peparini

Transcript

peparini
EMOZIONE
VERONICA
PEPARINI
MICHELE
MASTROIANNI
body is
architechture
ei
LACCIO
MODULO PROJECT
giorgio ROSSI
tra musica e poesia
64
PAGINE
interviste
tendenze
approfondimenti
caterina genta
&
marco
schiavoni
una colonna sonora di pura danza
N°6
2015
SOMMARIO
DANZA E ARCHITETTURA
PAG 24
BODY IS ARCHITECTURE
CREATING NEW STRUCTURES
Il nuovo lavoro del coreografo
e Art Director Michele
Mastroianni.
bimestrale
di approfondimento
di Annachiara Eliseo
ph. Martin Charrat
Direttore Responsabile
Vito Cutro
Direttori di Redazione
Luana Luciani Monica Ratti
Responsabile Redazione
Angela Testa
Hanno collaborato a
questo numero:
Lara Crippa
Anna Chiara Eliseo
Gabriella Gori
Monica Ratti
Angela Testa
COPERTINA
PAG 4
EMOZIONE VERONICA
La mia coreografa
preferita
Intervista alla star televisiva Veronica Peparini
di Monica Ratti
Art Direction
Francesca Fini
PAG 14
LA FAMIGLIA SI FA MODULO
PROJECT
Con Laccio a tu per crew
Intervista a Emanuele Cristofoli,
direttore creativo dei Modulo
Project
di Lara Crippa
ph. Gianluca Palma
COMPAGNIE
Direzione-Redazione
Via Galazia 3
00183 Roma
Tel 06 77209065
Fax 06 99701064
Edizioni
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Il Servizio Abbonamenti
è a vostra disposizione al
numero 06 70493730
o scrivendo a:
[email protected]
Iscrizione Tribunale
Dance And Culture
N. 96/ 2014
del 24 aprile 2014
Emanuele Laccio Cristofoli
2
ph. Sara Venuti
ph. Dominik Mentzos
SOMMARIO
Francesco Ventriglia
COREOGRAFI
PASSO A DUE
SCUOLE
PAG 34
GIORGIO ROSSI
Dare un senso alla Danza tra
Musica e Poesia
Intervista al coreografo e direttore artistico dell’Associazione
Sosta Palmizi
PAG 44
CATERINA GENTA & MARCO
SCHIAVONI, PASSI IN SCALA
Intervista al compositore e
video artista Marco Schiavoni
e alla coreografa e danzatrice
Caterina Genta
PAG 58
ROBERTO FASCILLA
Danza, non solo passi
Intervista all’etoile, coreografo
e Direttore di Corpi di Ballo e
Teatri Stabili
di Gabriella Gori
di Angela Testa
di Monica Ratti
CERCA I CONTENUTI SPECIALI:
3
veronica peparini
4
COPERTINA
di Monica Ratti
EMOZIONE
VERONICA
la mia coreografa preferita
E
Era la fine degli
anni ’80, quando le gloriose
sale dello IALS,
con le lezioni del famoso
maestro
Roberto Salaorni,
erano gremite
da
centinaia
di ballerini, sì,
prevalentemente ballerini, perché allora la
televisione, il Teatro Sistina, le
compagnie di danza, la Compagnia Della Rancia, i tour
con i cantanti, le convention
offrivano tante opportunità di
lavoro.
In sala 1 i ballerini, non trovando posto, si sistemavano anche fuori della pedana danza,
sui corridoi di pavimento che
la delimitavano, e tra i Silvio
Oddi, Luigi Grosso, Tania Piattella, Matilde Brandi, Giuliano
Peparini, Tony Bongiorno, Cristina Gangalanti, Mauro Mosconi e molti altri c’era anche
lei, Veronica Peparini.
Anche Veronica lavorava in
televisione e durante la lezione
la osservavo perché era molto
riservata, a dire il vero la consideravo antipatica, con una
di quelle classiche valutazioni
che fai a pelle senza conoscere minimamente la persona.
La ritrovai a distanza di anni,
nel 2005, al Teatro del Sogno
a Roma perché partecipò con
la Palestra Planet di Via Appia,
dove ancora oggi insegna, al
Concorso Chorea Mundi, organizzato dalla One grazie a
un contributo del Comune Di
Roma sotto la direzione artistica di Stefano Vagnoli ed il mio
coordinamento.
Fu un colpo di fulmine. Appena vidi il suo lavoro me ne innamorai perdutamente, era
intenso, gli allievi bravissimi, soprattutto dal punto di vista interpretativo, le scelte musicali
accattivanti, lei non ricercava
la perfezione del movimento
ma la perfezione nel trasmettere emozioni, ogni suo danzatore era completamente
diverso dall’altro per aspetto
fisico e preparazione tecnica,
ma tutti insieme amalgamati
sapientemente erano emozione pura.
E fu lei, infatti, a vincere il premio Chorea Mundi in una travolgente finale all’Auditorim
della Conciliazione dove in
giuria c’erano Heather Parisi, Roberto Salaorni, Vittoria
Ottolenghi, Mimmo Del Prete,
Luciano Cannito, Stefano Vagnoli.
Da quel momento il mio rapporto con Veronica si è trasformato in amicizia, lavoro,
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confidenze, risate e ancora
oggi, che è all’apice del successo perché riconosciuta da
un’ampia platea conquistata
grazie al programma Amici di
Maria De Filippi, il suo modo
di rapportarsi con me non è
cambiato per nulla, e di questi
tempi è cosa rara.
In qualunque situazione lavorativa da me gestita, Veronica
è sempre stata l’artista più intelligente e capace di creare il prodotto più giusto per il
tipo di esigenze che venivano
richieste e così dalla Fiera del
Fitness a Firenze per la Peugeot, fu confermata per il Motor
Show di Bologna, dove gli organizzatori di Miss Italia non se
la fecero sfuggire, rinnovandole il contratto per le successive
edizioni.
In seguito, organizzai uno spettacolo con la sua compagnia,
si chiamava Free Dance Company poi Compagnia Veronica Peparini, al Teatro Ambra
Jovinelli di Roma dove la rivide Vittoria Ottolenghi che la
invitò al Todi Arte Festival con
i suoi ballerini per realizzare,
nell’ambito di una delle sue famose Maratone, un lavoro per
Heater Parisi.
Nello spettacolo al Teatro Ambra Jovinelli partecipò anche
Kledi Kadiu, suo storico amico,
e la coreografia che interpretò sul brano ‘Minchia signor
Tenente’ fu molto apprezzata.
Con quello spettacolo Veronica e Kledi realizzarono la loro
prima tournée. Ma il progetto
più ambizioso che realizzammo fu per la piattaforma Avvertenze Generali al Festival
di Bolzano Danza nel 2011. Un
concerto in danza con musica dal vivo dei Velvet, un lavoro imponente, straordinario,
in cui solo la miopia dei nostri
programmatori italiani non
riuscì a vederne le potenzialità. Vi invitai anche un famoso operatore che all’epoca
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aveva strettissimi rapporti con
il programma Amici. “Devi venire assolutamente” gli dissi “ti
devo mostrare il lavoro di una
coreografa che a mio modesto parere è adattissima al
programma”.
Con mio grande rammarico,
la bocciò senza esitare su tutti
i fronti ma Veronica, da persona intelligente e poco presuntuosa qual è, pur con grande
delusione, incassò con eleganza.
Gli replicai che si stava sbagliando perché, scusate la
presunzione, per queste cose
ho sempre avuto naso. E infatti
così fu! Ebbi ragione.
E se tutti voi pensate che Veronica stia nel programma Amici grazie a suo fratello Giuliano Peparini, bè, vi sbagliate!
Veronica fu invitata in qualche
puntata prima di Giuliano, per
poi essere sempre più presente. Giuliano entrò a farvi parte
perché fu proprio lei, la sorella,
a parlarne a Maria De Filippi
che, invece, in quanto a naso
ne ha da vendere.
Mamma di due deliziosi bambini, Daniele di 8 anni e Olivia
di 3 anni e mezzo, moglie di un
ballerino, Fabrizio Prolli, Veronica si barcamena come tutte
le donne in carriera tra lavoro
e casa, i viaggi per seguire i
suoi lavori come Romeo e Giulietta di David Zard, o i grandi
spettacoli realizzati per Franco
Dragone o, più semplicemente, per i vari stage che la vedono sempre più impegnata
in tutta Italia.
Hai ballato, hai insegnato, hai
coreografato, ora sei star in tv.
Cosa vorresti fare nell’ambito
della danza che ancora non
hai fatto?
Mi piacerebbe fare un altro
grande spettacolo con i Big
della musica, l’esperienza con
i Velvet ancora la porto nel
cuore e se ben ricordi l’abbiamo realizzata con scarsi mez-
zi anche se per noi nel 2011
erano tanti rispetto a come
eravamo abituati. I Velvet poi
furono adorabili nel sposare il
progetto. Peccato che poi non
ci fu seguito e tutto si fermò al
progetto Avvertenze Generali realizzato a Bolzano. Tra gli
artisti con cui mi piacerebbe
fare uno spettacolo di musica
e danza una è Elisa (che tra
l’altro non è nuova a questo
genere di cose perché molti
anni fa realizzò con Vittoria Ottolenghi a Castiglioncello una
serata evento con il coinvolgimento di diverse compagnie
e coreografi, da Bigonzetti a
Sieni, da Celli a Micha e tanti
altri, uno di quei progetti unici
e irripetibili di Vittoria Ottolenghi) e l’altra è Miley Cyrus.
Cosa significa per te insegnare? Cosa ti prefiggi di essere
per i tuoi allievi?
E’ uno stimolo per ricercare
cose nuove, i ragazzi che studiano con me arrivano generalmente da altre realtà,
hanno una base, in molti casi
un’ottima base. Io non sono
un’insegnante di formazione,
con me studiano per perfezionarsi in un linguaggio, già
proiettati al mondo del lavoro,
col loro background, le loro
esperienze che mi arricchiscono e io contraccambio dando
loro esperienze nuove; ecco,
è questo l’insegnamento per
me. Non mi prefiggo nulla in
realtà, solo farli lavorare in un
ambiente sereno. Insegno perché mi piace ancora ballare
e con i miei allievi non spiego
solo ma ballo, questo è un ottimo modo per sperimentare
insieme e crescere.
Perché secondo te i ragazzi
che studiano danza non sentono l’esigenza di andare a
vedere spettacoli di danza?
Non sono curiosi, si fermano a
quel poco che hanno attorno
e non vanno a vedere nulla
Natalia Horecna in prova con la Junior Company del Vienna State Ballet
per la coreografia ‘Malerei Eines Traumes’, ph. Ashley Taylor
7
WORK’N...
Veronica Peparini
con David Zard
vince il Premio
Oscar del Musical
2015 per la
miglior coreografia
con lo spettacolo
Romeo e Giulietta
Veronica Peparini in viaggio con Kledi, Natalia Titova, Garrison e Alessandra Celentano.
8
...PROGRESS
Veronica Peparini e il marito Fabrizio Priolli
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che non li coinvolga direttamente. C’è però una mancanza da parte dello Stato
a rendere la cultura fruibile,
accessibile e soprattutto non
c’è una progettualità tesa a
formare nuove generazioni
più sensibili nei confronti delle
forme artistiche in generale,
ma non è mio compito fare
politica in tal senso, è solo una
considerazione sulla nostra
condizione in Italia.
C’è da dire però, nello specifico, che molta danza ha allontanato l’interesse del pubblico
per questa forma di spettacolo. Le persone desiderano che
gli venga raccontato qualche
cosa, se uno spettacolo ti annoia è ovvio che non ripeti l’esperienza una seconda volta.
E’ un modo sicuramente un
po’ semplicistico di spiegare
una questione piuttosto complessa ma è inutile girarci attorno, il pubblico oggi è così.
Nella mia esperienza di Romeo e Giulietta di David Zard
la cosa che più mi ha colpita sono stati i matinée per le
scuole, 4000 bambini seduti
per 3 ore, rapiti, stupiti, incantati, entusiasti.
C’è poco da fare, se uno spettacolo ti offre scene, costumi,
belle luci, racconta una storia
in modo che tu possa leggerla durante lo spettacolo, ottimi artisti, come non può non
diventare magico anche per
un bambino? E da questo potremmo poi riuscire anche a
coinvolgerlo e sensibilizzarlo
per altro e non viceversa.
Com’è il rapporto con tuo fratello?
Da un punto di vista lavorativo come fratello e sorella
lo scontro è più facile, la discussione, c’è una confidenza maggiore, meno freni. Ora
però siamo riusciti a trovare
un giusto equilibrio. Abbiamo
anche due staff diversi che
ci aiutano nel nostro lavoro e
che a volte entrano anche un
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po’ in competizione tra loro,
ma è nelle cose, per cui oltre
a dover mediare tra di noi,
capita che le scintille partano
anche tra i collaboratori. Ma
io e Giuliano siamo sempre
stati molto legati, prima di tutto come fratelli, poi la danza
ci ha unito ancora di più.
E io sono testimone del fatto
che quando collaboravamo
e facevamo eventi insieme
tu non mancavi mai di parlarmi di tuo fratello che, pur
essendo uno straordinario e
riconosciuto artista già all’epoca, non aveva ancora fatto
il grande salto verso la notorietà e ricordo con quale affetto e stima me lo proponevi;
ho ancora il progetto che mi
inviasti per uno spettacolo di
cui parlai con Giuliano e che
poi lui realizzò in Francia.
Ho sempre amato e apprezzato il lavoro di mio fratello
come ben sai e anche lui mi
ha sempre dimostrato stima e
affetto, tra fratelli qualche incomprensione e litigio ci può
stare.
Quali sono gli insegnanti a cui
sei più legata? Mi riferisco al
periodo della tua formazione.
Ho iniziato a studiare al Dance Studio di Renato Greco a
Piazza Esedra, anche Giuliano ha iniziato lì, classico, modern; da Renato facevamo
tecnica Matox, poi sentii dire
che alla Crazy Gang si studiava con le scarpe da ginnastica e questa cosa mi fece
impazzire, io curiosa, dovevo
capire cosa fosse. Così andai
alla Crazy Gang dove però
continuai a studiare anche
classico con Piero Martelletta,
poi proseguii allo IALS, il mitico luogo che a Roma ha visto
il passaggio di migliaia di professionisti dove studiavo con
Michel Ellis, Roberto Salaorni
ma l’insegnante che porto
maggiormente nel cuore, e
che definisco anche un caro
amico, è Mauro Mosconi. Ho
sempre studiato classico perché ritengo sia fondamentale
nella formazione di un danzatore, ma amo particolarmente chi viene dal mondo Hip
Hop, dalla Break Dance, hanno una preparazione atletica,
una sensibilità musicale che
mi affascina, sono danzatori
travolgenti che non si risparmiano.
E i coreografi con i quali hai
lavorato?
Principalmente con Luca Tommassini per i lavori che definirei più Pop e con Giuliano
per progetti più poetici, contemporanei, poi ho lavorato
anche con Mauro Mosconi,
Marco Garofalo, Roberto Croce, Franco Miseria.
I ricordi più divertenti o bizzarri legati al tuo periodo di
ballerina?
Partivo per l’Oman con Luca
Tommasini per uno spettacolo
dedicato ai militari, era subito
dopo l’11 settembre. Volavamo su aerei militari e poi sull’elicottero che doveva portarci
nel deserto a fare lo spettacolo. Eravamo tutti dotati di copricapi e occhiali a infrarossi,
non ci sentivamo, ci vedevamo solamente, eravamo nel
bel mezzo di una tempesta
di sabbia, io ero terrorizzata, mentre scendevo dall’elicottero urlavo, continuavo
a ripetere: “Ma chi me lo ha
fatto fare, sono matta!” In realtà nessuno mi sentiva ma ridevano a crepapelle perché
io gesticolavo come una pazza. Con Michele Oliva e Francesco Saracino ancora ce lo
raccontiamo.
Un altro periodo bellissimo è
quello di Macao, dove sono
stata per lungo tempo per lavorare allo spettacolo Tabù
di Franco Dragone, uno show
forte, di quelli che a me piac-
ciono particolarmente e dove
ho sentito di potermi esprimere al meglio. Ho portato con
me i figli malgrado le critiche
di tutti: come farai a lavorare,
chissà che situazione troverai.
Invece mai luogo si è rivelato
più adeguato per consentire a una mamma di lavorare
senza dover rinunciare alla
presenza dei suoi figli.
Quali sono i coreografi italiani che stimi di più e quali gli
stranieri?
Tra gli italiani il lavoro di Enzo
Celli, soprattutto il Celli prima
maniera, è quello che mi ha
maggiormente
interessato.
Celli ha avuto coraggio nell’elaborare un linguaggio suo, ri-
conoscibile ma originale, fuori dagli schemi a cui eravamo
abituati, un lavoro fresco, di
impatto, che mescolava hip
hop, arti circensi, danza contemporanea, il primo a fare
questo in Italia. Tra gli stranieri, Cristal Pait del Nederland e
mi piace molto il lavoro della
Compagnia Batsheva.
Spesso ho letto che fai parte di una famiglia tutta artistica, cogliamo l’occasione
per dire ai nostri lettori che a
parte Giuliano i tuoi genitori,
in realtà, non c’entrano nulla
col mondo dello spettacolo,
sono in realtà commercianti:
hanno un negozio di scarpe a
Roma. Da tempo, però, la tua
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famiglia si è allargata, anche artisticamente,
perché tuo marito Fabrizio Prolli è un ballerino,
come vi siete conosciuti?
Durante le mie lezioni alla scuola di Kledi, lui era
un mio allievo, da allievo è diventato assistente,
da assistente marito, è uno straordinario padre
ma soprattutto è l’altra parte di me, la parte organizzata, quadrata, razionale, insieme ci compensiamo perfettamente.
Al termine dell’intervista ci raggiunge anche Fabrizio, il marito, ripartono i ricordi, gli episodi, le
risate. Siamo negli studi di Amici, il luogo che l’ha
resa popolare al grande pubblico, e malgrado
sia strafelice per lei e per il suo successo, per me
lei è e rimane la mia coreografa preferita: non
avevo bisogno di Amici per accorgermene.
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FAMIGLI
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EC
14
T
COMPAGNIE
I MODULO PROJECT, (da sx a dx)
Valentina Cristofoli,
Manuela Saccardi,
Fabio SHAKE Bernardini,
Emanuele LACCIO Cristofoli,
Laura Bernardini, Ilenya Battista,
di Lara Crippa
T
The Voice of Italy vuole le loro coreografie, così com’è stato per i
programmi televisivi Barbareschi
Sciock, Stasera niente MTV con Ambra Angiolini o The Show must go off
con Serena Dandini; i programmi
musicali fanno firmare loro le sigle
di apertura, da Wind Music Awards
all’Arena di Verona a MTV hip hop
awards 2012 e MTV awards 2014; i
cantautori italiani si avvalgono delle loro modulazioni coreografiche
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16
ed estetiche, da Tiziano Ferro
a Raf, Gianna Nannini, Laura Pausini, Giorgia, Zucchero,
Giusy Ferreri, la lista è infinita; la
moda se li contende alle inaugurazioni, dall’apertura dello
store a Roma di Louis Vuitton al
Tezenis fashion show 2015.
Chi sono i Modulo Project, che
se non bastasse hanno anche
una loro scuola di danza nel
paese di origine e un’accademia a Milano con relativa compagnia?
Alla vigilia della festa per i loro
primi 10 anni abbiamo intervistato Laccio (Emanuele Cristofoli, classe 1981), ballerino, coreografo e direttore creativo,
per farci condurre in questa realtà modulare, comprenderne
gli equilibri estetici e strutturali, e scoprire come la fama di
questi incredibili ragazzi si radichi sull’unione, la consapevolezza, il lavoro, e una desueta
educazione.
Laccio, legante dei Modulo,
cominciamo dal nome.
Sono Laccio da sempre, da
quando la mia vecchia insegnante, richiamandomi perché mi allacciassi le scarpe,
per sbaglio se ne uscì con questo “laccio!”. Mai nickname fu
più calzante.
Mantenete un forte legame
con Pontinia, la vostra città di
origine, dove vi siete formati e
conosciuti.
Siamo cresciuti insieme. Siamo
stati una formazione, un gruppo, una crew… eravamo un
“modulo” prima ancora di saperlo.
Lì c’è ancora la prima scuola
Modulo che abbiamo fondato, da cui tutto è nato, e che
oggi è gestita da mia sorella
Francesca.
Quale influenza hanno tracciato i tuoi studi di design?
Il nostro nome, Modulo, essere
polivalenti come i moduli architettonici. Non ho terminato gli
studi allo IED di Roma perché
stavo seguendo Tiziano Ferro in
tournée, e poi tutto è esploso,
ma la scuola ti influenza. Cerchiamo di lavorare a 360 gradi,
poter curare tutti gli aspetti di
un evento, l’immagine, l’allestimento. È questo il ruolo di un
Direttore Creativo.
E la moda? Sei finito nelle pagine di Vogue.
Avevo creato una collezione
per gioco, e uno sceicco del
Kuwait l’ha presentata ai guru
della moda. Ma non avevo radici. Questo aspetto l’ha proseguito mia moglie Manuela
all’interno della compagnia,
curando e seguendo i nostri
abiti e costumi.
Al giorno d’oggi suona quasi
obsoleta una realtà di danza
urbana fondata sulla famiglia -
Laccio, Manuela, Laura e Shake
17
14
Modulo Project
15
due migliori amici, le
rispettive mogli, due
sorelle - una squadra,
i Modulo Project, che
compie 10 anni nel
dicembre 2015.
Il team è fondamentale, solo se fai squadra puoi rimanere
insieme. E il gruppo è
anche la nostra forza. Siamo un collettivo che spazia dai
25 ai 40 anni, unito
da sodalizi familiari,
ma dove ognuno ha
la sua specificità, la
propria indipendenza. Una crew a sua
volta indipendente,
una piccola casa di
produzione che fa
tutto da sé, foto, grafica, costumi. Shake, per esempio, sta
sviluppando il video
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Laccioland Company
making, è lui che si
occupa della nostra
produzione
video.
È dura, ma insegno
sempre che solo imparando la tecnica
delle maestranze si
può diventare indipendenti.
A proposito di insegnamento, oltre alla
scuola Modulo di
Pontinia avete anche
fondato una Urban
Dance academy a
Milano, la MF - Modulo Factory. A chi è
rivolta?
La Modulo Factory
è una vera e propria accademia per
ragazzi dai 16 ai 25
anni che finiti gli studi vogliono tentare la
professione. Gli spazi
sono all’interno della
Lo Schiaccianoci di Amedeo Amodio, con le scene e costumi di Emanuele Luzzati
ph. Rosellina Garbo
struttura DanceHaus
di Susanna Beltrami.
I ragazzi fanno 12 lezioni concentrate nei
primi 3 giorni della
settimana, così da
poter lavorare nei
weekend. Le classi
sono ovviamente di
danza urbana, hip
hop, out dance. I docenti siamo sempre
noi, ma ci avvaliamo
anche di un team
esterno che permetta ai ragazzi di avere comunque a che
fare con realtà professionali.
E la Modulo Factory
ha prodotto la compagnia Laccioland.
Come si sta sviluppando il modulo teatrale?
Ho voluto che la compagnia dell’accade-
mia fosse legata al
mio nome, il mio stile.
I ragazzi, i diplomati,
vengono scelti con
un’audizione interna
in base ai lavori che
dobbiamo o vogliamo fare. Abbiamo
sviluppato tre progetti teatrali: RE_Born nel
2005, Cre/azione nel
2013 - nato per metà
in DanceHaus e conclusosi a Scenario
Pubblico (Catania),
dove ha debuttato.
Roberto (Zappalà, il
direttore artistico) mi
ha proposto di diventare artista associato.
Ora, grazie anche
a Susanna Beltrami,
stiamo lavorando su
Coscienze, che debutterà proprio in
DanceHaus il 23 e
24 gennaio, e poi la
tournée.
Cos’è per te il Teatro?
Che importanza ricopre nella vostra poliedricità produttiva?
Il Teatro è la mia parte intellettuale, dove
trovo quello che voglio, dove sono io a
dettare le regole al
mio flusso di coscienza. Fuori sono al servizio di una commissione, nonostante mi
sia costruito grande
libertà e stima, ma
do comunque quello
che mi viene richiesto. Punto sempre
sull’emozione, ma qui
è movimento, la par-
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te più cruda della danza, mentre fuori è soprattutto emozione estetica.
Come racconteresti il tuo stile?
Il nostro linguaggio ha radici nella danze urbane – New
Style, House Dance, L.A. Style
- contaminate sullo stile Modulo, ma concettualmente siaI Modulo Project
22
mo vicini alla danza contemporanea e al suo utilizzo dello
spazio. I più tradizionalisti non
riescono a definirci nella vastità della danza urbana, mi
chiedono “Cosa fai?”. Rispondo, “Non lo so, ma faccio”. La
meta più ambita di Laccioland
Company non è essere invitati
al più grande evento Hip Hop,
ma a Romaeuropa Festival.
Come ti rivolgi ai 20enni che
cercano in te e nella vostra
scuola ispirazione e concretezza?
Molti giovani pretendono molto per la via più semplice, e
spesso più di quanto potrebbero e dovrebbero. Ma la qualità
si riconosce dalla qualità tecnica. È un’età in cui si cerca di
consolidare i propri sogni, ma
bisogna avere pazienza, sperimentare e ricercare tantissimo,
e avere educazione.
Conoscere più linguaggi possibili, trovare la formula giusta
per farsi notare, ma sempre
con eleganza. I veri grandi li
riconosci dalla semplicità, la
consapevolezza di un percorso, l’umiltà.
Come festeggeranno i Modulo
Project i loro primi 10 anni?
Una festa, il 13 dicembre, in
uno spazio espositivo di 600mq
all’interno di DanceHaus. Ma in
scena non ci saremo noi. Abbiamo deciso di far ballare i
nostri allievi storici, creare con
e per loro, dar spazio e soddisfazione a chi ci ha vissuto e
ci ha permesso di essere qui
oggi. Quindi una grande performance, foto gallery, e ovviamente un rockabilly party…
se non si brinda che festa è!
www.laccioland.com
www.moduloproject.com
www.modulofactory.it
23
DANZA E ARCHITETTURA
BODY IS ARCHITECTURE
CREATING
NEW
STRUCTURES
dialogue between body and art in ex-Caserme Guido Reni, Roma
“Il corpo è un’architettura stupenda, la
più complessa.
Siamo un punto, tracciamo una linea,
siamo una spirale, siamo infinito. Partiamo da questi archetipi per costruire nuove strutture: ci uniamo, ci espandiamo,
ci inseguiamo, camminiamo vicini come
due parallele, prendiamo le distanze,
corriamo liberi alla ricerca di nuovi spazi.
24
Michele Mastroianni, Art Director & choreographer, Ex-Caserme Guido Reni, Roma
Artista: Alexandros Vasmoulakis, “Relics”
Make-up/hair Eleonora De La Vallèe, Stylist Giorgio Miserendino - Photo by Gianluca Palma
‘Tieniti forte e lasciati andare con dolcezza.’*
Ci teniamo con i piedi saldi al terreno
e difendiamo il nostro punto di vista ardentemente ma siamo consapevoli che
prenderemo presto nuove forme.
Danziamo e sfidiamo insieme la gravità
durante il nostro viaggio che parte dal
punto A e giunge al nostro punto Z”.
Michele Mastroianni
Art Director “Body is architecture”
* P. Brook, Il punto in movimento 1946-1987, Prefazione alla settima edizione
25
T
“That’s what architecture means to me and
that’s how I try to
think about it. As
a bodily mass,
a membrane, a
fabric, a kind of
covering, cloth,
velvet, silk, all
around me. The
body! Not the
idea of the body, the body itself! A body that can touch me.”
(Peter ZUMTHOR, Atmospheres,
Basel, Birkhäuser,2006)
Il linguaggio dei corpi é il vincolo originario che lega danza e architettura. L’architettura
stessa é corpo; l’insieme delle
sue qualità si rivela ai sensi attraverso il movimento.
“Gioco sapiente, rigoroso e
magnifico dei volumi nella
luce” (Le Corbusier), l’architettura trova il suo senso nell’interazione con i corpi e con la
luce, nell’essere percorsa, osservata, vissuta.
Da oltre un secolo il tema della riappropriazione dello spazio
attraverso il corpo ha assunto
un ruolo centrale nelle richerche in ambito artistico, sociologico ed antropologico.
L’azione creativa del corpo
nello spazio puo farsi strumento di questa riappropriazione,
generando un accrescimento
del nostro livello di percezione
e guidandoci alla conoscenza
profonda ed empirica dello
spazio nei suoi caratteri estetici, simbolici, materici.
L’arte restituisce un valore aggiunto agli spazi che da essa
vengono toccati: luoghi dimenticati tornano alla vita.
Michele
Mastroianni
visita
l’Outdoor Festival e gli spazi
delle Ex-Caserme Guido Reni
ed insieme ad un team di giovani professionisti propone un
inedito dialogo tra corpo, arti
visive e architettura.
Firma come Art Director e coreografo il progetto fotografico
“Body is Architecture”, un’interpretazione duale ed inedita
dello spazio architettonico investito dalle opere degli artisti
Alexandros Vasmoulakis, Rub
Kandy, Martin Whatson, e di
2501/Recipient/the blind eye
factory.
Gli scatti realizzati in collaborazione con il fotografo Gianluca
Palma propongono una nuova
chiave di lettura degli spazi e
delle opere; la materia grezza delle strutture dei padiglioni
emerge dal contrasto con i corpi dei danzatori, in un delicato
equilibrio tra fragilità e forza.
“La danza è la sinfonia che viene generata dal corpo in movimento”, dice Mastroianni, “la
vibrazione che si fa forma ed
esprime la nostra vera essenza di esseri umani. Un ringraziamento speciale va allo staff
dell’Outdoor Festival, agli artisti
presenti con le loro opere e ai
performers, che si sono lasciati
trasportare ed hanno amplificato questa vibrazione”.
Annachiara Eliseo,
Architetto, Bruxelles
26
Artists: 2501/Recipient/the blind eye factory: “Nomadic Room 1” - Performer Giamo Luci
Art Director, choreographer Michele Mastroianni
Make-up/hair Eleonora De La Vallèe, Stylist Giorgio Miserendino - Photo by Gianluca Palma
Artista: Rub Kandy, “room1” - Performer: Antonio Cafagna
Art Director, choreographer Michele Mastroianni
Make-up/hair Eleonora De La Vallèe, Stylist Giorgio Miserendino - Photo by Gianluca Palma
Amarcord, balletto in due atti di Luciano Cannito, con Rossella Brescia e Nicolò Noto
Ph.Mario Sguotti
21
28
Artists: 2501/Recipient/the blind eye factory: “Nomadic Room 1” - Performer Giamo Luci
Art Director, choreographer Michele Mastroianni,
Make-up/hair Eleonora De La Vallèe, Stylist Giorgio Miserendino - Photo by Gianluca Palma
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Artist: Martin Whatson - Performer Flavia Morgante
Art Director, choreographer Michele Mastroianni,
Make-up/hair Eleonora De La Vallèe, Stylist Giorgio Miserendino - Photo by Gianluca Palma
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Artist: Rub Kandy “room2” - Performers Giorgia Calenda e Michele Satriano
Art Director, choreographer Michele Mastroianni,
Make-up/hair Eleonora De La Vallèe, Stylist Giorgio Miserendino - Photo by Gianluca Palma
33
COREOGRAFI
R
O
I
G
O
I
G
S
O
R
I
S
Dare un senso alla Danza
tra Musica e Poesia
di Gabriella Gori
34
L
Lui dice che “oggi in scena nella danza c’è
molta ginnastica. Il coinvolgimento emotivo
è sempre minore e si perde il senso di quello che si fa”. Chiaro e limpido il messaggio
e forse non possiamo dare del tutto torto a
Giorgio Rossi, uno dei co-fondatori dello storico Sosta Palmizi e ri-fondatore insieme a
Raffaella Giordano dell’Associazione Culturale Sosta Palmizi.
A leggere il nutrito curriculum vitae non sfugge però che Rossi, lombardo di nascita ma
aretino d’adozione, è un ‘acrobata’ capace
di saltare dalla danza, al teatro, al cinema, alla televisione,
senza escludere progetti che coinvolgono musica, danza e
35
poesia. Un considerevole atletismo artistico che gli permette
di vivere esperienze performative afferenti all’olismo teatrale,
al di là delle specifiche declinazioni settoriali.
E pur non volendo ripercorrere
passo passo i successi di Giorgio nella compagnia Teatro e
Danza La Fenice di Venezia diretta da Carolyn Carlson e nei
Sosta Palmizi, corre l’obbligo di
ricordarne alcuni saltando da
un evento all’altro.
Eccolo allora partecipare nel
1995 a Io ballo da sola di Bertolucci, firmare Caso, un’improvvisazione di musica, danza e
poesia, e Gli Scordati, entrambi
del 2000, essere coinvolto nel
2003 in produzioni tra musica
e teatro con l’attrice-cantante
Maria Cassi e il pianista Leonardo Brizzi, recitare nel 2007
nell’Edipo e la Pizia di Lucia
Poli, essere “corpo sonoro” in
Cielo accanto a Paola Turci,
esibirsi con jazzisti del calibro
di Paolo Fresu, ballare nella tra-
36
smissione Vieni via con me su
RAI 3 nel 2000, assumere la direzione artistica con la Giordano
della sezione danza dell’Arezzo Wave Love Festival, realizzare le parte coreografica di
Carmen nel 2103, ideare Sulla
Felicità, un progetto del 2014
insieme a dodici “danz/attori
- Artisti Associati Sosta Palmizi”,
e debuttare nel 2015 con Da
dove nascono le stelle. Una coproduzione Associazione Sosta Palmizi e Compagnia Déjà
Donné a cui fanno da corollario il Premio “Danza&Danza”
del 1998 e il Premio Florencio
2000-Uruguay per Piume, l’intensa attività didattica e il nuovo arricchimento umano e professionale con i diversamente
abili.
Giorgio, danza, musica e poesia possono considerarsi parole chiave della sua poetica?
Ho sempre cercato di unire
danza, musica e poesia e Lasciati amare (un assolo del
2014, ndr) rispecchia questa
principio. È l’utopia di liberare i
pensieri e l’anima nell’universo.
L’arte è un continuo scambiarsi ed io, che sono nato e vivo
in Italia, trovo che sia un paese ricco di poeti meravigliosi e
che la poesia si avvicini tantissimo alla danza. Nella poesia
ci sono delle metafore e delle
evocazioni che aiutano a creare il movimento e il pubblico
se sente il linguaggio definito
delle parola si tranquillizza e
non si chiede più che cosa vorrà dire o cosa significa quella
danza.
Fra le tante creazioni sembra
prediligere l’assolo. Lo trova
congeniale alla sua ispirazione?
Ho cinquantacinque anni e ho
fatto solo quattro assoli. Ogni
anno mi capita di fare due o tre
creazioni differenti e il rapporto
è di uno a trenta però spesso
lavoro con jazzisti, attori, scrittori, e in questo tipo di collaborazioni l’assolo mi è congeniale
perché mentre loro suonano,
37
, ph.
38
recitano o leggono, io danzo.
L’assolo mi piace molto perché
per il danzatore è l’opera d’arte completa, lui è il creatore e
come il pittore dipinge il quadro, lo scrittore scrive il libro, il
musicista suona lo strumento, il
danzatore usa il suo corpo e il
suo corpo è la sua opera.
Sosta Palmizi è stata una tappa fondamentale nella storia
della danza italiana. Nata nel
1984, si scioglie nel 1990 per
rinascere nel 1995 come Associazione culturale Sosta Palmizi. Qual è stata la spinta di questa ripartenza?
Tutto è successo circa ventisei
anni fa quando Carolyn Carlson decise di andarsene. Allora
in sei decidemmo di creare Sosta Palmizi e nel giro di tre anni
creammo tre spettacoli (Corti-
le, Tufo, Perduti una notte, ndr).
Quando anche Roberto Castello si staccò dal gruppo, restammo in due, Raffaella ed io,
e pur avendo all’attivo percorsi
diversi, come del resto tuttora,
decidemmo di far rinascere il
nucleo come Associazione culturale Sosta Palmizi. Tra l’altro
la nostra è un’associazione di
artisti associati e intorno a noi
gravitano quarantenni, trentenni, ventenni. Siamo una costellazione e collaboriamo con
tantissime persone, li aiutiamo
a migliorarsi e a distribuire i loro
lavori.
Ad Arezzo il festival “Invito di
Sosta, appuntamenti con la
danza contemporanea d’autore” è organizzato dalla vostra
Associazione. Con quali criteri
scegliete i gruppi che vi partecipano?
La rassegna dura sei mesi e prevede uno spettacolo al mese.
Cerchiamo di invitare prima di
tutto compagnie italiane e poi
le scelte tengono conto delle
affinità elettive.
Quest’anno ci sarà Fabrizio Favale, gli ex Sosta Palmizi come
Roberto Castello, Michele Abbondanza, Francesca Bertolli, Roberto Cocconi, Raffaella
Giordano e altri artisti.
L’intento è quello di essere
trasversali, avere sempre una
compagnia di giovani e in
questa edizione è presente un
gruppo che abbiamo visto al
festival Kilowatt di Sansepolcro.
Più o meno il nostro modus
operandi è simile a quello dei
Cantieri Florida di Firenze, siamo analoghi per la sezione
danza anche nel tipo di programmazione e con i Cantieri
Florida, Company Blu e Aldes
39
“ritengo che uno dei
grossi problemi della danza
sia la mancanza di senso.
La gente danza senza senso,
senza consenso,
senza sensualità.”
40
ci siamo uniti per far venire una
compagnia belga, però composta dagli italiani Alessandro
Benardeschi e Mauro Paccagnella, che hanno presentato
lo spettacolo Happy Hour. L’obiettivo è dare vita a sinergie
creative.
Ne Un’opera da tre soldi, dalle
stelle alle stalle ci sono attori
e danzatori professionisti, ma
anche persone diversamente abili. Perché inoltrarsi in un
campo così delicato?
Perché operiamo su diversi
fronti e facciamo questo spettacolo con i disabili per la prima volta collaborando con il
Teatro DanzAbile, una compagnia con cui ho lavorato in Svizzera. Un’opera è liberamente
ispirata all’Opera da tre soldi
di Brecht ed è estremamente
trasversale, ci sono persone
con diverse abilità fra cui la focomelica, il down, l’anoressica,
l’autistico, l’extra comunitario, i
bipolari e poi danzatori e attori.
Questo spettacolo ha vinto un
premio e ad Arezzo abbiamo
ricevuto molte adesioni delle
associazioni perché è andato
in scena al Teatro Mecenate
nella giornata mondiale della
disabilità e anche in matinée
per le scuole. Questo evento
fa parte di “Altre Danze”, una
serie di appuntamenti pensati
da artisti associati per bambini e adulti la domenica pomeriggio e il lunedì mattina per le
scuole e sta funzionando benissimo. Da due anni abbiamo
anche la rassegna “Cinema e
Danza” in cui proiettiamo film
che parlano della danza e del
balletto e momenti dedicati al
circo.
Lei oltre ad essere ballerino e
coreografo, è docente. Quando insegna cosa tende a precisare?
Il senso, perché ritengo che
uno dei grossi problemi della
danza sia la mancanza di senso. La gente danza senza sen-
41
so, senza consenso, senza sensualità. I sensi sono importanti
e quando insegno cerco di far
capire l’importanza di ballare
con gusto, di assaporate il movimento, di annusate il piacere
di muoversi, di sentite gli odori, di essere presenti a se stessi.
Troppo spesso i ballerini sono
capaci di virtuosismi pazzeschi
ma li eseguono in modo completamente disconnesso con
ciò che è la consapevolezza
dei sensi.
In questa ricerca di senso ha
avuto dei maestri?
Senza dubbio, a cominciare
da Carlson, Dupuis, Patarozzi,
ma anche registi come Fellini,
senza dimenticare il grande
Totò. Quando insegno vado
molto per immagine e mi capita di citare anche i cartoni
animati per aiutare a capire
il senso, la maestria del gesto
che esprime il sentire e rende
le intenzioni chiare. Nella vita
del resto alle sollecitazioni si risponde con reazioni altrettanto chiare e questo deve accadere anche nel momento in
cui ci si trova a gestire il tempo
magico del teatro.
A proposito di dare senso a
quello che si danza, Mikhail
Baryshnikov può costituire un
esempio?
Certo che sì. Baryshnikov è tuttora uno dei più grandi danzatori sulla faccia della terra. Lui è
riuscito ad unire la maestria, la
sensualità e il consenso. Anche
quando fa una pirouette gli
dà senso. Ho avuto la fortuna
tre anni fa, quando Micha van
Hoecke mi chiamò per creare
una coreografia per l’Opera di
Roma, di essere seduto accanto a Denis Ganio e insieme stavamo guardando dei danzatori del corpo di ballo che alla
fine della lezione continuavano a fare pirouettes all’infinito
e ogni volta cadevano. Ricordo che Denis citò una frase di
42
“Questa è la differenza tra arte e
sport: lo sport fa dei record, e lo si
pratica per vincere, nell’arte non
si può prescindere dal coinvolgimento emotivo.”
Balanchine che diceva “Una
pirouette è qualcosa, due sono
abbastanza interessanti, tre mi
annoiano”.
Baryshnikov, a parte i virtuosismi giovanili, alla fine ha cercato il senso, la sensualità, il
fascino dell’espressione del
corpo e dell’anima. A questo
proposito mi vengono in mente
grandi ballerine come Marcia
Haydée, Carla Fracci, e il modo
come portavano le braccia, le
mani, tenevano il respiro e non
si trattava di avere le gambe
alte.
Nella danza oggi in scena c’è
molta ginnastica e sempre
meno coinvolgimento emotivo. Vado a teatro per essere
coinvolto, altrimenti vado a vedere uno sport. Questa è la differenza tra arte e sport: lo sport
fa dei record, e lo si pratica per
vincere, nell’arte non si può
prescindere dal coinvolgimento emotivo.
Cosa bolle in pentola per il futuro?
Intanto l’assolo Lasciati Amare, poi ho appena rifatto una
versione femminile di un duo
che si intitola ironicamente Da
dove nascono le stelle con due
ragazze meravigliose, Elisa Canessa e Fabritia D’Intino; insegno molto e ho degli spettacoli
in repertorio che mi richiedono. Ne ho fatto uno sulla felicità con dodici interpreti; poi c’è
la serata 6 Qui con tutti gli exSosta Palmizi per festeggiare il
trentennale ad Arezzo.
Ci esibiremo con il pianista Arturo Annichino che ha scritto le
musiche del Cortile.
Con Raffaella pensiamo ad un
progetto sulla formazione e su
richiesta mi dedicherò ai disabili. Ho appena lavorato con
l’Orchestra di Piazza Vittorio e
dei danzatori gypsi e indiani
sulla Carmen di Bizet. Insomma
non mi lamento e sono abbastanza contento.
www.sostapalmizi.it
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PASSO A DUE
caterina&genta
marco schiavoni
PASSI IN SCALA
di Angela Testa
una colonna sonora
di pura danza
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Caterina Genta, ph.Florindo Rilli
U
Una colonna, accanto
ad una fabbrica per la
l avo ra z i o n e
dei marmi, si
sente a casa
sua.
Però la colonna è sonora e chi si
sente a casa
sua è Marco Schiavoni in
quel di Spoleto. Una parete
del suo studio è fatta interamente di finestre. Immagino
quanto sia rilassante star seduti ad una delle scrivanie
a lavorare o aggirarsi tra gli
scaffali pieni di reperti discografici o libri polverosi.
mondo che gli tengono buona compagnia. Dietro l’angolo, appesi in ordinata fila,
gli abiti e gli oggetti di scena
di Caterina.
Davanti alla enorme specchiera antica della mamma
di Marco si può mangiare il
risotto alla zucca che prepara Caterina oppure si può
ammirare, sia in foto che dal
vivo, il mobile giradischi di
suo padre, o ancora si possono pizzicare le corde del …
posato accanto al pianoforte a coda insieme ai numerosi strumenti etnici reperiti negli innumerevoli viaggi per il
Non basta una giornata insieme per vedere tutto, non basterebbe un mese o un anno
per godere della biblioteca,
nastroteca, discoteca, cineteca che Marco ha messo insieme. Gli sono serviti tre anni
Tutto è realizzato a mano da
Marco, le librerie di legno
chiaro che foderano interamente lo studio, i barattoli doverosamente ricavati
dalle latte di pomodoro, gli
interruttori dei led sparsi nei
punti strategici, che paiono
piccole faccine mute. Tutto è
rigorosamente al suo posto in
questo luogo immenso, compresi gli elastici raccolti per
misura, e l’occhio si perde
nella meraviglia di un negozio di leccornie.
45
46
per il trasloco. E Marco non è
uno che si ferma troppo a lungo.
Ti manca il cavetto di un vecchio computer? Marco ce
l’ha. Non trovi un disco raro?
Marco ce l’ha. Hai un problema tecnico? Marco te lo risolve… se ti risponde al telefono. E si, perché un uomo che
maneggia la video tecnologia come fosse un astronauta, poi però la tiene a debita
distanza. Il cellulare rimane
a caricarsi in bagno o chiuso
in auto e la tv viene accesa
solo ed esclusivamente come
tributo al suocero, il padre di
Caterina, quelle volte che lui
e la moglie arrivano in visita.
Camilla, la teenager figlia di
Caterina, è una di quei pochi
giovani italiani che durante il
tempo libero, incredibilmente,
legge. Magari i Manga, perché raccontano storie felici, e
non Leopardi, ‘perché era depresso’, però legge!
Una giornata con Marco
Schiavoni e Caterina Genta è
come stare al Luna Park con il
naso all’insù e la bocca spalancata. Due nomi che paiono
inscindibili. Ma in che modo
un compositore da notte degli Oscar (eh sì, la sua colonna sonora ha portato il film La
vespa e la regina con Claudia
Gerini a Los Angeles) ed una
danzatrice uscita dalla scuola
di Pina Baush sono diventati
sodali nella vita e nel ‘lavoro’?
CATERINA GENTA
Caterina è figlia d’arte, nasce
a Roma da un’insegnante di
danza, Diva Conte, e un avvocato. Frequenta la scuola di
danza della madre quando lo
stage con Patrizia Cerroni ed
Enzo Cosimi la spinge ad avventurarsi in ambito contemporaneo.
Studia a New York da Cunningham, con la compagnia
di Roberta Escamilla Garrison,
dove poi lavora. Decide di frequentare per ben cinque anni
la Folkwang Hochschule di Essen diretta da Pina Baush,
“una full immersion in una
scuola molto dura dal punto
di vista sia fisico che psichico,
in cui la cosa bella era veder
danzare gli insegnanti, interpreti fantastici, imparare andando a vedere gli spettacoli
di Pina. Si studiava tantissima
tecnica, si faceva un lavoro
approfondito sulla qualità e
non sul virtuosismo, ma sul dettaglio, su un uso consapevole
di tutto il sistema, il corpo diventava uno strumento per
esprimere non belle pose ma
cose autentiche.
‘Non ti credo’ era la critica
fondamentale per la crescita
espressiva” mi racconta. “A
Berlino sono venuta in contatto anche con il Buto. Con
la tecnica di improvvisazione
del danzatore Tetzuro Fukuhara mi sono liberata di tutte le
zavorre di impostazione tecnica che mi portavo appresso.
Il desiderio di mettere insieme
l’arte visiva con la danza mi
viene dal Buto.”
Lavora sia in Europa che in
Italia come, per esempio, ad
Anversa, con la compagnia di
Ria de Corte, Air de C’, a Cannes con la Dance Concept, o
a Cesena col Teatro Valdoca.
Come si sono incontrati la
donna spirituale che ha praticato il buddismo, lo yoga e
il tai chi e l’uomo pragmatico
che è Marco?
Con Marco ci conoscevamo
già prima che partissi per Essen. Quando lavoravo con
Roberta Garrison andai nel
suo studio per fare il montaggio della musica che avevo
composto per il mio primo
spettacolo, Scanditi a curva.
Lui mi regalò un’audiocassetta
Caterina Genta, Di qui, ph.Giancarlo Russo
di musica per danza che portai ad Essen e che ho portato
con me in tutti gli spostamenti
che ho fatto, senza nemmeno capire come mai. Quando
sono rientrata in Italia, volevo
realizzare uno showreel. Sono
tornata da Marco con il mio
materiale e gli ho detto: “Fai
tu!” ma lui era sempre impegnatissimo. Lo invitavo a tutti i
miei spettacoli perché mi era
molto simpatico ma non veniva mai.
Quando realizzai un cortometraggio prodotto dall’Imaie, Il
maleficio della farfalla, ispirato ad un mio assolo prodotto
da Mediascena Europa, e tratto da un testo di Garcìa Lorca,
con canzoni scritte da me, il
girato lo feci montare ad una
mia amica regista di Ginevra,
mentre per l’ottimizzazione
Mimmo Del Prete - una persona fantastica che mi ha accolto allo Ials come insegnante
per i professionisti - mi suggerì
di rivolgermi di nuovo a Marco
Schiavoni. Malgrado la mia riluttanza, dovuta alla sua poca
disponibilità, alla fine andai a
Vetralla, dove si era trasferito,
e lì sono rimasta per tre giorni. Mi sono entusiasmata del
suo lavoro ed è proprio lì che
è nato anche il nostro rapporto sentimentale, dal Maleficio
della farfalla.
Cosa è nato artisticamente?
Avevo voglia di sviluppare un
progetto musicale e abbiamo
cominciato a lavorare sulle
musiche del Maleficio della Farfalla. Col nuovo bando
dell’Imaie ho presentato il progetto Di qui a cinque anni, un
altro testo di Garcìa Lorca su
cui abbiamo creato uno spettacolo, un cortometraggio ed
un disco. E’ diventato il nostro
gioiello, uno spettacolo con
scene e compagnia digitale.
C’erano tre film proiettati in
contemporanea mentre recitavo e interagivo con gli attori
47
sullo schermo. Dovevo essere
un orologio svizzero. C’era un
continuo passaggio dal virtuale al reale. Per realizzarlo
abbiamo preso una residenza
a Tuscania e il lavoro è durato
un anno. E’ un testo molto difficile da portare in scena.
Il rappresentante dell’Accademia di Spagna appena insediato venne a vederlo al
Teatro Greco e ci invitò a rappresentarlo in Accademia. L’ispanista Milena Locatelli ha
scritto un bellissimo articolo
di venti pagine pubblicato
sulla rivista scientifica dell’Università di Madrid dedicata al teatro contemporaneo,
dove nessun italiano è stato
mai citato prima. Siamo addirittura in copertina. Abbiamo
donato il video alla Biblioteca dell’Accademia di Spagna
e da questo spettacolo sono
nati il cortometraggio Il sogno
sopra il tempo, sempre prodotto dall’Imaie, il disco, dei
concerti.
Cosa pensi delle qualità artistiche di Marco e come ti sei
trovata a lavorare con lui?
E’ stato un bellissimo viaggio
perché io ero abituata a fare
da sola. Con lui ho dovuto
mettere da parte il mio ego,
anche perché è un vulcano.
Gli dai il ‘la’ e lui parte con
una marea di idee esteticamente diverse dalle mie, io
più essenziale, lui ipercolorato, anche un po’ barocco, che
però mi piacciono sempre
tantissimo. E’ stato veramente
interessante mettere insieme
queste due anime così diverse. Con me lui ha assunto il
ruolo della direzione.
Marco è geloso delle sue creazioni o ti chiede consiglio?
Chiedere consiglio proprio no.
Sono più io a chiedere consiglio a lui. In genere gli propongo dei progetti. In questi
dieci anni abbiamo prodotto
tantissimo insieme. Abbiamo
all’attivo sei produzioni teatrali
che possiamo portare in scena. In questo periodo stiamo
lavorando di più su progetti
separati. Da sola ho realizzato
delle performance, però continuo a chiedere il suo supporto. Per esempio, da finalista al Premio Equilibrio avevo
preparato un progetto con un
gruppo di danzatrici per cui
Marco ha curato la musica e i
video. Oppure, nella mia performance La sposa senza volto lui suonava dal vivo.
Marco quando crea qualcosa, me la fa sentire, ma non mi
chiede cosa ne penso. Credo
che non ne abbia bisogno. E’
una persona molto indipendente e certamente non dipendente dal giudizio altrui. Al
contrario, per me il feedback
è molto importante, anche se,
piano piano, sto diventando
come lui.
La danza è stata la tua unica
passione o ne hai sviluppate
altre nel tempo?
Non penso di essere particolarmente portata per la danza, piuttosto da piccola ero
molto portata per la pittura,
un talento che non ho sviluppato, o il teatro. Ho sempre
desiderato stare sulla scena,
fin da quando, bambina, mia
madre mi ci portò per un saggio. Ciò che amavo era il palcoscenico, non la danza in sé.
Poi, studiandola, mi sono appassionata al suo linguaggio
in un’ottica di espressione autentica, non estetica. La considero, però, un’arte fredda, un
po’ per addetti ai lavori.
Il balletto può piacere ai tantissimi ‘ballettomani’ mentre,
purtroppo, penso che il pubblico della danza contemporanea sia stato distrutto dalla
tanta danza brutta che c’è
in Italia o dalle brutte copie
Caterina Genta, 70 Minuti, ph. Ada Lombardi
48
di teatro-danza. E’ forse un
po’ per questo, e un po’ per
l’amore che ho per la scena in generale, che ho scelto
di praticare la performance
completa, cercando sempre
di realizzarla con qualità.
contro con Alessandro Fabrizi,
ho seguito per due anni il metodo di Cristine Linkleiter per
liberare la voce naturale.
Nel periodo in cui sono entrata
ad Essen, in realtà, mi sarebbe
piaciuto molto anche studiare Musical, o andare in Francia per un corso di Mimo alla
Scuola Internazionale di Teatro Jacques Lecoq, o un corso
di circo. Insomma, non volevo centrarmi solo sulla danza. Così la parte più creativa
di me l’ho realizzata creando
coreografie. Avevo cominciato con gli assolo per l’Accademia Nazionale di Danza come
giovane coreografa, prima di
Essen, e così ho continuato
anche dopo. Il primo assolo
al mio rientro in Italia è stato
Licht, che ha vinto il Premio Internazionale Città di Udine.
Fino a quando sono tornata
in Italia la danza è stata centrale nella mia vita. La musica
ne ha fatto parte da bambina,
con lo studio del pianoforte,
del flauto traverso e del canto.
Poi è tornata recentemente a
far parte della mia vita, anche
con il rapporto con Marco.
Quello che a volte si vede è
una brutta copia di quello che
faceva Pina, che utilizzava la
parola in scena. Potevano non
avere una dizione perfetta o
non ‘portare’ la voce come gli
attori ma lei riusciva a far uscire la parola dai danzatori in
modo autentico. Raramente in
Italia ho visto cose allo stesso
livello.
Quando sei rientrata in Italia?
La collaborazione con Marco
è ancora produttiva?
A tua figlia cosa augureresti?
C’è stato un tentativo di rapporto con la danza?
L’ho portata da Renato Greco che per la propedeutica
ha un’ottima scuola. Quando sono andata a vederla mi
sono emozionata pensando
all’inizio di un’avventura che
avevo già vissuto. Poi ci siamo
trasferiti a Spoleto e lei non ha
mostrato un grande interesse.
Ha preferito la ginnastica artistica e la musica. E sta dimostrando un grande interesse
per la recitazione. D’altronde
fare danza è un po’ come diventare una suora, devi dedicarti completamente.
ph. Helen Maybanks
Nel ’98. Ma qui le compagnie
non suscitavano il mio interesse e ho preferito non lavorare
più come scritturata. Ho continuato col mettere in scena
cose mie e ho cominciato a
fare l’attrice, ambito in cui ho
incontrato il mio ex-marito,
Giacomo Rosselli. Ho studiato
alla Nuct-Scuola Internazionale di Cinema e Televisione
a Cinecittà. In quel periodo
prendevo in considerazione
quegli spettacoli di danza che
avessero anche un testo recitato. Ho collaborato spesso
con Orietta Bizzarri o Renata
Zamengo, Laura De Marchi.
Recentemente, grazie all’in-
Cosa pensi dell’uso della parola nella danza?
L’ultimo lavoro, Tempest, l’ho
fatto da sola e Marco mi ha
dato una mano. Spero che la
nostra collaborazione, che si
è interrotta quando ci hanno
tolto la sovvenzione ministeriale per il Balletto di Spoleto
(ex compagnia di Fiorenza
D’Alessandro che esisteva dal
1992) che avevamo ‘adottato’
dal 2011 al 2013, possa riprendere presto. Marco, all’epoca,
si era fatto carico della responsabilità di portarla avanti
dando fondo ai suoi risparmi,
e avremmo anche proseguito
se il Ministero ce l’avesse permesso. Ci eravamo orientati in
49
modo diverso, puntando sulla qualità, coinvolgendo tanti
coreografi invece di puntare
su un solo nome, coinvolgendo Luca Bruni, Max Campagnani, Luciano Cannito, Renato Greco, Walter Matteini e
Dino Verga per lo spettacolo I 7 coreografi. Ciascuno di
loro aveva realizzato una coreografia per me, gratis. Una
produzione così dovrebbe
costare cinquantamila euro.
E, invece, ci hanno tagliato la
sovvenzione proprio per questa produzione: perché c’era
solo una danzatrice in scena.
Così, quando avevamo già realizzato tutta l’attività, ci siamo
ritrovati senza fondi e Marco,
dopo questo shock, ha deciso
di riprendere i suoi contatti la-
vorativi in modo autonomo.
Pur non pentendoci di quanto realizzato il mio dispiacere è che tutta questa energia
impegnata sia morta. Ritengo assurdo che gli artisti per
poter realizzare le proprie
creazioni debbano diventare produttori, amministratori,
organizzatori, politici. Cosa
c’entra tutto questo con l’arte?
E aggiungo di più, perché un
artista deve essere costretto
ad insegnare per poter realizzare i suoi progetti? In Italia,
la situazione produttiva è difficilissima. Si trovano solo porte chiuse e tanti miei amici e
colleghi hanno fatto la scelta
di ritornarsene all’estero. Ma
poi ci sono porte che si aprono, come quella di Anita Bucchi che devo ringraziare, e allora è un’altra storia.
Quali sono oggi i tuoi progetti?
Ho la proposta di un regista tedesco, Markus Herlyn, del Theaterinstitut di Brema, come attrice per la Lulu di Wedekind.
Tra pochi giorni saremo in residenza a Tuscania per il progetto Lulu e ci saranno anche
Giancarlo Vulpes e Federico
Favetti, gli interpreti del suo
Caterina Genta, Las Rosas, ph. Paolo Porto
50
primo studio su Aspettando
Godot di Beckett per proseguirne il lavoro, mentre insieme stiamo dando vita ad un
progetto che avrà anche un
risvolto metodologico nuovissimo. Ancora non posso dirti
come si chiamerà ma ci sono
di mezzo le parole Teatro e
Amore.
Ultimo, ma non ultimo, il progetto internazionale di TeatroDanza GENER-AZIONI Il tempo, il corpo, la memoria che
unisce la ricerca creativa e
l’indagine coreografica e teatrale a un percorso formativo
e divulgativo che coinvolge
persone di tutte le età, anche alla loro prima esperienza con la danza, per accompagnarle alla scoperta di un
linguaggio espressivo, quello
del teatro-danza, capace di
offrire a ciascuno la possibilità di raccontare e raccontarsi, di percorrere in modo autentico le strade della propria
esperienza. Il progetto vede la
collaborazione dei danzatori
e coreografi formatisi presso
la prestigiosa Università per la
danza Folkwang di Essen tra
gli anni ‘80 e ‘90, sotto la direzione di Pina Bausch: Rodolfo
Seas Araya, Mark Sieczkarek,
Enrica Spada (coordinatrice
del progetto) ed io. Il 28 dicembre sarà avviata una residenza di creazione che culminerà con lo spettacolo presso
il Teatro Massimo di Cagliari il
17 gennaio, con la partecipazione di danzatori professionisti e non professionisti di età
compresa tra i 7 e i 90 anni.
Poi con il Buto realizzo delle
performance come modella
fotografica. E’ tutto incentrato
sulla persona e sulla plasticità
del corpo. Sono anche insegnante di Metodo Feldenkrais:
è un’esperienza di crescita cognitiva, emotiva e fisica che
coinvolge tutta la persona. E
poi ho anche un gruppo rock...
www.caterinagenta.com
51
MARCO SCHIAVONI
Anche Marco è di Roma, nato
da una famiglia borghese,
di origini abruzzesi, ma ha rischiato di nascere a Parigi. Il
nonno Giuseppe, professore
per l’Istituto d’Arte di Penne,
scultore e artista del legno, vi
si era trasferito dopo aver vinto il premio dell’Esposizione
Universale di Parigi del 1900.
Così Fidia, il padre di Marco,
ha avuto un’infanzia e una giovinezza parigina. Immaginate
Parigi nel’25, il Mercato delle
Pulci, dove accanto ai mobilieri si vendevano i primi grammofoni e i primi 78 giri. Nasce
da qui l’amore di Fidia per i dischi, la musica, una passione
sconfinata che lascerà in eredità a Marco insieme a parte
della sua immensa collezione,
e che lo porterà a vivere in
Italia e a lavorare in RAI. Marco, che ha vissuto la RAI come
una seconda casa - anche la
madre e il fratello ci hanno lavorato - da bimbo curioso e
attento, in un ambiente così
Marco Schiavoni in azione musicale, ph. Ada Lombardi
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stimolante, ha imparato tutto
da solo: a suonare, a comporre, a trafficare con tutti quegli aggeggi elettronici che si
sono avvicendati sul mercato
dagli anni ’70 ad oggi. Un oggi
che lo vede musicista, compositore, montatore, videomaker, visual artist e chi più ne ha
più ne metta. Partendo dallo
studio della chitarra è approdato al pianoforte, all’uso del
sintetizzatore, alle tecniche
di registrazione. L’esperienza
di pianista improvvisatore lo
conducono a lavorare come
maestro accompagnatore per
le lezioni di danza, pianista di
piano bar, turnista in sala di incisione, collabora anche con
gruppi musicali e cantautori
dell’ambiente romano.
Già a diciotto anni era amico
fraterno di Daniele Patucchi, il
compositore di colonne sonore cinematografiche e arrangiatore di Toquinho. L’incontro
con Aurelio Gatti e Hal Yamanouchi lo introducono nel
mondo del teatro e lo indirizzano verso la sperimentazione
e la composizione.
Le sue composizioni sono presenti in oltre ottocento produzioni in un ambito che spazia
dal balletto classico alla danza contemporanea, dal teatro
dei burattini, alla prosa fino ai
serial televisivi, dai documentari per la Fao al cinema, dalla
sonorizzazione di istallazioni
di arti visive a festival internazionali come performer e concertista ma si potrebbe continuare all’infinito senza riuscire
a delimitare un’area precisa di
suo intervento creativo che è
come un magma che si spande da un vulcano in eruzione.
E allora, meglio chiedere
a lui…i nomi vengono fuori
come fuochi d’artificio…
Ero a casa di Anna Catalano,
a suonare per la tecnica Graham, e venne Leda Roffi, l’unica
ballerina italiana entrata nella
compagnia di Balanchine, la
chiamavano il Cigno bianco.
Fu lei che mi disse: “Sei nato
per suonare per la danza!” e
mi presentò a Mimmo Del Prete
che mi chiamò a lavorare allo
Ials come pianista nell’83, appena finito il militare.
“L’anonimato per me è sempre stato il segreto
per capire come fare le cose giuste”
Da lì puoi immaginare la parabola Vantaggio, Strejner che
insegnava alla Scala, Nunez
che insegnava al San Carlo,
Zoboskaya, poi la scuola di Renato Greco a piazza Esedra. Ho
53
“Inventare un suono,
comporre una musica
o realizzare un montaggio
per me non ha mai fatto differenza
perché la cosa importante
è che lo spettacolo funzioni”
ph. Marco Schiavoni
54
suonato per 4 anni per Viktor
Liktinov. Venivano a studiare la
Terabust, la Martinez, Eugenio
Buratti.
E così che ho inventato le cose
più belle e sono diventato un
personaggio conosciuto nei
posti dove si faceva la danza,
è così che hanno cominciato
a chiedermi le musiche dopo
pochi anni. Non ho mai dovuto
pubblicare dei dischi per farmi
conoscere.
Avevo Mario Piazza, Rossella
Fiumi nell’ambente romano, la
Malusardi, Giuditta Cambieri che venivano da Milano. La
mia carriera di pianista della
danza è terminata al CID dove
suonavo per Denys Ganio e
dove c’erano però anche Roberta Garrison, Nicoletta Giavotto, Sandra Fuciarelli...
C’era il gruppo della danza
contemporanea italiana romana degli anni ’90. Anche loro mi
chiedevano di suonare. Così
dalla classica sono passato
alla contemporanea. E poi Elsa
Piperno…
Che dire? Non ho fatto il pianista per lei, però nel ‘90 ho scritto le musiche per un balletto,
coreografato da Marco Brega,
per la sua compagnia, così ho
conosciuto la colonna della
danza contemporanea italiana. Tutti quelli che venivano al
CID erano stati da lei: Barbarini,
Monteverde, Enzo Cosimi, Massimo Moricone, tutti quelli che
dovevano fare una cosa contemporanea erano passati da
Piazza del Gesù. E’ una carriera,
questa, durata 10 anni, mentre
in contemporanea veniva alla
ribalta la carriera di produzione
musicale.
Così nasce la tua seconda vita
lavorativa, quella da compositore ma non solo. Come è andata?
All’epoca, come me, che facevano musica per la danza,
c’erano Castellano, Spagno-
letti, ma facevano solo quello,
mentre a me chiedevano anche di risolvere problemi perché io col Revox sapevo manipolare i suoni, sapevo montare
un nastro. Inventare un suono,
comporre una musica o realizzare un montaggio per me non
ha mai fatto differenza perché
la cosa importante è che lo
spettacolo funzioni.
Certo è che quando Monteverde mi ha chiesto di scriver
la Tempesta che andava all’Arena di Verona con Malakov è
stato più interessante che rallentare la variazione dell’ennesimo balletto di repertorio
per un saggio di danza. Non è
che non cogliessi la differenza!
Però, il piacere di essere utile,
al servizio, è quello che mi ha
fatto lavorare tanto, perché io
non mi sono mai negato, a volte, sbagliando, a volte esagerando o facendomi un sacco di
nemici…
Come un’erborista che fa le ricette creavo anche le idee di
spettacolo, come Five Season,
lo spettacolo di Luciano Cannito per la Bat Dor Dance Company di Tel Aviv.
Quanta musica hai composto
in questo storico periodo?
Nell’arco di quattro o cinque
anni ho scritto la musica per
quasi venti balletti che hanno
fatto centinaia di repliche che
hanno girato il mondo. Quelli
sono stati anni fantastici. Negli
anni 2000 avevo fatto la musica per circa 200 spettacoli ma
alla fine, malgrado i lauti guadagni, le questioni economiche mi hanno intristito.
Questi dieci secondi anni di
composizione sono stati molto intensi e hanno avuto una
importanza storica anche per
il mio modo di lavorare oltre
a portarmi alla fuga da Roma:
quando hai Walter Zappolini
alle nove di mattina, Luigi Mar-
telletta a mezzogiorno, Massimo Moricone alle tre, Patrizio
Monteverde alle sette, Cannito
alle nove e poi magari a mezzanotte ti portano un flamenco
da mixare al volo… Nell’anno
in cui andai alla notte degli
Oscar c’è un’intervista di Marinella Guatterini che scrisse
di me “il compositore che non
deve chiedere mai!”. Era quello che dissi, e lo ribadisco ancora con forza facendo innervosire Caterina, ma io non ho
mai chiesto a nessuno, è tutto
nato sempre e solo da chi mi
veniva a chiedere, un lavoro
dopo l’altro.
L’unica cosa che ho deciso
io, per me e Caterina, è stato
il Balletto di Spoleto, una storia
complicata, perché ho tentato di vendere qualcosa che
necessita di altre doti che non
sono saper inventare una musica o fare un video in pochi minuti o trasformare una goccia
d’acqua in un temporale. Queste sono le cose che io so fare.
Cosa hai realizzato per il teatro
italiano?
Qualunque cosa. Ora sto su
una locandina con Eva Grimaldi e Fabio Roncato: è questo
che mi dà da mangiare. Ma il
mio nome è in locandina anche con Gassman con cui ho
all’attivo già nove anni e dodici spettacoli; gli ho realizzato
le musiche per Tempeste solari
che ha inaugurato il Teatro Eliseo dopo lo spettacolo di Barbareschi con una platea di eccezione.
Sono soddisfazioni, però, se
ti devo dire, il mio cuore batte per lo spettacolo di Garcia
Lorca mio e di Caterina: è un
capolavoro assoluto e chiunque l’ha visto lo ha apprezzato;
trasformarlo in un evento che
si vende non potevo farlo né io
né Caterina. Io meno di lei.
Ma se da qui in poi mi metto a
55
ph. Massimo Menghini
56
creare solo musica per saggi,
sono contento. La sete, la bramosia d’arte di Caterina come
di altri non mi appartiene, forse
perché ho già sperimentato e
realizzato tanto. C’è il piacere
di lavorare ed essere utile.
E oggi rispetto alla danza come
ti poni? La scelta di vivere a
Spoleto?
Fu una decisione comune con
Caterina, dato che lei non desiderava venire da me a Vetralla ed io non volevo tornare a
Roma; e il caso volle - ma poi
fu un caso? - che ci capitò tra
le mani il Balletto di Spoleto.
punto di vista, diventare produttore, stare alla ribalta mi ha
messo di fronte ad una realtà
orrenda.
All’Arena di Verona, con Malakov che ballava, ero nel pubblico e potevo ascoltare le
persone che commentavano
positivamente la mia musica,
ignare che fossi io l’autore. E’
una situazione totalmente diversa. L’anonimato per me è
sempre stato il segreto per capire come fare le cose giuste.
In Italia la danza contemporanea non esiste, c’è solo un’autocelebrazione scevra da un
confronto con la danza internazionale: quando nel 90 andai a raggiungere un’amica
a Barcellona in tre giorni andai a vedere tre spettacoli di
danza contemporanea. C’erano compagnie di tutta Europa
tranne che italiane. Lì c’era già
una danza di qualità altissima.
Questi ultimi 10 anni mi hanno
fatto ritornare a stare per conto mio a fare quello che continuano a chiedermi, come è
sempre stato, perché mi rendo conto che c’è un problema
grandissimo rispetto alla danza.
Giovanna Velardi, la coreografa siciliana che ammiro mol-
to, e che ha fatto anche parte
della commissione del Mibact,
ad una riunione del coordinamento regionale dove c’erano
un numero sostanzioso di coreografi - e se tu pensi che solo
a Roma ci sono un numero notevole di compagnie di danza
che fanno tre spettacoli l’anno
davanti a 100 spettatori questo
è già sintomatico di un problema, a prescindere dalla qualità degli spettacoli – chiese:
ma noi abbiamo dei riferimenti
della storia della danza contemporanea italiana? Esiste un
archivio? Una Ottolenghi della
danza contemporanea? Le poche rimaste sono ballettomani
e si occupano solo di spettacoli da un certo livello in su, ma il
resto?
In realtà, c’è stato molto fermento in Italia, che però non
ha generato un’estetica della
danza italiana, una danza che
vada poi all’estero e si metta in
mostra nei festival internazionali. In realtà, tolti i capisaldi,
ognuno si è fatto la sua storia e
il resto è vuoto.
D’altronde, quante sono le nostre grandi compagnie sovvenzionate rispetto a quelle degli
altri paesi europei?
C’è poco altruismo nella danza ma forse i miei ragionamenti
sono antichi perché quella domanda è stata fatta dieci anni
fa e nessuno ha ancora mai risposto. Ma risposta non ci può
essere. E’ anche il momento
storico, forse.
Certo che negli anni ’90 forse
poteva succedere, se si fosse
creata la coalizione dei coreografi italiani desiderosi di superare questo limite del teatro dei
cento posti, di fare solo festival
‘sfigati’ o di non avere almeno
uno stipendio per venti persone
tra danzatori, tecnici e musicisti, una cosa come in altri paesi.
Però, se non l’hanno fatto c’è
un motivo. Tra gli attori c’è an-
che un odio feroce ma una
stima reciproca di qualità artistica, di tipi di ricerca, che
venivano dagli ’60 e dalla Pop
Art, c’erano collegamenti che
venivano sempre da un respiro
internazionale.
Pensando al futuro, mi pare di
capire che ti poni nell’attesa
che ‘il caso’ ti traghetti verso i
tuoi prossimi dieci anni di vita
in una nuova esperienza, o ‘il
caso’ si è già affacciato per
proporre qualcosa?
Diciamo che lavori in corso ce
ne sono diversi, per esempio la
collaborazione con Alessandro
Gassman con cui c’è una continuità e grande visibilità.
Poi c’è il progetto di Shel Shapiro e Marco Cavani ancora
in fase di preproduzione, uno
spettacolo sugli anni ‘80 per
cui farò i video che si intitola
TINA, There Is Not Alternative.
Uno spettacolo su cui io punto
molto.
Poi farò sicuramente le musiche per il prossimo spettacolo
di Maria Pajato per l’Eliseo.
C’è anche chi ascolta la mia
musica e addirittura la cerca
da 15 anni. Il vero progetto della mia vita è questo: dedicare
tutto il tempo che viene a scegliere cosa dare in pasto a quei
fortunati selezionatissimi acquirenti del cofanetto di cd composto da una ricercata scelta
di musiche del mio repertorio
scritte per la danza, per il teatro, per il cinema…
Mentre Caterina mi chiede di
appassionarmi al suo rock io
ho bisogno di silenzio, magari
di un flauto traverso...scherzo...
di sicuro a me piace stare dietro le quinte e sono contento di
tornarci.
57
SCUOLE
di Monica Ratti
Roberto
FASCILLA
“Fare danza
non è solo studiarla”
U
Alto, distinto,
portamento elegante,
un divo del
mondo
del
balletto, non
solo Étoile ma
direttore dei
corpi di ballo del Teatro
San Carlo di
Napoli, Comunale di Bologna, del primo
corpo di ballo dello Stabile di
Verona (durante le sue direzioni ha programmato i balletti di
tutti i più importanti coreografi
del suo periodo), apprezzato
coreografo e, infine, oggi, uno
dei maestri di danza più richiesti. Roberto Fascilla, tanta energia e fascino in un uomo che
non dimostra assolutamente la
sua età.
Quali sono gli episodi professionali che maggiormente
hanno segnato la sua ascesa
al successo?
Ero a Mantova, debuttavo
come coreografo nella Gio-
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DANZA, non solo passi
conda, dove ballavo con Elettra Morini. Ricevetti una telefonata dal sovrintendente della
Scala che mi disse di rientrare
immediatamente perché l’indomani avrei dovuto danzare
nel Romeo e Giulietta con Carla Fracci. Obiettai che mi era
stato concesso un permesso
per un impegno importante.
Nulla da fare, gli ordini erano
precisi, dovevo rientrare. Devo
ammettere che in quell’istante
l’ansia prese il sopravvento ma
fu la mia occasione per diventare Étoile.
Chi sono le partner con le quali
ha avuto un feeling speciale?
Ho danzato con straordinarie
ballerine: Luciana Savignano,
Carla Fracci, Liliana Cosi, Elisabetta Terabust, Margot Fonteyn
e molte altre. Ci sono ballerine
con cui danzi a livelli altissimi,
ma solo con alcune, oltre a
danzare, interpreti, questo fa la
differenza. Carla Fracci è stata sicuramente la partner con
la quale ho trovato l’intesa più
forte.
Chi sono i danzatori, uomini e
donne, della sua generazione
con cui, oltre al lavoro, ha condiviso l’amicizia?
Romeo (in generale amo i ruoli
romantici) forse perché a questo ruolo ho legato il ricordo di
John Cranko, la prima versione
di Romeo e Giulietta creata da
lui per il Teatro dell’Isola di San
Giorgio, anche se in quell’occasione ho debuttato nel ruolo
di Mercuzio.
Ai suoi tempi cosa ha rappresentato il balletto per gli italiani?
All’epoca anche per il balletto, come per la lirica, c’erano
le tifoserie che infiammavano
gli animi e riempivano i Teatri.
Callas - Tebaldi, Fracci - Cosi,
Nurayev - Baryshnikov.
Erano gli anni dei grandi divi e
dei grandi interpreti del Teatro
in tutte le sue forme, attori, cantanti, ballerini, il mondo telematico e tecnologico era ancora
lontano, il Teatro era il luogo
della socializzazione dove condividere emozioni, esperienze.
Per acquistare un biglietto le
persone si mettevano in fila per
ore. Oggi, per certi versi, la tecnologia ci aiuta ma per quanto
riguarda i rapporti tra persone
ho alcune riserve.
E oggi, a suo parere, come viene percepita la danza nella società italiana?
Con James Urbain, grande
competizione sul palco ma
vera e sincera amicizia nella
vita privata.
Paolo Bortoluzzi, per il quale ho
creato Convento Veneziano,
e Vera Colombo, che per me
è stata un tutor, madre, balia,
amica e anche mia partner ufficiale.
Purtroppo, oggi, la danza è arriva solo attraverso le scuole e
le accademie di danza. Inoltre, mentre prima l’attività di
chi affrontava l’arte tersicorea
era danzare, oggi uno studia
danza e non sa bene cosa farà
dopo, no anzi, a dire il vero lo
sa benissimo, farà l’insegnante
o il coreografo.
Quali sono i ruoli che ha maggiormente amato?
Negli anni ‘80 la televisione è
tornata utile per avvicinare le
giovani generazioni alla dan-
za alimentandone la pratica;
cosa pensa dei programmi tv
di oggi?
Ci sono canali, come SKY Classica, che offrono programmi
dove si può guardare bella danza. Credo però che la
grande offerta televisiva faccia
sì che si perda l’opportunità di
avvicinare un pubblico di non
addetti ai lavori. Le proiezioni
in diretta al cinema dei grandi
balletti sono un’ottima iniziativa. Negli anni ’80, con un’offerta ridotta e il corpo di ballo
presente nei grandi varietà
del sabato sera, sicuramente
si raggiungeva una platea più
vasta.
Sono pochi i giovani che vanno
a teatro a vedere spettacoli di
danza rispetto alle migliaia che
la praticano nelle innumerevoli
scuole di danza; lei ha una sua
lettura in proposito?
Fare danza non è solo studiarla, vuol dire entrare a far parte di un mondo che sprigiona
cultura, la danza è musica,
scenografia,
drammaturgia,
costume. Chi la insegna deve
cercare di trasmettere valori,
non solo passi. Chi la insegna
non dovrebbe pensare solo al
saggio di fine anno, alle competizioni, ma dovrebbe lasciare
un’eredità formativa che sia un
bagaglio culturale da portarsi
dietro per la vita, soprattutto se
la si è praticata solo come attività ricreativa.
Inutile ricordare che anche nella scuola, oserei dire sin dalla
materna, i bambini dovrebbero approcciare sempre in
modo gioioso e intelligente alle
svariate forme d’arte. Inoltre, le
famiglie devono far quadrare
i propri bilanci e il Teatro è un
costo. Ritengo che ultimamen-
59
te l’offerta italiana abbia abbassato il livello, l’Ater Balletto
non ha più la qualità di una
volta e il Balletto di Roma ha
perso smalto, le piccole compagnie annaspano e in scena
tutto ciò si percepisce, a scapito del coinvolgimento di nuovo pubblico.
Quale opinione ha dei docenti
sparsi sulla nostra penisola?
La maggior parte degli insegnanti ha la presunzione di sapere tutto e ritenersi sempre il
migliore. Ritengo che si possa
iniziare a insegnare solo dopo
aver avuto una serie di esperienze professionali. L’insegnamento della danza è un’arte,
la cosa più importante è l’approccio con l’allievo, la conoscenza anatomica del corpo
e anche una formazione culturale: insomma, conoscere e
approfondire perché la danza
è cultura.
Quello che noto maggiormente tra gli insegnanti è la mancanza di preparazione musicale. Quando preparano un
balletto, spesso la costruzione
coreografica, o meglio l’intenzione emotiva che dovrebbe
scaturire utilizzando un brano,
fa a pugni con il brano scelto.
Ma ci sono anche tantissimi
straordinari insegnanti, in parti-
60
colare, da quando dirigo il premio MAB, ho potuto verificare
la professionalità di piccole realtà dirette da insegnanti molto preparati, non solo dal punto di vista didattico, ma anche
artistico.
Diploma o non diploma?
Io preferisco osservare il lavoro
di un insegnante e valutarne la
reale capacità; il diploma non
dice nulla, ne abbiamo visti
tanti insegnare con il libricino di
un metodo piuttosto che di un
altro e, anche tra gli insegnanti
diplomati in Accademia, non
tutti sono validi. Inoltre, un bravo ballerino potrebbe non essere un bravo insegnante o coreografo e viceversa, per cui
l’insegnamento è sicuramente
il lavoro che richiede un insie-
me di competenze e capacità
che esulano dal rilascio di un
diploma.
Con il consenso dello Stato il
CONI si è aggiudicato la facoltà di distribuire patentini di
abilitazione con pseudo corsi di formazione a ore, spesso
avallati da docenti di chiara
fama, quali sono le sue considerazioni?
Una situazione abominevole.
Politicamente, chi deve sostenere i valori della danza, quasi
sempre è incompetente. Infatti, lo sport, che ha un’attenzione diversa da parte dei nostri
politici rispetto alle forme d’arte e di cultura, la fa da padrone. In realtà, come nello sport,
ci sono altrettanti ragazzi che
fanno danza, suonano uno
strumento o frequentano i corsi di teatro ma le associazioni
culturali non usufruiscono degli stessi trattamenti fiscali delle associazioni sportive, così lo
sport si appropria con facilità,
e con il beneplacito del Governo, di competenze non sue.
Cosa pensa degli annunci: “Ho
50 anni, smetto e celebro con
un Gala in tour”, “Ho 50 anni,
ritorno e festeggio con un Gala
in tour”? Non sarebbe meglio
il solo Gala di fine carriera? Si
eviterebbe di prestare il fianco
a critiche e di lasciare l’amaro
in bocca per quello che eri e
oggi non riesci più ad essere?
Purtroppo, ad un certo livello,
la danza è una droga, non tutti
invecchiano allo stesso modo,
chi riesce a mantenersi a livel-
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lo fisico e ha avuto una grande carriera può essere ancora
piacevole da vedere su un palco, con coreografie adeguate
alla sua maturità artistica ovviamente ma, in generale, non
sopporto gli annunci perché
questo tipo di decisione deve
essere presa con convinzione.
Oggi, invece, si annunciano
ritiri dalle scene come nuova modalità di marketing, ma
ognuno è libero di fare ciò che
vuole, non è un problema.
Cosa rappresenta per lei il premio MAB?
L’opportunità di aiutare giovani e straordinari talenti, una
ventata di freschezza. Tutti i
nostri vincitori sono ora ballerini nelle compagnie europee
più prestigiose. I ragazzi che
arrivano in finale al MAB hanno
un’ottima preparazione. Peccato che tra le Accademie
italiane solo l’Opera di Roma
apra a questa esperienza. La
scuola della Scala non permette la partecipazione e trovo sia un peccato.
Grazie al MAB ho incontrato
bravissimi insegnanti con ottimi
elementi ai quali hanno fatto
comprendere che non si può
arrivare a diventare ballerini
studiando solo 2/3 giorni a settimana.
Sono molte le scuole dove si
ritiene che invitando grandi
personaggi per qualche stage si possa fare la differenza,
a volte, rischiando anche l’indebitamento, pur di postare su
Facebook le foto dell’ospite.
Lo stage è sicuramente un ar-
Carla Fracci, Roberto Fascilla e Paolo Bortoluzzi
62
ricchimento dell’offerta di una
scuola, ma è il lavoro quotidiano fatto da docenti capaci
che porta al risultato e, in Italia,
sono diverse le realtà capaci
di condurre alcuni elementi al
professionismo, combattendo
ogni giorno tra problemi burocratico- amministrativi, gestione dei genitori e aspettative
degli allievi, che non studiano
danza per diventare ballerini ma semplicemente perché
amano questa meravigliosa disciplina. Ecco, la danza è una
disciplina che ti educa al rigore, al rispetto, a un’estetica, al
rapportarti con gli altri.
Credo fermamente che chi ha
la fortuna di viverla possa diventare una persona più ricca
interiormente e sviluppare una
più grande sensibilità.
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