ANNO VIII N.11 - Reporter nuovo
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ANNO VIII N.11 - Reporter nuovo
R Anno VIII - Numero 11 - 31 luglio 2015 eporter nu ovo #jesuischarlie moi non plus Sette mesi fa la strage nella redazione di Charlie Hebdo Ora, dopo sdegno e solidarietà, le vendite del periodico satirico tornano a calare Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli R 3 Quel che resta di Charlie Il 7 gennaio 2015 la strage rivendicata dall'ISIS dove morirono dodici persone. Un'ondata di solidarietà dalla Francia e dal mondo: 4,3 milioni di donazioni e vendite record di duecentomila copie. Ma ora emergono anche polemiche e spaccature, mentre le copie tornano sotto il livello di guardia 6 Viaggio in Italia, dove la satira ha perso il cuore È stato il settimanale più amato dai lettori e odiato dai politici. Ha chiuso nel 1996 e da allora i vari tentativi di imitarlo non hanno avuto lo stesso successo. Perché sulla carta stampata si ride sempre meno, mentre ironia e irriverenza viaggiano su web e televisione 8 9 E tutto ebbe inizio con Babbo Natale Tre secoli di sberleffi, da Thomas Nast (che disegnò Santa Claus) a Charlie Brown di Schultz. Investendo la politica, il costume ma anche la letteratura per l'infanzia E Giannelli non si scusa: «Viva la forza del paradosso» Una sua vignetta sul Corriere ha suscitato l'indignazione di molti lettori. «Volevo criticare la paura degli italiani, non i profughi» SOMMARIO R POLITICA L'INCHIESTA Quel che resta di Charlie Il 7 gennaio 2015 la strage rivendicata dall'ISIS dove morirono dodici persone. Un'ondata di solidarietà dalla Francia e dal mondo: 4,3 milioni di donazioni e vendite record di duecentomila copie. Ma ora emergono anche polemiche e spaccature, mentre le copie tornano sotto il livello di guardia Camilla Romana Bruno “Je suis Charlie, Tout est pardonné” diceva un Maometto in bianco, con lacrima bianca, sulla copertina di Charlie Hebdo del 14 gennaio 2015, sette giorni dopo l’attentato, sette giorni dopo che la redazione del settimanale satirico francese aveva perso dodici giornalisti. A firmare la vignetta Luz, caricaturista storico del Journal Irresponsable, sopravvissuto quella mattina solo per l’essere arrivato in ritardo. Il giornale dei survivants vende otto milioni di copie, cifra record sconosciuta da sempre agli inquilini di Rue Nicolas Appert. Poco più di un mese dopo, il 23 febbraio, un cane in fuga con una copia di Charlie, su uno sfondo rosso sangue, è inseguito da tutti quei soggetti che spiccano da sempre sulle sue prime pagine: Marine Le Pen, Nicolas Sarkozy, il Papa e l’immancabile jihadista, un cane nero con un kalashnikov tra i denti. Questo può voler dire solo che Charlie c’est riparti e che nulla è perdonato, quel messaggio che Luz voleva far passare già una settimana dopo l’attentato e percepito, invece, da molti come un ammorbidimento, una resa della rivista satirica. Anche la vendita di questo numero ha un grandissimo successo in tutto il mondo e viene tradotto in sedici lingue. Parallelamente cominciano a fioccare le donazioni da ogni parte del globo, fino a raggiungere i 4,3 milioni di euro: trentaseimila benefattori da ottantaquattro paesi diversi. Soldi, però, che il giornale sceglie di devolvere in favore delle famiglie delle vittime, nonostante Charlie fosse una redazione davvero in crisi e che rischiava di chiudere già nel novembre 2014. Le vendite record, comunuque, continuano. Si parla di 200 mila copie per ogni numero, contro le 30 mila del pre attentato, e gli abbonamenti schizzano alle stelle, da 7 mila a 270 mila. Alcuni media francesi annunciano che i guadagni dell’hebdomadaire satirico ammontano a 30 milioni di euro. Con il denaro, però, nascono altri problemi per giornalisti e vignettisti. La maggioranza delle azioni della rivista, all’indomani dell’attacco, è in mano agli eredi del direttore Charb, al neo direttore Riss e a Eric Porthealut, ma visti i guadagni così alti, i membri della redazione chiedono una ripartizione egualitaria delle entrate. Richiesta, finora, non accontentata. Tra le punte di diamante del settimanale a denunciare queste tensioni sul quotidiano Le Monde proprio Luz, che di lì a poco annuncerà il suo ritiro. A partire da settembre, dopo 23 anni di vignette e caricature su Charlie Hebdo, questa figura storica non firmerà più le copertine della rivista. “Mi sono ritrovato a fare quattro prime pagine su tre”, spiegava la sua decisione Luz al giornale Liberation, “ogni volta per chiudere il numero è una tortura perché gli altri non ci sono più. Passare delle notti insonni a convocare i dispersi, a chiedersi cosa avrebbero fatto Charb, Cabu, Honoré e Tignous è diventato insostenibile”. Una scelta tutta personale, sembra, anche se in molti parlano di ostacoli ormai insuperabili in una redazione dimezzata. Passano i mesi, sette mesi ormai, e le vendite cominciano a calare, fino a tornare al principio. Trentamila copie a numero, forse poche centinaia in più, accenna Patrick Polloux, il medico e collaboratore del giornale che la mattina del 7 gennaio arrivò per § Parla Polloux, il medico giornalista: «Non può esistere un Charlie d'avant e uno d'après. Limiti? Come si ha il diritto di credere si ha anche il diritto di non credere. Ed esercitare un diritto non è una provocazione» 3 R L'INCHIESTA C'è chi ha la sensazione che tutti abbiano dimenticato. E le vignette del settimanale sembrano tornate ad essere un prodotto di nicchia primo in redazione, soccorse per primo i suoi colleghi e amici. Sembrerebbe, allora, che la Francia, il mondo, abbia di nuovo dimenticato Charlie: le vignette del settimanale sono tornate ad essere un prodotto di nicchia, poco capite, forse troppo irriverenti. Lo spirito del Journal irresponsable, però, pare sia rimasto intatto, nonostante i picchi di guadagni e il ritorno allo stato di crisi. Dopo l’attentato tutto è ripartito sempre con lo stesso humour, sempre con lo stesso spirito “eretico” verso qualsiasi forma di credo o dogma. “Non può esistere uno Charlie d’avant e uno Charlie d’après”, è il messaggio di Polloux, “Charlie resta sempre Charlie, nulla è cambiato” e allora, forse, Je suis ancore Charlie. E se il neo direttore, Laurent Sourisseau, in arte Riss - succeduto a Charb, una delle vittime dell’Isis – pochi giorni fa aveva annunciato, in un’intervista a un giornale tedesco, che il suo settimanale avrebbe smesso di fare caricature di Maometto, per Polloux si è trattato solo di un errore di traduzione, un’incomprensione linguistica. È vero che Charlie sta cercando degli alleati, 5 è vero che per gli altri giornali è venuto il momento di prendersi le proprie responsabilità e di schierarsi contro il terrorismo, in tutte le sue forme. È però vero - ne è convinto il medico - che le Journal irresponsable non potrà smettere di fare della religione, di tutte le religioni, uno dei soggetti delle sue vignette, solo per il fatto che ci sono ancora e ci saranno sempre persone che credono e Charlie, su questa credenza, crea la sua satira. Perché? “Perché come si ha il diritto di credere si ha anche il diritto di non credere ed esercitare un diritto non è una provocazione”, aveva annunciato Gerard Biard, caporedattore della rivista, quando le rotative di Charlie avevano cominciato a funzionare di nuovo. Perché “l’umorismo è etica, è attitudine dello spirito” spiega Polloux, ricordando il motto in cui Wolsinskj riconosceva il suo mestiere e la sua vocazione, prima di perdere la vita. “Finché sei libero susciti intolleranze, se sei invece intollerante sollevi le reazioni della libertà”, diceva il vignettista. Charlie è sempre lo stesso e difende la sua eredità storica, al suono di quello che, all’indomani dell’attentato, suonava come un gri- do di guerra: “Le journal va continuer, il n’ont pas gagné”. L’Islam non ha vinto, ancora oggi, perché la rivista satirica non è scaduta nell’omofobia, rivendica il medico, ma ha solo fatto quello che faceva da quando è stata fondata, prendersi gioco dell’autorità precostituita, dell’isteria da mancanza di ragione. È l’Islam ad avere un problema con la violenza, con dei “nazisti” che si nascondono dietro l’interpretazione del Corano. “La religione in assoluto più presa di mira è quella cattolica – spiega Polloux - ma mai un cattolico è venuto in redazione ad uccidere dei disegnatori”. Je suis ancore Charlie perché la memoria resta, perché nell’immaginario collettivo la rivista è il simbolo stesso della libertà d’espressione nonostante tutto. Memoria che – secondo il collaboratore – si rinnova ogni qual volta che l’Isis, Boko Haram o Al Qaeda commettono un attentato. Memoria che, però, si è spesso scontrata e si scontra ancora con i responsi del “kiosque” - le vendite del giornale - e con uno humour tutto francese, a volte incompreso anche dai Francesi stessi. Charlie resterà un paradigma, ma questo non gli eviterà di rischiare ancora la chiusura. R IL CASO Viaggio in Italia, dove la satira ha perso il Cuore È stato il settimanale più amato dai lettori e odiato dai politici. Ha chiuso nel 1996 e da allora i vari tentativi di imitarlo non hanno avuto lo stesso successo. Perché sulla carta stampata si ride sempre meno, mentre ironia e irriverenza viaggiano su web e televisione Antonino Marsala È una satira senza Cuore. E forse sta cambiando pelle. È quello che si percepisce dando uno sguardo al panorama italiano. Dopo l’esperienza, ormai lontana nel tempo, de Il Male (1977-1982), Tango (1986-1988) e Cuore (1989-1996), non sembra esserci più spazio per una rivista di satira. Certo, si potrebbe obiettare che c’è stata la recente e ormai conclusa esperienza de Il Misfatto (2010-2013) e che esiste ancora Il Vernacoliere (nato nel 1982), anche se ha un tratto molto regionale. Tuttavia, ormai, sembra mancare una realtà editoriale di respiro nazionale e con un riscontro significativo di pubblico. Quello che forse è stato il più seguito e amato (e ora ricordato) è Cuore, nato grazie anche al giornalista e scrittore Michele Serra, che ne è stato direttore per cinque anni. Tanti i collaboratori che hanno dato vita a pagine, disegni e vignette che hanno fatto sorridere, arrabbiare, spazientire. Memorabili le sue prime pagine con titoli fulminanti come “Scatta l'ora legale, panico tra i socialisti" oppure "Salvo Lima come John Lennon, ucciso da un fan impazzito". Molti degli artisti che vi collaborarono, come Staino, Vauro, Vincino, Altan, Ellekappa, Disegni, ancora oggi continuano a ruotare attorno al mondo della satira italiana. Vi sono state poi nel corso degli anni diversi tentativi di creare riviste che ricalcassero lo stile e il successo di Cuore, ma sempre con vita molto breve. Spiega Serra: “Questione di anacronismo, si era fuori 86 tempo. Quella stagione è finita. Linus, Il Male, Tango, Cuore: tutte testate molto diverse una dall’altra, ma leggendole avevi il polso della satira in quel momento. Adesso quella stagione è finita, i giornali di satira non ci sono più perché in edicola non succede granché, è diventata marginale. Tutto quello che di nuovo accade, si muove on line”. Ed è stato in effetti un po’ per colpa della crisi della carta stampata, che a Serra, l'ex direttore: «Criticavamo i consumi, non solo il potere. Era un giornale che era anche contro la gente» partire dagli anni 2000 e con l’avvento del web ha visto diminuire il proprio numero di lettori, ma anche un po’ per via di un cambiamento della società che c’è stato in questi ultimi 20 anni che la satira è cambiata. È innegabile che dalla fine degli anni Ottanta la televisione ha avuto sempre più un ruolo centrale nel panorama culturale, Italia compresa. Così, se da un lato è diminuito lo spazio cartaceo per i satirici, dall’altro si è assistito a un proliferare e un succedersi di artisti che sono diventati delle icone della satira, con un successo e una diffusione mai sperimentata prima dai loro colleghi. Si pensi a Corrado e Sabina Guzzanti, Daniele Luttazzi, per finire con Maurizio Crozza che è riuscito a diventare una vera e propria star con la sua satira acuta e irriverente. Ma ultimamente ci sono anche delle contaminazioni tra questi due diversi tipi di satira. Lo dimostrano la presenza di Makkox all’interno della trasmissione “Gazebo” e di Vauro al fianco di Michele Santoro a Servizio Pubblico. A entrambi è affidato il compito di animare i programmi con le loro vignette realizzate in diretta mentre in sottofondo scorre un flusso continuo e inarrestabile degli ospiti di turno. C’è anche, soprattutto tra i giovani artisti, chi però ha scelto direttamente il web per diffondere la propria arte, forse consapevoli dell’ormai necessario e inevitabile cambiamento di supporto per poter raggiungere le persone. Un percorso intrapreso da The Jackal e Il terzo segreto di satira, con cui il confine tra videomaker, creativi e satirici si confonde. Il risultato, però, è eccellente e così attraverso la fiction prende forma una satira non solo politica ma anche sociale e antropologica. Altri artisti come Zerocalcare, Gipi e Makkox, poi, pur avendo un rapporto ancora stretto con la carta stampata, hanno saputo cogliere il cambiamento dei tempi e sono molto attivi anche nel mondo digitale, riuscendo a sfruttare la viralità che solo Internet riesce ormai a garantire. Per loro tuttavia, non si può parlare di satirici in senso stretto, essendo il loro un modo diverso di raccontare le idiosincrasie della società di oggi, più vicino allo storytelling che alla satira tradizionale. L’equivalente di “andare in edicola”, cioè di essere pubblicati, adesso è diventato molto facile e accessibile a tutti. “Con quale peso, autorevolezza e riconoscibilità è un altro discorso”, precisa Serra. “Il problema di chi ha pochi anni adesso e si accinge a fare satira, ma anche qualsiasi tipo di giornalismo, è capire se a un certo punto nel web si creeranno dei grumi, dei punti di catalizzazione dell’informazione. Perché è questo che la gente cerca, a meno di credere al mito che ognuno si crea il proprio palinsesto. Il navigatore fondamentalista pensa questo, ma io non ritengo che sia credibile. C’è una specie di titanismo in questa visione di sé come demiurgo della propria cultura e informazione”. Creare giornali satirici come Tango, Il « Oggi c’è un gentismo imperante. E la gente odia la casta perché non vede l'ora di farne parte» Male, Cuore non era però cosa facile. “Il tasso di litigiosità degli autori di satira era molto alto. Non era facile tenere insieme sensibilità diverse. I satirici svolgono un lavoro che collima con quello del giornalismo, è tangente a quell’ambiente ma si tratta di lavoro artistico e autorale”. Racconta ancora Serra: “Il successo di Cuore credo sia dipeso dal fatto che hanno letto gli anni Ottanta e Novanta in modo molto potente e preciso. Uno dei punti fermi era che non ci fosse nessuna differenza tra palazzo, cittadini e società: uno era lo specchio dell’altro. Cuore criticava i consumi, non solo il potere. Era un giornale che era anche contro la gente. Adesso invece c’è un gentismo imperante: si pensa molto che la gente sia santa e buona e le caste cattive, una cosa che credo sbagliata”. Ed è stata proprio la satira sociale e non solo della politica che ha reso Cuore una delle riviste più apprezzate e ricordate. “Avessi venticinque anni e mi venisse il ghiribizzo di fare un giornale di satira – confessa Serra -, forse ripartirei da dove Cuore ha smesso ovvero dalla considerazione che la gente è tal quale la casta. La casta è il prodotto della gente. La gente odia la casta perché non vede l’ora di farne parte: questa è secondo me la chiave di lettura dei nostri giorni”. Il web ha certamente aumentato la quantità di informazioni a disposizione, satira compresa. Quello che è il problema ancora irrisolto del digitale è di non essere ancora riuscito a trovare un modo per rendere redditizio quel campo, non solo a livello di satira ma dell’informazione in generale. Quello che secondo Michele Serra costituisce un limite, è che in Rete “ognuno va alla guerra da solo”. “I giornali sono un’altra cosa, sono una piccola chiave di lettura del mondo in cui si creano delle alchimie tra varie persone e da cui nasce una lettura della società”. Quello che forse manca in Italia, secondo il giornalista, non è la satira, ma semmai un punto d’incontro sul web che raccolga tutte le sue nuove e diverse declinazioni. Una sorta di crocevia tra gli autori. Che era poi proprio il ruolo che svolgevano prima i giornali di satira che Serra ricorda come “una specie di accrocco spesso miracoloso di persone, artisti, disegnatori che per un tratto di cammino riuscivano a diventare un giornale”. Michele Serra si definisce “un pensionato della satira”, tuttavia ritiene che il problema della comunicazione sul web sia l’eccessiva dispersione. “Spero nascano all’interno di quel mondo, e con i parametri di quel mondo delle capacità di selezione e orientamento. Senza quello, la quantità non diventa qualità”. “The Jackal fa una parodia dello spettacolo di massa, che potrebbe essere giudicata come satira sociale. Apprezzo molto Zerocalcare e Gipi. Makkox, invece, ricorda tantissimo Andrea Pazienza: c’è una nevrosi simile. Se tutti questi insieme facessero un giornale, sarebbe interessante vedere cosa ne viene fuori. Perché un giornale è frutto di grandissima riflessione, discussione: la prima pagina, la scelta degli argomenti… I giornali sono belli anche per quello. In questo senso sono nostalgico perché tutto quel fibrillare di io, diventava noi”. R LA STORIA E tutto ebbe inizio con Babbo Natale Tre secoli di sberleffi, da Thomas Nast (che disegnò Santa Claus) a Charlie Brown di Schultz. Investendo la politica, il costume ma anche la letteratura per l'infanzia Antonia Murgo Quando non so come cominciare, cito Che animale sei? di Paola Mastrocola. La protagonista è un'anatroccola orfana, adottata da una pantofola, che se ne va in giro a conoscere pipistrelli, castori, talpe, fenicotteri, e molti altri animali che sbeffeggiano altrettanti tipi umani. Il rischio che il lettore possa perdersi tra vignette e caricature, che rimanga impantanato in una storia paludosa che puzza di usato, mi ha convinta qui a fare da “pantofola”, ad accogliere il piede, cioè il passo incerto di chi legge queste prime righe e ad accompagnarlo in un viaggio che suona un po' come una satira della satira. Dove gli autori sono ripartiti non per secolo, ma per razza, e tra gli esemplari più noti figurano Charlie Brown, Morticia Addams e Babbo Natale. Pipistrelli in politica Prima sarà meglio togliere un po' di polvere dalla storia e da tutti gli illustri “pipistrelli”, rimasti sepolti nella cavernosa satira politica di qualche secolo fa. A cominciare dal precursore del genere, William Hogarth. Benché la sua denuncia della corruzione politica nell'Inghilterra del XVIII secolo presentasse già la moderna divisione in sequenza, il Leonardo dedicava ancora troppe pennellate all'illustrazione. L'immagine-burla come la conosciamo noi deve essere tratteggiata, asciutta e inchiostrata, perché, in linea coi suoi intenti, non deve risultare troppo esplicita. Capostipite riconosciuto è James Gillray, prolifico autore inglese che tra i suoi bersagli preferiti aveva Napoleone e la rivoluzione francese. Poi nel 1841 nacque la rivista satirica “Punch”, una collezione di vignette a tema politico e sociale, curate dalla cosiddetta “fratellanza” guidata da John Tenniel, un caricaturista infaticabile, il cui stile grottesco e la linea deformata vengono 8 imitati ancora oggi. La fratellanza spadroneggiava in un'epoca, la seconda metà del XIX secolo, in cui tutte le maggiori testate politiche, soprattutto inglesi e americane, esprimevano attraverso i cartoon le posizioni dell'opinione pubblica. Tanto che si parlava di vere e proprie “vignette editoriali”. In questo contesto uno degli autori più influenti era Thomas Nast: padre del fumetto americano, autore dall'immaginazione incredibilmente visiva, illustratore col gusto della metafora (suoi l'elefante simbolo del Partito Repubblicano, l'asino del Partito Democratico e l'immagine dello Zio Sam), innovatore, sperimentatore e il mio titolo preferito, inventore di Babbo Natale. Tra le 160 vignette editoriali di suo pugno, infatti, Nast realizzò per Harper's Weekly un'illustrazione di Santa Claus molto moderna, rappresentandolo, non più come un uomo alto e magro, ma come un anziano paffuto e barbuto, avvolto in una pelliccia. Grazie all'influenza di Nast, nel XIX secolo emersero due tendenze: l'uso di simboli e metafore visive, e il tentativo di raccontare una storia lineare, "Piccoli cari! Credono ancora a Babbo Natale" anche in versione “tascabile”, composta cioè da una sola tavola, esattamente come faceva Charles Addams. Fenicotteri troppo rosa Va bene guardare il mondo con gli occhiali rosa, ma quando un'intera nazione conduce un'esistenza monocromatica, da qualche parte un vignettista dalle occhiaie profonde e l'umorismo nero risponde a tono (tonalità in questo caso). Charles Addams non ne poteva più del sogno americano che relegava la famigliola tradizionale in una casa in periferia, come in una gabbia per uccelli (o per fenicotteri, la cui aria impettita e il colore pastello si adattano meglio all'era del consumismo), col papà lavoratore e la mamma casalinga. Impugnata la matita come strumento chirurgico, operò agli inizi degli anni 40 una macabra inversione dell'ideale: prese il padre e ne fece un grassoccio damerino in giacca gessata, dedito a chissà quali svaghi, e investì la madre di un'autorità spettrale che la rendeva il vero capofamiglia agli occhi dei figli. In barba ai comportamenti borghesi del tempo, creò un modello famigliare alternativo, a cui alla fine si sentì talmente legato da prestare il suo cognome. La famiglia Addams debuttò nel 1940 sul settimanale The New Yorker. Ma i suoi componenti non ebbero nomi propri fino alla messa in onda della serie televisiva, quando fu necessario caratterizzare meglio i personaggi. Ci pensò lo stesso Addams: “Gomez e Pugsley sono degli entusiasti. Morticia ha la medesima indole, ma è più pacata, arguta, di una bellezza cadaverica. Nonna è stupidamente buona. Mercoledì è la figlia di sua madre. La loro casa è fatiscente, ma ne vanno molto fieri”. Il decennio successivo arrivò con un nuovo R 9 LA STORIA sogno americano: fiducia nel futuro e nell'opportunità. I genitori spronavano i figli a realizzare qualsiasi cosa volessero e i ragazzini macinavano ore di studio e attività fisica per compiacerli. Non tutti, certo. Nelle strisce a fumetti i bambini se ne stavano a lungo seduti sui muretti, ponendosi domande universali sul presente e la società, ma senza perdere le piccole manie tipiche della loro età: Mafalda, sei anni, odiava la minestra, Charlie Brown, di 8 anni e mezzo, adorava gli aquiloni anche se finivano sull'albero mangia-aquiloni. La bimba spettinata di Quino si interessava dei problemi del mondo, come la Guerra del Vietnam, la fame o il razzismo, tempestando gli adulti con domande dirette e disarmanti. La satira nei Peanuts era invece più sofisticata. Schulz non denunciava esplicitamente i problemi legati alla razza, al genere e alla disuguaglianza sociale ma lasciava parlare i suoi disegni, come Piperita Patty, atletica e carismatica pur essendo una femminuccia. Gli autori-castori (per bambini) Solo un caso che il dr. Seuss avesse i denti davanti leggermente sporgenti. È lui che guida la schiera degli “autori-castori”, scrittori militanti che rosicchiano fino all'osso il potenziale della letteratura per l'infanzia, applicando al racconto fiabesco gli stessi principi della caricatura: metafore visive e simboli. Forse per la precedente carriera di vignettista satirico, l'americano Theodor Seuss Geisel (in arte dr. Seuss) riempì le sue opere infiocchettate di filastrocche di messaggi politici. In Ortone e i piccoli Chi! si avverte chiara la denuncia della disuguaglianza sociale: “Questo io penso, che ognuno è importante, sia piccolo o immenso”. Ancora più evidente la critica contro l'antisemitismo negli Snicci: “Gli Snicci Stellati sulle pance hanno stelle. Gli Snicci Comuni hanno solo la pelle”. Fino ad arrivare al caso Marvin K. Moony will you please go now!, racconto del 1972 dedicato a un bambino che non vuole saperne di andare a letto. Nel 1974, in collaborazione con l'umorista Art Buchwald, Seuss sostituì al nome del protagonista con quello di Richard M. Nixon. Il testo così modificato fu pubblicato sul Whashington Post dieci giorni prima delle dimissioni del Presidente per lo scandalo Watergate. Come ho detto, Geisel non era estraneo alla critica feroce dell'attualità. Tra il 1941 e il 1943, disegnò più di 400 vignet- te per il giornale newyorkese PM, scagliandosi contro la guerra, Hitler e il Giappone, utilizzando talvolta dei pennuti dal collo lungo, antenati in bianco e nero degli Snicci paglierini, per dar voce ai suoi balloon. Come per i lillipuziani di Swift o il burattino di Collodi, la satira poteva essere affidata a personaggi talmente caratterizzati da stuzzicare in una sola volta l'immaginazione e le riflessioni del lettore. Non è un caso che L. Frank Baum si rivolse al vignettista satirico W. W. Denslow per illustrare la prima edizione del Meraviglioso mago di Oz (1900). Denslow lavorava per i maggiori quotidiani dell'epoca e seppe dare ai personaggi descritti nel libro quel tratto ridicolo e umano voluto da Baum. In particolare i tre accompagnatori di Dorothy si inserivano perfettamente nella complessa allegoria degli eventi politici, economici e sociali dell'America nel 1890. Dove allegoria sta per significato nascosto e profondo, e il significato in questione, o intento se vogliamo, rimanda alla denuncia satirica. Lo spaventapasseri rappresentava i contadini, l'uomo di latta gli operai delle fabbriche e il leone codardo il deputato del Partito Democratico William Jennings Bryan, in marcia verso la città di Smeraldo, dominata dalla logica del denaro e governata da un mago imbroglione ed egoista. La piccola Dorothy, di indole semplice e ingenua, era solo una vittima degli eventi come lo era il popolo americano. Le talpe di oggi Ci camminano sotto i piedi e non ce ne accorgiamo, ma loro, le “talpe”, scavano profonde gallerie nelle opinioni dei lettori. A partire dagli anni 60, la satira diventa sempre più personale e pungente. I protagonisti delle strisce di moltiplicano, così pure le loro (dis)avventure. Nel 1968 fa il suo esordio una striscia destinata ad allargare la schiera di pipistrelli famosi incontrati in alto, in altre parole a diventare una pietra miliare del genere: Doonesbury di Garry B. Trudeau, che partendo dal quotidiano dell'università di Yale, crebbe sempre più arrivando a trattare ogni aspetto della vita americana. Un destino comune a The Boondocks del fumettista afro-americano Aaron McGruder, pubblicata inizialmente sul giornale dell'Università del Maryland, nel 1996. La striscia raccontava gli avvenimenti contemporanei attraverso lo sguardo disincantato di due bambini afro-americani. La visione cinica e smaliziata dei piccoli Freeman non ha pressoché niente in comune con quella di Calvin, bambino di sei anni dall'immaginazione inarrestabile, protagonista insieme alla sua tigre di pezza, di Calvin & Hobbes, serie ideata e disegnata da Bill Watterson. Calvin, oltre che per dimensioni e pettinatura, ricorda molto più il Pogo di Walt Kelly, sensibile, filosofico e razionale com'è. Solo che Pogo non è proprio un ragazzino, è un opossum antropomorfo che vive nella palude di Okefenokee in Georgia. Ritorna la satira con gli animali, con città, come quella di Frizt the Cat di Robert Crumb, abitate da erbivori e carnivori che invece di sbranarsi l’un l’altro, passano le giornate a riflettere sul mondo e le sue dinamiche. Si fermano soltanto quando passa una pantofola con un gruppo di turisti venuti a osservarli. R E Giannelli non si scusa «Viva la forza del paradosso» Una sua vignetta sul Corriere ha suscitato l'indignazione di molti lettori. «Volevo criticare la paura degli italiani, non i profughi» Benedetta Michelangeli Razzista, insensibile, troppo leggera: è stata definita così la vignetta di Emilio Giannelli apparsa il 18 luglio 2015 sul Corriere della Sera. Una famiglia italiana torna a casa dalle ferie e si ritrova un gruppo di profughi ad occupare il loro soggiorno. Fiumi di commenti indignati sui social, analisi iconografiche, “contro vignette” come quella dei disegnatori Gipi o Alessio Spataro . Tutto questo mentre nella periferia nord di Roma, a Casale San Nicola, i residenti del quartiere scatenavano una vera e propria guerriglia con la polizia per protestare contro l’arrivo di 19 profughi - profughi veri, eritrei, bengalesi, somali, e non solo profughi disegnati a matita- in un centro di accoglienza. Giannelli ha sbagliato? No! Capire al contrario il messaggio di una vignetta è paradossale. La critica della mia vignetta era a noi italiani e la satira era rivolta alla nostra paura. Il rischio è sempre quello della mal interpretazione e dello sguardo superficiale che il lettore può avere. Un rischio che corre anche chi disegna, è chiaro. L’interpretazione di una vignetta satirica si fa in due: autore e lettore. Ma se si usa un messaggio paradossale l’offesa non c’è. È questo il principio della satira che non deve essere distrutto. Per certa gente se si disegna un nero lo si deve fare bianco, senza labbroni e senza capelli ricci. C’è questo integralismo al contrario. Questa volta è stato stravolto il paradosso del suo messaggio, lei dice. Ma le sarà capitato di sbagliare una vignetta? Il pubblico cambia, la sensibilità cambia, e noi disegnatori non siamo infallibili né profeti. «Se si usa un messaggio paradossale, non c'è offesa» 10 { Diversi anni fa fui duramente cirticato per una vignetta sulla proposta della Lega in tema di legalizzazione della prostituzione. Disegnai un marito che torna a casa dal supermercato e che, con una prostituta di colore in braccio, dice alla moglie: “Sono passato a fare la spesa”. L’intento era rappresentare una proposta per me assurda e irragionevole. Però dopo la pubblicazione mi è stato chiesto perché la prostituta fosse nera. Ecco, in quel caso a compiere la leggerezza sono stato io. Perché la prostituta doveva essere nera e non bianca? Delle volte ci sono ragioni che non si soppesano, questa è stata una di quelle volte. Ma lei chiede scusa? Io devo pensare al lettore e al giornale dove pubblico, sapendo sempre che l’argomento della vignetta, oggi, è concordato con il Corriere. Devo farlo perché altrimenti si creerebbe uno scollamento tra immagine e messaggio. Sto sempre attento a non cadere, ma a volte ci sono integralismi davvero stupidi. Spesso utilizzo l’iconografia dell’Annunciazione. Si scaldano in molti, ma io non l’accetto. Credo che i capolavori artistici a cui faccio riferimento possano essere liberamente interpretati e utilizzati. Qual è il limite alla satira? C’è satira quando il messaggio che c’è dietro al disegno è utile perché c’è una critica. In quel caso tutto è pubblicabile. Ma la critica nella sua forza distruttiva, deve essere costruttiva. Nel momento in cui si limita a mera offesa, di un sentimento religioso per esempio, allora non c’è satira. Insistere sui difetti fisici di alcune persone è sbagliato. Se faccio una vignetta su Renato Brunetta solo sulla sua bassa statura è un’offesa gratuita. Se uso questa caratteristica come mezzo funzionale a raccontare una cosa “piccola” L'INTERVISTA che ha detto, allora ha un senso. Ma lei, dopo 25 anni di vignette al Corriere e 10 a Repubblica, sarà abituato a chi questa sua satira proprio non la capisce. Mi diverte quando a volte si dà un’interpretazione alla vignetta che mi sorprende. Il fattore sorpresa c’è sempre, poi alcune critiche alla mia vignetta di sabato io nemmeno le ho capite. Quella “contro vignetta” che recita E Voi? E i Marò? Io non l’ho capita. Oppure dire che il bambino del disegno è senza un braccio: il suo braccio è dietro la valigia! Rimango deluso se le persone non ragionano. R Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” Direttore responsabile Roberto Cotroneo Ufficio centrale Giampiero Timossi, Gianni Lucarini Progettazione grafica e impaginazione Claudio Cavalensi Redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 06.85225358 - fax 06.85225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] - www.reporternuovo.it