L`Archivio della - Azienda Speciale CCIAA Messina

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L`Archivio della - Azienda Speciale CCIAA Messina
Messina
L’Archivio della
MEMORIA
www.messinaqualita.it
Promozione delle eccellenze produttive del
territorio e della dieta mediterranea
Sviluppo di Itinerari turistici ed enogastronomici
della provincia di Messina
Camera di Commercio di Messina
Azienda Speciale Servizi alle Imprese
I mandorli sono pieni di frutti. Un carrubo potato portava infiniti baccelli.
L’uva da pasto è sistemata in pergole, sorrette da alte pertiche.
I meloni si piantano a marzo e maturano a giugno.
Se si attraversano i campi, i contadini lasciano mangiar fave quante uno ne vuole.
Qui, non ci sono molti uccelli; solo quaglie. Gli uccelli migratori sono usignoli, allodole, rondini.
Le rinnule, piccoli uccelli neri che vengono da levante e si riposano in Sicilia, vanno poi oltre o
tornano indietro.
I tordi vengono in dicembre e gennaio dall’Africa, cadono sull’Acraga e poi ritornano verso le
montagne…………
da Viaggio in Italia di Wolfgang Goethe
La cultura enogastronomica italiana è il frutto di un secolare processo della nostra società, da sempre protagonista di significativi momenti della civilizzazione umana. In armonia con la proprie tradizioni, e famosa
per ricchezza, varietà e qualità, rappresenta un patrimonio culturale ed economico che concorre significativamente al successo del “Made in Italy” nel mondo. La notorietà e il successo dell’enogastronomia italiana si
fonda essenzialmente su due “percezioni” forti: la qualità intrinseca riconosciuta ad alcuni prodotti (pasta,
olio di oliva extravergine, salumi, formaggi, vini); l’immagine dell’Italia come meta turistica collegata alla
buona tavola e al mangiar sano.
A questi fattori si somma poi la valenza salutistica della “dieta mediterranea”, diventata patrimonio dell’Unesco il 17 novembre 2010, in cui semplicità e gusto si coniugano, con armonia, all’equilibrata ripartizione nutrizionale di carboidrati, grassi e proteine, tipica della cucina italiana e siciliana.
Alla luce di queste premesse, questo documento si propone l’obiettivo di realizzare un Archivio della Memoria che contenga il patrimonio storico-informativo sui prodotti e sulla la cultura gastronomica tipica della
provincia di Messina sviluppandone una riqualificazione nutrizionale, realizzata sulla base dei principi della
Dieta Mediterranea.
Ad una prima parte che contiene il censimento del patrimonio enogastronomico segue una panoramica delle
potenzialità turistiche della provincia analizzata grazie ad alcuni itinerari socio-culturali che coinvolgono i
settori agroalimentare, naturalistico e storico.
Il documento, ancora in fase di elaborazione, è stato redatto grazie ad una ampia ricerca (anche via Web) e ad
una raccolta di documenti e testimonianze.
L’Archivio della Memoria
Prodotti tipici, ricette, itinerari della Provincia di
Messina
Agroalimentare
Vino, Olio, Formaggi, Carne e Prodotti Tradizionali
I Prodotti della Pesca
La pesca sulle coste messinesi. I prodotti
La dieta mediterranea
Valori e ricette
Turismo
Il Territorio. Itinerari turistici ed enogastronomici
Agroalimentare
Vino, Olio, Formaggi, Carne,
Ortofrutta e Prodotti Tradizionali
L’Agroalimentare
La produzione agroalimenatre è un elemento portante dell’economia messinese: in particolare la produzione riguarda i vini, gli ortaggi, i derivati del latte
e l’olio, pane e dolciumi: prodotti che inoltre rientrano in un progetto di tutela e
valorizzazione promosso dalla Camera di Commercio.
Oltre a questi prodotti l’agroalimentare messinese riguarda anche la carne, gli
insaccati e i prodotti legati alla pesca.
Le aree territoriali in cui si concentra il maggior numero di imprese della filiera
agroalimentare sono, oltre quelle relative alle grandi conurbazioni provinciali di
Messina (1.351 imprese), Milazzo (457) e Barcellona Grotta di Pozzo (673), i
comuni di Capizzi (327 imprese) e Tortorici (422).
Il complesso delle attività che compongono la filiera agroalimentare del territorio provinciale, presentano, un’alta incidenza della componente industriale.
Infatti, se l’incidenza delle imprese dell’industria alimentare sul totale della filiera agroalimentare risulta essere analoga in Italia (11,0%) ed in Sicilia (10,7%),
livelli quasi doppi si registrano nella provincia messinese (19,3%). Dunque, alla
dinamicità imprenditoriale evidenziata in precedenza dall’industria alimentare
si associa una già elevata incidenza rispetto al numero complessivo di imprese
appartenenti alla filiera agroalimentare. Si tratta di una caratteristica importante
del tessuto produttivo locale che suggerisce una maggior produttività ed una
maggior capacità del settore locale di affrontare con successo l’apertura verso i
mercati esteri della produzione locale.
I comuni dove si registrano i maggiori livelli di industrializzazione della filiera
agroalimentare risultano essere quelli di Venetico (48,5%), Valdina (45,5%),
Gioiosa Marea (42,6%), Letojanni (44,0%), Messina (48,3%) e Piraino (51,5%).
I comuni dove, invece, si registra la maggiore specializzazione del tessuto
manifatturiero locale nell’alimentare (incidenza dell’alimentare sul totale delle
imprese manifatturiere) risultano essere Alì (7,8%), Basicò (14,4%), Ficarra
(7,4%) e Moio Alcantara (7,3%). Tutti comuni, quest’ultimi caratterizzati da una
dimensione demografica poco rilevante che distorce ogni possibile confronto.
Dei comuni maggiori (oltre 5.000 abitanti), invece, emergono indici elevati a
Mistretta (33,9%) e Tortorici (53,1%), entrambe specializzate nella produzione
di pane e nella pasticceria.
Vino
Eccita il gusto, l’olfatto e la vista, nasce in un territorio da sempre vocato alla viticoltura e caratterizzato da un paesaggio caldo, mediterraneo e ricco di storia. I Fenici, audaci navigatori, portarono i vini in tutte le coste del Mediterraneo, facendone uno dei prodotti più
importanti degli scambi commerciali di quell’epoca. Anche le grandi flotte inglesi, durante il periodo napoleonico, favorirono il sorgere
della grande industria enologica.
La provincia di Messina, con i suoi attuali 28.000 ettari di terreno coltivati a vigneto, realizza una produzione media annua di 2-3 milioni di ettolitri di vino.
Le caratteristiche naturali del terreno, le condizioni climatiche caldo-umide e le scarse piogge hanno favorito lo sviluppo della vite praticamente sulla maggior parte del territorio e in particolare nelle Isole.
I vigneti tipici della zona sono Nerello, Mascalese, Nocera, Nerello Cappuccio, Calabrese, Gaglioppo, Sangiovese, Malvasia, Corinto, Catarratti. Grillo e Ansonica
producono ottimi vini dalle illustri tradizioni, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo, alcuni dei quali vantano la Denominazione di origine controllata (Doc):. Faro,
Malvasia delle Lipari, Mamertino di Milazzo.
Ache le produzioni di IGT sono molto apprezzate, in particolare l’Igt Salina che viene prodotta nelle Isole Eolie e l’Igt Sicilia, che vanta in ambito regionale la
produzione più consistente. Alla base di questa Igt vi sono i vini bianchi, rossi e rosati prodotti con uno o più vitigni, a bacca di colore corrispondente, autorizzati e/o
raccomandati per le rispettive province siciliane.
Faro Doc
Il Faro Doc è un vino rosso prodotto nelle colline sovrastanti lo stretto di Messina, altra area della Sicilia che vanta un’antichissima vocazione vitivinicola. Le sue origini
possono essere ricondotte all’età Micenea (XIV secolo a.C. circa), come attestano alcuni reperti rinvenuti soprattutto nelle isole Eolie, ma è con l’età romana che i vini di
Messina ricevono la prima consacrazione ufficiale. Lo dimostra il fatto che Giulio Cesare brindò alla festa del suo trionfo al Terzo Consolato proprio con un vino messinese, il Mamertino.
Come si consuma
Il Faro Doc si sposa perfettamente con il Ragusano, il Pecorino Siciliano stagionato, il polpettone, le braciole di vitello, il capretto messinese e il montone al forno. Si
consiglia di servirlo in calici ballon ad una temperatura di16 -18°C.
Come si conserva
Per conservare correttamente il Faro Doc è sufficiente tenere il vino al buio, a una temperatura costante fra 10 e 15°C e, per impedire che il tappo si asciughi, l’umidità
deve aggirarsi intorno al 70-75%. Le bottiglie vanno conservate in posizione orizzontale su scaffalature di legno.
Come si produce
Il processo di vinificazione del Faro Doc prevede la fermentazione del mosto a contatto con la vinaccia, che durante questa fase rilascia parte delle sostanze in essa
contenute, quali antociani e tannini. Il processo di fermentazione dura generalmente oltre i 15 giorni. Seguono la fase della svinatura, con la separazione della vinaccia
dal mosto, i travasi, l’affinamento e l’invecchiamento obbligatorio di un anno. Al termine di questo periodo il vino viene stabilizzato ed, infine, imbottigliato.
Mamertino di Milazzo Doc
La viticoltura alle falde dell’Etna e nella zona Agrigentina, secondo alcuni storici, risalirebbe a prima dei Fenici. Ritrovamenti di viti cosiddette “ampelidi” dimostrano la
presenza della vite selvatica sull’isola, già milioni di anni fa. Si hanno testimonianze storiche sulla produzione del vino Mamertino già nel 289 A.C., quando i Mamertini
piantarono nel territorio di Milazzo una pregevole vite per la produzione di un pregevole vino. Tale era la bontà di questo vino già all’epoca romana che, si narra, venne
offerto da Giulio Cesare in occasione del banchetto per celebrare il suo terzo consolato poi raccontato anche nel “De Bello Gallico”. Decantato per la sua bontà dagli
stessi Stradone e Plinio, il Mamertino già secoli fa era considerato uno dei migliori vini in commercio.
Le condizioni climatiche peculiari del luogo particolarmente favorevoli per una corretta maturazione delle uve, hanno reso questo territorio fortemente vocato alla coltivazione, inizialmente sperimentale, poi sempre più praticata, anche di vitigni alloctoni come Chardonnay, Cabernet, Syrah, Merlot, ecc…. Tuttavia oggi sono soprattutto
i vitigni autoctoni, come il Nero d’Avola, che stanno ricompensando sempre più produttori con la messa in commercio di vini di gran pregio. Questa Doc comprende le
varietà di vino: Bianco, Bianco Riserva, Rosso, Rosso Riserva, Calabrese o Nero d’Avola, Calabrese o Nero d’Avola Riserva, Grillo-Ansonica.
Come si consuma
Il Mamertino di Milazzo Bianco Doc si sposa con antipasti leggeri di mare, con secondi di pesce grigliato e marinato e con risotti conditi con sughi di pesce. La temperatura di degustazione è di 8-10 °C e va servito in calice a media capacità a tulipano svasato.
Il Mamertino Bianco Riserva Doc è ideale accostato con fritture saporite, con zuppe e intigoli di pesce. Se ne consiglia la degustazione anche assieme a secondi di
carne bianca, come pollame, coniglio e frattaglie. Per questo vino la temperatura di degustazione è di 10-12 °C e il calice adatto è a media capacità a tulipano ampio.
Il Mamertino di Milazzo Rosso Doc trova ideale abbinamento assieme a piatti più elaborati come primi conditi con ragù di carne e secondi di carni rosse, sia lessate che grigliate. È ottimo
anche accompagnato con formaggi stagionati. Va servito in calice bordolese ad una temperatura di degustazione di 14-16 °C.
Il Mamertino Rosso Riserva Doc si sposa con arrosti di carni rosse, grigliate, stracotti e stufati, ma esprime al meglio le sue caratteristiche organolettiche se abbinato alla selvaggina sia di
pelo che con piuma. Va degustato a 16-18 °C
Malvasia delle Lipari Doc
La Malvasia della Lipari, di cui esistono tre tipologie, una da pasto e due da fine pasto, è annoverata tra i più antichi e pregiati vini di Sicilia. Probabilmente introdotta dai Greci, come scrive Diodoro Siculo nel I secolo a.C., questo vino nasce nelle isole Eolie in cui la viticoltura vanta origini ben più remote. Molto curiosa è
invece l’origine del termine “malvasia” nelle Lipari. Un’antica leggenda cristiana, risalente all’epoca della dominazione musulmana, racconta di un povero contadino
del posto, intento a portare un’anfora di vino moscato. Questi, incontrato lungo la strada il tirannico governatore arabo dell’isola che pretendeva di vedere cosa
avesse sotto il mantello, rispose che portava solo succo di malva e, pregando il Signore affinché trasformasse il vino in malva, lo invocò così: “malva sia”. La preghiera fu ascoltata e un’espressione di disgusto segnò il volto del tiranno mentre beveva il contenuto dell’anfora.
Nell’opera “La vita errante” il grande romanziere francese Guy de Maupassant così descrive il vino Malvasia delle Lipari: “Sembra sciroppo di zolfo. È proprio il vino
dei vulcani, denso, zuccherato, dorato e con un tale sapore di zolfo che vi rimane al palato fino a sera: il vino del diavolo”.
Come si consuma
La Malvasia delle Lipari è un vino da meditazione che può essere degustato anche assieme a formaggi erborinati, a dolci tipici siciliani come la cassata e i cannoli,
e alla pasticceria secca. Va servito in piccoli calici che permettono la concentrazione dei profumi e degli aromi a una temperatura di 16 -18°C.
Come si conserva
Per conservare correttamente la Malvasia delle Lipari Doc è sufficiente tenere il vino al buio, a una temperatura costante fra 10 e 15°C e, per impedire che il tappo
si asciughi, l’umidità deve aggirarsi intorno al 70-75%. Le bottiglie vanno conservate in posizione orizzontale su scaffalature di legno.
Singolare storia quella di Carlo Hauner e del suo vino.
La storia di un bresciano di origine boema che, dopo aver girato il mondo, nel 1962 approda, per un invito casuale a Salina. Vi rimane per sempre. A Salina Hauner, ex architetto, pittore e disigner, noto in ambito internazionale, trova ispirazione per i suoi quadri e in quell’isola per pochi, come lui ama definirla,
disegnandola tra le maree e cielo, gli si rivela l’incanto dell’ambrosia degli dei, il dolcissimo vino che persino l’Abate Meli nel settecento aveva fatto sognare.
La produzione però è allo stremo: la fillossera aveva ridotto i vitigni Malvasia fino a farli quasi scomparire. Hauner non si scoraggia: al contrario, della loro
rinascita fa lo scopo della sua vita. Acquista piccolissimi appezzamenti di terreno di decine di proprietà, crea terrazzamenti, dissoda la terra rimasta incolta per
troppo tempo tradizionale. Col trascorrere degli anni l’empirismo cede il passo a una tecnologia avanzata e il 20 settembre del 1973 Carlo Hauner ottiene per
il suo vino il riconoscimento della D.O.C. Forte del successo egli, fino al 1987, continua a occuparsi da solo della produzione e della commercializzazione; poi,
non riuscendo più a far fronte alle rischiaste sempre crescenti, decide insieme ad altri, di metter su un’azienda industriale per la lavorazione e la vendita, che
affianca la vecchia azienda per la produzione dei vitigni. La strada del mercato è aperta e nel 1996 la società crea una rete commerciale con rappresentanti
diretti che operano in Italia e all’estero. Il 26 febbraio 1996 interrompe la storia di Hauner, non quella del vino che gli sopravvive entrando nella più raffinata
tradizione enologica italiana. Il figlio Carlo Junior con la collaborazione di Gianfranco Sabbatino oggi tiene le redini dell’azienda. La Malvasia delle Eolie è un
vero nettare apprezzato e conosciuto in tutto il mondo, nonostante la ridotta produzione. Un vitigno che produce non molti grappoli, la qualità dell’acino: molto
piccola, di colore verdognolo e intensamente dolce. La Malvasia eoliana se ancora oggi incanta lo deve anche ad un uomo semplice, dalle idee molto chiare
che credeva in quello che faceva e che amava profondamente Salina. Grazie a Carlo Hauner.
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L’Igt Salina viene prodotta nelle Isole Eolie, dette anche “delle Lipari”, in provincia di Messina, in quella stessa zona dove si ottiene la Doc “Malvasia delle Lipari”.
I vini previsti sono molteplici: bianco, rosso, rosato e una varietà di tipi con indicazione di vitigno (Ansonica, Cabernet Sauvignon, Calabrese, Catarratto bianco
comune, Catarratto bianco lucido, Chardonnay, Corinto nero, Frappato, Grillo, Malvasia di Lipari, Müller Thurgau, Nerello cappuccio, Nerello mascalese, Nocera,
Pinot bianco, Pinot nero, Sangiovese, Sauvignon, Alicante, Barbera, Carricante, Gaglioppo, Perricone, Trebbiano toscano, Vernaccia di San Gimignano), tutti
anche nella tipologia frizzante e nella tipologia novello per i rossi.
I vini bianchi, rossi e rosati nascono da uno o più vitigni autorizzati e/o raccomandati per la provincia di Messina, con il frutto dello stesso colore. Ed anche i vitigni
che si possono indicare in etichetta sono quelli autorizzati e/o raccomandati per la provincia di Messina.
L’Igt Sicilia, che vanta in ambito regionale la produzione più consistente, ricade sull’intero territorio amministrativo delle province di Agrigento, Caltanissetta, Catania, Enna, Messina, Palermo, Ragusa, Siracusa e Trapani, ovvero sull’intero territorio siciliano.
Alla base di questa Igt vi sono i vini bianchi, rossi e rosati prodotti con uno o più vitigni, a bacca di colore corrispondente, autorizzati e/o raccomandati per le rispettive province siciliane.
Olio Extravergine di Oliva.
Qualità e tipicità
L’olio extra vergine d’oliva ( O.Ex.V.O.) è il più nobile tra i grassi vegetali, sia perché si ottiene dalla lavorazione di un frutto (tutti gli altri oli vegetali sono ricavati da
Semi) sia perché è estratto dalle olive solo con mezzi meccanici o fisici che non comportano alterazioni del prodotto di nessun genere. Inoltre, e l’aspetto non è di
poco conto, si può utilizzare immediatamente per l’alimentazione senza ulteriori manipolazioni.
Gli oli di semi, al contrario, subiscono obbligatoriamente il processo di raffinazione o rettificazione che li rende commestibili.
Questi due elementi, pur di fondamentale importanza, non sono comunque sufficienti a garantire un elevato livello di qualità e a considerare valido un olio d’oliva
solo perché appartiene alla categoria merceologica extra vergine.
Olio siciliano
L’albero dell’ulivo è un elemento costante del paesaggio siciliano sin dai tempi piui antichi: il suo utilizzo risale alla preistoria, quando i primi abitanti dell’isola cominciarono ad usare per scopi nutrizionali le risorse della Macchia Mediterranea, che includeva alberi d’ulivo selvatici.
Antichi autori, fra i quali Plinio e Aristofane, Teofrasto e Polluce, riportano nei loro scritti che l’olivo si propagò dapprima lungo le coste della Sicilia e poi in queue
della Magna Grecia grazie all’opera dei Fenici e dei Greci. Nell’isola la coltura dell’olivo ha assuto fasi alterne di splendore e di decadenza legate aII’influenza
storica dei popoli conquistatori.
I Romani estesero ed intensificarono Ia specie, gli Arabi la scoraggiarono, i Normanni la riportarono in auge mentre gli Spagnoli Ia ostacolarono. Un notevole impulso allo sviluppo della coltura fu dato dai Borboni e successivarnente da alcune famiglie nobili come i Medici.
In realtà la Sicilia è una terra particolarmente adatta alla coltivazione del l’ulivo, grazie a condizioni pedoclimatiche estremamente favorevoli.
Oggi l’olivocoltura siciliana presenta una grande varietà di specie. testimonianza di migliaia di anni di adattamento ai diversi terreni e microclimi dell’isola e di selezioni e incroci dovuti alle nuove varietà introdotte dalle popolazioni che si insediarono in Sicilia, crocevia del Mediterraneo.
Tuttavia le varietà autoctone e piü antiche, tra cui la Biancolilla. la Nocellara e la Cerasuolo, continuano a prevalere.
Il territorio di Messina vanta due riconoscimento Dop: Monte Etna DOP e Valdemone DOP. Si producono inoltre numerosi Olii Extravergine di alta qualità
DOP Olio Monte Etna
Area di produzione: La zona di produzione dell’olio Monte Etna si estende intorno al Monte Etna e interessa il territorio dei comuni delle province di Catania, Enna
e Messina posti alle pendici del vulcano
Materia prima: L’olio Monte Etna è ottenuto da Nocellara Etnea, per almeno il 65%, con aggiunta di olive di altre varietà (Moresca, Tonda Iblea, Ogliarola Messinese, Biancolilla, Brandofino e Castiglione) fino ad un massimo del 35%
Tecnologia di lavorazione: Il sistema di raccolta è a mano e quello di estrazione e a ciclo continuo a freddo
Caratteristiche del prodotto: colore giallo oro con riflessi verdi ed un odore leggermente fruttato; sapore fruttato con sensazione leggera di amaro e piccante
Abbinamenti: a crudo, per verdure fresche, insalatine selvatiche e bruschette, in cottura su verdure bollite, minestre di legumi e arrosti di pesce
Cenni storici: La coltura dell’olivo fu introdotta nella parte orientale dell’isola a partire dal I millennio A.C. ad opera dei Fenici e successivamente dai Greci che
colonizzarono Katane (Catania) nel 750 A.C. La presenza dell’Etna, le cui frequenti manifestazioni effusive ed eruttive erano ben conosciute già nel mondo antico,
alimenta il mito da cui ci giungono suggestive informazioni circa la coltura dell’olivo in questa zona. Omero, con la sua Odissea, è certamente la fonte più celebre. Il
ciclope Polifemo, personificazione dell’Etna, viene accecato da Ulisse e dai suoi compagni con un tronco di olivo appuntito. Già a partire dal III secolo a.C. i romani
gravarono l’olio siciliano di pesanti tributi, così da scongiurare la concorrenza alle produzioni campane e laziali. In seguito, gli arabi, durante il loro dominio in Sicilia, diedero un nuovo impulso alla coltivazione degli ulivi razionalizzando le colture.
Testimonianza dell’importanza della produzione oleicola etnea si trovano già nell’opera di Pietro Bembo ‘De Aetna’, nella quale riporta la bontà ed i pregi della coltura dell’olivo attorno all’Etna. Successivamente il naturalista Lazzaro Spallanzani, gli scrittori A.Stoppani, W.Goethe, Guy de Maupassant, Tocqueville e tanti altri,
sono stati testimoni entusiasti della produzione locale. L’olio di oliva dell’Etna per tutto l’800 e i primi del ‘900 è stato un prodotto conosciuto ed apprezzato da molti
consumatori italiani ed europei; infatti, dal porto di Riposto, ingenti quantitativi di olio partivano alla volta dei mercati nazionali ed esteri
Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Regolamento Ce n. 1491/03 della commissione del 28/08/2003 pubblicato sulla Guce L 214/6 del 26/08/2003
DOP Valdemone
Area di produzione: Comprende l’intero territorio provinciale messinese con esclusione dei rilievi montuosi dei Peloritani e dei Nebrodi. La coltura è presente soprattutto
negli ambienti collinari prospicienti alla fascia costiera ed in misura minore nella bassa collina e lungo le vallate che costeggiano le tipiche fiumare messinesi.
Materia prima: L’olio extravergine Valdemone Dop è ottenuto con varietà di olivo Santagatese, Ogliarola Messinese e Minuta, sole o congiuntamente fino ad un
massimo del 70%. Per la restante percentuale possono concorrere le cultivar di Mandanici, Nocellara Messinese, Ottobratica, Brandofino e Verdello
Tecnologia di lavorazione: Accanto al sistema di raccolta meccanica, esiste quello tradizionale con bacchiatura e reti. Per quanto riguarda il sistema di estrazione,
ancora molto diffuso è quello tradizionale con molazze e presse e separazione a freddo
Caratteristiche:
colore: giallo oliva dorato, limpido o con una leggera velatura
odore: più o meno intenso di fruttato, di oliva appena colta, seguito da sentori di erbe
sapore: fresche con un leggero retrogusto di mandorla, frutta fresca, pomodoro e cardo
L’olio ha un aspetto limpido o leggermente velato, un colore giallo oliva dorato, mediamente fruttato e dal sapore dolce
Note: Storicamente con il termine Valdemone si identificava un’antica zona della Sicilia nord orientale che dal medioevo fino al 1812
era denominata ‘Vallis Nemorum’ per la prosperità forestale del territorio. L’olivo, insieme alla vite il mandorlo e il carrubo, può essere
considerata una pianta endemica della Sicilia. Tale coltura introdotta inizialmente dai Fenici ed espansa prima dai Greci nel 500 A.C.
e successivamente dai Romani, prosperò nel territorio molto rapidamente e trovò un florido mercato. Nell’epoca feudale si contavano
già nel solo territorio del comune di Samperi ben 8 trappeti (frantoi). Le varietà di ulivo che concorrono alla produzione di questo extravergine non possono prescindere dal territorio collinare messinese con tutte le sue peculiarità del suolo e climatiche. Diverse varietà di cultivar hanno preso il nome della zona di maggior diffusione, in particolare la varietà Santagatese dal cumune di Sant’Agata
Militello, la Ogliarola messinese diffusa nei comuni di Messina, la Minuta, anche detta l’oliva più piccola del mondo, nella zona fiumare di Naso.
Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Riconoscimento ottenuto con Registrazione Europea con regolamento CE 205/2005 pubblicato
sulla G.u.U.e. L 33/6 del 05.02.2005.
Extravergine Niceto
Luogo di Produzione: S. Pier Niceto
Province di Produzione: Messina
Sapore: leggero
Odore-profumo: fruttato
Colore: verde giallo
Caratteristiche: Il “NICETO”, dal sapore leggero ed armonico e dall’intenso profumo fruttato di olive verdi appena raccolte e monite, si presenta di colore verde
giallo, leggermente velato perchè non filtrato ma fatto decantare naturalmente.
Produzione: Le olive coltivate solo con metodi tradizionali( solo concimi organici), sono raccolte esclusivamente a mano, nel periodo compreso tra ottobre e dicembre, poco mature per dare maggiore risalto ai peculiari sapori e profumi propri di ciascuna varietà. Queste vengono riposte in ceste ben areate e molite nella stessa
giornata a freddo, al fine di mantenere intatte le caratteristiche organolettiche del prodotto. L’olio viene commercializzato con il marchio “NICETO”.
Extravergine Fior d’ulivo
Luogo di Produzione: Provincia messinese
Province di Produzione: Messina
Sapore: Dolce, olive appena molite
Odore-profumo: Fruttato di oliva verde
Colore: verde
Caratteristiche:
Produzione: Viene prodotto su colline medio alte.Sistema di estrazione: sistema tradizionale e a ciclo continuo.
Extravergine Rometta
Luogo di Produzione: Rometta
Province di Produzione: Messina
Sapore: antico
Odore-profumo: fruttato
Colore: giallo oro/ verde
Caratteristiche:
Produzione: Viene prodotto con un sistema di raccolta manuale. Le olive sono selezionate e raccolte per poi essere trasferite all’impianto di molitura..
La molitura viene effettuata avvalendosi di un impianto a ciclo continuo, attraverso l’unica frangitura con rulli di granito, l’estrazione del miglior olio extravergine di
oliva. L’estrazione dell’olio è ottenuta a freddo.
Extravergine di Noto
Luogo di Produzione: Castel di Tusa
Province di Produzione: Messina
Sapore: delicato
Odore-profumo: fruttato
Colore: verdino chiaro
Caratteristiche: L’olio di oliva extra vergine “Di Noto”, proviene dalla fertile e rigogliosa terra di Sicilia, particolarmente rinomata nel bacino del Mediterraneo per la
sua antica vocazione olivicola. Le olive utilizzate per produrre quest’olio non subiscono alcuna manipolazione chimica.
Facilmente digeribile e dall’inconfondibile aroma di fruttato
Produzione:
Note: Tra gli acidi grassi monoinsaturi, l’acido oleico svolge un ruolo di enorme valore biologico essendo uno dei costituenti essenziali
di importanti strutture delle cellule del nostro organismo.
Formaggi
I DOP e i Tradizionali
Definirei territori e le relative produzioni casearie non è semplice perché in Sicilia, ogni zona ha i suoi formaggi, e le varianti, i gesti tipici, i comportamenti individuali
di lavorazione, i tipi di confezzionamento particolari, vengono tramandati gelosamente nel tempo ma, in tutti, troviamo una sorta di sacralità alla sua partecipazione
ed esecuzione.
In questo contesto il prodotto caseario diventa, un retaggio ed una tradizione che si consolida, si affina, si specializza e si propone come momento di cultura,
rispetto dell’ambiente e della natura, un modo di vita, nel quale l’uomo fortemente rispettoso, è consapevole di non dover forzare la mano ad un ambiente che gli
consente, seppur con grande fatica, di cogliere il “frutto” del proprio lavoro (è così che chiamano il formaggio i nostri casari: “u fruttu”).
Il denominatore comune è comunque il rispetto della tipicità, della tradizione e della qualità, che ha portato a definire il riconoscimento Dop per due specifici formaggi: il Ragusano e il Pecorino Siciliano. Per altri ventiquattro, considerati formaggi storici come il Caciocavallo palermitano, la Vastedda della Valle del Belice, il
Piacentinu Ennese ed il Maiorchino, la Regione Siciliana ha riconosciuto ( con relativa pubblicazione sulla Gazz. Uff.) la denominazione di prodotto tradizionale.
Questi formaggi infatti, prodotti con processi antichi e con attrezzature tradizionali (la maggior parte dei produttori sono ancora a carattere rigorosamente artigianale), condensano la fertilità della terra, la fragranza degli incontaminati pascoli ricchi di essenze foraggere spontanee, la qualità del prezioso latte prodotto dalle
generose razze autoctone, la tradizione e l’esperienza di sapienti casari.
DOP
Pecorino Siciliano
Legislazione: Il pecorino siciliano è stato riconosciuto a denominazione di origine con il D.P.R. n. 1269 del 30 ottobre 1955. Nel 1996 ha ricevuto la
denominazione di origine protetta, Regolamento CEE n. 1107 del 12 giugno 1996.
Attrezzature storiche: Tina di legno, rotula di legno, cisca di legno, tavoliere di legno, canestri di giunco “fascedde”, caldaia di rame stagnato. Fuoco
diretto legna-gas.
Locali di stagionatura: Sono dei locali freschi dove le forme vengono sistemate su degli scaffali di legno singolarmente o disposte in coppia l’una sull’altra. Si riscontrano inoltre cantine e grotte con pareti geologicamente naturali.
Brevi cenni storici: E’ forse il più antico formaggio prodotto in Sicilia, le citazioni storiche risalgono al IX sec. a.C. in uno dei passi più famosi dell’odissea di Omero, quando Ulisse incontra Polifemo. In seguito anche Aristotele e Plinio si soffermano sul procedimento di trasformazione di tale formaggio
esaltandone il gusto unico. In particolare Plinio nella sua opera “Naturalis Historia” redige una carta dei formaggi nella quale vengono citati tra i migliori
pecorini quelli provenienti da Agrigento.
Tipologia: Formaggio a pasta dura, semicotta.
Area di produzione: L’intero territorio siciliano.
Linee principali tecnologia di produzione:
- specie/razza: Pecora;
- materia prima: Latte intero, crudo;
- microflora: Naturale;
- caglio: Pasta di agnello;
- sistema di alim. preval.: Pascolo naturale e coltivato con integrazione di foraggi e concentrati in stalla in quantità variabile rispetto alla stagione foraggera;
Il pecorino siciliano viene ancora prodotto con tecniche tradizionali. Il latte coagula in una tina di legno a 34-35°C con caglio in pasta di agnello in circa
45’. La cagliata viene fatta spurgare con le mani dopo essere stata posta in canestri di giunco “fascedde” che lasciano sulla superficie una particolare
modellatura; viene quindi scottata per circa 4 ore con scotta calda, posta su un tavoliere di legno ed il giorno dopo viene salata;
- salatura: Il giorno successivo alla produzione viene praticata a mano la salatura a secco sull’intera superficie della forma, ripetendo l’operazione per
due volte a distanza di circa 10 giorni l’una dall’altra, lavando poi con salamoia quando si osservano fenomeni di asciugatura;
- stagionatura: La stagionatura avviene ad una temperatura di 12-16°C e con il 70-80% di UR per un periodo di almeno 4 mesi.
Caratteristiche del prodotto: La forma è cilindrica a facce piane o lievemente concave; la crosta è bianca-giallognola, con la superficie rugosa per la
modellatura lasciata dal canestro e viene cappata con olio; la pasta è compatta, bianca o paglierina con occhiatura scarsa. Il sapore è piccante. Pesa
4-12 Kg. con uno scalzo di 10-18 cm.
Riferimenti storici:
- Plinio il Vecchio: “Naturalis Historia” (libro 11°).
- Pietro dè Crescenzi: “Liber ruralium commodorum”, 1294.
- Omero: “Odissea” (libro 9°), X-IX sec. a.C., Onorato Castellino - Vincenzo Peloso, Officine Grafiche, 1950.
- Virgilio: “Bucoliche e Georgiche” (Egloga V e libro 3°), 37-30 a.C. 42-39 a.C., Lorenzo Giudice, 1954.
- Campisi Carmelo. “Pecore e Pecorino della Sicilia”, Francesco Battiato. Editore, Catania, 1933.
- Associazione regionale allevatori “ I formaggi tipici di Sicilia”. Palermo, 1986.
- Vizzardi-Maffeis “Formaggi italiani”, Edizioni Agricole, 1990.
- Istituto nazionale sociologia rurale: “Atlante dei prodotti tipici: I formaggi”, Franco Angeli, Milano, 1990.
- Ministero agricoltura e foreste: “I formaggi DOC italiani” edito da UNALAT in collaborazione con l’INSOR, Franco Angeli, Milano, 1992.
- CNR: “I prodotti caseari del Mezzogiorno”, 1992.
Formaggi Tradizionali
Canestrato
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte vaccino e a volte di pecora e/o capra.
Caglio in pasta di agnello e/o di capra.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
L’intero territorio siciliano.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Il Canestrato viene ancora prodotto con tecniche tradizionali utilizzando antichi utensili. Il latte coagula in una tina di legno a 35°C con caglio in pasta di agnello. La
cagliata viene fatta spurgare con le mani dopo essere stata posta in canestri di giunco “fascere” che lasciano sulla superficie del formaggio una particolare modellatura. All’atto dell’incanestratura può essere aggiunto pepe nero in grani o fiocchi di peperoncino. La cagliata viene scottata con la scotta a circa 80°C. e posta su
dei tavolieri di legno. Il giorno dopo viene salata.
Dopo la fase di spurgo e di acidificazione il formaggio viene estratto viene estratto dai canestri e salato a secco con sale marino fino, avendo cura di creare sulla
forma uno strato di sale compatto. La quantità di sale varia in funzione delle caratteristiche del prodotto e non è facilmente quantificabile.
MATERIALI ED ATTREZZATURE (preparazione, condizionamento, imballaggio)
Tina di legno, caldaia di rame stagnato, spino o rotella di legno, cisca di legno, canestri di giunco “fascedde”, tavoliere di legno. Fuoco diretto legna- gas.
LOCALI (lavorazione, conservazione, stagionatura)
Si riscontrano anche cantine e grotte naturali con pareti geologicamente naturali.
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
Il tipico formaggio canestrato detto anche “vacchino” viene citato in contratti di gabella sin dal 1400 come uno dei prodotti da consegnare annualmente al gabellotto
come prezzo d’affitto del latifondo. Anche questo formaggio compare nel 1407 nel calmiere dei latticini come “tumazza”. Il Trasselli lo riscontra ancora in un calmiere del 1412 alla voca “cacio vacchino” da vendere ad una quotazione inferiore “4vs5% grani di rotolo “rispetto al caciocavallo palermitano. Viene ancora citato nella
dieta delle monache di San Castrense del 15622.
Formaggio di capra
TIPOLOGIA
Lattiero- caseario
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Formaggiu ri capra
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte caprino intero,crudo.
Caglio in pasta di capretto, a volte di agnello
CARATTERISTICHE
Formaggio a pasta dura , cruda.
La forma è cilindrica a facce piane o lievemente concave; la crosta è bianca- giallognola, con la superficie rugosa per la modellatura lasciata dal canestro e viene
cappata con l’olio;
La pasta è compatta, bianca o paglierina con occhiatura scarsa.
Il sapore è piccante.
Peso di circa 3 kg.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
L’intero territorio siciliano
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Il formaggio di capra siciliano viene ancora prodotto con tecniche tradizionali. Il latte coagula in una tina di legno a 34-35çC con caglio in pasta di capretto e/o di
agnello in circa 45 minuti. La cagliata viene fatta spurgare con le mani dopo essere stata posta in canestri di giunco “fascedde” che lasciano sulla superficie una
particolare modellatura. All’atto dell’incanestratura può essere aggiunto pepe nero in grani o fiocchi di peperoncino, viene quindi scottata per circa 4 ore con scotta
calda, posta su un tavoliere di legno ad asciugare.
MATERIALI ED ATTREZZATURE (preparazione, condizionamento, imballaggio)
Tina di legno, rotula di legno, cisca di legno, tavoliere di legno, canestri di giunco “fascedde”, caldaia di rame stagnato. Fuoco diretti legna-gas.
LOCALI (lavorazione, conservazione, stagionatura)
Sono dei locali asciutti e freschi dove le forme vengono sistemate negli scaffali di legno singolarmente o disposte in coppia l’una sull’altra. Si riscontrano inoltre
cantine e grotte.
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
Le origini di questo formaggio risalgono al XI secolo a.C. Omero parla di una bevanda a base formaggio caprino grattato. Anche Aristotele nel IV secolo a.C. si
sofferma sulle tradizioni casearie siciliane esaltando il gusto del latte caprino mescolata con il latte vaccino o di pecora. Nel periodo romano, II secolo a.C., Varrone
pone l’accento sulle qualità nutrienti del latte di capra o dei formaggi caprini. Un accenno alla bontà del formaggio caprino appare nel “Corso compiuto di agricoltura teorica pratica ed economica” dell’abate Rozier intorno al XVIII secolo.
Formaggio di capra siciliano
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Padduni
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte caprino intero, crudo.
Caglio in pasta di Agnello e/o di capretto
CARATTERISTICHE
Ha una forma a palla, con peso di circa 300 g., viene consumato fresco.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
L’intero territorio siciliano.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Il Padduni si differenzia dal “Formaggiu ri Capra” per la forma (Palla vs cilindrica), per il peso (300g. vs 3 kg.), per la salatura e soprattutto per la stagionatura
(fresco vs 3 mesi). Il latte coagula in una tina di legno a circa 35çC con caglio in pasta di agnello e/o capretto in circa 45 minuti. è possibile l’aggiunta di pepe nero
in grani o fiocchi di peperoncino. La cagliata viene fatta spurgare in un recipiente di legno molto particolare, “cisca”, viene quindi scottata con scotta calda, formata
e salata;
La salatura avviene a secco sullìintera superficie della forma.
MATERIALI ED ATTREZZATURE (preparazione, condizionamento, imballaggio)
Tina di legno, bastone di legno “rotula”, cisca di legno, tavoliere di legno, canestri di giunco “fascedde”, caldaia di rame stagnato. Fuoco diretto legna- gas.
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
Le origini di questo formaggio risalgono al XI secolo a.C. Omero parla di una bevanda a base di formaggio caprino grattato. Anche Aristotele, nel IV secolo a.C. si
sofferma sulle tradizioni casearie siciliane esaltando il gusto del latte caprino mescolato con il latte vaccino o di pecora. Nel periodo Romano, II secolo a.C., Varrone pone l’accento sulle qualità nutrienti del latte di capra o dei formaggi di caprini. Un accenno alla bontà del formaggio di capra appare nel “Corso compiuto di
agricoltura teorica, pratica ed economica” dell’abate Rozier intorno al XVIII secolo. :
Primusali
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte di pecora ma talvolta anche vaccino o addirittura misto
CARATTERISTICHE
Dimensioni e peso come per il “Canestrato”; forma: a ruota; crosta: molle e rugosa; pasta: morbida; colore: bianco.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutte le zone del pecorino. In particolare S. Venerina (SR), Lentini (CT), Novara di Sicilia (ME), Cesarò (ME), Piana di Catania e paesi etnei, paesi dei Nebrodi,
Nicosia e paesi vicini (EN), Cammarata (AG).
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Si porta il latte crudo a temperatura di coagulazione aggiungendovi caglio. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata, si cuoce con acqua o siero caldo. Dopo
queste operazioni, la massa viene lasciata spurgare per 1-3 giorni (a seconda del peso). La salatura si effettua a secco, sulla forma, aggiungendovi anche pepe
nero intero o frantumato. Resa 11-12% (a latte vaccino) o 25% (a latte ovino).
Stagionatura: 7-15 giorni circa.
Prodotto di largo consumo è un tipico formaggio da tavola dal sapore estremamente gradevole. Di fatto è una fase intermedia della
produzione del “tumazzu” o “pecorino” o “canestrato”.
Provola (del tipo Capizzi)
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte intero.
Alimentazione: ad erba.
CARATTERISTICHE
Altezza: cm 25; diametro: cm 20; peso: Kg 1,5; forma: a pera, di dimensioni variabili; crosta: liscia e sottile; pasta: a “sfoglia”; colore: paglierino.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Capizzi (ME), Cerami (EN), Nicosia (EN) e zone limitrofe.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Si porta il latte crudo a 45 gradi, aggiungendovi caglio di agnello o capretto. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata (a dimensione di una nocciolina) si
comprime, si lascia inacidire per 12 ore (con immissione di acqua a 70 gradi). Dopo queste operazioni, la massa viene filata e modellata manualmente, fino ad ottenimento della forma caratteristica. La salatura si effettua per bagno in salamoia per 24 ore. Matura in circa 3 giorni, in ambiente fresco e ventilato. Resa 13-14%.
Stagionatura: facoltativa, fino a 6-10 mesi circa, in ambiente fresco ed areato.
In qualche caso questa provola è chiamata anche caciocavallo (da non confondere con quello ragusano che ha altre caratteristiche).
Provola Siciliana
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte vaccino intero e crudo.
Caglio in pasta di agnello e/o di capretto
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
L’intero territorio siciliano
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
La provola siciliana viene prodotta con tecniche tradizionali. Il latte coagula in una tina di legno a 34-37°C con l’aggiunta del caglio. La cagliata dopo la cottura è
posta a maturare e spurgare per circa 3-4 ore su tavolieri di legno. La filatura è manuale e le provole vengono modellate a mano nella tipica forma affusolata a
pera con testina;
La salatura avviene in salamoia per un tempo variabile da 4 a 6 ore circa in rapporto alla pezzatura.
MATERIALI ED ATTREZZATURE (preparazione, condizionamento, imballaggio)
Tina di legno, bastone di legno “rotula”, contenitore di legno “mastredda”, piccolo tino di legno o di rame stagnato per filare “staccio”, bastone di legno “manovella”.
Fuoco diretto legna-gas
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
-Uccello Antonino: “Bovari, Pecorari, Curatulli”. Cultura casearia in Sicilia, Stass, Palermo,1980.
-CNR: “I prodotti caseari del Mezzogiorno”, 1992.
Provula (del tipo Casale o Floresta)
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Detta anche pruovola
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte intero. Eccelle quello ottenuto da bestiame con alimentazione al pascolo.
CARATTERISTICHE
Altezza: cm 25; diametro: cm 20; peso: Kg 1,5; forma: a pera; crosta: liscia e sottile; pasta: a “sfoglia”, consistente ma non dura; colore: paglierino.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Floresta (Me), Montalbano Elicona (Me), Tortorici (Me), Basicò (Me), S.Domenica Vittoria (Me), ed aree limitrofe.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Al latte appena munto (a 36 gradi circa) si aggiunge il caglio di capretto o agnello. Coagula in circa un’ora. Dopo la rottura della cagliata si mette in un canestro di
giunco per circa un’ora. Si cuoce poi con siero caldo e si lascia quindi raffreddare. Dopo queste operazioni, la massa viene pressata su un piano di legno, coperta
da un panno, per 3-4 ore. Quindi si taglia a strisce e Si fa asciugare per circa 2 ore. Poi si affetta ancora e si ributta il tutto nel siero caldo (80 gradi) ove la Pasta
viene filata. La salatura si effettua per bagno in salamoia durante 24-48 ore. Matura in circa 3 giorni, in ambiente fresco e ventilato, dove le forme vengono appese
ad asciugare, legate con uno Spago. Resa 8-9% (in primavera).
Stagionatura: facoltativa, da 6 mesi fino ad un anno circa.
È d’uso nella zona di Floresta (ma solo per consumo familiare) mettere bnell’anima della provola un limone verdello. Conferirà al prodotto stagionato il caratteristico profumo dell’agrume (Pruovula cca lumia). In altri casi, ed anche in altre zone (ragusano), all’interno
della forma può trovarsi una noce di burro (Pruovula ccu burru). Inoltre, con lo stesso impasto della provola vengono foggiati cavalli
(cavadduzzi), colombe (palummeddi), uccelli o pupazzi da consumarsi freschi per turisti di passaggio
Ricotta frisca di piecura
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Siero di latte di pecora, con aggiunta di latte
CARATTERISTICHE
Altezza: cm 30 circa; diametro: cm 20; peso: Kg 1,5: crosta: assente; pasta: cremosa; colore: bianco.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Zone del pecorino. Particolarmente pregiate le produzioni di S. Fratello (ME), Vizzini (CT), Monterosso Almo (RG), Roccella Valdemone (ME), Pollina (PA), Piana di
Catania e paesi etnei, Troina (EN), Ragusa, Bivona (AG), Palazzo Adriano (PA), Raffadali (AG).
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Si porta il siero, cui viene aggiunto del latte, a 85-90 gradi, mescolando continuamente (preferibilmente con un bastone di “ferla” ). Dopo l’affioramento del coagulo, si aggiunge acqua fresca con immersi dei rametti di fico appena colti, si raccoglie e si mette nelle apposite forme a spurgare. La salatura si effettua talvolta (in
provincia di Catania in particolare).
Stagionatura: non si effettua, si consuma fresca.
MATERIALI ED ATTREZZATURE (preparazione, condizionamento, imballaggio)
Acquisizione dati in corso
LOCALI (lavorazione, conservazione, stagionatura)
Acquisizione dati in corso
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
Gallo “Le venti giornate dell’agricoltura e dei piaceri della villa”, IV sec. d.C..
Prodotto di larghissimo consumo, soprattutto nella pasticceria ma anche nella cucina tipica siciliana. Conosce una molteplicità di varianti: 1) ricotta ccu sieru,
consumata ancora calda mista al siero come una zuppa (piatto di rara bontà ottenibile solo in azienda); 2) ricotta salata, stagionata per la grattugia per almeno tre
mesi in ambienti arieggiati del catanese e del palermitano; 3) ricotta infurnata, immessa nel forno caldo fino a formare una crosta di colore bruno: talvolta previa
stagionatura e salatura, ma quasi sempre fresca; 4) ricotta sicca, asciugata al sole e ritirata in casa al tramonto fin quando la pasta si presenterà ben soda. Di tutte
queste varianti - come della stessa ricotta frisca di vacca- non sono stimabili la produzione e il valore. La ricotta salata spunta prezzi di oltre 5.000 lire al chilogrammo.
Ricotta infornata
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Siero di latte vaccino, ovino, caprino
CARATTERISTICHE
Crosta: sottile, di colore bruno- rossastro
Pasta: cremosa, di colore bianco- avorio
Facce: lisce, con un diametro di 10-12cm
Peso: variabile
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la regione
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Il siero di latte vaccino, ovino, caprino, in purezza o misto, viene addizionato di sale marino o di agra(scotta acidificata) e riscaldato a 90 gradi. Una volta affiorata
la ricotta, eliminata la schiuma superficiale, la si raccoglie nelle fiscelle che verranno poste in un tavolo inclinato. Dopo uno o due giorni di spurgo le ricotte vanno
in un contenitore di ceramica imburrato ed eventualmente cosparso di pepe nero macinato e successivamente in un forno di pietra a 180-200 gradi per circa 30
minuti. Quando si forma una sottile pellicola di colore bruno-rossastro, la ricotta viene estratta e collocata su di un piatto a riposare per un giorno
MATERIALI ED ATTREZZATURE (preparazione, condizionamento, imballaggio)
Caldaia di rame stagnato “quarara, bastone di legno “zubbu” , contenitore di legno “tinieddu di l’agru” o “serratizzu”, fiscelle d giunco o di canne, cucchiaio in legno
“scumaricotta”, mestolo, tavolo spersore, forno di pietra, contenitori in ceramica. Fuoco diretto legna-gas.
Tuma
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte intero di pecora (qualche volta di vacca o misto). Eccelle quello esclusivo di pecora.
CARATTERISTICHE
vedasi tumazzu di piecura.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
La stessa del tumazzu o canestratu. Particolarmente pregiate le produzioni di Bivona (AG), Piana di Catania, Troina (EN), Tripi (PA), S. Venerina (CT), S. Piero
Patti (ME), S.Croce Camerina (RG).
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Vedasi tumazzu di piecura ma la lavorazione è interrotta subito dopo la cagliatura, prima dell’aggiunta del sale. Matura in circa due giorni, in ambiente fresco e
ventilato.
Tumazzu di piecura
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
O picurinu, o canistratu, o formaggiu di Piecura, o maiorchino, ecc.
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Latte di pecora (ma in taluni casi e periodi anche misto con latte vaccino). Eccelle quello esclusivo di razza “montagnola moscata”.
Alimentazione: prevalentemente a veccia.
CARATTERISTICHE
Altezza: cm 10-20; diametro: cm 30 (in media); peso: Kg 4-20; crosta: ruvida, segmentata, colore bianco sporco; pasta: compatta.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Molte zone siciliane. Degne di menzione: provincia di Enna (Nicosia, Troina, Cerami, Piazza Armerina); Lentini (SR); Gratteri (PA); S. Fratello (ME); Mistretta (ME);
Bompensiere (CL); Militello Rosmarino (ME); Gangi (PA); Bronte (CT); Novara di Sicilia (ME); Salemi (TP); Tripi (ME).
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Si porta il latte crudo, spesso appena munto, a 35 gradi, aggiungendovi “u quacchiu” (caglio di capretto o agnello, ricavato in proprio) sciolto in un poco di latte.
Dopo la coagulazione, la massa viene spurgata, messa nelle forme ed infine immessa in siero bollente per 1-3 ore, a seconda del peso delle forme. La salatura
si effettua dopo circa 3-8 giorni, anche a seconda della stagione, con bagnature di acqua e sale per un mese e mezzo. Matura in 45 giorni, in ambiente fresco e
ventilato.
Stagionatura: da 3-8 fino a 12-18 mesi circa, in ambiente fresco e buio. Durante questo periodo, le forme vengono girate ogni 4-6 giorni e passate con uno straccio
umido. Periodicamente vengono unte con olio (talvolta misto ad aceto).
Il processo di lavorazione di questo tipo di pecorino è pressappoco identico o varia di poco da zona a zona. A dare un diverso sapore
è il diverso grado di grasso presente nel latte, l’alimentazione degli animali o la differente stagionatura. Esiste una notevole sovrapposizione di nomi, che non di rado disorientano ricercatori e consumatori, ma il prodotto è sostanzialmente identico anche se il gusto
e la forma dipendono e variano da caso a caso. Il nome Canestrato deriva dal canestro in cui il formaggio viene fatto maturare e che
conferisce alla crosta una particolare forma rugosa. Nel dialetto stretto siciliano permane l’uso di chiamarlo tumazza (soprattutto nelle
aree interne); il dialetto siciliano “moderno” preferisce l’uso di picurinu, canestratu, ‘ncanestratu.
Carne e derivati
Salame Sant’Angelo Igp
Il Salame Sant’Angelo nasce probabilmente intorno all’XI secolo, come conseguenza della colonizzazione da parte dei normanni che introdussero nuove abitudini
alimentari. A Sant’Angelo di Brolo, comune dei Nebrodi, situato in provincia di Messina, la produzione del Salame Sant’Angelo inizia alla fine del secolo XI. I Normanni, infatti, a conferma della sopraggiunta libertà dall’oppressione araba, testimoniata dai nuovi costumi dietetici in contrapposizione a quelli degli arabi, la cui
religione musulmana vietava l’uso di carne di maiale, introdussero le carni suine nell’uso culinario. La produzione del Salame si perfezionò nel tempo, mantenendo
però sempre la stessa maestria e scrupolosità dei suoi componenti e metodi di lavorazione.
Come si consuma
Il Salame Brianza si accompagna bene con i kiwi, mele e i melograni, ma anche, per sapori più decisi, con la pasta d’olive nere o verdi. Tagliato a tocchetti, invece, diventa l’ingrediente base per ricche insalate, magari con funghi freschi e lattuga. O ancora, tagliato a fettine e servito assieme a formaggi freschi o stagionati,
diventa un ottimo secondo piatto.
Come si riconosce
Sull’etichetta viene riportata la dicitura Salame S. Angelo, l’indicazione della “Denominazione geografica protetta” e il logo autorizzato dal consorzio di tutela. Il prodotto è anche contrassegnato da un sigillo in alluminio o altro metallo, a chiusura inviolabile con impressa la dicitura del consorzio e la data di produzione espressa
in mese e anno.
Carta di Identità
Tipologia
Insacato unigrana di carne suina.
Descrizione
Il Salame S. Angelo Igp, viene prodotto esclusivamente con carni suine e confezionato in budella naturali di suino. Le materie prime utilizzate per la produzione del
Salame Sant’Angelo sono costituite da carni fresche provenienti da suini di razze selezionate, che assicurano l’alta qualità del Salame. Sono infatti ammessi soltanto animali in purezza o derivati, delle razze tradizionali di base Large White, Landrace, Duroc, oppure animali derivati da incroci fra le suddette razze ed incroci
fra le stesse con popolazioni suine autoctone.
Caratteristiche
La superficie esterna è cilindrica ed irregolare e presenta la classica fioritura, uno strato biancastro, tipica degli insaccati stagionati. La consistenza è tenera e
compatta. La fetta si presenta compatta ed omogenea, con il grasso e la parte magra ben legati. Il colore delle parti magre è di colore rosso rubino ed il grasso di
colore bianco. Il profumo è delicato e caratteristico. Il sapore è leggermente speziato, con aroma fragrante.
Zona di produzione
La produzione del Salame S. Angelo Igp, avviene solo nel territorio del comune di Sant’Angelo di Brolo, in provincia di Messina.
Presenza sul mercato
Tutto l’anno.
Riferimenti normativi
Il marchio Igp è stato iscritto con regolamento Ce n. 944 del 25 settembre 2008 nel Registro comunitario.
Come si conserva
Come tutti i salumi, va affettato e mangiato entro breve tempo, per evitare che perda in freschezza. È meglio quindi comprarne solo la quantità di immediato consumo e conservarlo in frigorifero. Se già affettato, va avvolto in carta argentata o mantenuto nelle vaschette sigillate in cui spesso viene confezionato.
Come si produce
La produzione del Salame S. Angelo Igp comprende le seguenti fasi: preparazione delle componenti carnee; macinatura; impastatura; insaccamento; asciugamento; stagionatura. La stagionatura del prodotto, variabile in funzione della pezzatura, delle caratteristiche chimico-fisiche e merceologiche, avviene in ampie sale
adeguatamente aerate e separate tra loro, ove gli insaccati s’inebriano con i profumi della fresca vegetazione circostante.
Packaging
Il prodotto viene commercializzato intero ovvero confezionato sottovuoto o in atmosfera modificata, o sfuso: in tranci o affettato.
Ortofrutticoli
Limone Interdonato di Messina IGP
La storia
La storia del limone Interdonato è molto curiosa. Tutto incominciò quando il colonnello garibaldino Giovanni Interdonato era prossimo alla pensione. Questo personaggio storico che soffrì la persecuzione politica, combatté a fianco dei patrioti di Garibaldi e governò per conto dei Savoia su buona parte del messinese, passò
alla storia, piuttosto che per le sue gesta rivoluzionarie, per aver inventato una particolare varietà di limone. Interdonato, appassionato di agrumicoltura, creò un
incrocio tra il cedro e l’ariddaru, un limone locale, sezionò una gemma di ognuno dei due agrumi, le unì longitudinalmente e le innestò su portinnesti di arancio
amaro. Il risultato di questo esperimento fu un limone di dimensioni medio-grandi, molto simile al cedro, di sapore delicato e poco acidulo, con una buccia a grana
finissima, insolita nei limoni siciliani. Anche la scorza è buona, dolce, per niente amara.
Il successo di questo nuovo limone dilagò in poco tempo e ben presto tutta la costiera ionica del messinese si ricoprirono di limoneti.
La zona di produzione
La zona di produzione del Limone Interdonato di Messina IGP è esclusiva di alcuni comuni in provincia di Messina, in Sicilia.
Le caratteristiche
Il Limone Interdonato di Messina appartiene alla varietà locale Interdonato ricavata dall’incrocio tra limone e cedro. Il frutto presenta pezzatura compresa tra 80 e
350 g, forma ellittica con apice pronunciato all’estremità. Il colore è verde opaco ad inizio della maturazione e diventa giallo con il procedere della stessa, ad eccezione delle estremità che rimangono di colore verde. La polpa è di colore giallo, con tessitura media, semi pochi o del tutto assenti. Il succo è di colore giallo citrino,
con resa non inferiore al 25%, l’acidità totale è inferiore a 50 g/l, grado Brix non inferiore a 6,2. Le categorie commerciali del Limone Interdonato di Messina sono la
extra o la prima.
Come si distingue
Il prodotto si riconosce per la presenza in etichetta dell’indicazione Limone Interdonato di Messina seguita dalla menzione IGP, del logo della denominazione. Nel
logo è riportata all’interno l’effigie del colonnello Interdonato selezionatore di questa varietà, mentre sullo sfondo si ravvisano il mare, la Sicilia e la scritta “Messina”. In primo piano vi è un’immagine del prodotto. Il limone Interdonato è venduto in contenitori e/o vassoi di legno, plastica o cartone, in sacchi retinati del peso
massimo di 5 kg. Tutte le confezioni sono opportunamente sigillate. In alternativa il prodotto può essere venduto sfuso, purché vi sia un bollino sul singolo frutto.
Dove si acquista
Il prodotto è reperibile principalmente in provincia di Messina ed in particolare nella zona di produzione attraverso la vendita diretta e al dettaglio.
Denominazione registrata l’11 novembre 2009.
I Prodotti Tradizionali
Sono prodotti le cui caratteristiche e/o metodiche di lavorazione sono improntate a un carattere di tradizionalità.
Spesso si tratta di produzioni con aree di consumo delimitati, ma che, tuttavia, rappresentano una fonte importante di reddito per le aziende produttrici, oltre che la
garanzia di un prezioso quanto delicato rapporto economico con il territorio.
In genere, esse sono inseriti in un contesto caratterizzato da questi elementi:
- accentuata frammentazione produttiva, difficilmente riconducibile a fenomeni associativi;
- notevole variabilità dei processi produttivi e degli esiti finali, tale da compromettere a volte l’omologazione e riconoscibilità dei prodotti;
- diretta e immediata riconducibilità a un’azienda agricola di produzione o ad un piccolo laboratorio artigianale;
- sistema distributivo essenzialmente organizzato su tre canali: vendita diretta negozi locali, ristorazione locale, agriturismo, negozi specializzati (al di fuori della
zona di produzione);
- forte collegamento con attività economiche legate al territorio (turismo, artigianato ecc.);
- stretta connessione con valori culturali tipici del territorio (storia, tradizioni ecc.);
- interessanti contenuti qualitativi e organolettici.
Probabilmente tali produzioni sono destinate a ricevere nel tempo un riconoscimenti di tipo comunitario, tale da valorizzare il legame con il territorio (DOP, IGP) o,
più difficilmente, la specificità di processo (STG). Non è escluso neppure che si pervenga a forme di tutela affidate a istituzioni locali, soprattutto di carattere regionale, intercomunale o comunale.
Fonte: www.agroqualita.it
Pancetta arrotolata dei monti Nebrodi
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Pancia di suini allevati bradi, nei monti Nebrodi, con bacche di faggio e ghiande. Uno o due mesi prima dell’uccisione i suini vengono alimentati con fave e cereali.
Coadiuvanti tecnologici: sale, finocchio selvatico, aglio, origano e aceto per la salamoia. Pepe, peperoncino, aglio, origano per la maturazione e la stagionatura.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Alcara Li Fusi (provincia di Messina), ma ci sono produzioni simili in tutti i paesi dei monti Nebrodi destinate per lo più all’autoconsumo.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
La pancia del maiale viene prima salata, poi messa nella madia con sale e aromi vari, e messa ad asciugare con altri aromi: deve essere molto stretta, affinché
non prenda aria.
Maturazione: una quindicina di giorni in salamoia.
Periodo di stagionatura: tre o quattro mesi in locali areati; si consuma in genere prima dell’estate.
Prosciutto dei monti Nebrodi
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Cosci di suini di razza nera locale o “perugina” allevati bradi con ghiande e bacche di faggio, nei boschi dei monti Nebrodi. Un mese prima dell’uccisione i suini
vengono alimentati con fave e cereali.
Coadiuvanti tecnologici: sale, finocchio selvatico, aglio, origano e aceto per la salamoia. Pepe, peperoncino, aglio, origano per la maturazione e stagionatura.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutti i monti Nebrodi, con poche varianti. Alcuni disossano il prosciutto e al posto dell’osso mettono un pezzo di carne; la cotenna della coscia viene poi ricucita con
una caratteristica forma quadrata.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Il coscio viene salato una prima volta per alcuni giorni, asciugato e messo successivamente in una madia di legno, sotto sale e aromi vari per venti- quaranta giorni. Durante questo periodo viene girato spesso. Viene poi coperto con pepe nero macinato fine, pepe rosso, origano, aglio e messo ad asciugare.
Maturazione: da quindici a quaranta giorni in salamoia.
Periodo di stagionatura: in un locale con tetto di tegole per alcuni mesi; dopo l’inizio del caldo (e delle mosche) in cantina.
Suino nero di Sicilia o dei Nebrodi
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Suino nero
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Carne suina.
CARATTERISTICHE
Carne di suino nero allevato allo stato brado nel sottobosco. La carne si presenta consistente, appetibile, di particolare sapore con marezzatura. Si evidenzia un
accumulo di grasso sottocutaneo maggiormente accentuato nella regione dorsale, del collo, del garrese.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Zone montuose dei Nebrodi, Madonie e Peloritani.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
L’allevamento del suino nero di Sicilia o dei Nebrodi viene effettuato da allevatori affittuari di boschi che, generalmente, hanno un numero di suini commisurato
alla disponibilità territoriale. Questi suini vivono quasi esclusivamente allo stato brado nutrendosi di erbe, radici, tuberi, ghiande, frutti di piante spontanee. Solo in
alcuni periodi dell’anno ed in particolari momenti del ciclo produttivo usufruiscono di qualche integrazione a base di granaglie. La riproduzione avviene in libertà ed
i suinetti nati si alimentano esclusivamente pascolando, acquistando una marcata tendenza all’inselvatichimento. I suini neri hanno uno sviluppo lento ed i pesi ad
un anno di vita si aggirano sui 70-80 kg.
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
Il suino si è da tempo immemorabile insediato nelle aree montane a nord della Sicilia come animale grufolatore antropofilo. Entrò anche a far parte dei riti sacrificali
effettuati in questa regione dai Greci e dai Romani, venendo immolato accanto a buoi e pecore. L’inchiesta Jacini distinse quattro tipi di razze suine: la “Trapanese
(di Trapani), la “Cesarotano” (di Cesaro), quella di Castellobuono e la razza domestica comune, la più diffusa nell’isola. Allevato nell’ambito di un sistema strettamente domestico, l’animale è capace di raggiungere dai 250 ai 300 kg., di cui il 78% di netto. (rapporto di Abele Damiani negli “Atti della Giunta”, Roma, 1885). Il
maiale dei Nebrodi è uno dei sopravvissuti di questa razza, dal colore nero, che rimpiazza sempre più oggi le razze Landrance e Largewite. Allevato sui pascoli e
non in porcilaia, non supera il peso di 70/80 kg.
Il suino nero viene allevato nelle zone montane dei Nebrodi, delle Madonie e dei Peloritani. Per la sua elevata rusticità e resistenza
alle malattie è un instancabile camminatore ed ottimo pascolatore. Non è infrequente la necessità di organizzare battute di caccia con
l’ausilio di cani opportunamente addestrati.
U suppessato
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Carni di prima scelta di suini allevati in libertà nei monti Nebrodi.
Coadiuvanti tecnologici: aglio, origano, sale, aceto, finocchio selvaggio, pepe, peperoncino per la salamoia, pepe nero, pepe rosso, aglio, origano per la stagionatura.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Alcara Li Fusi, in provincia di Messina, ma in genere si produce in tutta la zona dei monti Nebrodi.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Pezzi interi di carne di primissima scelta (sopracoscia o filetto, devono comunque essere pezzi rotondi) vengono messi in salamoia, asciugati, aromatizzati nuovamente, legati ben stretti con uno spago e pressati con stecche di legno e messi ad asciugare.
Maturazione: qualche giorno in luogo caldo e ventilato.
Periodo di stagionatura: tre o quattro mesi in un locale con tetto di tegole. Poi in cantina, all’arrivo dei primi caldi. Circa cinque- sei mesi in tutto.
Pignolata
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Pignulata Missina, Pignoccata, Pignuccata d’a Sdirruminica.
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
270 gr di farina bianca, 7 bianchi d’uovo, 5 tuorli, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaio di brandy, 40 gr di alcol puro, pasta.
CARATTERISTICHE
Dolce con esterno bianco o di cioccolata, di consistenza friabile. La pignolata può pesare da gr. 500 a kg. 1.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Messina.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
La pignolata viene preparata con una pasta particolare: farina bianca, bianchi d’uovo e tuorli mescolati con un cucchiaio di olio ed uno di brandy. Poi si aggiungono
40 gr. di alcol puro, una goccia per volta. La pasta viene poi stesa in lunghe strisce e tagliata in piccoli cubi (o arrotolata in palline di circa 1 cm) poi posti uno per
uno in una teglia unta e cotti al forno ad una temperatura moderata fino a che non siano dorati. Quando si raffreddano, metà dei pezzetti vengono messi in una
glassa semplice e gli altri in una glassa al cioccolato. Le due parti sono poi messe insieme per formare il cono di una pigna a due colori. A Modica c’è l’abitudine di
aggiungere dei cubetti di frutta candita e di coprire il tutto con zucchero leggermente caramellato o con miele e bianco d’uovo
Questo dolce tipico siciliano è limitato alla zona di Messina. Il nome deriva dalla sua forma che ricorda quella di una pigna.
Agnello pasquale
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Pecorella, Picuredda.
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
530 gr. di zucchero, 1 bicchiere d’acqua, 800 gr di mandorle triturate, 100 gr di farina.
CARATTERISTICHE
Dolce a forma di agnello particolarmente dolce, di colore bianco, con una consistenza leggermente granulosa. Le sue dimensioni possono variare dai 10 ai 15 cm.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Pelate, mondate e triturate le mandorle. Sciogliete lo zucchero in mezzo bicchiere d’acqua e non appena inizia a carammellarsi, aggiungete le mandorle e la farina.
Mescolate regolarmente su una fiamma bassa fino a che l’impasto non si attacca al bordo del tegamino. Versatelo negli stampini e decoratelo
L’”Agnus paschalis” è il dolce di Pasqua con la maggiore valenza simbolica e deriva dalla tradizione giudeo-cristiana. Un tempo
l’agnello era parte della tradizionale pasticceria monastica che sfortunatamente si è estinta. Questa specialità viene di solito rappresentata nella classica forma iconografica, con l’agnello accucciato e la bandiera rossa della resurrezione accanto. A Barcellona Pozzo
di Gotto, ogni bambino riceve il suo “picureddu ccù li bannireddi” (l’agnello con la bandiera). Alcuni agnelli sono accuratamente decorati con fiori, ramoscelli d’olivo argentati e bandiere con monogrammi in oro. La tradizione del Convento di S. Carlo di Erice (Trapani)
viene continuata oggi da una piccola pasticceria gestita da due signore che in gioventù erano state novizie dalle suore. Una volta,
questi agnelli dolci venivano essiccati in speciali forni di legno con bracieri di terracotta.
Cannolicchi (Cannoli)
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Cannòlu, Cannòla.
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Per la pasta: farina di grano duro, zucchero, tuorlo e bianco d’uovo nella proporzione di 2 a 1, vino bianco dolce e vaniglia. Per il ripieno: ricotta non salata, pistacchi e cioccolata in scaglie.
CARATTERISTICHE
Un involucro cilindrico di pasta dorata e croccante ripieno di dolce ricotta. Le dimensioni di questo pasticcino variano notevolmente. Nella zona di Palermo vengono
usati degli involucri molto piccoli (circa 5 cm) che vengono chiamati “cannulicchi”, nella Piana degli Albanesi, invece, c’è la tradizione di preparare degli enormi cannoli: più di 20 cm. Il ripieno consiste di ricotta fresca, preferibilmente non salata, e zucchero che vengono setacciati insieme. Talvolta si aggiungono delle scaglie di
cioccolata. Il ripieno viene inserito nelle “scorze” ed il tutto guarnito con pistacchi triturati.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
La pasta è fatta con farina di grano duro, zucchero, tuorlo e bianco d’uovo nella proporzione d 2 a 1 e aromatizzata con vino bianco dolce e vaniglia. La pasta
viene lavorata bene e poi stasa sottilmente e tagliata in quadrati di cm 10 di lato. Ogni quadrato viene poi arrotolato in una canna corta (o cilindro metallico) di circa
2,5 cm di diametro, così che le due estremità che si incontrano possono essere ben unite. Le canne avvolte di pasta vengono fritte in olio fino a che non si dorino,
poi vengono scolate e lasciate freddare. Queste “scorze” possono durare molte settimane. Oggi vengono cotti al forno
Un dolce tradizionale siciliano di Carnevale molto appezzato sia dall’aristocrazia che dalle classi popolari. Perfino dei poemi sono stati
scritti in lode del cannolo. In uno di essi questo dolce è stato definito la “verga di Mosè”. Considerato come un dono gradito, viene
regalato a parenti o ad amici in grandi vassoi da dodici, ventiquattro o più pezzi. Il vassoio che contiene pasticcini può essere fatto
della stessa pasta croccante del cannolo e avere la forma di un turbante; viene allora chiamato “testa di turcu”. Le pieghe della pasta
vengono riempite dello stesso ripieno e al centro viene posta una corona di cannoli. Questo creativo dessert viene servito alla cena di
Carnevale come gran finale. Comunque, di recente sono stati introdotti dei ripieni di crema (semplice o alla cioccolata), decorata con
bucce di arancia candita o ciliegie glassate. L’origine del termine cannolo deriva da “canna”, ossia i tronchetti internodali del “Arudo
donax” sui quali viene avvolta la pasta da friggere.
Cassata siciliana
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Pan di Spagna, 1 kg di ricotta, 300 gr di zucchero, 2 bicchieri di maraschino o altro liquore dolce, 80 gr di cioccolata grattugiata, 100 gr di frutta candita mista.
CARATTERISTICHE
Sostanzioso dolce cremoso di ricotta con scaglie di cioccolata, dalla superficie color verde; misura circa 20 cm.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Adagiate della carta oleata sul fondo e sui bordi di una teglia, copritela con gelatina di albicocche e ricoprite fondo e bordi con uno strato sottile di pan di Spagna.
Preparate il ripieno aggiungendo alla ricotta 300 gr di zucchero, due bicchieri di maraschino (o altro liquore dolce), 80 gr di cioccolata grattugiata e 100 gr di canditi. Riempite il dolce con la crema e livellatela, coprite con un altro strato di pan di Spagna e poi con gelatina di albicocca. Tagliate un cartone e una carta oleata e
sistemate i lati aggiungendo altra gelatina di albicocca. Preparate adesso la glassa con il pistacchio con la quale ricoprite tutto il dolce decorandolo poi con grossi
pezzi di canditi. Lasciate in frigo per un paio d’ore.
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
La cassata è il più celebre tra i dolci tradizionali siciliani di Pasqua. Questa festa veniva un tempo addirittura chiamata “Pasqua di li cassàti”. Oggi la troviamo
in tutte le stagioni. Cassata deriva dall’arabo “quas’st”, usavano la ricotta, addolcita con lo zucchero di canna (importata dagli Arabi). Solo due secoli più tardi si
cominciò ad aggiungere i canditi e la cioccolata, quando gli Spagnoli dominavano l’isola. Un documento del Sinodo di Marzara del Vallo del 1575 testimonia l’antica tradizione della cassata siciliana. Esso afferma che la cassata è un dessert “obbligatorio nelle feste”. Il monastero di Valverde a Palermo era il più famoso per
questa specialità. Successivamente la produzione della cassata divenne severamente proibita in quanto toglieva tempo alla preghiera.
Non esiste una produzione industriale perché la ricotta è facilmente deperibile. Comunque, ci sono alcuni panifici e pasticcerie che la
producono in considerevoli quantità.
Filuni
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Semola di grano rimacinata.
Coadiuvanti tecnologici: lievito di birra, sale, acqua, sesamo.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Sicilia.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
La semola rimacinata viene impastata con acqua, sale e lievito di birra. Si lavora bene l’impasto e si lascia lievitare per alcune ore. Poi dalla massa di pasta si
staccano tanti pezzi a cui viene data la forma di filoncino, la cui parte superiore viene cosparsa di semi di sesamo. Si lascia in riposo per circa mezz’ora e si cuoce
nel forno caldo.
Nei secoli passati in Sicilia il grano, oltre che essere utilizzato per fare il pane, veniva consumato Anche bollito (cuccia), in quanto consentiva di sfuggire alle gravose impostazioni fiscali cui venne soggetta la macinazione durante la dominazione spagnola. A quei tempi
era diffuso il consumo di cuscus, piatto di origine araba a base di semola, il cui prezzo era regolamentato fin dal ‘500.
Frutta di Martorana
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Pasta reale, pasta di mandorle, pasta riali.
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
1 kg di zucchero, 1 kg di mandorle tritate, 3 cucchiai d’acqua, 200 gr di farina, 10 gr di cremore tartaro.
CARATTERISTICHE
Dolcetto morbido e colorato dal sapore estremamente dolce.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Sciogliere lo zucchero nell’acqua a fuoco basso ed appena comincia a caramellare aggiungere le mandorle tritate e la farina. Mescolare il tutto finché non ispessisce e poi togliere dal fuoco, insaporire con vaniglia e lasciar raffreddare su una lastra di marmo. Rimuovere i grani facendo passare il composto in una macchina
per fare la pasta oppure industrialmente con un speciale macchinario a lame rotanti. La pasta viene successivamente impastata, modellata e sistemata in speciali
stampini di gesso (fatti originariamente di zolfo) per essere dipinta in maniera artistica. Un manuale del secolo scorso appartenente ai fratelli Calcina, pasticceri di
Siracusa, da precise indicazioni per ciascun tipo di frutto, ad esempio: i fichi d’India “vanno, dapprima, bagnati di giallo pallido, poi leggermente colorati di verde
nella parte superiore e successivamente, quando il colore è ormai secco, vanno tinteggiati con terra di Siena bruciata e poi con un rosso brillante”. Quando il frutto
è quasi secco, viene ripassato con una soluzione di gomma arabica.
Produzione: questi frutti di marzapane sono in genere prodotti da pasticceri specializzati. Oggi, comunque, numerose industrie producono e distribuiscono la frutta
di Martorana in tutta Italia anche se questa manca della finezza, del dettaglio e dell’abile coloritura che sono caratteristica del prodotto artigianale.
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
Secondo la tradizione siciliana, questa pasta di mandorle era in origine utilizzata (ma lo è ancor oggi) per fare il latte di mandorle. Sin dai tempi medioevali, i conventi hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’arte pasticcera, soprattutto in Sicilia. L’importante etnologo Pitrè riteneva che le più importanti ricette
di pasticceria fossero monopolio degli ordini religiosi femminili. Documenti del 1402 dimostrano come il re Martino avesse acquistato un’enorme quantità di questo
speciale e squisito cibo che era il privilegio dell’aristocrazia e del clero. Nel 1770 il viaggiatore inglese Patrick Brydone celebrava la “naturalezza” di questa specialità che aveva avuto origine nel Convento di Elisa Martorana. Un’interessante testimonianza proviene dal lungo poema “Li cosi duci de li bati” in cui il poeta Meli
esalta tutte le eccezionali prelibatezze prodotte da 212 monasteri di Palermo.
Nel passato, questa specialità era per tradizione associata al Giorno dei Defunti e veniva regalata ai bambini insieme ai giocattoli, facendoli credere che era stata lasciata in dono dai morti. In seguito questi frutti di pasta di mandorle divennero parte delle feste natalizie. Altre forme, come quelle di piccoli animali cominciarono ad essere prodotte ad Acireale per festeggiare Sant’Antonio Abate mentre a Palermo venivano fatti piccoli porcellini in occasione di San Sebastiano. Oggi si producono dolcetti di moltissime forme: salami in
miniatura, uova al tegamino. Etc.
Mafalda
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Farina di semola rimacinata, malto, semi di sesamo, semolino.
Coadiuvanti tecnologici: lievito di birra, sale.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Sicilia.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Si scioglie il lievito in acqua tiepida unendolo all’olio, al malto e impastando il tutto con la farina ed il sale. Si lavora vigorosamente l’impasto per favorire l’agglutinazione. Si lascia fermentare. Al termine si formano dei lunghi cilindri che si ripiegano su se stessi a spirale, per 4 volte con la parte iniziale posata nella faccia
superiore del pane. Si inumidisce la parte superiore con acqua cospargendo la superficie con semi di sesamo e si lascia fermentare, al caldo, per almeno due ore,
poi si inforna.
È un pane dalla crosta dorata, dal delicato e caratteristico sapore di semi di sesamo. Tra i più diffusi dell’isola, viene foggiato in diverse forme, tra le quali, “occhi di Santa Lucia” e “Corona”, ottenuta quest’ultima tagliando in due punti il lato superiore di un panetto a
forma di mezzaluna - non superiore ai 3 etti - che con la lievitazione e la cottura si apre a ventaglio nella parte incisa, facendola assomigliare ad una corona.
Ossa di morti
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Cose de li morti
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Uguali parti di farina per dolci e di zucchero, 10 gr di chiodi di garofano per ogni kg.
CARATTERISTICHE
Dolce bianco, extra duro, composto di pasta di zucchero a forma di ossa e di teschi.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Setacciare insieme la farina e lo zucchero in parti uguali, aggiungere 10 gr di chiodi di garofano finemente tritati per ogni kg. Mescolare bene gli ingredienti con
sufficiente acqua, dopodiché versare il composto negli appositi stampi. Lasciare asciugare per qualche giorno per qualche giorno, poi rimuovere inumidendo le
superfici, porli in una teglia e cuocere in forno a bassa temperatura.
Questi dolci hanno un carattere simbolico associato ai morti come nella tradizione Mesoamericana. In Messico, questo dolce è presente in varie forme artistiche, dove i rapporti con i morti sono ritualizzati e prevale un atteggiamento differente verso la morte. I teschi
e le tibie incrociate sono considerati senza alcun senso di orrore e vengono offerti come doni festivi specialmente ai bambini. Paul
Valery descrive il gusto italiano come “feroce” e definisce le ossa di morti come un “orribile bonbon”. Un elemento magico può essere
associato a molti dolciumi tradizionali, secondo altre credenze, invece, mangiare questo dolce fa credere di rinforzare le ossa. Questo
dolce tipico viene fatto, in genere per il giorno di Tutti i Santi e per il Giorno dei Defunti. Si può incontrare in numerose regioni italiane
con variazione negli ingredienti: nella zona di Venezia si aggiunge farina di mais, in Umbria si mettono anche le mandorle. In Sicilia le
ossa sono fatte anche dai “turrunara”, i produttori di torroni, che li vendono, poi, sulle loro bancarelle.
Pane a birra
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Farina di grano doppio zero, acqua.
Coadiuvanti tecnologici: lievito naturale, lievito di birra.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Nel Messinese in Sicilia, soprattutto nelle zone urbane.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Si impasta la farina con lievito naturale e di birra, sale. Si impasta bene il tutto e si lascia lievitare per qualche ora. Poi l’impasto viene ripreso e diviso in piccoli pani
che non superano i 250 gr. di peso, vengono cosparsi di semi di sesamo e fatti cuocere.
Due sono le pezzature del “pane a birra”: il torciglione o intrecciato, e il parigino, di forma lineare con tagli nella parte superiore. Nell’isola i pani di uso quotidiano sono tutte pezzature da 250 gr. Il sesamo, come elemento decorativo, viene impiegato solo su pani
bianchi. Esso conferisce gusto e aroma particolari ed era conosciuto fin dall’antichità. Un dolce a base di sesamo, detto “milloy”, veniva preparato in Sicilia durante le tesmoforie in onore di Cerere. Il nome “pane a birra” deriva dall’uso del lievito di birra
Pane casareccio siciliano
SINONIMI E TERMINI DIALETTALI
Viene comunemente chiamato “Vastedda”.
MATERIA PRIMA
Farina di grano duro, acqua.
Coadiuvanti tecnologici: lievito acido, sale.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Sicilia.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
La farina di grano duro rimacinata viene addizionata di lievito acido (crescenti), sciolto in acqua tiepida. Si impasta bene e si lascia lievitare tutta la notte nella
madia o in luogo caldo. Il giorno successivo si aggiunge ancora della farina, acqua, sale e si lavora fino ad avere un elaborato omogeneo che si lascia fermentare
per qualche ora ancora per poi modellarlo in forme rotonde del peso di un chilo e di filoni lunghi del peso di 500 gr. Sulla parte superiore vengono fatti dei segni
trasversali lasciando alzare per un’altra mezz’ora. Si cuoce a forno caldo.
È un pane a lunga conservazione con la crosta croccante e dorata, più buono dopo qualche giorno che è stato fatto. È il pane tipico
delle aree rurali e dei piccoli centri che viene ancora cotto nel forno a legna. Il nome “vastedda” indica un pane rotondo di semola. Il
prodotto ricorre in quasi tutta l’isola e si accompagna bene con sughi, intingoli, carni al sugo, formaggi, salumi. Guastedda invece è
il panino palermitano per antonomasia usato dai palermitani per riempirlo di milza, ricotta e panelle (focaccia di ceci fritta e tagliata a
strisce). Cfr. G. Coria, Profumi di Sicilia, Vito Cavallotto Editore, Palermo, 1981.
Pane forte
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Farina tipo O o doppio zero, acqua, sesamo.
Coadiuvanti tecnologici: lievito acido, sal
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Nelle città siciliane.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
La sera che precede la panificazione si impasta la farina con il lievito acido sciolto nell’acqua tiepida e si lascia in riposo nella madia. Il giorno dopo si riprende
l’impasto con la farina rimasta, l’acqua e il sale. Si lascia lievitare per qualche ora, poi si formano dei pezzi che vengono modellati in varie forme: a torciglione, a
treccia con tagli nella parte superiore, lineare con tagli trasversali; toscanino, con tagli trasversali sempre nella parte superiore. Il peso di questi pani non supera i
100 gr. Queste tipologie vengono tutte cosparse di semi di sesamo. Si cuociono a forno caldo. Sono i tipici pani di città.
L’uso di grano tenero per la produzione di pane, destinato alle città e alle classi meno abbienti, ebbe inizio in Sicilia intorno al ‘500. La
varietà utilizzata era il Maiorca, perché si coltivava un po’ dappertutto, ma era di difficile esportazione perché soggetto al riscaldamento. Per la panificazione popolare si usava invece il “forte” o grano duro, mentre la pasta fino al XVIII secolo veniva fatta con la tumminia, grano duro di primavera. Supponiamo che il nome “pane forte” derivi dall’uso del grano duro già adottato nel Cinquecento. Ieri
fatto con solo grano duro perché - ironia della scienza - ritenuto di meno valore, oggi il pane forte si avvale invece della farina di grano
tenero, considerata, sul piano nutrizionale, meno pregiata della prima. Coi grani teneri nell’hinterland catanese veniva fatto un pane
detto “cucchia” a forma ovoidale con spacco centrale quasi a simboleggiare la fertilità femminile. Nel giarrese si dice ancora “nasciu
na cucchia” per annunciare la nascita di una bimba
Papalina
CATEGORIA DI APPARTENENZA DEL PRODOTTO
Cerealicolo
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Farina, uova, burro, semi di cumino, acqua.
Coadiuvanti tecnologici: lievito naturale, sale, lievito di birra.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Area di produzione: tutta la Sicilia
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Farina e lievito vengono impastati con acqua e sale. Quando è terminata la fase di alzata, si aggiungono gli altri ingredienti e altra farina. Si impasta fino ad ottenere un tutto omogeneo soffice ed elastico. Si formano dei pani dal peso di 300/500 gr., si lascia completare la seconda alzata e si cuoce al forno.
Il nome, stando al Coria, noto esperto di gastronomia siciliana, non deriva dal francese popeline, evocatore del soffice, ma ha precisi
riferimenti ecclesiali per la ricchezza degli ingredienti. Nella Valle del Belice un pane simile, ma senza uova, prende il nome di “Vastedda” o “cucciddatu di S. Giuseppe” (G. Coria, 1981)
Pupi cu l’ova
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Farina di grano tenero o duro, acqua, uova.
Coadiuvanti tecnologici: lievito naturale, sale.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Sicilia.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Tecnologia di lavorazione: la farina viene lavorata con il lievito sciolto in acqua tiepida. Quando il tutto è ben amalgamato si lascia lievitare per diverse ore fino al
raddoppio del volume. Poi si rompe l’impasto in tanti pezzi ai quali vengono dati le più svariate forme: antropomorfe (pupi e pupe) zoomorfe, (cavallucci, galline)
fitomorfe, (alberi, fiori) o oggetti di uso quotidiano, canestri, cesti, corone. Queste forme incorporano al loro interno una o due uova e vengono finemente intagliate,
decorate o incise e rappresentano dei veri e propri capolavori. Vengono cotte al forno al pari degli altri pani.
È tradizione vivissima quella di confezionare pani speciali contenenti delle uova intere per le festività pasquali. Dai popoli primitivi ai
giorni nostri, l’uovo ha sempre avuto una valenza trascendentale presso tutte le popolazioni. La nascita di questa tradizione va ricercata nelle origini della stessa Pasqua, che si celebrava tra il 14 e il 15 del mese di “nissan”, che corrispondeva all’equinozio di primavera nel calendario ebraico, rappresentando nello stesso tempo anche il principio dell’anno. Poi, come stabilì il Concilio di Nicea,
la Pasqua cristiana venne regolata in modo che cadesse la domenica dopo il plenilunio di primavera, ma ciò fece sì che la Pasqua
non coincidesse più con l’inizio dell’anno. Rimasero però i riti dell’inizio dell’anno tra i quali i pani con le uova. Cfr. G. Coria, Palermo,
1981.
Farina di carruba e di semi di carruba
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Frutti e semi di carrube.
CARATTERISTICHE
La farina di carrube è di colore cacao e simile nel gusto al fico secco. I semi di carrube sono durissimi e a forma di grossa lenticchia.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Dopo l’essiccazione, le carrube, private del seme, vengono macinate e ridotte in farina. A parte, i semi subiscono lo stesso trattamento.
ATTESTAZIONE DELLA DATABILITÀ DEL PRODOTTO (25 ANNI)
Il carrubo (Ceratonia silinga) è un albero che costituisce in qualche modo un retaggio della presenza degli Arabi tra il IX e XI secolo. Il suo nome deriva dall’arabo
“kharrub”; la pianta, che caratterizza il panorama siciliano, è abbastanza diffusa in provincia di Ragusa che fu una delle capitali della dominazione musulmana.
Molto ricercata nel passato perché poteva sostituire lo zucchero, troppo caro, i suoi frutti sono da qualche tempo caduti in desuetudine, sebbene siano apprezzati
dai produttori di gelati. I semi di carruba erano utilizzati dagli arabi come un’unità di peso per i metalli preziosi (“quirat”, carato). Ricchi di mucillagini e ridotti in farina, vengono usati in Spagna come lassativo.
I nutrizionisti sostengono che la carruba sia più nutriente sia dell’uva secca che dei fichi secchi, ricco di oligoelementi e della preziosa
vitamina E. La farina di carrube torrefatta viene usata dai naturisti al posto del cacao. Sciolta in acqua viene usata contro la diarrea
dei lattanti e dei bambini. La farina di semi di carruba viene utilizzata dall’industria alimentare come emulsionante, stabilizzante e gelificante per dolci, gelati (quelli siciliani sono particolarmente apprezzati grazie ai semi), chewing-gums e carne in scatola, meglio noto
come additivo E 410.
Caponata siciliana
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Melanzane, pomodori, cipolle, coste di sedano, capperi, olive.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
In tutta la Sicilia.
METODICHE DI LAVORAZIONE STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Le melanzane vengono tagliate a dadi e asciugate. Si cospargono di sale lasciandole riposare per facilitare l’eliminazione dell’acqua. Dopo averle sciacquate e
liberate dal sale si fanno soffriggere in olio bollente disponendole su un foglio di carta assorbente. Successivamente nello stesso olio si fanno friggere delle coste di
sedano tagliate a pezzetti levandole dal fuoco quando saranno dorate e unendole alle melanzane. Si fa soffriggere la cipolla tagliata a fette e i pezzi di pomodoro a
cui si aggiungono, dopo circa una decina di minuti, lo zucchero, l’aceto, le olive, i pinoli, l’uvetta, i capperi e per ultimo le melanzane e il sedano, insaporendo il tutto
con sale e pepe. Terminata la cottura, si invasa sterilizzando a bagnomaria per circa 20 minuti. Si conserva al buio in luogo fresco.
Calendario di produzione: durante l’estate - autunno.
In Sicilia la caponata conosce molte varianti locali che prevedono l’uso del peperone, della patata, delle zucchine e di tante altre verdure come spinaci, cavolfiori, cardi, cicoria. In alcune località entrano in gioco anche il pan grattato e i filetti d’acciughe.
Cotognata
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Mele cotogne e zucchero in parti uguali, succo di limone.
CARATTERISTICHE
Mele cotogne cotte ed essiccate al sole. La pasta essiccata ha lo spessore di 1 cm, di colore dorato, ha un gusto dolce acidulo.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Le mele cotogne sane, mature e ben lavate vengono tagliate in quarti e messe in acqua e limone. Si fanno cuocere in acqua, succo di limone e buccia grattugiata.
Dopo la cottura si passa al setaccio aggiungendo una quantità di zucchero pari al peso della purea ottenuta. Si lascia terminare la cottura avendo cura di rigirare
con la spatola di legno per favorire l’evaporazione dell’acqua. Si versa nelle forme esponendole al sole, oppure si stende su di un piano metallico di marmo cosparso di zucchero mantenendo uno spessore di circa 1 cm. Quando la composta è asciutta si taglia nelle forme volute e si conserva in scatole di latta, al riparo
dall’umidità.
Produzione: a livello familiare, un po’ ovunque in tutta Italia. Rinomate quelle prodotte in Sicilia, soprattutto nella zona di Marsala, Nicosia, Caltagirone. Nella zona
di Palermo queste cotognate vengono preparate dagli stessi fruttivendoli. Sono circa 200 i quintali commercializzati da questi ultimi.
L’albero del cotogno(Pyrus cydonia) originario dell’Asia centro-occidentale si è diffuso prima in Europa orientale e poi occidentale. I
suoi frutti sono ricordati nella mitologia e nelle leggende dell’antica Grecia dove si attribuiva loro poteri particolari. Alcuni esperti hanno scritto che il pomo disputato da Giunone, Venere e Minerva fosse una cotogna. Solone ricorda che nei riti nuziali le cotogne mangiate dalle giovani spose assicuravano una unione matrimoniale perfetta. Forse per questa atavica convinzione che il cotogno è così
diffuso nel nostro paese, e ancor più diffusa è la cotognata, una sorta di tavolette di marmellate che un tempo la famiglia preparava
da sola.
Crema di capperi
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Capperi sotto sale.
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Isola di Salina, Santa Marina, S.Anna.
METODICHE DI LAVORAZIONE STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
I capperi vengono tenuti a bagno per circa 24 ore per eliminare il sale. Si strizzano forte con le mani e si passano al frullatore addizionando olio, polvere di pepe-
roncino, alloro, aglio e sedano. Si mettono nei barattoli chiudendo ermeticamente.
Calendario di produzione: tutto l’anno.
È un modo nuovo di consumare i capperi. Adatta per condire i primi piatti e per tartine, è molto apprezzata sul mercato di Milano.
Tonno sott’aceto
MATERIA PRIMA UTILIZZATA PER LA PRODUZIONE
Tono, aceto, sale, pepe, alloro, zenzero.
CARATTERISTICHE
Ventre di tonno sott’aceto. I pezzi di ventre, sistemati nei barattoli di vetro, sono ricoperti di liquido chiaro
TERRITORIO INTERESSATO ALLA PRODUZIONE
Tutta la Regione.
METODICHE DI LAVORAZIONE, STAGIONATURA E CONSERVAZIONE
Il tonno, tagliato a fette dello spessore circa di un centimetro, viene salato e pepato. Si mette in una terrina aggiungendo alloro e zenzero e si lascia marinare per
una giornata. Il giorno successivo si ricopre d’aceto aggiungendo foglie di alloro e zenzero e facendo bollire adagio per 3-4 minuti. Si lascia raffreddare. I tranci di
tonno vengono sistemati nei vasi aggiungendovi scorzette di limone. Si ricopre con aceto fresco. Si chiude, si fa bollire a bagnomaria per alcuni minuti e si ripone in
luogo fresco. Va consumato dopo breve tempo.
Nell’area mediterranea sono molti i modi di conservare il tonno: tra questi c’è la versione all’aceto, indicata per la preparazione di
stuzzicanti antipasti. Il tonno richiede tempi di cottura più bassi ed una salatura meno intensa e prolungata, per questo si presta bene
per le preparazioni casalinghe. Infatti, questa è una conserva che viene espressa unicamente dalla dimensione familiare dei pescatori, depositari in alcuni casi di ricette per la conservazione del pesce davvero straordinarie. Fanno anche dei distinguo tra un sistema
di pesca e l’altro: ritengono infatti migliore il tonno pescato in tonnare nella mattanza, perché il pesce arpionato muore per dissanguamento, mentre quello catturato in alto mare o quello pescato con la rete e con la lenza non si dissangua e perciò le carni che ne
risultano sono meno idonee per la conservazione. Infatti le carni rosso scure stanno ad indicare che il pesce è stato preso con la rete
e non arpionato.
I Prodotti della Pesca
La pesca sulle coste messinesi
La Pesca nello Stretto
La temperatura delle acque, le specifiche condizioni ambientali dello Stretto, cosi diverse dal resto del Mediterraneo, fanno si che in esso vivano
specie del tutto assenti altrove. Nel regno vegetale la più importante e vistosa è certo la laminaria. Queste grandi alghe, presenti solo nei mari temperati e freddi, formano, a una profondità tra i 24 e i 100 metri, delle vere e
proprie foreste sottomarine in cui i lunghissimi gambi e le grandi fronde (la
lunghezza totale può raggiungere i 12 metri) si agitano immersi in una fredda oscurità quasi totale, agitati come da vento impetuoso dai vortici delle
correnti. La Laminaria ochroleuca che vegeta in profondità nel braccio di
mare antistante Ganzirri, è presente, per le ragioni prima esposte, oltre che
nello Stretto di Messina, solo in quello di Gibilterra. In altri paesi le laminarie vengono utilizzate dall’uomo in numerosi casi: nell’alimentazione umana
in Giappone, in quella animale (anche se le carni del bestiame alimentato
con essa assumono uno sgradevole sapore di pesce) in Scozia, Irlanda,
Islanda. Ma oltre alle piante, lo Stretto di Messina presenta un interesse
anche per quanto riguarda le specie di pesce.
Lo Stretto, punta di passaggio. obbligato tra il Tirreno. e lo Jonio, che accorcia di malto i lunghi viaggi che malti pesci pelagici intraprendano. nel
periodo. riproduttivo, che va, a seconda delle specie, da maggio. a luglio.
In questa periodo. nelle agitate acque della Stretto passano. gli sciami varaci degli sgombri o lacerti dalla schiena verdastra fittamente vermiculata
di bleu scuro, passano. i grandi tonni verso l’agguato delle tonnare distese lungo le coste sicule, passano. i tonnarelli, le grandi ricciole, tutti pesci
predatori che si nutrono. di sardine, acciughe, cefalopodi, dei quali menano
strage.
E passa, sempre in primavera-estate (in Calabria si pesca fino a San Pietro e Paolo, il 29 giugno., in Sicilia fino alla fine di agosto.) l’araldico pesce
spada.
Questo grande pesce (can i suoi 5 metri di lunghezza massima e gli altre 3
quintali di pesa è considerato il maggiore dei pesci ossei) che batte in primavera lo. Stretto dove viene attirato dalla grande quantità di preda, viene pescato
can una tecnica particolare, che non è di malto cambiata da quella che Strabone, duemila anni fa,
paragonava alla caccia al cinghiale. Gli unici mutamenti sona nell’imbarcazione (la vecchia e famosa
feluca è stata cambiata in una barca a plancia più aperta per pater sostenere l’antenna, alta anche 10
metri) e nella passerella (sorta di trampolino che si protende a prua) la cui introduzione risale, a dar
retta ai pescatori locali, alla visione del film Il vecchio e il mare.
Sempre la stessa è la tecnica di fiocinatura, sempre gli stessi gli ordini dati con voce strozzata dagli
antinneri. Sola che aggi, invece che a remi, ci si avvicina ai pesci spada can potenti motori.
Vuoi per i più distruttivi metodi di pesca, vuoi per l’introduzione di sistemi di pesca passivi (palamiti a
galla), vuoi per il generale depauperamento della fauna ittica, anno. dopo anno. i pesci spada arpionati nello Stretto diminuiscano.
sempre più.
Un’altra ragione dell’abbondanza di pesce nelle acque dello Stretto è data dal fatto che in esso, grazie alle diverse condizioni di temperatura, il plancton è molto più abbondante che nei due mari contigui, garantendo la vita agli organismi minori che, lungo la catena alimentare, nutrono quelli maggiori
ed infine i pesci.
Tra la costa messinese e le Isole Eolie è frequente l’incontro con i delfini e talvolta con la balenottera
rostrata, lunga fino a 10 metri e ben riconoscibile per una larga macchia bianca sopra le pinne pettorali, che nella tarda primavera giunge regolarmente e viene chiamata dai pescatori feruna di canali.
L’attività di pesca, in provincia di Messina è una attività economica profondamente radicata nel
tessuto sociale e nella tradizione. Molto spesso si parla di tradizione ma in realtà ormai di quelle tradizioni c’è poco.
La pesca del pesce spada nello Stretto di Messina con l’arpione è uno dei sistemi di pesca più antichi
che tuttora si pratica in Sicilia, ma certamente non è il più produttivo Le spadare sono state vietate
perché queste reti, lunghe persino qualche chilometro, quando venivano calate, bloccavano un ampio
tratto di mare e costituivano un pericolo per la navigazione; non era un attrezzo selettivo, perché non
era in grado di catturare soltanto alcune taglie e risparmiare quelle più piccole; catturava tutto, dallo
sgombro al capodoglio.
Oggi la pesca del pesce spada si pratica col palamito che è una lunga lenza con un’infinità di ami che
si cala in superfice.
La pesca del tonno, che pur si continua per tradizione a praticare nelle tonnare, a livello industriale si
fa con le reti da circuizione, le così dette tonnare volanti. Sono delle reti lunghissime che si calano in
alto mare e si chiudono attorno al banco precedentemente individuato dagli elicotteri.
I prodotti della Pesca
Pesce spada
Il pesce spada è un pesce pelagico di notevoli dimensioni, può infatti raggiungere i 4 m e mezzo di lunghezza e i 500 Kg di peso, nei nostri mari raggiunge al massimo i 3 m di lunghezza (esclusa la spada) e un peso di 350 Kg; sono peraltro comuni gli esemplari che vanno da 120 a 180 cm.
La “spada” è il prolungamento della mascella superiore, ha bordi taglienti ed è circa 1/3 della lunghezza totale; viene usata come arma di difesa e come mezzo per
procacciarsi il cibo.
E’ un pesce solitario (poche volte è possibile trovarlo in coppia e di rado in piccoli gruppi); la colorazione è grigio-ardesia o bruno-violaceo sul dorso, i fianchi sono
argentati con riflessi bronzei, il ventre è bianco sporco.
La prima pinna dorsale, rispetto alla seconda, è lunga, alta e triangolare; le pinne pettorali sono falciformi; caratteristica è anche la pinna caudale a mezzaluna,
molto robusta ed adatta al nuoto veloce.
Il suo carattere è fiero e aggressivo e leggende popolari narrano anche di attacchi ad imbarcazioni.
Il pesce spada compie grandi migrazioni e durante il periodo riproduttivo, che in Mediterraneo ha luogo tra giugno e agosto, si avvicina alla costa.
Si nutre soprattutto di cefalopodi e pesci.
Dove vive
Il pesce spada è una specie pelagica che compie grandi migrazioni in mare aperto; è diffuso in tutti i mari temperato-caldi, in tutto il Mediterraneo, Adriatico e Mar
Nero.
In Italia è abbondante in Sicilia, in Calabria e nello Stretto di Messina, zone che costituiscono anche le principali aree di riproduzione.
Anche se può scendere fino a 800 m di profondità, spesso nuota vicino alla superficie e compie balzi fuori dall’acqua.
Come si pesca
La pesca del pesce spada è praticata con vari attrezzi: con la fiocina o arpione, utilizzando imbarcazioni dette “feluche”, con i palangari derivanti, con reti a circuizione ed abbocca anche a lenze trainate.
Durante la pesca con l’arpione, il marinaio esperto, dopo l’avvistamento, deve effettuare l’inseguimento del pesce spada: con questo metodo si opera una pesca
selettiva, poiché è possibile scegliere di catturare animali solo adulti, ma nel complesso l’utilizzo di questo attrezzo è ormai modesto legato soprattutto alla tradizione.
Il pesce spada può essere pescato casualmente assieme ai tonni nelle tonnare.
La pesca con la rete viene effettuata di notte con una rete detta palamitara, che viene utilizzata esclusivamente per Pesce Spada e Tonni.
E’una rete robusta, lunga dai 600 agli 800 metri, alta 16 metri, con maglie di circa 17 cm di lato e la cui superficie è sostenuta da un cavo con galleggianti e l’altra
verso il fondo zavorrata con piombi; i due estremi del cavo sono collegati ognuno ad un grosso galleggiante, ciascuno dei quali regge una campana.
Quando il pesce spada incappa nelle rete rimane ammagliato e, dimenandosi nella rete, fa suonare la campana che avverte i pescatori della cattura.
Periodo di pesca: maggio/ottobre, quando le acque superficiali si riscaldano e i pesci spada si avvicinano alla costa; è in questo periodo che il pesce spada si trova
più facilmente sui mercati.
La pesca è attiva in tutti i mari italiani e spesso i pescatori si spostano fino a Cipro o alle Baleari: in questo caso conservano il pesce in celle frigorifere per alcuni
giorni.
Come si consuma
Il pesce spada è considerato un pesce semigrasso, dalla carne bianca, soda e dal sapore delicato, priva di lische e spine.
L’unico lato negativo riguarda la possibilità di contaminazione con metalli nocivi, che il pesce, vivendo a lungo, può accumulare nei muscoli.
Molto apprezzato è l’olio di fegato.
Viene commercializzato soprattutto fresco; nei mercati viene venduto a tranci.
Può essere confuso, soprattutto se non intero, con l’aguglia imperiale (Tetrapturus belone), che ha caratteristiche diverse, ma ha carni altrettanto pregiate. Nell’aguglia imperiale la spada è cilindrica, piatta invece nel pesce spada.
Tonno
Il tonno è una specie pelagica gregaria e migratrice che si sposta più vicino alla costa nelle stagioni calde.
Il corpo è fusiforme piuttosto panciuto, ricoperto da una pelle molto spessa; le pinne, molto robuste, sono adatte al nuoto veloce.
La colorazione è blu scura sul dorso e grigio-argentata sui fianchi.
Può raggiungere i 3 m di lunghezza e i 450 Kg di peso, ed è uno dei pesci ossei di maggior grandezza.
E’ detto anche “tonno rosso”, infatti le sue carni sono irrorate da numerosi vasi sanguigni, conseguenza della potente attività natatoria.
I tonni sono probabilmente i migliori e i più forti nuotatori: sembra che in un giorno possano coprire distanze di oltre 250 km, con una velocità pari a 75 Km/h.
Nei mari italiani si riproduce da giugno alla metà di luglio, e a volte sino ad agosto; la prima maturità sessuale è raggiunta alla fine del terzo anno di età (lunghezza di 90 cm).
E’ un voracissimo predatore: da giovane (nella fase larvale) si nutre di plancton, mentre da adulto mangia cefalopodi, crostacei e altri pesci, prevalentemente sardine.
Il tonno compie spesso balzi fuori dall’acqua, durante l’inseguimento delle sue prede o la fuga da eventuali aggressori (ad esempio gli squali).
Dove vive
Vive in mare aperto, nei fondali dei mari calmi e temperati, a notevole profondità e anche in superficie.
Durante il periodo riproduttivo esso abbandona i fondali marini, si riunisce in banchi spesso molto numerosi, che nuotano in prossimità delle coste dell’Africa settentrionale, di quelle orientali e settentrionali della Sicilia e di quelle occidentali della Sardegna, Calabria e Liguria.
Da giugno a metà luglio si sposta dall’Atlantico verso il Mediterraneo, mentre altri vengono dall’Atlantico solo per la riproduzione e poi tornano nell’oceano.
In primavera, in vicinanza dei litorali le favorevoli condizioni di temperatura e salinità consentono la maturazione delle gonadi e, nei mesi estivi, avviene la deposizione delle uova.
Una volta terminata la fase riproduttiva, i tonni perdono lo spirito gregario e, stanchi e dimagriti, sostano per un po’ lungo le coste alla ricerca di cibo, per poi tornare
nei fondali marini.
Il tonno vive nell’Oceano Pacifico e nell’Atlantico ed esiste in tutto il Mediterraneo, nell’Adriatico e nel Mar Nero.
Come si pesca
La pesca del tonno è di grande importanza e viene praticata soprattutto con le tonnare fisse in Sicilia e Sardegna, particolari reti calate lungo le coste nel periodo
riproduttivo, sfruttando i percorsi stagionali dei banchi migratori; hanno la funzione di sbarrare le acque ai tonni con un sistema antico costituito da gabbie sottomarine che, attraverso percorsi obbligati, conducono il pesce in una sacca chiusa detta “camera della morte”, la quale viene poi stretta fino a quando i tonni posso
essere issati sulle imbarcazioni con degli arpioni: si procede alla cosiddetta “mattanza”.
Una tecnica moderna e produttiva è rappresentata dalle reti a circuizione nel Basso Tirreno, in Adriatico, nel Canale di Sicilia e in Liguria, queste reti vengono chiamate anche tonnare volanti; altro sistema molto valido è quello con ami (a lenza singola o mediante palangari).
Come si consuma
E’ considerato un pesce grasso; viene consumato soprattutto fresco, inscatolato (anche se la materia prima più largamente utilizzata per questo scopo è il tonno
pinne gialle).
Il tonno in scatola, conservato sott’olio o in salamoia, mantiene inalterate le sue qualità organolettiche.
Può essere consumato anche come “bottarga”, che viene preparata con le sacche ovariche salate ed essiccate al sole per alcuni giorni; il “musciame”deriva da
filetti di tonno asciugati al sole o in appositi forni; la “ventresca” è costituita dalle grandi masse muscolari laterali e ventrali della parte addominale del corpo.
In Sicilia è possibile assaggiare un salame particolare, la “ficazza”, ottenuto impastando la carne rimasta attaccata alla spina dopo la macellazione con sale e pepe
e insaccandola nel budello.
In Sardegna si è sviluppata la produzione di cuore, di buzzonaglia (resti neri del pesce una volta estratte le parti più pregiate) e stomaco o trippa (u belu).
Gran parte del pescato viene destinato, freschissimo, in Giappone per il mercato del sushi.
Se acquistate un tonno fresco, ovvero un pesce del peso di oltre 40 Kg, potete star certi che si tratta di tonno rosso; se è di piccole dimensioni, potrebbe essere
alletterato, alalunga, palamita o tombarello, che, pur essendo della stessa famiglia, hanno caratteristiche organolettiche leggermente diverse.
La carne del tonno rosso ha caratteristiche diverse a seconda di quale parte del corpo si considera.
La parte ventrale detta ventresca, è più ricca di grasso, ha una consistenza più morbida rispetto alla parte dorsale; i muscoli rossi hanno un sapore più forte.
Tonnetto
Il tonnetto è una specie pelagica di taglia grande dal corpo robusto e fusiforme, con la coda assottigliata; la pelle è liscia, il dorso azzurro scuro, presenta strisce
nere irregolari ed alcune macchie brune tondeggianti al di sopra delle pinne pettorali, il cui numero varia a seconda degli individui; la base dei fianchi ed il ventre
sono di color argenteo.
Le pinne dorsali sono quasi contigue, la prima è più alta della seconda; questa caratteristica permette di distinguerlo dal tombarello, nel quale le pinne dorsali sono
separate e distanti.
Tra la seconda pinna dorsale e la coda si trovano 7-8 pinnule, alla base della pinna codale si può notare una carena mediana e due piccole carene laterali.
Questa specie di Tunnide è gregaria, si riproduce in primavera-estate e si ciba di pesci (soprattutto Clupeidi), crostacei e cefalopodi.
Può raggiungere lunghezza totale di 1 m e 12 Kg di peso, ma è più comune da 30 a 80 cm.
Dove vive
Il tonnetto è una specie pelagica, presente in tutto il Mediterraneo, in Adriatico, nel Mar Nero e nell’Atlantico orientale ed occidentale.
Nei mari italiani le aree di maggior concentrazione e di pesca si trovano attorno alla Sicilia, nello Ionio e nel Basso Adriatico.
Compie delle migrazioni legate al ciclo riproduttivo. Ama le acque calde, nelle quali si aggrega in branchi numerosi.
Come si pesca
Il tonnetto viene catturato per mezzo di palangari derivanti, ami e reti a circuizione (tonnare volanti).
Questo tipo di pesca in Italia è sviluppata in Adriatico e lungo la costa salernitana; le catture più abbondanti si hanno in primavera-estate nelle acque intorno alla
Sicilia, nello Ionio e nel Basso Adriatico.
Come si consuma
Il tonnetto viene venduto fresco e a tranci soprattutto nei mercati del Sud Italia, si trova anche congelato.
Le carni sono buone ma considerate meno pregiate del tonno anche se le qualità organolettiche sono simili.
Si consiglia di cucinare i tranci di tonnetto alla griglia o a cubetti in padella con olio, aglio, vino bianco e pezzetti di pomodoro.
Pesce Azzurro
Spesso quando si parla di pesce azzurro lo si identifica con l’alice, la sardina e lo sgombro, sicuramente le specie più abbondanti e pescate in tutti i mari italiani.
Senza nulla togliere all’importanza che ha per alcuni mercati ittici la pesca del suro o dell’aguglia, o delle altre specie, sono questi i tre pesci azzurri più diffusi e
dunque più utilizzati nelle tradizionali ricette italiane. Tanto che anche la loro conservazione sotto olio o sotto sale è tipica di molte regioni e anche la moderna
industria conserviera li propone in numerose versioni. L’acciuga, la sardina e lo sgombro sono pesci migratori che vivono in grandi branchi che in primavera si
avvicinano alla costa, in autunno si allontanano e scendono ad oltre 100 metri di profondità. La pesca viene praticata soprattutto con reti da circuizione (lampara o
cianciolo, con reti da traino pelagico e di inverno anche con lo strascico. Lo sgombro è pescato anche con lenze ferme o trascinate. L’aguglia, che si distingue per
il suo corpo allungato ed il caratteristico becco, è anch’esso un pesce migratore che vive in branchi in mare aperto, talvolta risale le acque salmastre e la si trova
anche in lagune costiere. Un tempo per la sua pesca si usava una rete appositamente costruita detta “agugliara”; oggi per lo più la si cattura con reti da circuizione.
Il colore verde della spina centrale dell’aguglia non deve far pensare che il prodotto non sia fresco ma è una specifica caratteristica di questo pesce.
Il pesce azzurro, proprio perché pescato in tutti i mari italiani e quindi vicino ai mercati di vendita, offre la massima garanzia di freschezza ed economicità. È presente nella maggior parte dei mercati italiani quasi tutto l’anno.
Sardina sadda vera
Caratteristiche
Forma panciuta di piccole proporzioni.
Dorso: verde-oliva con larga fascia azzurra ai lati.
Dimensioni da 12 a 20 cm (raramente sopra i 20)
% di scarto 30
Carni piuttosto grasse in estate, più magre in inverno, molto gustose, sia fresche che conservate.
Alice (o Acciuga) anciosa
Caratteristiche gastronomiche
Simile alla Sardina ma di forma più sottilei.
Dorso: verde-azzurro.
Fianchi e ventre: argentei.
Dimensioni da 12 a 18 cm
% di scarto 25
Carni buone, gustose, sia allo stato fresco che conservato.
Indicate specialmente per la frittura.
Sgombro strummu
Caratteristiche gastronomiche
Corpo: verde-azzurro con linee scure sul dorso.
Ventre: argenteo.
Dimensioni: può raggiungere il mezzo metro di lunghezza, ma solitamente da 20 a 40 cm.
per 100 gr. di parte edibile
% di scarto 20
Carni ottime, molto apprezzate dal sapore caratteristico.
Buonissime arrosto o conservate sott’olio.
Aguglia augghia
Caratteristiche gastronomiche
Corpo allungato con becco molto lungo.
Dorso: verde-azzurrognolo.
Ventre: argenteo.
Dimensioni da 30 a 70 cm
% di scarto 49
Carni buone indicate per umido, frittura e arrosto.
La dieta mediterranea
....l’alimentazione più salubre, oggi ancora più di ieri, la si troverebbe nel
complesso degli alimenti tipicamente mediterranei, olio di oliva, pane, ortaggi,
frutta, cereali, legumi e pesce, arricchiti dal consumo di vino......
La dieta mediterranea definisce quella dieta moderata in cui alcuni alimenti caratteristici dell’area mediterranea, occupano sapientemente un posto preminente nel rispetto dell’adeguatezza energetica, sia come apporto sia come dispendio. Anche se l’uso del termine
dieta è improprio, perché il termine corretto dovrebbe essere costume o abitudine alimentare,
la cui stabilità dipende da quella dell’uomo sul territorio e dai rapporti che ha instaurato con la
produzione. Un insieme di abitudini alimentari tradizionalmente seguite dai popoli della regione mediterranea.
Ad avvalorare il concetto va considerato che vi sono almeno 16 stati che si affacciano sul
Mar Mediterraneo e le abitudini alimentari variano da Paese a Paese a seconda della cultura,
delle tradizioni etniche e della religione.
Ma vi sono alcune caratteristiche che li accomunano.
•
Un elevato consumo di frutta, verdura, patate, fagioli, noci, semi, pane e cereali
•
Uso dell’olio d’oliva per cucinare e per condire
•
Moderate quantità di pesce, ma poca carne
•
Piccole/moderate quantità di formaggio grasso e yogurt intero
•
Consumo moderato di vino, di solito ai pasti
•
Alimentazione basata su prodotti locali, stagionali, freschi
•
Stile di vita attivo
Gli effetti benefici dell’alimentazione mediterranea fa si quindi,che la loro associazione e l’integrazione con altri vegetali riduca il rischio delle malattie cosiddette da benessere. Grazie agli
studi di Ancel Keys, l’alimentazione mediterranea ha ricevuto, nella seconda metà del secolo
scorso, la consacrazione scientifica come fonte di benessere. Infatti, i suoi studi, ai quali ne
sono seguiti molti altri, hanno dimostrato una minor incidenza di patologie quali aterosclerosi, malattie cardiovascolari e tumori nell’area del Mediterraneo, rispetto al Nord Europa ed
agli Stati Uniti. Questa minore incidenza sembra essere dovuta alla dieta mediterranea i cui
alimenti cardine sono, appunto, cereali, legumi, frutta, ortaggi, pesce, vino e olio di oliva .
Per dieta mediterranea s’intende il modello alimentare che coinvolge tutti i paesi che si affacciano nel Mediterraneo e che, pertanto, si trovano in un
ambiente geografico, geologico e climatico molto simile. Gli alimenti che caratterizzano questo modello sono prodotti tramandatisi nel corso dei secoli e
quindi, rappresentano una parte importante della cultura alimentare.
Negli anni 70’ del secolo scorso lo studioso americano Ancel Keys ha esaltato le proprietà della cucina delle popolazioni mediterranee che, grazie
all’adozione di un’alimentazione povera ma sana, hanno meno probabilità di essere colpiti da malattie tipiche dei paesi industrializzati, quali obesità,
diabete, arteriosclerosi, ipertensione, malattie cardiovascolari e tumori.
A rendere sana la dieta mediterranea è la prevalenza di proteine di origine vegetale (legumi e cereali), di carboidrati complessi (pane e pasta), di fibre
alimentari (frutta, verdure, ortaggi e legumi), di grassi vegetali (olio di oliva). Il latte, i formaggi, le uova, le carni ed il pesce rappresentavano una quota
modesta dell’alimentazione tanto che, questi alimenti, fornivano solo il trenta per cento del totale apporto proteico necessario ad ogni individuo.
Nel modello alimentare mediterraneo i prodotti vegetali sono la principale fonte di energia, in primo luogo i cereali con tutti i derivati. Il ruolo preminente
dei cereali è legato all’abitudine di consumare il pane in tutti i pasti e di utilizzare la pasta come piatto principale a pranzo o a cena. In tal modo il pane
e la pasta assicurano una buona quantità di carboidrati complessi, in linea con le prescrizioni per una corretta alimentazione. Importante è anche la
presenza di legumi che, consumati con pasta o con pane, assicurano una buona quantità e qualità di aminoacidi.
Il condimento con olio di oliva fornisce la giusta quantità di lipidi di origine vegetale. Infine l’apporto di ortaggi e frutta in molte varietà assicura, oltre ai
nutrienti, un buon contenuto di fibra alimentare, contribuendo così a farci raggiungere quei livelli raccomandati per un buon funzionamento dell’intestino. L’uso di aromi e condimenti non grassi (quali erbe, cipolla, basilico, aglio, prezzemolo, salvia, rosmarino, maggiorana, peperoncino eccetera) ci
consentono di ottenere pietanze prelibate, senza eccedere né in grassi né in sale da cucina.
Per seguire una corretta dieta mediterranea è utile suddividere l’alimentazione giornaliera in 4-5 momenti; possiamo avere una digestione più facile,
che ci consente di utilizzare bene i principi nutritivi e suddividere l’apporto di calorie: 20% colazione, 10% spuntino a mezza mattinata, 30% pranzo,
10% merenda, 30% cena. Ai pasti è opportuno consumare le giuste razioni di pasta, alimento di buon valore nutritivo sia per l’apporto calorico che per
quello proteico. Inoltre bisogna sfatare il mito che la pasta faccia ingrassare: una razione di 80 grammi assicura 280 calorie. Sono invero i condimenti
grassi che, se aggiunti in quantità eccessive, fanno salire l’apporto di calorie.
La pasta può essere somministrata come “piatto unico”, cioè un piatto che in un’unica portata sostituisce il primo e il secondo. Si pensi alla pasta e fagioli o alla pastasciutta con ragù e formaggio. Tuttavia sarebbe il caso, al fine di un corretto apporto nutritivo, accompagnare il piatto unico con verdure
(che vanno cotte nella minore acqua possibile la quale andrebbe riutilizzata per i nutrienti che si sono in essa dispersi) e frutta.
Ogni pasto deve essere accompagnato con vino (consumato con moderazione secondo le indicazioni dei nutrizionisti) e pane preparato con i soli condimenti fondamentali, evitando quindi i pani speciali, che sono costi e ricchi di grassi aggiunti. Tra i condimenti si consiglia l’olio di oliva, possibilmente
vergine, da usare anche per friggere, perché più resistente a eventuali danni e alterazioni provocati dal calore.
Per quanto riguarda i secondi, è preferibile consumare più pesce che carne poiché i grassi contenuti nei pesci hanno la capacità di far diminuire i
trigliceridi presenti nel sangue. Tra le carni si consiglia di consumare quelle magre (pollo, coniglio, tacchino, maiale leggero) che sono meno grasse e
costose degli altri tipi di carne.
Tra i vantaggi della dieta mediterranea vi è la possibilità di alimentarsi secondo i dettami di questo modello alimentare anche quando siamo costretti
mangiare fuori in modo veloce. Si pensi al panino con formaggio, che fornisce al nostro organismo una corretta assunzione di calorie.
In conclusione, la dieta mediterranea non permette solo di seguire un alimentazione sana ma fa riscoprire il piacere di una cucina semplice, fatta di
ingredienti genuini, freschi, non appesantiti da troppi condimenti. Una cucina in sintonia con la tradizione di un paese mediterraneo come l’Italia, il cui
modello alimentare è attualmente ritenuto uno dei più efficaci per la protezione della salute.
La salutare Dieta Mediterranea va difesa seriamente.
Esistono valide ragioni scientifiche per tale difesa.
Rapporto ottimale tra i nutrienti energetici.
I carboidrati sono rappresentati prevalentemente da amido, fornito in gran parte da frumento e in quantità più moderata da legumi secchi, mentre la
quota di saccaroso è notevolmente al di sotto della quantità tollerata dagli esperti.
La quota lipidica è ripartita tra acidi grassi saturi, mono e polinsaturi in modo da rispettare i valori suggeriti, intorno al 7,5 % dell’energia da saturi, 7,5%
da poliinsaturi e 15% da monoinsaturi.
La presenza di prodotti della pesca e dell’olio d’oliva assicura l’apporto di acidi grassi essenziali (in particolare omega 3) e di acido oleico.
Gli acidi grassi omega 3, come è noto, svolgono un’azione marcata di prevenzione e controllo non solo nei riguardi delle malattie cardiovascolari, ma
anche di varie altre patologie come cancro, artrite reumatoide, psoriasi, cataratta.
Da studi molto recenti (giugno 2006) emerge che una maggior adesione alla Dieta Mediterranea è associata ad una riduzione del rischio di morbo di Alzheimer.
L’abbondanza di frutta e verdura assicura minerali e vitamine e nell’ambito di quest’ultime vitamine antiossidanti, inoltre offre composti fenolici con spiccata azione antiossidante (presenti anche nell’olio extravergine d’oliva e nel vino rosso) e fibra.
È bene ricordare quindi che “la dieta mediterranea è un bene prezioso che va tutelato e diffuso. Non soltanto perché rappresenta il modello nutrizionale
per eccellenza, alla base di un’alimentazione sana ed equilibrata, ma anche perché si conferma un ‘elisir’ per combattere malattie gravi come quelle
cardiovascolari’’.
E ancora ‘’basandosi sulla varietà degli ingredienti e sull’assenza di grassi saturi, con un consumo abbondante di frutta e verdura, cerali, olio d’oliva e
vino questo stile alimentare è un ‘mix antinfiammatorio’ imbattibile per mantenere più bassi i livelli di trigliceridi, colesterolo, glicemia e pressione arteriosa”
Per concludere “appare quanto mai opportuna una piena valorizzazione della dieta mediterranea a livello globale, per indirizzare soprattutto i giovani
verso una corretta alimentazione.
La nuova piramide alimentare
Scienziati del Mediterraneo ed esponenti di istituzioni
internazionali, si sono confrontati sull’evoluzione della dieta
mediterranea e hanno elaborato la nuova piramide alimentare per la dieta mediterranea moderna
Ed è la prima volta che la piramide MD viene strutturata con
gli alimenti che compongono un pasto principale alla base
e, via via a salire, gli altri alimenti necessari a completare
il pasto, distribuiti, a seconda che la frequenza di consumo
consigliata sia giornaliera o settimanale”.
La Nuova Piramide della Dieta Mediterranea Moderna,
rivolta a tutti gli individui di età compresa tra i 18 e i 65
anni, tiene conto dell’evoluzione dei tempi e della società,
evidenziando l’importanza basilare dell’attività fisica, della
convivialità a tavola e dell’abitudine di bere acqua e suggerendo di privilegiare il consumo di prodotti locali su base
stagionale.
E’ una dieta mediterranea rivisitata all’insegna della modernità e del benessere, senza trascurare però le diverse
tradizioni culturali e religiose e le differenti identità nazionali.
La nuova piramide può davvero rappresentare una macro-struttura in grado di adattarsi alle esigenze attuali delle
popolazioni mediterranee, nel rispetto di tutte le varianti
locali della Dieta Mediterranea”.
Appunti. Gli Alimenti
Gli alimenti sono i cibi di cui ci nutriamo ;noi siamo onnivori ,ciò significa che possiamo
mangiare: alimenti vegetali , animali,funghi,batteri.
Gli alimenti sono formati da sostanze dette principi nutritivi :
Acqua
Proteine
Grassi
Carboidrati
Minerali
Vitamine
Fibre vegetali
L’acqua svolge una funzione regolatrice ed è la sostanza più abbondante in quasi
tutti gli organismi viventi.L’acqua si trova in ogni parte del corpo e grazie a essa tutte
le sostanze vengono portate da un punto a all’altro dell’ organismo. L’ acqua inoltre
contribuisce con l’evaporazione del sudore a regolare la temperatura corporea.
Le vitamine regolano e proteggono l’ organismo; sono molecole semplici, si trovano in
abbondanza nella frutta e nella verdura ma anche in alimenti di origine animale come il
latte, la carne, le uova e il pesce. Le principali sono: vitamina A,B1,B12,C,D,ecc…
Le proteine sono, dopo l’acqua ,le sostanze più abbondanti nel nostro corpo .
Svolgono diverse funzioni : plastica energetica ,regolatrice e protettiva .
Sono
composte da catene di tantissimi aminoacidi formati a loro volta da :carbonio,idrogen
o,ossigeno,azoto e raramente zolfo .Possono essere di origine animale e vegetale.
I grassi o lipidi costituiscono le scorte di energia del corpo umano .Un grammo di
grassi fornisce circa 9 kcal;vengono accumulati in gran parte nel tessuto adiposo che
si trova sotto la pelle . La nostra alimentazione comprende sia grassi di origine animali
sia di origine vegetale .
I carboidrati forniscono energia pronta per l’uso.Carboidrati come glucidi o zuccheri
semplici sono sostanze organiche composte da atomi di carbonio , ossigeno e idrogeno; Fra esse troviamo il glucosio , il fruttosio, il saccarosio, l’amido e la cellulosa.
Le fibre vegetali non sono digeribili ma sono ugualmente importanti per l’ organismo.
La cellulosa è il principale costituente delle fibre vegetali; sono importanti perché favoriscono la regolare evacuazione delle feci e l’eliminazione di sostanze tossiche.
Itinerari enogastronomici mediterranei
La tradizione enogastronomica mediterranea, come espressione di genuinità e qualità
alimentare, è oggi fortemente rivalutata dalla scienza della nutrizione che ha subito
una profonda evoluzione negli ultimi anni: la corretta nutrizione non ha più il solo scopo di evitare l’insorgenza delle cosiddette deficienze alimentari, ma ha quello di prevenire, e per alcuni aspetti curare, le condizioni patologiche oggi più comuni, come il
cancro, le malattie cardiovascolari e neurodegenerative.
La cucina tradizionale del bacino mediterraneo è caratterizzata da un consumo di cibi
di origine non animale come pasta, riso, legumi, verdura fresca condita con olio d’oliva, frutta fresca e quantità moderate di vino rosso. Questa dieta assicura un apporto
bilanciato di nutrienti ed è ricca di cibi contenenti importanti fattori dietetici, come i
composti antiossidanti derivati dal mondo vegetale.
Questi composti antiossidanti, indipendentemente l’uno dall’altro o combinati, si possono considerare degli agenti preziosi nella prevenzione e nella cura di diverse patologie: in studi sempre più numerosi è stato dimostrato che una dieta specifica o specifici
componenti contenuti in essa sono associati ad un minor rischio di sviluppare alcune
patologie come obesità, diabete, osteoporosi, cancro. Un elevato consumo di frutta e
verdure è stato associato ad una bassa incidenza di diverse forme tumorali e malattie
cardio e cerebro-vascolari.
Altra importante caratteristica della cucina mediterranea è il consumo di spezie ed
erbe, utilizzate fin dai tempi più antichi non solo per insaporire i cibi, ma anche per le
proprietà antisettiche e medicinali che molte di esse possiedono. Proprio il loro uso
come conservanti ha suggerito la presenza in essi di composti con azione antiossidante e antimicrobica. Numerose spezie come il rosmarino, la salvia, l’origano, il timo, la
noce moscata, il basilico e lo zafferano contengono numerosi micronutrienti biologicamente attivi, che promuovono attività antiossidanti e antifiammatorie. La riscoperta della cultura enogastronomica mediterranea non è solo la valorizzazione di un importante
patrimonio di tradizione e storia, ma costituisce un importante mezzo per la promozione della salute attraverso una corretta e sana alimentazione.
Ricette mediterranee. A cura della Professoressa Maria Adalgisa CARUSO
FRITTELLE DI ZUCCHINE AL LIMONE
Ingredienti:
* due zucchine tenere
* un uovo
* il succo di un limone
* g. 50 di farina di semola
* basilico q.b.
* acqua gasata
Preparazione:
Tagliare a listerelle le zucchine e metterle a marinare nel succo di limone con il
basilico e un pizzico di sale. Preparare la pastella con l’uovo battuto, la farina di
semola e l’acqua gasata. Passare le zucchine ad una ad una nella pastella e friggere in olio caldo.
GNOCCHI CON NOCI E MELANZANE (NONNA SANTA)
Ingredienti:
* g. 500 di gnocchi di patate
* g. 100 di noci tritate
* ½ litro di salsa di pomodoro fresco
* g. 50 di ricotta infornata grattugiata
* due melanzane fritte
* basilico q.b.
Preparazione:
Si condiscono gli gnocchi lessati con una salsa di pomodoro fresco arricchita con
noci tritate, il basilico, le melanzane fritte a tocchetti (questi ingredienti si uniscono a freddo alla salsa prima cotta) e una spolverata di ricotta grattugiata. Poi
si mettono in teglia a gratinare in forno per 15 m. A 200°.
Ricette mediterranee.
A cura della Professoressa Maria Adalgisa CARUSO
FUSILLI CON PESCESPADA E MELANZANE
Ingredienti:
* g. 300 di pasta fusilli
* g. 200 di pomodorini
* g. 300 di pescespada
* un bicchiere di vino bianco
* un aglio * menta q.b.
* una cipolla * due melanzane
Preparazione:
Mettere sottosale le melanzane tagliate a fette grosse. Preparare il sugo soffriggendo l’aglio e la cipolla per qualche minuto. Unire il pescespada tagliato a
tocchetti, bagnare con il vino bianco e unire i pomodorini e un poco di menta.
Lasciare cuocere ancora per qualche minuto e unire le melanzane fritte ridotte a
tocchetti. Insaporire ancora per qualche istante e aggiungere, a fuoco spento, molta menta e qualche altro pomodorino fresco tagliato a metà. Condire i fusilli cotti
al dente, mantecando bene tutto nel tegame. Si può fare pure con il tonno fresco al
posto del pescespada e aggiungere, in tal caso del finocchietto selvatico, se gradito.
Ricette mediterranee.
A cura della Professoressa Maria Adalgisa CARUSO
SCALOPPINE DI MAIALE CON FRUTTA SECCA MACINATA
Ingredienti:
* g. 500 di scaloppine di maiale
* timo e rosmarino
* farina di semola q.b.
* un cucchiaio di olio
* una noce di burro
* g. 100 di granella di pistacchi, noci, mandorle e nocciole
* un bicchiere di marsala
* un cucchiaio di zucchero
* un albume
Preparazione:
Si infarinano le scaloppine e si passano in padella con una noce di burro e un
cucchiaio di olio. Si passano nell’albume montato a neve e poi si impanano con la
granella mista di frutta secca. Si finiscono di cuocere in forno per dieci minuti coprendole con una salsa preparata con il marsala ridotto in padella con poco burro,
lo zucchero, il timo e il rosmarino e addensata alla fine con due cucchiai si farina
di semola sciolta prima in acqua fredda.
Ricette mediterranee.
A cura della Professoressa Maria Adalgisa CARUSO
MELANZANE A MEZZO CERVELLO DI NONNA SARA
Ingredienti:
* sei melanzane medie allungate
* un bicchiere di latte
* g. 100 di mollica di pane
* una cipolla
* g. 50 di mortadella o prosciutto
* prezzemolo q. b.
* g. 50 di provoletta o fontina
* un uovo
* g. 50 di pecorino grattugiato
Preparazione:
Tagliare a metà nel senso della lunghezza le melanzane e metterle sotto sale. Friggerle e cavarle con l’aiuto di un cucchiaio. Affettare la polpa di melanzana estratta
e friggerla con la cipolla affettata, a fuoco medio, per circa dieci minuti. Appena
si fredda, unire l’uovo battuto, il prezzemolo, la mollica di pane messa prima a
bagno nel latte, la mortadella, il pecorino grattugiato e la provoletta. Con questo
composto riempire le melanzane e porle in una teglia imburrata e cosparsa di
mollica di pane . Cuocere a forno medio (200-220°) per circa trenta minuti. Servire
tiepide.
ACCIUGHE ALL’ARANCIA E PISTACCHI
Ingredienti:
* g. 500 di acciughe diliscate
* mollica di pane q. b.
* due arance
* granella di pistacchi
* menta e timo
Preparazione:
Si marinano le acciughe nel succo di arancia con la menta tagliuzzata e il timo. Si
passano nella mollica di pane, mista alla granella di pistacchi, e si pongono in teglia imburrata. Si aggiunge altro succo di arancia e si cuociono al forno per venti minuti a 200°. Prima di servire si spolverizzano ancora con menta tritata e pistacchi.
Ricette mediterranee.
A cura della Professoressa Maria Adalgisa CARUSO
POLPETTINE IN AGRODOLCE DI NONNA SARA
Ingredienti:
* g. 500 di macinato di carne (meglio se misto di maiale e manzo)
* ½ lt. salsa di pomodoro oppure otto pomodori pelati
* una manciata di olive in salamoia
* g. 150 di ricotta fresca
* g. 50 di parmigiano o grana o caciocavallo o pecorino
* un cucchiaio di capperi
* due foglie di sedano
* un uovo
* due carote
* un bicchiere di latte
* un peperone sotto sale o sotto aceto
* g. 200 di mollica di pane
* un pizzico di noce moscata
* g. 100 di sottaceti vari
* prezzemolo q. b.
* mezzo bicchiere di aceto
*una cipolla
* tre cucchiai di zucchero
Preparazione:
Si impasta la carne con l’uovo battuto, il latte, la ricotta fresca, la noce moscata, sale, il
parmigiano e la mollica di pane (tanto q. B. Per formare un composto omogeneo). Si
formano delle polpettine piccole che si friggono in padella. A parte per la salsa agrodolce rosolare, a fuoco lento, la cipolla affettata a julienne, le carote tagliate a fettine
sottili, le olive snocciolate, i capperi, il sedano a pezzetti e dopo cinque minuti aggiungere i sottaceti e il peperone tagliati a dadi. Sempre a bassa fiamma unire i pomodori tagliati a fettine o la salsa di pomodoro, insaporire il tutto e bagnare con l’aceto in
cui si è sciolto prima lo zucchero. Lasciare evaporare per qualche minuto e aggiungere
le polpettine prima fritte. Cuocere, a fuoco lento per 15 minuti (oppure, se si adoperano polpettine già cotte a sugo avanzate, solo cinque minuti), con eventuale aggiunta di
acqua, e servire fredde. Nella ricetta di Nonna Santa non c’erano le carote, ma le melanzane e i peperoni prima fritti: si trattava di una sorta di misto tra le polpette in agrodolce (che la Nonna Santa preferiva fare grosse) e la caponatina.
Ricette mediterranee.
A cura della Professoressa Maria Adalgisa CARUSO
TORTA AL MANDARINO
Ingredienti:
* g. 400 di farina 00
* un bicchiere di latte
* g. 300 di zucchero
* una bustina di lievito
* due uova
* il succo di otto mandarini
* la buccia grattugiata dei mandarini
* sette cucchiai di olio
Preparazione:
In una ciotola mettere la farina a fontana e al centro porre lo zucchero, le uova, la
buccia grattugiata dei mandarini. Lavorare con una forchetta partendo dal centro,
aggiungendo poco alla volta il succo dei mandarini. Amalgamare il tutto e unire il lievito sciolto nel latte e l’olio. Porre l’impasto nella teglia e infornare per 40
minuti a 180°. Servire con zucchero a velo oppure farcire con crema al mandarino
e panna montata. Si può preparare anche con succo di arance o di limoni e risulta
molto leggera perché nella ricetta c’è olio e non burro.
Ripartizione percentuale dell’energia
Composizione percentuale:
Proteine 46,3%
Lipidi 5,0%
Carboidrati 48,7%
Alcol 0%
Ricette mediterranee Il pranzo della domenica
Tre piatti gustosi e veloci da preparare per il pranzo della domenica…
Rigatoni gratinati con mandorle
Ingredienti: 320g di rigatoni, 90g di melanzane, 100g polpa di pomodoro, 125g di formaggio fresco, 10g
di mandorle a sfoglie, olio d’oliva q.b., cipolla, aglio, basilico, sale e pepe.
Soffriggete in padella, con poco olio, l’aglio e la cipolla, le melanzane tagliate a cubetti. Aggiungete pomodoro, sale e pepe, e lasciate cuocere per qualche altro minuto.
Scolate la pasta, aggiungete la salsa, metà del formaggio fresco e amalgamate il tutto; disponete la pasta
in una pirofila unta e cospargetela di mandorle. Aggiungete il restante formaggio e gratinate in forno a 240°C.
Bocconcini di mozzarella e pancetta
Ingredienti: 32 fette di pancetta, 16 bocconcini di mozzarella, 200g di rughetta fresca, aceto balsamico q.b.
Disponete due fette di pancetta a croce, posizionate il bocconcino al centro e arrotolate la pancetta intorno. Chiudete il tutto aiutandovi con uno stecchino.
Fate cuocere i bocconcini in una padella leggermente unta fino a che la pancetta non sarà diventata
croccante. Sfumate con aceto balsamico.
Nel frattempo lavate la rughetta, disponetela su di un piatto e condite con olio, sale e pepe nero. Adagiate sulla rughetta i bocconcini ancora tiepidi e servite.
Millefoglie al profumo di albicocche
Ingredienti: 1 confezione di pasta sfoglia, 350g di mascarpone per dolci, 75g di zucchero, 60g di confettura di albicocche, 10g di cacao, 5 uova, zucchero a velo.
Stendete la pasta sfoglia sottile e tagliatela a strisce di circa 10X5 cm; bucherellate la pasta e lasciar
riposare per alcuni minuti. Passatele in forno caldo a 200° per circa 20 minuti (la pasta diverrà dorata).
Nel frattempo amalgamare bene il mascarpone con le uova e lo zucchero.
A questo punto procedete per strati: cospargere la prima striscia con la confettura e con pochissima
crema di mascarpone, appoggiate sopra una seconda striscia e cospargetela con dell’altra crema, quindi
ricoprire con una terza e definitiva parte di sfoglia e cospargere la superficie con abbondante zucchero al
velo. Decorare la millefoglie con alcune righe di cacao in polvere e servite.
Turismo
Il Territorio. Itinerari turistici ed
enogastronomici
La Provincia di Messina è situata all’estremità nordorientale dell’isola, e si
affaccia a nord sul Mar Tirreno, ad est sullo Stretto di Messina, che la separa dal
continente e sul Mar Ionio. Confina ad ovest con la Provincia di Palermo, a sud con
la Provincia di Enna e la Provincia di Catania. Messina è il capoluogo con 246.323
abitanti ed è la terza città di rango metropolitano della Sicilia. L’Area metropolitana di
Messina, così come delimitata con decreto del Presidente della Regione siciliana del
10 agosto 1995, comprende 51 comuni che in una ininterrotta conurbazione costiera
nastriforme di 125 chilometri vanno da Portorosa di Furnari, alla estremità occidentale della piana di Milazzo, alla baia di Taormina e Giardini-Naxos, includendo le Isole
Eolie.La catena montuosa dei Monti Peloritani (fino a 1300mt) sovrasta Messina e la
separa dal resto della Sicilia. I Monti Peloritani si estendono per circa 65 km da Capo
Peloro ai Monti Nebrodi, e le sue propaggini vanno digradando nella valle del fiume Alcantara.Ad ovest i Peloritani, in corrispondenza di Rocca Novara e Montagna Grande,
si raccordano con la catena dei Nebrodi, a Nord ed a Est sono delimitati dal Mar Tirreno e dal Mar Ionio. Presentano vette di notevole altezza in quando le numerose fiumare ne erodono il terreno.Tra le cime più elevate ci sono:Montagna Grande(1374m),
Rocca Novara (1340 m), Pizzo di Vernà (1287 m), Monte Poverello (1279 m) e Monte
Scuderi(1253m). Solo nelle zone più impervie si sono conservati piccoli nuclei di
bosco naturale di roverella e di leccio o di macchia mediterranea con predominanza
di erica, cisto, corbezzolo e ginestra.Per quanto riguarda la fauna è possibile trovare
numerosi uccelli migratori come falchi pellegrini, sparvieri, poiane. Principale corso
d’acqua è il Fiume Alcantara, che segna il confine con la provincia di Catania e che
sfocia a sud di Giardini Naxos. Nasce sulle pendici dell’Etna e scorre per 52 km, il
suo bacino idrico si estende per circa 573 Km² nelle Province di Messina e Catania.
Altri corsi d’acqua sono a regime torrentizio e sono simili alle “fiumare” calabresi. La
pianura più estesa è la Piana di Milazzo che si trova nel territorio fra Milazzo e Barcellona Pozzo di Gotto. Il tratto costiero della provincia messinese è suddivisibile in
due parti perché due sono i Mari che la bagnano: la costa ionica e la costa tirrenica.La
costa Ionica presenta scorci davvero entusiasmanti dal punto di vista naturalistico e
culturale e si compone di un’area compresa tra Scaletta e Roccalumera e un’altra
tra Santa Teresa i Riva e Giardini Naxos. La città di Giardini Naxos è un rinomato
centro turistico messinese anche grazie alla sua posizione geografica: la città è
delimitata a nord da Capo Taormina, a sud dal Capo Schisò - formatasi a causa
di una colata lavica proveniente dal cratere di Monte Monio.Un tratto costiero
cittadino davvero interessante si trova tra Capo Schisò e la foce del fiume Alcantara. Da non dimenticare, poi, tutta la zona che va dal Torrente Sirina a Capo
Schisò, zona che offre svariati punti d’osservazione davvero pittoreschi. Dall’altra
parte c’è la costa tirrenica cha abbraccia la fascia compresa tra Capo Faro e
Finale fino all’estremità costiera dei Peloritani, nonché spiagge che prevedono
una frequente presenza di speroni rocciosi e paesi noti per la loro storia e la loro
bellezza culturale e paesaggistica.Inoltre è disegnata dal Golfo di Patti e quello
di Milazzo che, insieme a Capo Calavà e Capo Rasocolmo, vanno a formare un
polo tirrenico davvero interessante. Milazzo è denominata “Regina del mare” e le
sue caratteristiche geografiche e climatiche le garantiscono la degna fama di centro turistico e balneare davvero gradevole. Il suo promontorio è una sorta di ponte
naturale tra due golfi siciliani importanti. Le due coste si congiungono nella punta
più orientale della Sicilia che è denominata Capo Peloro.Il clima è tipicamente
mediterraneo: mite nella stagione invernale e caldo in quell’estiva.
Storia
Messina fu fondata dai Greci intorno al 730 a.C., con il nome di Zancle(falce), che ricorda la particolare forma falcata del suo porto, che ne fece, sin dall’antichità,
un sicuro approdo naturale. Dopo un periodo di dominio cartaginese (426 a. C.), nel 289 fu occupata da un gruppo di mercenari campani cacciati da Siracusa, i
Mamertini, che, sul punto di essere sopraffatti dai Siracusani e dai Cartaginesi, chiesero aiuto a Roma nel 264 a. C. (anno d’inizio della I guerra punica) riuscendo
a conquistarla.. La presenza di queste popolazioni segna anche la fondazione e lo sviluppo di Taormina e Giardini Naxos. Dopo la caduta dell’impero romano, fu in
possesso dei Bizantini e degli Arabi con i quali inizia un periodo aureo le cui tracce sono ancora ammirevoli. Nel 1060 fu conquistata dai Normanni che partendo da
Messina si spinsero per tutta la Sicilia. In questo periodo fu costruito il palazzo reale, attivato l’arsenale e potenziata la fortificazione, con mura lungo tutta la costa.
Il fervore costruttivo continuò nella successiva età sveva, con una nuova pianificazione urbanistica e un nuovo sviluppo verso nord. Sotto i domini svevo angioino
aragonese, raggiunse gran prosperità divenendo capitale del Regno di Sicilia assieme a Palermo e, grazie al suo porto, uno tra i primissimi centri commerciali e tra
le più grandi, fiorenti ed importanti città del mar Mediterraneo. Fu per lunghi secoli la città siciliana più ricca, seconda nel Mezzogiorno d’Italia solo a Napoli.Durante
il Rinascimento, la città divenne centro d’arte e cultura e testimone importante n’è Antonello da Messina. Nel 1674 si ribellò alla Spagna e ne subì successivamente
la repressione. Fu toccata da un grave terremoto sia nel 1693 sia nel 1783. Entrò a far parte del Regno d’Italia dopo la spedizione dei Mille garibaldina del 1860.
Nel 1908 subì le distruzioni di un altro terribile terremoto (11° grado della scala Mercalli) e del conseguente maremoto che, interessando anche le coste calabresi,
uccise 70.000 abitanti su 170.00 e distrusse il 90% degli edifici. Il programma di ricostruzione, lungo e laborioso, volle riconfigurare l’immagine della città con una
moderna pianta a griglia, salvaguardando e restaurando le testimonianze architettoniche e artistiche che avevano resistito al terremoto, e, soprattutto, adottando criteri antisismici nei nuovi edifici. Tra gli anni ‘30 e ‘50, sorsero i palazzi sulla cortina del porto, i quali, interrompendo il continuum edilizio prima esistente, si
proponevano quali nuclei individuali e segno delle vivaci tendenze artistiche e architettoniche di quel tempo. L’espansione degli ultimi anni, caotica e priva di logica
urbanistica, ha interessato soprattutto le uree meridionali e settentrionali, dando origine ad ampie zone periferiche. A Messina, dal primo al tre Giugno 1955, si
svolse la Conferenza di Messina, passo fondamentale e decisivo che porterà alla costituzione dell’Euratom e della CEE (Comunità Economica Europea) diventata
in seguito Unione Europea.
Siti culturali
A Messina monumento di pregio è Il Duomo, dedicato a Santa Maria Assunta, il cui impianto originario risale all’età normanna, agli ultimi anni del regno di Ruggero II. La struttura normanna del Duomo è ancora visibile nella zona absidale. Il terremoto del 1908 però lo distrusse quasi totalmente. Fu ricostruito tra il 1919 e
il 1929 per opera di Francesco Valenti. La facciata reca incastonati tre portali tardo gotici. Alla sinistra del Duomo, s’innalza l’alta torre del campanile. È un’opera
stupefacente, progettata negli anni ‘30 dall’architetto Francesco Valenti, e contenente uno straordinario congegno meccanico ad orologio. Nella parte alta della torre, entro un quadrante, sono indicate le ore. Negli ordini inferiori si susseguono suggestive composizioni e figure semoventi, che sono tutto uno spettacolo, anche
sonoro, cui si può assistere quando rintocca il mezzogiorno. L’interno ha schema longitudinale con tre lunghe navate divise da 24 colonne, disposte su due file, e
santuario triabsidato.Altre chiese importanti sono: chiesa di Santa Maria degli Alemanni, d’età sveva, forse degli inizi del XIII sec., data in uso all’Ordine dei Cavalieri di Gerusalemme. I caratteri stilistici dell’edificio denunciano un’attenzione verso modelli gotici, da parte d’architetti venuti forse dal nord, al seguito degli Ordini
religiosi. L’interno ha pianta basilicale a tre navate e tre absidi. Delle parti scultoree, rimangono alcuni elementi e i due portali; Chiesa di San Francesco all’Immacolata, del XIII secolo, che è la seconda chieda per dimensioni della città; Basilica - Santuario di S. Antonio di Padova, custodisce le spoglie di Sant’Annibale Maria
Di Francia; Chiesa della Santissima Annunziata dei Catalani, eretta tra XII e XIII secolo forse sui resti di un preesistente tempio pagano; Chiesa con cattedrale del
Santissimo Salvatore, sede dell’Archimandritato.La città è anche ricca di fontane come quella d’Orione che sorge in piazza Duomo, opera superba di Giovanni
Angelo Montorsoli, 1553; la Fontana del Nettuno, seconda opera messinese (del 1557) di Giovanni Angelo Montorsoli, che è un’allegoria della forza fisica e morale
della Città che doma le avversità.; la Fontana Senatoria che è collocata sul lato sud del Palazzo Municipale; Le Quattro Fontane sono state eseguite tutte su disegni del romano Pietro Calcagni ma in epoche diverse e si trovano ai quattro angoli tra Via Austria (oggi via I Settembre 1847) e via Cardines, nuove arterie volute
dal Senato di Messina nel 1572 per congiungere il Duomo al Palazzo Reale.Palazzo municipale o Palazzo Zanca, costruito dopo il terremoto del 1908 dall’architetto palermitano Antonio Zanca. La costruzione è in stile neoclassico e sulla facciata si ammirano alcune sculture legate alla simbologia cittadina. Al suo interno si
caratterizza un’ampia scalinata a tenaglia che porta al piano sovrastante. Sono da ricordare una statua bronzea di Colapesce, opera di Bonfiglio e un affresco del
Cenacolo, opera d’Alfonso Rodriguez, dipinto nel 1616 per il refettorio della Chiesa di Santa Maria del Gesù.
Di fronte al palazzo del Municipio, troviamo rivolta verso il mare, la statua dell’”Allegoria di Messina”.Teatro Vittorio Emanuele II, in precedenza “Teatro Sant’Elisabetta”, è il solo esempio, nel centro storico e uno dei pochissimi in città, d’architettura neoclassica. Allo scultore Saro Zagari si devono i rilievi del prospetto anteriore e il gruppo scultoreo sul fastigio, rappresentante il Tempo che scopre la Verità mostrandola a Messina. Il soffitto interno è decorato da Renato Guttuso con
la “Leggenda di Colapesce”.Galleria Vittorio Emanuele III, opera di Camillo Puglisi Allegra del 1939 (recentemente ristrutturata). L’effetto di gran raffinatezza era
completato dalle decorazioni di ferro battuto, accoppiate a vetrate multicolori, e ad una sapiente illuminazione elettrica tutta disposta dietro i cornicioni con effetti
di luce radente.E’ l’unico nel suo genere nel Mezzogiorno d’Italia insieme alla galleria di Napoli. Monte di pietà, edificato nel 1616 dall’architetto Natale Masuccio
e danneggiato del terremoto del 1908 (rimane soltanto la facciata). Palazzo dell’Università, costruito su disegno di Giuseppe Botto nel 1927. Palazzo di Giustizia,
opera dell’architetto Marcello Piacentini, fu realizzato nel 1927.Palazzo del Governo, costruito nel 1920 su progetto dell’architetto Cesare Bazzani. Occupò quasi
per intero l’area della cinquecentesca chiesa di S. Giovanni dei Cavalieri di Malta, della quale rimane soltano, sul retro del Palazzo, la magnifica Tribuna. Palazzo
della Camera di Commercio, costruito dopo il terremoto del 1908 su progetto dell’architetto messinese Camillo Puglisi Allegra. Palazzo della Provincia, o “Palazzo
dei leoni”, fu costruito nel 1914 dall’architetto Alessandro Giunta sull’area dell’antica chiesa di Sant’Agostino. Macchie verdi della città sono: villa “Giuseppe Mazzini”, Ricca di vegetazione mediterranea ed esotica, è uno dei luoghi preferiti dai messinesi per il tempo libero; Villa “Dante”, che è il vero grande “polmone verde”
di Messina, realizzato negli anni ‘70 e dell’estensione d’alcuni ettari e include anche una grand’arena all’aperto per spettacoli e numerosi spazi ludici per i bambini,
Villa “Albert Sabin”, sul viale della Libertà di fronte al Museo Regionale ed al capolinea Nord della tramvia, grande spazio verde attrezzato affacciato sullo Stretto;
Piazza “Cairoli”, grande spazio alberato sul viale S. Martino, il “cuore giovane” della città attraversato dalla tramvia.
Sul braccio estremo della falce portuale si trova il Forte del Santissimo Salvatore, fatto edificare da Carlo V.Sulla torre “Campana”, posta all’estremità, si trova una
stele di 60 metri d’altezza, che sostiene una grande statua benedicente della Madonna della Lettera di bronzo dorato (alta 6 metri), opera di Tore Calabrò. Essa
appare in tutto il suo splendore a chi giunge dal mare e in atto benedicente verso la prospiciente città.Un altro forte è quel denominato Gonzaga mentre la Cittadella è un’imponente costruzione militare a forma di stella con cinque punte, costruita dopo la rivolta della città dagli Spagnoli (1674 - 1678) a freno della cittadinanza,
situata all’imboccatura della falce del porto.
Il Museo Regionale di Messina, già “Museo Nazionale”, passato alla Regione Siciliana in applicazione dell’autonomia isolana, fu concepito dopo il 1908
nei locali di un’antica filanda di seta, nella spianata di San Salvatore dei Greci (all’incrocio tra viale della Libertà e viale Annunziata) per accogliere quanto d’artistico
era stato possibile recuperare dalle macerie della città.Le sezioni museali sono organizzate in modo da offrire, attraverso le testimonianze artistiche, un quadro
cronologico della ricca storia culturale di Messina attraverso i secoli. Ospita, tra le opere più importanti, quelle dei numerosissimi artisti messinesi e poi Polittico di
San Gregorio ed un’altra tavoletta bifronte d’Antonello da Messina e due tele di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, la Resurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei Pastori.Il Museo ospita inoltre una ricca mostra permanente degli argenti messinesi, a testimonianza delle straordinarie capacità artistiche degli argentieri
messinesi.
Il Museo della Cultura e Musica popolare dei Peloritani ,custodisce tutti gli strumenti musicali della tradizione peloritana, tra cui le zampogne (ciarameddi in dialetto), i flauti in canna (friscaletti), tamburi e tamburelli, scacciapensieri, conchiglie ed una ricca documentazione fotografica.
http://www.museomusicapeloritani.it/
Galleria provinciale d’arte moderna e contemporanea, Aperta nel 1998, è attiva presso la sede della Provincia Regionale di Messina (con ingresso da via XXIV
Maggio) la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea nella quale sono esposte 43 opere di noti artisti come Renato Guttuso, Giuseppe Migneco, Felice Casorati,
Lucio Fontana, Giò Pomodoro, Liberman, Angeli, Agostino Bonalumi, Mimmo Rotella, Corrado Cagli, Giuseppe Santomaso, Toti Scialoja, Hodkin, Mario Mafai,
Alighiero Boetti.
L’Orto botanico “Pietro Castelli” fu fondato nel 1638 dal romano Pietro Castelli, uno dei luminari della scienza botanica del tempo, su commissione dell’Università degli Studi. A Pietro Castelli successe, nella direzione dell’Orto botanico, il grande Marcello Malpighi, fondatore dell’istologia e dell’anatomia vegetale,
che proprio sulle piante dell’Hortus messanensis fece gran parte delle osservazioni riportate nelle sue opere scientifiche. Soppresso con la repressione della rivolta
antispagnola della Città nel 1678, fu ricostituito nel 1889. Oggi l’orto botanico, sito in piazza XX Settembre, custodisce numerose specie arboree provenienti da
tutto il mondo.
Taormina è l’antica Tauromenion che in età ellenistica, romana e medievale godette di gran prosperità. E’adagiata sopra un breve terrazzo della costa orientale
tra rocce e mare e con lo sfondo dell’Etna.Di particolare interesse è il Teatro Greco che fu costruito in età ellenistica e poi quasi interamente riedificato in epoca
romana; per ampiezza, diametro massimo m 109, è il secondo teatro classico della Sicilia, dopo di quello di Siracusa. Dall’alto della cavea,formata da nove cunei
di gradinate e coronata in alto da un portico su colonne, e più ancora dalle terrazze che sovrastano la scena, si gode un panorama indimenticabile sulla costa fino
alla Calabria. Sul fianco orientale della cavea sono le vestigia di un tempietto e, più oltre, un piccolo Antiquarium, ristrutturato, con reperti del territorio taorminese.
Il Palazzo Corvaia (sede del primo Parlamento siciliano, 1411) sorge all’ingresso della Porta Messina sulla Piazza Vittorio Emanuele,la quale occupa il sito dell’Antico Foro. La parte più antica del palazzo è una torre araba a forma di cubo che aveva funzione difensiva.La costruzione si estese in età normanna, e poi nel ‘300
e ‘400. Sono gotiche le finestre delle facciate.La chiesa di San Pancrazio, edificata sulle rovine del tempio ellenistico di Giove Serapide, le cui mura sono tuttora
riconoscibili nelle pareti laterali della chiesa cristiana.Il Duomo di San Nicolo’è del sec. XIII ma è stato rifatto nel ‘400 e nel ‘500, e ancora rimaneggiato nel ‘700. Ha
un aspetto solenne ed è tutto coronato di merli.La sua facciata è composita, con portale, monofore e rosone. L’interno è a tre navate, divise da colonne reggenti le
arcature; sugli altari sono la Visitazione (tavola dipinta d’Antonino Giuffre, 1463), un polittico (d’Antonello de Saliba, 1504), la Madonna col Bambino (gaginesca,
1500), Sant’Agata (di Martino Montanini, sec. XVI). Dal Corso Umberto , arteria principale che percorre la città da un capo all’altro, si raggiungono le Naumachie,
un grandioso avanzo d’ingegneria idraulica dell’epoca romana.Dietro la Chiesa di Santa Caterina ,si trova l’Odeon, costruito dall’imperatore Ottaviano,che è un
piccolo teatro con mattoni d’argilla e fu scoperto solo nel 1800.Percorrendo la via Pirandello fino ad un terrazzo a picco sul mare si giunge al Belvedere dal quale si
gode uno splendido panorama. Il Castello di Taormina (4 chilometri lungo la strada verso Castelmola) si erge isolato sulla cima del monte Tauro (m 398) sul luogo
dell’antica Acropoli ed è di costruzione medievale. Poco più sotto si trova il Santuario della Madonna della Rocca.
Museo Archeologico di Giardini Naxos è situato accanto ad un fortino borbonico e illustra la storia della colonia greca di Naxos, prendendo al contempo in esame le evidenze preistoriche, attestanti l’ininterrotta continuità di vita nel sito, dal neolitico sino all’arrivo dei Greci nonché testimonianze dal territorio.
La parte vecchia della città di Milazzo è circondata dalla cinta aragonese (XV sec.) che è caratterizzata da cinque torri a tronco di cono, due delle quali,
ravvicinate, nascondono il bel portale d’accesso ad arco acuto sormontato dallo stemma dei reali di Spagna, Isabella e Ferdinando. All’interno della cinta si trova
l’antico Duomo del tardo ‘500 mentre sul culmine dell’altura ha sede il Castello,opera di difesa edificato da Federico II, ma completato sotto gli Spagnoli.Nella
moderna parte bassa della cittadina sorge il Duomo Nuovo che possiede pannelli d’Antonello De Saliba e due tavole di Giuffrè.Dal Faro che sorge all’estremità di
Capo Milazzo si gode di uno stupendo panorama verso le Eolie e le coste della Sicilia fino alla cima dell’Etna.
Castelmola ,con le sue viuzze che s’intersecano e s’incontrano nella piazza principale, rivela subito l’insediamento medievale. La piazza, realizzata a mosaico in pietra bianca lavica, restituisce l’atmosfera siciliana nei marciapiedi alberati in cui sono collocati i sedili in pietra e i belvedere dai quali l’occhio spazia su
Taormina. Sulla medesima piazza si affaccia anche lo storico Caffè S. Giorgio, fondato nel ‘700 dai monaci. I colori delle abitazioni variano dal giallo al beige e al
rosa antico, i tetti a falde inclinate portano ancora i coppi “alla siciliana”.Del Castello-fortezza restano ormai solo le poderose mura normanne. A Novara di Sicilia
le piccole case affastellate, la trama di vicoli e viuzze talvolta sormontati da archi, i decori delle facciate, l’eleganza dei palazzi, la sontuosità delle chiese danno
fascino ad un assetto urbanistico d’impronta medievale. L’uso della pietra, che sul territorio affiora un po’ ovunque, testimonia l’importanza dell’arte dello scalpellino
che si tramandava di padre in figlio. Dell’antico Castello Saraceno oggi restano i ruderi,mentre il Duomo (secolo XVI) presenta una bella facciata monumentale con
un’ampia scalinata.La Chiesa di San Francesco del secolo XIII, è la più antica e piccola del borgo.
Il Parco Museo Jalari si trova sui monti Peloritani a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto (ME) e si estende su una superficie di 35 ettari
(350.000 mq.). Le piante autoctone erano solo alcune file di querce, nell’opera di bonifica e rimboscamento, sono state aggiunte oltre quarantamila piante.Il parco è diventato ricovero di tante specie diverse d’animali e tappa abituale d’alcuni uccelli migratori. I 15.000 (quindicimila) reperti sono collocati nelle 42 botteghe
artigiane per ricreare l’atmosfera e la vita di un tempo. Lungo i viali, le centinaia di sculture e le fontane in pietra, scolpite dal prof. Mariano Pietrini, accompagnano
i visitatori attraverso un percorso che li porta alla riscoperta della propria identità, dalla “Confusione” (nome dato al primo viale) fino ai “Sogni” (nome del viale che
conclude il percorso), passando, attraverso gli altri viali, tra i diversi stadi della mente umana: la “Riflessione”, la “Riscoperta dei Valori”, il “Dolore”, l’”Amore”, la
“Creatività.
La Villa Romana di San Biagio si trova nel comune di Terme Vigliatore E’ stata riportata alla luce negli anni cinquanta, e risulta essere uno degli esempi
più interessanti di villa di lusso suburbana. L’ edificio, a pianta quadrata, conteneva un cortile interno circondato da un portico che si sviluppava con una serie di
otto colonne per lato. Tra l’atrio e il cortile si trovava la stanza principale delle case romane detta Tablinium. Notevole è in questa sala di rappresentanza il pavimento in opus sectile (formelle esagonali in marmo) e mosaico,mentre le pareti mostrano resti di pitture. L’area della villa dedicata alle terme era divisa in tre sale
destinate al bagno:Calidarium, Tepidarium e Frigidarium. Quest’ultimo risulta essere stato realizzato nell’età traianea-adrianea e presenta un mosaico in banco e
nero con scena di pesca, opera, probabilmente di un mosaicista italico. Accanto ai resti della villa, in un piccolo ambiente, sono esposti al pubblico frammenti di
sculture, stucchi e ceramiche che arredavano la ricca casa.
Beni Ambientali
Le Gole dell’Alcantara sono situate nella Valle dell’Alcantara. Sono delle gole alte fino a 20 metri e larghe 4-5 metri, scavata nel corso di migliaia d’anni dall’omonimo fiume.Migliaia d’anni fa una possente colata lavica, scaturita dal cratere etneo Mojo, invase la vallata ricoprendo il letto del fiume. Raffreddandosi i magmi
incandescenti formarono alte pareti di prismi basaltici geometricamente perfetti. Nel corso dei millenni successivi, le gelide e impervie acque del fiume Alcantara
erosero la colata lavica disegnando un paesaggio simile ad un canyon, le Gole dell’Alcantara. La particolarità di questa gola consiste nella struttura delle pareti,
create da una colata di lava basica. La lava si è poi raffreddata lentamente, permettendo di creare forme prismatiche pentagonali ed esagonali.
Il Parco Fluviale dell’Alcantara è un Parco regionale della Sicilia che è stato istituito nel 2001 al posto della preesistente Riserva. Comprende quella parte di territorio delle province di Messina e Catania che forma il bacino fluviale del fiume Alcantara, ed è situato nel versante nord dell’Etna, allo scopo di proteggere e promuovere il sistema naturale esistente.
La Riserva naturale orientata Isola Bella è una riserva regionale istituita con Decreto della Regione Sicilia n. 619/44 del 4 novembre 1998. Dichiarata nel 1984
monumento d’interesse storico-artistico particolare pregio, solo nel 1990 è stata acquistata dall’Assessorato dei Beni Culturali. Nel 1998 fu istituita riserva naturale, gestita dal WWF e di recente passata in gestione alla Provincia di Messina. L’Isola Bella è una piccola isola situata nel comune di Taormina, L’esigua distanza
dalla costa a volte, a causa della marea, si annulla, rendendola una penisola. È chiamata anche la perla del Mediterraneo. Alla spontanea macchia mediterranea
(Lentisco; Euforbia arborea, e Cappero) si alterna una consociazione di tipo esotico, con la Strelitzia gigante, il Sangue di dragone, la Cycas. Le rupi e ancor più le
falesie sono abitate, per la quasi totalità, da uccelli marini fra i quali il Gabbiano reale, il Gabbiano corso, il Passero solitario, il Rondone maggiore. Rettili ed insetti
sono fra i più numerosi abitanti della Riserva; in particolare vi è sull’isola una lucertola dalla variopinta livrea, il cui ventre è di colore rosso, più o meno intenso in
relazione ai mesi in cui si osserva. Il Capo Sant’Andrea divide l’Isola Bella dall’incantevole spiaggia lunata di Mazzarò dalla quale si possono fare splendide gite
in barca alle grotte marine, tra le quali spicca la Grotta Azzurra. A nord di Mazzarò si trovano le spiagge di Spisone e Mazzeo, quest’ultima continuata dal lungo
arenile di Letojanni.
Riserva Orientata Fiumedinisi e Monte Scuderi Ai piedi di Monte Scuderi, bellissimi esemplari d’erica arborea e boschi di tutte le specie di roverella conosciute in Sicilia occupano i valloni e le altre aree più basse della riserva. La fiumara del Fiumedinisi è un corso d’acqua che sino a pochi anni fa era di una bellezza
paradisiaca e, a causa dei grossi massi che bloccavano il suo corso, formava cascatelle che creavano pozze e laghetti deliziosi per chilometri e chilometri. Sulle
sue sponde la vegetazione è rappresentata dal pioppo nero, da diverse specie di salice, dall’orniello, dall’olmo campestre, dall’alaterno, gli oleandri, le tamerici
e le ginestre. Al di fuori dei corsi d’acqua e sino ai 600-800 m s.l.m., dominano il bagolaro, il castagno, il noce nostrano e il gelso nero. La flora sopra gli 800 m è
rappresentata soprattutto dal leccio, dalla carpinella, dall’acero fico, dall’acero montano, dal rovere, dall’agrifoglio e dall’alloro: un mix di piante sempreverdi miste a
caducifoglie. I numerosi giacimenti minerari (circa 160) sono la motivazione primaria dell’istituzione della riserva naturale. Tra questi boschi vive una fauna tipicamente silvana: gatti selvatici, volpi, martore e donnole, conigli selvatici, il quercino e il ghiro. Presenti anche il topo selvatico, il riccio, l’arvicola di Savi e il toporagno di Sicilia. Tra i moltissimi rapaci nidificanti ricordiamo il velocissimo falco pellegrino, la poiana, molto diffusa in Sicilia, lo sparviere, Valloni e fiumare ospitano
una fauna variegata: le lucertole (la più comune campestre e la siciliana), i ramarri dalla smagliante livrea smeraldina, i gongili (simili alle lucertole, ma con corte
zampette), gli emidattili e i gechi dal corpo tozzo e dalla pelle verrucosa. Tra i serpenti, si possono incontrare il nerissimo biacco, il saettone, la biscia d’acqua e la
vipera (l’unica ad essere velenosa). Una menzione a parte va fatta per l’aquila reale, che qui nidifica, e per la rara Coturnice di Sicilia, una delle principali motivazioni per la realizzazione della riserva. La Valle degli Eremiti è una delle rare aree incontaminate che in Sicilia è ancora possibile incontrare. Segnata dalle acque,
la roccia appare ben modellata, pareti alte e scoscese presentano interstizi fioriti; negli anfratti una lussureggiante vegetazione d’alberi porta le radici tra le superbe
rocce.
I laghi salmastri di Ganzirri e Faro si trovano nella riviera nord. Essi sono messi in comunicazione con il mare aperto per mezzo di canali d’alimentazione e sono
tradizionalmente utilizzati per l’allevamento dei Mitili. Il lago di Ganzirri, chiamato comunemente Pantano grande è d’origine marina, creatosi a seguito d’insabbiamento. Identica origine è riconosciuta anche al vicino lago di Faro Presso Capo Peloro chiamato comunemente Pantano piccolo. Quest’ultimo è in comunicazione
con il mare tramite due canali: il primo sfocia nelle acque dello Stretto presso la chiesa di Torre Faro, l’altro lungo la costa tirrenica in contrada “Torre bianca”. Cefali, branzini, orate, anguille, gamberetti, ghiozzi e vari tipi di crostacei sono alcune delle specie che popolano queste acque.La posizione geografica particolare dei
laghi, ne ha fatto un luogo di sosta per uccelli migratori che si fermano da queste parti durante le migrazioni primaverili e autunnali. A Ganzirri si possono ammirare
Aironi, Cormorani, Fenicotteri ed anche qualche Falco di palude assieme al Nibbio bruno. Con il provvedimento declaratorio n. 1342/88 del 19.07.’88 i due laghi
sono stati dichiarati beni d’interesse etno-antropologico.
La Gastronomia Siciliana
Caratteristiche
La cucina siciliana è strettamente collegata sia alle vicende storiche e culturali della Sicilia, sia alla vita religiosa e spirituale dell’isola. Venditore di stigghiola al
mercato della Vucciria di Palermo. Si tratta infatti di una cultura gastronomica regionale complessa ed articolata, che mostra tracce e contributi di tutte le culture
che si sono stabilite in Sicilia negli ultimi due millenni. Dalle abitudini alimentari della Magna Grecia alle prelibatezze dei “Monsù”, i cuochi francesi delle famiglie
nobiliari, passando dai dolci arabi e dalle frattaglie cucinate per strada alla maniera ebraica, tutto contribuisce a rendere varia la cucina siciliana. Nei piatti della
cucina siciliana si usa esclusivamente l’olio extravergine d’oliva, sia per cucinare che per condire. Il burro è ben poco usato, la sugna viene utilizzata solo per
ammorbidire l’impasto di alcuni dolci. Gli ingredienti principali sono soprattutto vegetali o marini (pesce, e molluschi). La carne è utilizzata di rado, e per lo più in
forma di frattaglie. Il pesce è tradizionalmente molto presente nelle tavole dei siciliani, servito fresco, aromatizzato con olio, aglio o con olive e capperi, pangrattato
e arancia Il sale è soprattutto marino, e i piatti sono impreziositi dalle erbe aromatiche che crescono in abbondanza: basilico, prezzemolo, menta, alloro, origano,
rosmarino, salvia, cipolle selvatiche , semi di finocchio e finocchietto selvatico, insieme a gelsomino, pinoli, uva passa, pangrattato tostato (“muddica”), scorza
d’arancia, succo di limone, etc. Capperi, aglio e cipolla sono altresì spesso presenti nelle preparazioni. Molto utilizzati anche mandorle, nocciole e pistacchi, sia
nella preparazione di dolci e di bevande che per condire riso e pasta. Pane e panelle. Un posto di rilevo occupa la “gastronomia da strada”: la tradizione è ricca di
preparazioni veloci, e poco costose, in vendita in bancarelle o chioschi per strada: pane e panelle, pane con la milza, stigghiole, quarume, frittola, musso, ortaggi
(cardi, cavolfiori, etc.) fritti in pastella, arancine (dette “arancini” nella Sicilia orientale), etc.
Al centro del pasto c’è la pasta, o un piatto di legumi (fave fresche, fave secche, lenticchie, farro, ceci). In provincia di Trapani è molto diffuso il cuscus di pesce,
preparato in casa con la semola di grano duro. Molto utilizzato il pane, che accompagna tutti i pasti, che viene sfornato due-tre volte al giorno, e che viene consu-
mato fresco. Nell’isola sono presenti numerose varietà di pane, spesso cosparso di sesamo (detto “cimino” o “giuggiulena”). Il pane è presente in molti riti sacri.
L’isola produce infine diverse varietà di formaggio (di latte vaccino e di pecora).. I Cannoli. Un capitolo a parte sono i dolci (fritti, al forno, al cucchiaio), spesso a
base di frutta e frutta secca. Spesso legati a tradizioni religiose, i dolci siciliani sono ricchissimi. Molto utilizzata la ricotta di pecora, il miele ma anche il cioccolato
che a Modica viene lavorato artigianalmente e a Palermo viene adoperato, in sette varietà diverse, per la famosa ed esclusiva “Setteveli”. I gelati e le granite sono
pezzi importanti della vita quotidiana in Sicilia, e vengono prodotti in centinaia di gusti differenti: è proprio in Sicilia che nel XVII secolo venne inventata la produzione moderna del gelato.
La storia
I Greci provenienti dalle Cicladi nel 735 a.C. sbarcarono sul litorale ionico, in prossimita’ dell’odierna Naxos, ed i Corinzi di Archia nel 734 a.C. furono a Siracusa.
Diverse, come sappiamo, furono le novita’ che apportarono questi colonizzatori e, per restare in tema, da un punto di vista alimentare, L’arte del fare il vino nasce
proprio da loro, I’ulivo, il farro ed altri prodotti, gia’ esistenti nell’isola, vennero utilizzati in modo diverso, ebbero, per cosi’ dire, una nuova impronta greca che porto’
ad ottimi risultati. Prendiamo per esempio il farro. Il Farro, prima dei Greci, veniva utilizzato in Sicilia, per fare il pane, poi, venne utilizzato in tutt’altro modo. Con
la farina di Farro, oltre a un ottimo pane, si ottennero delle tagliatelle molto saporite e, niente poco di meno che, la pasta frolla. Con il farro macinato grosso essi
si fecero delle ottime zuppe ed, infine, con il seme intero, unito a fave, lenticchie, ceci, ed interiora, la famosa Fabata Puls. Questo non ci deve fare credere che
quando i Greci sbarcarono la Sicilia era abitata da selvaggi. Sulle coste ioniche abitavano i Siculi ed in quelle tirreniche prosperavano i Sicani e gli Elimi. Queste
antiche popolazioni avevano eretto potenti e progredite citta’, dove, almeno da tre millenni si era sviluppata una cucina autoctona. L’incontro di queste due civilta’
mediterranee ha arricchito tutte le arti, compresa quella culinaria ed ha fatto nascere il gusto per la buona cucina che trovo’, piu’ tardi, grande accoglienza nella
Grecia dove, a poco a poco, gli elaborati manicaretti si sostituirono ai voluminosi arrosti dei tempi omerici ed alla Maza, la schiacciata con farina d’orzo. Accanto
alla nuova cucina sorse la letteratura gastronomica. Primo in assoluto fu Epicuro Siracusano, segui’ Miteco ed Archestrato di Gela, siamo tra gli inizi del V e del
IV secolo a.C. Archestrato di Gela, nel IV secolo a.C., nei suoi “frammenti della gastronomia”, asserisce di avere visitato ogni terra ed ogni mare ma che in Sicilia
ha trovato il buon gusto. L’opera parla soprattutto del pesce: la stagione piu’ propizia per pescare le varie specie e il modo di cucinarle. Il “leitmotiv” e’ quello di
una cucina naturale, schietta e genuina senza sofisticherie e che si avvale unicamente di olio, sale ed, all’occorrenza, di aceto e di erbe aromatiche. Accanto a
questi antichi ricettari, troviamo gli antenati dei moderni libri “curatevi con le erbe”. Nacque cosi’ la dietetica di cui Acrome e Eutidemo furono i precursori. Ma, per
ora, bando alle diete e torniamo ai buoni cibi del periodo classico. In Sicilia le mense dei ricchi buongustai erano sontuose e le vivande, variate e saporite, erano
accompagnate da squisiti vini siciliani, ma anche da birra e da idromele. Il fatto che il banchetto fosse sentito come occasione principe per discussioni sui piu’ vari
argomenti, sta alla base della ricchissima letteratura detta “Del Convito e del Simposio”. A tale filone si lascia ricondurre anche la bizzarra opera di Ateneo, erudito
greco di Egitto (200 d.C.), i Deipnosofisti, (banchetto dei sofisti), che di dettagli gastronomici e’ una miniera incomparabile. In questo libro, infatti, vi e’ un vero e
proprio vademecum sulla cucina: dalla lepre, al tonno, dai piselli alle anguille, dall’aragosta al pesce spada, insomma c’e’ di tutto. Ma torniamo ai nostri amici greci
ed alle loro abitudini alimentari. I pasti dei Greci, in eta’ storica, erano tre al giorno: uno leggero al mattino, I’Ariston, ed altri due piu’ consistenti, il Defeion a meta’
del giorno, ed il Dorpon, a fine giornata. Ogni banchetto iniziava con il rito dell’offerta di ringraziamento agli dei: il padrone di casa, dopo essersi purificato le mani
con acqua, gettava sul braciere pugni d’orzo, sangue e ciuffi di pelo di un vitello sacrificato e vi versava del vino. Terminata questa funzione propiziatoria, i servi
ponevano, vicino ad ogni commensale, un recipiente con il pane ed una coppa per bere il vino liquoroso allungato con acqua e poi iniziavano a servire le vivande.
Nelle riunioni conviviali non sempre vi era un padrone di casa, perche’ spesso queste erano organizzate da alcuni amici che si riunivano per mangiare portando
ciascuno, in un canestro, cibi gia’ cotti ed il vino. Questi simpatici simposi erano, appunto, denominati “I Pranzi del Panierino”, ed e’ questo piccolo recipiente di
vimini, la “Spyris”, che a volte, vediamo appeso ad un chiodo in alcune raffigurazioni di cene. I menus dei greci erano variati, composti da minestre, da pesce, da
carne, da uova; da legumi, da formaggio fresco e stagionato ed, dulcis in fundo, dai dolci a base di miele, di noci, di latte e di farina e dalle Focacce Attiche a forma
piramidale. I dolci venivano serviti assieme a ricchi vassoi di frutta al termine di ogni pasto o durante il simposio che era la parte piu’ importante e gaia del banchetto, quando il vino scorreva a fiumi ed i convitati, allegri per le libagioni, cantavano gli Skolia, brevi e briosi versi affini ai ditirambi. Socrate criticava gli opsofagi
(ingordi) e diede delle regole di galateo sul modo di comportarsi a tavola, definendo la cucina un’arte. Le citta’ della Magna Grecia piu’ reputate per sontuosita’, a
volte anche eccessiva, delle mense furono: Siracusa, Crotone e Sibari ed e’ proprio dai cittadini di questa ultima citta’ che e’ nato il vocabolo Sibarita, usato ancora
oggi per indicare una persona amante della vita piacevole e del buon cibo. Ed adesso parliamo di un’altra importante civilta’: gli Arabi. Nell’827 i Musulmani d’Africa
sbarcano a Marsala, chiamati da un ricco comandante siciliano, Eutimo o Eufemio, ribellatosi alla corte di Costantino imperatore. Anche loro, come i Greci, apportano molte novita’ nell’arte, in generale, e nella cucina, in particolare. Ci fanno conoscere la canna da zucchero, il riso, il gelsomino, il cotone, I’anice, il sesamo e le
droghe: cannella e zafferano. Sono abilissimi pasticceri e, tra i dolci, segnaliamo: la Cubbaita (Qubbayt), ossia, un dolcissimo torrone di miele con semi di sesamo
e maridorle; i Nucatuli, dalla parola araba “Nagal” (frutta secca, confettura, dolce secco); la Cupita o meglio Copata: torrone molto duro confezionato in grossi pani,
a base di nocciole, albume d’uovo, zucchero miele ed amido.
Sempre agli arabi dobbiamo la Cassata ed il sorbetto. Amanti delle essenze, crearono dolci profumati alla frutta, alla cannella e, perfino agli odori dei fiori. Con il
gelsomino, per esempio, crearono un niveo gelato, che si confeziona ancora oggi a Trapani con lo stesso nome arabo: “Scursunera”. Inventarono i geli di melone,
di mosto, di cannella, di gelsomino; crearono storte ed alambicchi per la distillazione della grappa che, in ossequio al Corano, la usavano solo per disinfettare le
ferite, e, quindi, anche l’alcool. Ma a questi “invasori” si devono altri gustosi piatti come le panelle, i ceci essiccati ed i fiori di zucca seccati e salati nonche’ il pane
con la milza di cui, ancora oggi, i palermitani sono ghiotti. Questa e’ anche l’era degli Harem. Ci sono molte leggende al riguardo, tra cui quella dell’invenzione del
cannolo. Si narra che furono proprio le donne di Caltanissetta, ospiti dell’Harem Kalt El Nissa, ossia, Castello delle donne, ad inventare il famoso dolce siciliano. Gli
arabi vengono sconfitti dai Normanni di Ruggero II di Altavilla nella battaglia di Cerami nel 1063. Popolazione scandinava di indole marinara e guerriera, oltre alla
costruzione di enormi cattedrali, portano: spiedi rotanti, aringhe affumicate, merluzzi secchi (Piscistaccu e Baccala’). Nel 1130 Ruggero II diviene re fino alla morte
(1154).La sua fama sara’ superata da Federico II di Svevia. Questo grande sovrano, oltre all’Universita’, alle tasse, ed a varie innovazioni, compose un trattato sulla caccia con il falco, cacciatore egli stesso e conoscitore della buona tavola, ebbe al suo servizio, numerosi cuochi e sembra databile in questo periodo la nascita
delle specialita’ di rosticceria. Ed ecco il turno dei Francesi con Carlo d’Angio’ (Angioini 1268). I Siciliani si ribellano al loro sistema feudale con il Vespro del 30
marzo 1282. Palermo per non soccombere ai francesi chiama Pietro III d’Aragona ed ecco gli Spagnoli. Con la pace di Caltabellotta, 1302, i francesi se ne vanno.
In questo periodo si consolida la cucina dei nobili: si afferma il Falsumagru, che, prima, si chiamava Rollo’, dal francese Roulle’, che si imbottisce, nel popolo, con
frittate e verdure, mentre, tra i nobili con carni pregiate. Nel 1440 Ferdinando di Castiglia diviene re di Aragona e di Castiglia. L’eta’ spagnola arriva fino al 1713.
Grazie a questo popolo conosciamo l’evoluzione della cassata araba dal momento che i nuovi dominatori ne importano un ingrediente base: il Pan di Spagna; ed
ancora, sempre grazie ai nostri amici iberici conosciamo la zucca all’agro dolce e le varie “mpanate”. Sempre durante questo periodo si ha l’apporto del pomodoro, cacao e mais dall’America, insieme al peperoncino, alla patata, ai fagioli, al tacchino, ai peperoni, mentre la melanzana arrivera’ dalle Indie. Adesso possiamo
renderci conto come una pietanza si completa nel corso dei secoli, attraverso l’apporto di nuovi elementi. La Caponata, per esempio, e’ l’espressione piu’ tipica
della legge gastronomica in base alla quale i piatti partono da una base semplice, a seconda della disponibilita’ degli ingredienti, e si arricchiscono di sapori supplementari anche grazie alla fantasia di chi cucina. La Caponata allora, sebbene composta da verdure, e’ un piatto marinaresco, nato nella Caupona, il termine con il
quale la bassa latinita’ designava la taverna, dalla quale la pietanza ha derivato il suo nome. La caupona dei porti preparava le vivande per i marinai che facevano
vela dalle coste dell’ isola. Il dizionario del Palazzi alla voce caponata dice:”cibo marinaresco, galletta inzuppata nell’acqua salata, condita con olio e aceto”. Quindi non somigliava affatto a quella che conosciamo oggi, e cio’ si spiega benissimo con il fatto che la gamma degli elementi di cui disponevano gli antichi era piu’
povera di quella di oggi, perche’ non ancora conosciuti. La melanzana, per esempio, arriva dall’India nel 1600, il sedano, sebbene conosciutissimo fin dall’antichita’, (con esso si intrecciavano serti per i cittadini piu’ meritevoli) non veniva utilizzato per la cucina, e cosi’ altri ingredienti. Ma adesso e’ necessario fare un passo
indietro ed andare agli Arabi che ci fecero conoscere il riso. Il risotto alla milanese, infatti, potrebbe avere avuto i suoi natali in Sicilia. C’e’ una leggenda in base alla
quale il risotto allo zafferano sia stato creato per caso nel 1574 da uno dei garzoni di maestro Valerio da Profondavalle, artefice delle vetrate del Duomo di Milano,
in occasione delle nozze della figlia. Ma Cristoforo di Messisburgo, maestro di casa del Cardinale Ippolito D’Este, nel descrivere un banchetto, servito il 16 gennaio
1543 alla corte Estense, precisa che il secondo servizio di cucina comprendeva, con i timballi di piccione, di conigli e lepri, in salsa pevorada, anche sei piatti di riso
alla siciliana con tuorli d’uovo crudi, formaggio grattuggiato, pepe, zafferano e l’ immancabile zucchero di tutte le ricette medievali. Nel 1500, quindi i ferraresi mangiavano quello che oggi e’ il risotto alla milanese in edizione corroborante. E, per finire in dolcezza, completiamo il discorso sui cannoli e sulla cassata siciliana. Per
quanto riguarda i primi c’e’ da riferire una citazione di Cicerone: “Tubus farinarius, dulcissimo, edulio ex lacte factus”, ossia, “cannolo farinaceo fatto di latte per un
dolcissimo cibo”. Sembra che l’odierno cannolo siciliano abbia avuto, come dicevamo, origini arabe, anche se ha subito, nei secoli, diversi rifacimenti, il suo antenato, infatti, sembra essere stato un dolce a forma di banana ripieno di mandorle e zucchero. Per quanto riguarda la cassata, la sua elaborazione definitiva si ebbe
nel periodo barocco con l’utilizzazione del Pan di Spagna, epoca in cui gli antichi fasti della gastronomia ed anche della pasticceria siciliana, furono rinverditi dalle
consuetudini di vita spagnola e dai nuovi ingredienti importati alla America. Per concludere possiamo dire che oggi non si mangia e non si beve piu’ per sopravvivere, ma si cerca di farlo nel modo migliore, perche’ una necessita’ fisiologica si trasformi in piacere. Brillant Savarin, nel suo libro:”La fisiologia del gusto” scrive: “Il
Creatore, obbligando l’uomo a mangiare per vivere, lo invita con l’appetito e lo ricompensa con il piacere”.
Parchi letterari e naturali
Parco Letterario Stefano d’Arrigo – Horcynus Orca
Parchi Letterari Horcynus Orca rappresentano il punto d’incontro di molteplici esperienze culturali, un’officina di saperi in cui si combinano i segni del passato con
le sfide del futuro. A partire dalle suggestioni e dalle indicazioni del testo letterario si costruiscono e intrecciano, come in un ipertesto reale, percorsi tra mondi, culture e linguaggi diversi. Lo spazio fisico de I Parchi Letterari Horcynus Orca è tra lo Scill’e Cariddi, il topos del romanzo di Stefano D’arrigo, mentre il suo scenario
abbraccia tutta l’area dello Stretto, la piana di Gioia Tauro, le Isole Eolie, l’Etna. In questo spazio sono localizzati i siti multimediali, gli approdi delle feluche e delle
imbarcazioni per gli itinerari sullo Stretto; in questo spazio sono concentrate le apparecchiature tecnologiche che consentiranno sia di studiare i fenomeni caotici
dello Stretto, sia di penetrare con lo sguardo le profondità marine, punto d’incontro tra Ionio e Tirreno. I Parchi Letterari Horcynus Orca ripropongono e proseguono nella sua molteplicità disciplinare, nelle sue metodologia di ricerca e laboratorio, l’architettura complessa del romanzo da cui prende il nome e rappresentano
l’opportunità di ripensare criticamente l’identità culturale dello Stretto come identità composita da inventare mentre la si scopre.
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice
delle fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi. ( S.D’Arrigo, Horcynus Orca, Mondadori, 1975, pag.7). Si apre
così il labirinto del viaggio e del ritorno di ‘Ndrja Cambrìa alla sua terra, a Cariddi, nell’autunno del 1943. ‘Ndrja percorre a piedi, cercando il modo di raggiungere la
Sicilia, una Calabria devastata, che si popola via via, di figure come lui sbandate dalla guerra. Grazie a una di queste, Ciccina Circé, riesce ad attraversare lo Stret-
to. Ma quanto troverà, approdando a Cariddi, è tutt’altro dall’ambiente e dalla comunità che ha lasciato andando in guerra; ognuno e ogni cosa è stato segnato o
travolto dalla miseria e dal degrado. Si corrompono i codici della terra e del mare, si stravolgono i comportamenti di gente fiera costretta a una sopravvivenza meschina patteggiata con la Morte che assume la forma dell’Orca agonizzante in un mare che sembra fare di ogni creatura viva forza di dissoluzione. La costruzione
di una palamitara, che permetta ai pescatori di tornare al loro onesto mestieruzzo, piuttosto che arrangiarsi con la speculazione, un tempo inconcepibile, sul commercio del pescebestino , è l’estremo tentativo di ‘Ndrja di trovare ancora il suo mondo. Per guadagnare le mille lire da dare in anticipo al maestro d’ascia, ‘Ndrja
accetterà di partecipare alla sua ultima vogata. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto
e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.
Stefano D’Arrigo nasce il 15 ottobre del 1919 ad Alì Terme, cittadina sul versante ionico dello Stretto di Messina. Trascorre l’infanzia tra il paese natale e Milazzo,
ove si trasferisce nel 1929. Frequenta il liceo classico e, durante la guerra, viene chiamato ad assolvere servizio in Veneto da dove viene poi trasferito in Sicilia.
Nel 1942 si laurea in Lettere all’Università di Messina, con una tesi sul poeta tedesco Friedrich Holderlin. Nel 1946 si trasferisce a Roma insieme alla moglie Jutta.
Lavora per un breve periodo al “Tempo” e al “Giornale d’Italia”, si occupa di critica d’arte e collabora a “Vie Nuove”. Nel 1950 inizia la stesura del romanzo che lo
renderà famoso e che lo occuperà per oltre un ventennio. Nel 1957 pubblica la raccolta di versi “Codice siciliano”, testo che va letto come il lontano principio dell’Horcynus. Nel 1960 esce sul numero 3 del “Menabò” di Vittorini e Calvino il primo nucleo del romanzo: due capitoli con il titolo “I giorni della fera”. Sembra il preludio di un romanzo che di lì a poco sarebbe stato pubblicato, ed invece, dopo averne completato la struttura narrativa, D’Arrigo inizia un certosino lavoro linguistico,
apportando continue correzioni e varianti per oltre 20 anni.
Parco Naturale dei Nebrodi
Istituito nel 1993 ricomprende le più importanti ed estese formazioni boschive presenti in Sicilia (ca 50.000 ha). Le specie arboree più significative sono rappresentate da Fagus sylvatica (all’estremo limite meridionale dell’areale di diffusione), da Quercus cerris, da Quercus suber. Sono anche presenti singolari formazioni a
Quercus ilex, a Taxus baccata, a Ilex aquifolium e importanti ambienti lacustri e rupestri. Ricca la fauna sia vertebrata che invertebrata. I Monti Nebrodi, assieme
alle Madonie ad ovest ed ai Peloritani ad est, costituiscono l’Appennino siculo. Essi si affacciano, a nord, direttamente sul Mar Tirreno, mentre il loro limite meridionale è segnato dall’Etna, in particolare dal fiume Alcantara e dall’alto corso del Simeto. Gli elementi principali che più fortemente caratterizzano il paesaggio naturale dei Nebrodi sono la dissimmetria dei vari versanti, la diversità di modellazione dei rilievi, la ricchissima vegetazione e gli ambienti umidi.
Connotazione essenziale dell’andamento orografico è la dolcezza dei rilievi, dovuta alla presenza di estesi banchi di rocce argilloso-arenacee: le cime, che raggiungono con Monte Soro la quota massima di 1847 metri s.l.m., hanno fianchi arrotondati e si aprono in ampie vallate solcate da numerose fiumare che sfociano
nel Mar Tirreno. Ove, però, predominano i calcari, il paesaggio assume aspetti dolomitici, con profili irregolari e forme aspre e fessurate. E’ questo il caso del
Monte San Fratello e, soprattutto, delle Rocche del Crasto (1315 metri s.l.m.). Importante, infine, sottolineare il diffuso processo di progressivo acculturamento del
territorio del parco che ha portato, durante i secoli, ad una trasformazione dei Nebrodi da paesaggio naturale in paesaggio culturale. .
Il Parco Fluviale delle Gole dell’Alcantara
Il fascino, la suggestione, il richiamo delle numerose “Gole”, famose in tutto il mondo. Circa 50 km di asta fluviale, con aspetti naturalistici unici e inconsueti. Eventi
geologici e geotermici di notevole intensità hanno determinato la struttura degli attuali basalti. Sembra che in epoca preistorica un fiume scorresse su sedimenti
argillosi; poi enormi eruzioni vulcaniche incanalarono nel letto di quel fiume un magma fluido, che sprofondò nei tratti più argillosi, determinando gli attuali colonnati
basaltici. L’apoteosi di queste spettacolari sculture della natura, si ha in contrada Larderia del Comune di Motta Camastra. Guardando dall’alto la famosa Gola
dell’Alcantara, si potrebbe ipotizzare la contemporanea frattura del terreno in quell’epoca geotermica. Lo spettacolo delle Gole (anche quelle di Francavilla di Sicilia
alla contrada Passerella e Castiglione di Sicilia alla contrada Mitogio) esercita sui turisti di tutto il mondo un grande fascino. Il fiume nasce alla pendici di Monte
Soro, in territorio Nebroideo, in territorio del Comune di Floresta (ME); le piccole polle d’acqua, e poi torrente su torrente, affluente dopo affluente, verso Randazzo
(CT), la piana di Moio Alcantara (ME), Francavilla di Sicilia (ME), Motta Camastra (ME), Castiglione di Sicilia (CT), Graniti (ME), Gaggi (ME), Calatabiano (CT), la
bella Taormina (ME), perla del turismo siciliano, per finire alla foce, sulle Rocce Nere di Giardini Naxos (ME), prima colonia greca di Sicilia. La via dei Greci, lungo il
fiume, con i cocci disseminati della storia, negli scavi di Francavilla di Sicilia, nei musei archeologici di Naxos, di Randazzo (Museo Vagliasindi); cube e, monasteri
bizantini, testimonianze arabe, echi dalla storia, “Valle alta dello spirito”, per definirla con il prof. Nilos Vatopedinos, patriarca ortodosso in Italia.
In territorio di Randazzo, il fiume si sposa con le pendici dell’Etna, qui si rimpingua, vive, diventa figlio della “Montagna”. Dietro i ruderi del Castello, in territorio di
Francavilla di Sicilia, preziose le testimonianze di archeologia industriale; l’energia cinetica dell’acqua che si trasforma, in virtù di noti principi della fisica, in energia
elettrica: vecchie turbine, paratoie, e poi giù, nella frazione di Fondaco di Motta Camastra, e dopo su per la condotta forzata, il primo salto e… fu la luce, la prima
produzione di energia elettrica, fra la fine dell”800 e l’inizio del ’900. E per questa preziosa fonte di energia, che allora da Taormina, i turisti dell’800, partivano in
carrozza alla volta di Francavilla per le cure termali (acque sulfuree) e soggiornavano all’Hotel du Chateaux ” avec la lumière electrique “, come si legge in un
famoso depliant turistico edito in Svizzera. Ma anche acqua che trasforma la propria energia cinetica solo in energia meccanica, per fare girare le macine dei
mulini, tanti mulini, come tanti sono i resti di queste memorie da recuperare. In contrada Mitogio del Comune di Castiglione di Sicilia (CT) sul versante Catanese
e, nel Comune di Motta Camastra (ME) sul versante Messinese, si trova l’unica grotta di scorrimento vulcanico; ostica da raggiungere ma splendida da ammirare;
a testimonianza delle sue enormi dimensioni viene chiamata “Grotta dei Cento cavalli”. Da Gaggi verso l’abitato di Calatabiano, il fiume amplia l’alveo per tornare
a restringersi in prossimità della foce, nel territorio di Giardini Naxos, dove solcano le campate del famoso ponte di origine araba “Al qantar” (il ponte), dal quale
derivò il nome di questo meraviglioso corso d’acqua, corridoio ecologico di una Valle delle Meraviglie, come è stata definita in una brochure promozionale info
leader del Gal “Fiume Alcantara”. Ma oltre al leader II “Fiume Alcantara”, anche il PIT Valle Alcantara (progetto integrato territoriale) di Francavilla di Sicilia o il Patto
Territoriale Valle Alcantara con sede a Taormina, testimoniano la nuova attenzione progettuale della classe dirigente attuale nell’uso dei fondi comunitari per la
valorizzazione e rivitalizzazione di questa splendida risorsa naturale.
Territori Riserva Naturale Orientata “Isola Bella”
Si trova lungo la costa Jonica della Sicilia, a metà strada tra Messina e Catania ed esattamente nel territorio del Comune di Taormina. E’ quindi la rinomata “Perla
dello Jonio” ad ospitare questo scorcio di natura immersa nell’omonima baia, incastonata tra il mare e la terra ferma e collegata a quest’ultima da una sottile lingua
di sabbia, la cui forma viene continuamente modellata dalle correnti e dalle maree, dinamismo che affascina chi si sofferma ad osservarla dalla vicina strada che
corre lungo uno dei fianchi della Riserva o dall’alto Belvedere di Taormina; da qui, i cittadini chiesero ed ottennero l’isola da Ferdinando I di Borbone. Ed è proprio
da questa naturale balconata che parte un piccolo sentiero che permette di raggiungere la Riserva direttamente dal centro abitato, attraverso scale e tratti di strada
che da quota 166 m s.l.m. conducono, seguendo le naturali forme del monte Tauro, alla litoranea Strada Statale, da cui si dipartono gli ultimi 134 gradini della scala
d’accesso alla Riserva.
La Riserva è fruibile durante tutto l’arco dell’anno, grazie al clima mediterraneo che riduce a pochissime settimane, temperature al di sotto dei 10° C e condizioni
metereologiche sfavorevoli, concentrate, soprattutto, nei mesi di Dicembre e Gennaio. Infatti, già dal mese di Febbraio e fino al mese di Novembre, qualcuno osa
fare il bagno sotto gli occhi atterriti dei più freddolosi. I periodi migliori, per la visita della Riserva, restano comunque la primavera, in cui si assiste all’esplosione di
colori , e la fine dell’estate, quando, dopo le prime piogge, la temperatura consente piacevoli soste al sole.
Giunti in spiaggia, in prossimità dell’istmo, è possibile ammirare la baia, protetta dalle alte pareti dei due promontori. A Nord, infatti, il Capo Sant’Andrea, che ospita
la rinomata Grotta Azzurra, ripara la baia dai venti di Grecale e di Levante, mentre a Sud, il Capo Taormina, con i suoi suggestivi faraglioni, la ripara, in parte, dai
venti di Ponente. Entrambi i promontori, illuminati dai caldi colori del tramonto, il primo, e dell’alba il secondo, creano una tavolozza di colori più o meno intensi in
base alle stagioni, offrendo scenari incantevoli.
Tindari (Tyndaris)
L’antica cittadina Tyndaris, l’odierna città di Tindari in provincia di Messina, si caratterizza per la magnifica posizione panoramica, che si estende abbracciando il
Golfo di Patti, Capo Milazzo e le Isole Eolie, e per la monumentalità della sua zona archeologica; fu fondata da Dionigi di Siracusa nel 396 A.C. e può contare una
discreta storia, a partire dal suo coinvolgimento durante la prima guerra punica come postazione cartaginese e la sua successiva assoggettazione romana nel 257
A. C. Anche sotto il dominio romano la città conserva sempre la sua evidente importanza determinata dalla sua posizione strategica sul Mar Tirreno e sulle rotte
che interessano lo Stretto di Messina. La città conobbe anche le incursioni barbariche e sotto Teodorico, re degli Ostrogoti, la città conobbe un buon periodo di
splendore. Sotto il dominio bizantino la città divenne inizialmente sede vescovile. L’incursione araba in Sicilia iniziò nell’827, fatto storico che determinò la distruzione della città di Tyndaris e la conseguente fuga dei suoi abitanti, ripetizione di eventi passati che contribuiscono alla creazione della già citata città di Patti. Inizialmente la conquista normanna ignorò tale città, evento che determinò il declino del sito che in passato aveva conosciuto tanta importanza. Appartengono ad essa
opere di grande pregio architettonico come il Teatro Greco, risalente al IV° secolo a.C., la Basilica o Gymnasium ed il Museo, contenente reperti provenienti dagli
scavi della città antica. A poca distanza ha sede il Santuario della Madonna Nera (Maria S.S. Del Tindari), celebre luogo di culto nonché meta di incessanti pellegrinaggi. Imponenti sono i resti delle mura ciclopiche, in ottimo stato di conservazione, che ancora oggi costituiscono un raro esempio di perizia tecnica. . Le mura
Lungo la salita che conduce alla sommità di capo Tindari, si costeggiano a tratti le imponenti mura costruite al tempo di Dionisio e rafforzate e sostituite in seguito
da un doppio paramento di massi di pietra squadrata. La cinta racchiudeva solo nei punti non difesi naturalmente la città, che aveva una pianta regolare, con tre
ampi decumani (le vie principali e parallele) e cardini perpendicolari. La conformazione del terreno, in salita, facilitava il sistema fognario che correva lungo queste
strade secondarie, in pendenza, un piccolo Antiquarium, oltre l’ingresso agli scavi sulla sinistra, espone reperti rinvenuti durante gli scavi. L’insula romana Si tratta
di un intero quartiere a sud del Decumano Superiore, completo di terme, tabernae, abitazioni ed in particolare di una grande casa patrizia che conserva ancora, nei
pavimenti di alcune stanze, resti di mosaici. La Basilica E’ un bell’edificio ad arcate i cui resti danno un’idea della grandezza originale. Anche se il nome lo designa
come il luogo destinato alle assemblee, la sua vera funzione resta incerta: forse un monumentale propileo dell’agorà, lo spiazzo principale della città. Costruito con
grandi massi squadrati di pietra arenaria, presentava, sul fronte, cinque archi. Quello centrale, più ampio, costituiva l’accesso ad un passaggio coperto con volte a
botte che fungeva da galleria sulla strada principale.
Il teatro Raggiunto il Decumano Superiore, a sinistra. Si trova a monte del Decumano Superiore, probabilmente la via principale (sono venuti alla luce solo due
decumani). Di origine greca (fine del IV sec. a.C.) fu costruito sfruttando la naturale conformazione del terreno con la cavea rivolta verso il mare e le Eolie. Venne
trasformato in epoca imperiale per ospitare i combattimenti tra gladiatori.
Villa Romana di Patti (Messina)
Patti, in provincia di Messina, offre innumerevoli reperti archeologici attestanti la sua storia. In effetti è collocata in una preesistente area di antichi insediamenti greco-romani
dei quali sono stati trovati dei reperti in tutta la zona. Occorre precisare che non si hanno notizie certe sulla sua origine, come sul suo nome. Notizie più sicure si hanno,
invece, sul primo insediamento di origine normanna, circoscritto nella parte più alta della città ed attestato dalla creazione di una abbazia benedettina voluta dal
Conte normanno Ruggero nel 1094. Patti è una località dell’entroterra che si allunga sul mare con Marina di Patti, ove recentemente sono stati ritrovati i resti di una
villa romana. Il nucleo storico della città conserva ancora in parte il tessuto medievale di strette viuzze, sormontate da archi, raggruppato attorno alla Cattedrale. La
Cattedrale, la cui struttura attuale è settecentesca, presenta un bel portale quattrocentesco rimontato sulla facciata principale. Le colonnine a fascio che lo incorniciano sorreggono dei pregevoli capitelli con bassorilievi di gusto tardo-romanico: vi sono raffigurate figure zoomorfe e antropomorfe bifronti e alate.
All’interno è custodito il sarcofago della regina Adelasia (transetto destro), moglie di Ruggero I, rifacimento cinquecentesco dell’originale del 1118. Sul lato nord della città, in corrispondenza del torrente Montagnareale, si trova la porta San Michele, l’unica superstite della cinta muraria aragonese, e, a ridosso, la Chiesetta di S.
Michele, che conserva un bel ciborio marmoreo di Antonio Gagini (1538) con una composizione a trittico con una teoria di angeli al centro, affiancata da S. Agata e
S. Maddalena.
Di recente scoperta, la Villa Romana di Patti si trova in prossimità del sottopassaggio dell’autostrada sulla destra, in località Patti Marina. Si tratta di una grande
villa romana di età imperiale i cui resti sono venuti alla luce durante i lavori per l’autostrada. La struttura, che si estende su una superficie non inferiore a ventimila
metri quadrati, si compone attorno a un immenso peristilio con un largo portico a colonne, su quest’ultimo sboccano i vari ambienti che si dispongono sui quattro
lati. Tra questi la più importante è una grande sala triabsidata, che presenta ancora un mosaico a motivi geometrici e con raffigurazioni di animali domestici e feroci..
Essa domina tutto il lato Sud del portico, collegato con essa a mezzo di un grande arco del quale rimangono ancora i piedritti. Le altre sale hanno i pavimenti
generalmente costituiti da mosaici policromi a motivi geometrici, ancora ben conservati. Il mosaico più bello è quello del pavimento della sala tricora: di questo si
apprezza soprattutto la parte centrale dove compare uno schema detto a cerchi e a mandorle, con motivi geometrici che circoscrivono degli ottagoni raffiguranti
animali domestici e fiere in diverso atteggiamento.
Il secondo nucleo, sul lato orientale della villa, è carattezzato dalla presenza delle terme, costituite da vasche e pavimenti con suspensurae, praefurarium. La villa
venne distrutta da un terribile terremoto avvenuto intorno alla seconda metà del IV secolo d.C. Successivamente si continuò a vivere nella villa anche se su una
superficie ridotta.
Parco Archeologico di Giardini Naxos
Giardini Naxos si trova a 50 km circa da Messina ed è la più antica colonia greca di Sicilia. Le sue origini risalgono così indietro nel tempo da coincidere con la nascita della civiltà urbana in Occidente. Prima colonia greca di Sicilia, viene fondata intorno al 734 a.C. dai Calcidesi d’Eubea ai quali si unirono, come sembra ormai
certo, i Nassi dalla grande isola dell’Egeo. La città prospera in periodo arcaico e quindi, nei primi decenni del V secolo a.C., viene da Ierone dorizzata e riedificata
secondo un piano rigidamente regolare. Nel 403 a.C. è distrutta da Dioniso I di Siracusa che ne atterra le mura, riduce in schiavitù la popolazione e consegna
il territorio della città alle vicine popolazioni sicule, intendendo così punirla per essersi schierata con gli Ateniesi nel conflitto contro Siracusa. Dopo tale evento
Naxos non tornò più ad avere il rango e il ruolo di città, pur rimanendo il suo porto attivo per tutta l’antichità. La vita urbana si sposta a Taormina, che viene fondata
nel 358 a.C. da Andromaco, padre dello storico Timeo, il quale ivi accoglie gli esuli di Naxos. La vicenda della città si conclude dunque nell’arco di poco più di tre
secoli. Tale circostanza, che trova conferma nell’evidenza archeologica, fa di Naxos un osservatorio privilegiato per lo studio della più antica urbanistica delle città
greche d’Occidente. L’antico abitato di Naxos occupa la piattaforma lavica della penisoletta di Schisò e i terreni subito a nord di questa, per una superficie complessiva di 40 ettari. E’ delimitata a sud-est dal torrente Santa Venera e a nord-est dalla baia.
Questa vasta insenatura, compresa tra Capo Taormina e Capo Schisò, fu scalo naturale per le navi sospinte dalle correnti da Capo Spartivento o da Capo dell’Armi in Calabria: le prime navi greche seguirono questa rotta, che in linea d’aria non supera i 40 chilometri. E a questo proposito Eforo racconta che la nave di
Teocle, ecista della colonia di Naxos, sarebbe stata trascinata in Sicilia dai venti.
Il Parco Archeologico Le evidenze archeologiche lasciano pensare che il primo stanziamento della fine dell’VIlI sec. a.C. occupasse una superficie ridotta, non superiore ai dieci ettari: si tratta dei terreni della penisola contornanti la baia ove sono state scoperte tracce e resti consistenti databili alla fine dell’ VIII sec. a. C.. N el
corso del VII secolo, l’abitato, via via, si configura come citta. L’impianto, poi obliterato da quello rigidamente regolare del V secolo, è caratterizzato dalla coesistenza di diversi orientamenti, come suggeriscono i resti dei tracciati stradali scoperti. Tra questi appaiono importanti le arterie con orientamento N-S: più larghe delle
altre, assicuravano il collegamento tra la costa e l’entroterra. Edifici sacri o sacelli sono in luce all’interno del tessuto urbano di età arcaica. Costruzioni molto semplici, a pianta rettangolare e privi del colonnato esterno, guadagnavano splendore e risalto dal rivestimento policromo del bordo ligneo del tetto e dalla decorazione
frontonale. Risalente agli ultimi decenni del VII sec. a.C. è l’impianto dell’area sacra presso le foci del Torrente S. Venera, uno dei maggiori santuari della città.
Assai rilevante, ancorché raro, è il paramento del muro meridionale del témenos: i blocchi lavici del paramento esterno sono lisciati in superficie e arrotondati ai
margini, cosicché le linee di giuntura tra i blocchi risultano curve. Le origini di tale tecnica sono rintracciabili nella Grecia dell’Est, ove si concentra il maggior numero di esempi. E’ viceversa assai poco attestata nelle colonie d’Occidente e mai in un periodo così antico come a Naxos. Naxos è uno dei siti della costa orientale
della Sicilia che ha restituito il maggior numero di fornaci per la cottura dei manufatti in terracotta dal periodo arcaico a quello tardo romano e bizantino e fino ai nostri giorni. La materia prima era fornita dalle colline argillose retrostanti la baia. Questi impianti artigianali in larga parte erano collocati all’esterno della città. Vi sono
tuttavia fornaci, e tra le più antiche, anche all’interno dell’area urbana. Altra opera imponente è costituita dalle mura di fortificazione, costruite con enormi blocchi
lavici appena sbozzati, forse in concomitanza con l’attacco di Ippocrate, alla fine del VI sec. a.C., ed il cui circuito è stato quasi interamente individuato; a doppio
paramento, raggiungono lo spessore di 4,60 m e sono interrotte da quattro porte aperte in corrispondenza dello sbocco di strade urbane.
Zona Archeologica di Taormina
Taormina, in provincia di Messina, è un rinomato centro turistico isolano che però rientra in questo itinerario grazie alla sua storia ed ai vari reperti archeologici qui
ritrovati. Ricordiamo innanzitutto che i suoi primi abitanti furono i Siculi provenienti dal nord che vissero qui tranquilli finchè il tiranno siracusano Dionisio il Vecchio
distrusse la vicina Naxos ed i suoi superstiti si riversarono su questa località. Lo stesso Dionisio si interessò alla località conquistandola, questo dopo la pace
stipulata con i Cartaginesi nel 392 A.C.. Successivamente il superstite di Naxos Andromarco creò la località denominata Tauromenion, nel 358 A.C., insieme ad
altri superstiti della città. La città aiutò gli interessi siracusani, ma conobbe anche altre alleanze, come quella col Re dell’Epiro Pirro, con i Romani. Con quest’ultima
dominazione la città di Taormina conobbe un discreto periodo di prosperità economica.
Da quanto si evince i reperti storici ed archeologici qui raccolti sono di una certa importanza. Si può cominciare ad enumerarli a partire dal Teatro situato in una collina e che offre la possibilità di ammirare un bel panorama che comprende anche l’Etna, il Mar Ionio ed il Monte Tauro. L’attuale struttura dell’impianto è sotto l’influenza romana ed è una seconda edizione dell’edificio. Esso comprende una discreta cavea con nove settori a scalini, un doppio portico coperto sulle gradinate,
un portico interno con otto entrate corrispondenti alle otto originarie scale che dividevano le gradinate, portico comprendente varie nicchie di modeste dimensioni e
delle colonne, segno evidente dello stile architettonico imperiale, una scala che originariamente comprendeva due ordini di colonne di cui oggi rimane, purtroppo,
solo la parte più bassa di tutta la struttura. Tra gli altri reperti presenti nella città di Taormina si possono ricordare un Antiquarium importante per le iscrizioni epigrafiche e resoconti economici che esso contiene, un edificio ellenistico-romano che probabilmente poteva essere un ginnasio pubblico, una “Naumachia”, cioè
un lunghissimo muro contenente numerose nicchie di varia dimensione che preserva una cisterna con due navate e pilastri. Altri reperti più importanti si riferiscono
ad un piccolo teatro romano del II secolo D.C. con una cavea divisa in cinque settori ed i resti delle abitazioni greche databili nel IV-III secolo A.C. e di una casa
romana del I seco- lo A.C. nota per i suoi mosaici in bianco e nero ed una chiesa situata sopra i resti di un antico Tempio dedicato ad Iside [struttura religiosa greca
costituita da un atrio coperto e da due colonne]. Un fianco del Tempio è stato inglobato dalla Chiesa. .
Il Museo Archeologico è stato a lungo desiderato, a lungo negato, malgrado Taormina rappresentasse la culla dell’archeologia siciliana, e non soltanto siciliana.
Finalmente si apre sotto l’egida del Comune e in stretta collaborazione con la Soprintendenza di Messina. Nelle sale del bel palazzo trecentesco della Badia Vecchia, esempio tra i più interessanti del gotico siciliano, sono esposti i materiali dagli scavi più recenti (1984-1998). Il filo che li congiunge è quello della topografia
antica della città, come ricostruibile dai grandi monumenti ancora in luce e dai risultati della ricerca degli ultimi decenni. Ma la ricerca archeologica inizia precocemente a Taormina e coincide quasi con la nascita stessa dell’Archeologia. I primi scavi nel teatro risalgono al ‘700 e furono condotti dal principe de Spuches. Per
illustrare questa prima fase della ricerca, che continua ininterrotta nel ’800, accanto ai reperti dagli scavi recenti sono in esposizione molti di quelli appartenenti
alla storica raccolta conservata nell’Antiquarium del Teatro e principalmente formata da sculture. Con l’intento, infine, di unificare, anche se solo per poco, nel loro
luogo di rinvenimento, sono confluite nell’esposizione anche reperti di notevole interesse, scoperti a Taormina ed ora conservati in Musei siciliani. Per le sue qualità
artistiche, per il valore documentario e per le stesse circostanze di rinvenimento, la statua della sacerdotessa di Iside, senza dubbio, occupa un posto di primissimo
piano. Esempio raffinatissimo oltre ché raro della scultura dell’avanzato II secolo d.C., la statua rappresenta una delle testimonianze più efficaci e dirette del culto
di Iside e Osiride a Taormina. E’ scoperta nel 1861 da Saverio Cavallari nel corso delle esplorazioni condotte nell’area antistante la Chiesa di S. Pancrazio, costruita su di un tempietto di tarda età ellenistica. Si tratta di un importante ritrovamento, che, insieme a due iscrizioni, permette di attribuire con certezza al culto delle
Divinità Egizie il più antico edificio: la statua è subito trasferita a Palermo, dove entra a far parte delle collezioni del Museo Archeologico.In esposizione sono anche
taluni esemplari di oreficerie ellenistiche e bizantine, acquistati da P. Orsi presso antiquari taorminesi agli inizi del ‘900. Sono la testimonianza dell’interesse dello
studioso per Taormina e per il suo allora fiorente mercato antiquario; interesse, che travalica l’archeologia, come illustrano i vasi del sei, settecento in maiolica, già
della collezione Cacciola ed ora al Museo Bellomo di Siracusa.
Lo Stretto di Messina
L’estrema vicinanza tra Calabria e Sicilia (meno di chilometri in qualche punto), la similitudine tra le rocce e la morfologia tra le due sponde, i frequenti moti sismici indussero,
nell’antichità, a far ritenere che penisola e isola fossero unite fino a tempi non remotissimi,
unione che uno spaventoso cataclisma interruppe, formando lo Stretto. Tale credenza,
assunta dai filosofi greci e raccolta da studiosi e poeti, giunse fino a tempi non troppo
lontani da noi. I geologi moderni hanno invece dimostrato inconfutabilmente che lo Stretto
di Messina esiste da tempi remotissimi e che esso doveva essere anche più largo di oggi,
conformemente al fatto che buona parte della Sicilia era sommersa dal mare fino a poche
decine di milioni di anni fa. Ma la ristrettezza del passaggio, le acque perennemente agitate, i vasti gorghi che vi si formano hanno, da sempre, eccitato la fantasia dei naviganti.
Le Leggende sullo Stretto
Le Leggende sullo Stretto
Il mito di Scilla e Cariddi
Omero, nell’Odissea, parlava di Scilla, dolce fanciulla innamorata di Glauco, trasformata
da Circe in un terribile mostro a sei teste. La mostruosa figura, incutendo timore ai naviganti che cercavano di avvicinarsi alla costa, scatenava tremende tempeste.
Sulla sponda sicula dello Stretto c’era invece Cariddi, trasformata da Giove in terribile
mostro in quanto colpevole di avere rubato i buoi ad Ercole.
Il mito di Scilla e Cariddi, oltre che da Omero, fu cantato da Dante, Virgilio, Ovidio.
La leggenda di Colapesce
Colapesce era un giovane che viveva in simbiosi col mare. Un giorno, dopo una delle
tante immersioni nei fondali dello Stretto, trovò un tesoro. Si narra che Federico II venne
a sapere del giovane e volle metterlo alla prova : gli chiese di calarsi in profondità e di
vedere su cosa poggiasse la Sicilia. La leggenda vuole che il giovane, accortosi che la
sua Isola poggiava su due colonne salde e su una fragile, decise di restare per sempre
sott’acqua a sostenere quest’ultima. E la leggenda volle colorire la sua scomparsa ponendolo a reggere uno dei tre pilastri su cui poggia la Sicilia, il pilastro nord, quello di capo
Peloro, il più sollecitato dai capricci tellurici. La gente convinta che Colapesce giunto in
fondo al mare, abbia visto la colonna quasi infranta e temendo che la sua Messina potesse sprofondare da un momento all’altro, si sostituì ad essa o forse
corse a sorreggerla per non farla spezzare del tutto.
Il fenomeno della Fata Morgana
Lo Stretto si caratterizza per il fenomeno della Fata Morgana, che talvolta, in particolari condizioni climatiche fa sì che le ombre delle case e delle luci di
Messina si allunghino sull’acqua, unendosi a quelle della sponda calabrese, dando la sensazione di vedere un’unica, immensa città.
Questa forma speciale di miraggio, visibile quasi solo dalla costa di Reggio Calabria, assai di rado, per breve tempo e di solito con giornate calde ed
aria e mare calmi, sembra ravvicinare la sponda sicula, sulla quale gli edifici ed in generale gli oggetti si prospettano in mare o nell’aria con immagini
stranamente allungate, deformate, che si rinnovano continuamente, simulando città fantastiche ed anche schiere d’uomini in movimento. Una spiegazione sicura del fenomeno non si conosce, sebbene il fenomeno sia uguale in un certo senso a quello dei deserti.
Cariddi
Tra le molte leggende che appartengono al patrimonio culturale della primordiale Messana, detta allora Zancle, una della più belle è quella che ricorda
l’esistenza di Cariddi, una mostruosa creatura della mitologia ellenica, ritenuta figlia di Poseidone e della Terra.
Secondo gli antichi poeti, passava Ercole, in quel tempo, dall’Italia alla Sicilia e conservava una mandria di buoi. Per attraversare lo Stretto gli si attaccò
alle corna di un bue-guida e con esso toccò felicemente terra sulla spiaggia di Torre Faro, nella zona del Peloro. Quando anche l’ultimo bue uscì dal
mare, egli contò il bestiame e con grande sorpresa si accorse che mancavano diversi capi.
Era successo, infatti che la ninfa Cariddi, una grassa fanciulla sempre affamata che viveva nelle acque dello Stretto, si era avvicinata di soppiatto alla
mandria che nuotava e, mentre Ercole s’era distratto ad ammirare la riva del Peloro, gli aveva rubato una parte dei suoi capi più belli, Ercole la vide alla
lontana verso l’imboccatura sud dello Stretto, mentre a quattro ganasce ingoiava l’ultimo bue rubato.
Ercole chiese aiuto a suo Padre Zeus e, come sempre, il grande Zeus, andò per Sanare un torto e ne creò un altro. Cariddi, infatti, tramutata in un
gorgo dello Stretto di Messina, divenne pericolosa per ogni navigante. Ma, ahimè, nessun marinaio riuscì mai a tornare vivo a galla, dopo essere sprofondato nei vortici di Cariddi, le antiche fonti, però, non sono tutte d’accordo nell’ indicare l’ubicazione esatta di questo pericoloso gorgo. Taluni scrittori
lo posero verso nord, davanti a capo Peloro, quasi di fronte all’altro affamatissimo mostro che rispondeva al nome di Scilla. Altri, invece lo collocarono
all’imbocco sud dello Stretto di Messina, circa cinquecento metri dentro le acque ioniche quasi di fronte all’attuale lanterna nella penisoletta di San Ranieri.
Ma, in forma più fantasiosa e ricca tu particolari, fu Omero che per primo ne raccontò il mito. Ma qual’ è o quale è stata la causa scientifica che ha originato la leggenda del mostro ? Vediamola.
Tra Punta Pezzo in Calabria e Capo Peloro o Capo Faro in Sicilia la soglia sottomarina si alza fino a raggiungere Cento metri sotto il livello del mare.
Ora succede che quando nel mar Tirreno a nord, vi è alta marea a sud della soglia, nel mare Ionio c’è bassa marea e viceversa. Questo continuo
alternarsi di basse ed alte maree, origina alterni flussi e riflussi d’acque dall’uno all’altro mare che generano maree dal dislivello medio di 15-20 cm, con
punte massime anche di 50 cm , in un ciclo completo di 24 ore e 50 minuti. Si creano così violenti spostamenti di masse d’acqua in senso orizzontale
e rapide emersioni di acque profonde, che generano estesi e vorticosi gorghi detti refoli (garofuli). La rema montante, ovvero la corrente di flusso che
dal mare Ionio va al mar Tirreno, inizia nello Stretto circa due ore dopo il passaggio della luna sul meridiano di Messina, corre ad una velocità di circa 9
Km. all’ ora ed ha una durata media di circa 6 ore. Il riflusso o rema discendente, inizia una lenta discesa verso il mare Ionio 4 ore prima di tale passaggio e genera una corrente anch’essa di circa 9 Km al minuto (max 12).
Tanto durante il dominio dell’ una e dell’altra di queste correnti, si generano lungo le due rive dello Stretto due contro correnti secondarie che formano
nei seni lungo le coste predette alcuni piccoli gorghi: tre gorghi principali, veri vortici si producono lungo lo Stretto l’uno presso la Lanterna di Messina
ove si incontrano la corrente principale con la controcorrente che esce dal porto e la controcorrente costiera; altro vortice si forma dalla Punta Pezzo in
Calabria ove la corrente dominante è obbligata a ripiegare per la configurazione dello Stretto e quindi a fare resistenza alla controcorrente litoranea; un
terzo vortice si forma presso la spiaggia di Ganzirri ed è di minore importanza degli altri. Il fronte della corrente è detto taglio, i fronti delle controcorrenti
prendono il nome di bastardi o refoli.
Di questo fenomeno non più sovrumano ma perfettamente naturale ne parla anche il grande navigatore musulmano Ibn jùbair che nel suo libro Viaggio
in Sicilia e in altri paesi del Mediterraneo così descrive il suo naufragio avvenuto nelle acque dello Stretto di Messina: “In questo Stretto, il quale giace
tra la Grande Terra e l’isola di Sicilia, la distanza tra le due coste è ridotta a sei miglia, nel punto più breve è tre. Il mare si precipita furioso in questo
passo angusto e bolle come una caldaia tanta è la veemenza della pressione e della spinta. Molto difficile alle navi traversarlo..” Allora la nave di Jùbair,
urtò con la chiglia contro la costa ed affondò. I naufraghi furono salvati dalle barche paesane, subito accorse.Caduta la leggenda anche il mare pareve
placarsi e i gorghi vorticosi dello Stretto di Messina, ora si formano sempre con minore frequenza. Nel linguaggio popolare, poi, Cariddi cambiò nome e
divenne “ u Galofuru u Calofuru”, poi la somiglianza del suo ribollire e dello spumeggiare delle sue crestine d’onda con la corolla e petali di un garofano.
Visto dall’alto esso sembra ruotare in senso orario come tanti altri vortici; nello Stretto ve ne sono alcuni che girano anche in senso antiorario, secondo
l’andamento del flusso correntizio.
Riferimenti: http://www.tavoladimessina.com/lo_stretto_di_messina.html
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- www.saporiegustidisicilia.it sito in disuso
- www.trapanieccelle.it sito in disuso
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- http://www.politicheagricole.it / Qualità e sicurezza . Sai quel che mangi, qualità e benessere a tavola
- Atlante Qualivita / ViedelGusto
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http://sicilia.indettaglio.it/ita/comuni/me/letojanni/letojanni.html
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