www.arondemetz.it [email protected] ARON DEMETZ Per scolpire

Transcript

www.arondemetz.it [email protected] ARON DEMETZ Per scolpire
ARON DEMETZ
Per scolpire bisogna amare la solitudine. Si può stare in un luogo remoto, dove arrivano rarefatte notizie dal
mondo, nella continua incertezza
se siano fatti accaduti o fantasie, incubi, sogni. Così lo scultore vive tra la casa e lo studio, dove fa nascere la
realtà del suo desiderio dalla materia. Più del lavoro del pittore, che procede per apparizioni, quello dello scultore
evoca meraviglie, produce rivelazioni. La pietra, la terra, il legno contengono la forma e la vita. Più di altri, a Selva
di Val Gardena, abituato all’aria dei boschi, Aron Demetz allarga il mondo degli affetti famigliari. Sono giovani,
bambini, amici. Demetz li ha già visti, ha parlato con loro. Sono le persone che incontra ogni giorno, sono le
figlie e i figli dei vicini che condividono la stessa aria, le stesse ore, gli stessi ritmi dell’esistenza. Demetz sta nella
tradizione. Nella Val Gardena, da sempre, le forme escono dal legno, e Demetz sente che nel legno si nasconde
un’anima: così la tenta, la cerca, la estrae con una sensibilità che altri hanno creduto di riconoscere nelle
immagini devote, nei Cristi e nei santi prestabiliti in una iconografia collaudata e consumata. Miracolosamente
Demetz trova nel legno anime, anime trepide e anime impavide, certe della loro bellezza e della loro integrità. Ci
guarda... ferma, senza un fremito, senza turbamento e incertezza. Il volto è liscio e la forma si increspa appena
sulla testa a restituire il volume dei corti capelli (Bianco e nero, p. 74). Demetz accompagna le venature del legno
con un leggero, opalescente cromatismo, per restituire dell’adolescenza l’improvviso arrossire e, insieme,
l’integrità.
Di perfetta misura, la testa si innesta su un busto nero dal collo graziosamente ritagliato. L’invenzione è perfetta
nel motivo delle braccia conserte, che vieppiù chiudono l’immagine chiusa. Una immagine ritrovata, dopo tante
frantumazioni, e traumi e faticate forme per riaffermare la semplice misura del corpo. Demetz si sbarazza di un
passato ingombrante, di ogni situazione di dubbio, e risale a una immagine prima cui nessun’altra soccorre. Non
conosce il tormento della forma di Vangi. Alle sue spalle la verginità dello sguardo era stata da poco recuperata
nella terracotta dipinta e nel bronzo da Giuseppe Bergomi, mentre lontano dall’Italia, ma in un eletto spirito
classico, aveva elaborato legni policromi il giapponese Funakoshi, maestro lontano e diretto di Demetz. La
lezione di Demetz si avverte nei due nudi con scarpe (Scarpe rosse, p. 24), su un ampio basamento per un
contrappeso espressivo. Ma, quando non si esercita sui nudi, come nella bellissima e virginale ragazza che tiene il
passero in mano (Uccello morto, p. 28), Demetz insiste su una forma ampia, avvolgente, quasi astratta, una
forma chiusa, in perfetta coerenza con la plastica struttura dei volti, squadrati, levigati, magari animati dalla
mobilità dei capelli. Da questa poetica derivano i sapidi padre e figlio (Padre e figlio, p. 40) che si guardano in
cagnesco, utilizzando il contrasto fra l’agilità delle teste e la compattezza dei volumi dei corpi, ma anche la
ragazza con il pappagallo in testa (Storia dell’orso, p. 34), dal maglione di un bellissimo rosso, e l’ingenuo
postino (Perché oggi non arriva la posta?, p. 38) con la borsa a tracolla. L’opera più compiuta di questa serie è la
donna in nero (Oblivion, p. 76), in più versioni, fortunata invenzione, e nelle proporzioni, con il busto allungato,
e nella forte contrapposizione tra la testa e il corpo, fino a definire una immagine austera di rigore e di
isolamento dal mondo. Difesa, resistenza, come sembra suggerire l’abito come una divisa, evoluzione di quello
più attillato della fanciulla... A questa immagine possono corrispondere i versi di Emily Dickinson: “L’anima
sceglie i suoi compagni / e poi chiude la porta; / la sua divina superiorità / non sopporta estranei. // Impassibile,
sente la carrozza che si ferma / al cancello. / Impassibile, guarda un re prostrarsi / sul suo tappeto. // Io so che lei
di tutto il mondo / può scegliere uno solo: / poi chiude i confini della sua attenzione / come fossero pietra”. Mai
è illustrativo Demetz. Sempre contenuto, impenetrabile; mai un compiacimento, mai una concessione
all’ornamento. Egli cerca l’essenziale, le sue sculture sono sculture dell’anima, intrinsecamente liriche; la loro
naturale condizione è la solitudine, anche quando sono gruppi, quando egli affronta la famiglia, un padre, una
madre e il figlio sul divano (Divano II, p. 96) davanti al televisore, ognuno concentrato nella sua visione. Demetz
cerca la malinconia dello sguardo, come nel giovinetto a torso nudo con le mani in tasca (Mio padre voleva un
figlio, p. 78). Un altro dei suoi adolescenti, oscillante tra malinconia e purezza. Purezza, integrità, malinconia,
stupore sono le condizioni psicologiche che egli persegue. L’innocenza è nello sguardo puro della giovinetta con
la maglia bianca (Altrimenti ti bacio, p. 36). Nella piccola Maren (ciao zio Willy) (p. 30), si assiste alla condizione
di passaggio dalla bambina alla donna; il corpo avverte un timido accenno di rotondità ai seni, mentre le mani
www.arondemetz.it
[email protected]
tentano di proteggere la nudità. Ma la testa con gli occhi azzurri parla di una persistente tristezza, di un carattere
malinconico, di una predisposizione all’infelicità. Basta poco a Demetz, senza enfasi, senza insistenza, a
intercettare gli stati d’animo di maestri come Soutine, ricusando ogni declinazione espressionistica. Ed è tanto
più sorprendente perché la natura profonda, e prevalente, di Demetz è apollinea. Così egli intercetta, senza
retorica, la mitezza e il candore nel nudo semplice dell’adolescente che tiene fra le mani un uccello ferito,
compagna ideale del giovinetto ignudo con la bambola di pezza (Compagnia, p. 26), a segnalare l’improvvisa
interruzione dei giochi, una ripresa di attenzione, un avviso della coscienza. Questi giovinetti sono, turbati o
sereni, molto pensanti e talvolta impercettibilmente dolenti, come quello, a tre quarti di busto, che inclina il
capo, quasi in preghiera (Ricordo della madre, p. 80); e lo spirito sembra una conseguenza diretta della loro
innocenza e non il frutto di una vocazione o una scelta, se è vero che il prete (Il collezionapeccati, p. 82) con la
stola viola ha una posizione inclinata e un atteggiamento perplesso, come uno scrutatore di coscienze.
Demetz sceglie un altro codice per rappresentare il turbamento o il peccato, la condizione di passaggio dalla
bambina alla donna. Oltre alla severa donna in nero (Bianco e nero, p. 74), Demetz si misura con la curiosa
donna con il pappagallo in testa (Ragazza con pappagallo, p. 32), idea peregrina cui la semplicità della figura
sembra contrapporsi sia nel movimentato panneggio sia nella naturalissima posizione dei piedi. Quando Demetz
esagera è perché ha paura della semplicità nella quale egli eccelle, capacità di sentimenti e di forme. Questa si
compie nella felicissima invenzione della donna (Chiara, p. 72) cui i capelli coprono in parte il volto tagliando gli
occhi. L’innocenza perduta sembra lasciare il campo alla malizia e al peccato. O, forse, piuttosto al pentimento.
Certo, una piega dolente si insinua nelle forme levigate del volto. L’intuizione risale alle fonti del classicismo
aulico e insieme intimistico di Francesco Laurana. Tradurre quelle elette forme in un linguaggio borghese è
insieme inevitabile e frustrante, ed è il disagio di scultori come Francesco Messina, Ernesto Ornati, Giuliano
Vangi. A loro guarda Demetz tentando una semplificazione linguistica e una difficile ricerca dell’essenziale. In
questo, e persino nelle scelte tematiche più impervie, egli ha un precedente in uno scultore solitario e ancora
sottostimato: Bruno Innocenti, una parte della cui produzione, come non frequentemente accade nella
tradizione italiana, soprattutto recente, è proprio nel legno. Ma la forza di Demetz è nello sguardo
incontaminato, nella esclusione di ogni riferimento diretto, nel rifiuto del citazionismo, nella ricerca di una forma
pura, non solo in sé ma anche pura da residui di storia e di tradizione. Così egli sembra arrivare al maggior
ardimento nella recente bambina in poltrona (Divano I, p. 94), immagine tanto attuale da confinare con il gusto
Pop. Ma la grande poltrona, nella quale la bambina appare anche più sola, non è un divertimento concettuale
alla Gnoli. È un riferimento naturalistico per accentuare lo spaesamento della bambina, i cui piedi non toccano
terra e le cui mani poggiano leggere, come equivalenti di una delicatezza interiore. La compostezza, la staticità
della bambina, la fissità dello sguardo perso (probabilmente davanti a un televisore), contengono, nel soggetto
assolutamente quotidiano, una spiritualità, una pulizia disarmanti, punto di arrivo di una ricerca sugli stati
d’animo e sulla religiosità del quotidiano. In quella bambina c’è una umanità fragile, esposta, un principio di
inquietudine temperato dalla inconsapevolezza, una serietà che possono avere solo i bambini. L’archetipo di
questa immagine è, ancora, nella grande tradizione del Quattrocento italiano, in Piero della Francesca, in “una
tradizione ‘non eloquente’ arrivata fino a noi passando da ultimo, per la scuola metafisica” di cui parla proprio
Domenico Gnoli. Così matura la ricerca di Aron Demetz, umile e ambizioso, semplice e determinato, certo che le
sole verità che bisogna ricercare sono le verità del cuore.
Vittorio Sgarbi
www.arondemetz.it
[email protected]