Leggi la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi

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Leggi la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi
Appello alla profondità contro la superficialità
Il ritratto da cui si parte è sconcertante e sconfortante ed è abbozzato nella bellissima prefazione,
una pagina che sembra scritta per oggi: è necessario ritrovare il centro che renda unitaria la
persona. Siamo nella prospettiva del personalismo, come appare anche dalla ricca iridescenza di
citazioni che le pagine di don Gnocchi rivelano. Si manifesta, così, un vasto impegno di studio, di
vaglio, di ascolto che non teme di inoltrarsi su sentieri ancora poco esplorati dalla pastorale di
allora e persino dalla teologia. Si intrecciano, in tal modo, le più diverse letture: tanto per fare
qualche esempio, si va da sant’Agostino o Pascal ai Demoni di Dostoevskij, da Montaigne alla
novella Una giornata di Pirandello; La Pira si incrocia con Gide, Hegel con Freud e così via, in un
tessuto di rimandi sorprendenti per chi ha di don Carlo un’immagine solo “operativa”, legata al
carisma assoluto della carità.
Questo appello alla profondità contro la superficialità, al pensiero contro l’ovvietà diventa capitale
se si vuole delineare il progetto che può salvare l’uomo contemporaneo dalle sabbie mobili della
crisi. È appunto la «restaurazione della persona umana» che è molto di più del semplice recupero
dell’individualismo. In questa operazione, don Carlo è sostenuto da una figura intellettuale la cui
presenza brilla in molte pagine, al di là delle stesse citazioni dirette. È attingendo al pensatore
francese Jacques Maritain che don Gnocchi può delineare la struttura del suo concetto di persona,
aperta e dialogica rispetto alla monade dell’individuo, propugnata da altre ideologie.
Si ha, così, un «nuovo umanesimo cristocentrico» di impronta maritainiana da opporre
all’escatologia secolarizzata marxista: qui si sente battere il cuore del Beato, proteso verso una
religione che abbia nell’Incarnazione il suo motore, un’Incarnazione che non è mai «pienamente
attuata dalla civiltà», perché essa comporta «l’assunzione di tutti i valori umani – tranne il peccato
– anzi di tutta la realtà terrestre». Sulla scia di questa verità acquista valore l’appassionata difesa
della libertà come scelta personale per vivere la carità, il cui primato è assoluto non solo per
edificare la persona umana, ma anche una società degna e giusta. Su questa strada si comprende il
rilievo alto che il sacerdote lombardo assegna al sacrificio, dono di sé, che ha nel sacrificio di Cristo
l’archetipo, il modello e il costante referente.
I cinque lineamenti del vero volto dell’uomo
Incarnazione, carità, sacrificio: questa trilogia ci permette di introdurre il profilo della persona che
don Gnocchi disegna, pagina dopo pagina. Ricorrendo all’antropologia tradizionale, ma
colorandola e assegnandole un “incarnato” assunto dalla sua esperienza vissuta e dalla ricerca
culturale contemporanea, egli approfondisce i cinque lineamenti fondamentali del vero volto della
figura umana.
C’è innanzitutto la componente intellettiva che ha nella ricerca della verità il suo compito primario,
attraverso un itinerario più da pellegrini che da possessori, «deflazionando e calmando la
fantasia», evitando il riduttivismo della tecnica e dell’azione, impedendo di impantanarsi
nell’«acquitrino intellettuale» fine a se stesso. L’intuizione, che fa parte della strumentazione del
conoscere, apre l’intelligenza a una conoscenza ulteriore che si salda con la razionalità pur
valicandola: è qui che si attesta la fede.
Ma c’è nella persona anche la volontà che si esprime nella libertà e nel carattere. È questa la
componente dinamica nella quale don Gnocchi versa tutta la sua passione esaltando la persona
libera: l’uomo captivus, prigioniero di un abuso di autorità o di un’autocondanna al vizio, diventa
“cattivo” in senso etico. È qui che si celebra il contrappunto tra grazia e libertà, tra sacrificio ed
egoismo, tra scelta gioiosa e “cattività” sotto l’imperio delle cose, degli istinti, delle abitudini, dei
piaceri, dell’ambiente.
A questo punto la persona rivela una terza dimensione che è la più percepibile nell’immediatezza;
eppure essa è epifania dell’interiorità, e quindi dell’intelligenza e della volontà. È la componente
materiale, il corpo. L’apostolo dei mutilatini non ha esitazioni: «Nell’uomo – quante volte
dobbiamo dirlo? – non esiste dicotomia, non c’è il corpo da una parte e l’anima dall’altra; c’è la
vita umana, che è un tutto organico, dove ogni separazione è una vivisezione a danno del tutto e
della integrità dei componenti. C’è un corpo animato e un’anima incarnata. Non si va
normalmente all’anima senza passare, in qualche modo, attraverso il corpo, non si purifica lo
spirito se non purificando la materia che con lui si è insozzata, non si santifica l’anima, se non
santificando il corpo. E viceversa. Perché si tocca, si purifica, si santifica l’uomo». Questa
interazione ci invita a «fare del corpo un buon collaboratore dello spirito», ma ci fa anche
comprendere quanti rischi siano in agguato attraverso le degenerazioni della costituzione
individuale e di quella ereditaria.
Ed è interessante osservare come don Gnocchi riversi all’interno delle sue considerazioni su
questo tema tanto delicato i primi contributi della psicanalisi e della psicologia che vengono accolti
anche nel mondo cattolico: si leggano i paragrafi riservati ai meccanismi evolutivi, al piacere,
oppure alle classificazioni del temperamento (bilioso, nervoso, sanguigno, linfatico) e al loro
rimescolamento nella complessità dell’unità psico-fisica della persona.
Essa, visibile e percepibile attraverso la sua corporeità, entra nell’orizzonte del mondo e stabilisce
una rete di relazioni. È questo il quarto tratto del volto umano, la componente sociale del suo
esistere. Essendo «essenzialmente corale», la persona ha in sé due energie antitetiche: «la forza
centripeta che forma l’individualità e la forza centrifuga che la costringe a uscire da sé per colmare
la propria fondamentale insufficienza». L’interazione tra questi due dinamismi crea la pienezza
dell’uomo che ha una sua identità e soggettività, ma che ha bisogno di amare e quindi di porsi in
dialogo con l’altro. Ecco, allora, la sessualità che è la prima spinta a uscire da sé, l’amore che è
donazione di sé, la fecondità vista come opera “teandrica” perché continua l’azione del Creatore,
la famiglia, l’amicizia, la società, la politica, il legame con la materia attraverso il lavoro, l’unità del
genere umano, la proprietà privata e il bene comune. Una riflessione che conduce don Gnocchi a
prospettare persino un «personalismo internazionale […] in cui ciascuno trovi e mantenga il posto
assegnatogli dalla natura e, godendo della sua libertà e dignità personale, entri a far parte della
grande famiglia umana, per il raggiungimento del bene comune».
Seminatore di speranza, simbolo di moralità e verità
L’aspetto teologico di questa dimensione “sociale” è celebrato attraverso un’appassionata
rievocazione del dramma interiore del poeta francese Charles Péguy, espresso nel suo poema Il
mistero della carità di Giovanna d’Arco (1910): «Bisogna andare insieme verso il buon Dio. Bisogna
presentarsi insieme. Non si può arrivare al buon Dio gli uni senza gli altri. Bisognerà tornare tutti
insieme alla casa del padre. Che ci direbbe se noi arrivassimo, se noi ritornassimo gli uni senza gli
altri?». Ma per approdare a questo esito finale che è poi la “comunione dei santi”, c’è un elemento
che non si può travalicare. La libertà della persona è così seriamente presa in carico dallo stesso
Creatore che egli non blocca la mano dell’assassino né arresta l’atto del peccatore. È qui che entra
in scena il quinto e ultimo tratto della fisionomia umana dipinta da questo libro, la componente
morale, ossia la coscienza.
Siamo tutti sulla frontiera tra bene e male, solitari sotto l’albero della conoscenza del bene e del
male, siamo collocati costantemente nel crocevia ove si dipartono le strade opposte del vizio e
della virtù, siamo sul crinale dal quale si distende il versante in penombra del vizio e quello
luminoso della virtù, oscilliamo tra la regione del lecito e quella attraente dell’illecito, ci
immergiamo nel mare della verità, ma ci aggrappiamo all’isola della falsità perché
apparentemente più ombreggiata. È, questa, la storia intima e profonda di ogni biografia.
Tuttavia, la solitudine della libertà non è assoluta perché, certo, c’è la spinta satanica verso
l’abisso, ma c’è anche la mano salda di Dio che ci trattiene con la sua grazia, se noi l’afferriamo; c’è
la guida del maestro e del fratello e c’è il giudizio interiore della coscienza individuale.
Con questa ultima lezione don Carlo saluta il lettore, il quale, leggendo le sue pagine, scopre alla
fine in filigrana il volto stesso di questo giusto intelligente e generoso, mosso da ferma volontà,
attento ai corpi dolenti dell’umanità sofferente, sempre pronto ad effondere amore nel mondo,
divenendo un simbolo di moralità e verità.
È per questo che dal 25 ottobre 2009 egli è “Beato”, perché – come affermava Giovanni Paolo II –
è stato un «seminatore di speranza», incarnazione viva e cristallina delle beatitudini evangeliche.
monsignor Gianfranco Ravasi