l’essenza dell’arte come punto di partenza e di arrivo e adottando una mistica di rispetto e dialogo con le differenze culturali, politiche e religiose, cercando di riunire sempre più persone per la grande mobilitazione che il presente e il futuro dell’umanità e del pianeta richiedono. Questo, in breve, è quello che realizziamo attraverso la nostra micro esperienza. Non abbiamo la pretesa di essere un punto di riferimento per altre iniziative, ma qualora accadesse ne saremo felici. Anche se una maggiore visibilità comporta sempre sfide e rischi e questo mi preoccupa». Come valuti lo stato di salute dei movimenti sociali in Brasile e le manifestazioni che hanno percorso il tuo paese nei mesi scorsi? «Rispetto alla salute dei movimenti sociali e popolari, tutto quel che accade in Brasile non è separato da quel succede in tutti gli angoli del mondo. Stiamo in un momento di passaggio. Si parla di cambiamento epocale, totale, planetario e, pertanto, abbiamo bisogno di molta ricerca, studio, silenzio e impegno per comprendere e costruire nuovi cammini. Io voglio continuare a dare il mio contributo, con la poesia e la musica, affinché la gente alimenti la Speranza, la meraviglia di fronte allo spettacolo della vita e l’allegria di lottare sempre per la vera trasformazione dell’umanità e della terra». sertão, delle forze della natura e del tenace popolo nordestino che non abbandona mai la speranza. «Perché è la speranza - dice Zé Vicente -, che ci fa vincere il deserto e arrivare alla terra dell’abbondanza, della giustizia, della pace». Silvia Zaccaria NOTE: 1 - In portoghese: «O problema do sertão não è a seca, mas a cerca do patrão». Il verso gioca sull’assonanza tra la parola seca siccità - e cerca recinto. 2 - «Piccola proprietà», tenuta agricola, ma anche «locus amenus», ritiro, riparo. 3 - «Nel campo e nel piatto sertão vivo, con più vita». 4 - L’obiettivo dell’iniziativa è quello di mantenere viva la tradizione, la memoria degli antenati che nei mesi di dicembre e gennaio erano soliti fare previsioni sull’inverno che nel sertão indica la stagione delle piogge. I partecipanti agli incontri sono contadini che, sin da bambini, accompagnavano i nonni nelle loro esperienze di previsione delle piogge, sulla base della direzione e potenza del vento e l’osservazione della natura. L’incontro si chiude con scambio dei semi non transgenici con l’obiettivo di creare una banca di semi nativi. INDIGENI © Gleison Miranda / Funai di FRANCESCA CASELLA (SURVIVAL ITALIA) Le tribù indigene incontattate non sono un’invenzione degli ambientalisti. Che fare con esse? L’esperienza storica dimostra che il contatto con l’uomo bianco per loro è stato quasi sempre fatale. Per le malattie, la violenza o la prevaricazione. Il nostro dibattito sul tema continua ospitando le riflessioni dell’organizzazione internazionale «Survival». LA QUESTIONE DEI POPOLI INCONTATTATI LASCIAMOLI IN PACE M olti ricorderanno le immagini della tribù amazzonica isolata fotografata alla fine del maggio 2008 in Brasile, appena al di qua del confine peruviano. Nonostante il tono sensazionalista con cui molte testate diffusero la notizia, le immagini raggiunsero l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla minaccia che gravava sui popoli della zona. L’esistenza delle tribù incontattate non poteva più essere considerata una leggenda tipo quella del mostro di Loch Ness, come affermavano l’allora presidente del Perú Alan García e i portavoce della compagnia petrolifera di stato nel tentativo di svicolare dalle proprie responsabilità. E nemmeno «un’invenzione degli ambientalisti». Pochi mesi dopo, il giornale britannico The Observer, responsabile di aver insinuato che le fotografie fossero una farsa e una «bufala», dovette presentare le sue scuse ufficiali ai lettori e a Survival per aver fornito una versione «menzognera e distorta» dei fatti. A scattare quelle immagini aeree e ad affidarle a Survival era stato José Carlos dos Reis Meirelles, un funzionario della Funai (il dipartimento governativo agli affari indigeni del Brasile) preoccupato per il drammatico esodo verso il Brasile di alcuni gruppi di indiani incontattati del Perú. Le loro terre erano invase in modo crescente da taglialegna illegali e compagnie petrolifere autorizzate dal governo peruviano a compiere prospezioni e trivellazioni anche negli angoli più remoti della foresta, dimora ancestrale di alcuni dei popoli più isolati del paese. Quelle attività rischiavano di deci# In alto: una spettacolare immagine di una tribù incontattata del Brasile, appena al di qua del confine peruviano. DICEMBRE 2013 MC 25 INDIGENI mare o addirittura sterminare la tribù all’insaputa del resto del mondo, com’era già accaduto troppe altre volte nel passato. Q uanti sono i popoli incontattati contemporanei e quali minacce pendono sul loro futuro? Secondo le nostre stime, i popoli indigeni che vivono senza alcun contatto con il mondo esterno sono almeno un centinaio. La loro consistenza numerica varia molto. Da un solo sopravvissuto, come nel caso «dell’uomo della buca» individuato nel 2006 nello stato brasiliano di Rondônia, fino a cento o duecento persone. Vivono in ambienti diversi: dagli angoli più remoti della foresta amazzonica fino alle isole dell’Oceano indiano. Non è dato sapere quanti esattamente siano, ma sappiamo con certezza che esistono: lo provano le tracce che lasciano dietro di sé (utensili e case abbandonate frettolosamente sotto l’avanzare degli invasori), e alcuni incontri fortuiti e fugaci. In Asia li troviamo nelle Isole Andamane e in Nuova Guinea. Nell’America del Sud, dove si ha la concentrazione maggiore, ci sono almeno 60 tribù. Oltre 40 risiedono entro i confini del Brasile, 15 © Gleison Miranda / Funai in Perú. Il resto vive tra Bolivia, Colombia, Ecuador e Paraguay. Ognuno di questi popoli è unico e le loro lingue, le loro culture e le loro visioni del mondo sono insostituibili. Sono sicuramente i popoli più vulnerabili del pianeta. Dei popoli incontattati si sa poco, se non che il loro isolamento è sempre frutto di una scelta obbligata, compiuta per sopravvivere alle invasioni. Molti di loro hanno sofferto la perdita dei loro cari per mano dell’uomo bianco nel corso di decenni di massacri silenziosi o per effetto del dilagare di epidemie. Sono proprio le malattie introdotte dall’esterno, infatti, a costituire la principale causa di morte tra loro, perché non hanno difese immunitarie contro virus da noi molto comuni come l’influenza, il morbillo o la varicella. Spesso, sono essi stessi dei sopravvissuti, o discendono da sopravvissuti ad atrocità commesse in epoche precedenti. Violenze raccapriccianti che hanno lasciato segni indelebili nella loro memoria collettiva, inducendoli a rifuggire da ogni contatto con il mondo esterno. Gli antenati degli attuali popoli amazzonici isolati furono sterminati dal fenomeno brutale e devastante della schiavitù che accompagnò il boom del caucciù alla fine del XIX secolo. Il 90% di loro morì. I popoli incontattati vivono tutti in modo autosufficiente: di ciò che la foresta dona loro. Le loro vite sono profondamente legate a quella del loro ambiente. Per questo, la protezione delle terre che abitano e delle risorse che utilizzano è fondamentale per la loro sopravvivenza. Spesso lo stile di vita nomade o seminomade (basato sulla caccia, sulla pesca e sulla raccolta) è il risultato delle persecuzioni che hanno sofferto, come nel caso degli Awá brasiliani. Si pensa infatti che un tempo gli Awá fossero agricoltori stanziali, e che si siano solo successivamente frammentati in gruppi di 20-30 persone sotto l’avanzata dei bianchi, passando poi alla vita nomade, che offriva più alte possibilità di sopravvivenza. Nessuno sa con esattezza quanti siano (probabilmente 460, di cui un centinaio vive completamente isolato nelle foreste dello stato del Maranhão), ma possono certamente essere considerati la tribù più minacciata della Terra. Sette di loro morirono nel 1979, avvelenati con la farina intrisa di un pesticida letale lasciata «in dono» dai coloni… Oggi sono assediati da orde di taglialegna illegali che, quando li vedono, li ucci- mai scattata a una famiglia di Mashco-Piro incontattati. Sotto: indigeni Nanti del Perú. In basso a sinistra: un’altra immagine di una tribù incontattata del Brasile. dono. La maggior parte dei popoli incontattati vive ancora oggi in fuga perenne. Cercano di sopravvivere rifugiandosi in luoghi sempre più remoti. Tuttavia, l’avanzata della cosiddetta «civilizzazione» sta rendendo sempre più difficile la loro stessa sopravvivenza. In ogni paese del mondo sono circondati su tutti i fronti: le compagnie petrolifere e di disboscamento invadono i loro territori in cerca di risorse naturali, i coloni usurpano le loro terre e le convertono in allevamenti di bestiame e aziende agricole. Le strade attra- © D Cortijo / Survival nternational # A destra: la foto più ravvicinata versano le loro terre aprendo le porte a bracconieri, missionari fondamentalisti e turisti, e introducendo il rischio di incontri violenti e malattie. Le foreste da cui dipendono per il loro sostentamento vengono tagliate a ritmi vertiginosi; la selvaggina è sempre più scarsa. Alcuni pensano che i popoli tri- bali, in particolare quelli incontattati, siano reliquie del passato, reperti archeologici destinati inevitabilmente all’assimilazione culturale ed economica, oppure all’estinzione. Ma non è così. Certamente, la loro estrema vulnerabilità alle aggressioni esterne è aggravata dal mancato riconoscimento del loro diritto specifico al- I popoli isolati del Perú BASTA UN RAFFREDDORE elle regioni più remote del Perú vivono almeno 15 popoli isolati distinti. Alcuni entrarono in contatto con il mondo esterno tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, durante il boom del caucciù che li decimò e li spinse a scegliere l’isolamento per assicurarsi la sopravvivenza. Altri gruppi, invece, potrebbero non essere mai entrati in contatto con l’esterno. Tra i gruppi di cui si conosce il nome ci sono gli Isconahua, i Capanahua, i Cacataibos, i Murunahua, i Mastanahua, i Machigengua, i Nanti, gli Ashaninka e i Mashco-Piro. Sono quasi tutti cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono di caccia e pesca. Amano le uova di tartaruga, che raccolgono lungo le rive dei fiumi in primavera, quando le acque si ritirano. Alcuni coltivano piccoli orti. Sono concentrati soprattutto nel Perú Sud orientale, ma ci sono stati avvistamenti anche nel Nord-ovest, vicino al confine con l'Ecuador, e a Nord-est, al confine con il Brasile. Tra i fiumi più frequentati ci sono il Tahuamanu, il Las Piedras, il Los Amigos, il Manu, il Purús, il Curanja, lo Yurua e il Serjali. N Oltre la metà dei Nahua, che all’epoca erano incontattati, fu sterminata nei primi anni ’80, quando iniziò l’esplorazione petrolifera nella loro terra. La stessa tragica sorte toccò ai Murunahua a metà degli anni ’90, dopo il contatto con i taglialegna che abbattevano illegalmente il mogano. Jorge è uno dei Murunahua sopravvissuti, e ha perso un occhio durante il contatto. «Con i taglialegna arrivò anche l’epidemia - ha raccontato a noi di Survival -. Prima non sapevamo nemmeno cosa fosse un raffreddore. La malattia ci ha uccisi. La metà di noi sono morti. Mia zia è morta, mio nipote è morto. È morta la metà del mio popolo». Nonostante siano state create cinque riserve a uso esclusivo degli indiani isolati, i loro territori continuano a essere invasi diffondendo violenze e malattie letali. La situazione è particolarmente grave là dove si trovano alcune delle ultime riserve di mogano rimaste al mondo: approfittando della mancanza di efficaci controlli da parte dello stato, i taglialegna illegali saccheggiano le foreste liberamente mettendo a repentaglio la vita dei popoli isolati che vi abitano. Il governo peruviano ha anche autorizzato alcune compagnie petrolifere a condurre prospezioni nelle terre di queste tribù, facilitando ulteriormente l’ingresso di coloni e taglialegna in zone che un tempo erano remote. Altre gravi minacce vengono dalla ricerca mineraria, dalla costruzione di nuove strade e da missionari estremisti che vogliono entrare in contatto con gli indiani isolati a qualsiasi costo. Survival sta cercando anche di fermare l’espansione del gigantesco progetto energetico Camisea all'interno della Riserva Nahua-Nanti, promosso dalle compagnie petrolifere Pluspetrol, Hunt Oil e Repsol. I lavori comporterebbero il disboscamento di aree di foresta pluviale, la detonazione di migliaia di cariche esplosive e la perforazione di pozzi. L'espansione viola sia le leggi peruviane sia quelle internazionali, ed è contestata anche dalla Commissione Onu per l'eliminazione della discriminazione razziale (Cerd), che ha chiesto la sospensione immediata del progetto. Francesca Casella © Survival International DICEMBRE 2013 MC 27 INDIGENI UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE commenti di padre Miguel Piovesan e monsignor Francisco González Hernández - pubblicati da MC nell’ottobre 2013 (Senza uscita) - sono estremamente faziosi e omettono dettagli importanti sui problemi che deriverebbero dalla costruzione di una strada di collegamento tra le città di Puerto Esperanza e Iñapari. Vi scriviamo quindi per chiarire alcuni punti e permettere ai Vostri lettori di comprendere meglio la vicenda. Puerto Esperanza è una comunità isolata del Perú sudorientale, al confine con il Brasile. Come molte altre città amazzoniche (anche grandi come Iquitos), Puerto Esperanza non è raggiungibile su strada ma solamente via fiume o, limitatamente, per via aerea. Una parte degli abitanti è costituita da coloni, ed è soprattutto la loro voce che padre Miguel Piovesan e monsignor Francisco González Hernández hanno riportato nelle loro lettere. Tuttavia, l’80% della provincia del Purús è abitata da diversi popoli indigeni che vivono sia all’interno della città sia in insediamenti esterni. Non solo. In questo angolo isolato del Perú vivono anche altri gruppi di persone. Sono gli indiani incontattati: gruppi che non hanno alcun contatto pacifico con il mondo esterno e attraversano frequentemente il confine tra Perú e Brasile. Si pensa appartengano alla tribù dei Mashco-Piro e sono state raccolte molte prove della loro esistenza proprio lungo il percorso proposto per la strada. Cancellarli dal dibattito significa omettere la ragione principale per la quale questa strada non può essere costruita, né legalmente né eticamente. Gli indiani incontattati sono tra i popoli più vulnerabili del pianeta. Non hanno difese immunitarie verso le malattie portate dall’esterno e, spesso, è accaduto che in pochissimo tempo almeno la metà di una tribù sia stata sterminata dalle epidemie introdotte con il «primo contatto». Oltre a questi pericoli immediati dovuti al contatto, la costruzione della strada provocherebbe anche la rapida distruzione della loro foresta. Prove evidenti si trovano poco distante da lì, in Brasile, proprio a Est della strada proposta. Le immagini satellitari mostrano quello che è definito l’effetto «a spina di pesce» provocato dalla costruzione della strada BR 317: una volta aperto l’accesso a terre un tempo remote, la regione è stata invasa da voraci taglialegna e ampie zone di foresta sono state disboscate. Secondo padre Miguel Piovesan e monsignor Francisco González Hernández, per la popolazione del Purús la strada costituirebbe «la salvezza» poiché porterebbe, dichiarano, lo «sviluppo» di cui hanno bisogno i poveri abitanti del luogo. È innegabile che in quest’area vi sia una vergognosa mancanza di sostegno da parte del governo. Allo stesso tempo, però, è indubbio che la strada porterebbe più problemi che benefici non solo ai gruppi incontattati ma anche ai popoli indigeni locali, la maggioranza dei quali si è detta fermamente contraria al progetto. I 28 MC DICEMBRE 2013 © Survival nternational PURÚS (PERÚ) UNA LETTERA DA «SURVIVAL INTERNATIONAL» Survival difende i diritti dei popoli incontattati, in Perú e nel resto del mondo. Le tribù incontattate non possono essere consultate sulla strada o su qualsiasi altro progetto di «sviluppo» che li riguardi. Per loro, la strada proposta nel Purús causerebbe solo la diffusione di malattie, la distruzione della loro terra e, in conclusione, segnerebbe la loro fine. Sono gli abitanti originali di questa regione, com’è possibile ignorare i loro diritti territoriali? Padre Piovesan ha definito gli indiani «arretrati» e tecnologicamente «preistorici». Durante la sua trasmissione radiofonica settimanale, che si scaglia con veemenza contro qualsiasi individuo o organizzazione si opponga alla «necessità urgente» di costruire la strada, si è riferito agli indigeni del Purús chiamandoli addirittura «porci e vermi»1. Ma è impossibile immaginare in che modo questo progetto possa portare qualche tipo di «sviluppo» positivo agli indiani incontattati del Purús. Per questi cacciatori-raccoglitori nomadi, infatti, la terra non è solo sacra, ma è anche essenziale per la sopravvivenza. Senza la foresta, cesserebbero semplicemente di esistere. Infine, non si deve dimenticare che la costruzione della strada sarebbe illegale sia secondo la legge peruviana sia secondo quella internazionale, e che il progetto è stato definito «impraticabile» e «incostituzionale» da tre ministri peruviani. Se la strada venisse comunque approvata, le conseguenze sulle vite di migliaia di indigeni sarebbero devastanti2. Per risolvere il problema dell’isolamento della regione non si possono spazzare via interi popoli. Rebecca Spooner, «Survival International»*, Londra (1) Radio Esperanza: riportato nel documento dell’organizzazione indigena Feconapu, giugno 2012, pagina 2, punto 4 (leggere nota del direttore di MC a pagina 29, ndr). (2) Per maggiori informazioni, consigliamo di leggere il rapporto di «Global Witness»: www.globalwitness.org. (*) Fondata nel 1969, SURVIVAL aiuta i popoli indigeni di tutto il mondo a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a decidere autonomamente del loro futuro. Con sedi e centri di supporto in Europa e negli Stati Uniti, Survival lavora perché vengano riconosciuti ai popoli indigeni i loro diritti fondamentali contro ogni forma di violenza, persecuzione e genocidio. Apartitica e aconfessionale, lavora a stretto contatto con le organizzazioni indigene locali offrendo loro assistenza legale e un palcoscenico da cui rivolgersi direttamente al resto del mondo; promuove campagne di informazione e pressione per il largo pubblico e porta nelle scuole laboratori di educazione alla diversità e alla pace. SITO MULTILINGUE: www.survivalinternational.org. MC ARTICOLI Gabriella Galli / Survival International # A sinistra: un indigeno del gruppo incontattato Nanti che vive nella foresta amazzonica del Manu (Perú). Qui a destra: un gruppo di Mashco-Piro. Sotto: la copertina del libro di Survival. l’isolamento volontario. Eppure, la storia dimostra che laddove le loro terre vengono riconosciute legalmente e protette in modo adeguato, il loro futuro è assicurato. Al contrario, il primo contatto forzato costituisce sempre un’enorme minaccia e, quasi invariabilmente, qualsiasi sia la ragione per la quale viene compiuto, si trasforma in una catastrofe fatta di impoverimento, malattia, disperazione e morte. I n Perú, padre Piovesan (vedere riquadro di pagina 28, ndr) alla radio e su altri mezzi di comunicazione - continua a porre ai suoi ascoltatori una domanda solo apparentemente innocua: «Si salva un popolo se lo si isola o se lo si integra? Si migliora una comunità mettendola a contatto con altri o mantenendola isolata?». A lui Survival e tutti coloro che hanno a cuore la vita dei popoli indigeni non possono che rispondere in un solo modo: «Se, come e quando interagire con il mondo esterno è una decisione che spetta solo a loro, e a nessun altro». Riconoscere e proteggere il diritto alla proprietà della terra dei popoli indigeni, inclusi quelli incontattati, è la chiave della loro sopravvivenza. Solo così potranno ! mantenere il controllo delle loro vite e decidere autonomamente del loro futuro lasciandosi alle spalle secoli di colonizzazione e paternalismo. Il diritto alla terra e all’autodeterminazione sono sanciti oggi anche dalla Convenzione Ilo 169, che è la legge internazionale più importante in materia di popoli indigeni, e dalla Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni e tribali approvata dall’Onu nel settembre 2007. Non possiamo cambiare il passato ma possiamo certamente evitare che la storia si ripeta semplicemente facendo rispettare la legge. Francesca Casella* * Dal 1989 Francesca Casella è direttrice della sede italiana di Survival International. Collaboratrice di varie testate giornalistiche, ha curato l’edizione nazionale del volume Siamo tutti uno. Omaggio ai popoli indigeni della Terra. SITO: www.survival.it U n reportage da Madre de Dios di Paolo Moiola, pubblicato nei mesi di giugno, luglio e agosto 2012, ha suscitato l’indignazione del parroco di Puerto Esperanza (Purús), p. Piovesan, che lo ha letto solo nel 2013 tornando in Italia per una vacanza. Su sua richiesta abbiamo riconosciuto al sacerdote il diritto di replica sulla rivista di ottobre 2013. Nell’articolo p. Piovesan e il suo vescovo, mons. Hernández, accusano amaramente i «Wwf-ecologisti» di manipolare dal di fuori la situazione, non per il bene della gente locale ma per i propri fini. L’organizzazione Survival International, coinvolta nella vicenda, ha chiesto a sua volta il diritto di replica, che concediamo volentieri in questo numero, pur non condividendone alcune parti troppo ad personam. Per noi, come rivista MC, il dibattito circa la strada del Purús finisce qui. Non vogliamo diventare veicolo di scambio di accuse a distanza tra persone e organizzazioni (da noi stimate) che, pur avendo a cuore la stessa realtà, hanno visioni molto diverse e, almeno al momento, non sembrano molto disponibili ad ascoltarsi. Gigi Anataloni, Direttore di MC DICEMBRE 2013 MC 29 Così sta scritto DALLA BIBBIA LE PAROLE DELLA VITA (81) a cura di Paolo Farinella, biblista NATALE, ANCORA NATALE, MA QUALE NATALE? P otrebbe sembrare strano, eppure di Gesù, sul piano storico, sappiamo poco, e quel poco che i vangeli riportano per noi è molto, anzi tantissimo. I vangeli non sono «una storia di Gesù», ma una catechesi per chi crede già in lui come Figlio di Dio e Messia. Di conseguenza i quattro libretti sono un catechismo, originariamente predicato in forma orale dagli apostoli, dai catechisti, dai predicatori e da chi aveva conosciuto Gesù (famiglia, paesani, amici, ecc.). A distanza di 40-80 anni dalla sua morte, sono stati messi per iscritto per due motivi: per conservare la memoria di quanto accaduto e suscitare la fede in lui anche nelle generazioni future e per poterli usare come «Scrittura» di compimento dell’Antico Testamento nell’Eucaristia delle Chiese, ormai diffuse in tutto l’oriente fino a Roma. DI GESÙ SAPPIAMO … Marco, il primo degli evangelisti scrittori, non parla affatto della nascita di Gesù; in compenso Giovanni, l’ultimo degli evangelisti scrittori, accenna all’eternità del Lògos che per volere di Dio «s’incarna», cioè diventa uno di noi in un preciso paese (Israele), in una determinata cultura (Giudaismo), in una specifica religione (Ebraismo), in un tempo ben definito (fine del sec. I a.C. e sec. I d.C.), nel cuore di specifici eventi (occupazione romana della Palestina). Chi, invece, parla della nascita di Gesù in maniera esplicita, sono i due evangelisti Matteo (capp. 1-2) e Luca (capp. 1-2), ma non dicono le stesse cose perché hanno prospettive diverse e si rivolgono a comunità diverse. Un elenco schematico di ciò che sappiamo di Gesù, potrebbe essere il seguente: • è nato intorno al 6/7 a.C. (v. Box) da una ragazzamadre, appena adolescente, di nome Miriàm/Maria; • non si conoscono il giorno, il mese e neanche le condizioni della nascita; • è nato a Betlemme, a sud d’Israele, patria di Davide da cui discende Giuseppe, il padre legale di Gesù; • è nato in una zona periferica, considerata dalla religione «impura» perché abitata da pastori; • è stato circonciso all’ottavo giorno dalla sua nascita ed e stato chiamato «Joshua-Gesù» dopo 40 giorni; • ha trascorso la sua vita a Nàzaret, nel Nord della Palestina; • a compimento del 12° anno di età (inizio del 13°), nel tempio di Gerusalemme ha celebrato il rito della «Bar-mitzvàh – Figlio del comandamento», 30 MC DICEMBRE 2013 che per gli Ebrei è l’inizio della maggiore età (cf Lc 2,41-50); • ha predicato per la Palestina e anche fuori i confini per circa un anno, un anno e mezzo, all’età di 34-35 anni; • non apparteneva alla casta sacerdotale, ma era un laico; • si è scontrato con il potere religioso e il potere politico che alla fine si sono coalizzati e lo hanno fucciso, condannandolo a morte come «rivoluzionario»: il Sinedrio ha emesso la sentenza di crocifissione e i Romani, nemici alleati per l’occasione, l’hanno eseguita; • è morto all’età di circa 36 anni (30/33 d.C.?), la stessa età di Isacco quando fu legato sul monte Moria per essere sacrificato (cf Gen 22,1-23); • è risorto da morte alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato, dando inizio all’avventura della nuova Alleanza; • non ha lasciato nulla di scritto, ma solo undici apostoli e altre apostole che inviò nel mondo; • il suo insegnamento è stato raccolto in quattro vangeli che persone innamorate di lui hanno scritto per i loro contemporanei e per noi che li ascoltiamo e vogliamo tramandare a chi verrà dopo di noi. NOTA STORICA SULLA DATA DI NATALE Nei sec. II-III dell’èra cristiana in tutto l’Oriente, alla data del 6 gennaio, si celebrava una festa generica detta Epifania (manifestazione) che inglobava tre memoriali: Natale (manifestazione agli Ebrei), Magi (manifestazione ai Pagani) e Sposalizio di Cana (manifestazione nel segno dell’alleanza universale). In Spagna nel sec. IV si celebrava il Festum Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi. San Giovanni Crisostomo (345 ca.-407) in un’omelia sul Natale, pronunciata nel 386, dichiarava che nella chiesa di Antiochia già da dieci anni vi era l’uso di celebrare la Nascita del Salvatore il 25 dicembre. Anche nella chiesa di Roma, come in quella di Milano, fin dal 336 si celebrava il Dies natalis Domini sempre al 25 dicembre, considerato il giorno genetliaco di Gesù. Papa Liberio nel 354 scorporò la festa in due, assegnando Natale al 25 dicembre e l’Epifania al 6 gennaio. Nella chiesa ortodossa e armena, invece, le due feste sono ancora accorpate al 6 gennaio (cf Dictionnaire de Spiritualité, f. LXXII-LXXIII, Paris 1981, 385). I cristiani del Nord del mondo celebrano il Natale in inverno, mentre i cristiani del Sud lo celebrano d’estate. Il 25 dicembre è una data convenzionale perché in relazione al 25 MC RUBRICHE marzo, giorno in cui, secondo una «vergine» che si abbanL’autore di uno scritto anonimo, Adversus Jula tradizione, nella casa di dona al disegno di Dio.Nello daeos/Contro i Giudei (8,11-18, CCL 2, 1954, Nazaret l’Angelo annunciò a stesso periodo, almeno da olpp. 1360-64) attribuito da alcuni a Tertulliano Maria il concepimento di tre due secoli, il 25 del mese (150/160-220), già nella seconda metà del sec. Gesù. Maria partorì il Figlio di Kislèv, corrispondente a II, riteneva che Cristo fosse nato il 25 marzo e una data tra il 15 e il 25 dinove mesi dopo, cioè il 25 difosse anche morto lo stesso giorno. Doveva cembre ca., i Giudei celebracembre. È il Natale. essere così perché la perfezione della natura vano (ancora oggi celebrano) Il 25 dicembre è anche il soldivina di Cristo esigeva che gli anni della sua la festa ebraica di Chanukkàh stizio d’inverno, in cui si ha il vita sulla terra fossero anni interi senza fra(= inaugurazione/dedicagiorno più corto dell’anno e la zioni. È evidente che siamo in piena speculazione), detta anche Chàg Hanotte più lunga. Sia in Oriente zione teologica fuori da ogni spiegazione stoneròth (Festa dei lumi), Chàg che a Roma questo giorno rica. Clemente d’Alessandria (160-240) testiHaurìm (Festa delle luci) e era dedicato al «dio Mitra», moniò che i cristiani copti celebravano non Chàg Hamakkabìm (Festa dei divinità di origine persiana, solo l’anno, ma anche il giorno della nascita Maccabei), per fare memoria venerato come il «Sole Indel Salvatore e cioè il 25° giorno del mese di della riconsacrazione del vitto». La festa, centrata sul Pachòn (15 maggio) o il 25 del mese tempio che Antioco IV dissasimbolismo della luce, ebbe Pharmùth (20 aprile) e sostenne che non esicrò con una statua di Zeus e una diffusione enorme nelsteva una tradizione univoca e condivisa sulla data esatta della nascita del Salvatore (Stroche Giuda Maccabeo con la l’impero romano tra i sec. I-III mates I, 21, PG 8,888). sua famiglia riconquistò neld.C., tanto che l’imperatore l’anno 165 a.C., ricostruendo Diocleziano (284-305 d.C.) e riconsacrando l’altare del dovette proclamare il dio-Misacrificio. La Chiesa per non isolare i cristiani accertra «sostegno del potere imperiale», incrementanchiati dal culto pagano del dio-sole/Mitra e dalla done il culto. Durante i giorni di festa, tutto diventava ebraica Festa delle luci, inventò la celebrazione del lecito perché veniva meno ogni freno inibitore e si Natale del Signore, il Sole che sorge e mai tramonta. scatenava ogni sorta di trasgressione specialmente A Natale non domina solo il simbolismo della luce che sessuale che si concretizzava in riti magici, baccanali contrasta il buio della notte, ma si celebra Cristo e orge, in cui avevano un posto privilegiato le «verstesso, «Luce che illumina le genti» (Lc 2,32), «Stella gini» che sacrificavano al dio della luce la loro vergiluminosa del mattino» (Ap 22,16), sapienza di splennità. Non di rado la festa era occasione per vendette dore «che non tramonta» (Sap 7,10). Celebrare il Napersonali fino all’omicidio. I cristiani opposero a quetale in pieno inverno è anche un atto di coraggio e di ste licenziosità l’austera memoria del Lògos incarnato speranza, un invito a guardare oltre le apparenze: il che nacque in una stalla, nella povertà più estrema, seme appare morto e perduto nei solchi, le giornate fissando il Natale appositamente al 25 dicembre, sono brevi e buie, il senso di morte tutto pervade; al compimento esatto dei nove mesi della gestazione di contrario, la nascita di un bimbo è una grande profeMaria, dal 25 marzo, giorno dell’annunciazione, equizia che illumina il mondo e anticipa la primavera, nozio di primavera. Per contrastare i riti delle vergini quando la vita danzerà e sconfiggerà la morte in vista che offrono la loro integrità al «dio Mitra» in baccanali dell’estate che porterà la gioia del raccolto e dell’aborgiastici, i cristiani esaltarono la nascita «verginale» bondanza, simbolo di pienezza di vita. di Gesù, «sole che mai tramonta», offerto al mondo da SUL CULTO MISTERICO DI MITRA Pannonia (parte di Ungheria, Austria e Slovenia), Mesia (Bulgaria), Britannia e Germania. Mitra è circondato da «miracoli»: con il lancio di una freccia fa scaturire acqua da una roccia, segno di vitalità e purificazione; stipula un patto con il dio Sole, a cui è associato fino a identificarsi con esso. Anche il dio Veruna (il greco Urano) è associato a Mitra, e insieme personificano la notte e il giorno: Veruna castiga i malvagi (notte) e Mitra protegge la giustizia e gli uomini onesti (giorno). Il centro del culto è la tauroctonìa (il sacrificio del toro), simbolo della fecondità universale e sempre presente in tutti i mitrei. Accanto al toro vi sono altre figure simboliche: il serpente che beve il sangue del toro, lo scorpione che gli punge i testicoli (per impedire la fecondità della terra), il cane che bevendone il sangur acquista energia e vitalità che trasferisce alla Mitraismo e il Cristianesimo sono due religioni apocalittiche: rappresentano l’eterno combattimento del bene contro il male, dei figli della luce contro i figli delle tenebre. L’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) eleva il culto del Sole a religione di stato. Costantino che deve la sua prima vittoria ai cristiani, ribalta la situazione con l’editto del 313 d.C. a favore del Cristianesimo. Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.) cerca di riportare in auge il culto di Mitra, ma inutilmente perché nel 394 d.C. con la vittoria di Teodosio su Eugenio, il Cristianesimo diventa religione di stato e i mitrei saccheggiati e distrutti per fare posto alle nuove chiese e basiliche cristiane. Famosi in Roma sono i mitrei del Circo Massimo e S. Clemente ancora oggi visitabili. Il culto del dio Mitra, raffigurato con in mano una fiaccola e un coltello, sviluppa una forma religiosa riservata agli iniziati per cui è caratterizzato dalla segretezza; per questo i rituali, che si chiamavano «culti misterici», si celebravano in luoghi sotterranei, detti mitrei, cui potevano accedere solo gli adepti, ammessi dopo prove e cerimonie che comprendevano sette gradi per essere ammessi al mistero della conoscenza: corvo, ninfo, soldato, leone, persiano, corriere del sole, padre. Pare che lo stesso imperatore Nerone fosse uno di questi iniziati. Il culto di Mitra fu introdotto nel mondo greco-romano dai pirati di Cilicia, deportati da Pompeo nel 67 a.C. in Grecia. Da qui al seguito delle legioni romane (molti soldati erano iniziati) si diffuse velocemente in Italia, in Dacia (Romania-Moldavia), DICEMBRE 2013 MC 31 Così sta scritto terra perché dalla sua coda germoglia il grano (simbolo della risurrezione della terra) e un corvo che fa da tramite tra il sole-Mitra e la terra. Il dio Mitra è accompagnato da altre due divinità, Catèus e Cautòpates, raffigurati sempre con le fiaccole, simbologia plastica di una trinità solare che raffigura il ciclo quotidiano del sole all’aurora, a mezzogiorno e al tramonto. Il mitraismo, pur con tante somiglianze cristiane (verginità, trinità, luce-tenebra; sangue-vita, visione apocalittica, ecc.), fu uno dei principali antagonisti del cristianesimo sul quale sicuramente avrebbe prevalso senza l’apostolo delle genti, Paolo di Tarso e la sua opera di evangelizzazione e di diffusione del Cristianesimo in forma capillare in tutto il Medio Oriente, la Grecia, parte dell’Asia fino Roma, cuore dell’impero, segnando così il declino del mitraismo. Il Cristianesimo, infatti, nato come «sètta giudaica», tale sarebbe rimasto, senza l’impeto paolino che di fatto creò la religione cristiana come «sistema» teologico e organizzativo. Il sec. I d.C. fu un secolo di passaggio, segnato dalla decadenza di ogni sistema ideologico, morale e religioso, frutto inevitabile della fine di un millennio e inizio di uno nuovo. In un contesto di «pensiero debole» e di corruzione che aveva minato lo stato in ogni suo ambito, forte era il bisogno di spiritualità e «pulizia», di aria pulita e di rinnovamento. In questo contesto, Paolo predicò la verginità come misura del provvisorio (il mondo sta per finire, bisogna prepararsi e restare liberi), il matrimonio come comunità stabile e regolata, la Chiesa come orizzonte escatologico, cioè come compagna di viaggio che stabilisce le regole in vista della fine del mondo. Ebbe successo perché proponeva un ideale forte e controcorrente. Gesù ne era il modello, ma la sua predicazione e le sue parole furono adattate e adeguate alle nuove circostanze. Gesù aveva annunciato il Regno di Dio, Paolo dava vita alle «Chiese locali»; Gesù agì da profeta, Paolo operava da uomo dell’istituzione. NATALE: IL CAPOVOLGIMENTO DI DIO Natale per i cristiani di routine è la festa civile del buonismo a buon mercato, risolto in una prassi scontata di regali, odiati da chi li fa. Per chi crede, Natale è la contraddizione di Dio che non potendo essere visto e conosciuto, decide di farsi conoscere: egli stesso diventa esegeta di sé (Gv 1,18). A Natale Dio spiega Dio nell’unica maniera che a noi è possibile capire: facendosi uno di noi e rivelando il volto nascosto di Dio Padre nel volto visibile dell’Uomo. E perché nessuno possa avere anche la minima possibilità di avere paura, sceglie la forma più indifesa e più disarmante: il bambino. Nella cultura del tempo di Gesù, il bambino non ha alcun titolo e conta nulla perché senza valore giuridico; per questo egli lo assume come «metro» del Regno: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Non basta. Dio vuole svelarci il suo volto di bambino povero e perseguitato, profugo, straniero, emigrante, clandestino: nessuno nel Regno di Dio ha le carte in regola per essere accreditato, nessuno è più in regola di un altro. Una sola condizione è necessaria: essere figli di Dio. Questo è il Natale, questa la nostra speranza. Diventiamo anche noi esegeti di Dio, manifestando in pieno la sua umanità, riconoscendo negli altri la loro dignità di esseri umani e figli di Dio. A Natale tutto si capovolge. La logica umana non regge quella divina perché Dio è capace di sorprenderci sempre, oltre ogni aspettativa, rovesciando i criteri e i «valori» del mondo: all’imperatore potente, contrappone una ragazza inerme; a chi pretende di «contare» (censimento) l’umanità contrappone un uomo, una donna incinta e un bambino appena nato; all’onnipotenza della religione, contrappone la fatica di vivere la volontà di Dio; allo splendore della reggia e del tempio, contrappone la povertà e l’autenticità della vita. Per questo a Natale bisogna sapere e avere coscienza che il Bambino che chiede di nascere ancora: • è un extracomunitario perché è un palestinese di Nazaret; • è un emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso fin dalla nascita; • è vittima delle leggi razziali e razziste delle politiche di espulsione, perché senza permesso di soggiorno; • è ebreo di nascita e ricercato per essere eliminato; • è un fuorilegge perché clandestino e ricercato dalla polizia; • è un poco di buono perché figlio di una ragazzamadre, appena adolescente; • è oppositore del potere religioso e politico ed è ammazzato per vilipendio della religione; • è povero dalla parte dei poveri e «deve» essere eliminato; • è un laico, credente atipico e controcorrente; • è poco raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute; • è Dio perché i suoi pensieri non sono mai i pensieri dei benpensanti (Is 55,8). È Natale! La speranza di essere uomini e donne nuovi per un mondo nuovo è possibile perché Natale è l’annuncio profetico che la Resurrezione è la mèta della Storia. Anche oggi, anche adesso. Anzi è già compiuta e noi possiamo rinascere e risorgere ogni giorno, perché Gesù non ha bisogno di nascere di nuovo, essendo eterno, ma noi abbiamo necessità di rinascere anche oggi a vita nuova. Questo è Natale: Dio-connoi-Emmanuel (cf Mt 1,23). Buon Natale a tutte e a tutti i lettori e le lettrici di MC. Paolo Farinella Con questo articolo don Paolo Farinella sospende temporaneamente la sua collaborazione con la rivista Missioni Consolata e, quindi, anche la rubrica «Così sta scritto» con cui, fedelmente, ci ha accompagnati per otto anni, dal febbraio 2005. Don Paolo ha chiesto una pausa per preparare un «Corso biblico» che esporrà nella sua città, Genova, e che pubblicherà anche sulla nostra rivista, molto presumibilmente dalla primavera del 2014, a partire da maggio. Nell’attesa, lo ringraziamo e salutiamo fraternamente e, su sua esplicita richiesta, abbracciamo con affetto ciascun lettore e lettrice di MC, nei cui confronti si sente debitore e grato perché lo hanno costretto a «stare sulla Parola». Chi volesse, può consultare sul nostro sito www.rivistamissioniconsolata.it tutti gli articoli di don Paolo già pubblicati, o andare sul suo sito www.paolofarinella.eu per leggere o stampare la liturgia della domenica, cliccando prima su blog e poi su Liturgia. 32 MC DICEMBRE 2013 © Marc Chagall, Cain and Abel, 1960 RISPONDERE AI DELITTI SENZA COMMETTERNE ALTRI GIUSTIZIA RIPARATIVA DI ANNALISA ZAMBURLINI, CAROLINA BEDOYA MAYA, LUCA LORUSSO, CON INTERVENTI DI GHERARDO COLOMBO, CLAUDIA MAZZUCATO E GIANFRANCO TESTA © Af MC/G Testa 2006 OSSIER INTRODUZIONE QUANDO AL CENTRO C’È LA PERSONA DI LUCA LORUSSO Venti pagine di dossier per parlare poco di carceri (nonostante nel mondo siano ben 10,1 milioni le persone detenute1) e molto di giustizia e dignità. In cerca di risposte alla domanda che da millenni assilla l’uomo: «Come rispondere a un delitto senza commettere un altro delitto?». ormalmente, quando si parla di giustizia, la prima immagine che viene in mente è quella del carcere. I mass media in genere affrontano il tema «giustizia» contando gli anni «dati» al colpevole di turno. Negli ultimi mesi si è parlato molto di carceri: a maggio 2014 l’Italia verrà sanzionata dall’Europa se nel frattempo non rimedierà alle condizioni disumane in cui vivono quasi 65mila persone, stipate in centri detentivi che possono ospitarne 47mila. Il nostro paese è stato condannato dalla Corte di Strasburgo (quella che nel Consiglio d’Europa vigila sui diritti umani) per violazione grave e sistematica del divieto di trattamenti inumani e degradanti, divieto legato direttamente al diritto alla vita. Per scuotere il Parlamento dall’inerzia, il presidente Napolitano, per la prima volta in 7 anni, l’8 ottobre scorso, ha inviato alle Camere un messaggio nel quale uno dei passaggi più importanti era l’invito a «ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare N 34 MC DICEMBRE 2013 la politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione». Purtroppo in quei giorni si è parlato quasi esclusivamente, e in forma spesso oppositiva e strumentale, delle «misure d’emergenza» (indulto e amnistia), e non del fatto che gran parte del problema del sovraffollamento delle carceri dipende dalle scriteriate politiche iper-carcerarie degli ultimi anni che, ancora oggi, fanno andare in galera molte persone non pericolose. DI GIUSTIZIA, E NON DI CARCERI In questo dossier parleremo di giustizia senza mettere il fuoco dell’attenzione sul tema delle carceri, nonostante la sua grande importanza e la sua urgenza. Riteniamo infatti fondamentale una riflessione più ampia, che non dia per scontato che la parte più importante del «fare giustizia» sia la punizione, che provi a mettere in dubbio l’idea di poter «educare al bene attraverso il male» (rieducare, risocializzare un «delinquente» attraverso la sofferenza dell’esclusione, della carcerazione). © The Seed MC GIUSTIZIA RIPARATIVA In queste pagine: immagini simboliche esprimono il «sogno» e il progetto della giustizia riparativa. Un cerchio di persone che si incontrano per narrarsi a vicenda le loro esperienze. | La vita che germoglia al di là delle sbarre che la ingabbiano. | Una persona che condivide: «Sogno giustizia restaurativa». Abbiamo ascoltato alcune voci di esperti che ci hanno messo in questione: qual è la nostra idea di persona? È la persona al servizio della legge, dell’ordine? Oppure è l’ordine al servizio della persona? Domanda che assomiglia a quella evangelica: l’uomo è stato fatto per il sabato, o il sabato per l’uomo (cf. Mc 2, 27)? La persona ha un suo valore, una sua dignità in sé, oppure solo in relazione a ciò che fa (bene o male)? Negli ultimi decenni una nuova idea e pratica di giustizia ha iniziato a diffondersi nel mondo: la giustizia riparativa, o restaurativa. Essa risponde alle domande poste sopra affermando che la persona ha valore in sé, che non può essere lo strumento, ma il fine, come dicono la Costituzione italiana e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Essa esclude che il compito principale della giustizia sia quello di punire, e afferma, al contrario, che debba restaurare la persona, vittima e colpevole, insieme alla comunità, alla società (attraverso l’ascolto, l’inclusione, la responsabilizzazione). NOTE: 1 - Dato del maggio 2011 ricavato dalla nona edizione della World Prison Population List dell’International Centre for Prison Studies. © www alternet org «DOV’È ABELE, TUO FRATELLO?» Tra «gli esperti» interpellati, oltre all’ex magistrato Gherardo Colombo e alla docente della Cattolica professoressa Claudia Mazzucato, c’è anche padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata, alle cui parole affidiamo le ultime righe di questa introduzione: «“Il Signore impose a Caino un segno, perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse”. La pagina splendida della Genesi al capitolo 4, in una quindicina di righe ci offre l’affresco più coinvolgente della storia dell’umanità. Non c’è campo per la vendetta. Il Dio della vita si fà garante dell’assassino, ma non dimentica la vittima, e ci dice, allora come oggi, che i fratelli sono due e di tutti e due ci dobbiamo fare carico. Se pensiamo solo al carcerato e ci interessiamo solo di lui, potremmo fare la fine del medico che spera non finiscano mai gli ammalati per non rimanere senza nulla da fare. Il primo compito di un vero operatore sanitario è di prevenire la malattia. Così il compito principale della giustizia è di prevenire la devianza. Per fare questo, tra le altre cose, si può vedere se ci sono delle alternative al carcere. Quando qualcuno commette un delitto, egli va innanzitutto contro una persona, non contro una legge. E la riparazione avviene quando le due persone tornano a incontrarsi in modo positivo. Questo è impossibile? È un’utopia? La persona, qualsiasi cosa faccia, anche azioni distruttive, deve stare al centro del nostro interesse. E la persona ha due volti: della vittima e del colpevole. Lo scopo della società è quello di recuperare le persone in quanto vittime ferite da una azione ingiusta, aiutandole a superare la “schiavitù” del rancore e del desiderio di vendetta. Allo stesso tempo è quello di fare in modo che la persona colpevole che ha provocato dei danni senta di essere capace anche di azioni positive. Allora la giustizia non serve per “salvare” la legge, ma per ricostruire la persona. Di qui la giustizia restaurativa, che non è semplicemente un’alternativa alla giustizia retributiva o rieducativa, ma una modalità di intervento sulla conflittualità sociale». Luca Lorusso OSSIER UN DIALOGO CON GHERARDO COLOMBO IL PERDONO RESPONSABILE DI LUCA LORUSSO Si può educare al bene attraverso il male? Partendo da questa domanda l’ex magistrato Gherardo Colombo illustra l’inefficacia della risposta punitiva alle trasgressioni. Per la difesa e la promozione della dignità della persona (di chiunque, anche dei colpevoli e delle loro vittime) sono più appropriati e più efficaci, rispetto alla carcerazione, i programmi della cosiddetta giustizia riparativa, che prevedono l’incontro e la responsabilizzazione di rei, vittime e società. Abbiamo chiesto a Colombo di parlarci del suo attuale «lavoro» e del tema del perdono responsabile al centro di uno dei suoi ultimi libri. insegnare al colpevole l’obbedienza. Ma chi obbedio contattiamo via telefono mentre viaggia sce, sostiene Colombo, non è completamente responin treno per raggiungere una scuola supesabile delle proprie azioni. La pena quindi non crea riore in Liguria. Da quando si è dimesso responsabilità, ma al contrario la distrugge. Le perdalla magistratura, Gherardo Colombo sone seguono le regole non perché le condividano, spende molte delle sue energie e giornate ma per evitare la punizione, o meritare il premio. Se parlando con giovani e ragazzi di tutta una regola non è interiorizzata, c’è il forte rischio che Italia di «regole»1, di cittadinanza responsabile. Ogni essa verrà violata non appena mancherà il controllo, tanto la voce cordiale che ci parla sparisce nelle galcioè il timore di essere «beccati». lerie insieme alla linea telefonica. Ma il messaggio è La giustizia «riparativa» fa capo, invece, a una culchiaro: non si può educare al bene attraverso il male. tura in cui la persona vale in quanto persona, ha diÈ necessario trovare una strada alternativa alla pugnità - anzi, è dignità - indipendentemente dai suoi nizione e alle pene tradizionali, perché queste, la carcomportamenti buoni o cattivi. È la cultura (cui s’icerazione in primis, in molti casi non sono condivisispira la Costituzione italiana bili sul piano ideale e non e la Dichiarazione Onu sui disono efficaci sul piano praLa libertà non può essere ritti dell’uomo) per la quale tico. non è la persona a essere filimitata, salvo che in un unico L’affabilità della voce di alla realizzazione Colombo s’intona perfetcaso: quando ciò serve a consentire nalizzata dell’ordine, ma è l’ordine a estamente col ricordo di la libertà altrui. sere finalizzato alla realizzaquell’uomo alto e ricciozione della persona. Nella viluto, in abbigliamento casione «riparativa» il centro è la persona, la sua disual, che nel maggio 2012 presentava il suo volume Il gnità (che rimane integra anche dopo aver compiuto perdono responsabile al Salone del libro passegun crimine), la ricerca dell’inclusione, il recupero, la giando tra il pubblico e cedendo il microfono a chiunriconciliazione. E le esperienze di giustizia riparativa que volesse intervenire. In quell’incontro, così come realizzate nel mondo dimostrano che l’alternativa al nelle pagine del libro, l’ex magistrato ha illustrato carcere è più efficace anche per la sicurezza sociale. con semplicità l’opposizione tra due modalità di riIn più, nella prassi retributiva le vittime vengono in sposta ai reati, tra due tipi di giustizia: quella «retrigenere dimenticate, perché l’attenzione è esclusivabutiva» e quella «riparativa». mente sul reato, mentre nella visione riparativa la La prima è quella più comune, diffusa a ogni livello, vittima, insieme alla comunità (anch’essa vittima) e dall’educazione dei figli alle relazioni internazionali: al reo (anch’egli vittima di se stesso), viene coinvolta la punizione è la giusta conseguenza della trasgresin prima persona e può davvero trovare un ristoro sione. Alla base della giustizia retributiva c’è l’idea che non sia la semplice e svilente realizzazione dell’iche la persona non ha valore in sé, ma solo in base ai stinto di vendetta, che si esaurisce velocemente lasuoi comportamenti «buoni» o «devianti»: se fa bene sciando il vuoto ancora più ampio. riceve il premio, se fa male la punizione. Nella visione Come entra il tema del perdono in tutto questo? In retributiva, la sofferenza della pena viene inferta per L “ ” 36 MC DICEMBRE 2013 MC GIUSTIZIA RIPARATIVA una situazione di rottura di una relazione (tra il reo, la società e la vittima) il perdono, al contrario di ciò che si pensa generalmente, non è uno sgravio di responsabilità, ma al contrario richiama alla responsabilità. La vittima e la comunità hanno la responsabilità di ri-accogliere il reo, il reo ha la responsabilità di riparare in qualche modo la vittima e la comunità. Il perdono rovescia l’ostilità in reciprocità. Questo può avvenire concretamente, ad esempio, nella mediazione penale, una delle pratiche di giustizia riparativa più diffuse in tutto il mondo. “ [Da] giudice istruttore, succedeva che dovessi emettere mandati di cattura. Poniamo che avessi disposto l’arresto di una persona accusata di rapina in banca: succedeva che si presentasse nel mio ufficio a chiedere un permesso di colloquio la moglie, accompagnata da un bambino di pochi anni. Non ero in grado di trovare la giustificazione all’aver sottratto al bambino il papà. Quale responsabilità aveva, il bambino, perché subisse la sofferenza della privazione del padre? Il carcere, quindi, non solo non rispetta la dignità di chi lo subisce, ma non rispetta dignità e diritti di terzi estranei alla trasgressione. SIAMO ANCORA ALLA LEGGE DEL TAGLIONE IL PERDONO RESPONSABILE Ci può dire in sintesi qual è il contenuto del suo libro? «Il libro si muove su diversi livelli. Il primo è un approccio di tipo più “filosofico”: quali sono le incoerenze della pena rispetto al riconoscimento della vita e dignità della persona? Segue un breve excursus storico sulla cultura retributiva, per arrivare a un’analisi dell’inadeguatezza del carcere così com’è, e quindi della punizione, della sofferenza imposta, per raggiungere lo scopo. Il percorso del libro si conclude con la proposta di una possibile alternativa: quella della giustizia riparativa». Qui sopra: la copertina del libro di Colombo, edito da Ponte alle Grazie. | Qui sotto: Gherardo Colombo interagisce con il pubblico durante la presentazione del suo volume al Salone del libro di Torino del 2012. | Foto a pagina 38: Gherardo Colombo risponde a uno degli interventi dal pubblico. | In queste pagine: le frasi in colore rosso sono prese testualmente da G. Colombo, Il perdono responsabile, rispettivamente dalle pagine 51, 49, 75, 52, 87. | Box pagine 38-39: il testo è liberamente tratto dai capitoli 10 e 11 de Il perdono responsabile. ” © L Lorusso 2012 Proviamo a immaginare l’ex magistrato Gherardo Colombo alle prese con un’assemblea di duecento ragazzi di seconda superiore mentre parla di regole e responsabilità e propone il perdono e la riconciliazione al posto di carcere e punizione. Gli domandiamo se gli capita di trovare ragazzi scettici: «Sì, sì... si arrabbiano anche! Le risposte che le persone hanno a questo mio modo di vedere sono varie. Possiamo dire che più le persone conoscono il carcere (operatori, volontari…), più lo condividono. Mentre invece capita che persone informate sul carcere solo alla lontana, per sentito dire, assumano un atteggiamento di rifiuto. Un rifiuto viscerale di fronte al quale diventa a volte impossibile approfondire l’argomento. Io credo che sia molto comprensibile tutto questo, perché per millenni l’approccio al tema della sanzione è stato molto retributivo. Noi siamo ancora purtroppo alla legge del taglione DICEMBRE 2013 MC 37 OSSIER come impostazione abituale generale. La giustizia retributiva ha come strumento l’eliminazione, l’espulsione, l’allontanamento, l’abbandono della persona che ha commesso il male. C’è in essa l’indisponibilità al recupero di una relazione, se non in modo oneroso. Invece la caratteristica della giustizia riparativa sta nel ritenere che al male commesso da una persona si rimedia attraverso il recupero della persona alla collettività. È un’impostazione inclusiva che si basa sul riconoscimento dell’altro. Solo riconoscendo l’altro, il reo può comprendere la sofferenza causata dalla sua azione, e quindi astenersi dal commettere altre azioni che procurino sofferenza». “ È puramente illusorio che il carcere abbia il potere di riparare la vittima. La vittima non è aiutata a superare il trauma subito dall’aggressione alla sua dignità, non è assistita nel recuperare l’integrità perduta. ” A sentirlo parlare sembra che Colombo sia arrivato a sposare l’idea della giustizia riparativa non a partire dai ragionamenti, ma dall’osservazione della realtà carceraria e dei dati che la riguardano: «Sappiamo che in Italia il 68% delle persone che escono dal carcere commettono nuovi reati: c’è da chiedersi perché. Se fosse vero che il carcere serve a prevenire la commissione di reati il tasso di recidiva sarebbe molto più basso». In più il carcere non aiuta le vittime a superare il trauma, e a ricostruire la propria dignità violata dal reato, istigando, anzi, un istinto basso (e distruttivo per la vittima stessa) come la © L Lorusso 2012 LA VITTIMA ABBANDONATA IL PIANO PRATICO. L’INUTILITÀ DEL SISTEMA. Testo tratto e adattato dai cap. 10 e 11 di G. Colombo, Il perdono Responsabile, in cui l’autore elenca alcuni luoghi comuni da sfatare. 1- I detenuti fanno una bella vita. I detenuti (64.758 al 30 settembre 2013, stipati in carceri con capienza di 47.615 posti, ndr.) vivono 22 ore al giorno in celle piccole e sovraffollate, insieme a persone non scelte, a volte arroganti, problematiche, voilente. Solo il 13% di loro lavora. Il tempo non passa mai. Possono avere sei colloqui al mese, di un’ora ciascuno, coi famigliari, sotto gli occhi delle guardie, senza intimità alcuna. I colloqui con persone non famigliari sono rare eccezioni. Le condizioni disumane del carcere sono confermate dal numero annuale di suicidi: uno su mille (0,1%, mentre tra le persone libere è 1 su 200mila, lo 0,0005%), di tentati suicidi: uno su cento (1%), di atti di autolesionismo: uno su dieci (10%). 2- La certezza della pena: «Chi ha commesso un omicidio, dopo due giorni è fuori». Non bisogna fare confusione tra la custodia preventiva e la detenzione dopo la condanna. Prima della condanna non si può essere incarcerati senza motivi validi, senza comprovata pericolosità. Quando la condanna è definitiva, 38 MC DICEMBRE 2013 la pena si sconta secondo regole prestabilite: quindi è «certa». Le pene alternative sono concesse (dove le risorse lo consentono) solo a persone non pericolose e disposte alla rieducazione. Gli errori sono rari, tanto che fanno quasi sempre notizia. Non è frequente che torni a delinquere chi ha usufruito delle misure alternative al carcere: la recidiva di questi è del 20% contro il 68% di recidiva delle persone che hanno scontato la pena in cella. A giugno 2011: dei 67.394 detenuti, solo 17.582 usufruivano di misure alternative. La pena è certa, ma la certezza non serve ad aumentare la sicurezza dei cittadini perché in carcere si è spesso «dis-educati» a una vita sociale sana. 3- La pena è utile come deterrente. Se si vede che alla violazione segue la pena, per paura della sofferenza della punizione, ci si astiene dal violare la legge. Deterrenza e intimidazione sono inadeguate a stimolare il rispetto della dignità propria e altrui, e quindi delle regole. Incutere paura insegna a obbedire (ostacolando il discernimento e la libertà). L’obbedienza obbliga ma non convince, e se una regola è rispettata per obbligo, il suo rispetto viene meno appena manca il controllo. Quasi tutti rispettiamo le regole perché le con- MC GIUSTIZIA RIPARATIVA vendetta: «Nel sistema attuale le vittime sono abbandonate, forse peggio ancora che abbandonate. Alle vittime non si offre null’altro che il soddisfacimento di un desiderio di vendetta. E anzi, sovente, le vittime sono chiamate a rivivere a fini processuali il dolore che era stato loro inferto attraverso la commissione del reato. Ad esempio: una persona che avesse subito uno stupro, poi deve raccontare nei dettagli come sono andate le cose prima davanti alla polizia, poi davanti al pubblico ministero, poi ancora in aula davanti ai giudici e davanti agli imputati e ai loro avvocati, i quali faranno di tutto per metterla in imbarazzo e per contraddirla e screditare la sua versione. Questa è la prospettiva della vittima nel sistema attuale. Invece la giustizia riparativa ha come scopo da una parte quello di responsabilizzare colui che ha commesso il fatto, e dall’altra di riparare, per quanto possibile, la vittima, in modo che essa ricostruisca la dignità che era stata messa in crisi dalla commissione del reato». IL PERDONO RESPONSABILE La parola «responsabilizzare» ci fa tornare alla mente il titolo del libro di Colombo: Il perdono responsabile. E allora gli domandiamo: «In che modo si legano i due termini, perdono e responsabilità?». «Il perdono è la disponibilità a riallacciare una relazione interrotta sulla base di una duplice responsabilità. Il perdono in primo luogo non è amnesia, can- dividiamo, non perché temiamo la sanzione. Un killer della mafia non si lascia intimidire. Un tossicodipendente che fa rapine nemmeno, perché ha bisogno della droga. Un omicida per raptus non si ferma per il timore del carcere. Infine la minaccia della pena non intimidisce anche perché la gran parte dei trasgressori sfuggono alla sanzione: solo l’8% delle denunce sono seguite da condanne. 4- Bisogna aumentare il sistema repressivo. Sarebbe un costo insostenibile: più polizia, magistrati, caserme, palazzi di giustizia, processi, carceri, ecc. E poi creerebbe un vero e proprio stato di polizia in cui tutti sarebbero sottoposti a esasperanti controlli. Tutta la vita sociale si bloccherebbe. Non bisogna aumentare la repressione ma diminuire la devianza. 5- I carcerati sono tutti pericolosi. Il carcere attualmente colpisce sia pericolosi che non. A fine 2009 i detenuti «comuni» erano 50mila contro i detenuti «pericolosi» che erano 9mila. A metà 2008 ben 14.743 detenuti sui 55.057 allora reclusi erano tossicodipendenti. Al 30 settembre 2013 solo il 62% dei detenuti aveva una condanna definitiva (il 19% erano in attesa di primo giudizio, un altro 19% erano condannati in primo e secondo grado). Questa ipercarcerazione è costata 29 miliardi di Euro tra il 2000 e il 2010. In più, la nostra cultura esclude non solo i carcerati, ma anche gli ex detenuti, i quali non trovano lavoro, casa, affetti, ecc. ricadendo in nuovi reati. cellazione del passato, ma anzi presuppone una consapevolezza sicura di ciò che è successo. Data questa consapevolezza il perdono è la disponibilità al recupero di una relazione che si era interrotta con la fiducia che anche dall’altra parte ci sia la medesima disponibilità. Non è uno scambio. Ciascuna delle due parti ha una disponibilità unilaterale. Quindi il perdono coinvolge la responsabilità della persona». “ La sofferenza imposta non può [...] convincere, e semmai insegna a obbedire. Ma chi obbedisce non è psicologicamente, se non giuridicamente, responsabile delle proprie azioni (ne è responsabile chi dà l’ordine). La pena quindi, anziché creare responsabilità la distrugge. Distruggendo la responsabilità incanala la società verso la compressione della libertà. ” 6- «Ci vorrebbe la pena di morte». Tutti i dati riguardanti la pena capitale mostrano in modo inequivocabile che è inefficace: prova ne sia che negli Usa, paese con popolazione 5,2 volte superiore all’Italia, gli omicidi sono 28 volte più numerosi. 7- «Col carcere almeno si fa giustizia e le vittime sono soddisfatte». Il sistema retributivo non ripara la dignità della vittima. La sofferenza imposta al reo con il carcere procura solo il soddisfacimento dell’istinto di vendetta. La vittima non viene aiutata a superare il trauma, a recuperare l’integrità perduta. 8- «Allora lasciamo circolare liberamente le persone pericolose?». No. Chi è pericoloso deve essere separato, ma la separazione dovrebbe essere mirata a prevenire l’effettiva pericolosità. Mentre solo una piccola percentuale dei detenuti oggi reclusi (circa il 20%) è effettivamente pericolosa. Non è logico, né utile ricorrere al carcere anche per chi non lo è. Nei confronti di chi è pericoloso, la limitazione della libertà di movimento deve però essere modellata caso per caso, e non deve essere accompagnata dalla limitazione, o addirittura esclusione, delle altre libertà fondamentali che non comportino pericoli per la società: il diritto allo spazio vitale, alla salute, all’affettività, all’informazione, al lavoro, all’istruzione. Luca Lorusso DICEMBRE 2013 MC 39 OSSIER IN SINTESI, LA PENA: • toglie o limita a chi la subisce diritti fondamentali connaturati alla dignità della persona; • non svolge funzioni di prevenzione generale (le persone commettono reati anche se vengono minacciate pene elevate); • non svolge funzioni di prevenzione speciale (non evita che persone colpevoli di reati ne commettano altri); • non serve a riabilitare i rei, visto l’alto tasso di recidiva; • ha un peso economico elevato (dal 2000 al 2010 il sistema penitenziario è costato all’Italia 29 miliardi di Euro); • non ha capacità riparative nei confronti della vittima. LEGGENDO LA BIBBIA Colombo ci racconta che il suo percorso di avvicinamento al tema della giustizia riparativa è stato lungo: «Ho fatto per più di tre decenni il magistrato. All’inizio della mia attività la mia convinzione era che il carcere fosse utile per assolvere a una funzione educativa, in un quadro di rispetto per la persona. Poi però progressivamente ho riflettuto, ho letto, e ho avuto l’esperienza degli effetti del carcere. L’approfondimento teorico da una parte e l’osservazione della pratica dall’altra». Nel breve riassunto delle tappe del suo percorso, Colombo cita la lettura di Eugene Wiessnet, un gesuita che nel 1960 pubblicò un libro dal titolo Pena e retribuzione nel quale aveva fatto un’analisi del rapporto tra trasgressione e retribuzione nelle Scritture. Infatti, nel leggere il libro di Colombo, siamo rimasti molto colpiti dall’abbondanza dei riferimenti biblici: «Per me è molto importante vedere come ci sia stata un’evoluzione. L’idea retribuzionista parte dalla convinzione che Dio sia un giustiziere, che punisce. La credenza che questo sia il messaggio delle Scritture è piuttosto diffusa. Io penso che ce ne sia un altro. Non solo nel nuovo testamento, ma anche nel vecchio. Nella misura in cui Dio è un Dio amoroso». PASSI CONCRETI, PARTENDO DA UN’AMNISTIA Torniamo al piano pratico: nonostante alcune esperienze positive abbiano iniziato a diffondersi, soprattutto in ambito minorile, la giustizia riparativa in Italia è decisamente distante dalla sua realizzazione. Quali passi concreti si possono fare? 40 MC DICEMBRE 2013 «Se vogliamo parlare della situazione attuale, io credo che adesso, vista la condizione di vita delle persone che stanno in carcere, una prima soluzione sia quella di prevedere un’amnistia per i reati di minore gravità. Finché sono così tante le persone in carcere credo che sia impossibile che esse vivano in modo dignitoso, o comunque nei modi suggeriti dalla nostra Costituzione. Ci sono molte persone che stanno in carcere pur non essendo per niente pericolose. Poi credo che sarebbe necessario stimolare la creazione di un sistema di giustizia riparativa, come del resto ci è richiesto dall’Unione europea2: noi siamo inadempienti nei confronti dell’Ue sotto questo profilo. Bisognerebbe che si ricorresse, da parte di chi ha il potere di farlo, molto più frequentemente alle misure alternative piuttosto che non alla detenzione in carcere. Sarebbe però soprattutto necessario operare sul piano culturale, sul piano dell’educazione. Educazione diretta non all’obbedienza, come generalmente succede, ma diretta all’elaborazione di una capacità di gestire consapevolmente, responsabilmente la propria libertà». Luca Lorusso “ Dio si rivolge ad Adamo, [...e] a Caino, cerca entrambi nonostante avessero rotto la relazione con Lui [...]. Richiama la loro responsabilità verso la relazione. Si scopre così che il perdono [...] non è sgravio dalla responsabilità, ma è, al contrario, richiesta di assunzione di responsabilità (di risposta) nei confronti dell’altro. NOTE: ” 1 - «Quel che faccio più di tutto è girare per l’Italia, nelle scuole e nei circoli, a parlare di giustizia e della relazione tra regole e persone e di come questa relazione influisca sulla vita pratica di ciascuno di noi. […] Ho fatto il magistrato per oltre trentatre anni. […È] progressivaconvinzione che per far ia fosse necessaria una ssione sulla relazione tadini e le regole». www.sulleregole.it. 2 - È vincolante per gli stati membri dell’Ue la Decisione quadro 2001/220 GAI (sostituita dalla Direttiva 2012/29/UE del Parlato europeo e del considel 25 ottobre 2012) suldella mediazione nelle penali. MC GIUSTIZIA RIPARATIVA INTERVISTA A CLAUDIA MAZZUCATO, DOCENTE ALLA CATTOLICA UN’IDEA SCANDALOSA DI GIUSTIZIA DI LUCA LORUSSO Autori e vittime di reato sono portatori di domande, bisogni, speranze, aspettative. Com’è possibile che entrambi, e la società, lavorino sul domani senza scordare il passato? La riparazione è qualcosa che nasce dal dialogo libero e costruttivo sugli effetti distruttivi del reato. È dirompente parlare di programmi liberi e consensuali dentro la giustizia penale che in genere è invece il luogo della coercizione, della privazione della libertà. La giustizia riparativa rimarrà sempre un’aspirazione, che però ha già prodotto dei grandi risultati: nel Sudafrica dell’apartheid ad esempio. rofessore aggregato di diritto penale all’Università cattolica di Milano, Claudia Mazzucato si occupa di modelli alternativi di giustizia penale allo scopo di trovare una coerenza tra la risposta al reato e i principi della democrazia. Nel corso dei suoi studi si è imbattuta, nei primi anni ‘90, nel tema della giustizia riparativa, della mediazione reovittima, e da allora ha dedicato la sua vita, non solo professionale, a questo. È mediatrice volontaria per l’osservatorio del ministero della Giustizia sulla giustizia riparativa. Ha occasione, quindi, non solo di studiarla, ma anche di praticarla a titolo volontario. All’Università segue la formazione degli studenti di giurisprudenza, di sociologia e di scienze della formazione sui temi del diritto penale e della giustizia minorile. © L Lorusso 2013 P NESSUNO SA COS’È LA GIUSTIZIA La giustizia riparativa suscita interesse nei suoi studenti? «Sì moltissimo. Questo tema suscita interesse in tutti. Da anni io e un gruppo di altre persone teniamo incontri un po’ dappertutto: scuole, parrocchie, quartieri difficili, fino al Consiglio superiore “ Nessuno sa bene cosa sia la giustizia, ma tutti sappiamo molto bene cosa sono le ingiustizie. E la giustizia riparativa è un itinerario in cerca della giustizia a partire dalle ingiustizie. Lavora su quello che è andato storto per ripararlo. ” OSSIER della Magistratura. Incontriamo diversi “mondi”, e dovunque troviamo interesse. Sempre. Anche perché la giustizia riparativa solleva la domanda più generale di giustizia, che riguarda chiunque. “ Come parlare di risocializzazione quando tra la persona condannata e la società ci sono un muro di sei metri, un muro di cinta, uno di intercinta, il blindo, le sbarre, ecc.? © The Seed ” Il cardinal Martini diceva che nessuno sa bene cosa sia la giustizia, ma tutti sappiamo molto bene cosa sono le ingiustizie. E la giustizia riparativa è un itinerario in cerca della giustizia a partire dalle ingiustizie. Lavora su quello che è andato storto per ripararlo. Non è un lavoro campato in aria. È, anzi, con i piedi saldamente per terra. Tanto da occuparsi della quotidianità materiale dell’autore del reato e della vittima: ci capita negli incontri di mediazione di dedicare ore a definire le regole di saluto, di distanza o di vicinanza, di comportamento: “Cosa succede se domani vi incontrate per strada o sull’autobus?”. La giustizia riparativa ha anche quest’attenzione: da domani che cosa succede? Autori e vittime di reato sono portatori di domande, bisogni, speranze, aspettative che intrecciano il passato prima del reato, il momento del reato, il presente e il futuro. Allora noi chiediamo a vittime e rei di esprimere che cosa c’è nel loro oggi e com’è possibile lavorare costruttivamente sul domani, senza dimenticare ciò che c’era prima del reato, né il fatto che un reato è stato commesso, che qualcuno lo ha agito e un altro lo ha subito». “ Anche la vittima ha bisogno di essere risocializzata. RISOCIALIZZARE IN GABBIA? ” «Questo lavoro sul futuro è una cosa che la giustizia penale tradizionale non può fare perché è tutta retrospettiva: anche quando condanna una persona all’ergastolo, cioè determina l’interezza del suo futuro, è tutta ferma sul reato, sul passato. È solo dopo l’inizio della detenzione che compare un educatore, un assistente sociale che dice: “Beh, adesso pensiamo alla rieducazione”, che vuol dire ritorno in società. Ma qui spuntano le incoerenze della giustizia: come parlare di rieducazione a uno che sta in una gabbia, o di risocializzazione quando tra la persona condannata e la società ci sono un muro di sei metri, un muro di cinta, uno di intercinta, il blindo, le sbarre, eccetera? Come si può parlare di risocializzazione se la società è esclusa dal contatto con il reo? La riparazione è qualcosa che nasce dall’incontro e dal dialogo costruttivo sugli effetti distruttivi del 42 MC DICEMBRE 2013 reato. Ha l’ambizione di promuovere responsabilità individuali e collettive per reintegrare il colpevole e la vittima. Sì, perché anche la vittima ha bisogno di essere risocializzata. A volte addirittura di essere “rieducata”: può capitare, infatti, che la vittima appartenga allo stesso mondo deviante del reo. Nell’opinione pubblica in genere c’è l’immagine della vittima buona, onesta, che subisce improvvisamente qualche cosa, mentre il reo è cattivo, ma raramente la realtà è così netta». QUALCOSA DI SCANDALOSO Nel suo saggio Appunti per una teoria dignitosa del diritto penale scrive: «La giustizia riparativa può arrivare addirittura a ridisegnare una nuova geometria della giustizia». È davvero così rivoluzionaria? «La giustizia riparativa costringe a guardare al problema del crimine e al tema della giustizia con occhi nuovi. Essa ha qualcosa di scandaloso: “Ma come? Reo, vittima e comunità insieme dopo un reato?”. Tutto l’itinerario millenario della giustizia fino a ora ha diviso il reo dalla vittima, e ha ripetuto sul reo il male che egli aveva fatto alla vittima. La giustizia riparativa invece propone: “Mettiamoci insieme, volontariamente, per pensare a qualcosa di diverso”. È dirompente parlare di un intervento libero, volontario e consensuale dentro la giustizia penale, la quale in genere è invece il luogo della coercizione legittimata, della privazione della libertà. È proprio un prendere la giustizia così com’è oggi e rovesciarla». “ Si [può] chiamare giustizia riparativa solo ciò che porta le persone a incontrarsi volontariamente e liberamente. ” Quali sono gli strumenti della giustizia riparativa? «La mediazione diretta, o indiretta, tra autori e vittime di reati, i community circles, i family group conferences. Sono programmi costruiti intorno all’incontro a tu per tu, oppure allargato ai compo- MC GIUSTIZIA RIPARATIVA SUDAFRICA: LA VERITÀ È PIÙ IMPORTANTE DELLA PENA Questa nuova idea di giustizia potrà mai realizzarsi? «Non potremo mai mettere fine al problema della giustizia. La giustizia riparativa rimarrà sempre un’aspirazione. Però ha già prodotto dei grandi risultati: l’esperienza del Sudafrica, ad esempio. Nel momento più drammatico in cui, finito l’apartheid, si sarebbe potuta scatenare una vera guerra civile, Nelson Mandela, e poi Desmund Tutu e gli altri che hanno costruito la Commissione verità e riconciliazione hanno sostenuto a gran voce che se gli oppressi si fossero fatti giustizia in modo “tradizionale” sugli oppressori, avrebbero riprodotto la stessa violenza che avevano subito, impedendo l’unità del popolo arcobaleno. E quale giustizia poteva affermare l’unità dopo la separazione e la segregazione dell’apartheid? Una giustizia non retributiva dove la verità è più importante della pena. “ La giustizia punitiva è reo-centrica, ed essendo punitiva non può chiedere all’autore del reato di dire la verità.. ” nenti delle famiglie dell’uno e dell’altra, alle comunità. Questi sono gli strumenti. Ma la cosa fondamentale è che si possa chiamare giustizia riparativa solo ciò che porta le persone a incontrarsi volontariamente e liberamente. Quando un magistrato impone un lavoro di pubblica utilità, può fare una cosa bellissima, ma non è un programma di giustizia riparativa, è una pena. Quando una persona svolge un lavoro di pubblica utilità che corrisponde a un lavoro fatto sulla sua dignità, in dialogo con le vittime, “ Quale giustizia poteva affermare l’unità dopo la separazione e la segregazione dell’apartheid? Una giustizia non retributiva dove la verità è più importante della pena. ” con la comunità, e quindi il soggetto sente di ripararsi, e non solo di riparare, e lo sceglie liberamente in dialogo con altri, questa è giustizia riparativa. Altro elemento è che gli incontri sono liberi, aperti, quindi si costruiscono anche in base a ciò di cui si sente il bisogno. La presenza di un mediatore è importantissima. Anche perché il facilitatore rappresenta a sua volta la comunità, e fa sì che le persone non siano sole, sta con loro, e accoglie entrambe le parti con dignità e rispetto, anche se ha di fronte una persona gravemente colpevole». La giustizia punitiva è reo-centrica, ed essendo punitiva non può chiedere all’autore del reato di dire la verità. Il diritto dice che l’accusato non è tenuto a dire la verità, perché se la dicesse andrebbe incontro alla pena. Il Sudafrica ha dovuto scardinare il meccanismo della pena per chiedere la verità». La verità è «terapeutica»? Affermarla, riconoscere ciò che è accaduto, di per sé realizza la giustizia e lenisce le ferite? «Possiamo dire che la verità può fare molto più di una pena. Poi probabilmente ci sono persone, vittime, comunità che sentono che nelle sedute della Commissione la verità non è stata detta abbastanza, e che non si sentono risanati da quella verità. Ciò che possiamo dire senz’altro è che alle vittime e alle comunità vittimizzate, quel percorso non ha tolto nulla. Ha aggiunto semmai qualcosa di positivo. Se ci fosse stato un percorso di giustizia tradizionale quelle persone non avrebbero ottenuto di più. Anche solo perché la giustizia penale tradizionale è molto selettiva: soprattutto dove ci sono state delle atrocità massive non può arrivare a processare e a punire tutti quelli che in una logica retributiva lo meriterebbero». UNA NOVITÀ ANTICA La giustizia riparativa è una «scoperta» recente o se ne conoscono esperienze in tempi e società del passato? «È una scoperta, però è anche una riscoperta. Della giustizia riparativa come la conosciamo oggi possiamo identificare l’origine negli anni ‘70 in Canada con percorsi di incontro tra giovani autori di reato e le loro vittime. La pratica, che aveva dato buoni risultati, si è poi espansa nel DICEMBRE 2013 MC 43 mondo, a cominciare dagli Usa, dove però rimane una nicchia. Paesi come la Nuova Zelanda e l’Australia, partendo da modelli riparativi, sono arrivati addirittura a ricostruire la giustizia. Anche in Europa ci sono molti paesi che hanno leggi sulla giustizia riparativa o sulla mediazione reo-vittima. Dall’altro lato però la giustizia riparativa è una riscoperta: se andiamo a studiare i modelli di giustizia di certe società tradizionali, constatiamo che dove è necessario tenere unita la comunità esistono forme di giustizia di tipo relazionale, dialogico, compositivo, e non retributivo. Si può supporre che pratiche di giustizia riparativa ci fossero anche in tempi antichi: per esempio forme di giustizia riparativa si trovano nella Sacra Scrittura. Nel Nuovo Testamento (amare i propri nemici, porgere l’altra guancia, perdonare settanta volte sette…), ma anche nel Vecchio Testamento (la lite dialogica per ricostruire l’alleanza). Ci sono studi biblici stupendi su come, attraverso questo tipo di pratica di giustizia, si possa leggere il rapporto di Dio con il popolo di Israele: un continuo richiamare l’altro a rispondere del suo tradimento dell’alleanza in un dialogo che è molto forte, anche violento a tratti, ma che ha sempre come obiettivo la ricostruzione della relazione». “ Ci vogliono dei profeti. Ed è quello che ci manca oggi. Certamente nel nostro paese. ” I casi di Nuova Zelanda e Australia sono isolati o ci sono altri paesi che si stanno orientando alla giustizia riparativa? In Italia cosa si fa? «In Italia ci sono buone pratiche che si stanno consolidando soprattutto nella giustizia minorile, la giustizia riparativa però in generale è molto marginale. La Nuova Zelanda ha ripensato il suo sistema penale usando moltissimo i programmi riparativi con una dimensione comunitaria come i communities circles che coinvolgono la comunità, il vicinato, la famiglia, le famiglie del reo e della vittima. È stata importante la cultura nativa dei Maori. Tra le altre esperienze, quella sudafricana è emblematica. Io sento la presenza di una traiettoria culturale nel mondo. La giustizia penale non è più ferma sulle risposte punitive tradizionali: è stata scombussolata, movimentata dall’arrivo del tema della giustizia riparativa. E un po’ dappertutto tra i paesi democratici sta cambiando qualcosa». MASS MEDIA E «TOLLERANZA ZERO» Come spiega questa crescita di consenso per la giustizia riparativa in un clima globale in cui domina la «tolleranza zero»? «Il consenso globale sulla giustizia riparativa è al livello di studiosi, di Nazioni unite, di Consiglio d’Europa. Quindi la traiettoria positiva c’è, ma in un contesto generale che va ancora in tutt’altra direzione. È vero, infatti, che chiunque oggi pensi alla giustizia 44 MC DICEMBRE 2013 © Paolo Moiola OSSIER penale, pensa al carcere. Non perché il carcere sia una risposta più realistica. I media, che hanno un ruolo importantissimo sulla giustizia, purtroppo la banalizzano: ad esempio fanno pensare che quando una persona va in carcere è tutto risolto, mentre in quel momento si aprono un’infinità di problemi. Bisognerebbe fare un lavoro di formazione dei giornalisti. Ad esempio si sentono chiedere alle vittime: “È disposto a perdonare?”. Io penso che una domanda del genere sia inopportuna. Così come: “È soddisfatto dell’ergastolo?”. Ma come fa la vittima, con il suo bisogno di sentire la propria dignità reintegrata, a essere soddisfatta dalla sofferenza imposta al colpevole? Se c’è una soddisfazione, è momentanea. Poi rimane il vuoto che si aggiunge a un altro vuoto». CI MANCANO PROFETI Ci sono esperienze di paesi che abbiano dei tratti in comune con quella del Sudafrica? «Il Sudafrica ha aperto una via perché è stata la prima esperienza a mettersi in mezzo ai due modelli: quello del colpo di spugna con le amnistie, e quello dei processi penali da Norimberga in giù. Altri paesi hanno tentato di fare delle cose simili: in Perù con la Commissione verità e riconciliazione del 2000, ad esempio. In Ruanda con i tribunali Gacaca per il genocidio del 1994. Il punto è che nessun’altra esperienza è riuscita a raggiungere il livello di quella sudafricana che è stata particolarissima per una serie di situazioni convergenti. Il Sudafrica ha cambiato la Costituzione alla luce dell’idea di Ubuntu (“Io sono perché noi siamo”), ha prodotto un diritto nuovo. C’è stato un ruolo della Corte Suprema che credo sia l’unico tribunale del mondo ad avere come logo un albero sotto al quale ci sono persone bianche e nere intrecciate, invece della bilancia con la spada… E poi i sudafricani avevano Mandela e Tutu, cioè due vittime esemplari. Mandela diceva: “Non bisogna vendicarsi”, e Tutu: “Le persone possono cambiare, e noi dobbiamo crederlo”. Erano dei pulpiti da cui non venivano delle prediche, ma delle esperienze che avevano una forza di testimonianza pazzesca. Dove non ci sono figure profetiche così, diventa molto difficile far passare queste idee a livello pratico. Ci vogliono dei profeti. Ed è quello che ci manca oggi. Certamente nel nostro paese». Luca Lorusso © L Lorusso 2007 MC GIUSTIZIA RIPARATIVA Pagine 41-45: immagini simboliche. Il palazzo di giustizia «Bruno Caccia» di Torino. | La Kamiti prison, la prigione maschile di massima sicurezza più grande del Kenya, di cui MC ha parlato nel numero di aprile 2013. | Il logo della Corte Costituzionale del Sudafrica raffigurante un albero sotto al quale s’intrecciano silhouette di persone bianche e nere. | Un’immagine tipica della giustizia: dea bendata con una bilancia in una mano e una spada nell’altra. | Carcere di Ayacucho, Perù. Sul muro del cortile interno una frase recita: «La libertà è dono di Dio e la giustizia è opera degli uomini». | Una scritta su un muro di Buenos Aires ricorda il tema fondamentale della verità e della memoria: «Se non esiste la memoria tutto ciò che ci riguarda è suicida». | Qui sotto: un’immmagine emblematica di come il tema «giustizia» venga spesso affrontato su Facebook, adattata dalla fanpage «Non chiamateli politici ma criminali» (con più di 45mila «mi piace»). «... E BUTTIAMO VIA LA CHIAVE!» Frasi dal web su carcere e giustizia all’indomani del messaggio alle camere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «Credo che i lavori forzati nel senso vero della parola sia l’unica soluzione per eliminare il problema del sovraffollamento. Anche perché tu che sei stato vittima e vedi che il tuo aguzzino viene liberato non puoi continuare a credere in un paese come questo. I lavori ci sono di svariati tipi e modi con orario come dico io dal sorgere del sole al tramonto come facevano i contadini». dovremmo mandare [...a quel paese] l’Europa: non capisco perché dovremmo avere a cuore i diritti umani di persone che di umano hanno solo la forma! Più rispetto per le vittime!!!». (Tre commenti scelti a caso tra i molti in calce a un articolo sul blog di Beppe Grillo: http://www.beppegrillo.it/2013/10/il_piano_ carceri_del_m5s.html) «In Italia ormai da decenni si pensa solo a salvare ed aiutare i cittadini disonesti e non quelli onesti e, ancora una volta, questo viene confermato dalle dichiarazioni rilasciate dal capo dello Stato che dovrebbe essere il garante della Costituzione nonché super partes e non il difensore di indifendibili, condannati e delinquenti». «Il carcere serve per lo sconto della pena, la rieducazione casomai la fanno quando escono dal carcere e prima di inserirsi nella società. Pene alternative? Come in Alabama ai primi del '900, incatenati a tagliare l’erba sulle strade o rattoppare l’asfalto che ce n’è un gran bisogno!!! Prima pensare ad aiutare i cittadini onesti e poi, se avanza tempo, si pensa a quelli disonesti. [...] Se l’Europa ci multa perché le nostre carceri non hanno celle singole con internet e aria condizionata per il benessere dei criminali credo che DICEMBRE 2013 MC 45 PADRE GIANFRANCO TESTA SI TRATTA DI LIBERARE L’UOMO DI © Af MC/G Testa 2006 OSSIER LUCA LORUSSO Se il mondo missionario s’interessa della persona, il tema della giustizia riparativa è importante. Si tratta di liberare l’uomo. Parola di padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata che da decenni si occupa di perdono e riconciliazione. ato a Bra nel 1942, ordinato nel ’67 a Torino, a 30 anni è partito per l’Argentina. Al tempo dei generali ha fatto 4 anni di prigione. A 40 anni è andato in Nicaragua, tentando l’avventura in un paese che in quel momento era per lui molto interessante per la rivoluzione sandinista, «una rivoluzione cristiano marxista, chiamiamola così, tanto per spaventare qualcuno», ci ha detto. E poi a 50 anni è partito per la Colombia. «Adesso, a 70, vado di qua e di là. Sono stato in Albania, in Palestina. Muovo i miei ultimi passi sempre cercando di riflettere». Di recente, a Torino, è nata, grazie a lui, l’università del perdono: www.universitadelperdono.org. N Che senso ha, secondo te, parlare di giustizia riparativa su una rivista missionaria? «Se una rivista missionaria s’interessa dell’uomo, della persona, certamente il tema della giustizia riparativa è importante. Purtroppo ancora poco dibattuto. Si tratta di liberare l’uomo. Nella giustizia riparativa il centro di tutto è la persona umana. E mettere l’uomo al centro vuol dire fare un buon servizio missionario». Come si sposa la missione della Chiesa con il tema della giustizia riparativa? «Io preferisco la parola “restaurativa”. Perché “riparare” vuol dire mettere le cose a posto, invece qui si tratta di restaurare la persona, ridarle dignità. Credo che questo discorso sia una sfida fondamentale per la Chiesa oggi. Un discorso che i politici non sanno fare o non vogliono fare. È quello per cui l’uomo, nonostante i suoi errori, e anche l’uomo vittima, viene riconosciuto come persona degna di rispetto, degna di amore. Oggi, nel sistema di giustizia la vittima scompare, non è importante. La giustizia cammina da sola senza ascoltare il dolore di chi ha sofferto. Allo stesso tempo, il colpevole non viene ristabilito come persona. Io penso che la funzione della giustizia non sia di castigare, ma neppure di essere indifferente. La funzione della giustizia è di restaurare: la vittima, il colpevole, la società. Certo, 46 MC DICEMBRE 2013 ci sono delle condizioni: se il colpevole non riconosce quello che ha fatto, allora deve intervenire una giustizia che diventa “retributiva”. Ma se il colpevole è capace di assumersi la responsabilità di quello che ha fatto, allora si entra in un dialogo di umanità. Non di castighi, di leggi, ma di umanità, dove le persone acquistano un rilievo fondamentale, e ognuno assume le proprie responsabilità, trovando anche le strade di riparazione». La Chiesa si è mai espressa in maniera ufficiale ed esplicita sul tema della giustizia restaurativa? «No. Fin’ora no. Sarebbe una bella sfida. Penso che sarebbe bello se ci si sedesse un po’ di teologi, di filosofi, qualche giurista a pensare, riflettere insieme. L’importante cos’è? È la persona umana! Sempre. Il cuore della nostra fede non è Dio, di cui possiamo parlare molto poco, ma siamo noi. Noi che entriamo in noi stessi in profondità, e poi nello spirito, nella verità, riscopriamo Dio. E siamo capaci anche di perdonare, di restaurare e di lasciarci restaurare. Questo mi sembra che sarebbe per la Chiesa un “buon campo di battaglia”. Aiutare la società ad affrontare la domanda che da 2.800 anni ci si pone: “Come castigare un crimine senza commetterne un altro?”. Noi normalmente perseguiamo i crimini facendo altri crimini. Basti pensare a come sono gestite le prigioni. Basti guardare la carica di odio, di rancore che si accumula con la nostra giustizia. Ma che giustizia stiamo facendo? Noi abbiamo, come Chiesa, un’esperienza di fede, di vita, di sensibilità che è insuperabile. Forse non abbiamo riflettuto ancora abbastanza su questo tema. Sarebbe un annunciare un’umanità nuova. La famosa civiltà dell’amore, del rispetto per la persona, anche per il colpevole, ancora di più per la vittima. La giustizia restaurativa è, alla fine dei conti, una prassi quotidiana. Faccio un esempio: in Colombia seguivo dei ragazzi che un giorno sono entrati in una casa a rubare. Una volta scoperti abbiamo applicato, in modo informale, tra noi, la giustizia restaurativa: ho proposto loro due tipi di castighi, oppure di scegliere loro. Il mio castigo sarebbe stato di farli tornare a casa e di non accettarli più, oppure di non MC GIUSTIZIA RIPARATIVA GIUSTIZIA RETRIBUTIVA GIUSTIZIA RESTAURATIVA VALORI Interesse dello stato al primo posto. Interesse delle persone coinvolte e della comunità al primo posto. Fuoco sulla punizione. Prigionia o pene alternative inefficaci (carità a terzi). Fuoco sulla responsabilità e sulle necessità delle parti e della comunità. Colpevolezza individuale. Corresponsabilità individuale e collettiva. Uso dogmatico del diritto. Uso critico del diritto. PROCEDURA Formale, ritualistica. Scenario di potere. Informale, semplificata. Scenario extragiudiziale o comunitario. Linguaggio e regole complessi. Linguaggio comune e regole flessibili. Processo decisionale delle autorità, operatori giuridici. Processo decisionale condiviso con i coinvolti e la comunità. IMPATTO ED EFFETTI PER LA VITTIMA Minima partecipazione. Voce e ruolo essenziali nel processo. Minima assistenza psicosociale e giuridica. Risposta effettiva alle necessità psicosociali e giuridiche. Insoddisfazione e frustrazione rispetto al sistema. Soddisfazione e controllo sulla situazione, recupero dell’autostima. IMPATTO ED EFFETTI PER L’ACCUSATO Alienato dal processo, comunicazione tramite l’avvocato. Partecipazione responsabile nel processo. Necessità praticamente dimenticate. Necessità effettivamente considerate. Inaccessibile e senza interazione. Accessibile, interagisce con la vittima e la comunità. IMPATTO ED EFFETTI PER LA COMUNITÀ © Af MC/G Testa 2006 Restaurazione del tessuto sociale. Reintegrazione dell’accusato e della vittima. Efficacia di un sistema multiporte. Potenziale di riduzione della reincidenza. Pace sociale con dignità e senza tensioni. Due immagini che testimoniano il lavoro compiuto da padre Gianfranco Testa in Colombia. dare loro la prima comunione alla quale si stavano preparando. E loro, chiamati a partecipare alla decisione, hanno scelto di lavorare per un certo tempo per la persona che avevano derubato, di restituire quello che avevano preso. Non è stato un castigo: quei ragazzi si sono restaurati, hanno assunto le loro responsabilità. In più abbiamo guadagnato nella vittima un amico, che ha detto: “Questi ragazzi sono dei disgraziati, dei delinquenti, però sono anche capaci di fare del bene. Sono capaci di riconoscere il male che fanno”. I ragazzi lavoravano talmente tanto per “la loro vittima” che doveva fermarli lui stesso. Così si sono restaurati la vittima, i colpevoli e la comunità. Ho raccontato questo aneddoto per dire che anche in casa si può usare la giustizia riparativa. Anche a scuola. Questo è il punto di arrivo: la giustizia restaurativa non è solo per i palazzi di giustizia, ma anche per la vita quotidiana. Evitare di castigare. Allo stesso tempo non lasciare passare mai niente di sbagliato: ogni errore deve essere corretto». Nella tua vita missionaria sei stato e vai in diversi paesi del mondo affrontando il tema del perdono e della riconciliazione. Ci puoi raccontare qualcosa di queste tue esperienze? «Ieri sono stato in un campo Rom a Collegno (To). Sappiamo che gli immigrati sono mal visti, ma i Rom sono rifiutati. Certamente hanno i loro limiti, però mi sono trovato benissimo. Sono stato in Albania a incontrare cattolici e musulmani sul tema della violenza tradizionale. Tengo dei corsi sul perdono. Sono dei semi gettati. Non è che si risolvano i problemi. Ma cerco, insieme ad altri che collaborano con me, una pedagogia del perdono. Il papa Giovanni Paolo II, per la Giornata mondiale della Pace del 2002, alla fine del suo messaggio chiedeva che si costruisse una pedagogia del perdono. Noi parliamo sempre del perdono, ma non insegniamo come si fa. Ecco. È importante tentare di balbettare qualcosa su questa pedagogia del perdono». Luca Lorusso OSSIER L’ASSOCIAZIONE PARENTS CIRCLE - FAMILIES FORUM UN’ESPERIENZA ISRAELO-PALESTINESE TESTO E FOTO DI ANNALISA ZAMBURLINI Un ragazzo rapito e ucciso da Hamas. Un’associazione fondata dal padre per promuovere la riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Donne dei «due fronti» che si raccontano in cerchio il conflitto e i loro lutti. Testimoni che vanno nelle scuole dell’una e dell’altra parte, per far incrociare i propri occhi palestinesi con gli occhi israeliani dei ragazzi, e viceversa, e condividere i sogni, le aspirazioni, le vite interrotte dalla violenza. Esperienze di giustizia riparativa. el luglio del 1994 mio figlio Arik è stato rapito e poi ucciso da Hamas. Da allora lo scopo della mia vita è portare la riconciliazione e la pace tra israeliani e palestinesi». Yitzhak Frankenthal è un ebreo ortodosso, uno da cui, stando a come vanno le cose in Israele, non ti aspetteresti grandi aperture nei confronti dei palestinesi. Eppure dopo la morte del figlio durante il servizio militare abbandonò il lavoro alla ricerca di risposte alla sua tragedia, risposte che nessuno pareva in grado di dare: «Mio figlio è morto perché non c’è pace nella nostra terra. Cos’è che ci spinge in continuazione l’uno contro l’altro? Cosa devo fare per fermare questa spirale di violenza?». «N FAMIGLIE IN LUTTO PER LA PACE Quando iniziò a parlare con gli amici dell’intenzione d’impegnarsi per una riconciliazione tra i due popoli si ritrovò solo. «Non riuscivano a capacitarsi che io volessi mettermi a lavorare per la pace e la riconciliazione con chi aveva ucciso mio figlio. Il mio primo passo fu una lettera inviata al primo ministro Yitzhak Rabin, a Shimon Peres e a Ehud Barak: li incoraggiavo a continuare la ricerca di una soluzione pacifica al conflitto. Rabin venne a trovarci a casa, diventammo amici»1. Erano tempi in cui le speranze suscitate dagli Accordi di Oslo venivano erose da una realtà fatta di attentati, rappresaglie, morte. Nel corso del 1995 l’Associazione israeliana dei parenti delle vittime del terrorismo palestinese protestò fortemente contro gli sforzi di dialogo politico. Come lo stesso Frankenthal racconta: «Mi recai da Rabin e gli dissi che quella gente non parlava a mio nome». Così decise di inviare una lettera a 350 famiglie che avevano subito un lutto a causa del conflitto nei precedenti 18 anni, proponendo loro di unirsi per chiedere, con l’autorevolezza morale che la sofferenza conferisce, di interrompere la spirale di vendetta e intraprendere finalmente la via della pace, del rispetto e della riconciliazione con i palestinesi. Ricevette un paio di lettere cariche di insulti, ma ciò 48 MC DICEMBRE 2013 che più conta è che 44 famiglie risposero affermativamente. Al loro primo incontro Frankenthal propose di rivolgersi anche alle famiglie palestinesi che avevano subito un lutto a causa dell’occupazione israeliana. Così nacque il Parents Circle - Families Forum (Circolo dei genitori, forum delle famiglie) chiamato Bereaved families forum (Forum delle famiglie in lutto), del quale fanno parte oggi circa 600 famiglie palestinesi e israeliane. «IO COMPRENDO I TUOI SENTIMENTI» Nella penombra del salotto di casa sua, la signora M. ci racconta la sua storia. Alle sue spalle una grande foto di suo figlio, che non ha mai fatto ritorno dal servizio di leva. L’onda del dolore della madre ci avvolge, mischiandosi all’aria troppo calda di Gerusalemme. Le domandiamo cosa l’abbia spinta a entrare nel Parents Circle: «Quando un israeliano parla con i palestinesi la prima reazione è che loro sono nostri nemici e noi siamo i loro nemici. È molto importante quindi sedersi e parlare: comunicare è la sola via per trovare una soluzione. Per me non è stato affatto naturale, è stato un percorso difficile. Ma ora posso sedere e ascoltare quanto donne e uomini palestinesi hanno da dire, e posso rispondere: “Io comprendo i tuoi sentimenti”, e a volte posso anche dire: “Ma non concordo con le tue opinioni”». Ritroviamo la signora M. a un incontro delle donne dell’associazione. Carta, stoffa, pennelli e colori per- MC GIUSTIZIA RIPARATIVA mettono di esprimere le emozioni superando la differenza linguistica e il pudore. Così il desiderio di pace si trasforma in arcobaleni e mani che si stringono nei disegni sulla carta. Prendiamo parte alla realizzazione di un cartellone, e l’atmosfera serena, diremmo gioiosa, ci fa per un attimo dimenticare dove siamo. Ma basta uno sguardo all’alberello di carta realizzato da alcune donne per ricordarci che il fratello della giovane che dipinge è morto mentre era soldato di leva, colpito da un cecchino, che il figlio della signora che le passa i colori è invece stato ucciso durante un’incursione dell’esercito nel campo profughi. L’uno israeliano, l’altro palestinese. L’uno potrebbe aver ucciso l’altro, e viceversa. Così notiamo che le foglie dell’alberello sono in realtà lacrime con delle scritte: «Mamma, rendimi più forte», «lacrime d’amore», «sto piangendo un mare di lacrime perché tu non ritorni». Un brivido ci attraversa insieme alla sensazione di stare assistendo a qualcosa di eccezionale. Ci disponiamo in cerchio. Una donna palestinese e una israeliana conducono le attività del gruppo. Ci spiegano che l’elemento più importante dei loro incontri è la condivisione della propria storia, ovvero il racconto, semplice e spontaneo, della propria vita e dell’evento luttuoso che l’ha segnata. Ciascuno ha la possibilità di leggere, con e per gli altri, il conflitto dal proprio punto di vista, di presentare la vicenda della propria famiglia e del familiare scomparso restituendole quel calore, quei particolari, «quell’anima» che le fredde cronache di guerra non conoscono. Non è una terapia di gruppo ma un incontro di giustizia riparativa, ovvero uno spazio dove, attraverso il «linguaggio delle emozioni», può avvenire il riconoscimento dell’umanità del nemico. IL TESTIMONE DELLA PARTE OPPOSTA Qualche giorno dopo, Rami, un signore israeliano la cui figlia quattordicenne perse la vita in un attentato suicida, c’invita a un incontro con un gruppo di giovani. In quell’occasione conosciamo Aisheh, una giovane donna palestinese il cui fratello, ferito senza motivo da un soldato israeliano, morì, a distanza di anni, per le conseguenze riportate. Possiamo così os- In basso: Incontro delle donne dell’associazione Parents Circle-Families Forum, Beit Jalla, agosto 2009. | Qui a sinistra: una via di Hebron. | Qui sopra: intervista alla signora Fatima, a Doha, nei pressi di Betlemme, agosto 2009. servare uno dei più di mille incontri che, ogni anno, l’associazione organizza nelle scuole da entrambi i lati del muro, per i gruppi di israeliani, palestinesi o stranieri che ne facciano richiesta. Vanno sempre a due a due, per consentire ai ragazzi di ascoltare, spesso per la prima volta, il punto di vista dell’altro, e osservare un esempio concreto di dialogo e di riconciliazione. I «testimoni» svolgono il ruolo di mediatori tra i due popoli cercando di aprire uno spazio per la condivisione cognitiva ed emozionale di significati profondi. Gli uditori di una parte possono ritrovare, nel racconto delle vicende del proprio connazionale, esperienze e vissuti simili ai propri e sentirsi provocati e incoraggiati dal suo impegno nonviolento e concreto. Ma è l’incontro con il «testimone» della parte opposta a essere, per alcuni giovani, un’esperienza folgorante: l’«altro» astratto, stereotipato, odiato, per la prima volta acquista un volto umano, uno sguardo da guardare e da cui sentirsi guardati, una storia che interpella. Ascoltare la sua sofferenza, il suo dramma, i suoi sogni e desideri infranti porta a scoprire che essi sono inaspettatamente simili ai propri e aiuta a superare i pregiudizi e la propensione a «gerarchizzare» la sofferenza sminuendo quella altrui. Ciò non annulla le differenze, ma apre alla comprensione e al riconoscimento. La giustizia riparativa, che cerca la pace attraverso il dialogo e la riparazione delle offese piuttosto che la punizione e la separazione delle parti in lotta può assumere, in Israele e Palestina, la forma di un alberello di carta, del cerchio in cui siedono vittime che sono anche nemiche, e di un’accorata e coraggiosa testimonianza davanti agli studenti di una scuola. Annalisa Zamburlini NOTE: 1- Le parole di Yitzhak Frankenthal sono tratte da: B. Bertoncin (a cura di), Per mano. Per mano dell’altro, per mano con l’altro, Una Città, Forlì 2005, e da A. Da Sacco (a cura di), Israele – Yitzhak Frankenthal: la riconciliazione parla il linguaggio della sofferenza, in «Bumerang, grassroot information», 22.02.2007, www.bumerang.it. DICEMBRE 2013 MC 49 OSSIER NELLA COLOMBIA DEL CONFLITTO PERMANENTE RICONOSCERE LE VITTIME TESTO E FOTO DI CAROLINA BEDOYA MAYA Nel paese del narcotraffico e della guerra civile più duratura dell’America Latina, alcune idee e pratiche di giustizia riparativa si fanno strada. Anche come strumenti di un’auspicata chiusura del conflitto. E alcune politiche (troppo ambiziose?) puntano a reintegrare i paramilitari, a far emergere le verità delle tante violenze, a riconoscere le vittime, alla restituzione delle terre, a consolidare la memoria. a Colombia vanta il caffè migliore del mondo, così come gli smeraldi; è chiamato il «paese-continente» per il mosaico di climi presenti nel suo territorio; detiene il primato per la biodiversità per metro quadro. Nonostante questi e altri elementi, per i quali dovrebbe essere una delle mete più ambite del turismo mondiale, la Colombia è universalmente nota come il «paese della cocaina» nel quale si combatte uno dei conflitti armati interni tra guerriglia e paramilitari/esercito più lunghi della storia dell’America Latina, con effetti devastanti sulla popolazione civile. Quattro milioni di sfollati interni, sei milioni di ettari di terra usurpati, 15mila persone torturate, 50mila scomparse, 80mila esecuzioni extragiudiziarie, 1.282 massacri, 11mila bambini soldato. L LA LEGGE DI GIUSTIZIA E PACE E LA DOMANDA DI VERITÀ È interessante allora, e anche sorprendente, notare come in un paese così scosso dalla violenza si stiano diffondendo iniziative governative e della società civile improntate ai principi della giustizia riparativa. Due esempi emblematici sono la Ley de justicia y paz e la Ley de víctimas y restitución de tierras. La prima, voluta dal presidente Álvaro Uribe Vélez nel 2005, che aveva come finalità quella di offrire una fuoriuscita rapida e indolore ai paramilitari, basandosi sui principi della giustizia riparativa (pace e riconciliazione), è stata però profondamente innovata 50 MC DICEMBRE 2013 dalla Corte costituzionale sulla base dell’evoluzione del diritto penale internazionale (non applicazione di indulto e amnistia ai crimini internazionali) e della giustizia di transizione, ovvero dei diritti delle vittime (diritto alla verità, giustizia, riparazione, garanzia di non ripetizione dei crimini). Tale legge ha permesso a 50mila paramilitari di smobilitarsi e reintegrarsi nella vita sociale attraverso programmi appositi. A coloro che invece avevano commesso crimini di guerra e contro l’umanità (4mila persone) ha dato accesso a un sistema penale ad hoc: al posto di una pena carceraria di almeno 30 anni, una pena detentiva ridotta a 5-8 anni, alla condizione di raccontare tutta la verità sui delitti commessi. La principale particolarità di questo procedimento è che durante le udienze in cui il reo racconta la verità, le vittime sono presenti in un’altra stanza, hanno la possibilità di ascoltare in diretta quanto viene confessato, e possono porre domande ai carnefici in merito alla sorte dei propri cari. Sovente accade che i rei chiedano perdono per i crimini commessi e che le vittime trovino pace sentendosi riconosciute, oltreché per essere finalmente divenute consapevoli di quanto è successo. Si tratta dunque di un sistema penale alternativo che affianca alla pena detentiva la ricerca di una risposta alla domanda di verità delle vittime. In più intende favorire la risocializzazione del reo permettendogli di riconoscere le sue responsabilità e accompagnandolo nel percorso di reinserimento nella società. MC GIUSTIZIA RIPARATIVA Salòn del nunca màs (Sala del mai più) a Granada, dipartimento di Antioquia. Il paese, devastato a fine 2000 da un massacro a opera di paramilitari e successivamente da un’autobomba della guerriglia, ha subito uno sfollamento forzato. Dei 19.500 abitanti, oggi ne rimangono 9.800. Nel Salòn è presente un quaderno per ogni vittima su cui scrivono famigliari e amici. VITTIME E RESTITUZIONE DELLA TERRA La seconda legge, la Ley de víctimas y restitución de tierras, entrata in vigore il 1 gennaio 2012, ancor prima di dare soddisfazione ai diritti delle vittime, dà compimento a quello che è uno degli obiettivi primari della giustizia riparativa, ovvero il riconoscimento della voce delle vittime. Per la prima volta in 60 anni il governo ha riconosciuto l’esistenza di un conflitto armato interno, e dunque l’esistenza di milioni di vittime di soprusi da parte delle varie fazioni. Il governo ha capito che la fuoriuscita dal conflitto non si ottiene solo con lo smantellamento dei gruppi armati, ma anche e soprattutto attraverso l’attenzione dedicata alle loro vittime. La Ley de víctimas y restitución de tierras, dunque, si pone come finalità principale la ricostruzione del tessuto sociale e della fiducia reciproca, e quindi la riconciliazione nazionale. Prevede la creazione di un programma che punti alla riparazione integrale delle violazioni subite dalle vittime, inglobando anche le iniziative già presenti: la restituzione, l’indennizzo, la riabilitazione. A livello collettivo la riparazione avverrà tramite il riconoscimento pubblico delle responsabilità dello stato, atti commemorativi e iniziative simboliche rivolte alla comunità. Mentre l’intento di restituire 4 milioni di ettari di terra illegalmente usurpati, e di avviare programmi che agevolino il ritorno alle terre in totale sicurezza è a dir poco ambizioso. Così come l’intento di aiutare le vittime a costruirsi un’alternativa di vita attuando programmi per la creazione di posti di lavoro, sia in ambiente rurale che urbano, e avviando le vittime senza titoli di studio a corsi di formazione per imparare un mestiere. PRESERVARE LA MEMORIA Interessanti, in ottica di giustizia riparativa, sono infine le iniziative della società civile nazionale e internazionale: il sostegno alle vittime e alle loro voci, l’impegno a mantenere viva la memoria del conflitto perché non venga dispersa, le campagne di sensibilizzazione. Numerosi sono infatti i reports scritti al fine di ricostruire e preservare la memoria storica del conflitto, perché il popolo colombiano conosca quanto è successo per più di mezzo secolo nel suo paese e si impegni per la pace. In questo filone possono rientrare le molte iniziative che nascono dal basso: dalle piccole comunità in cui le vittime si riuniscono e si danno forza a vicenda in gruppi di auto mutuo aiuto, alla costruzione di musei della memoria. O, ancora, piantare un albero in ricordo dei cari uccisi dal conflitto, partecipare a laboratori in cui rielaborare il lutto o semplicemente ricominciare a pensarsi come persone utili. Carolina Bedoya Maya BIBLIOGRAFIA - G. Colombo, Il perdono responsabile, Ponte alle grazie, Milano 2011; - C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, in Dignità e diritto. Prospettive interdisciplinari, Libellula edizioni, Tricase (Le) 2010; - D. Garland, La cultura del controllo (2001), Il Saggiatore, Milano 2004; - E. Wiesnet, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita (1960), Giuffrè, Milano 1987; - M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1993; - I. Marchetti e C. Mazzucato, La pena in «castigo». Un’analisi critica su regole e sanzioni, Vita e Pensiero, Milano 2006; - G. Mannozzi, La giustizia senza spada, Giuffrè, Milano 2004; - P. Massaro, Dalla punizione alla riparazione, Franco Angeli, Milano 2012; - Pena, riparazione e riconciliazione, Atti del convegno di studi. Como 2005, Insubria University Press, Varese 2007; - Howard Zehr, Changing Lenses. A New Focus for Crime and Justice, Herald Press, Scottsdale, 1990; - C. M. Martini, G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003. - FILM: One Day After Peace, di Erez Laufer e Miri Laufer, Israele-Sudafrica 2012. HANNO CONTRIBUITO A QUESTO DOSSIER ANNALISA ZAMBURLINI Dottoranda in Sociologia e metodologia della ricerca sociale presso l’Università Cattolica di Milano. Nel 2010 si è laureata con una tesi dal titolo «Il Parents Circle - Families Forum israelo palestinese, un’esperienza di giustizia riparativa?». CAROLINA BEDOYA MAYA Dottoressa in Scienze politiche e relazioni internazionali e in Scienze per il lavoro sociale e per le politiche di welfare con una tesi dal titolo «Colombia: tentativi di porre fine al conflitto tra Transitional Justice e Restorative justice». GHERARDO COLOMBO Pubblico ministero presso la Procura di Milano dal 1989 al 2005, poi giudice di Cassazione, ha lasciato la magistratura nel 2007. È oggi presidente della casa editrice Garzanti. CLAUDIA MAZZUCATO Docente di Diritto penale e penale minorile all’Università Cattolica. È stata co-fondatrice dell’Ufficio per la Mediazione penale di Milano. Dal 2002 partecipa a vari progetti di ricerca e programmi di formazione nazionali e internazionali sulla giustizia riparativa. GIANFRANCO TESTA Missionario della Consolata, ha prestato il suo servizio missionario in diversi contesti dell’America Latina. Attualmente è impegnato in Italia. COORDINAMENTO EDITORIALE LUCA LORUSSO, redattore di MC. OSSIER FINE © jobspapa com PERÚ Testo e foto di PAOLO MOIOLA A Lima, come in quasi tutte le metropoli del mondo, ci sono le periferie delle periferie. A Corona, Pradera e in altri «insediamenti umani» le persone arrivano dalle zone interne del Perú per cercare un nuovo inizio. Si installano su una terra desertica, dove manca tutto. Vi trovano però anche Gianni Vaccaro e Nancy Ortiz, una coppia che, attraverso una associazione solidale, li aiuterà con servizi per la salute, l’educazione e il lavoro. Rifuggendo ogni paternalismo. IL DIRITTO ALLA SALUTE IN PERÚ / 2: Tablada de Lurín JAMPI WASI, LA CASA DELLA SALUTE T ablada de Lurín. Il taxi cholo1 è scomodo, traballante e rumorosissimo, ma per muoversi a Tablada città di 60 mila abitanti - è perfetto. Ci facciamo lasciare ai piedi del Cerro de las conchitas, la «Collina delle conchiglie», un nome poetico per un luogo che poetico certamente non è. Percorreremo a piedi un paio di chilometri fino alla sommità. La via è una ripida strada di sassi e sabbia che s’inerpica lungo la collina. Le abitazioni sono abbarbicate sul pendio polveroso. La maggior parte sono costruite con materiali poveri: tavole di legno di re- cupero, onduline di eternit, cartoni, teloni di plastica, pareti di esteras2. Tuttavia, oggi - sono ormai molti anni che frequentiamo questo luogo - un numero crescente, benché ancora esiguo, di case (pur rimanendo molto umili) è in mattoni, cemento e finestre dotate di vetri. Corona Santa Rosa - questo il nome dell’insediamento umano (asentamiento humano) - si è svi- # In basso: un «taxi cholo» passa davanti alla sede di Jampi Wasi, il centro medico di Corona Santa Rosa. PERÚ luppato sopra e sotto la strada sterrata. Vi abitano oltre 1.500 persone, discendenti di quelle che, negli anni Settanta3, invasero queste terre desertiche in cerca di un’esistenza più dignitosa. Nonostante i dati del Perú da anni evidenzino una crescita economica importante, una parte rilevante della popolazione continua a vivere in povertà, nell’interno del paese o in periferie come questa. Mancanza di un lavoro stabile, cattiva alimentazione, assenza di controlli sanitari regolari, violenza intrafamiliare, bambini e adolescenti che crescono senza una normale istruzione scolastica, ragazze che rimangono incinte in età adolescenziale, questi sono i principali problemi che ancora oggi affliggono la popolazione. CINQUE SOLES DI SALUTE Le persone che incrociamo lungo la strada salutano la nostra guida con un amichevole «professor Gianni...». Gianni Vaccaro, sposato con Nancy Ortiz, quattro figli maschi, qui è una vera istituzione. Nel settembre 2001 ha fondato l’Asociación de Desarrollo Solidario Yachay Wasi, un’associazione che a Corona si occupa di salute, educazione, microcredito ed ecologia. Negli ultimi 13 anni la condizione degli abitanti di Corona è migliorata soprattutto per merito suo. Oggi infatti essi possono usufruire di un centro di salute, un centro educativo, un laboratorio tessile e servizi altrimenti inimmaginabili in luoghi come questo. Ecco la sede di Jampi Wasi, la «Casa della salute». Il nome è in quechua, perché questa è la lingua madre della maggior parte degli adulti. Ma esso serve anche a chi è nato qui e parla soltanto spagnolo. «È un modo semplice spiega Gianni - per ricordare alle nuove generazioni la cultura di provenienza». Un portone in ferro introduce in una stanza che è un poliambulatorio in miniatura: c’è una piccola farmacia, un banco con prodotti naturali e la reception dove si pagano, tra l’altro, i 5 soles4 della visita (un costo dimezzato rispetto ai centri più economici). E MC ARTICOLI # A sinistra: Rosmary Mantari e Carmela Zubilete, giovani infermiere del centro medico Jampi Wasi. Sotto: la dottoressa Luz Arevalo. # Pagina a sinistra, in senso orario: una strada di Tablada e, sullo sfondo, il Cerro de las conchitas con Corona Santa Rosa (parte alta della collina) e l’insediamento 9 de Julio (in basso); il primo edificio di Jampi Wasi; il panorama visibile dall’alto di Corona Santa Rosa; la signora Carmen Maguiña alla reception di Jampi Wasi. poi ci sono due stanze: in una si pratica l’agopuntura, nell’altra si fanno le visite. Spiega Gianni: «A Villa María del Triunfo, il distretto urbano di appartenenza, abbiamo solo un ospedale del ministero della Salute e quindi un centro medico come il nostro è necessario per creare una rete d’assistenza che possa filtrare i casi non gravissimi. Inoltre, noi cerchiamo di lavorare molto per formare una cultura della salute in persone che, per povertà e per ritrosia, vanno in un centro medico soltanto se stanno estremamente male». Le pareti sono piene di manifesti: per riconoscere i farmaci contraffatti, per difendersi dal dengue, in favore dell’allattamento al seno, per incentivare la donazione di sangue e altro ancora. L’informazione serve per far crescere una cultura della salute e quindi della prevenzione. Come il programma denominato Cred - «Crecimiento y Desarrollo» (crescita e sviluppo) -, dedicato a bambini da 0 a 5 anni per prevenire eventuali problemi di salute. Spiega Gianni: «Controllando per tempo psicomotricità, vista, udito, linguaggio, possiamo scoprire eventuali problemi e curarli con maggiori possibilità di successo». Entriamo nell’ambulatorio di Luz Arevalo, una medico giovane e timida con lunghi capelli neri e un bellissimo sorriso. Scambiamo qualche parola, anche se le sottili pareti di compensato non agevolano la conversazione. «Molti dei miei pazienti sono vicini di casa racconta la dottoressa -. Questo mi piace molto». Le chiediamo quali siano i problemi principali che si trova ad affrontare. «Sono le patologie respiratorie. E poi anemia e denutrizione, soprattutto con riferimento ai bambini». Domandiamo cosa pensi di una sanità pubblica che è a pagamento o per persone assicurate. «Per fortuna - ricorda Luz - esiste il Sis5, che offre cure mediche gratuite ai più poveri. Certamente, se potessi fare una richiesta ai politici, direi loro che sarebbe importante ampliare l’offerta medica nei confronti della popolazione. Troppe persone non vedono mai un dottore». In Perú ci sono abbastanza medici, ma mancano gli specialisti. Per questo Luz lascerà (temporaneamente) il centro per dedicarsi agli studi specialistici. «Spero in chirurgia», ci dice al momento dei saluti. Adiacente alla prima, il centro medico possiede una seconda, piccola sede, caratterizzata da scritte e disegni dai colori sgargianti che vivacizzano un panorama generale dominato dal grigio. Tramite i disegni si raccontano i diritti della persona e si mostra - con la piramide alimentare - quale sia l’alimentazione più corretta per i bambini. Qui vengono ospitati alcuni ambulatori e un piccolo laboratorio di analisi. Il centro medico Jampi Wasi è frequentato da una media di 450 persone al mese. «Ma in questo numero - precisa Gianni con una punta di orgoglio - non sono incluse le persone raggiunte attraverso le nostre campagne». Le campagne mediche sono visite che per un giorno, normalmente una domenica, si offrono gratuitamente a tutta la popolazione, chiamando specialisti in varie discipline (pediatria, ginecologia, nutrizione, ecc.). (segue a pagina 57) DICEMBRE 2013 MC 55 PERÚ Tra pubblico e privato L’OSPEDALE È «NELLA» PARROCCHIA Quando lo stato è assente o troppo debole, quando le risorse private sono insufficienti, per molte persone l’esistenza diventa ancora più precaria. A Tablada de Lurín la locale parrocchia offre servizi - medici, giuridici, assistenziali - alla popolazione locale. ablada de Lurín. Se non fosse per il nome che campeggia sul muro - Parroquia San Francisco de Asis (Parrocchia San Francesco d’Assisi) - , si potrebbe pensare che l’edificio sia un centro civico che ospita una serie di servizi: medici, giuridici, assistenziali. L’entrata della chiesa omonima si affaccia sulla piazza, recentemente sistemata, di Tablada de Lurín, nella parte conosciuta come «zona antica». I molteplici uffici si trovano invece sulla via laterale. A guidare la parrocchia è padre Stuart Flores, ma il lavoro è portato avanti da laici e volontari, soprattutto donne. Come Ines Villanueva che indossa una maglietta contro la violenza sulle donne, fenomeno molto diffuso: «Ferma la mano - recita la scritta -. Il maschilismo uccide e maltratta la donna» (Para la mano. El machismo mata y maltrata a la mujer). O come Rosa Pajares che, entusiasta, ci vuole mostrare il centro medico, di cui è coordinatrice. L’ingresso è poco appariscente, segnalato da una piccola targa che ricorda soltanto gli orari di apertura. Ma dietro quella porta si scopre - con sorpresa del cronista T # Dal basso in alto: la parrocchia San Francesco d’Assisi, a Tablada; la sala d’attesa del centro medico; la targa con gli orari. Pagina seguente: l’ambulatorio dentistico; padre Stuart Flores; un’infermiera e (a destra) la signora Rosa Pajares, coordinatrice del centro. 56 MC DICEMBRE 2013 MC ARTICOLI - un piccolo mondo fatto di ambulatori, medici, infermieri e naturalmente di pazienti. Sulle pareti ci sono una pluralità di manifesti che pubblicizzano le vaccinazioni per i bambini, ma anche per gli adulti: antipolio, antitetanica, quelle contro epatite B, febbre gialla, morbillo, papilloma virus e altre ancora. Vicino alla cassa, un avviso ricorda che le visite mediche costano 10 soles. Il centro medico offre servizi di medicina generale, ostetricia, odontoiatria, psicologia. Rosa ci apre le porte di alcuni ambulatori. Ecco le infermiere con un camice bianco su cui è ricamato un San Francesco. Ecco il dentista che - impegnato su un paziente - ci fa con la testa un segno di saluto. Il centro medico della parrocchia di San Francesco funziona e merita parole d’elogio. Tuttavia, l’inadeguatezza, se non l’assenza, dello stato fanno riflettere. Per troppi peruviani le cure mediche non sono un diritto acquisito ma una conquista individuale da strappare ogni giorno. Con i denti, le unghie e una buona dose di fortuna. Paolo Moiola SOLIDARIETÀ, DIGNITÀ, RESPONSABILITÀ Lasciamo le strutture di Jampi Wasi e ci incamminiamo verso la sommità del Cerro de las conchitas, poche decine di metri più in alto, dove l’associazione gestisce altre due strutture con finalità diverse. Nel piccolo laboratorio tessile di taglio e cucito -Taller La Corona si chiama - lavorano una decina di signore del posto. Progettano e confezionano maglie, tovaglie, borse. E soprattutto insegnano ad altre una professione che non sia quella - consueta per gran parte di queste donne - di venditrice ambulante. Sul costone più alto della collina, al termine della strada, c’è l’edificio delle attività educative: Yachay Wasi, ancora un’espressione quechua per indicare la casa (wasi) del sapere, della cultura, della saggezza (yachay). Ospita un frequentatissimo asilo e un doposcuola per bambini e ragazzi delle scuole primarie e secondarie. Qui lavorano 16 persone tra insegnanti ed educatori. Come si paga tutto questo?, chiediamo, scusandoci con Gianni per l’arida concretezza della domanda. «Siamo finanziati - ci spiega - da strutture laiche (come alcune Ong italiane) e da alcune entità religiose (come la Conferenza episcopale italiana). E poi ci sono gruppi di amici che si autotassano mensilmente, a dispetto della crisi». Salute, lavoro, educazione: l’Associazione di sviluppo solidale opera a 360 gradi, perché l’obiettivo - molto ambizioso - è lo «sviluppo integrale della persona». Cosa spinge una persona con moglie e figli a dedicare la propria esistenza agli emarginati? Gianni Vaccaro, che ha una giovinezza da seminarista, è molto legato alla teologia della liberazione (nata proprio in Perú). «Nel nostro lavoro la applichiamo con la scelta preferenziale dei poveri, nella lotta contro una povertà ingiusta, escludente, che uccide di morte lenta. Sono per una Chiesa dove la missione religiosa non possa essere disgiunta dalla missione sociale urgente. Secondo me, essa è chiamata a mettersi al lato dei deboli e degli oppressi, lottando - appunto - per la loro liberazione. Se Giovanni Paolo II pensava l’appartenenza cattolica come identità contro il comunismo, papa Francesco sembra voler privilegiare la problematica sociale come contesto per l'evangelizzazione». DICEMBRE 2013 MC 57 PERÚ Corona Santa Rosa / 1 IL CENTRO MEDICO «JAMPI WASI» SITO WEB ED EMAIL: • www.perusolidario.com • [email protected] NOME COMPLETO: Centro medico «Jampi Wasi» («Casa della salute»). INIZIO ATTIVITÀ: gennaio 2008. BACINO D’UTENZA: popolazioni di Corona Santa Rosa, Pradera del Sur, 9 de Julio e Paraíso per un totale di oltre 3.500 abitanti. RESPONSABILE MEDICO: dott.ssa Maria Giurfa. SERVIZI PRINCIPALI: medicina generale, primo soccorso, psicologia, laboratorio di analisi, ostetricia, nutrizione, agopuntura, riflessologia, crescita e sviluppo (Cred), stimolazione infantile, farmacia. DATI GENERALI: LUOGO: Corona Santa Rosa (Tablada de Lurín, distretto di Villa María del Triunfo, Lima, Perú). PROPRIETÀ: «Asentamiento humano Corona Santa Rosa», entità giuridicamente riconosciuta. GESTIONE: «Asociación de Desarrollo Solidario “Yachay Wasi de Tablada”». DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE: Gianni Vaccaro e Nancy Ortiz. ALTRI SERVIZI: bottega di prodotti naturali; campagne mediche annuali. PERSONALE E COLLABORATORI: Maria Giurfa, German De La Cruz, Luz Arevalo (medici); Rosmary Mantari (infermiera); Angela Nestares (laboratorio di analisi); Vicenta Curasma (programma Cred); Luzmila Castro (medicina naturale); Carmela Zubilete e Ychuta Reyna (tecniche di infermeria); Carmen Maguiña (farmacia); Baras Camilo (psicologo); Diego Ramirez (agopuntura); Melchor Vasquez (riflessologia); Cruz Trinidad (pulizie); volontari provenienti dall’Italia, anche nell’ambito del «Servizio civile all’estero» (www.serviziocivile.gov.it). Corona Santa Rosa / 2 IL CENTRO EDUCATIVO «YACHAY WASI» SERVIZIO OFFERTO: scuola materna, doposcuola per scuole primarie e secondarie. FINALITÀ: istruire ed educare bambini e adolescenti per farli crescere in autonomia e creatività, rendendoli al tempo stesso coscienti del momento storico e del contesto sociale. ISCRITTI: 80 bambini (da 3 a 5 anni) nella scuola materna; nel doposcuola, 75 bambini del livello primaria (da 6 a 11 anni) e 45 adolescenti del livello secondario (da 12 a 16 anni). PERSONALE E COLLABORATORI: sono 16 le persone impegnate tra professori ed educatori (6 per l’asilo, 8 per il doposcuola, 1 specialista in lettura e scrittura, 1 coordinatore sui diritti umani). ALTRI SERVIZI: centro di informatica («Yuyanapaq», «per non dimenticare»); proiezione di film e progetti di microcinema in collaborazione con il «gruppo Chaski» (www.grupochaski.org). # In alto: al banco di Jampi Wasi la signora Maria Ventura serve alcuni prodotti naturali a una mamma con bambino. Qui a lato: Gianni Vaccaro (a destra, col pizzetto) e Nancy Ortiz (con la maglia azzurra) assieme a un gruppo di insegnanti del centro educativo Yachay Wasi. 58 MC DICEMBRE 2013 Corona Santa Rosa / 3 IL LABORATORIO «TALLER LA CORONA» SERVIZIO OFFERTO: laboratorio tessile di taglio e cucito. FINALITÀ: promozione del lavoro femminile attraverso la formazione di circa 30 donne all’anno; produzione e vendita di prodotti tessili. PERSONALE: nel laboratorio sono impiegate 9 donne. MC ARTICOLI Nelle attività di aiuto ai meno fortunati il pericolo si nasconde soprattutto nel paternalismo, ma anche nella sopravvalutazione di sentimenti quali la compassione e la carità. Gianni e Nancy hanno evitato di cadere in questi errori agendo sempre nel solco di tre concetti forti: solidarietà, dignità, responsabilità. Questa filosofia ha una traduzione concreta: ogni struttura costruita dall’associazione di Gianni e Nancy è proprietà dell’insediamento umano Corona Santa Rosa, entità giuridicamente riconosciuta. Inoltre, la gestione delle stesse avviene in forma comunitaria, coinvolgendo il personale e i dirigenti dell’asentamiento. «Soltanto in questo modo - chiosa Gianni - i poveri possono assumere il ruolo di soggetto attivo della trasformazione sociale». POLVERE E SPERANZA Siamo in cima alla collina pietrosa di Corona. In lontananza, sul fondovalle, s’intravvede la grande fabbrica di cemento (accusata di arrecare seri danni alla salute dei residenti)6. A destra, sulle aride pendici si vedono le prime umili abitazioni di Pradera, insediamento più giovane e più povero. Poco sotto di noi c’è un campetto di cemento dove stanno giocando un gruppo di ragazzi. Un venticello rinfrescante ma inevitabilmente polveroso (considerato che siamo in un deserto) porta sollievo. Mentre la luce del tardo pomeriggio rende meno aspro il paesaggio circostante. Paolo Moiola NOTE 1 - Mototaxi, si tratta di veicoli a tre ruote, tipo Piaggio Ape. Vengono chiamati popolarmente «taxi cholo» perché sono usati soprattutto dai cholos, i migranti di origine andina e amazzonica. 2 - Le esteras sono stuoie e canne di bambù intrecciate. 3 - In particolare negli anni 1968-1975, durante il governo di Juan Velasco Alvarado. 4 - Un euro vale 3,7 soles (ottobre 2013). 5 - Sis, «Seguro integral de salud». Ne abbiamo parlato nella prima puntata. 6 - Cementos Lima (gruppo Unacem). La fabbrica nega qualsiasi inquinamento. Secondo il Copdes (www.copdes.org), l’inquinamento dell’aria prodotto dall’attività è invece molto grave. NELLA PUNTATA PRECEDENTE: abbiamo raccontato del «Centro medico Anna Margottini» di Huaycán. VIDEOREPORTAGE: un breve videoreportage sul Centro «Jampi Wasi» di Corona di Santa Rosa è visibile sul sito della rivista e su You Tube. # Sopra: il campetto da gioco posto sotto il centro educativo Yachay Wasi. Qui in basso: dalla collina di Corona Santa Rosa si vede Pradera, insediamento più recente e più povero. BURKINA FASO Testo e foto di MARCO BELLO PARLA MONSIGNOR PHILIPPE OUEDRAOGO PASTORI: NON MOLLATE IL GREGGE Dalle stragi di Lampedusa all’integralismo islamico in Africa. Dalla crisi di valori nella società burkinabè alle sfide della sua Chiesa. Dall’impegno dei cattolici in politica alla formazione delle coscienze. Colloquio con l’arcivescovo metropolitano di Ouagadougou. M onsignor Philippe Ouedraogo è arcivescovo di Ouagadougou dal 2010. Fin dal 1996 è stato vescovo di Ouahigouya, città nel Nord, a grande maggioranza islamica. Lo incontriamo nel salone dell’arcivescovado, proprio mentre nelle strade della capitale si festeggia la vittoria calcistica del Burkina Faso sull’Algeria. Monsignor Ouedraogo, come legge il dramma di Lampedusa? «Oggi se si parla di Africa in Europa si parla di Lampedusa. Un giornalista ha confrontato le migliaia di africani periti nell’Atlantico a causa della tratta degli schiavi con i morti della migrazione dall’Africa all’Europa. Forse è un po’ forzato come paragone. Le motivazioni non sono le stesse e la situazione neppure. Il Papa ha denunciato la mondializzazione dell’indifferenza. In questo l’Europa è colpevole e ha anche delle responsabilità: la colonizzazione, poi le indipendenze. Ora siamo in una situazione catastrofica di povertà, di insicurezza a causa delle guerre, e tutto questo contribuisce a far partire le # Mons. Philippe Ouedraogo, arcivescovo di Ouagadougou. MC ARTICOLI persone. Ma noi, gli africani, cosa abbiamo fatto per rendere vivibili i nostri stati? I responsabili si sono riuniti ad Addis Abeba in questi giorni, hanno passato il tempo a parlare della loro sicurezza, rispetto alla Corte penale internazionale, ma hanno trascurato questo problema che è il più importante. Se i nostri governanti rubano, bisogna giudicarli. L’autorità non è niente altro che un servizio. Se i dirigenti non realizzano che sono in quella posizione per fare il bene del popolo, per il bene comune, se saccheggiano le magre risorse, occorre giudicarli, a qualsiasi livello. Questa situazione di miseria che si perennizza è sfida enorme, e la responsabilità è grande sia a livello di chi governa sia della popolazione. Bisogna lavorare, avere iniziativa, prendere il nostro destino in mano. Dunque le responsabilità sono condivise». Lo scorso luglio voi vescovi del Burkina Faso avete scritto una lettera pastorale (box) critica nei confronti dell’istituzione del Senato, voluto dal presidente. Una presa di posizione coraggiosa. «I vescovi sono dei pastori, dei servitori del popolo di Dio. Se la situazione sociale, umana, sani- taria, alimentare, educativa, di sicurezza della gente non interessasse noi pastori sarebbe una vera catastrofe. Abbiamo una responsabilità comune e dobbiamo essere la voce dei senza voce. Siamo in mezzo al popolo, siamo solidali con esso, abbiamo quotidianamente delle sfide da affrontare, sulla povertà e sull’avvenire di questa gente. Siamo dei cittadini come gli altri, e penso che abbiamo voce in capitolo. “Alla parola in famiglia è convocato ogni membro della famiglia - diciamo in moore - al lavoro della famiglia devono essere convocati tutti i membri della famiglia”, compresi i vescovi: siamo anche Burkina Faso: mosse politiche del presidente padrone ROTTA VERSO IL 2015: TEMPI DIFFICILI In sella da 26 anni Blaise Compaoré le studia tutte per restare al potere. Adesso sta creando un Senato alle sue dipendenze. Ma il popolo non ci sta. E le manifestazioni di piazza sfociano nella violenza. I controllo, il Cdp avrebbe con tutta probabilità la maggioranza qualificata di due terzi dei parlamentari per modificare l’articolo 37. ultima trovata è la creazione di un Senato, che porterebbe il Parlamento a un sistema bicamerale (attualmente si basa sull’Assemblea Nazionale di 111 membri). Creazione anacronistica, visto che in altri paesi della regione, come in Senegal, il Senato è stato soppresso per tagliare i costi della politica. Così il 21 maggio scorso i deputati hanno approvato la legge sul Senato che sarà composto da 89 senatori, di cui 29 nominati direttamente dal presidente, 39 eletti o designati dalla collettività territoriali e 21 indicati dalla società civile. Il calcolo politico è chiaro: con un Senato sotto il suo a i burkinabè, popolo mite e tollerante, questa volta sembrano non essere d’accordo. L’idea del Senato manda in ebollizione la società del paese. Diverse manifestazioni investono le strade della capitale Ouagadougou e di altre città del paese, a maggio, giugno e luglio. Alcune, in particolare condotte dagli studenti, sfociano in atti violenti come sequestro e distruzione di vetture di passaggio, e chiedono le dimissioni di Blaise. I giovani, il 59,1% dei burkinabè è sotto i 20 anni, diventano la spina nel fianco del presidente. E la Chiesa non sta a guardare: il 15 luglio i vescovi del Burkina Faso, che già si erano espressi in passato contro la modifica dell’articolo 37, diffondono una Lettera pastorale dai toni pacati ma fermi, che critica le nuove mosse del potere (vedi box). Usa e Francia vorrebbero mantenere il paese nella stabilità, vista la turbolenza che ha investito tutta la regione da circa due anni (guerra in Mali, attentati qaedisti in Niger, gruppi integralisti in Nigeria, ecc.). C’è chi dice che anche Blaise voglia farsi da parte (e per lui si cerca una posizione di prestigio in una organizzazione internazionale), ma il suo partito non è pronto e si scatenerebbe una guerra di successione. In prima fila il fratello minore, François Compaoré, testa calda e implicato, tra l’altro, nell’assassinio del giornalista Norber Zongo. Marco Bello l Burkina Faso si prepara a giorni travagliati in vista del 2015, anno delle elezioni presidenziali. In quella data, infatti «scadrà» Blaise Compaoré, al potere indiscusso dal quel lontano 15 ottobre 1987, quando fece assassinare il presidente Thomas Sankara e 12 suoi stretti collaboratori. Blaise, così viene chiamato in Burkina, è passato indenne attraverso elezioni, multipartitismo, assassinii politici eccellenti del suo regime (come quello del giornalista Norbert Zongo, ucciso il 13 dicembre 1998), lotte interne del suo partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), modifiche costituzionali. Ed è proprio la Costituzione del 1991, modificata nel 2005, che ha ridotto la durata della presidenza da 7 a 5 anni, e imposto il limite a due mandati. Compaoré rieletto nel 2005 e 2010, sarebbe, il condizionale è d’obbligo, al suo ultimo mandato. Ma da mesi ormai, il presidente e i suoi lavorano per cambiare quel famoso articolo 37 della Costituzione, che limita i mandati presidenziali. L’ M DICEMBRE 2013 MC 61 BURKINA FASO # In queste pagine: scene di villaggio. Ragazzi si muovono su un asino; donne prendono l’acqua. # Sotto: Blaise Compaoré, presidente del Burkina Faso, nel 2004. noi membri della famiglia. Se la gente ci rifiuta il diritto di parlare e vuole che stiamo confinati nelle nostre sacrestie noi non siamo d’accordo, siamo qui e abbiamo una missione da compiere. Abbiamo sottolineato che noi non abbiamo un ruolo politico, un ruolo deliberativo, ma abbiamo un contributo da portare e teniamo a salvaguardare la nostra neutralità e la nostra libertà per poter comunicare il Vangelo al servizio di tutti gli uomini. È per questo che abbiamo preso la parola, perché ci sono quelli che non riescono a farsi sentire, i poveri e i dannati della terra, gli analfabeti, chi vive in campagna. Poi c’è la minoranza di coloro che vivono nell’agio e hanno tutto in mano. Bisogna riequilibrare le cose, in modo che tutti abbiano, ognuno al proprio livello, una parte irrinunciabile nel costruire il bene comune, a cominciare dai responsabili». Le parole di papa Francesco vanno un po’ in questo senso. Hanno influenzato la vostra iniziativa? «In Africa e in Burkina Faso siamo stati molto contenti ed entusiasti dell’elezione di papa Francesco. Il fatto di essere un 62 MC DICEMBRE 2013 non europeo è un segno molto forte. La Chiesa è universale, occorre un cambiamento di mentalità, in particolare che i cristiani d’Europa cambino, a cominciare dal Vaticano. E il papa ha centrato il problema. Qui abbiamo un’opzione pastorale fondamentale: “Chiesa famiglia di Dio”. Il sinodo speciale per l’Africa del 1994 ha generalizzato questa opzione fondamentale per tutta la chiesa africana: costruire la Chiesa famiglia di Dio attraverso le piccole comunità cristiane di base. Siamo contenti che questo papa arrivi dall’altro lato del mondo e abbia un’esperienza e una sensibilità particolare, che porterà qualcosa alla Chiesa. Sono stato a Roma recentemente, ho partecipato all’udienza del mercoledì, e sono anche andato ad Assisi e ho concelebrato con il papa. Questo uomo è straordinario! Il fatto stesso che abbia scelto il nome Francesco è un segno forte: riportare la Chiesa al Vangelo. Come dice Charles de Foucault: “Se non viviamo il Vangelo, Gesù non vive in noi”. Costruire insieme, come ha detto Bergoglio, una Chiesa al servizio, una Chiesa umile, fraterna. Io sono in profonda comunione con lui e quando l’ho po- tuto salutare all’udienza gli ho detto: “Santo Padre noi vi amiamo”. E lui: “Pregate per me”». Come è stata accolta la lettera pastorale nelle parrocchie? «La lettera è stata letta nelle chiese. Un uomo politico è venuto da me a lamentarsi perché dopo la lettura la gente ha applaudito: scandalo! “La Chiesa fa politica. Non mi ritrovo più in questa Chiesa”. Gli ho detto: “Calmati, il prete ha letto la lettera, non ha chiesto alle persone di applaudire. Voi organizzate le manifestazioni, e forse le persone vi partecipano perché le pagate. Ma ci sono altre manifestazioni a cui la gente partecipa senza essere pagata”. Questo significa che le persone si sono ritrovate nelle parole della lettera. Non tutti l’hanno apprezzata, i cristiani non hanno tutti la stessa MC ARTICOLI sensibilità politica. Alcuni sono furiosi contro il loro pastore: “Si immischiano in cose che non li riguardano” pensano. Oppure: “Dovevano dare la lettera a Blaise (Compaoré, presidente del Burkina Faso, ndr), senza pubblicarla”. La Chiesa ha la sua maniera di lavorare. Noi vogliamo assumere il nostro ruolo morale e spirituale, non politico. Per questo rifiutiamo di andare all’Assemblea Nazionale a deliberare, ma se ci sono delle istanze di concertazione, siamo disponibili. Sempre restando nella prospettiva della dottrina sociale della Chiesa: la dignità della persona, il bene comune, la solidarietà e il principio della sussidiarietà. La lettera va in questo senso. I sacerdoti l’hanno accolta e l’hanno distribuita al popolo di Dio. La parrocchia universitaria ne ha diffuso 20.000 copie. Non vogliamo l’unanimità totale. Abbiamo alimentato il dibattito, la gente si interroga, e penso questo possa contribuire alla maturazione politica. Non abbiamo scritto la lettera per fare la lezione alle altre confessioni. Abbiamo letto su Internet: “Anche i musulmani e i protestanti devono pronunciarsi”. Ma non abbiamo la stessa organizzazione o lo stesso metodo di lavoro. Noi siamo in armonia con loro». E qual è stata la reazione a livello del governo? Sono stati piuttosto discreti. Mesi fa avevamo dato la nostra posizione rispetto alla modifica dell’articolo 37 della Costituzione, e loro hanno scritto contro di noi. Noi non abbiamo replicato. Ma questa volta non ci sono stati scritti che ci attaccavano. Siamo stati convocati dal presidente, al quale abbiamo spiegato il perché della lettera: non è per creare problemi al paese, al contrario. Si può dare un’altra lettura, ma il nostro obiettivo non è la sovversione, non è rovesciare Blaise, ma contribuire al bene comune, alla pace e alla coesione sociale, che è una delle nostre ricchezze». Ci sono esperienze di dialogo interreligioso a livello nazionale o della sua diocesi? «A livello della conferenza episcopale esiste una commissione LA LETTERA PASTORALE DEI VESCOVI DEL BURKINA FASO L’AVVENIRE PIENO DI PERICOLI Basta con clanismo, clientelismo e corruzione. Il Burkina ha bisogno di una maggiore redistribuzione di ricchezza, trasparenza ed etica. I vescovi prendono la parola contro la polveriera sociale. l 15 luglio scorso, i 16 vescovi del Burkina Faso pubblicano una lettera pastorale sulla situazione del paese. Esplicita sul malgoverno, è una presa di posizione forte. Nel testo, i prelati, espongono la loro preoccupazione per la situazione politico-sociale del paese e per le tensioni e agitazioni che lasciano trasparire un «malessere della società burkinabè». Facendo un’istantanea la lettera descrive una società profondamente cambiata, in cui l’alfabetizzazione e le conoscenze sono raddoppiate (dal 16% al 32%), con un maggiore accesso all’informazione, grazie alle nuove tecnologie e una maggiore presa di coscienza delle donne. Ma la «frattura sociale» sta aumentando, con la base della povertà che si allarga, mentre il potere politico ed economico interessa un gruppo sempre più ristretto. La lettera denuncia la «Crisi di valori» con il denaro diventato valore di riferimento, più importante della famiglia, della nazione, di Dio. I giovani sono sempre più emarginati e rigettano e sfiduciano chi governa. Il malcontento profondo e il sentimento di ingiustizia sfocia in un aumento della violenza. I n questo contesto di grande povertà e bisogno essenziali di base non coperti, quali salute, educazione, lavoro, casa, cibo, che valore aggiunto fornisce il Senato?» si chiedono i vescovi. Secondo l’opposizione, la camera alta costerebbe allo stato tra i 5 e 7,5 milioni di euro all’anno. «Le istituzioni sono legittime se sono socialmente utili», continuano i vescovi. La denuncia al potere assume termini forti: «clanismo, clientelismo, corruzione finanziaria», da sostituire con «democrazia consensuale, consultativa e inclusiva», perché «una democrazia senza valori etici si trasforma facilmente in totalitarismo dichiarato o sornione in dispotismo legale». Il documento porta la proposta della Chiesa: «Affinché il Burkina Faso non diventi una polveriera sociale occorre ricercare la giustizia sociale, operare per una trasformazione sociale e democratica profonda promuovere i valori cardinali di solidarietà e sussidiarietà. Questa deve essere la preoccupazione di chi governa». E le raccomandazioni: «Più equità nella distribuzione della ricchezza, più trasparenza nella gestione degli affari pubblici, più etica nei comportamenti sociali e politici». Marco Bello «I per il dialogo interreligioso, organizzata con gruppi nelle diocesi e nelle parrocchie. Nell’arcidiocesi di Ouagadougou abbiamo una commissione diocesana. In Vaticano c’è un Consiglio pontificio per il dialogo interreligioso. Ogni anno produce una lettera ri- volta ai musulmani, noi la trasmettiamo ai nostri fratelli islamici che la leggono alla preghiera o talvolta durante le feste. In tutte le famiglie c’è una certa tolleranza. I legami di sangue sono più forti dei legami di religione. Inoltre ci sono dei matriDICEMBRE 2013 MC 63 BURKINA FASO moni interetnici e questa è una fortuna per noi e in Burkina Faso non abbiamo problemi. Nella mia famiglia la maggioranza è musulmana, poi ci sono cristiani, e chi segue la religione tradizionale. Ci ritroviamo per gli avvenimenti felici e tristi. A Natale i cristiani offrono da mangiare ai musulmani, e viceversa per le feste islamiche. In questi ultimi anni vediamo crescere un certo integralismo, ma è davvero recente e noi lottiamo per salvaguardare la tolleranza tra differenti comunità religiose ed etnico culturali. Da parte mia tentiamo di avere relazioni fraterne: conoscersi, stimarsi reciprocamente. I musulmani non sono indifferenti a questo. Ogni anno durante la festa islamica della Tabaski vado alla preghiera alla grande piazza della Nazione. Tra Natale e Capodanno il presidente della comunità musulmana, il grande imam e una decina di imam sono venuti qui a salutarmi. Questo ha provocato la reazione di alcuni giovani integralisti, che sono andati ad assediare il grande imam per chiedergli conto della sua visita all’arcivescovo. Chi c’è dietro a questi giovani? Ma capi religiosi hanno scritto una lettera molto chiara nel senso del dialogo interreligioso e noi andiamo nello stesso senso, perché è un’opzione della Chiesa. Gli integralisti hanno mandato a dirmi di non andare più alle feste islamiche. Ma io ci andrò a causa di Gesù. È un po’ come diceva Martin Luther King per l’apartheid: “Voi potete umiliarci e gettarci in prigione, ucciderci, ma non potrete mai impedirci di amarvi”. Questa è la forza del Vangelo: la forza di amarsi. Esiste un documento del Consiglio pontificio, “Dialogo ed evangelizzazione”. Non si tratta di proselitismo, ma non ci dimentichiamo che abbiamo anche noi un messaggio da proporre». Nei paesi confinanti, Mali e Niger, c’è la guerra e il pericolo Al Qaeda. «I contesti sono simili ma diversi. Ad esempio la proporzione di musulmani è molto più elevata in Mali e Niger. In Niger 95%, in Mali 90%. In Burkina le statistiche ufficiali dicono che ci sarebbe il 60% di musulmani, il 19-20% di cattolici, 5% di protestanti e il resto di religioni tradizionali. Ma non sappiamo come hanno fatto queste stime. Quel che è certo è che non si deve dare troppa importanza a questi dati, altrimenti si rischia di scivolare nel confronto etnico-religioso. Anche in Niger e a livello delle famiglie c’è la stessa configurazione di solidarietà di qui anche se l’islam è maggioritario. L’islam sub sahariano è diverso da MC ARTICOLI # Dall’alto in basso: un atelier di sartoria nella capitale. | Artigiano confeziona collane per le preghiere islamiche. | Giovane mamma al lavoro in un campo di riso. quello dell’Africa del Nord, dove nella stessa famiglia non si tollera la conversione, mentre qui si accetta che l’altro sia differente, di un’altra religione». Il Burkina può essere considerato una frontiera per l’integralismo islamico? «Ci rendiamo conto che l’equilibrio è fragile: quello che succede nei paesi vicini potrebbe anche arrivare qui: al Qaeda, Ansar Dine, Boko Haram (vedi MC novembre 2012). Anzi, è possibile che ci siano già. Dobbiamo essere molto vigili e lavorare insieme a livello delle diverse confessioni e delle autorità per promuovere una cultura di tolleranza, a partire dalla scuola e anche dalle prediche. La reazione dei giovani agli auguri degli imam per Natale ha avuto un risvolto positivo, perché ha causato una presa di coscienza nei musulmani, e nelle prediche hanno parlato a favore della tolleranza e contro l’integralismo. Siamo di fronte a delle sfide importanti, non solo a livello di Burkina, ma a livello mondiale. Occorre coordinare gli sforzi di tutti per una cultura di tolleranza, come direbbe papa Giovanni Paolo II: “La civiltà dell’amore”. Se non arriviamo a rispettarci di più, amarci, vivere come fratello e sorella, sarà una catastrofe. E in questo la Chiesa ha un ruolo unico perché ha un messaggio insostituibile per il bene dell’umanità: il Vangelo». In Burkina Faso esiste una frattura sociale tra la città e la campagna? «Non sono scompartimenti stagni. C’è chi vive in città, ma ha la mentalità rurale. Poi i legami famigliari sono tali per cui il cittadino resta in osmosi permanente con i parenti in campagna. Un funzionario non può isolarsi rispetto alla famiglia al villaggio. Nonostante questo, ci sono problemi. Dovremmo fare di più per accompagnare i giovani. C’è analfabetismo, ignoranza, Aids. Tutto questo ha delle conseguenze nefaste per la vita dei giovani. Poi il problema della mancanza di lavoro. Chi è in campagna è più stabile di chi vive in città e non ha nulla da fare. La tentazione è il banditismo. Ci sono delle nuove povertà in città alle quali dobbiamo far fronte. I mendicanti, i bambini di strada. Stiamo cercando di organizzarci per queste situazioni che non troviamo in villaggio, dove c’è più solidarietà famigliare. La Chiesa non è sempre attenta o attrezzata. Ma se non è la Chiesa dei poveri non è la Chiesa di Gesù Cristo. Dobbiamo avere occhi e cuore aperti e attenti a queste situazioni vissute da una grande parte della nostra popolazione. In campagna c’è una grande mancanza di servizi di base, come l’acqua potabile. Ma ci sono famiglie in città che non possono avere il loro pasto ogni giorno e l’acqua nei quartieri periferici non c’è. Occorre vedere caso per caso». I vescovi del Burkina parlano della necessità di una trasformazione profonda della società. Qual è il ruolo della Chiesa? «La scuola è il luogo della trasformazione della mentalità. I media, la televisione: la gente vede immagini da tutto il mondo con le antenne paraboliche. Come Chiesa cerchiamo di es- sere al servizio di una società, con queste grandi sfide. Non abbiamo la pretesa di risolvere tutti i problemi, ma vogliamo essere presenti, un po’ come il buon samaritano che ha pietà del povero ferito al bordo della strada. Ci sono molte donne e uomini feriti al bordo della strada, e cerchiamo di portare quello che possiamo. A livello di scuole primarie, secondarie e università. Abbiamo due università cattoliche (Ouagadougou e Bobo-Dioulasso) e un istituto superiore a Kaya. Nella sanità abbiamo l’ospedale Paul VI che ha difficoltà, ma rende servizio alla popolazione. Nelle parrocchie ci sono i comitati di salute per la visita dei malati. Inoltre esistono molte associazioni parrocchiali per aiutare i meno abbienti. Tutto questo è modesto e insufficiente rispetto all’ampiezza delle sfide». Come vede l’impegno dei cattolici in politica in Burkina Faso? «È complesso. Due anni fa ho fondato la parrocchia dell’università. Ha il compito di seguire le scuole superiori, circa 100 sulle 300 di Ouaga, le scuole professionali e le università. Io credo nella pastorale dei gruppi sociali, ovvero la pastorale tra pari. I medici sono organizzati con i Camilliani, ci sono gli uomini d’affari cattolici, i banchieri, i parlamentari e un’organizzazione parrocchiale che forma l’élite intellettuale alla dottrina sociale. L’idea è di contribuire alla formazione dei decisori della nostra società». Perché parlate di giustizia, riconciliazione, pace? «Il riferimento è al Sinodo per l’Africa del 2009. Queste restano le grandi sfide per tutta l’Africa. Anche per il Burkina Faso: abbiamo bisogno di una società più riconciliata, abbiamo la nostra storia, con la rivoluzione, le ferite profonde, e non è sicuro che esse siano guarite. Se c’è stata una reazione forte dei vescovi rispetto alla creazione del Senato è per salvaguardare la pace sociale: se un’istituzione deve essere creata e far scoppiare l’insieme della società, qual è il bene di questa istituzione? È una priorità?». Marco Bello DICEMBRE 2013 MC 65 ITALIA di GIAMPIETRO CASIRAGHI foto di GIGI ANATALONI LA FEDE OGGI: UNA SFIDA PER LA CHIESA VOGLIA DI TENEREZZA Tra i vari richiami di papa Benedetto XVI in riferimento all’attuale situazione, ricordo quanto disse ai vescovi italiani: «In vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti a una profonda crisi di fede, a una perdita del sens religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità dell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni». F ede non limitata all’aspetto dottrinale, ma fede come vita, preghiera, celebrazione, trasmissione ad altre persone. Chi incontra veramente il Signore sente il bisogno di comunicarlo ad altri. I primi annunciatori sono coloro che hanno avuto gli occhi e il cuore pieni della visione del Cristo Risorto, come i discepoli di Emmaus, che possono considerarsi i cristiani di oggi: dubitano, sono delusi, ascoltano magari distratti, camminano con lui, mangiano insieme, lo riconoscono, ne restano abbagliati e corrono a dirlo agli altri discepoli. Così Matteo, la Sa- maritana, la Maddalena e le donne che corrono al sepolcro. Tutti dicono: «Abbiamo visto il Signore». È così sempre, fino a oggi. Il racconto del cieco Bartimeo indica un cammino di fede: non si accontenta di correre da Gesù per essere risanato dalla sua cecità, ma rimane con lui, cammina sulla sua strada, lo segue, percorre il suo stesso cammino: «Getta via il mantello e balza in piedi» (Mc 10, 46-52). Il problema grave del nostro tempo è che chi è stato avviato alla fede a volte si ferma, rimane a una fede bambina, del tempo MC ARTICOLI # In queste pagine: le foto sono puramente simboliche. In basso a sinistra: la Gran Madre di Torino by night. L’edificio, pur imponente, difficilmente richiama pensieri spirituali o di lode a Maria a chi vi passa vicino in macchina o a chi va in giro a piedi per i negozi della città (qui a sinistra). Fede). Senza gioia non si comunica nulla, non si dona nulla, ma si rifiuta qualsiasi dono, anche il più bello e il più costoso. del catechismo. O, peggio ancora, ritorna indietro, i suoi genitori non l’hanno fatto battezzare, rinviando tutto al solito ritornello che cioè toccherà a lui decidere quando sarà adulto, senza nessuna educazione religiosa (eppure è sempre prevista una educazione civile e umana). Magari sta alla porta della Chiesa, ma non vi entra, come dissero qualche anno fa i nostri vescovi, che sono ben consapevoli di questo fatto. Tuttavia, come scriveva Giovanni Paolo II all’inizio del nuovo millennio, anche le persone «del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai cristiani non solo di parlare a loro di Cristo, ma in certo senso di farlo vedere» (Novo millennio ineunte, 16). Ci è di esempio e ci incoraggia in modo molto umano e sorridente la testimonianza di papa Francesco, la quale è chiaramente fondata sulla riscoperta dei contenuti veri della fede, perché diventi sempre più viva, solida e in crescita, essere «testimoni credibili e gioiosi del Signore risorto, capaci di indicare alle tante persone in ricerca la porta della fede» (Nota Pastorale per l’Anno della IMPEGNO NUOVO È questo, per molti aspetti, un impegno nuovo chiesto ai cristiani di oggi. Perché? Cosa c’è di tanto nuovo nel nostro mondo da costringerci a cercare una nuova via di comunicazione della fede? In che senso è così diverso il mondo di oggi da quello di ieri, di non tanto tempo fa? La prima novità è la cosiddetta globalizzazione. Messaggi di posta elettronica entrano a fiotti ormai nelle nostre case, e il mondo giovanile ne è affascinato. La crisi economica, e soprattutto culturale e religiosa, circola ovunque. Non abbiamo più nessuna identità, se non quella che ci offrono i massmedia, che danno di tutto ma un po’ di tutto, soprattutto una certa mentalità circa la politica, la famiglia, il mondo e le sue pazzie (che ci rendono sempre meno ottimisti e più depressi e ci mandano in tilt). Viviamo in un villaggio globale, dove si parla di tutto nel bene e nel male. Praticamente nessun luogo dista più di un giorno di viaggio. Forse il frutto peculiare della globalizzazione è nel non sapere dove noi e il mondo stiamo andando. In quale direzione vada la nostra storia e la nostra società. Oggi si parla di un «mondo che cambia» (A. Giddens), di «modernità liquida» (Zygmunt Bauman) nel senso che tutto è relativo, che tutto è accettabile; che come l’acqua ci infiliamo dappertutto senza meta fino a impantanarci. Il guru di Tony Blair, Antony Giddens, lo chiama «mondo inafferrabile». La storia sembra ormai al di fuori del nostro controllo. La nostra mente non è più in grado di cogliere tutto, di capire tutto quanto avviene attorno a noi (pensate al telefonino, a Google, a Facebook, a Twitter, a Youtube, e ai milioni e milioni che li usano), come avveniva un tempo non molto lontano nel nostro villaggio, in cui in fondo si condivideva la direzione verso la quale si andava. I socialnetwork rendono davvero globale l’accesso alla cultura, che diventa comunicazione di massa, su vasta scala, che da one to many (da uno a molti) diventa una comunicazione da many to many (da molti a molti). Nel mondo passato i rischi del vivere erano certo molti: epidemie, cattivi raccolti, tempeste, siccità, invasioni di popoli stranieri. Tuttavia erano rischi in gran parte esterni a noi, fuori controllo. Oggi abbiamo inventato nuovi rischi, quelli derivati dalla nostra civiltà: surriscaldamento globale, sovrappopolamento, inquinamento, instabilità dei mercati finanziari (contro cui papa Francesco si è pronunciato come causa della crisi e dell’aumento della forbice della povertà mondiale, invitando il 16 maggio 2013 gli Ambasciatori non residenti presso la Santa Sede a farsi governare non dall’idolatria del denaro, ma dall’etica e dalla solidarietà per non ridurre l’uomo a mero bene di consumo). SAPIENZA E OTTIMISMO Di fronte a questo mondo in fuga, quello che i cristiani possono offrire non è conoscenza, ma sapienza e ottimismo, la sapienza della destinazione ultima dell’umanità, la meta del Regno di Dio per noi indicato da Gesù. Senza meta non si va avanti. E il mondo globalizzato, pur ricco di conoscenza e informazione, è scarso di sapienza, quella dell’ultimo destino e del valore della vita. La sapienza del fine e della fine cui siamo chiamati ci libera dall’ansietà e dalla paura. Il fine è il regno di Dio, Gesù Cristo è stato colui che ce ne ha parlato. Importante in questo frangente mettere al centro Gesù Cristo, il suo messaggio, la sua parola, le sue scelte, più che le istituzioni che ne sono derivate, sempre fallibili, perché umane (Ecclesia semper reformanda est, la Chiesa è sempre da riformare). Nella lettera agli Efesini Paolo DICEMBRE 2013 MC 67 ITALIA parla e invita a «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra» (Ef 1, 910). I cristiani sono un segno del Regno; per esserlo vale non ciò che si fa o si possiede, ma ciò che si è, ciò che sono io per me e per gli altri. Nell’essere non solo per me, ma anche per altre persone, io scopro una nuova identità. Non è facile, richiede fedeltà. DIALOGO E RISPETTO Il mondo che cambia porta con sé anche molti cambiamenti nella vita religiosa, e per conseguenza nel nostro cristianesimo. Per prima cosa è inevitabile il confronto con altre religioni: scontro o dialogo? I cristiani sono invitati a scegliere il dialogo, pensando alla storia religiosa dell’Europa e del mondo intero che ha interpretato e vissuto questo incontro come lotta e guerra di religione, per far prevalere il proprio Dio, che è poi il Dio di tutti. È comunque inevitabile il confronto con una, due, tre e tante altre religioni o pseudo-religioni, presenti nel nostro mondo. Questo spiega # Modi nuovi e antichi di mostrare il volto di Dio: «Colorare il mondo di gioia» con i bambini (qui sopra); Caritas e San Vincenzo (a destra uno dei tanti magazzini) per far fronte alle nuove povertà; e «piazza la missione» a Torino per comunicare fraternità (sopra a sinistra). 68 MC DICEMBRE 2013 i diversi cambiamenti di fede e religione che si verificano anche in Italia e l’innalzamento di templi di religioni diverse da quella che riteniamo la «nostra», come quelli dell’Islam (le moschee). Il relativismo di cui parlava Benedetto XVI contagia ormai non poche coscienze, sempre più spaesate nell’attuale clima d’incertezza morale, economica e culturale. Il rischio è che questo clima porti a ritenere che non ci sia più nulla di valido nella nostra esistenza umana e religiosa, o, all’opposto, a guardare alla dimensione religiosa come a un rifugio con la conseguenza di una vita spirituale intimistica, al limite dell’integralismo. Ci rifugiamo in chiesa di fronte a questo nostro mondo che non capiamo più, che ci travolge e ci spaventa. DOMANDE NUOVE Si aprono domande nuove che nessuno può ignorare, domande esistenziali, che nascono dall’esperienza dell’uomo e che reclamano risposte. Come per esempio quella della evoluzione umana, della sua complessità e del suo rapporto con la creazione biblica. L’uomo, «una scimmia nuda», l’uomo, «una scimmia intelligente». Definizioni come queste lasciano spazio a tutto quanto si vuole nel campo della vita e del suo valore, della biologia e della scienza: vecchiaia, clonazione, eutanasia, donazioni di organi... Nel 2012 in Belgio ci sono stati 1492 casi di eutanasia. La tendenza a livellare l’uomo al piano animale o a elevare la scimmia a quello umano è ricorrente, e secondo alcuni troverebbe supporto nella teoria dell’evoluzione. Certo, la religiosità e la spiritualità dell’uomo non sono misurabili con metodi empirici o scientifici. Inoltre la cultura assume una grande importanza nel rapporto dell’uomo con l’ambiente. Mediante la cultura l’uomo è in grado di modificarlo, di trasformarlo per renderlo adatto alle sue necessità, ma anche per distruggerlo. Non mancano scienziati che ritengono il pensiero un puro prodotto dell’attività cerebrale. Un pensiero e la coscienza si possono misurare e come? Anche il rito viene ritenuto il lato debole della fede. Per questo il rito, la messa domenicale, può essere tranquillamente tralasciato come un involucro ingombrante. Non si riconosce più nel rito un momento incisivo della propria fede. Svincolato dal fondamento della fede, il rito è al massimo un fattore ornamentale e non offre i veri contenuti della fede, come è per esempio la celebrazione della messa domenicale. La celebrazione domenicale e l’esperienza viva della fede ci permettono di iniziare a credere e vivere e crescere in una dimensione autentica di fede insieme a tutti i credenti. Non si è muti ed estranei spettatori, ma la liturgia chiede sempre una partecipazione attiva. La liturgia attualizza qui, oggi per noi, il mistero di Cristo fatto uomo. In essa Dio parla da uomo, parla la lingua dell’uomo, e a sua volta l’uomo parla a Dio nella sua lingua insieme a tutta la comunità cristiana. STEREOTIPI Scattano così le accuse contro la Chiesa: inquisizione, nemica della scienza, maschilista, vuole solo la sofferenza, i protestanti sono più moderni, è contro il sesso. Sono questi alcuni stereotipi molto diffusi. Ad essi si devono aggiungere numerosi libri polemici contro il Vaticano: I segreti del Vaticano di Corrado Augias (Mondadori), o, l’ultimo, Vaticano massone di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Finotti (Piemme). Ma è anche uscito ultimamente un libro dal titolo La grande meretrice a cura di Lucetta Scaraffìa, che chiarisce dal punto di vista storico alcuni di questi stereotipi (edito dalla Libreria Editrice Vaticana). Sono tanto diffusi e indiscussi, questi stereotipi, che chi li legge non tenta neppure un minimo controllo: «Sanno tutti che è così» e basta, senza discussione. QUALE RISPOSTA? Come inserirsi da cristiani in questo mondo che cambia? Limitarsi ad aggiungere il volto di Cristo alla folla di volti che bombardano il nostro mondo, la nostra televisione e la nostra stampa, non è sufficiente. Potrebbe magari essere cosa buona, ma certo non sufficiente, se la Walt Disney trasformasse in cartoni animati i Vangeli. Molte chiese fanno pubblicità all’esterno dei loro edifici, con cartelli che recano espressioni evangeliche, in concorrenza con gli annunci pubblicitari. Può essere cosa ammirevole, ma imbarazzante vedere la propria fede messa all’asta. La sfida è come possiamo comunicare la fede ai non credenti, a coloro che dubitano o sono scandalizzati da quanto accade nella Chiesa: pedofilia (perfino di un cardinale), la banca vaticana, lo sfarzo dei cardinali, la mediocrità di certi parroci, la predicazione che fa pena, il modo poco umano e poco cristiano di trattare chi è separato e risposato, e così via. Come però possiamo comunicare loro la bellezza della nostra fede? Come possiamo mostrare loro il volto di Dio, quello vero, quello dei Vangeli, quello di Gesù? LA BELLEZZA DEL VOLTO DI DIO Intanto, invece di maledire il buio è meglio accendere una candela. Il Vangelo colloca la bellezza del volto di Dio nell’amore e non al- trove (per esempio nelle tante devozioni spesso devianti). Il Medioevo è passato, ora la gente è più istruita e crede nella scienza e nella medicina più che nei miti del passato. Specialmente i giovani sono permeati da questo nuovo orientamento, ma come scriveva già Marco Fabio Quintiliano (35-95 d.C.): «I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere». Ma non basta! Che cosa vuol dire la dimostrazione dell’amore di Dio per noi e tutta l’umanità? Dio si svela sulla croce come amore totale e unico, in un uomo morente e abbandonato! È una idea tanto scandalosa al punto da essere già messa in evidenza da Paolo con particolare vigore: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 23-24; Gal 5, 11). L’assoluta bellezza irresistibile di Dio splende nella sua povertà, nel suo abbassamento, nel suo essere servo per noi, nella lavanda dei piedi (ricordiamo papa Francesco nella Pasqua 2013). Dicono che a inventare il presepe sia stato Francesco d’Assisi, segno di Dio che per amore abbraccia la nostra povertà. Questa è la sfida nel villaggio globale, che è il nostro mondo: mostrare la bellezza di Dio povero e impotente. DICEMBRE 2013 MC 69 ITALIA SEGNI DI RISURREZIONE Come mostrarla? Attraverso i nostri atti di trasformazione interiore, di cambiamento del cuore, come intendeva fare Gesù: cambiare il cuore dell’uomo in profondità. Lo dice ancora Paolo nella lettera ai Galati: «Siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri». Li aiuta in questo lo Spirito del Signore. «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge» (Gal 5, 13-23). In tal modo il cristiano raggiunge la vera libertà e di conseguenza la totale liberazione dal dominio della legge e del proprio egoismo. Sono questi i segni della Risurrezione che irrompe in noi e nel mondo globalizzato con gesti di liberazione e trasformazione. Ildegarda di Bingen (1098-1179), # Voglia di tenerezza. In questo presepio preparato in una casa per anziani nella città di Brescia, non ci sono pastori, ma sono gli stessi anziani (riconoscibilissimi) che vanno incontro al Bambino Gesù. 70 MC DICEMBRE 2013 una mistica tedesca del secolo XII, proclamata da Benedetto XVI Dottore della Chiesa (7 ottobre 2012), preferiva parlare non di croce ma di Risurrezione del Signore, come scoperta, come primavera, come nuova nascita, luce, risveglio, liberazione, come amore, speranza, riconciliazione, dono, fede (vedi pag. 79). VOGLIA DI TENEREZZA Infine, il nostro cristianesimo è sovente accusato o almeno sospettato d’indottrinamento e di arroganza. In ogni caso la nostra società è profondamente scettica verso ogni certezza di verità. Succede anzi che la verità oggi è quello che ci fanno apparire sullo schermo. L’enciclica Fides et ratio del 1998 di Giovanni Paolo II afferma che «Si può definire l’essere umano… come colui che cerca la verità» (n. 28). L’oggetto della nostra verità, ossia della nostra fede, non sono le nostre parole o le nostre verità, ma è amare e conoscere Dio, o come diceva Galileo: la scienza insegna come vada il cielo non come si vada in cielo. Noi non possediamo la verità, né la padroneggiamo. Di fronte alla scienza, alla ricerca, ma anche di fronte alla fede e alle affermazioni di altre religioni, dobbiamo mantenere una profonda umiltà. Proclamiamo un mistero, il mistero di Dio fatto uomo e non è facile spiegarlo nella sua realtà. Ognuno di noi non possiede tutta la verità; anch’io ho bisogno della verità degli altri. Sono un mendicante della verità, come tutti gli uomini di questo mondo. Dobbiamo perciò stare attenti al nostro facile chiacchiericcio sul Vangelo e sulla fede. Solo così possiamo distruggere le false immagini di Dio che potremmo essere tentati di adorare, e liberarci dalle trappole dell’ideologia e dell’arroganza circa la verità e la nostra fede, altrimenti anche noi rischiamo di cadere nel fondamentalismo religioso. È la testimonianza dell’amore vissuto che conquista i cuori e la mente. Tu non credi; non preoccuparti, è Dio che crede in te. Non importa quante cose fai, ma quanto amore metti in ogni cosa che fai. «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili» (Rosario Levantino). Predicazione, catechesi, liturgie vengono dopo. Lo sottolinea papa Francesco: «Non siamo funzionari. Abbiamo tutti bisogno di tenerezza». Voglia di tenerezza è il titolo di un film del 1983 di T. L. Brooks. Giampietro Casiraghi Libertà Religiosa di Paolo Bertezzolo RIFLESSIONI E FATTI SULLA LIBERTÀ RELIGIOSA NEL MONDO - 15 LO YOM KIPPUR ALLA CORTE DI STRASBURGO L a Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha il compito di decidere se nei paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea viene violata la libertà religiosa, oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il pluralismo religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i principi costitutivi dell’Europa. La Cedu è sorta nel 1959 sulla base della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Chiunque ritenga che tali diritti non siano stati rispettati, si può appellare a essa. Per i casi riguardanti la libertà religiosa l’articolo della Convenzione europea a cui fare riferimento è il numero 9 sulla libertà di pensiero, di coscienza, © matthewandrews.co.uk Un avvocato napoletano di religione ebraica vede rifiutata la sua richiesta di rinvio di un’udienza per partecipare alla festa del Yom Kippur. E ricorre alla Corte di Strasburgo (Cedu) per il mancato rispetto del suo diritto di culto. Un caso emblematico della difficile ricerca di equilibrio tra diritti in conflitto. E del ruolo fondamentale che la Corte svolge nella costruzione di una comune coscienza civile in Europa, anche sul tema della libertà di religione. Prendendo in esame le sentenze della Cedu, possiamo comprendere se in Europa esiste un problema di libertà religiosa e di pensiero e, quindi, di laicità dello stato. di religione e di manifestare la propria fede o le proprie convinzioni. COSTRUIRE UNA COMUNE COSCIENZA CIVILE EUROPEA A livello europeo le sentenze della Cedu sono molto importanti, al di là di quanto affermano le singole Costituzioni nazionali (le quali, essendo tutte democratiche, riconoscono esse stesse in linea di principio le medesime libertà). Se infatti, all’interno di un singolo paese europeo i diritti e le libertà fondamentali venissero, per qualsiasi motivo, violati, la Cedu può riconoscerlo grazie al suo ruolo di giudice di ultima istanza. È per questo che la Corte svolge il fondamentale compito di contribuire alla costruzione in Eu- Libertà Religiosa ropa di una comune coscienza civile, quindi anche riguardo alla libertà di religione. TRA YOM KIPPUR E LAVORO Analizzando le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ci troviamo di fronte a casi emblematici che mostrano, spesso, quanto sia difficile trovare l’equilibrio giusto tra diversi diritti: ad esempio il diritto di culto di un avvocato e il diritto di altre persone alla durata ragionevole di un processo. È il caso della sentenza emessa dalla Corte il 3 aprile 2012 che vedeva l’avvocato napoletano di religione ebraica Francesco Sessa in contrapposizione al governo italiano per la presunta violazione del suo diritto di culto. Il 7 giugno 2005 l’avvocato Sessa si presenta al giudice delle indagini preliminari (Gip) di Forlì in rappresentanza di uno dei due querelanti in una causa penale contro diverse banche. Il Gip titolare non può presenziare all’udienza, e il suo sostituto, per fissare l’udienza successiva, propone due possibili date: il 13 o il 18 ottobre. Entrambe, tuttavia coincidono con feste ebraiche: rispettivamente lo Yom Kippur e il Succot. L’avvocato di Napoli lo fà presente. Osservante, membro della comunità ebraica della sua città, non potrà partecipare all’udienza di rinvio. E chiede che venga indicata una data diversa, appellandosi alla legge 72 MC DICEMBRE 2013 © matthewandrews.co.uk © matthewandrews.co.uk © matthewandrews.co.uk del 1989 che regola i rapporti tra lo stato italiano e l’Unione delle comunità ebraiche. Ma il giudice non tiene conto della richiesta, e fissa l’udienza per il 13 ottobre. Anche il Gip titolare della causa, cui l’avvocato napoletano si rivolge immediatamente, respinge la sua richiesta di rinviare la nuova udienza. L’interessato, allora, sporge querela contro entrambi i giudici. DIRITTI O «RAGIONI PERSONALI»? Arriva frattanto l’udienza del 13 ottobre e l’avvocato non si presenta. Il Gip lo dichiara assente per «ragioni personali» e, raccolto il parere delle parti, rigetta la sua richiesta di rinvio perché non aveva motivi legittimi per ottenerlo. L’avvocato napoletano fa ricorso contro tale decisione. La causa, attraversati tutti i gradi di giudizio, termina il 15 febbraio del 2008, quando il Gip di Ancona, cui era alla fine pervenuta, l’annulla sostenendo che nessun elemento dimostrava una violazione del diritto dell’avvocato di esercitare liberamente il culto ebraico o un attentato alla sua dignità in ragione della sua fede religiosa. CEDU: ULTIMA ISTANZA Sessa decide quindi di fare ricorso alla Cedu. Appellandosi all’art. 9 della Convenzione per i diritti dell’uomo, sostiene che © fsa.adventist.fi MC RUBRICHE # Pagine 71 e 72: immagini della sinagoga di Napoli. # Qui a sinistra: un’assemblea della Chiesa Avventista del settimo giorno in Finlandia. # Sotto: il logo della Chiesa Avventista del settimo giorno. # Pagina seguente: la Sultanahmet camii, la Moschea Blu di Istambul. l’aver fissato l’udienza nel giorno di una festa ebraica gli ha impedito di partecipare all’udienza attentando al suo diritto di manifestare liberamente la propria religione. La legge del 1989, secondo lui, l’autorizzava ad assentarsi dal lavoro in occasione di feste ebraiche, per poter esercitare il proprio culto. Il governo italiano, contro cui l’appello alla Cedu è rivolto, naturalmente è di parere contrario. E sostiene che il diritto invocato dall’avvocato di Napoli non riveste carattere assoluto. Infatti la stessa legge che regola i rapporti dello stato con l’Unione delle comunità ebraiche prevede espressamente che le esigenze legate a servizi essenziali dello stato prevalgano sul diritto dell’individuo a esercitare liberamente il proprio culto. E l’amministrazione della giustizia costituisce certamente un servizio essenziale. Inoltre l’avvocato avrebbe potuto farsi sostituire per quella particolare giornata da un collega, e non l’ha fatto. Egli dunque ha rinunciato a conciliare gli obblighi religiosi legati al suo culto con le esigenze della buona amministrazione della giustizia. RIBADIRE IL DIRITTO ALLA LIBERTÀ RELIGIOSA... Questa causa riveste un interesse particolare per il tema della libertà religiosa nel nostro continente, perché la Corte europea dei diritti umani deve confrontare il caso specifico dell’avvocato napoletano con i principi fondamentali espressi nell’articolo 9 della Convenzione: la libertà religiosa riguarda prima di tutto il «foro interiore» delle persone, ma implica egualmente il diritto di manifestare la propria religione sia in modo collettivo, in pubblico e assieme a chi condivide la stessa fede, sia individualmente e in privato. La Corte sottolinea quindi che la libertà religiosa non è una questione solo «interiore», soggettiva e individuale. Essa non è un fatto «privato», come un certo «laicismo» di carattere «radicale» pretende. Ha invece anche dimensione e rilievo pubblici. E solo tutelando entrambe queste dimensioni si può parlare di libertà religiosa. La Corte, da un lato, sostiene, in base a queste valutazioni, che l’avvocato di Napoli aveva tutto il diritto di partecipare alle feste della sua religione. ...PUNTUALIZZANDONE I LIMITI Dall’altro lato, la stessa Corte afferma che tale diritto non è assoluto. L’articolo 9, infatti non protegge qualsiasi atto ispirato a una religione. E per chiarirlo ricorda altri due casi emblematici, su cui si era espressa in precedenza. Il primo riguardava un agente di servizio pubblico, Tuomo Konttinen, Finlandese, licenziato perché non aveva rispettato i suoi orari di lavoro per la ragione che la Chiesa avventista del settimo giorno, a cui egli apparteneva, vieta ai suoi fedeli di lavorare il venerdì dopo il tramonto del sole. Il secondo si riferiva a un militare turco di nome Kalac collocato d’ufficio in pensione per motivi disciplinari, perché manifestava idee integraliste. In questi casi la Corte DICEMBRE 2013 MC 73 Libertà Religiosa aveva ritenuto che non valesse l’art. 9 perché le misure prese non erano motivate dalle idee religiose degli interessati ma dagli obblighi contrattuali specifici che li legavano ai loro datori di lavoro. Anche nel caso dell’avvocato napoletano secondo la Corte non si è verificata alcuna restrizione del suo diritto di esercitare liberamente il suo culto. Infatti l’interessato aveva potuto svolgere i propri doveri religiosi. Egli avrebbe dovuto invece soddisfare comunque i suoi doveri professionali facendosi sostituire nell’udienza da un collega. © wikimedia.org 4 A 3: LA DELICATEZZA DELL’EQUILIBRIO La sostanza della sentenza della Corte va quindi contro Francesco Sessa: non è stato un caso di violazione del suo diritto di religione. All’interno della Corte la decisione non è stata facile da prendere. Dei sette membri che la costituivano, tre hanno sostenuto che si era verificata comunque una ingerenza nei diritti dell’interessato. In una società democratica la possibilità di ingerenza è am- 74 MC DICEMBRE 2013 messa dalla legge quando si tratta di proteggere i diritti e le libertà altrui. In questo caso il diritto dell’avvocato napoletano era in conflitto con il diritto delle persone coinvolte nel processo al quale Sessa avrebbe dovuto prender parte a godere di una buona amministrazione della giustizia e a vedere rispettato il principio della durata ragionevole del processo. Secondo i tre membri della corte che davano «ragione» all’avvocato, tuttavia, l’ingerenza non aveva risposto al criterio della proporzionalità, secondo cui tra i vari mezzi che permettono di raggiungere lo scopo legittimo perseguito, le autorità devono scegliere quello che lede meno i diritti e le libertà. Si doveva infatti scegliere una soluzione che permettesse di conciliare sia i diritti di libertà religiosa dell’avvocato di Napoli sia quello di buona amministrazione della giustizia delle parti in causa, ad esempio organizzando in modo diverso il calendario delle udienze. In quel caso, i disagi e i problemi provocati da tale scelta avrebbero rappresentato un modico prezzo da pagare per il rispetto della libertà di religione in una società multicultu- rale. In più, secondo loro, non esisteva alcun motivo di urgenza, dato che non erano previste misure che privassero qualcuno della libertà. Per questo, tre giudici su sette erano del parere che fosse stata violata la libertà religiosa di Francesco Sessa. Fatto sta che alla fine, nonostante i tre pareri a favore dell’avvocato di fede ebraica, la sentenza della Corte gli ha invece dato torto. Si può non essere d’accordo. Occorre tuttavia sottolineare l’importanza dei principi affermati dalla Corte nella sua sentenza. Il fatto stesso che essa abbia deciso a stretta maggioranza, dimostra quanto delicata sia la questione del rispetto del diritto alla libertà religiosa, sia nella sfera privata sia in quella collettiva e pubblica. Esso non è, come detto, un diritto assoluto, e la sua limitazione possibile esclusivamente per tutelare i diritti altrui - va considerata con grande attenzione e prudenza. La libertà religiosa, come quella di pensiero e di coscienza, è uno dei cardini fondamentali su cui si basa una società autenticamente laica e pluralista. Paolo Bertezzolo Cooperando... www.missioniconsolataonlus.it MCO Fondazione Missioni Consolata Onlus di Chiara Giovetti UNO SVILUPPO A TUTTO BIOGAS L e fonti di energia rinnovabili hanno oggi un peso che era impensabile solo pochi anni fa, se è vero che nelle recenti elezioni tedesche, che hanno confermato Angela Merkel alla guida del paese, sono state uno dei temi caldi. Quel tipo di fonti è responsabile di ben un quinto della produzione energetica della Germania. L’ambizioso piano tedesco per abbandonare i combustibili fossili entro il 2050 si sta rivelando più costoso del previsto per i cittadini, che si sono trovati un aumento di circa il venti per cento sulla quota della bolletta che va a sostenere gli incentivi alle rinnovabili (da 5,3 a 6,5 centesimi di euro per chilowattora). Fra queste fonti rinnovabili ci sono le biomasse che la Direttiva Europea 2009/28/CE definisce come «la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani». Sottoponendo una biomassa a un processo di digestione o fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) è possibile produrre biogas, composto per circa il settanta per cento da metano, che può essere usato per la combustione (cioè ad esempio per far funzionare un fornello) oppure, attraverso un ulteriore passaggio in un cogeneratore, trasformato in energia elettrica. Il digestato, cioè il sottoprodotto della digestione, può essere utilizzato come http //www.ashden.org/media/international_photos/2010_finalists Produrre energia pulita con prodotti, rifiuti e residui biodegradabili locali, liberandosi progressivamente della dipendenza dai combustibili fossili come il petrolio e dai conflitti a essi legati, e diminuendo i costi per i cittadini e le aziende. Non si tratta di uno slogan che descrive il sogno a occhi aperti di un manipolo di visionari, ma di una realtà che va prendendo forma nella vita di milioni di persone, e che getta tutto il suo peso sulla bilancia dei temi che decidono le consultazioni elettorali. Cooperando… # Pagina precedente: si mescola © The Seed 2006 acqua e letame nell’impianto a biogas del villaggio di Ngecha, nel Kimbu, Kenya. | Qui a destra: studenti della Kasisi Primary School in Uganda, mettono acqua del digestore dell’impianto a biogas della scuola. | In basso: ragazzi della Familia ya Ufariji al lavoro nel grande orto del centro per ragazzi di strada. può arrivare a coprire fino al dieci per cento del consumo lordo di energia (scenario di “crescita accelerata”) o circa il 5% (scenario di “crescita moderata”) al 2020». Il Consorzio italiano biogas stima in un miliardo e mezzo di euro il risparmio che deriverebbe dal non dover comprare gas dall’estero e ricorda che l’industria italiana del biogas dà attualmente lavoro a circa dodicimila addetti. Sulla carta, quindi, quella delle biomasse è un’opportunità da non perdere per ridurre la dipendenza italiana dal gas importato, pari a circa settanta miliardi di metri cubi l’anno. La realizzazione pratica, tuttavia, non si sta svolgendo senza intoppi. Da un lato, infatti, ci sono casi di successo come quello di Bertiolo, in provincia di Udine, dove il biogas è stato ribattezzato il «petrolio verde». L’impianto della Greenway, società che riunisce dieci aziende agricole locali, produce oltre ottomila megawattora di elettricità in dodici mesi e ha creato un giro d’affari di circa un milione di euro all’anno. La filiera corta, cioè basata su operatori che agiscono in un territorio circoscritto e in contatto diretto fra loro, è indicata dai produttori come una condizione imprescindibile per il successo dell’iniziativa: i produttori, infatti, ricavano da circa trecento ettari di coltivazioni locali tutta la materia prima https //greenheatug.wordpress.com/2012/ fertilizzante. Oltre al metano, il processo di digestione produce anidride carbonica (CO2); questo, tuttavia, non ha effetti sul riscaldamento globale poiché quella quantità di anidride carbonica sarebbe stata prodotta comunque dalla biomassa nel suo naturale decomporsi. Secondo il rapporto 2012 della Iea, l’agenzia internazionale per l’energia fondata dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), i biocombustibili, fra cui il biogas, rappresentano a livello mondiale circa il dieci per cento della produzione totale di energia. In Italia, secondo il rapporto 2013 dell’Osservatorio Agroenergia, a fine 2012 erano 850 gli impianti di biogas in funzione, per un fatturato complessivo di due miliardi e mezzo di euro e un potenziale di produzione pari a 5,6 miliardi di metri cubi l’anno. L’Osservatorio ha calcolato che «il biometano MC RUBRICHE necessaria per far funzionare l’impianto, senza spese aggiuntive per trasporti delle materie prime e creando un indotto importante per i piccoli paesi della zona. Ma accanto a casi virtuosi come quello friulano, ce ne sono altri nei quali la situazione non è così rosea: a Ponte Guerro, in provincia di Modena, i cittadini hanno ingaggiato una lunga battaglia con Hera, il gestore dell’impianto di biogas, esasperati dai miasmi prodotti dalla centrale locale; il Centro Documentazione Conflitti Ambientali, nell’ambito della campagna Green Lies (Bugie Verdi) che indaga i lati oscuri della green economy ha poi raccolto in un documentario le testimonianze dei cittadini di Bondeno (Ferrara) e Mezzolara (Bologna) dai quali emerge che l’alimenta- P zione degli impianti a biogas previsti dal piano energetico regionale richiederebbero seicentomila ettari di mais coltivati localmente e il conseguente sconvolgimento dell’uso tradizionale dei terreni agricoli del ferrarese e del bolognese. Il documentario segnala inoltre «mancanza totale di coinvolgimento e corretta informazione dei cittadini (...); piani di sviluppo lontani dalle necessità e dall’esigenza dei territori e dei cittadini che lo abitano; sistemi di incentivi sregolati che non permettono lo sviluppo graduale e sostenibile di nuove economie locali a medio e lungo termine; assenza di reali e efficienti misure di valutazione dei progetti, di controllo degli impianti e del trattamento dei residui pericolosi e di future misure di bonifiche; mancanza di cono- scenza e curiosità tecnica da parte dei decisori che avallano progetti inadatti». Infine va considerato lo stravolgimento dei prezzi di mercato nei casi di siccità (come è successo nel 2012) e, quindi, di scarsa produzione, perché il bisogno di biomasse assorbe anche il prodotto vergine destinato all’alimentazione animale e umana. In assenza di una regolamentazione chiara e univoca e guardando al biogas nella sola ottica del business, insomma, il rischio è quello di trasformare una possibile occasione di crescita economica in un’attività che danneggia il territorio. L’Energy & Strategy Group del Politecnico di Milano, proprio partendo dall’analisi di questi rischi, ha raccomandato di tornare al principio del chilometro zero: piccoli impianti so- ROGETTO LA FIAMMA DEL NATALE Quest’anno, la campagna di Natale di Missioni Consolata Onlus si concentra su un tema apparentemente poco natalizio: il biogas. Questa volta abbiamo dato un’interpretazione diversa del «regalare la vita» (lo slogan delle nostre passate campagne): «preservare la vita che ci dà la Terra». Su un pianeta che si sta suicidando, utilizzando indiscriminatamente le risorse naturali a vantaggio di pochi, l’attenzione per i temi dell’ambiente non può essere un lusso radical chic da occidentali ma un problema di tutti, ovunque. Un cittadino del Sud del mondo ha diritto come chiunque altro a vivere in un ambiente pulito, salubre, in un territorio non devastato da disastri ambientali provocati dalla deforestazione e dall’inquinamento. L’energia, che permette di cucinare, di pulire, di illuminare deve poter essere a disposizione di tutti. Ecco perché quest’anno abbiamo scelto di sostenere il progetto biogas di Familia ya Ufariji, a Kahawa West, un quartiere della periferia di Nairobi. Familia ya Ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai Missionari della Consolata. Oggi ospita sessanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Da anni, Familia ha avviato una serie di attività agricole che hanno il doppio risultato di permettere alla struttura di contribuire al proprio mantenimento e ai ragazzi ospitati di collaborare alle attività, apprendendo tecniche agricole che permetteranno loro di avere una competenza professionale da utilizzare per il proprio sostentamento. Nella piccola fattoria di Familia ci sono attualmente sei vacche e tre vitelli che possono fornire letame per far funzionare un impianto per la produzione di biogas. Il gas prodotto sarà utilizzato per integrare ed eventualmente sostituire la legna, il gas Gpl e gli scarti del mais attualmente utilizzati per il fuoco della cucina. Un digestore di ventiquattro metri cubi sarà sufficiente per fornire il gas a un fornello. Padre Lorenzo Cometto e fratel Kenneth Wekesa si occuperanno della realizzazione del progetto, coadiuvati da tecnici locali specializzati per garantire che il piccolo impianto sia costruito e messo in funzione nel rispetto delle norme di sicurezza. Il costo del progetto è di 8.156 euro. Anche una piccola donazione può servirci per acquistare le cisterne, il cemento, i tubi e tutto il materiale necessario alla realizzazione del digestore e alla sua messa in funzione. (Chi. Gi.) Maggiori informazioni sui dettagli del progetto sono disponibili sul sito di Missioni Consolata Onlus: www.missioniconsolataonlus.it DICEMBRE 2013 MC 77 Cooperando… stenibili alimentati da scarti agricoli e forestali locali e non da biomasse vergini, cioè da prodotti coltivati ex-novo con lo scopo di essere utilizzati per la produzione di biogas. Il biogas nel Sud del mondo Il biogas sta rivelandosi una novità dai risvolti potenzialmente decisivi anche per le economie del Sud del mondo. Si moltiplicano, anno dopo anno, i progetti sostenuti dalle istituzioni internazionali e dalle Ong con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda di energia dei paesi in via di sviluppo, e diversi rapporti illustrano i vantaggi di cui beneficia chi si è lanciato nella nuova avventura del biogas. La Thomas Reuters Foundation riporta il # Il gruppo dei ragazzi della Familia © The Seed 2006 ya Ufariji con p. Lorenzo Cometto e una suora di S. Anna in una foto del 2006. Alcuni di questi ragazzi (i più grandi) hanno già trovato un lavoro, altri frequentano l’università, mentre ogni anno vengono accolti nuovi bimbi piccoli, al punto da sentire l’esigenza di aprire un asilo all’interno del centro stesso. caso di Parshottambhai Shanabhai Patel, un contadino dello Stato di Gujarat, nell’India nordoccidentale, che dal 2009 produce biogas grazie al quale fa funzionare il suo impianto di irrigazione. Con duecento chili al giorno di letame delle sue vacche riesce a produrre energia per otto – dieci ore e non deve più affrontare il costo, pari a quattrocento euro l’anno, per il gasolio che alimentava la pompa. Inoltre, soddisfatti i bisogni della propria fattoria, Patel può vendere l’energia in avanzo agli altri coltivatori per sessanta rupie (circa un dollaro) all’ora. Il Christian Science Monitor illustra poi l’esempio della scuola di Gachoire, nel Kenya centrale, dove le acque reflue delle latrine usate dagli oltre ottocento ragazzi della scuola vengono convogliate nel digestore e convertite in gas per i fornelli della cucina. E ancora, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), gli scarti di un mattatoio a Dagoretti e la raccolta dei rifiuti a Kibera (due slums di Nairobi) permettono di soddisfare, rispettivamente, il fabbisogno energetico per il funzionamento del mattatoio e il fornello comunitario. I benefici per l’ambiente derivano ovviamente anche dal fatto che i rifiuti animali del macello non finiscono più nel vicino fiume (che era stato ribattezzato «il fiume di sangue») e che la raccolta di rifiuti ha migliorato la salubrità del quartiere. Energypedia, l’enciclopedia dell’energia avviata fra gli altri dall’agenzia di cooperazione internazionale tedesca (Giz – Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit), riporta che il consumo energetico kenyano viene soddisfatto per oltre due terzi dalla legna da ardere e dalla carbonella; la richiesta di legna sarebbe pari a trentacinque milioni di tonnellate annue e rimane inevasa per oltre la metà. Con questi numeri, è evidente che il rischio di deforestazione per il paese è altissimo e il biogas può davvero rappresentare una svolta verso una soluzione che impedisca la devastazione del patrimonio forestale del paese. Mediamente, nei paesi in via di sviluppo, gli impianti sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni e vanno a sopperire alla richiesta energetica di singole famiglie o comunità. Il rischio, nel Sud del mondo come nel Nord, è quello delle speculazioni da parte di grandi produttori industriali o società finanziarie. Chiara Giovetti 4 chiacchiere con... a cura di Mario Bandera 17. SANT’ILDEGARDA DI BINGEN Ildegarda nasce nell’estate del 1089 a Bermersheim, presso Alzey, nell’Assia-Renana in Germania, ultima di dieci fratelli. Fin da bambina ha delle visioni che l’accompagneranno per tutta la vita. A otto anni i suoi genitori, Ildeberto e Matilda di Vendersheim, l’affidano al monastero di Disibodenberg, dove viene educata da Jutta di Sponheim. A quindici anni emette la professione monastica e si avvia con entusiasmo allo studio di opere patristiche e teologiche. Alla morte di suor Jutta, intorno al 1136, Ildegarda le succede come magistra. Di salute malferma, ma vigorosa nello spirito, si impegna a fondo per il rinnovamento della vita religiosa del suo tempo e mantiene un intenso scambio epistolare con personaggi di rilievo. Scrive inoltre trattati di filosofia e teologia, di medicina, scienza e persino cosmologia; trova il tempo di comporre anche brani musicali. Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda si spegne in fama di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembredello stesso anno. A essere sincero sono molto emozionato nell’entrare in dialogo con una donna consacrata come te, una monaca contemplativa, che durante la sua vita incise non poco nelle vicende ecclesiali del suo tempo, in particolare nella sua terra, la Germania. Mi faccio forza quindi, e ti chiedo di parlarci un po’ della tua vita. Fin dalla mia infanzia sono stata prescelta da Dio, che mi ha fatto dono di un fenomeno molto particolare, ossia delle visioni celestiali che, data la mia giovane età. Inizialmente non riuscivo a capire, ma in seguito pian piano imparai a riconoscerle come doni del Signore affinché io mi dedicassi e consacrassi totalmente a Lui. I tuoi genitori come vivevano questo fatto? Ne erano spaventati oppure tentavano di nascondere quello che tu stavi vivendo per non suscitare troppo clamore attorno a te? di quel tempo. Fui presa sotto la sua ala protettrice e grazie a lei ebbi un’istruzione di prim’ordine, imparando ad accostarmi ai testi teologici e della nascente teologia scolastica medioevale, che, data la presenza di personaggi di spicco miei contemporanei come san Bernardo e sant’Anselmo d’Aosta e influenze come quelle della scuola di Chartres, cominciavano a circolare e a essere conosciuti nei circoli accademici, nonché ovviamente in ambito religioso. Ti piaceva studiare, addentrarti nei meandri della Patristica e della teologia? Molto, in questa passione mi buttai a capofitto leggendo quasi tutti i testi dei santi Padri in circolazione e i libri dell’enciclopedismo medioevale. Avevo una particolare preferenza per san Dionigi l’Areopagita e il grande padre della Chiesa, sant’Agostino di Ippona. Certo erano anche loro meravigliati di quello che mi succedeva, perciò all’età di otto anni mi affidarono al monastero di Disibodenberg. Non appaia questo, a voi moderni, un gesto coercitivo. Ai miei tempi infatti era abbastanza normale che sin da bambini si entrasse a far parte della comunità di un monastero. Del resto, anche altre Sante entrarono in monastero in età piuttosto giovane, per non dire adolescenziale. Appartenente a una famiglia nobile e affidata a una comunità monastica, fu abbastanza facile per te ricevere un’istruzione di prim’ordine e nel contempo essere educata secondo le regole di San Benedetto. In convento ebbi la fortuna di avere come Madre Maestra (Mater Magistra come si diceva allora), Jutta di Sponheim, una nobile tedesca che si era consacrata al Signore, dotata di un’intelligenza fuori dal comune e molto addentro alle questioni teologiche, filosofiche DICEMBRE 2013 MC 79 4 chiacchiere con... Con l’istruzione che hai avuto quindi non ti deve essere costato molto scrivere anche ciò che sperimentavi durante le tue visioni. Di certe cose ero piuttosto restia a parlare. Ma dopo i quarant’anni capii che i doni che il Signore mi faceva dovevo condividerli con gli altri. Incominciai a scrivere con particolare intensità tutto ciò che avveniva in me. Io non le definivo visioni del cuore o della mente, ma, essendo visioni che prendevano tutto il mio essere, fisico, psichico e spirituale, preferivo chiamarle: «Visioni dell’anima». Immagino che avendo tu acquisito una certa notorietà per la santità di vita e per i trattati che hai scritto e che cominciavano a circolare, molta gente ricorresse a te per avere dei consigli o preziosi aiuti spirituali. Sì. Ma oltre a queste cose, cominciavano anche a chiamarmi a predicare nei villaggi e nelle città. Del resto tutta la comunità civile e religiosa sentiva il bisogno di una riforma morale del clero, dei monaci e del popolo. In questo senso compii diversi viaggi pastorali e predicai nelle cattedrali di Colonia, di Treviri, di Liegi, di Magonza, di Metz e di altre città. Beh, per l’immagine che abbiamo noi del Medioevo: quella di un’epoca triste e buia, sapere di una donna - sia pure monaca - che predicava alla gente e al clero nelle cattedrali delle città tedesche provoca un certo effetto. Qualcuno pensa che questo mio modo di fare sia l’antesignano del femminismo come lo conoscete voi. In realtà il ruolo della donna nella Chiesa è sempre stato un ruolo importante, anche se ha compiti diversi da quelli degli uomini. Inoltre, all’interno dei nostri monasteri e dei nostri conventi, si provvedeva a eleggere democraticamente i superiori, una cosa che neanche la società civile medioevale riusciva a concepire. Questo per dire come bisogna smontare gli stereotipi che, da un certo momento in poi, hanno fatto da padroni nella storia della Chiesa. Prova a sintetizzare la specificità della tua predicazione e delle tue riflessioni teologiche che avevano tanto successo e che ti ponevano ben al di sopra di tanti eruditi del tempo? Cercavo di manifestare la straordinaria armonia che esiste tra la Parola di Dio, la dottrina cristiana che ne consegue e la vita quotidiana. Per capire sempre meglio e sempre di più qual era il disegno che il Signore aveva su di me, approfondivo le radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della Regola di san Benedetto, dando così origine e consistenza a una riflessione che incideva sia nella prassi del popolo cristiano, che nella vita dei consacrati. In questo modo, la pratica dell’obbedienza alla regola di vita del nostro grande fondatore, san Benedetto da Norcia, faceva sì che la semplicità dell’esistenza, l’ospitalità e la carità verso gli altri, fossero vissute come una totale imitazione di Cristo. Proprio attraverso questa testimonianza si riesce a lasciare traccia del mistero di Dio che agisce nella nostra vita. Immagino che la considerazione culturale che ti eri conquistata e la tua fama di santità abbiano richiamato discepoli - o meglio, discepole - che volevano vivere la vita comunitaria accanto a una persona così straordinaria, benedetta dal Signore con grazie particolari. Quella fu una stagione meravigliosa, le sorelle cominciarono ad arrivare e a un certo punto diventammo 80 MC DICEMBRE 2013 così numerose che intorno al 1150 fondammo un monastero sul colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove mi trasferii insieme a diverse consorelle. Nel 1165, ne istituii un altro a Eibingen, sulla riva opposta del Reno. In entrambi i monasteri fui nominata badessa, ma la mia preoccupazione principale fu quella di curare sempre il bene spirituale e materiale delle consorelle, che sentivo ormai figlie mie, favorendo in modo particolare l’armonia della vita comunitaria, l’istruzione delle persone e una pratica liturgica sempre accurata. Nei nostri monasteri davamo rilievo all’ospitalità: accogliere cioè chi ricercava un luogo per riposare, pregare, istruirsi e stare un po’ di tempo insieme al Signore. Durante la tua vita sei entrata in contatto con personaggi illustri del tuo tempo, ce ne vuoi parlare? Ebbi uno scambio di lettere con l’imperatore Federico Barbarossa, con il conte Filippo d’Alsazia, con san Bernardo di Chiaravalle e con il Papa Eugenio III. L’imperatore Federico Barbarossa si pavoneggiava un po’ dicendo che lui era il mio protettore, ma quando si schierò contro il Papa Alessandro III, nominando ben due antipapi, io e Bernardo da Chiaravalle gli scrivemmo una lettera di fuoco per aiutarlo a riconsiderare la cosa. Devo dire che Federico accettò il nostro richiamo e non intraprese nessuna iniziativa punitiva nei nostri confronti. Se non vado errato, ti sei occupata oltre che di teologia, di politica, ecc., anche di scienza e di medicina. Beh, con le conoscenze del tempo, più che di scienza e di medicina, badavo al rapporto che l’uomo, con le sue emozioni e con la sua razionalità, può avere con la natura, perché questa è una preziosa alleata quando si tratta di guarire dalle malattie. C’è un’energia vitale tra la creatura e il creato che sfugge a un’esperienza empirica, ma che è profondamente vera e autentica in una dimensione spirituale. Il rapporto, infatti, tra la persona e l’universo, è un rapporto fondamentale che Dio stesso ha voluto. Bisogna aver cura quindi di ciò che ci circonda. Il nostro pianeta, se trattato bene, saprà ridare il centuplo all’uomo che ha nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare. Cara sant’Ildegarda, pur essendo tu una figura di spicco del XII secolo, sei più moderna di tanti nostri contemporanei. Il Signore, nella sua divina sapienza e benevolenza, fa in modo che le persone considerate punti di riferimento per la loro vita cristallina non siano soltanto ammirate da chi vive durante la loro epoca, ma siano esempio per ogni tempo. Sant’Ildegarda di Bingen morì il 17 settembre 1179. Fu proclamata Santa a furor di popolo quasi subito. Papa Giovanni Paolo II nella ricorrenza dell’ottocentesimo anniversario della sua morte, la definì «la profetessa della Germania», una donna «che non esitò ad uscire dal convento per incontrare, intrepida interlocutrice, vescovi, autorità civili, e lo stesso imperatore Federico Barbarossa». Alla santità del genio di Ildegarda, Papa Wojtyla fa cenno nell’Enciclica sulla dignità femminile, Mulieris Dignitatem. Nel maggio del 2012, Benedetto XVI l’ha proclamata Dottore della Chiesa. Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara INDICE 2013 I NUMERI INDICANO LE PAGINE AI LETTORI GLI EDITORIALI DELLA RIVISTA A CURA DEL DIRETTORE Costruttori di pace...............GEN.FEB. 03 Beneficenza e carità ...................MAR. 03 L’Attesa........................................APR. 03 Forte tenerezza ..........................MAG. 03 Cultura di morte...........................GIU. 03 Di viaggi e incontri... e anche di cresima e cani .....................LUG. 03 Globalizzazione dell’«I care» .....................AGO.SET. 03 Sulle strade dell’uomo ................OTT. 03 Piangere e «spogliarsi» ..............NOV. 03 Grazie ...........................................DIC. 03 I NOSTRI D OSSIER APPROFONDIMENTI DI TEMATICHE RILEVANTI Rivoluzioni arabe: e dopo la primavera arrivò l’inverno Angela Lano . . . . . . . . . . . . .GEN.FEB. 35 Missione di carta: l’Editrice Missionaria Italiana compie 40 anni Marco Bello . . . . . . . . . . . . . . . . .MAR. 35 Piccola ma vivace, la Chiesa cattolica in Mongolia compie 20 anni Benedetto Bellesi . . . . . . . . . . . . .APR. 35 Orti solidali, viaggio nel fenomeno dell’«agricoltura sociale» Stefania Garini . . . . . . . . . . . . . . .MAG. 35 Spezziamo le catene Benedetto Bellesi . . . . . . . . . . . . .GIU. 35 Decresco, quindi sono Gabriella Mancini . . . . . . . . . . . . .LUG. 35 L’ayatollah e il presidente Angela Lano . . . . . . . . . . . . .AGO.SET. 35 Il Vangelo e l’indifferenza Antonio Rovelli . . . . . . . . . . . . . . .OTT. 35 L’eredità di Fukushima Piergiorgio Pescali . . . . . . . . . . . .NOV. 35 Giustizia riparativa Annalisa Zamburlini, Carolina Bedoya Maya e Luca Lorusso . . . . . . . . . .DIC. 33 A FRICA Spezziamo le catene ....................GIU. 35 40 anni: ma è solo l’inizio ............NOV. 25 Mamma Fatuma ..........................NOV. 29 Uno sviluppo a tutto biogas ..........DIC. 75 AFRICA DEL NORD Perpetua e Felicita .....................MAG. 79 ANGOLA Il gigante lusofono ......................LUG. 17 BENIN Un sorriso per la vita............AGO.SET. 64 BURKINA FASO Pastori: non mollate il gregge .....DIC. 60 BURUNDI La verità sono io...........................GIU. 15 CONGO RD Acqua per la salute ....................MAR. 77 ETIOPIA Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica.......AGO.SET. 72 KENYA Mukululu: ricominciare, sempre ............................GEN.FEB. 29 Fede dietro le sbarre...................APR. 62 Spiritualità e pragmatismo .........APR. 68 La missione sui Monti dei Sogni .MAG. 20 MOZAMBICO Missionari di «frontiera» ............NOV. 19 REPUBBLICA CENTROAFRICANA Il cuore (malato) del continente...OTT. 26 SOMALIA Il vento cambia a Mogadiscio.....................AGO.SET. 16 Segni concreti di speranza ...AGO.SET. 18 Indistruttibile .......................AGO.SET. 22 SUDAN Che le tue mani aiutino il volo .....APR. 26 ZAMBIA Il lago che dà vita .........................DIC. 17 ZIMBABWE Il paese baciato da Dio ................NOV. 58 A SIA Celle senza finestre....................MAG. 67 Quando l’islamofobia è buddhista..............................LUG. 68 Per «tutelare Dio» .......................OTT. 55 COREA DEL NORD Le bizze dei Kim non finiscono mai ....................LUG. 56 COREA DEL SUD Una storia affascinante! 25 anni di presenza per gli IMC....GEN.FEB. 17 «Venerando Dio in te... Buongiorno!» ..........................APR. 22 FILIPPINE Una chiesa del laicato .................LUG. 62 GIAPPONE L’eredità di Fukushima ................NOV. 35 IRAN L’ayatollah e il presidente ....AGO.SET. 35 LAOS Acqua e foreste: la dote di Vientiane .................MAR. 20 MONGOLIA Piccola ma vivace. La Chiesa cattolica in Mongolia compie 20 anni.....APR. 35 Segni di risurrezione...................LUG. 23 MYANMAR Cambiamento è anche progresso? ................MAG. 14 SRI LANKA La guerra è finita! O no?.......AGO.SET. 10 TIBET «Costruite il secolo del dialogo» .GIU. 51 A MERICA L ATINA America, il continente aperto .....APR. 71 Bartolomé De Las Casas.............APR. 79 ARGENTINA Noi stiamo con gli Indios ......AGO.SET. 26 BOLIVIA L’altra faccia della luna ..............MAG. 51 La speranza abita sugli altipiani ..GIU. 08 BRASILE Luci e ombre del Brasile «nero» APR. 57 Sotto il cielo di Corumbá .............LUG. 10 La torta di Pedro ..................AGO.SET. 51 Il Bianco che si fece Yanomami....OTT. 21 Non giochiamo al «cattivo selvaggio» ..................OTT. 59 Dove i contadini sono poeti...........DIC. 21 COLOMBIA Il lungo viaggio verso Remolino: (prima parte) ..........................MAG. 27 Processo di pace: facciamo il punto ....................MAG. 75 Remolino: l’utopia resiste (seconda parte) ........................GIU. 25 San Pedro Claver .........................GIU. 30 GUATEMALA Guatemala: non è arrivata, la fine del mondo.............GEN.FEB. 51 HAITI La perla perduta..................GEN.FEB. 24 HONDURAS Donne alla riscossa ...................MAR. 10 PERÙ Carlo e Gery, cuore Asháninka..............GEN.FEB. 10 Piccole schiave ..........................MAR. 51 Purus: senza uscita .....................OTT. 51 Serve anche la pipì ......................NOV. 51 San Martin de Porres ..................NOV. 79 Lasciamoli in pace........................DIC. 25 Jampi Wasi, la casa della salute ..DIC. 53 URUGUAY Oltre le sbarre don Pierluigi Murgioni ............MAR. 62 VENEZUELA I Warao: gente da canoa..............APR. 10 «Lo hanno tradito un milione di volte»..................GIU. 20 DICEMBRE 2013 MC 81 Indice 2013 A MICO E UROPA Strage di innocenti: violenza contro donne e minori ............MAR. 64 Europa, libertà sotto stress........MAR. 67 Cirillo e Metodio ..................AGO.SET. 80 Il Vangelo e l’indifferenza.............OTT. 35 Europa, libertà contro laicità.......NOV. 68 Giustizia riparativa .......................DIC. 33 Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo............DIC. 71 BIELORUSSIA Emozioni e sfide ..........................LUG. 51 FINLANDIA Senza nazione né confini.............APR. 51 GERMANIA Sant’Idelgarda di Bingen..............DIC. 79 ITALIA Il mondo cattolico e la cooperazione ...............GEN.FEB. 55 Francesca Saverio Cabrini ..GEN.FEB. 63 Missione di carta: l’EMI compie 40 anni...............MAR. 35 Disarmare il dolore col sorriso: il Mago Sales ..........................MAR. 57 Nella rete col Vangelo ................MAG. 62 Frutta, verdura e solidarietà ......MAG. 67 Orti solidali, viaggio nel fenomeno dell’«agricoltura sociale».......MAG. 35 Il medico che realizzava i sogni...LUG. 26 Le Olimpiadi dei rifugiati......AGO.SET. 58 L’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto .........................AGO.SET. 68 Bellesi: un uomo fatto Parola ......OTT. 09 Santa Bakitha...............................OTT. 63 Voglia di tenerezza .......................DIC. 66 MACEDONIA Scene da un matrimonio ............MAR. 26 OLANDA Santa Edith Stein.........................LUG. 80 SVIZZERA San Francesco di Sales...............MAR. 75 VATICANO Francesco: dalla fine del mondo MAG. 08 M EDIO O RIENTE Rivoluzioni arabe: e dopo la primavera arrivò l’inverno ................GEN.FEB. 35 EGITTO Prima e dopo la primavera araba GIU. 56 ISRAELE Uomo nero, torna a casa tua .......APR. 17 PALESTINA Il paese che non c’è. Lezioni di resistenza pacifica ..............MAR. 15 SIRIA ’Isa e Mohammed (nella Siria in guerra)...............OTT. 16 Sulla pelle dei Siriani ...................DIC. 10 O CEANIA AUSTRALIA «Torna da dove sei venuto».........NOV. 12 82 MC DICEMBRE 2013 L’INSERTO QUADRIMESTRALE DEDICATO AI GIOVANI A CURA DI LUCA LORUSSO AMICO.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT Amico N. 01 .........................GEN.FEB. 67 Amico N. 02 ..................................GIU. 65 Amico N. 03 .................................OTT. 65 C OOPERANDO LA RUBRICA SULLA COOPERAZIONE A CURA DI CHIARA GIOVETTI DI MCO, FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS Il mondo cattolico e la cooperazione ............GEN.FEB. 55 Acqua per la salute ....................MAR. 77 Cooperazione per l’acqua ...........APR. 75 Processo di pace: facciamo il punto ....................MAG. 75 Carità? Per carità!........................GIU. 61 Micro è bello (e fa bene) ..............LUG. 72 Cent’anni di Etiopia ..............AGO.SET. 72 Non giochiamo al «cattivo selvaggio» ..................OTT. 59 Uno sviluppo a tutto biogas ..........DIC. 75 C OSÌ STA SCRITTO LA RUBRICA BIBLICA A CURA DI PAOLO FARINELLA Dal miracolo al segno (Cana 38 ).........................GEN.FEB. 32 RENDETE A CESARE 1. quel che è di Cesare ..............MAR. 32 2. Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? ............................APR. 32 3. Dalla signoria di Dio alla sudditanza di Cesare .......MAG. 32 4. La speranza della chiesa non sta nei privilegi ................GIU. 32 5. «Chiesa peregrinante verso la Gerusalemme celeste» ......LUG. 32 6. La politica del cristiano ...AGO.SET. 32 7. La politica di Dio (che è laico)...OTT. 33 8. Il cristiano mescola in sé il profumo di Dio e l’odore del mondo .......NOV. 32 NATALE, ANCORA NATALE Ma quale Natale? .........................DIC. 30 E TICAMENTE PERSONA, ECONOMIA E FINANZA A CURA DI SABINA SINISCALCHI Armi: commercio trasparente?....GIU. 81 L IBERTÀ RELIGIOSA RIFLESSIONI E FATTI SU LA LIBERTÀ RELIGIOSA NEL MONDO A CURA DI LUCA LORUSSO Europa, libertà sotto stress........MAR. 67 America, il continente aperto .....APR. 71 Celle senza finestre....................MAG. 67 Egitto: prima e dopo la primavera araba...................GIU. 56 Quando l’islamofobia è buddhista..............................LUG. 68 L’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto .........................AGO.SET. 68 Per «tutelare Dio» .......................OTT. 55 Europa, libertà contro laicità.......NOV. 68 Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo............................DIC. 71 N OSTRA M ADRE T ERRA LA RUBRICA DELL’AMBIENTE E DELL’UOMO DELLA DOTT.SSA ROSANNA NOVARA TOPINO Usate la testa! (Malattie sessuali - 2)......GEN.FEB. 59 Malattie di tipo virale (Malattie sessuali – 3).............MAR. 71 Gratta e perdi (Gioco d’azzardo - 1) ...............MAG. 71 Faccia da poker (Gioco d’azzardo - 2)................LUG. 76 Latte materno (Allattamento 1) ...............AGO.SET. 76 Nulla si salva (Allattamento 2).......................NOV. 64 Q UATTRO C HIACCHIERE CON DIALOGHI CON TESTIMONI DI EVANGELIZZAZIONE DI DON MARIO BANDERA Francesca Saverio Cabrini ..GEN.FEB. 63 Francesco di Sales......................MAR. 75 Bartolomé De Las Casas.............APR. 79 Perpetua e Felicita .....................MAG. 79 Pedro Claver ................................GIU. 30 Edith Stein...................................LUG. 80 Cirillo e Metodio ..................AGO.SET. 80 Santa Bakitha...............................OTT. 63 Martin de Porres .........................NOV. 79 Idelgarda di Bingen ......................DIC. 79 M ISSIONARI IMC ALCUNI MISSIONARI DELLA CONSOLATA DI CUI SI È SCRITTO NELLA RIVISTA Aldo p. Giuliani ............................MAG.20 Benedetto p. Bellesi.....................OTT. 09 Bruno p. Del Piero ......................MAG. 27 Carlo fratel Zacquini ....................OTT. 21 Celio p. Regoli .............................NOV. 05 Domenico fratel Bugatti..............APR. 05 Eugenio p. Ferrari .......................APR. 62 Franco p. Gioda ...........................NOV. 19 Gianfranco p. Testa.....................MAR. 15 Giovanni mons. Crippa ................APR. 57 Giuseppe fratel Argese .......GEN.FEB. 29 Giuseppe p. Auletta ..............AGO.SET. 26 Giuseppe p. Richetti ....................APR. 68 Lello p. Massawe .......................MAR. 80 Marini p. Antonio ........................MAG. 27 Paolo p. Angheben ......................LUG. 05 Witold p. Malej, IMC ....................LUG. 51 T EMI PARTICOLARI SEGNALIAMO SOLO ALCUNI TEMI. PER UNA RICERCA PIÙ APPROFONDITA: «CERCA» SU WWW.RIVISTAMISSIONICONSOLATA.IT ACQUA Mukululu: ricominciare, sempre ............................GEN.FEB. 29 Acqua per la salute ....................MAR. 77 Cooperazione per l’acqua ...........APR. 75 MC INDICE 2013 AMBIENTE Sotto il cielo di Corumbá .............LUG. 10 L’eredità di Fukushima ................NOV. 35 Nulla si salva (Allattamento - 2)..NOV. 64 AMBIENTE, AMAZZONIA Carlo e Gery, cuore Asháninka..............GEN.FEB. 10 urus: senza uscita .....................OTT. 51 asciamoli in pace........................DIC. 25 ARMAMENTI Armi: commercio trasparente?....GIU. 81 CARCERI Fede dietro le sbarre...................APR. 62 Giustizia riparativa .......................DIC. 33 CHIESA Una storia affascinante! 25 anni per gli IMC ..........GEN.FEB. 17 Piccola ma vivace, la C. cattolica in Mongolia compie 20 anni.....APR. 35 Francesco: dalla fine del mondo MAG. 08 Segni di risurrezione...................LUG. 23 Una chiesa del laicato .................LUG. 62 OOPERAZIONE mondo cattolico e la cooperazione ...............GEN.FEB. 55 Carità? Per carità!........................GIU. 61 Micro è bello (e fa bene) ..............LUG. 72 Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica,......AGO.SET. 72 40 anni: ma è solo l’inizio ............NOV. 25 Uno sviluppo a tutto biogas ..........DIC. 75 DONNE (E VIOLENZA) Donne alla riscossa ...................MAR. 10 Strage di innocenti. Violenza contro donne e minori ............MAR. 64 Mamma Fatuma ..........................NOV. 29 INDIOS Cuore Asháninka .................GEN.FEB. 10 I Warao: gente da canoa..............APR. 10 La speranza abita sugli altipiani ..GIU. 08 Bianco che si fece Yanomami....OTT. 21 oi stiamo con gli Indios ......AGO.SET. 26 on giochiamo al «cattivo selvaggio» ..................OTT. 59 Purus: senza uscita .....................OTT. 51 Cari missionari.............................DIC. 05 Lasciamoli in pace........................DIC. 25 ISLAM, DIALOGO, CRISTIANI, GUERRA Segni concreti di speranza ...AGO.SET. 18 ’Isa e Mohammed (nella Siria in guerra)...............OTT. 16 Sulla pelle dei Siriani ...................DIC. 10 ISLAM, FONDAMENTALISMO, PRIMAVERE ARABE Rivoluzioni arabe: e dopo la primavera arrivò l’inverno ................GEN.FEB. 35 Il vento cambia a Mogadiscio.....................AGO.SET. 16 A: il cuore (malato) del continente ..........................OTT. 26 gitto: prima e dopo la primavera araba...................GIU. 56 ISLAM, SCIITI L’ayatollah e il presidente ....AGO.SET. 35 LAPPONIA Senza nazione né confini.............APR. 51 MISSIONARIE DELLA CONSOLATA 100 anni donati di cuore ..............NOV. 72 MEDIA (E MISSIONE - E LIBERTÀ) Missione di carta: l’EMI compie 40 anni...............MAR. 35 Nella rete col Vangelo ................MAG. 62 La verità sono io...........................GIU. 15 MEDICINA, MEDICI Che le tue mani aiutino il volo .....APR. 26 Il medico che realizzava i sogni...LUG. 26 MEDICINA, SALUTE Usate la testa! (Malattie sessuali - 2)......GEN.FEB. 59 Malattie di tipo virale (Malattie sessuali – 3).............MAR. 71 Acqua per la salute ....................MAR. 77 Un sorriso per la vita............AGO.SET. 64 Serve anche la pipì ......................NOV. 51 Jampi Wasi, la casa della salute . DIC. 53 MIGRANTI Scene da un matrimonio. Dalla Macedonia .....................MAR. 26 Uomo nero, torna a casa tua .......APR. 17 Frutta, verdura e solidarietà ......MAG. 67 Le Olimpiadi dei rifugiati......AGO.SET. 58 Cari missionari ............................OTT. 05 Piangere e «spogliarsi» ..............NOV. 03 «Torna da dove sei venuto».........NOV. 12 Cari missionari.............................DIC. 05 NUOVA EVANGELIZZAZIONE Il Vangelo e l’indifferenza.............OTT. 35 Missionari di «frontiera» ............NOV. 19 Voglia di tenerezza .......................DIC. 66 PACE, RICONCILIAZIONE, DIALOGO Costruttori di pace...............GEN.FEB. 03 «Costruite il secolo del dialogo» .GIU. 51 Il Paese che non c’è....................MAR. 15 Processo di pace.........................MAG. 75 La guerra è finita! O no?.......AGO.SET. 10 RELIGIONI (E DIALOGO) Maya: non è arrivata, la fine del mondo.............GEN.FEB. 51 Soo-Woon-Kyo ............................APR. 22 SCHIAVITÙ (LAVORO MINORILE) Piccole schiave ..........................MAR. 51 Spezziamo le catene ....................GIU. 35 STILI DI VITA Orti solidali.................................MAG. 35 Decresco, quindi sono .................LUG. 35 TESTIMONI Carlo dott. Urbani........................LUG. 26 Dalai Lama ...................................GIU. 51 Gery e don Carlo Iadicicco ...GEN.FEB. 10 Gianni Vaccaro..............................DIC. 53 Giuseppe dott. Meo .....................APR. 26 Goretta sr. Favero Miotto.............NOV. 51 Mago Sales (Silvio don Mantelli) MAR. 57 Messias p. De Sousa ............AGO.SET. 51 Nino Maurel.................................NOV. 05 Paolo p. Dall’Oglio........................OTT. 16 Pasquale p. Fiorin .......................LUG. 10 Pierluigi don Murgioni................MAR. 62 Rolando Rivi (beato) .....................GIU. 05 VESCOVI / PAPA Mons. Giorgio Bertin ............AGO.SET. 18 Mons. Julio M. E. Montoya ..........MAG. 51 Mons. Mtianos Haddad.................DIC. 10 Mons. Dieudonné Nzapalainga.....OTT. 30 Mons. Philippe Ouedraogo ...........DIC. 60 Papa Francesco ..........................MAG. 08 DICEMBRE 2013 MC 83 P st tal ane S p A. Spe in abb. postale "Regime C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO