Valentini ID=1438
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Valentini ID=1438
Dirigente pubblico e divieto di reformatio in pejus Vincenzo Valentini Docente di Diritto del lavoro nella LUMSA - sede di Palermo Con la decisione in commento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha offerto una condivisibile ricostruzione sistematica, alla luce delle più recenti riforme, del c.d. principio di reformatio in pejus stabilito per i pubblici dipendenti dall’art. 202 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3. in relazione al trattamento economico dei dirigenti. Si legge, infatti, in quella norma che “Nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa Amministrazione agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica”. Il nodo interpretativo, per il quale è stata sottoposta la questione all’Adunanza Plenaria in quanto idonea a determinare contrasti giurisprudenziali, sta tutto nel significato da attribuire all’espressione “stipendio” nella disposizione sopra citata, e nella collocazione sistematica di quest’ultima alla luce delle più recenti riforme in materia di pubblico impiego. La vicenda traeva origine da un ricorso presentato al TAR da un dipendente pubblico, nominato Consigliere della Corte dei Conti e transitato dal Ministero delle Comunicazioni nel quale aveva ricoperto il ruolo di direttore generale degli affari generali e del personale, inquadrato come dirigente di prima fascia. Il ricorrente si lamentava di aver subito nel passaggio una decurtazione del trattamento economico in precedenza goduto, in violazione della sopra citata norma del DPR n. 3 del 1957. Il T.A.R. accoglieva parzialmente il ricorso, dichiarando l’obbligo della Corte dei Conti di computare, nel calcolo della retribuzione spettante al ricorrente, tutte le indennità già percepite nella precedente carriera in maniera continuativa ed in misura fissa, ancorché accessorie, tra cui doveva ritenersi compresa la parte variabile dell’indennità di posizione ed esclusa, invece, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, l’indennità di risultato. Contro la sentenza proponevano appello principale la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Corte dei Conti e appello incidentale il lavoratore per il capo di sentenza relativo all’indennità di risultato. 1 L’Adunanza Plenaria, attraverso una puntuale ricostruzione del sistema retributivo dei dirigenti pubblici e un’accurata disamina delle disposizioni normative nel tempo succedutesi sul tema del c.d. divieto di reformatio in pejus, ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, e dunque per la non spettanza al dirigente transitato ad altra amministrazione neppure della parte variabile della retribuzione di posizione. Quanto al primo profilo, e cioè il sistema retributivo dei dirigenti pubblici1, le fonti di riferimento sono artt. 37 e 38 del CCNL per il quadriennio 1998-2001 ed il primo biennio economico 1998-1999 del personale dirigente Area I (del 5.4.2001 e pubblicato su G.U. 28.4.2001, n. 97). L’art. 37, al comma 2, dispone che la struttura della retribuzione della qualifica unica dirigenziale si compone delle seguenti voci: 1) stipendio tabellare; 2) indennità integrativa speciale per i dirigenti di seconda fascia; 3) retribuzione individuale di anzianità, maturato economico annuo, assegno ad personam o elemento fisso, ove acquisiti e spettanti in applicazione dei previgenti contratti collettivi nazionali di categoria; 4) retribuzione di posizione parte fissa; 5) retribuzione di posizione - parte variabile; 6) retribuzione di risultato”. E l’art. 38, precisa, con riferimento ai dirigenti di prima fascia, che il “trattamento economico fisso annuo” è composto da: 1) stipendio tabellare; 2) retribuzione individuale di anzianità; 3) parte fissa della retribuzione di posizione. Da ciò deriva che, per espressa volontà dell’autonomia collettiva, fonte legittimata in via esclusiva a disporre regole in materia di trattamento economico (cfr. da ultimo C. Cost. n. 308 del 20.7.2006), dalle componenti fisse e continuative della retribuzione, cioè di costante erogazione e disancorate da eventi soggetti a variabilità, sono escluse sia la retribuzione di risultato che la parte variabile della retribuzione di posizione. Quanto al secondo profilo, quello cioè relativo alle norme succedutesi nel tempo in tema di divieto di reformatio in pejus, appare decisiva la recente disposizione normativa2 con cui il legislatore, interpretando il comma 57 dell’art. 3 della legge n. 537 del 19933, ha 1 Su cui si veda, G. Zilio Grandi, Il trattamento economico dei dirigenti, in F. Carinci, L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2005, p. 1143 e ss. 2 Art. 1, comma 226, della L. 23 dicembre 2005 n. 266 (c.d. legge finanziaria 2006) che: “L’articolo 3, comma 57, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nei confronti del personale dipendente si interpreta nel senso che alla determinazione dell’assegno personale non riassorbibile e non rivalutabile concorre il trattamento, fisso e continuativo, con esclusione della retribuzione di risultato e di altre voci retributive comunque collegate al raggiungimento di specifici risultati o obiettivi”. 3 “Nei casi di passaggio di carriera di cui all’articolo 202 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957 n. 3 ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione”. Lo stesso articolo, peraltro, precisa nel comma 58 che “Detto assegno non è cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente”. 2 ribadito l’essenzialità del carattere fisso e continuativo che gli emolumenti a confronto devono rivestire in caso di passaggio ad altra amministrazione. Alla luce di quanto fin qui esposto, risulta incontestabile l’esclusione, del resto già operata dal Giudice di primo grado, della c.d. retribuzione di risultato dalle somme soggette al divieto di reformatio in pejus, dal momento che la stessa è correlata all’effettivo grado di raggiungimento da parte del dirigente, anche sotto il profilo qualitativo, degli obiettivi contrattualmente definiti e inscindibilmente connessi alle funzioni di fatto ricoperte in una determinata amministrazione. La sentenza in commento, dunque, dedica la parte motiva soprattutto alla parte variabile della retribuzione di posizione. Come noto, e pacifico nella giurisprudenza amministrativa, la retribuzione di posizione è espressamente correlata alle funzioni attribuite al singolo dirigente e va collegata all’effettivo livello di responsabilità connesso all’incarico di funzione, alla diversità dell’impegno richiesto e degli obiettivi assegnati, al grado di rilevanza ed alla collocazione istituzionale dell’ufficio o della funzione assegnati nell’ambito dell’Amministrazione. Nel suo ambito può distinguersi una parte fissa, stabilita in misura uguale per tutti gli appartenenti alla stessa fascia di dirigenza e una parte variabile. La prima, la parte fissa, è indipendente da condizioni esterne ed eventuali e spetta al dipendente per il solo fatto di appartenere ad una determinata fascia dirigenziale; ed infatti la stessa è inclusa dall’art. 38 CCNL Dirigenti Area 1 nel trattamento economico annuo fisso spettante ai dirigenti di prima fascia. La seconda, la parte variabile, è determinata in ragione della quota utilizzabile del fondo per il trattamento economico accessorio, già previsto dall’art. 24 D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, ed in relazione al singolo incarico di direzione; essa cioè non è precisamente quantificata, a differenza della parte fissa, dal CCNL, essendo la determinazione del quantum rimessa alla contrattazione individuale in riferimento ai compiti e alle funzioni di volta in volta conferiti. Ne consegue che la stessa è priva dei requisiti richiesti ai fini dell’operatività del divieto di reformatio in pejus: è connotata da variabilità nell’ammontare, e dunque non può considerarsi “fissa”, come pure, essendo rapportata all’incarico, neppure può ritenersi “continuativa” dal momento che non è idonea a determinare una modificazione stabile del trattamento economico ma la corresponsione della stessa può cessare ogni qual volta in cui, pur restando in essere il rapporto di lavoro, venga meno l’incarico ricoperto sia in ragione di una valutazione negativa dei risultati conseguiti dal dirigente nell’espletamento dell’incarico stesso, sia in ragione dell’avvicendarsi dei Governi (il c.d. spoil system). 3 La decisione dell’Adunanza Plenaria, pertanto, risolve una complessa questione, foriera potenzialmente di un rilevante contenzioso, attraverso un’accurata indagine sistematica delle disposizioni di legge vigenti e alla luce del fondamentale canone del buon andamento della P.A.: è evidente, infatti, come la decisione commentata risenta anche dell’attenzione agli ormai irrinunciabili criteri di economicità che, applicati costantemente dal legislatore, trovano nella giurisprudenza amministrativa un adeguato riscontro: nel caso di specie, infatti, la norma centrale nell’interpretazione offerta dal Supremo Collegio è proprio quella contenuta nella L. 23 dicembre 2005 n. 266 (art. 1, comma 226), che, come opportunamente sottolineato dall’Adunanza Plenaria, è norma interpretativa contenuta in una legge finanziaria. 4