ANNO VIII N.11 - Reporter nuovo

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ANNO VIII N.11 - Reporter nuovo
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Anno VIII - Numero 11 - 31 luglio 2015
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#jesuischarlie
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Sette mesi fa la strage nella redazione di Charlie Hebdo
Ora, dopo sdegno e solidarietà, le vendite
del periodico satirico tornano a calare
Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli
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Quel che resta di Charlie
Il 7 gennaio 2015 la strage rivendicata dall'ISIS dove morirono dodici persone.
Un'ondata di solidarietà dalla Francia e dal mondo: 4,3 milioni di donazioni e vendite record
di duecentomila copie. Ma ora emergono anche polemiche e spaccature, mentre le copie
tornano sotto il livello di guardia
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Viaggio in Italia, dove la satira ha perso il cuore
È stato il settimanale più amato dai lettori e odiato dai politici.
Ha chiuso nel 1996 e da allora i vari tentativi di imitarlo non hanno avuto lo stesso successo.
Perché sulla carta stampata si ride sempre meno, mentre ironia e irriverenza viaggiano
su web e televisione
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E tutto ebbe inizio con Babbo Natale
Tre secoli di sberleffi, da Thomas Nast (che disegnò Santa Claus) a Charlie Brown di Schultz.
Investendo la politica, il costume ma anche la letteratura per l'infanzia
E Giannelli non si scusa: «Viva la forza del paradosso»
Una sua vignetta sul Corriere ha suscitato l'indignazione di molti lettori.
«Volevo criticare la paura degli italiani, non i profughi»
SOMMARIO
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POLITICA
L'INCHIESTA
Quel che resta di Charlie
Il 7 gennaio 2015 la strage rivendicata dall'ISIS dove morirono dodici persone.
Un'ondata di solidarietà dalla Francia e dal mondo: 4,3 milioni di donazioni e vendite record
di duecentomila copie. Ma ora emergono anche polemiche e spaccature, mentre le copie
tornano sotto il livello di guardia
Camilla Romana Bruno
“Je suis Charlie, Tout est pardonné” diceva un
Maometto in bianco, con lacrima bianca, sulla
copertina di Charlie Hebdo del 14 gennaio 2015,
sette giorni dopo l’attentato, sette giorni dopo
che la redazione del settimanale satirico francese
aveva perso dodici giornalisti. A firmare la vignetta Luz, caricaturista storico del Journal Irresponsable, sopravvissuto quella mattina solo per l’essere
arrivato in ritardo. Il giornale dei survivants vende
otto milioni di copie, cifra record sconosciuta da
sempre agli inquilini di Rue Nicolas Appert.
Poco più di un mese dopo, il 23 febbraio, un cane
in fuga con una copia di Charlie, su uno sfondo rosso
sangue, è inseguito da tutti quei soggetti che spiccano da sempre sulle sue prime pagine: Marine Le
Pen, Nicolas Sarkozy, il Papa e l’immancabile jihadista, un cane nero con un kalashnikov tra i denti.
Questo può voler dire solo che Charlie c’est riparti e
che nulla è perdonato, quel messaggio che Luz voleva far passare già una settimana dopo l’attentato
e percepito, invece, da molti come un ammorbidimento, una resa della rivista satirica. Anche la vendita di questo numero ha un grandissimo successo in
tutto il mondo e viene tradotto in sedici lingue.
Parallelamente cominciano a fioccare le donazioni da ogni parte del globo, fino a raggiungere i 4,3
milioni di euro: trentaseimila benefattori da ottantaquattro paesi diversi. Soldi, però, che il giornale sceglie di devolvere in favore delle famiglie delle vittime, nonostante Charlie fosse una redazione davvero
in crisi e che rischiava di chiudere già nel novembre
2014. Le vendite record, comunuque, continuano. Si
parla di 200 mila copie per ogni numero, contro le
30 mila del pre attentato, e gli abbonamenti schizzano alle stelle, da 7 mila a 270 mila. Alcuni media francesi annunciano che i guadagni dell’hebdomadaire
satirico ammontano a 30 milioni di euro.
Con il denaro, però, nascono altri problemi per
giornalisti e vignettisti. La maggioranza delle azioni
della rivista, all’indomani dell’attacco, è in mano agli
eredi del direttore Charb, al neo direttore Riss e a Eric
Porthealut, ma visti i guadagni così alti, i membri
della redazione chiedono una ripartizione egualitaria delle entrate. Richiesta, finora, non accontentata.
Tra le punte di diamante del settimanale a denunciare queste tensioni sul quotidiano Le Monde proprio Luz, che di lì a poco annuncerà il suo ritiro. A
partire da settembre, dopo 23 anni di vignette e
caricature su Charlie Hebdo, questa figura storica
non firmerà più le copertine della rivista. “Mi sono
ritrovato a fare quattro prime pagine su tre”, spiegava la sua decisione Luz al giornale Liberation,
“ogni volta per chiudere il numero è una tortura
perché gli altri non ci sono più. Passare delle notti insonni a convocare i dispersi, a chiedersi cosa
avrebbero fatto Charb, Cabu, Honoré e Tignous è
diventato insostenibile”. Una scelta tutta personale, sembra, anche se in molti parlano di ostacoli
ormai insuperabili in una redazione dimezzata.
Passano i mesi, sette mesi ormai, e le vendite cominciano a calare, fino a tornare al principio. Trentamila copie a numero, forse poche centinaia in più,
accenna Patrick Polloux, il medico e collaboratore
del giornale che la mattina del 7 gennaio arrivò per
§
Parla Polloux, il medico giornalista: «Non può esistere un Charlie
d'avant e uno d'après. Limiti? Come si ha il diritto di credere si ha anche il diritto
di non credere. Ed esercitare un diritto non è una provocazione»
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L'INCHIESTA
C'è chi ha la sensazione che tutti abbiano dimenticato.
E le vignette del settimanale sembrano tornate ad essere
un prodotto di nicchia
primo in redazione, soccorse per primo
i suoi colleghi e amici. Sembrerebbe, allora, che la Francia, il mondo, abbia di
nuovo dimenticato Charlie: le vignette
del settimanale sono tornate ad essere
un prodotto di nicchia, poco capite, forse troppo irriverenti.
Lo spirito del Journal irresponsable,
però, pare sia rimasto intatto, nonostante i
picchi di guadagni e il ritorno allo stato di
crisi. Dopo l’attentato tutto è ripartito sempre con lo stesso humour, sempre con lo
stesso spirito “eretico” verso qualsiasi forma
di credo o dogma. “Non può esistere uno
Charlie d’avant e uno Charlie d’après”, è il
messaggio di Polloux, “Charlie resta sempre
Charlie, nulla è cambiato” e allora, forse, Je
suis ancore Charlie.
E se il neo direttore, Laurent Sourisseau,
in arte Riss - succeduto a Charb, una delle vittime dell’Isis – pochi giorni fa aveva
annunciato, in un’intervista a un giornale
tedesco, che il suo settimanale avrebbe
smesso di fare caricature di Maometto, per
Polloux si è trattato solo di un errore di traduzione, un’incomprensione linguistica. È
vero che Charlie sta cercando degli alleati,
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è vero che per gli altri giornali è venuto il
momento di prendersi le proprie responsabilità e di schierarsi contro il terrorismo, in
tutte le sue forme. È però vero - ne è convinto il medico - che le Journal irresponsable
non potrà smettere di fare della religione,
di tutte le religioni, uno dei soggetti delle sue vignette, solo per il fatto che ci
sono ancora e ci saranno sempre persone che credono e Charlie, su questa
credenza, crea la sua satira.
Perché? “Perché come si ha il diritto di
credere si ha anche il diritto di non credere
ed esercitare un diritto non è una provocazione”, aveva annunciato Gerard Biard, caporedattore della rivista, quando le rotative
di Charlie avevano cominciato a funzionare
di nuovo. Perché “l’umorismo è etica, è attitudine dello spirito” spiega Polloux, ricordando il motto in cui Wolsinskj riconosceva
il suo mestiere e la sua vocazione, prima di
perdere la vita. “Finché sei libero susciti intolleranze, se sei invece intollerante sollevi
le reazioni della libertà”, diceva il vignettista.
Charlie è sempre lo stesso e difende la sua
eredità storica, al suono di quello che, all’indomani dell’attentato, suonava come un gri-
do di guerra: “Le journal va continuer, il n’ont
pas gagné”. L’Islam non ha vinto, ancora oggi,
perché la rivista satirica non è scaduta nell’omofobia, rivendica il medico, ma ha solo fatto
quello che faceva da quando è stata fondata,
prendersi gioco dell’autorità precostituita,
dell’isteria da mancanza di ragione. È l’Islam
ad avere un problema con la violenza, con dei
“nazisti” che si nascondono dietro l’interpretazione del Corano. “La religione in assoluto
più presa di mira è quella cattolica – spiega
Polloux - ma mai un cattolico è venuto in redazione ad uccidere dei disegnatori”.
Je suis ancore Charlie perché la memoria resta, perché nell’immaginario collettivo la rivista è il simbolo stesso della libertà
d’espressione nonostante tutto. Memoria
che – secondo il collaboratore – si rinnova ogni qual volta che l’Isis, Boko Haram o
Al Qaeda commettono un attentato. Memoria che, però, si è spesso scontrata e si
scontra ancora con i responsi del “kiosque”
- le vendite del giornale - e con uno humour tutto francese, a volte incompreso
anche dai Francesi stessi. Charlie resterà
un paradigma, ma questo non gli eviterà
di rischiare ancora la chiusura.
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IL CASO
Viaggio in Italia, dove la satira
ha perso il Cuore
È stato il settimanale più amato dai lettori e odiato dai politici.
Ha chiuso nel 1996 e da allora i vari tentativi di imitarlo non hanno avuto
lo stesso successo. Perché sulla carta stampata si ride sempre meno,
mentre ironia e irriverenza viaggiano su web e televisione
Antonino Marsala
È una satira senza Cuore. E forse sta
cambiando pelle. È quello che si percepisce dando uno sguardo al panorama
italiano. Dopo l’esperienza, ormai lontana nel tempo, de Il Male (1977-1982),
Tango (1986-1988) e Cuore (1989-1996),
non sembra esserci più spazio per
una rivista di satira. Certo, si potrebbe
obiettare che c’è stata la recente e ormai conclusa esperienza de Il Misfatto
(2010-2013) e che esiste ancora Il Vernacoliere (nato nel 1982), anche se ha un
tratto molto regionale. Tuttavia, ormai,
sembra mancare una realtà editoriale di
respiro nazionale e con un riscontro significativo di pubblico. Quello che forse è stato il più seguito e amato (e ora
ricordato) è Cuore, nato grazie anche
al giornalista e scrittore Michele Serra,
che ne è stato direttore per cinque anni.
Tanti i collaboratori che hanno dato vita
a pagine, disegni e vignette che hanno
fatto sorridere, arrabbiare, spazientire.
Memorabili le sue prime pagine con titoli fulminanti come “Scatta l'ora legale, panico tra i socialisti" oppure "Salvo
Lima come John Lennon, ucciso da un
fan impazzito". Molti degli artisti che vi
collaborarono, come Staino, Vauro, Vincino, Altan, Ellekappa, Disegni, ancora
oggi continuano a ruotare attorno al
mondo della satira italiana. Vi sono state poi nel corso degli anni diversi tentativi di creare riviste che ricalcassero
lo stile e il successo di Cuore, ma sempre con vita molto breve. Spiega Serra:
“Questione di anacronismo, si era fuori
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tempo. Quella stagione è finita. Linus, Il
Male, Tango, Cuore: tutte testate molto
diverse una dall’altra, ma leggendole
avevi il polso della satira in quel momento. Adesso quella stagione è finita,
i giornali di satira non ci sono più perché in edicola non succede granché, è
diventata marginale. Tutto quello che
di nuovo accade, si muove on line”.
Ed è stato in effetti un po’ per colpa
della crisi della carta stampata, che a
Serra, l'ex direttore:
«Criticavamo i consumi, non solo
il potere. Era un giornale che era
anche contro la gente»
partire dagli anni 2000 e con l’avvento
del web ha visto diminuire il proprio
numero di lettori, ma anche un po’ per
via di un cambiamento della società che
c’è stato in questi ultimi 20 anni che la
satira è cambiata. È innegabile che dalla fine degli anni Ottanta la televisione
ha avuto sempre più un ruolo centrale
nel panorama culturale, Italia compresa. Così, se da un lato è diminuito lo
spazio cartaceo per i satirici, dall’altro
si è assistito a un proliferare e un succedersi di artisti che sono diventati delle icone della satira, con un successo e
una diffusione mai sperimentata prima
dai loro colleghi. Si pensi a Corrado e
Sabina Guzzanti, Daniele Luttazzi, per
finire con Maurizio Crozza che è riuscito a diventare una vera e propria star
con la sua satira acuta e irriverente. Ma
ultimamente ci sono anche delle contaminazioni tra questi due diversi tipi
di satira. Lo dimostrano la presenza di
Makkox all’interno della trasmissione
“Gazebo” e di Vauro al fianco di Michele
Santoro a Servizio Pubblico. A entrambi
è affidato il compito di animare i programmi con le loro vignette realizzate
in diretta mentre in sottofondo scorre
un flusso continuo e inarrestabile degli
ospiti di turno.
C’è anche, soprattutto tra i giovani
artisti, chi però ha scelto direttamente
il web per diffondere la propria arte,
forse consapevoli dell’ormai necessario
e inevitabile cambiamento di supporto
per poter raggiungere le persone. Un
percorso intrapreso da The Jackal e Il
terzo segreto di satira, con cui il confine tra videomaker, creativi e satirici si
confonde. Il risultato, però, è eccellente
e così attraverso la fiction prende forma una satira non solo politica ma anche sociale e antropologica. Altri artisti
come Zerocalcare, Gipi e Makkox, poi, pur
avendo un rapporto ancora stretto con la
carta stampata, hanno saputo cogliere il
cambiamento dei tempi e sono molto attivi anche nel mondo digitale, riuscendo a
sfruttare la viralità che solo Internet riesce
ormai a garantire. Per loro tuttavia, non si
può parlare di satirici in senso stretto, essendo il loro un modo diverso di raccontare le idiosincrasie della società di oggi,
più vicino allo storytelling che alla satira
tradizionale.
L’equivalente di “andare in edicola”, cioè
di essere pubblicati, adesso è diventato
molto facile e accessibile a tutti. “Con quale peso, autorevolezza e riconoscibilità è
un altro discorso”, precisa Serra. “Il problema di chi ha pochi anni adesso e si accinge a fare satira, ma anche qualsiasi tipo di
giornalismo, è capire se a un certo punto
nel web si creeranno dei grumi, dei punti
di catalizzazione dell’informazione. Perché
è questo che la gente cerca, a meno di credere al mito che ognuno si crea il proprio
palinsesto. Il navigatore fondamentalista
pensa questo, ma io non ritengo che sia
credibile. C’è una specie di titanismo in
questa visione di sé come demiurgo della
propria cultura e informazione”.
Creare giornali satirici come Tango, Il
« Oggi c’è un gentismo imperante.
E la gente odia la casta perché
non vede l'ora di farne parte»
Male, Cuore non era però cosa facile. “Il
tasso di litigiosità degli autori di satira era
molto alto. Non era facile tenere insieme
sensibilità diverse. I satirici svolgono un
lavoro che collima con quello del giornalismo, è tangente a quell’ambiente ma si
tratta di lavoro artistico e autorale”. Racconta ancora Serra: “Il successo di Cuore
credo sia dipeso dal fatto che hanno letto
gli anni Ottanta e Novanta in modo molto potente e preciso. Uno dei punti fermi
era che non ci fosse nessuna differenza
tra palazzo, cittadini e società: uno era lo
specchio dell’altro. Cuore criticava i consumi, non solo il potere. Era un giornale che
era anche contro la gente. Adesso invece
c’è un gentismo imperante: si pensa molto
che la gente sia santa e buona e le caste
cattive, una cosa che credo sbagliata”. Ed
è stata proprio la satira sociale e non solo
della politica che ha reso Cuore una delle
riviste più apprezzate e ricordate. “Avessi
venticinque anni e mi venisse il ghiribizzo di fare un giornale di satira – confessa
Serra -, forse ripartirei da dove Cuore ha
smesso ovvero dalla considerazione che la
gente è tal quale la casta. La casta è il prodotto della gente. La gente odia la casta
perché non vede l’ora di farne parte: questa è secondo me la chiave di lettura dei
nostri giorni”.
Il web ha certamente aumentato la
quantità di informazioni a disposizione,
satira compresa. Quello che è il problema
ancora irrisolto del digitale è di non essere ancora riuscito a trovare un modo per
rendere redditizio quel campo, non solo a
livello di satira ma dell’informazione in generale. Quello che secondo Michele Serra
costituisce un limite, è che in Rete “ognuno va alla guerra da solo”. “I giornali sono
un’altra cosa, sono una piccola chiave di
lettura del mondo in cui si creano delle
alchimie tra varie persone e da cui nasce
una lettura della società”. Quello che forse
manca in Italia, secondo il giornalista, non
è la satira, ma semmai un punto d’incontro
sul web che raccolga tutte le sue nuove e
diverse declinazioni. Una sorta di crocevia
tra gli autori. Che era poi proprio il ruolo
che svolgevano prima i giornali di satira
che Serra ricorda come “una specie di accrocco spesso miracoloso di persone, artisti, disegnatori che per un tratto di cammino riuscivano a diventare un giornale”.
Michele Serra si definisce “un pensionato
della satira”, tuttavia ritiene che il problema
della comunicazione sul web sia l’eccessiva
dispersione. “Spero nascano all’interno di quel
mondo, e con i parametri di quel mondo delle
capacità di selezione e orientamento. Senza
quello, la quantità non diventa qualità”. “The
Jackal fa una parodia dello spettacolo di massa, che potrebbe essere giudicata come satira
sociale. Apprezzo molto Zerocalcare e Gipi.
Makkox, invece, ricorda tantissimo Andrea
Pazienza: c’è una nevrosi simile. Se tutti questi insieme facessero un giornale, sarebbe interessante vedere cosa ne viene fuori. Perché
un giornale è frutto di grandissima riflessione,
discussione: la prima pagina, la scelta degli argomenti… I giornali sono belli anche per quello. In questo senso sono nostalgico perché
tutto quel fibrillare di io, diventava noi”.
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LA STORIA
E tutto ebbe inizio con
Babbo Natale
Tre secoli di sberleffi, da Thomas Nast (che disegnò Santa Claus) a Charlie Brown di Schultz.
Investendo la politica, il costume ma anche la letteratura per l'infanzia
Antonia Murgo
Quando non so come cominciare, cito Che
animale sei? di Paola Mastrocola. La protagonista è un'anatroccola orfana, adottata da una
pantofola, che se ne va in giro a conoscere pipistrelli, castori, talpe, fenicotteri, e molti altri
animali che sbeffeggiano altrettanti tipi umani. Il rischio che il lettore possa perdersi tra vignette e caricature, che rimanga impantanato
in una storia paludosa che puzza di usato, mi
ha convinta qui a fare da “pantofola”, ad accogliere il piede, cioè il passo incerto di chi legge
queste prime righe e ad accompagnarlo in un
viaggio che suona un po' come una satira della satira. Dove gli autori sono ripartiti non per
secolo, ma per razza, e tra gli esemplari più
noti figurano Charlie Brown, Morticia Addams
e Babbo Natale.
Pipistrelli in politica
Prima sarà meglio togliere un po' di polvere
dalla storia e da tutti gli illustri “pipistrelli”, rimasti
sepolti nella cavernosa satira politica di qualche
secolo fa. A cominciare dal precursore del genere, William Hogarth. Benché la sua denuncia
della corruzione politica nell'Inghilterra del XVIII
secolo presentasse già la moderna divisione in
sequenza, il Leonardo dedicava ancora troppe
pennellate all'illustrazione. L'immagine-burla
come la conosciamo noi deve essere tratteggiata, asciutta e inchiostrata, perché, in linea coi
suoi intenti, non deve risultare troppo esplicita.
Capostipite riconosciuto è James Gillray, prolifico autore inglese che tra i suoi bersagli preferiti
aveva Napoleone e la rivoluzione francese. Poi
nel 1841 nacque la rivista satirica “Punch”, una
collezione di vignette a tema politico e sociale,
curate dalla cosiddetta “fratellanza” guidata da
John Tenniel, un caricaturista infaticabile, il cui
stile grottesco e la linea deformata vengono
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imitati ancora oggi. La fratellanza spadroneggiava in un'epoca, la seconda metà del XIX secolo, in cui tutte le maggiori testate politiche,
soprattutto inglesi e americane, esprimevano
attraverso i cartoon le posizioni dell'opinione
pubblica. Tanto che si parlava di vere e proprie
“vignette editoriali”. In questo contesto uno degli autori più influenti era Thomas Nast: padre
del fumetto americano, autore dall'immaginazione incredibilmente visiva, illustratore col gusto della metafora (suoi l'elefante simbolo del
Partito Repubblicano, l'asino del Partito Democratico e l'immagine dello Zio Sam), innovatore,
sperimentatore e il mio titolo preferito, inventore di Babbo Natale. Tra le 160 vignette editoriali
di suo pugno, infatti, Nast realizzò per Harper's
Weekly un'illustrazione di Santa Claus molto
moderna, rappresentandolo, non più come un
uomo alto e magro, ma come un anziano paffuto e barbuto, avvolto in una pelliccia. Grazie
all'influenza di Nast, nel XIX secolo emersero
due tendenze: l'uso di simboli e metafore visive, e il tentativo di raccontare una storia lineare,
"Piccoli cari! Credono ancora a Babbo Natale"
anche in versione “tascabile”, composta cioè
da una sola tavola, esattamente come faceva
Charles Addams.
Fenicotteri troppo rosa
Va bene guardare il mondo con gli occhiali rosa, ma quando un'intera nazione conduce
un'esistenza monocromatica, da qualche parte
un vignettista dalle occhiaie profonde e l'umorismo nero risponde a tono (tonalità in questo
caso). Charles Addams non ne poteva più del
sogno americano che relegava la famigliola tradizionale in una casa in periferia, come in una
gabbia per uccelli (o per fenicotteri, la cui aria
impettita e il colore pastello si adattano meglio
all'era del consumismo), col papà lavoratore e la
mamma casalinga.
Impugnata la matita come strumento chirurgico, operò agli inizi degli anni 40 una macabra inversione dell'ideale: prese il padre e ne
fece un grassoccio damerino in giacca gessata,
dedito a chissà quali svaghi, e investì la madre di un'autorità spettrale che la rendeva il
vero capofamiglia agli occhi dei figli. In barba
ai comportamenti borghesi del tempo, creò
un modello famigliare alternativo, a cui alla
fine si sentì talmente legato da prestare il suo
cognome. La famiglia Addams debuttò nel
1940 sul settimanale The New Yorker. Ma i suoi
componenti non ebbero nomi propri fino alla
messa in onda della serie televisiva, quando fu
necessario caratterizzare meglio i personaggi.
Ci pensò lo stesso Addams: “Gomez e Pugsley
sono degli entusiasti. Morticia ha la medesima
indole, ma è più pacata, arguta, di una bellezza cadaverica. Nonna è stupidamente buona.
Mercoledì è la figlia di sua madre. La loro casa è
fatiscente, ma ne vanno molto fieri”.
Il decennio successivo arrivò con un nuovo
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LA STORIA
sogno americano: fiducia nel futuro e nell'opportunità. I genitori spronavano i figli a realizzare qualsiasi cosa volessero e i ragazzini
macinavano ore di studio e attività fisica per
compiacerli. Non tutti, certo. Nelle strisce a fumetti i bambini se ne stavano a lungo seduti
sui muretti, ponendosi domande universali
sul presente e la società, ma senza perdere le
piccole manie tipiche della loro età: Mafalda,
sei anni, odiava la minestra, Charlie Brown, di
8 anni e mezzo, adorava gli aquiloni anche se
finivano sull'albero mangia-aquiloni. La bimba
spettinata di Quino si interessava dei problemi del mondo, come la Guerra del Vietnam, la
fame o il razzismo, tempestando gli adulti con
domande dirette e disarmanti. La satira nei Peanuts era invece più sofisticata. Schulz non denunciava esplicitamente i problemi legati alla
razza, al genere e alla disuguaglianza sociale
ma lasciava parlare i suoi disegni, come Piperita Patty, atletica e carismatica pur essendo una
femminuccia.
Gli autori-castori (per bambini)
Solo un caso che il dr. Seuss avesse i denti
davanti leggermente sporgenti. È lui che guida
la schiera degli “autori-castori”, scrittori militanti
che rosicchiano fino all'osso il potenziale della
letteratura per l'infanzia, applicando al racconto fiabesco gli stessi principi della caricatura:
metafore visive e simboli. Forse per la precedente carriera di vignettista satirico, l'americano Theodor Seuss Geisel (in arte dr. Seuss) riempì le sue opere infiocchettate di filastrocche
di messaggi politici.
In Ortone e i piccoli Chi! si avverte chiara la
denuncia della disuguaglianza sociale: “Questo
io penso, che ognuno è importante, sia piccolo o immenso”. Ancora più evidente la critica
contro l'antisemitismo negli Snicci: “Gli Snicci
Stellati sulle pance hanno stelle. Gli Snicci Comuni hanno solo la pelle”. Fino ad arrivare al
caso Marvin K. Moony will you please go now!,
racconto del 1972 dedicato a un bambino che
non vuole saperne di andare a letto. Nel 1974,
in collaborazione con l'umorista Art Buchwald,
Seuss sostituì al nome del protagonista con
quello di Richard M. Nixon. Il testo così modificato fu pubblicato sul Whashington Post dieci
giorni prima delle dimissioni del Presidente per
lo scandalo Watergate. Come ho detto, Geisel
non era estraneo alla critica feroce dell'attualità.
Tra il 1941 e il 1943, disegnò più di 400 vignet-
te per il giornale newyorkese PM, scagliandosi
contro la guerra, Hitler e il Giappone, utilizzando talvolta dei pennuti dal collo lungo, antenati
in bianco e nero degli Snicci paglierini, per dar
voce ai suoi balloon.
Come per i lillipuziani di Swift o il burattino
di Collodi, la satira poteva essere affidata a personaggi talmente caratterizzati da stuzzicare in
una sola volta l'immaginazione e le riflessioni
del lettore.
Non è un caso che L. Frank Baum si rivolse al
vignettista satirico W. W. Denslow per illustrare
la prima edizione del Meraviglioso mago di Oz
(1900). Denslow lavorava per i maggiori quotidiani dell'epoca e seppe dare ai personaggi
descritti nel libro quel tratto ridicolo e umano
voluto da Baum. In particolare i tre accompagnatori di Dorothy si inserivano perfettamente
nella complessa allegoria degli eventi politici, economici e sociali dell'America nel 1890.
Dove allegoria sta per significato nascosto e
profondo, e il significato in questione, o intento se vogliamo, rimanda alla denuncia satirica.
Lo spaventapasseri rappresentava i contadini,
l'uomo di latta gli operai delle fabbriche e il leone codardo il deputato del Partito Democratico
William Jennings Bryan, in marcia verso la città
di Smeraldo, dominata dalla logica del denaro
e governata da un mago imbroglione ed egoista. La piccola Dorothy, di indole semplice e ingenua, era solo una vittima degli eventi come
lo era il popolo americano.
Le talpe di oggi
Ci camminano sotto i piedi e non ce ne accorgiamo, ma loro, le “talpe”, scavano profonde
gallerie nelle opinioni dei lettori. A partire dagli
anni 60, la satira diventa sempre più personale
e pungente. I protagonisti delle strisce di moltiplicano, così pure le loro (dis)avventure. Nel
1968 fa il suo esordio una striscia destinata ad
allargare la schiera di pipistrelli famosi incontrati
in alto, in altre parole a diventare una pietra miliare del genere: Doonesbury di Garry B. Trudeau, che partendo dal quotidiano dell'università
di Yale, crebbe sempre più arrivando a trattare
ogni aspetto della vita americana. Un destino comune a The Boondocks del fumettista
afro-americano Aaron McGruder, pubblicata
inizialmente sul giornale dell'Università del Maryland, nel 1996. La striscia raccontava gli avvenimenti contemporanei attraverso lo sguardo
disincantato di due bambini afro-americani. La
visione cinica e smaliziata dei piccoli Freeman
non ha pressoché niente in comune con quella
di Calvin, bambino di sei anni dall'immaginazione inarrestabile, protagonista insieme alla
sua tigre di pezza, di Calvin & Hobbes, serie ideata e disegnata da Bill Watterson. Calvin, oltre
che per dimensioni e pettinatura, ricorda molto
più il Pogo di Walt Kelly, sensibile, filosofico e razionale com'è. Solo che Pogo non è proprio un
ragazzino, è un opossum antropomorfo che
vive nella palude di Okefenokee in Georgia.
Ritorna la satira con gli animali, con città, come
quella di Frizt the Cat di Robert Crumb, abitate
da erbivori e carnivori che invece di sbranarsi
l’un l’altro, passano le giornate a riflettere sul
mondo e le sue dinamiche. Si fermano soltanto
quando passa una pantofola con un gruppo di
turisti venuti a osservarli.
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E Giannelli non si scusa
«Viva la forza del paradosso»
Una sua vignetta sul Corriere ha suscitato l'indignazione di molti lettori.
«Volevo criticare la paura degli italiani, non i profughi»
Benedetta Michelangeli
Razzista, insensibile, troppo leggera: è stata
definita così la vignetta di Emilio Giannelli apparsa il 18 luglio 2015 sul Corriere della Sera. Una famiglia italiana torna a casa dalle ferie e si ritrova un
gruppo di profughi ad occupare il loro soggiorno.
Fiumi di commenti indignati sui social, analisi
iconografiche, “contro vignette” come quella dei
disegnatori Gipi o Alessio Spataro . Tutto questo
mentre nella periferia nord di Roma, a Casale San
Nicola, i residenti del quartiere scatenavano una
vera e propria guerriglia con la polizia per protestare contro l’arrivo di 19 profughi - profughi veri,
eritrei, bengalesi, somali, e non solo profughi disegnati a matita- in un centro di accoglienza.
Giannelli ha sbagliato? No! Capire al contrario il messaggio di una vignetta è paradossale. La
critica della mia vignetta era a noi italiani e la satira era rivolta alla nostra paura. Il rischio è sempre
quello della mal interpretazione e dello sguardo
superficiale che il lettore può avere. Un rischio
che corre anche chi disegna, è chiaro. L’interpretazione di una vignetta satirica si fa in due: autore
e lettore. Ma se si usa un messaggio paradossale
l’offesa non c’è. È questo il principio della satira
che non deve essere distrutto. Per certa gente se
si disegna un nero lo si deve fare bianco, senza
labbroni e senza capelli ricci. C’è questo integralismo al contrario.
Questa volta è stato stravolto il paradosso
del suo messaggio, lei dice. Ma le sarà capitato di sbagliare una vignetta?
Il pubblico cambia, la sensibilità cambia, e
noi disegnatori non siamo infallibili né profeti.
«Se si usa un messaggio
paradossale, non c'è offesa»
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Diversi anni fa fui duramente cirticato per una
vignetta sulla proposta della Lega in tema di
legalizzazione della prostituzione. Disegnai un
marito che torna a casa dal supermercato e che,
con una prostituta di colore in braccio, dice alla
moglie: “Sono passato a fare la spesa”. L’intento
era rappresentare una proposta per me assurda
e irragionevole. Però dopo la pubblicazione mi è
stato chiesto perché la prostituta fosse nera. Ecco,
in quel caso a compiere la leggerezza sono stato
io. Perché la prostituta doveva essere nera e non
bianca? Delle volte ci sono ragioni che non si soppesano, questa è stata una di quelle volte.
Ma lei chiede scusa?
Io devo pensare al lettore e al giornale dove
pubblico, sapendo sempre che l’argomento della
vignetta, oggi, è concordato con il Corriere. Devo
farlo perché altrimenti si creerebbe uno scollamento tra immagine e messaggio. Sto sempre
attento a non cadere, ma a volte ci sono integralismi davvero stupidi. Spesso utilizzo l’iconografia
dell’Annunciazione. Si scaldano in molti, ma io
non l’accetto. Credo che i capolavori artistici a cui
faccio riferimento possano essere liberamente
interpretati e utilizzati.
Qual è il limite alla satira?
C’è satira quando il messaggio che c’è dietro al
disegno è utile perché c’è una critica. In quel caso
tutto è pubblicabile. Ma la critica nella sua forza
distruttiva, deve essere costruttiva. Nel momento
in cui si limita a mera offesa, di un sentimento religioso per esempio, allora non c’è satira. Insistere
sui difetti fisici di alcune persone è sbagliato. Se
faccio una vignetta su Renato Brunetta solo sulla sua bassa statura è un’offesa gratuita. Se uso
questa caratteristica come mezzo funzionale a raccontare una cosa “piccola”
L'INTERVISTA
che ha detto, allora ha un senso.
Ma lei, dopo 25 anni di vignette al Corriere e 10 a Repubblica, sarà abituato a chi
questa sua satira proprio non la capisce.
Mi diverte quando a volte si dà
un’interpretazione alla vignetta che
mi sorprende. Il fattore sorpresa c’è
sempre, poi alcune critiche alla mia
vignetta di sabato io nemmeno le ho
capite. Quella “contro vignetta” che
recita E Voi? E i Marò? Io non l’ho capita. Oppure dire che il bambino del disegno è senza un braccio: il suo braccio è dietro la valigia! Rimango deluso
se le persone non ragionano.
R
Quindicinale della Scuola
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“Massimo Baldini”
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