Dire violenza, fare violenza
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Dire violenza, fare violenza Espressione, minaccia, occultamento e pratica della violenza durante la Marcia su Roma. di Giulia Albanese (pubblicato in «Memoria e Ricerca», n. 13, maggio-agosto 2003, pp. 51-68) Il 16 novembre 1922, Benito Mussolini parlò per la prima volta alla Camera dei Deputati in qualità di capo del governo: erano passati diciotto giorni dalla “Marcia su Roma”. Egli presentava in questo modo gli avvenimenti che lo avevano portato al potere: Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non vi abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di istigare il Fascismo. E ancora: Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto1. Il discorso pronunciato in questa occasione avrebbe dovuto essere una presentazione alla Camera del nuovo governo e del suo programma. La scelta di porre un’enfasi particolare sulla Marcia su Roma, e la definizione di questo avvenimento come rivoluzionario implicavano un tentativo di legittimazione del potere politico personale di Mussolini e conferivano al neodesignato capo del governo grandi libertà nei confronti della legalità e del parlamento2. 1 Scritti e discorsi di Benito Mussolini. III. L’inizio della nuova politica (28 ottobre 1922 – 31 dicembre 1923), Hoepli, Milano 1934, p. 8. 2 Prima ancora dei passi sopra citati, Mussolini infatti aveva affermato: «il popolo italiano – nella sua parte migliore – ha scavalcato un Ministero e si è dato un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento” e ancora “io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle “camicie nere”». Sull’interpretazione, tra continuità e rottura, della scelta istituzionale di nominare di Mussolini capo del governo si vedano C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848-1948, Roma-Bari, Laterza, 1978 (1974), volume II, pp. 341-342; S. Merlini, Il governo costituzionale in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli, 1995, pp. 41-42. 1 Non a caso, quindi, nel definire i suoi rapporti con il Parlamento, e specialmente con la Camera dei Deputati presso la quale parlava, Mussolini aveva introdotto il rapporto tra la Marcia su Roma – mai nominata in questi termini, e definita “rivoluzione” -, il mancato uso (e la minaccia) della violenza, e il proprio potere nei confronti della Camera. In questo modo Mussolini rendeva noto alla Camera che i limiti del suo potere erano imposti solo da se stesso, che la durata e l’esistenza stessa del Parlamento erano condizionate esclusivamente dalla sua volontà e che i rapporti con le altre forze di governo erano soggette unicamente alla sua discrezionalità. Egli inoltre riaffermava l’importanza del suo esercito privato nella soluzione di questa crisi istituzionale e sottolineava che le camicie nere erano esclusivamente sotto il suo controllo. Un equilibrio accorto tra atti di violenza, minaccia della violenza e negazione verbale della stessa era stato, negli anni e nei mesi precedenti, un elemento essenziale della tecnica fascista per la conquista del potere. In questa occasione, Mussolini si serviva una volta di più di questo gioco, utilizzando la minaccia della violenza per rafforzare il proprio potere, legittimandone nuovamente l’uso, e, allo stesso tempo, scegliendo di non sottolineare gli atti di violenza e di eversione che effettivamente erano stati compiuti dai fascisti durante la Marcia su Roma, ma di enfatizzare piuttosto la minaccia della violenza3. L’uso della violenza nei giorni della Marcia su Roma è stato raramente analizzato in sede storiografica, malgrado sia innegabile che, se non l’azione violenta, almeno la minaccia della stessa giocò un ruolo fondamentale nella vittoria politica di Mussolini e dei fascisti anche nei giorni della Marcia su Roma. Lo scopo di questo articolo è di cominciare a riempire questa lacuna, mettendo in evidenza in che modo abbiano interagito la minaccia di un colpo di stato, l’intimidazione e l’utilizzo della violenza4. 3 Le ricostruzione degli avvenimenti di violenza nei giorni della Marcia su Roma è stata trascurata dalla storiografia, con poche eccezioni, in particolare A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Firenze, La Nuova Italia, 1995 (1938); A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari, Laterza, 1982; G. Santomassimo, La marcia su Roma, Firenze, Giunti, 2000. Una delle fonti principali per questi fatti, anche se ovviamente problematica dal punto di vista dell’interpretazione e spesso ricca di imprecisioni o errori è G. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. V, Firenze, Vallecchi, 1929. 4 Vista la limitatezza dello spazio a mia disposizione ho preferito mettere in evidenza questi elementi enfatizzando l’attenzione sulle fonti primarie, piuttosto che addentrarmi in una discussione sulla letteratura esistente, che si è occupata solo marginalmente di questi temi e sulla quale avrei dovuto fare 2 1. La violenza verbale La violenza verbale era stata un elemento essenziale della retorica fascista fin dall’inizio del movimento. Essa consisteva non solo nell’insulto ma anche nella minaccia contro gli avversari politici, oltre che nella legittimazione, attraverso discorsi pubblici, ordini del giorno e articoli di giornale, di un’azione violenta come elemento essenziale della pratica politica5. Nei giorni che precedettero il 28 ottobre 1922 i leader fascisti utilizzarono frequentemente la minaccia di una Marcia su Roma come elemento di ricatto nei confronti del governo6. Questa sfida venne sostenuta da una campagna di stampa più intensa dopo la sciopero legalitario del 1 agosto 1922. A partire da questo momento ne «Il Popolo d’Italia» si diffusero infatti, più frequenti che mai, articoli che ipotizzavano, come soluzione alla crisi politica italiana, guerre civili o colpi di stato, e che invocavano la dittatura7. Il perno centrale delle argomentazioni era la necessità di un’azione fascista che ristabilisse una legge che lo stato non era più in grado di garantire, e un’autorità che esso aveva ormai completamente perso. Scriveva Gaetano Polverelli in un articolo intitolato La legge o la scure, del 2 agosto 1922: un’analisi che mi avrebbe portato molto lontana e che spero di poter fare in altra sede. 5 Sulla violenza alle origini del fascismo cfr. A. Lyttelton, Fascismo e violenza: conflitto sociale e azione politica in Italia nel primo dopoguerra; J. Petersen, Il problema della violenza nel fascismo italiano e P. Nello, La violenza fascista ovvero dello squadrismo nazionalrivoluzionario, tutti e tre in «Storia contemporanea», a. XIII, n. 6, dicembre 1982, rispettivamente pp. 965-983; 985-1008 e 1009-1025. 6 Cfr. L’intimazione ufficiale dello “Stato fascista” allo Stato italiano: o le elezioni a dicembre o… , «L’Avanti!», 8-9 ottobre 1922; Il governo Giolitti e l’intimazione fascista. Le elezioni si farebbero in primavera. Un ‘modus vivendi’ fra lo stato ufficiale e lo stato fascista?, «L’Avanti!», 10 ottobre 1922. 7 A partire dal 1 agosto i principali articoli che si occuparono di dittatura, colpo di stato, guerra civile o marcia su Roma sul «Popolo d’Italia» furono: G. Polverelli, La legge o la scure, «Popolo d’Italia», 2 agosto 1922; G. Polverelli, La marcia su Roma, «Il Popolo d’Italia», 16 agosto 1922; A. Lanzillo, La violenza del fascismo, «Popolo d’Italia», 22 agosto 1922; Volt, Variazioni sul tema della dittatura, «Il Popolo d’Italia», 26 agosto 1922; Volt, Fascismo e stato, «Popolo d’Italia», 1 settembre 1922; Mussolini, Disciplina assoluta!, «Popolo d’Italia», 7 settembre 1922; A. Mazzotti, La questione dell’autorità e la marcia su Roma, «Popolo d’Italia», 29 settembre 1922; Il partito nazionale fascista smentisce la voce di un imminente colpo di stato, «Popolo d’Italia», 5 ottobre 1922; A. Lanzillo, L’uomo e la gerarchia, «Popolo d’Italia», 18 ottobre 1922. A conferma di questa ipotesi anche P. Silva, Io difendo la monarchia, Roma, De Fonseca, 1946 che sostiene che si cominciò a parlare di Marcia su Roma intorno al 13 agosto, con una dichiarazione di Bianchi che affermava: «O il fascismo potrà permeare legalmente della sua linfa vitale lo Stato o esso prenderà il potere con la forza», p. 54. 3 Se lo stato si mostra debole e vile, i fascisti saranno costretti all’azione poiché è tempo che la legge sia ristabilita e che i sabotatori della nazione siano puniti. Altrimenti la dittatura si renderà necessaria, ma in tale caso i caporioni rossi non troveranno scampo né a Montecitorio né altrove. Le verghe e la scure, che sono simboli dei fasci, torneranno praticamente in azione come ai tempi sani e grandi di Roma8. Proseguiva sulla stessa linea Volt, in un articolo pubblicato il 26 agosto 1922, che faceva i conti non solo con la necessità di ripristinare l’autorità dello stato – tema che sarebbe stato svolto più compiutamente da Amedeo Mazzotti qualche tempo dopo – ma anche con l’idea della necessità di una dittatura. Volt affermava infatti: L’idea di una dittatura, contenuta in germe nella dottrina antidemocratica del Nazionalismo, parzialmente attuata nei provvedimenti eccezionali della guerra, è oggi divenuta popolare in Italia, come reazione allo stato di anarchia postbellica, che i vari governi liberali si dimostrano assolutamente impotenti a dominare. Non si tratta, oggi, di evocazioni più o meno letterarie. La gioventù italiana mostra di fare sul serio. Il regime dittatoriale è stato imposto già dalla necessità ai grandi centri dominati dai socialisti e chi ci dice che domani esso non si imponga allo stato?9 Tuttavia le modalità di soluzione di questa crisi di autorità e di legittimazione dello stato rimanevano ancora ambigui, e frequentemente si affermava che essa non poteva che passare attraverso la distruzione dello stato liberale10. La maggior parte degli articoli pubblicati sul «Popolo d’Italia» indicava nella violenza lo strumento più adeguato per risolvere la crisi11: in fondo, dichiarava Gaetano Polverelli in un articolo del 16 agosto, «nelle sue mirabili e geniali considerazioni sulla grandezza dei romani e sulla loro decadenza, Montesquieu rileva che la guerra civile, 8 G. Polverelli, La legge o la scure, «Il Popolo d’Italia», 2 ottobre 1922. Volt, Variazioni sul tema della dittatura, «Popolo d’Italia» 26 agosto 1922. Anche Polverelli aveva scritto, in questo stesso senso: «Al Viminale occorre oggi una personalità dal pugno di ferro, un uomo che abbia come il Colleoni tre segnacoli di virilità al posto che due. L’Italia ha sete di dittatura e la mitragliatrice avrebbe oggi un suono particolarmente gradito in un paese che per mancanza di disciplina è già per metà balcanizzato.» in Polverelli, La legge o la scure, cit. 10 «Termine ultimo del fascismo sembra essere la distruzione dello Stato liberale. Un sistema di governo come l’attuale fondato unicamente sul compromesso, sul mezzo termine, sull’espediente è condannato già dalla storia. O per opera di un nemico esterno o per interno sommovimento la democrazia deve perire. Carità patria impone di attuare la seconda ipotesi» in Volt, Fascismo e stato, «Popolo d’Italia», 1 settembre 1922. 11 Cfr. ad esempio A. Lanzillo, La violenza del fascismo, «Popolo d’Italia» 16 agosto 1922 e Id., L’uomo e la gerarchia, «Popolo d’Italia», 18 ottobre 1922. 9 4 invece di infiacchire il popolo, come volgarmente si potrebbe credere, lo indurisce e lo prepara alla maggiore grandezza»12. Non era tuttavia questa l’unica ipotesi che si prospettava al fascismo. In un editoriale del 1 settembre dedicato a Fascismo e stato, Volt, che pure era convinto che l’unica salvezza per l’Italia risiedesse nella distruzione dello stato liberale, affermava: Non sarà forse necessario modificare la costituzione del regno. Somma sapienza di ogni classe di governo fu sempre quella di rispettare le forme politiche consacrate dalla tradizione; alle quali, sia pure contro ogni logica, fanno capo abitudini e sentimenti che nessun altro reggitore di popoli offendere conviene. D’altra parte le costituzioni scritte sono così elastiche che il loro effetto sarà buono o cattivo a seconda di colui che sovranamente le pone in atto. Non sempre la botte vecchia è incapace di contenere il vino nuovo. Non è quindi esclusa l’ipotesi che il fascismo, divenuto partito di governo, rispetti l’antico cerimoniale elezionista conservando il suffragio allargato e magari il collegio plurinominale; così come a Roma, l’impero conservò consoli, comizi e tribuni13. Oltre al dibattito sulle finalità del fascismo e sulle possibilità di un colpo di stato, in questi stessi mesi frequenti furono gli articoli che si soffermarono ad analizzare specificamente la formula della Marcia su Roma e sulla funzione di questa azione politica. In uno dei primi articoli pubblicati sull’argomento, Polverelli evidenziava, attraverso un discorso volutamente ambiguo, le due possibilità contenute in questa formula politica. Da una parte infatti egli dichiarava, come più tardi avrebbe fatto anche Michele Bianchi, che La marcia su Roma che turba i sogni del socialismo si deve intendere non tanto come marcia militare che conduca ad una nuova breccia di Porta Pia, quanto una marcia spirituale della nuova generazione verso il Governo per liberare Roma da una classe politica pusillanime e dalle cricche parassitarie socialiste che vivono sullo stato liberale come i vermi su un cadavere14. Dall’altra però sosteneva che, nel caso il Parlamento non avesse approvato di andare a nuove elezioni, un atto di forza da parte dei fascisti sarebbe stato legittimo. Il 5 ottobre, malgrado i numerosi articoli di minaccia ai poteri dello stato o di invito all’eversione contro di esso, il Partito Nazionale Fascista smentiva ufficialmente le voci circolanti sul fatto che i 12 G. Polverelli, La marcia su Roma, «Il Popolo d’Italia», 16 agosto 1922. Volt, Fascismo e stato, «Il Popolo d’Italia», 1 settembre 1922. 14 G. Polverelli, La marcia su Roma, «Il Popolo d’Italia», 16 agosto 1922. 13 5 fascisti stessero preparando un colpo di stato15. Il giorno successivo, Michele Bianchi, intervistato dal «Corriere della Sera» affermava: Marcia militare su Roma? Colpo di Stato? Organizzazione preparatoria? Chi ha mai sognato fantasie di questo genere? È vero, verissimo, che noi abbiamo parlato e parliamo di Marcia su Roma, ma si tratta di una marcia – lo dovrebbero capire anche i più profani – del tutto spirituale, vorrei dire legalitaria…16 Il congresso del Partito nazionale fascista svoltosi a Napoli il 24 ottobre 1922 costituì il momento iniziale della mobilitazione che avrebbe portato alla Marcia su Roma, tanto nel discorso pubblico fascista (precedente e successivo agli avvenimenti) che per le autorità pubbliche che osservavano con una certa apprensione gli avvenimenti. In una delle numerose relazioni inviate dal prefetto di Napoli al Ministero dell’Interno in quei giorni, si riferiva come, al comizio di Mussolini in piazza del Plebiscito, la folla avesse più volte invocato: «A Roma, a Roma»17. Il discorso tenuto da Mussolini in questa sede era stato infatti assolutamente esplicito, come possono dimostrare anche queste poche parole: …io vi dico fin da questo momento che o ci daranno il Governo o lo piglieremo con la forza. È necessario, per l’azione che dovremo svolgere, e che dovrà essere simultanea in tutta Italia, per prendere alla gola le classi politiche che detengono i poteri, che voi rientriate senz’altro alle vostre sedi. Vi prometto, anzi vi giuro, che l’ordine se sarà necessario, verrà dato senz’altro18. La circolazione di voci sulla Marcia su Roma, avviata da coloro che stavano preparandola, contraddice uno degli elementi fondamentali per la preparazione di un colpo di stato, ossia la segretezza. La scarsa attenzione dei fascisti a questo aspetto è confermata da varie fonti. Non casualmente Italo Balbo scriveva nel suo diario il 26 ottobre 1922: «Penso che ormai è inutile preoccuparsi di mantenere il segreto 15 Cfr. Il partito fascista smentisce le voci di un colpo di stato, «Corriere della Sera», 5 ottobre 1922 (la medesima dichiarazione apparve anche su «Il Popolo d’Italia» nella stessa data). 16 Che cosa significa la ‘marcia su Roma’ secondo il segretario del fascio, «Corriere della Sera», 6 ottobre 1922. 17 Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Ministero dell’Interno (d’ora in poi MI), Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora in poi Ps), 1922, b. 138, fasc. Napoli, fonogramma in arrivo dalla prefettura di Napoli, 24 ottobre 1922, h. 18.50. Su questo episodio si veda anche A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, cit., p. 440. 18 ACS, MI, Ps, 1922, b. 138, fasc. Napoli, fonogramma in arrivo dalla prefettura di Napoli, 24 ottobre 1922, h. 20.15. 6 sui nostri viaggi. Tanto domani tutta l’Italia ne sarà informata»19. La scelta di una strategia priva di segretezza va messa in relazione con le particolari circostanze politiche in cui questo avvenimento si realizzò. Innanzitutto bisogna considerare che le forze a disposizione dei fascisti non erano tali da poter consentire, né far sperare, nell’esito vittorioso di uno scontro qualora lo stato avesse fatto ricorso a tutte le sue forze per contrastare l’avvenimento20. Per questo il discorso a metà segreto e a metà pubblico relativo alla Marcia su Roma, accompagnato dalle dichiarazioni di fedeltà al sovrano e dalle dichiarazioni di amicizia nei confronti dell’esercito, serviva a preparare il terreno ad una sollevazione in cui né il sostegno del sovrano né quello dell’esercito erano garantiti, pur essendo assolutamente necessari. Anche il frequente ricorso alla violenza nella retorica fascista, come pure il continuo tono di sfida nei confronti dello stato (numerosi erano stati in quegli anni i riferimenti nella stampa a possibili complotti e colpi di stato), rendevano meno problematica l’assenza di segretezza nella programmazione della Marcia su Roma perché nessuno credeva fino in fondo a quanto dicevano i fascisti, anche se alle loro parole frequentemente corrispondevano i fatti. La continua minaccia di un colpo di stato nei mesi precedenti alla Marcia su Roma non fu tuttavia l’unica forma di violenza verbale su cui è opportuno soffermarsi. Con l’inizio della Marcia su Roma, le trattative dei fascisti con i prefetti e le forze dell’ordine furono tutte intese a dimostrare che la mobilitazione fascista si stava svolgendo con grande forza, contemporaneamente, e in tutta Italia, al fine di ottenere una maggiore benevolenza e tolleranza verso il movimento fascista, e prevenire così l’uso della violenza contro i fascisti che si stavano mobilitando da parte delle forze dell’ordine. Ad Ancona, la mattina del 28 ottobre, i fascisti cercarono di convincere il prefetto che il Re aveva dato l’incarico a Mussolini cosa che invece sarebbe successa solo ventiquattro ore dopo chiedendo, sulla base di questa informazione, di evitare «asprezze e rigorose abituali disposizioni» e di permettere la liberazione di un fascista accusato di omicidio dalla locale casa di pena, oltre che l’esposizione delle bandiere nazionali al municipio, in prefettura, al comando militare21. 19 I. Balbo, Diario 1922, Milano, Mondadori, 1932, p. 201. Cfr. in particolare A. Lyttelton, La conquista del potere, cit. 21 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Ancona, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 28 ottobre 1922, h. 17. 20 7 Anche a Bologna le azioni, cominciate dopo la revoca della dichiarazione di stato d’assedio, si aprirono con una trattativa verbale in cui Guido Baroncini, segretario della federazione provinciale dei fasci della provincia di Bologna, chiedeva al generale Sani, comandante del corpo d’armata di stanza in città, che sgombrasse le truppe dalla prefettura e dagli altri edifici pubblici, la richiesta veniva sostenuta sulla base della «gravità della situazione generale in Italia e in particolare a Bologna»22. Sani diceva di aver risposto a Baroncini dichiarando «che avevo doveri e compiti a cui non potevo venir meno, e che essi erano collegati all’onore dell’Esercito e delle forze armate dello Stato». Questo non comportava, secondo Sani, alcuna restrizione di movimento per i fascisti, ma egli esigeva che «non fosse fatto alcun tentativo di occupazione dei quattro edifici pubblici presidiati dalle forze armate dello stato, delle caserme e locali militari presidiati dalle truppe»23. A queste richieste tuttavia Baroncini aveva risposto che «non poteva garantire nulla perché già in altre città d’Italia dette occupazioni erano avvenute; che aveva degli ordini dai suoi capi e che egli ed i suoi avevano giurato di eseguirli»24. A Padova, l’utilizzo di una pressione verbale sulle forze dell’ordine e dello stato cominciò il 29 ottobre. Il direttorio del fascio locale si era infatti recato nell’ufficio del prefetto, chiedendogli di allontanarsi dalla città per evitare che ci fossero violenze. Il prefetto, non sapendo cosa rispondere, aveva consultato il comandante del corpo d’armata, e insieme avevano deciso che era meglio evitare un conflitto armato, che avrebbe potuto avere effetti «gravissimi». Il generale aveva consigliato al prefetto di «fingere […] urgente chiamata a Roma da parte Ministero», e il prefetto aveva seguito questo consiglio25. Questo tipo di trattative fu, nella maggior parte dei casi, un elemento di grande importanza nel ridurre le possibilità di uno scontro violento tra i fascisti e le forze dell’ordine. Esso era un ulteriore segno di una grande acquiescenza delle forze dell’ordine nei confronti del fascismo26. La richiesta di conferire con il prefetto prima dell’inizio delle occupazioni fu infatti una modalità tipica dell’azione fascista nei luoghi in cui la mobilitazione non era ancora cominciata al momento della revoca dello stato d’assedio: in queste località i fascisti potevano 22 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bologna, Comando del corpo d’armata di Bologna, Cenno ad alcuni episodi di carattere personale. 23 Ibid. 24 Ibid. 25 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Padova, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 29 ottobre 1922, s.h. e F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia 1919-1922, Venezia-Padova, Marsilio, 1977. 26 Sui rapporti tra fascismo ed esercito cfr. in particolare G. Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini (1919-1925), Bari, Laterza, 1967, in particolare pp. 397-408. 8 così utilizzare il capitale di forza prodotto dalle azioni compiute in altre città (e riferite dalla stampa) per raggiungere gli obiettivi a loro assegnati dal comando fascista, senza che questo rendesse necessario uno scontro con le forze dell’ordine. Nel contempo, le forze dell’ordine erano ben felici di potere evitare di prendere posizione contro i fascisti, dal momento che la revoca dello stato d’assedio aveva reso evidente la mancanza di una volontà politica di opporsi al movimento fascista. 2. La violenza fisica La Marcia su Roma iniziò la notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922. A partire da questo momento l’azione si impose, provocando i primi, seppur rari, conflitti violenti, oltre che l’inizio di una fase di violenza fisica da parte dei fascisti contro persone e cose. L’azione iniziale, nella maggior parte dei casi, mirò all’occupazione delle prefetture, degli uffici postal-telegrafonici e delle stazioni. Lo scopo di questi attacchi era bloccare le comunicazioni tra centro e periferia e condizionare il governo a partire dalla periferia, ma anche rendere evidente, una volta di più, l’assoluta incapacità di reazione dello stato liberale alla pressione fascista. Non è un caso infatti che i fascisti cominciassero l’attacco proprio da alcune province dove il fascismo aveva già dimostrato di avere una forza considerevole, come ad esempio in Toscana. In queste aree, oltre alla forza del movimento, i fascisti potevano contare sulla conoscenza e la complicità dei legittimi rappresentanti dello Stato, fossero essi prefetti o comandanti dell’esercito. Si possono distinguere tre fasi nell’azione fascista. La prima dal 27 ottobre, quando le azioni cominciarono, alla revoca dello stato d’assedio, entrata in vigore a mezzogiorno del 28 ottobre. La seconda dalla revoca dello stato d’assedio fino alla nomina di Mussolini, il 29 ottobre. La terza dalla nomina di Mussolini fino al 7 novembre quando la mobilitazione fascista si concluse definitivamente e i poteri furono restituiti all’autorità civile in tutte le città d’Italia27. Questa divisione in tre fasi permette di esaminare l’evoluzione dell’azione fascista nei giorni della Marcia su Roma, di mettere in luce la trasformazione più generale dei repertori dell’azione violenta fascista e di evidenziare quali furono le ragioni di questa evoluzione28. 27 La restituzione dei poteri dall’autorità militare all’autorità civile avvenne in momenti differenti a seconda dei luoghi. 28 Sulla categoria di repertorio nell’analisi della violenza politica cfr. L. A. Tilly e C. Tilly (a cura di), Class conflict and collective action, London and Beverly Hills, Sage, 1981, in particolare pp. 19-23. 9 La prima fase dell’azione fascista fu quella con il più ampio potenziale di incertezza. Né la classe dirigente, né soprattutto le squadre potevano sapere quale sarebbe stata la reazione dello stato e del governo alla sfida che avevano deciso di aprire, mentre invece ordini chiari erano a disposizione delle forze dell’ordine che chiedevano di respingere la sfida con tutti i mezzi possibili, fino all’uso delle armi29. Tuttavia, i fascisti sapevano, per l’esperienza degli ultimi due anni, ma soprattutto degli ultimi mesi, che difficilmente le forze dell’ordine locali avrebbero usato le armi contro di loro e probabilmente anche la campagna di Mussolini in favore dell’esercito aveva contribuito a rassicurare gli animi dei fascisti su questo punto30. Le prime occupazioni cominciarono il 27 ottobre (a Cremona, Pisa, Foggia e Siena) e giocarono effettivamente sulla sorpresa. In queste località i fascisti tentarono di occupare con la forza le prefetture e gli uffici postaltelegrafici in anticipo sui tempi previsti dal piano di mobilitazione. Pisa fu la prima città occupata: la mattina del 27 ottobre, intorno alle 11.30, i fascisti interruppero le linee telegrafiche e telefoniche verso Firenze e Genova, mentre le auto private venivano requisite per essere utilizzate dai fascisti31. Vi fu in quei giorni un doppio movimento di forze: da una parte l’arrivo continuo di camion pieni di fascisti dalla campagna, dove l’occupazione, in particolare degli uffici postali, era cominciata ancora prima che in centro città, e dall’altro il deflusso di un numero consistente di questi stessi fascisti in direzione di Roma, al punto che il prefetto della città poteva scrivere al Ministero dell’Interno dicendo che la mattina del 28 ottobre in città erano rimasti pochissimi fascisti32. L’interruzione delle comunicazioni con Firenze e Genova era in realtà destinata a durare solo poche ore poiché l’autorità militare, una volta ottenuti i poteri dall’autorità civile, era riuscita a 29 ACS, MI, Ps, 1922, b. 105, telegramma del Ministero dell’Interno ai prefetti del regno, 26 ottobre 1922, h. 19.10. Il telegramma diceva: «Da varie fonti giunge notizia di tentativi insurrezionali che sarebbero stati predisposti dal Partito fascista e che verrebbero in data immediatamente prossima attuati con presa possesso uffici governativi in alcuni centri. Quando tentativi siano per manifestarsi si dovrà, esperito ogni mezzo, resistere con le armi». 30 L’unico, eclatante caso, di risposta armata da parte della forza dell’ordine contro i fascisti era stato lo scontro avvenuto a Sarzana. Per un analisi dettagliata degli scontri fascisti con la forze dell’ordine e per le violenze fasciste alle origini del fascismo rimando, ad ogni modo, ai due classici sulle origini del fascismo: Tasca, Nascita e avvento del fascismo, cit., e E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari, Laterza, 1989. 31 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Pisa, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 27 ottobre 1922, h. 12.10, h. 14.10 e h. 17.27. 32 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Pisa, telegramma del prefetto di Pisa al Ministero dell’Interno, 28 ottobre 1922, h. 11. 10 ristabilire rapidamente il collegamento telefonico. Le forze dell’ordine, però, non reagirono all’attacco fascista, e lasciarono libero il campo alle loro occupazioni. A Cremona l’occupazione cominciò verso le 7 di sera del 27 ottobre: un gruppo di fascisti riuscì a entrare nella questura, fece spegnere la luce elettrica provocando confusione negli uffici. Lo stesso gruppo riuscì poi a penetrare nell’ufficio del prefetto - senza incontrare alcun tipo di resistenza da parte delle forze armate che dovevano proteggerlo - e tentò di trattarne la resa. Questi riuscì però a riprendere in mano la situazione, cedendo il potere al comandante di presidio di zona, e a far rinchiudere in una stanza della prefettura i quaranta fascisti che avevano tentato l’assalto33. Alcune ore dopo, verso le 22.30, un altro gruppo tentava nuovamente l’occupazione della prefettura, usando scale e corde per penetrare nel palazzo e, sulla strada, lanciando automobili in corsa contro le forze pubbliche per superare le barriere poste a protezione degli uffici di prefettura. In serata gli scontri tra le due forze provocarono quattro morti ed alcuni feriti tra i fascisti e sette feriti tra le forze dell’ordine. Nelle ore precedenti tre persone erano morte a S. Giovanni in Croce, fuori Cremona34. La ragione dell’alta incidenza delle morti a Cremona, in questa occasione, potrebbe risiedere nella eccessiva confidenza dei fascisti nel favore dell’esercito (che, del resto, era stata totalmente confermata in mobilitazioni avvenute in altri centri durante le stesse ore)35. Anche a Foggia la mobilitazione cominciò la sera del 27 ottobre36. Circa millecinquecento fascisti, provenienti da Napoli, al comando dell’on. Caradonna, si impossessarono dello scalo ferroviario, dell’ufficio di pubblica sicurezza, del comando militare di stazione. 33 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Cremona, telegramma del prefetto di Milano al Ministero dell’Interno, dal momento che «prefetto di Cremona nell’impossibilità di comunicare direttamente», 27 ottobre 1922, h. 23.45. 34 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Cremona, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 28 ottobre 1922, h. 14.40 e R. Farinacci, Squadrismo. Dal mio diario della vigilia (1919-1922), Roma, Edizioni Ardita, 1932 (anno XI), p. 173. Tuttavia, nei giorni successivi morirono altre persone, per cui alla fine furono dieci i fascisti morti a causa degli scontri davanti alla caserma e alla prefettura, cfr. ACS, Archivio Michele Bianchi, b. 1, fasc. 2, lettera di Roberto Farinacci a Michele Bianchi, 3 febbraio 1923. 35 Cfr. Farinacci, Squadrismo, cit., p. 174 e ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Cremona, 28 ottobre 1922, h. 14.20. L’episodio è molto conosciuto cfr. A. Repaci, La Marcia su Roma. Nuova edizione riveduta e accresciuta con altri documenti inediti, Milano, Rizzoli, 1972, pp. 478-480 e G. Vené, Il golpe fascista del 1922. Cronaca e storia della marcia su Roma, Milano, Garzanti, 1975, pp. 235-236. 36 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bari, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 28 ottobre 1922, h. 12.20; fonogramma in arrivo dalla sottoprefettura di Foggia, ricevuto il 29 ottobre 1922, h. 15.40; fonogramma in arrivo dalla prefettura di Bari, 29 ottobre 1922, h. 3. 11 Occuparono poi la centrale elettrica sospendendo l’illuminazione dell’intera città. Vennero fermati solo quando tentarono di accedere alla caserma di fanteria: la truppa aprì fuoco contro di loro non appena tentarono l’assalto. Il ferimento di tre squadristi non comportò la resa, e anzi, grazie all’interruzione dell’illuminazione, i fascisti riuscirono ad occupare non solo la caserma, ma anche la prefettura, la posta e il telegrafo, il telefono e la caserma del campo di aviazione dove si rifornirono di armi. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, come pure la mattina del 28, i fascisti cominciarono ad occupare prefetture e uffici telefonici e telegrafici in altre città d’Italia, con procedure analoghe, ma senza altri scontri rilevanti. La mancanza di violenza nella maggior parte dei luoghi in cui l’occupazione fascista era cominciata costituì il primo e principale successo del piano fascista: l’esercito e i prefetti intervennero contro le azioni fasciste il meno possibile, mentre i fascisti si accontentarono di azioni significative solo nelle città che non erano comandi di corpo d’armata, ad eccezione di Firenze, dove però furono immediatamente e fermamente richiamati da Balbo37. I responsabili dell’ordine pubblico addicevano a giustificazione del mancato intervento l’insufficienza del personale, mentre i fascisti evitavano di confrontarsi con i veri centri del potere militare del paese, evitando così di distruggere l’alleanza costruita con l’esercito. La notizia della revoca dello stato d’assedio contribuì a trasformare i repertori dell’azione fascista. A partire da questo momento, le occupazioni di prefetture e di uffici telegrafici furono per lo più di natura simbolica: ai fascisti bastava poter mostrare che la bandiera nazionale era stata esposta alla prefettura e al comune, oppure evidenziare la loro presenza appostando alcuni squadristi di fronte alle porte dei principali edifici pubblici. Non vi era più l’ansia di controllare le comunicazioni tra centro e periferia del giorno precedente, quando l’ordine dello stato d’assedio avrebbe potuto decretare la fine del movimento fascista. Vennero invece prese di mira molto più frequentemente le caserme con lo scopo di recuperare armi per eventuali battaglie, e si fecero anche più frequenti gli assalti alle carceri per liberare i fascisti. Eclatante fu il caso di Bologna dove il pomeriggio del 28 ottobre si assistette al raduno di molti uomini, all’occupazione formale della stazione ferroviaria e di alcuni depositi di armi, oltre che a numerosi tentativi, spesso riusciti, di disarmo delle forze dell’ordine, in particolare guardie regie. Non vi fu però alcun 37 Balbo, Diario 1922, cit. p. 202 e p. 205. 12 tentativo di attacco della prefettura o degli uffici postali38. L’avvenimento più rilevante del 28 ottobre a Bologna fu però senz’altro la liberazione di trentaquattro detenuti dalle carceri di S. Giovanni in Monte, attraverso un’azione che vide tra i protagonisti anche l’on. Arpinati. Le carceri non erano state difese con molti uomini, dal momento che non erano state segnalate come uno degli obiettivi dell’azione fascista. I fascisti erano così riusciti ad arrivare fino all’ufficio del direttore, soltanto attraverso il disarmo di un tenente dell’esercito che era di guardie, e avevano chiesto la liberazione dei prigionieri. Di fronte al rifiuto del direttore, questa era almeno la sua versione (una versione che i fascisti non avevano alcun interesse a mettere in dubbio), i fascisti lo avevano preso in ostaggio e avevano strappato le chiavi al capo di guardia per aprire i cancelli riuscendo anche ad asportare due mitragliatrici e tre fucili39. Bologna fu tuttavia uno dei rari luoghi in cui si verificarono liberazioni di prigionieri dalle carceri, anche perché il tasso di fascisti incarcerati nel territorio nazionale era, a dire il vero, molto basso40. La notizia del conferimento a Mussolini della carica di capo del Governo divenne pubblica tra il pomeriggio del 29 e la mattina del 30 ottobre. Malgrado dal 30 ottobre cominciassero in tutta Italia i festeggiamenti in onore del nuovo capo del governo, non si verificò una distensione del clima politico. A partire da questo momento si registrò anzi un incremento degli scontri, soprattutto quelli mortali, nonché una trasformazione rilevante dei repertori d’azione fascista. Le modalità d’azione dei giorni precedenti, decretate dal piano di mobilitazione tracciato dai “quadrumviri della rivoluzione fascista”, furono, a partire da questo momento, superate dagli eventi. Le squadre 38 Comando del Corpo d’armata di Bologna, Relazione sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Bologna dal giorno 26 ottobre al 5 novembre c.a., in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106. 39 Telegramma del prefetto Palmieri al Ministero dell’Interno, 28 ottobre 1922, h. 17.25 e telegramma del direttore delle carceri al Ministero dell’Interno, 29 ottobre 1922 in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bologna. Accenna a questa azione anche Giorgio Pini in Pini, Le legioni bolognesi in armi, Bologna, Edizioni de «L’Assalto», 1923, pp. 20-21. 40 Altri casi analoghi si verificarono ad Ancona (ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Ancona, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 28 ottobre 1922, h. 17 e h. 22.40); a Modena, dove però l’azione fascista non ebbe successo (ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Modena, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 29 ottobre 1922); a Montevarchi (ACS, MI, Ps 1922, b. 106, fasc. Arezzo, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 3 novembre 1922); a Vigevano (ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Pavia, telegramma del direttore delle carceri giudiziarie Mancini, 30 ottobre 1922, h. 18.35). Malgrado non vi sia notizia di ciò nei telegrammi della prefettura al Ministero dell’Interno, anche a Firenze vi fu la liberazione dei carcerati fascisti, secondo quanto afferma «La Nazione», cfr. Migliaia di fascisti ottengono la liberazione dei loro compagni prigionieri per reati politici, «La Nazione», 29-30 ottobre 1922. 13 rimasero mobilitate ed armate, ed in questo momento di vittoria politica il loro potere fu più forte, malgrado la loro funzione fosse ormai resa nulla dall’esito delle negoziazioni politiche. La mancanza di un programma d’azione e la scelta di una strategia eversiva e violenta da parte delle squadre, insieme all’irrigidimento delle forze dell’ordine, spiegano, almeno in parte, il grande numero di morti e feriti di questa fase della Marcia su Roma41. Dal 30, e in particolare dal 31 ottobre si assistette anche ad una serie di azioni rivolte in particolar modo contro tutte le sedi di organizzazioni socialiste e comuniste, ma talvolta anche contro le amministrazioni concordanti con il governo liberale. Queste azioni erano intese sia a fare riconoscere la vitalità del movimento fascista che ad attuare una trasformazione della classe dirigente locale, oltre che a giungere a rese dei conti. A Bari, ad esempio, il 31 ottobre i fascisti riuscirono finalmente a occupare e distruggere la camera confederale del lavoro, che del resto era già stata fatta sgombrare dalle autorità di pubblica sicurezza ed era difesa dalle forze di polizia42. Quello stesso giorno fu distrutta la Camera del Lavoro torinese, anche se la distruzione venne addebitata dal prefetto e dai dirigenti fascisti, agli stessi proprietari della camera del lavoro, colpevoli di avere lasciato munizioni nei sotterranei43. Durante la notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre i fascisti torinesi attaccarono però anche i magazzini dell’Alleanza Cooperativa, un Circolo Comunista44. Anche a Venezia, i fascisti riuscirono ad occupare la casa del popolo soltanto il 31 ottobre45. I repertori d’azione di questi giorni variarono, come nei giorni precedenti, a seconda che i fascisti avessero già un potere riconosciuto nell’area colpita oppure no; che gli obiettivi classici dell’occupazione fascista del territorio - come ad esempio l’occupazione delle camere del lavoro o la distruzione del giornale o dei giornali antifascisti fossero stati raggiunti nei giorni o nei mesi precedenti oppure no. In questi giorni vi furono principalmente tre tipi di scontri. Innanzitutto 41 I fatti di violenza dell’esercito nei confronti delle squadre furono rarissimi negli anni precedenti la Marcia su Roma, mentre invece nei giorni della Marcia, e soprattutto in questa fase, sembra che alcuni membri delle forze dell’ordine rispondessero con più forza di quanto non avessero mai fatto. 42 Telegramma del prefetto di Bari al ministero dell’Interno, 31 ottobre 1922, h. 3 e telegramma del prefetto di Bari al Ministero dell’Interno, 31 ottobre 1922, h. 21.30 in ACS, MI, Ps, 1922, fasc. Bari. 43 Telegramma del prefetto di Torino al Ministero dell’Interno, 31 ottobre 1922, h. 17 in ACS, MI, Ps, 1922, fasc. Torino. 44 Telegramma del prefetto di Torino al Ministero dell’Interno, 1 novembre 1922, h. 14.15, in ACS, MI, Ps, 1922, fasc. Torino. 45 Telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 1 novembre 1922 in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Venezia. 14 lo scontro con le forze dell’ordine per raggiungere gli obiettivi, fossero essi l’entrata a Roma, l’occupazione e il furto di armi oppure l’occupazione di camere del lavoro o giornali antifascisti difesi dalle guardie o dall’esercito (va detto però che questo tipo di scontri fu molto raro). In secondo luogo, lo scontro tra fascisti e abitanti dei quartieri popolari, in particolare a Roma, dove questi ultimi tentarono di difendere le loro prerogative e la forza sul territorio mentre i fascisti tentavano invece di affermare la loro presenza attraverso cortei, distruzioni di luoghi di associazione e giornali. Nelle zone in cui il potere fascista era ormai radicato, le squadre svuotarono i depositi militari di armi, oppure colpirono nuovi obiettivi per rinforzare il proprio controllo in particolar modo sulla stampa locale e nazionale. A Milano, dove i fascisti avevano manifestato anche precedentemente la volontà di controllare i giornali nazionali, il 29 ottobre decisero di spingere più esplicitamente la loro azione in questo senso, prendendo di mira non solo l’«Avanti!», che dal 1919 era un obiettivo simbolico di grande rilevanza del movimento fascista, ma anche «Il Secolo» e il «Corriere della Sera». Si succedettero così numerosi scontri armati tra fascisti e guardie regie, che portarono al ferimento di sette guardie regie e undici fascisti46. A Bologna invece i fascisti attaccarono un deposito cittadino che avevano già provato ad occupare il giorno precedente47, quello dei Prati di Caprara, e un deposito fuori città, a San Ruffillo. Ai Prati di Caprara i fascisti tentarono di assaltare i locali della caserma che erano depositi di artiglieria e munizioni ma furono respinti dai soldati di guardia, con uno scontro a fuoco che provocò il ferimento di due persone48. Giorgio Pini sosteneva che lo scontro non era stato più pericoloso solo perché i fascisti avevano ricevuto l’ordine di non sparare sulla truppa e si erano ritirati di buon ordine49. A San Ruffillo invece lo scontro costò la vita a due fascisti – uno di loro, Nannini, fu ferito gravemente e morì in seguito alle ferite - e provocò il ferimento di alcune persone tra fascisti e carabinieri50. 46 Telegramma del Comandante della Compagnia interna di Milano al Ministero dell’Interno, 29 ottobre 1922, in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106. Cfr. anche Comando del Corpo d’armata di Milano, Avvenimenti della giornata del 29 ottobre, 29 ottobre 1922, in Ibid. 47 Cfr. Comando del Corpo d’armata di Bologna, Relazione sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Bologna dal giorno 26 ottobre al 5 novembre c.a., 6 novembre 1922, p. 6 in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bologna. 48 Cfr. Comando del Corpo d’armata di Bologna, Relazione sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Bologna dal giorno 26 ottobre al 5 novembre c.a., 6 novembre 1922, p. 6 in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bologna. 49 Pini, Le legioni bolognesi in armi, cit., p. 25. 50 Ibid. 15 L’episodio veniva raccontato così dal giovane fascista bolognese Giorgio Pini: Giunta l’automobile presso la caserma dei carabinieri, i fascisti chiesero a gran voce che il brigadiere cedesse le armi, come già era accaduto in tutti i paesi della provincia. Il brigadiere rispose negativamente, non crediamo affatto per eccessivo zelo disciplinare ed alto senso del dovere, per altro male inteso, ma per notorio antifascismo e per la covata avversione verso Nannini, il quale in precedenza aveva assai frequentata la zona di S. Ruffillo. Alla riposta negativa seguirono altre intimazioni e quindi l’inizio delle ostilità con sparo da ambe le parti di fucilate, bombe e mitraglia. I gruppi avversari erano assai esigui in questo primo tempo. Fra gli arditi che partecipavano all’azione l’eroico Oscar Paoletti ebbe l’impulso temerario di salire a mezzo di una scala a pioli verso una finestra al primo piano della caserma, di fianco alla facciata dove stava esaurendosi il primo conflitto. Spalancò le imposte socchiuse con la canna del moschetto di cui era armato, quand’ecco giungere dall’interno il feroce brigadiere e colpire Paoletti al capo coll’arma stessa strappatagli di mano. Paoletti non poteva, così stordito e aggrappato al davanzale com’era rimasto, ridiscendere la scala su cui si appoggiava malamente, senza cadere, e in un impeto di ardore, scavalcando la finestra, si arrampicò dentro la caserma, impegnando subito una tremenda lotta con l’avversario51. Il racconto di Pini proseguiva poi con la narrazione di un inseguimento tra i due, terminato, malgrado un’iniziale vittoria, con la morte di Paoletti, ucciso con una rivoltella dal brigadiere. Quando si accorsero di quanto stava avvenendo, i fascisti invocarono la tregua e promisero di andarsene se il prigioniero, Paoletti, che nel frattempo era morto, fosse stato restituito. L’agitazione crebbe nel frattempo e Pini raccontava che Giancarlo Nannini ordinava la calma ai suoi ed alzando le braccia verso quel feroce che lo mirava, insisteva per la tregua incurante di se stesso quando, ad un tratto, cadde fulminato. […] Mentre alcuni provvedevano a riparare il corpo inanimato di Nannini, la battaglia si riaccese ed altri correvano in città per i rinforzi. In questo momento restarono feriti il fascista Giuseppe Ambrosi, meraviglioso 51 Ibid. 16 squadrista di tutte le spedizioni più difficili, altra volta ferito, e l’ardito Fantini Giovanni52. In città, durante la stessa giornata erano già morti nelle ore precedenti due fascisti per ferite accidentali, dovute probabilmente all’utilizzo incauto ed inesperto di armi. Un altro grave scontro, che aveva portato alla morte di un maresciallo delle guardie regie, si era verificato nella zona della chiesa di S. Giacomo in via Zamboni, dove la sesta coorte al comando del Seniore Ludovico Grimaldi era accantonata. In quella zona, i fascisti avevano assalito due guardie regie che avevano reagito a loro volta: un fascista e un nazionalista, che agivano insieme, rimasero feriti gravemente, al punto che uno, Mario Becocci morì qualche giorno dopo, e il maresciallo delle guardie regie Vitalone, morì quasi immediatamente alla fine dello scontro53. Il 29 ottobre si chiudeva così con un bilancio tragico per la città di Bologna: tre morti, di cui due fascisti e un maresciallo delle guardie regie, e un ferito grave che sarebbe morto dopo poco, oltre a numerosi feriti. Complessivamente, a partire dal 29 ottobre morirono a Bologna e nei dintorni per fatti legati alla Marcia su Roma almeno dieci persone, tra cui otto fascisti, il maresciallo delle guardie regie e un ufficiale postale54. In questi stessi giorni, anche a Novara morì un fascista durante lo scontro con i carabinieri: a Borgo S. Martino una pattuglia di carabinieri dopo avere più volte intimato, senza successo, il fermo ad un camion pieno di fascisti, aveva aperto il fuoco, ferendo gravemente un fascista che sarebbe morto poco dopo55. 52 Entrambi i pezzi sono tratti da Pini, Le legioni bolognesi in armi, cit., pp. 27-30. Il racconto del Generale Sani conferma l’avvenimento, anche se, ovviamente, non nei termini eroici e apologetici per i fascisti del Pini, cfr. ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bologna, telegramma del 30 ottobre 1922, h. 22.45. 53 Ivi, p. 27. Pini parla esclusivamente di fascisti, sono le fonti del comando del corpo d’armata a distinguere tra fascisti e nazionalisti, cfr. Comando del Corpo d’armata di Bologna, Relazione sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Bologna dal giorno 26 ottobre al 5 novembre c.a., 6 novembre 1922, p. 6 in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bologna. 54 ACS, Archivio Michele Bianchi, b. 1, fasc. 2 (Marcia su Roma), lettera del vicesegretario federale di Bologna a Michele Bianchi, 10 aprile 1923. L’archivio Bianchi conserva la corrispondenza prodotta per dare sussidi alle famiglie dei caduti durante la rivoluzione fascista ed è quindi particolarmente interessante per sapere qualcosa di più sui morti fascisti della marcia. L’ufficiale postale fu ucciso il 1 novembre da un gruppo di fascisti, che ferirono anche un impiegato, in seguito ad uno scontro verificatosi in stazione, cfr. ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Bologna, Corpo d’armata di Bologna, Relazione sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Bologna dal giorno 26 ottobre al giorno 5 novembre, 6 novembre 1922. 55 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Novara, telegramma del prefetto al Ministero dell’Interno, 29 ottobre 1922, h. 1. 17 Intorno a Roma, poi, la grande presenza di fascisti in un’area che non era precedentemente sotto il controllo fascista e dove c’erano circoli socialisti e comunisti, oltre che camere del lavoro, provocò una continua attività fascista secondo modalità d’azione più simili a quelle adoperate nell’Italia padana nel corso del 1921, che alle azioni dei giorni precedenti. Si procedette infatti soprattutto alla distruzione di circoli ed uffici delle organizzazioni socialiste e di difesa dei lavoratori, delle camere del lavoro e delle sedi dei giornali rossi56. Oltre a questi avvenimenti, bisogna registrare un forte incremento della violenza contro esponenti della classe dirigente antifascista socialisti, comunisti, ma anche social democratici. Questa violenza non arrivava all’omicidio, e spesso si limitava alla distruzione di appartamenti privati o, nei casi più gravi, all’ingiuria e al pestaggio. Casi di questo genere si diffusero in tutta Italia: la maggior parte fu tuttavia nell’area di Roma. La mattina de 31 ottobre 1922 una spedizione di circa sessanta fascisti invase il villino Nitti a Roma: dopo essersi liberati della forza pubblica (senza troppa fatica, e, apparentemente, senza alcuno scontro), i fascisti entrarono nel villino e distrussero libri e carte, portarono via oggetti di vario genere, ma non riuscirono a distruggere i mobili, perché a questo punto intervenne la forza pubblica57. Un’ora prima un gruppo molto più consistente di fascisti, circa trecento, si era recato alla casa dell’onorevole Bombacci e ne aveva distrutto i mobili, buttando tutto il materiale trovato fuori dalle finestre, dopo aver superato il servizio d’ordine delle guardie che erano state poste a tutela dell’appartamento58. L’unico destinatario delle violenze trovato in casa fu l’ardito del popolo Argo Secondari. In questo caso i fascisti non distrussero l’appartamento, ma bastonarono il proprietario ferendolo gravemente alla testa59. Fatti analoghi si ripeterono frequentemente: furono distrutte le abitazioni di altri deputati ed esponenti della classe dirigente antifascista, ma in alcuni casi anche di militanti di secondo piano, come Giovanni Mandini, «sospetto comunista» nelle parole della questura, il quale «si sarebbe allontanato dal paese natio circa 7 mesi orsono dopo che avrebbe partecipato ad 56 A Civitavecchia infatti furono distrutti i circoli socialisti, la cooperativa del porto, la camera del lavoro e la sede del giornale «Il Comunista», cfr. telegrammi del questore di Roma al Ministero dell’Interno, 29 ottobre 1922, h. 10.35, 13.15, 13.40 in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106. Si veda anche fonogramma della prefettura di Roma al Ministero dell’Interno, 29 ottobre 1922, h. 18,50, in ACS, MI, Ps, 1922, fasc. Roma. 57 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Roma, Questura di Roma, Notiziario dalle ore 10 del 31 ottobre alle ore 6,30 del 1° novembre, 31 ottobre 1922, p. 3. 58 Ibid., p. 2. 59 Ibid. p. 2. 18 un conflitto con fascisti»60. Mandini non era in casa, ma i fascisti procedettero a distruggere tutto quanto poterono trovare, facendo un falò dei mobili e della biancheria61. Va però osservato come per i militanti meno conosciuti il tipo di violenza usata fosse però spesso diversa a quella usata per i dirigenti: il 31 mattina numerosi fascisti si diressero in uno dei quartieri popolari della città, il Salario, noto per essere uno dei luoghi in cui abitavano molti antifascisti e «si recavano alle tracce dei più noti sovversivi che accompagnavano nei posti di concentramento e li obbligavano a bere olio di ricino»62. La violenza contro singoli, ed in particolare membri eminenti della classe dirigente antifascista, che fino ad allora era stata un fenomeno diffuso soprattutto nelle aree in cui la violenza fascista era più forte, sembra l’aspetto più specifico dei repertori di violenza usati nella Marcia su Roma e marca una trasformazione nell’uso della violenza, che proseguì anche negli anni successivi. Contemporaneamente, nei giorni che seguirono il corteo fascista del 30 ottobre, oltre a qualche scontro a fuoco tra fascisti e antifascisti nei quartieri popolari della città, il questore di Roma, Sechi, registrava decine di piccoli fatti, che andavano dalla richiesta di consegna di bandiere rosse, alla requisizione e al rogo di giornali non fascisti; dal danneggiamento di luoghi di incontro alla violenza contro individui ostili al movimento fascista; dalla perquisizione di case di militanti socialisti e comunisti a quella di parlamentari delle forze dell’opposizione fino alla requisizione di armi. Il 1 novembre questi fatti continuavano, coinvolgendo tanto individui singoli che sedi di associazioni e camere del lavoro63. Questi continui atti di violenza ebbero gravi conseguenze: nei giorni della Marcia morirono a Roma diciannove persone64. 60 Ibid., p. 2. Oltre ai casi citati furono assalite e distrutte anche l’abitazione dell’on. Bombacci, dell’on. Sardelli, dell’avv. socialista Guglielmo Pannunzio, dell’on. Graziadei, dell’on. Vella. Il primo novembre furono poi assalite le abitazioni del comm. Giuseppe Magno ex segretario particolare dell’on. Nitti, del segretario dell’on. Bombacci, in ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, R. Questura di Roma, Notiziario dalle ore 6.30 del 1 novembre 1922 alle ore 6.30 del 2. 61 ACS, MI, Ps, 1922, b. 106, fasc. Roma, Questura di Roma, Notiziario dalle ore 10 del 31 ottobre alle ore 6,30 del 1° novembre, 31 ottobre 1922, p. 2 62 Ibid., p. 3 63 R. Questura di Roma, Notiziario del 1° novembre dalle ore 8,30 alle ore 11,30 e Notiziario dalle ore 6,30 del 1° novembre alle ore 6,30 del 2 in ACS, MI, Ps, 1922, fasc. Roma. 64 ACS, Mi, Ps, 1922, b. 106, fasc. Roma, telegramma del questore di Roma al Ministero dell’Interno, 2 novembre 1922. Nel documento il questore faceva una statistica di morti e feriti negli scontri e affermava che vi erano stati 17 morti in città e due in campagna, 20 feriti gravi e 45 non gravi. 19 Il 2 novembre giungeva finalmente l’ordine di smobilitazione delle “camicie nere”65. Violenze e rese di conti continuarono però anche nei giorni successivi66. La mobilitazione cominciata il 27 ottobre 1922 terminò completamente il 7 novembre 1922, quando tutte le città d’Italia tornarono ufficialmente sotto il controllo civile. Intanto, il 29 ottobre, Mussolini era stato nominato capo del Governo e aveva presentato la lista dei Ministri al Re. A metà novembre il nuovo capo del Governo presentò il suo programma di governo al Parlamento. Conclusione Le violenze e le intimidazioni dei giorni della Marcia su Roma mostrano come l’obiettivo della ‘conquista del potere’ fascista non si limiti, già nell’ottobre 1922, alla conquista del governo da parte di Mussolini, ma si spinga fino alla eliminazione degli spazi di organizzazione e di aggregazione di tutti gli avversari, e non solo dei rossi, e ad un fenomeno imponente di intimidazione fisica dei leader dell’opposizione. Non è in questo senso ininfluente sottolineare una volta di più come il più grande numero di violenze fisiche compiute dai fascisti (ma anche in reazione ai fascisti) si verifichi non prima del conferimento dell’incarico a Mussolini, come si è spesso pensato e detto, ma piuttosto nei giorni successivi. L’intimidazione e la violenza verbale furono infatti più efficaci nei giorni immediatamente precedenti all’andata al potere di Mussolini, quando l’incertezza dell’esito della crisi politica spinse tutti i contendenti a preferire una certa moderazione, piuttosto che nei giorni immediatamente successivi, quando la vittoria fascista moltiplicò nei fascisti la voglia di affermazione (e nelle loro controparti l’incertezza e la paura, che determinarono spesso risposte molto più forti che nei giorni precedenti alle azioni fasciste). Il successo dell’intimidazione nei giorni precedenti il 29 ottobre era certo reso possibile da una strategia politica che, fin dal sorgere del movimento fascista, aveva legittimato la violenza e aveva dimostrato, con i fatti, la disponibilità all’utilizzo della stessa, oltre che da un contesto politico che non aveva saputo rispondere, o che più frequentemente, aveva sostenuto questa strategia. Non si può tuttavia negare che, anche in questo contesto di legittimazione della violenza, non solo la disponibilità della società (e del mondo politico) ad accettare l’utilizzo di questo strumento come 65 ACS, MI, Ps, 1922, fasc. Roma, fonogramma in arrivo dalla questura di Roma, 2 novembre 1922, h. 13.10 66 R. Questura di Roma, Notiziario dalle 6 antimeridiane del 2 novembre alle ore 7 del 3 e fonogramma in arrivo dalla R. Prefettura di Roma, 4 novembre 1922, h. 10.15. 20 normale pratica politica era tutt’altro che omogenea, ma anche che il ricorso alla violenza fisica (soprattutto nello scontro tra le forze dell’ordine e i fascisti) non era – proprio per questa ragione – che l’ultimo livello di una escalation, che spesso si fermava molto prima che lo scontro fosse necessario. Non è un caso che le vittime e gli artefici della violenza fisica fossero difficilmente i capi del movimento, ma piuttosto i gregari o i militanti più giovani. Con il discorso di Benito Mussolini alla Camera dei Deputati, l’intimidazione faceva capolino – più forte che mai - in Parlamento, rendendo evidente – a chiunque avesse voluto ascoltare - che la Marcia su Roma non era che l’inizio di un processo più lungo di conquista del potere da parte del fascismo e del suo capo e che la violenza non sarebbe certo finita con questo avvenimento. Tuttavia ci sarebbero voluti ancora alcuni anni – e un avvenimento come l’omicidio Matteotti - prima che il “duce” avesse la forza politica di assumersi direttamente, e in Parlamento, la responsabilità di atti di violenza effettivamente avvenuti. 21