conformismo e devianza

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LEZIONE:
“CONFORMISMO E DEVIANZA”
PROF.SSA SIMONA IANNACCONE
Conformismo e devianza
Indice
1 Il Conformismo ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3 2 Il Concetto Di Devianza ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5 3 Devianza E Criminalità ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 7 4 Le Teorie Sulla Devianza------------------------------------------------------------------------------------------------------ 9 5 Le Malattie Mentali ----------------------------------------------------------------------------------------------------------- 14 Riferimenti Bibliografici ------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 16 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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1 Il conformismo
La società possiede ordine in senso lato, poiché generalmente i suoi membri si attengono in
maniera sufficiente alle norme di comportamento dettate dalle istituzioni, e queste ultime tendono a
formare un qualcosa di interdipendente e duraturo. Già nei livelli più elementari di interazione
sociale sono presenti regole, norme, leggi implicite o esplicite che regolano il comportamento degli
individui. La società umana non potrebbe infatti sussistere se non esistessero dei canoni di
comportamento che disciplinano l’azione dei soggetti. La sopravvivenza di una società, dunque,
richiede che siano messe in atto strategie che consentano l’assimilazione delle norme proprie di quel
contesto sociale e garantiscano l’adeguamento a esse da parte dei suoi membri.
Di fronte alla miriade di norme che regolano la nostra vita sociale, la maggior parte delle
persone tende a conformarsi, ad adattare cioè il proprio comportamento a quanto richiesto
dall’interazione comunitaria. Questo adattamento alla norma avviene per lo più in modo “naturale”,
in particolare grazie ai processi di socializzazione, mediante i quali l’individuo assimila e
interiorizza le norme del contesto sociale. In tal modo, le regole non vengono percepite come
qualcosa di imposto, ma come comportamenti normali. Attraverso la socializzazione, infatti, i
bambini diventano in buona parte adulti il cui comportamento segue “naturalmente” le regole della
società, senza che questa debba continuamente esercitare una pressione esterna.
Benché estremamente rilevante, tuttavia la socializzazione non è mai un processo perfetto. Ciò
significa che all’interno di una pluralità di individui esisteranno sempre alcuni soggetti su cui il
processo di razionalizzazione non è risultato efficace e che pertanto tenderanno a trasgredire le
norme comuni.
La conformità, dal punto di vista sociologico, costituisce più un fattore sociale di comportamento
che un’attitudine psicologica. La conformità è semplicemente un comportamento che obbedisce o
rientra nella norma sociale; può rispondere a tali attitudini psicologiche, o può avere altre cause,
come la costrizione o l’aspettativa di una ricompensa; in ogni caso, dipende dal comportamento.
Nella relazione che si crea tra società e individuo assume grande importanza il consenso
sociale, cioè il grado di conformità che il soggetto riesce a mantenere rispetto alle norme vigenti.
Nel comportamento reale il consenso può essere di tre tipi:
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—
consenso attivo, se il comportamento è il riflesso di un’interiorizzazione della norma da
parte dell’attore sociale;
—
consenso accordo, se l’adesione alla norma è la risultante di uno scambio di prestazioni
di tipo economico;
—
consenso conformità, se il comportamento è il risultato della pressione del gruppo sul
singolo il quale agisce, rispettando la norma, solo perché intimorito.
La consapevolezza della necessità di norme comuni e insieme dell’“imperfezione” della
socializzazione fa si che ogni gruppo sociale metta in atto dei meccanismi, delle strategie di
autoconservazione, tendenti a preservare l’integrità della società. Queste strategie sono costituite dai
sistemi di controllo sociale che, in misura diretta o indiretta, si manifestano sugli individui
attraverso una pressione sociale affinché si mantenga la conformità1 al sistema e sia garantito
l’ordine. Questi sistemi possono essere di tre tipi:
—
interni diretti, che si manifestano come senso di colpa, vergogna e imbarazzo da parte di
chi viola una norma;
—
interni indiretti, quali l’affetto e in generale l’attaccamento emotivo agli altri e il
desiderio di non perdere la loro considerazione;
—
esterni, comprendenti i diversi tipi di sorveglianza esercitati da individui a ciò preposti
per scoraggiare la trasgressione delle norme comuni (si pensi all’azione di polizia e
carabinieri, ai controlli stradali ecc.).
Secondo Talcott Parsons2 tre sono i modelli essenziali di controllo sociale: l’isolamento,
l’allontanamento e la riabilitazione.
L’isolamento implica l’allontanamento del deviante dal gruppo senza che ciò preveda alcuna forma
di riabilitazione. L’allontanamento, invece, limita i contatti tra il deviante e la società, ma per un
periodo di tempo limitato, consentendo un eventuale reinserimento del soggetto all’interno del
tessuto sociale. La riabilitazione, infine, è un processo tendente a reintrodurre l’individuo deviante
all’interno del contesto sociale a condizione che egli accetti il ruolo e le norme di comportamento
assegnatigli (un caso di riabilitazione è la psicoterapia).
1
E. Aronson, Conformità, in Elementi di psicologia sociale, Franco Angeli, Milano 1977
Sociologo statunitense (1902-1979), esponente dell’indirizzo sociologico dello struttural-funzionalismo, a cui fornisce
l’apporto di una complessa teoria generale dell’azione. Tra le opere principali: La struttura dell’azione sociale (1937)
2
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2 Il concetto di devianza
Il consenso assoluto è impossibile, poiché la società si trova in continua tensione tra forze
coesive e forze centrifughe che derivano dai suoi processi interni di tensione e di adattamento
insufficiente o precario all’ambiente, sia naturale che sociale. Gli individui e i gruppi, in presenza di
pressioni molteplici e difformi, perdono spesso i loro legami consensuali con il sistema dominante
passando all’azione difforme e deviando dalle norme socialmente riconosciute come valide dalla
comunità: da quelle caratterizzanti il sistema politico, a quelle legate al sistema religioso, da quelle
culturali a quelle economico-istituzionali. Pertanto, la devianza, si riferisce sempre ad una condotta,
un qualsiasi comportamento che rappresenta una violazione delle norme stabilite da una data società
o da un dato gruppo e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione3. Si definisce
sanzione una reazione degli altri al comportamento di un individuo o di un gruppo, reazione che
abbia lo scopo di assicurare il rispetto di una data norma.
In altre parole, il concetto di devianza implica una diversità morale; esso si riferisce al rifiuto o
forse all’incapacità di un individuo o di un gruppo di attenersi alle norme morali predominanti nel
contesto sociale a cui è interessato.
Se consideriamo le situazioni abituali, quotidiane, potremmo capire meglio che cosa
significa tutto ciò per la reale esperienza sociale della gente. Ogni situazione in cui le persone
interagiscono a livello sociale è costituita da aspettative predeterminate cui si da per scontato che gli
altri reagiranno in modo anch’esso pre-determinato. Il deviante annuncia la sua presenza nel
momento in cui non reagisce come ci si aspetta da lui.
Pertanto, possiamo precisare che non tutti coloro che infrangono una qualsiasi regola possono
essere considerati “devianti”, ma solo coloro che non rispettano norme e aspettative sociali (che a
loro volta mutano e si modificano sulla base del divenire storico e sociale) importanti e che in
conseguenza di ciò divengono oggetto di valutazione negativa da parte di un gran numero di
persone. Da ciò discende che, proprio perché relativa al concetto di norma e in particolare di quanto
viene ritenuto “norma importante”, la devianza non può essere considerata come qualcosa di
“oggettivo”, ma è sempre tale solo all’interno di un contesto normativo e di conseguenza
relativamente a un determinato sistema socioculturale. Così non solo i comportamenti considerati
devianti in un paese possono essere accettati o addirittura considerati molto positivamente in un
3
Cfr., A. Giddens, Sociologia, Il Mulino, Bologna 1991; p. 125
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altro, ma anche all’interno della medesima società lo stesso comportamento può essere giudicato
deviante in una determinata epoca e non esserlo in un’altra.
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3 Devianza e criminalità
Molto spesso la sociologia della devianza si è occupata dei fenomeni criminali, generando in
molti l’idea erronea di un’identificazione tra criminalità e devianza. In realtà, se è vero che la
criminalità fa parte della devianza, i due fenomeni tuttavia non coincidono.
Il termine “criminale” o delinquente viene in genere applicato a individui che si rendono
protagonisti di gravi reati contro la persona o il patrimonio (quali i genocidi, gli omicidi, gli stupri, i
furti ecc.), ma non sono infrequenti i casi di chi considera come criminali o delinquenti gli autori di
comportamenti sociali meno gravi dei precedenti, applicando indifferentemente questa etichetta a
un automobilista che non rispetta il codice della strada, a un gruppo di tifosi di una squadra di calcio
che si rende protagonista di atti di vandalismo, a quanti esprimono stili di vita che infrangono le
convenzioni sociali e i valori morali prevalenti nelle società e così via. Tutti gli esempi qui riportati
sono accomunati dal fatto di rappresentare una violazione di norme prevalenti in una collettività; ma
essi sono espressione di diversi livelli di devianza, in rapporto sia al tipo di norma sociale infranta,
sia alle conseguenze sociali che detta violazione produce (e alla pericolosità sociale ad essa
attribuita). Per alcuni di essi ha senso parlare di crimini o reati, mentre per altri l’uso di questi
termini appare del tutto improprio.
La criminalità, tuttavia, si riferisce a quei comportamenti che non rispettano le norme legali
(i codici scritti) vigenti in una determinata collettività. Si tratta di azioni che infrangono una norma
giuridica, lesive di interessi protetti dal codice penale, e che quindi risultano socialmente
perseguibili e punibili sulla base di specifiche sanzioni formali. Il termine devianza è invece più
ampio e comprensivo non solo di fenomeni criminali, ma anche di altri comportamenti, quali l’uso
di droghe, alcol, malattia mentale ecc.
Le idee di crimine e di devianza richiamano immediatamente quelle di una norma o di una regola
sociale o morale che viene violata, di un comportamento che risulta oggetto di disapprovazione
sociale. Ogni società si fonda su un sistema di norme e di leggi che regolano i rapporti sociali, che
garantiscono la stabilità di quella collettività. Per ogni individuo l’adesione ad una serie di norme
sociali e legali fa parte della sua identità pubblica, del fatto stesso di considerarsi appartenente ad
una determinata collettività.
In questo quadro, il fatto di compiere un atto criminale o un atto deviante indica
l’orientamento di un soggetto a sottrarsi alla giurisdizione delle regole di una società, a mettere in
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discussione la validità delle regole ( morali o legali) su cui si registra il consenso nella società e che
si ritiene debbano essere difese dall’autorità costituita.
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4 Le teorie sulla devianza
Teorie biologiche
Ma perché si verifica la devianza? E quale strada hanno preso i sociologi nella spiegazione e
nella interpretazione di tale fenomeno?
I primi tentativi di indagine attribuivano il comportamento deviante a cause biologiche. Paul Broca,
un pioniere dell’antropologia francese, sosteneva di poter riconoscere nel cranio dei criminali certe
particolarità che li distinguevano da quanti invece osservavano la legge. Nella storia della
criminologia (che, ai suoi inizi, era considerata una branca della medicina) un eminente
rappresentante di questo approccio fu, tuttavia, Cesare Lombroso, medico italiano del XIX secolo.
Egli elaborò una complessa descrizione di quello che chiamava il «criminale per nascita» che,
secondo lui, poteva essere identificato dalla forma del cranio.
Più tardi queste idee furono del tutto screditate, ma la tesi secondo cui la criminalità sarebbe
stata influenzata dalla costituzione biologica è stata ripetutamente sostenuta in varie forme4.
Numerose ricerche si sono concentrate sull’analisi dell’albero genealogico di famosi criminali al
fine di rintracciare elementi che consentissero di individuare l’ereditarietà del fenomeno; tuttavia,
in questi studi non si riesce a mostrare l’incidenza che i fattori ambientali hanno avuto nella
formazione della personalità degli individui in questione: bambini cresciuti in ambienti degradati e
con modelli di comportamento che stimolavano il furto non avevano certo le stesse probabilità di
integrazione di chi fosse vissuto in un ambiente agiato, con modelli tradizionali.
Più recentemente, alcuni ricercatori hanno cercato di collegare le tendenze criminali a un
particolare gruppo di cromosomi presente nel patrimonio genetico. Sembrava infatti che da indagini
condotte tra i prigionieri nelle carceri di massima sicurezza si registrasse un’alta percentuale di
individui nel cui patrimonio genetico risultava un cromosoma Y in più rispetto a quanto non si
verifichi normalmente. Questi dati non sono però stati confermati da ulteriori ricerche effettuate
nella stessa direzione. Rimane possibile che i fattori biologici abbiano qualche remota influenza su
certi tipi di criminalità. Alcuni individui, ad esempio, possono avere una costituzione genetica che li
rende inclini all’irritabilità e all’aggressività. Ciò potrebbe tradursi, in alcuni casi, nei reati di
4
Eysenk, 1977 e ancor più recentemente dai lavoratori di Mednick e collaboratori, 1987
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aggressione fisica. Non esiste tuttavia nessuna prova conclusiva relativamente al rapporto diretto tra
ereditarietà e azione criminale.
Teorie psicologiche
Come le interpretazioni biologiche, anche le teorie psicologiche della criminalità associano
la delinquenza a un particolare tipo di personalità. Tali teorie spiegano la devianza in base a questa
o a quella disfunzione o alterazione psicologica, e hanno in comune con le teorie biologiche il fatto
che vedono la devianza come una malattia che deve essere considerata da un punto di vista
essenzialmente medico. La differenza tra le due teorie sta, almeno in parte, nella diversa possibilità
di cura. Da quando è stata è stata introdotta la psicoanalisi, si ritiene in genere che quasi tutti i
disturbi psicologici possano essere curati.
Riprendendo vari concetti del pensiero di Freud, diversi autori hanno cercato di spiegare i fenomeni
criminali in termini di “psicopatia”, “degenerazione” e in generale come elementi legati a problemi
di ordine psichico. Spesso questi studiosi hanno cercato di rintracciare la causa della devianza in
situazioni familiari patogene relative all’infanzia del soggetto (rapporto sbagliato tra genitori e
figli).
In considerazione di ciò, il comportamento delinquenziale non sarebbe altro che l’espressione
sintomatica delle tensioni provocate da situazioni familiari pregresse e mai superate dal soggetto.
Nonostante la pluralità dei modelli interpretativi, la maggioranza delle indagini condotte in questo
campo tende a ricondurre le radici della devianza a conflitti non risolti, a processi di identificazione
psicologica, a meccanismi relativi ecc. accaduti in particolari situazioni dell’infanzia e
dell’adolescenza del soggetto.
Albert Cohen, uno dei più noti esperti della sociologia della delinquenza giovanile, ha tentato di
combinare l’approccio psicologico con delle analisi sociologiche di forma convenzionale5.
Discutendo le cause della delinquenza giovanile, Cohen ha evidenziato che un fattore determinante
nella personalità individuale sarebbe da ricercare nel rapporto effettivo istituito dal soggetto con
individui, bande e gruppi. Pertanto, la devianza tenderebbe a diffondersi in quelle società in cui
sono presenti diverse subculture. In questo caso, infatti, diversamente, da quando accade nelle
piccole comunità, la disomogeneità culturale provocherebbe delle difficoltà nella trasmissione dei
comportamenti approvati dalla società.
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La teoria della subcultura
Molti studiosi hanno affermato che di per sé il contrasto fra la struttura sociale e quella
culturale non basta a spiegare perché alcune persone violino le norme e hanno sostenuto che per
comprendere i fenomeni devianti è necessario esaminare i fattori culturali e i valori ai quali il
deviante fa riferimento; anche la devianza, come la conformità, si apprende dall’ambiente in cui si
vive. Se una persona commette un reato è perché si è formato in una subcultura criminale, che ha
valori e norme diverse da quelle della società generale e che vengono trasmesse da una generazione
all’altra. A bere alcool, a fare uso di droga, a rubare e a rapinare, si impara dagli altri, da coloro che
si incontrano tutti i giorni e che sono disposti a farlo e lo sanno fare. Da essi, oltre alla competenza
tecnica, si imparano i valori, gli atteggiamenti, le razionalizzazioni favorevoli a queste azioni.
I primi studi intrapresi in questa direzione furono quelli di Clifford Shaw e Henry Mc Kay,
che nel 1929 effettuarono un’imponente ricerca sul tasso di delinquenza nella città di Chicago.
Dopo aver suddiviso la città in cinque zone concentriche, Shaw e Mc Kay calcolarono il rapporto
tra il numero di coloro che avevano commesso reati e la popolazione totale della zona considerata.
Dalla ricerca emergeva che il tasso di delinquenza così ottenuto diminuiva quanto più ci si
allontanava dal centro cittadino. Qui risiedevano in prevalenza immigrati di diverse provenienze,
mentre nelle aree semiperiferiche risiedevano gli operai specializzati e, in quelle ancora più esterne,
i ceti medi. I ricercatori scoprirono inoltre che i tassi di delinquenza erano assai simili a quelli
registrati a partire dal 1900, nonostante gli abitanti delle diverse zone e la stessa composizione
etnica si fossero modificati nel corso degli anni. Secondo i due sociologi la spiegazione andava
ricercata nei diversi contesti valoriali presenti nelle aree. In alcuni quartieri erano infatti presenti
norme e valori favorevoli certe forme di devianza, che venivano di volta in volta trasmessi ai nuovi
membri del gruppo.
Riprendendo questo tipo di analisi, Edwin Sutherland ha elaborato la teoria
“dell’associazione differenziale”. In una società che contiene molte subculture diverse, alcuni
ambienti sociali tendono a incoraggiare la criminalità, altri no. Gli individui diventano delinquenti o
criminali associandosi ad altri che sono portatori di norme criminali.
5
Cfr. A. Cohen, Delinquent Boys, New York, Free Press, 1955, trad. it. Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1963
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Le origini della devianza andrebbero pertanto ricercate nei processi di socializzazione che
normalmente si verificano all’interno di piccoli gruppi e dei quali l’individuo finisce per accogliere
norme e valori.
Teoria dell’anomia
Sulla base della rielaborazione del concetto durkheimiano di anomia, ovvero la situazione
che si verifica quando non ci sono valori ben definiti a guidare il comportamento in una dato ambito
della vita sociale (in queste circostanze, gli individui sentendosi disorientati erano disposti al
suicidio), Robert Merton
6
ha sviluppato una teoria che considera la devianza come un prodotto
delle situazioni anomiche, che a loro volta derivano dalla contraddizione, da lui riscontrata nella
società americana, tra mete culturali e mezzi sociali istituzionalizzati. Egli ipotizza che tutte le
forme di comportamento deviante siano dovute alla disparità di accesso con mezzi legittimi alle
varie mete che rappresentano il successo in una società.
In altre parole, viviamo in società che proclamano la ricchezza e il successo economico
come mete supreme, ma che al contempo offrono i mezzi legali per raggiungere tali mete solo a
un’esigua minoranza. La spinta al successo e al benessere economico viene smentita dunque come
necessità sociale, ma per gli individui esclusi dai mezzi socialmente approvati una tale meta risulta
irraggiungibile. Il furto e la truffa si presentano allora come espedienti per ottenere quanto è reso
costantemente desiderabile da parte della società.
Analizzando il processo di socializzazione degli americani, Merton rileva come questo si fondi sul
valore del successo e sulla denigrazione (mediante la definizione di “ fallito”) di quanti non lo
raggiungono. A livello individuale, tuttavia, il perseguimento del successo non viene accompagnato
dalla capacità di accettare come unici strumenti possibili quelli ammessi dalla società, per cui
quando tali strumenti risultano inaccessibili nel soggetto si viene a creare una situazione di
profondo disagio (anomia).
La teoria dell’etichettamento (“Labeling theory”)
6
Sociologo statunitense (1910-2003), si è formato alla scuola dello struttural-funzionalismo, di cui interpreta
criticamente l’analisi del sistema sociale, differenziandosi dall’eccessivo formalismo del modello di T. Parsons. Merton
ha cercato di spiegare tutto il comportamento deviante in base alla struttura sociale. Tra le opere: Teoria sociale e
struttura sociale (1949)
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Tutte le teorie finora ricordate hanno concentrato la loro attenzione su fattori biologici e
psichici del deviante, oppure sul contesto socioculturale in cui il deviante vive. Secondo
un’impostazione che risale a Howard Becker, la devianza è un’etichetta attribuita a certe persone o
azioni in conseguenza di certi processi sociali: da qui, naturalmente, deriva il nome della teoria. In
sé, sostiene Becker, nessun comportamento è deviante, ma lo diviene nel momento in cui esso viene
definito tale. L’etichettamento è dovuto principalmente a coloro che rappresentano le forze della
legge e dell’ordine o che sono in grado di imporre agli altri una definizione convenzionale di
moralità. Le etichette che definiscono le varie categorie della devianza esprimono pertanto la
struttura di potere della società. È infatti chi detiene il potere reale a imporre la propria definizione
di norma, etichettando chi non vi si attiene come outsider.
Secondo i sostenitori della devianza, fra coloro che commettono atti devianti e gli altri non
vi sono differenze profonde né dal punto di vista dei bisogni né da quello dei valori. Ne è prova il
fatto che, nella nostra società, ad un altissimo numero di persone succede, almeno una volta nella
vita di violare una norma in modo più o meno grave. Ma un conto è commettere un atto deviante:
mentire, rubare qualcosa, fare uso di droga ecc., un altro conto è suscitare per questo una reazione
sociale, venire accusato di essere un deviante: un bugiardo, una ladro, un drogato. In questo
secondo caso un individuo viene bollato con un marchio, un’etichetta, un ruolo. I suoi
comportamenti passati vengono riesaminati e reinterpretati alla luce di quelli presenti e si comincia
a pensare che egli si sia sempre comportato così. Di conseguenza lo si guarda e lo si tratta in modo
diverso dagli altri, con sospetto, timore, ostilità.
Cruciale da questo punto di vista la distinzione, introdotta da Edwin Lemert, fra devianza
primaria e secondaria. La devianza primaria riguarda tutte quelle violazioni dalle norme che per
colui che le compie hanno poca rilevanza e vengono presto dimenticate , nel senso che chi compie
tali azioni non si considera un deviante né viene considerato tale dagli altri. Si ha invece devianza
secondaria quando l’atto di una persona suscita una reazione di condanna da parte degli altri, che lo
considerano un deviante e questa persona riorganizza la sua identità ed i suoi comportamenti sulla
base delle conseguenze prodotte dal suo atto.
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5 Le malattie mentali
Un’altra faccia della devianza riguarda la malattia mentale, considerata un ambito di
emarginazione per eccellenza. Solo da due secoli a questa parte si è acquisito il concetto di malattia
in riferimento ai disturbi psichici, che venivano normalmente considerati come segni di possesso
demoniaco e i degenerazione morale. La mutazione della considerazione del fenomeno ha generato
tipologie diverse di intervento, che sono passate da forme di ghettizzazione coatta a tentativi di cura
presso particolari strutture ospedaliere (gli ospedali psichiatrici). A proposito degli ospedali
psichiatrici, a partire dagli anni ’70, si è venuto sviluppando un dibattito intorno all’efficacia di tali
istituzioni e circa le modalità di intervento da essa adottate. Uno degli aspetti che colpiva i sociologi
e gli psichiatri riformatori era il fatto che degli individui ospedalizzati (spesso in giovane età) solo
una percentuale minima veniva dimessa.
Oggi la maggior parte degli psichiatri ritiene che almeno alcune forme di malattia mentale
abbiano cause fisiche. Gli psichiatri dividono i disturbi mentali in due categorie principali, psicosi e
nevrosi. Delle due categorie, quella considerata più grave è la prima, poiché comporta un disturbo
nel senso di realtà. La schizofrenia è la forma di psicosi più nota e coloro a cui è stata diagnosticata
costituiscono una parte consistente dei pazienti degli ospedali psichiatrici. I sintomi della patologia
riguardano allucinazioni visive e o acustiche, discorsi apparentemente illogici e sconnessi, le manie
di grandezza o di persecuzione e la mancanza di reattività alle situazioni e agli avvenimenti
dell’ambiente circostante.
Nella maggior parte dei casi i disturbi nevrotici non impediscono agli individui lo svolgimento di
un’esistenza normale. La principale caratteristica comportamentale classificata come nevrosi sono
le ossessioni.
Le critiche nei confronti di quelle che vengono definite “istituzioni totali”, sviluppatesi
durante gli anni ’60, ebbero il merito di diffondere un atteggiamento critico nei confronti di
strutture (quali ospedali psichiatrici e riformatori) del cui operato la maggior parte della gente era
abituata a rimanere all’oscuro. Così, a partire dagli anni ‘70 nei principali paesi europei si è assistito
a un profondo cambiamento nella concezione e nell’organizzazione degli istituti di custodia. Si è
preso atto delle critiche secondo cui le case di rieducazione, così come le prigioni e gli ospedali
psichiatrici, di fronte a individui dal comportamento deviante non ne favorivano il reinserimento,
ma si limitavano a renderne manifesto il ruolo. Gli individui vissuti a lungo all’interno di istituzioni
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totali, secondo la definizione di Goffmann, luoghi di «residenza e di lavoro di gruppi di persone
che, tagliate fuori dalla società…, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte
della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato»7, divengono essi stessi
istituzionalizzati, ossia incapaci di concepire un modo di vita difforme da quello dell’istituzione.
Il risultato dell’istituzione, invece della cura e della rieducazione, sarebbe pertanto quello di
approfondire la discriminazione e il baratro tra individuo deviante e società.
7
Cfr. Goffman, E., Asylums, Einaudi, Torino 1972
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Robertson I., Elementi di Sociologia, Zanichelli, Bologna 1999
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