L`euro in prospettiva storica

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L`euro in prospettiva storica
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Tommaso Padoa-Schioppa
L’euro in prospettiva storica
Europa anno zero
La moneta unica europea rappresenta il punto d’incontro di tre diversi percorsi: uno economico, uno politico e uno monetario. Ognuno dei tre percorsi
segna un’evoluzione di molti decenni, avvenuta secondo le logiche proprie al
suo campo. In questo articolo cercherò di delineare sinteticamente il tracciato
di ogni percorso e descriverne il punto di arrivo.
Nel dicembre 1991, quando i capi di Stato e di governo dei Paesi dell’Unione europea (Ue) decisero di sostituire con una moneta unica le proprie
valute nazionali, molti ebbero l’impressione che fosse ancora troppo presto
per l’unione monetaria. Consci delle antiche radici storiche in cui affondava la
molteplicità delle monete nel continente europeo, essi traevano da precedenti
esperienze la convinzione che l’unione politica dovesse precedere quella monetaria. Ma molti altri erano convinti che i tempi fossero ormai maturi per
l’unione monetaria: alcuni erano stati persuasi dalla tesi, di natura economica,
secondo cui una moneta unica era necessaria per sostenere e permettere l’ulteriore sviluppo del mercato unico dell’Ue; altri erano guidati da considerazioni
di ordine politico. Secondo costoro l’Europa, a differenza degli Stati Uniti o
della Germania e dell’Italia nell’età moderna, poteva giungere all’unificazione
solo attraverso un processo graduale: e vedevano la moneta unica come una
tappa di questo processo.
Quali che siano i meriti rispettivi di questi due punti di vista, sta di fatto
che la creazione dell’euro e dell’Eurosistema non fu una decisione improvvisata; essa è il risultato di un cammino pluridecennale, attraverso il quale l’Europa del Novecento, dopo un periodo di asperrimi conflitti economici, politici e militari nella prima metà del XX secolo, ha cercato di costruire un nuovo
ordine di sicurezza e prosperità nella seconda metà.
L’economia: da Roma a Maastricht
La base legale e istituzionale per l’adozione della moneta unica è costituita da
un emendamento al Trattato di Roma (1957), che si concordò nel dicembre
1991 e si firmò a Maastricht nel febbraio 1992. In effetti la moneta unica emendava, nel senso di completarla e di correggerla, la costruzione economica e
istituzionale del Trattato di Roma non solo nella forma, ma anche nella sostanza. In breve, si può dire che l’emendamento consisteva nel sostituire al dollaro, la moneta unica «implicita» in Europa negli anni Cinquanta, l’euro come
nuova moneta unica «esplicita».
Il principale obiettivo economico del Trattato di Roma era d’instaurare la
libertà di circolazione di beni, servizi, capitali e persone nel territorio formato
da sei Paesi che allora costituivano entità distinte (Belgio, Germania, Francia,
Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi); con queste cosiddette «quattro libertà»
s’intendeva creare il mercato unico. La loro realizzazione rappresentava un
obiettivo assai ambizioso, che si estendeva ben oltre l’istituzione di un’area di
libero scambio o di un’unione doganale. Per averne un’idea basti dire che,
quando il Trattato fu firmato, le quattro libertà non erano pienamente realizzate neppure all’interno di quegli stessi Paesi che avevano deciso d’instaurarle
tra loro. Negli anni Cinquanta, per esempio, in alcuni Paesi era necessario
pagare un dazio per trasportare i beni da una città all’altra entro le frontiere
nazionali, la fornitura di servizi bancari era soggetta a restrizioni territoriali, i
cittadini non potevano decidere liberamente di prendere la residenza in un
comune di loro scelta senza un’autorizzazione speciale. Il programma del mercato unico, quindi, andava assai oltre il campo delle relazioni internazionali,
per influenzare in modo profondo anche gli stessi sistemi economici nazionali.
Il Trattato di Roma conteneva solo sporadici accenni alla moneta, e a prima
vista sembrerebbe che il problema dell’ordinamento monetario necessario a
sostenere un mercato unico sia stato trascurato. Si tratta, però, di un’impressione sbagliata, dovuta al fatto che un sistema monetario ben definito a quell’epoca
esisteva già, ed era coerente con il programma del mercato unico: era il regime
di cambi fissi stabilito a Bretton Woods nel 1944, regime che, di fatto, non
permetteva svalutazioni competitive delle valute. Il mercato unico, ancora da
creare, dunque, implicitamente aveva già una moneta unica, il dollaro. Se nel
Trattato di Roma non fu definito esplicitamente un sistema monetario è perché
i vigenti accordi di Bretton Woods erano considerati un dato permanente dell’ordine economico internazionale. Invece, l’edificio dei cambi fissi non ebbe la
durata eterna che si pensava, e non appena manifestò i primi scricchiolii, alla
fine degli anni Sessanta, iniziò una discussione su quale ordinamento monetario
europeo potesse sostituirlo per completare il mercato comune.
Il percorso economico che dal Trattato di Roma del 1957 porta a quello di
Maastricht del 1992 ha condotto l’Europa da una moneta di riferimento esterna, il dollaro, a una moneta propria. Tra questi due regimi, per circa 15 anni la
moneta di riferimento è stata la più forte e più stabile tra quelle di tutti i Paesi
europei, il marco tedesco. Il regime del marco è cominciato con la fine del
sistema basato sul dollaro (1973) e inizialmente ha preso la forma di un accordo, chiamato «Serpente», nel quale le monete dei Paesi partecipanti dovevano
muoversi insieme (cioè rispettando margini di fluttuazione reciproca molto
stretti) entro la banda di fluttuazione, più ampia, consentita nei confronti del
dollaro. Questo sistema, quindi, rassomigliava a un serpente che si muoveva
dentro un tunnel. Il nuovo accordo aveva l’obiettivo di contenere le variazioni
dei cambi tra le valute europee. Pensato per tutti i Paesi europei, ben presto al
Serpente finirono per partecipare solo alcune piccole economie che potevano
e volevano ancorarsi al marco. Nel 1979 al Serpente si sostituì il Sistema monetario europeo (Sme), cui avevano aderito anche due Paesi grandi, la Francia
e l’Italia. L’elemento principale dello Sme era l’Accordo europeo di cambio
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(Aec), secondo il quale le valute partecipanti fluttuavano entro una banda attorno a una parità fissa, anche se modificabile. All’inizio la banda di fluttuazione
stabilita per la lira italiana fu di ampiezza maggiore rispetto a quelle delle altre
valute. Nel corso degli anni Ottanta la partecipazione allo Sme si allargò, con
l’adesione di tutte le altre monete europee, incluse la sterlina inglese e la peseta
spagnola. Il regime del marco fornì, dunque, una base alla stabilità delle valute
europee nella fase storica in cui il sistema monetario internazionale adottava i
cambi fluttuanti. Lo Sme contribuì grandemente sia alla lotta all’inflazione sia al
mantenimento di relazioni commerciali regolari all’interno dell’Ue. Nel corso
degli anni, tuttavia, esso divenne via via più rigido, a causa della crescente riluttanza dei suoi partecipanti a mutare le parità del cambio. Il dilemma di politica
economica causato dalla riunificazione tedesca e, soprattutto, le pressioni destabilizzanti dovute alla crescente mobilità dei capitali tra i Paesi partecipanti ebbero un impatto negativo sul suo funzionamento.
Sono stati due i paradigmi economici che hanno influenzato il passaggio
dell’Europa dal dollaro all’euro. Il primo è la teoria delle aree monetarie ottimali,
formulata originariamente da Robert Mundell e sviluppata poi attraverso un
ampio dibattito accademico. Si trattava di una teoria profondamente innovativa,
che metteva in discussione la corrispondenza biunivoca tra monete e Stati sovrani e identificava le condizioni perché a una determinata area geografica convenisse adottare una moneta unica, a prescindere dal fatto che i suoi confini
coincidessero o meno con quelli di uno Stato. Queste condizioni di natura economica erano quasi coincidenti con quelle necessarie per l’effettiva realizzazione delle quattro libertà previste dal Trattato di Roma. Il secondo paradigma è la
tesi del «quartetto inconciliabile»1, secondo cui libero scambio, mobilità dei
capitali, tassi di cambio fissi e indipendenza delle politiche monetarie nazionali
sono reciprocamente incompatibili sicché un accordo internazionale che cerchi
di soddisfare contemporaneamente tutte e quattro queste condizioni è minato
da contraddizioni che portano inevitabilmente a instabilità e crisi.
Il paradigma del quartetto inconciliabile indicava la necessità di una moneta unica, quello delle aree monetarie ottimali una possibilità, nonché le condizioni per la sua realizzazione. Forse proprio a causa di questa differenza, il
primo ebbe un’influenza determinante nell’adozione dell’euro, ma smise di essere al centro della discussione dopo il suo lancio; mentre il secondo fu utilizzato sia dai sostenitori che dai critici dell’euro e rimase un utile punto di riferimento anche dopo l’avvio dell’Unione economica e monetaria (Uem). Gli
estensori del Trattato di Roma erano consci del problema del quartetto inconciliabile e cercarono di affrontarlo in due modi: con una soluzione permanente e
una transitoria. La soluzione permanente era costituita dall’impegno a considerare le politiche del tasso di cambio come materia di interesse comune e a coordinare le politiche economiche. La soluzione transitoria prevedeva una gradualità nell’abolizione dei controlli sui movimenti capitali e ammetteva la possibilità di reintrodurli temporaneamente. Nella pratica questi strumenti si rivelarono
deboli e insufficienti. Dal momento che il coordinamento delle politiche economiche previsto dal trattato non si affermò mai, il compito di risolvere l’inconciliabilità ricadde completamente sulle restrizioni dei movimenti di capitale.
Tuttavia, questa soluzione contraddiceva gli stessi obiettivi del Trattato, non
solo la libera circolazione dei capitali e dei servizi finanziari, ma, alla fine, anche
la libera circolazione dei beni. Gli estensori del Trattato di Roma avevano in
effetti colto la contraddizione, ma non l’avevano risolta.
Negli anni Settanta il cammino verso la piena attuazione delle quattro libertà
si fermò, e subì anche occasionali arretramenti. In parte ciò fu dovuto all’ancor
ampio ricorso alla regola dell’unanimità e al potere di veto, che di fatto impedivano l’adozione di regole a livello comunitario per istituire le quattro libertà. In
parte, tuttavia, fu dovuto alla logica interna del quartetto inconciliabile; era infatti
chiaro che la completa liberalizzazione dei movimenti dei capitali e dei servizi
finanziari difficilmente poteva conciliarsi con il desiderio, ancora forte, di mettere
in atto politiche macroeconomiche nazionali indipendenti. L’attuazione del Trattato riprese slancio nella seconda metà degli anni Ottanta, dopo che il Sistema
monetario europeo era riuscito a ristabilire un minimo di stabilità macroeconomica.
In quel momento all’interno dell’Unione europea si poteva considerare attuata
solo (e neppure del tutto) la libertà di circolazione dei beni, e molto rimaneva da
fare per i servizi, i capitali e le persone. La sequenza delle tappe che condusse alla
moneta unica va dall’avvio dello Sme (1979) al rilancio del programma del mercato unico (1985), dalla decisione di accelerare la liberalizzazione dei movimenti di
capitale (1986) al lancio del progetto di unione monetaria (1988), all’accordo raggiunto a Maastricht (1991). Lungo tutto questo periodo la tensione implicita
nell’inconciliabilità dei quattro elementi del quartetto, invece che provocare un
arretramento dell’integrazione europea, causò un deciso slancio in avanti. Paradossalmente, e fortunatamente, l’inconciliabilità dette origine a una crisi solo dopo
la firma del Trattato di Maastricht. La tempesta valutaria del 1992-93 nello Sme fu
la conferma più convincente del paradigma del quartetto inconciliabile; essa fu
una crisi dell’accordo di cambio, non dell’idea di moneta unica.
Il paradigma del quartetto inconciliabile spiega tanto i limiti del sistema di
Bretton Woods quanto la crisi del meccanismo del tasso di cambio in Europa.
Entrambe le esperienze sono caratterizzate da un periodo di coincidenza tra
interessi nazionali e internazionali, seguita dalla nascita di un conflitto; in entrambi uno shock nazionale legato a importanti eventi di natura politica (la
guerra in Vietnam, la riunificazione tedesca) segnò il passaggio dall’armonia al
conflitto. I movimenti di capitale, sebbene di diversa dimensione e velocità,
inasprirono i conflitti in entrambi i casi. Ci sono però anche differenze. Il
conflitto in materia di politica economica che accelerò il declino del sistema di
Bretton Woods ebbe origine da una politica monetaria «accomodante» del
Paese di riferimento (gli Stati Uniti) che entrò in diretto conflitto con le preferenze antinflazioniste di alcuni importanti Paesi, come la Germania Occidentale; nel caso della crisi dell’Aec, al contrario, le preferenze di politica economica del Paese di riferimento (la Germania) furono troppo restrittive per gli
altri Paesi partecipanti. Ma soprattutto, ed è questa la differenza più importante, il finale fu diverso: mentre il sistema monetario internazionale adottò un
regime di cambi fluttuanti, l’Europa avviò la moneta unica. Se accogliamo la
tesi secondo cui, in un mondo caratterizzato da mobilità dei capitali, per i tassi
di cambio sono possibili solo le cosiddette soluzioni estreme (completa rigidi-
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tà o completa flessibilità del cambio), possiamo affermare che il mondo e l’Europa si attestarono sui due opposti estremi.
I quattro anni e mezzo intercorsi tra il momento in cui entrò in vigore il
trattato (1o novembre 1993) e l’istituzione della Banca centrale europea (Bce)
(1o giugno 1998) furono gli anni in cui venne ripristinata la stabilità macroeconomica in Europa. Furono eliminate le pressioni inflazionistiche e portate a
termine correzioni decisive degli squilibri di bilancio dei Paesi partecipanti.
In quegli anni i mercati finanziari obbligarono gli Stati a rispettare l’impegno
preso firmando il Trattato. Ciò accadde perché i mercati coniugarono due
disposizioni contenute nel Trattato: i criteri di convergenza definiti numericamente e la data fissata per l’adozione finale della moneta unica. Essi non lasciarono ai Paesi altra scelta che quella di conformare le politiche economiche
nazionali ai criteri di Maastricht. Nei fatti tutto ciò dette origine a una situazione in cui ogni Stato era costantemente sotto esame e giudicato dai mercati
finanziari in base alla probabilità di essere pronto in tempo per un evento la
cui data d’inizio era ormai fissata con certezza.
In conclusione, il percorso economico che condusse alla moneta unica fu
caratterizzato dal graduale perseguimento dell’obiettivo iniziale delle quattro
libertà, che, nonostante le pause e i temporanei arretramenti, fu tenacemente
perseguito attraverso gli anni. Lungo questo percorso, una delle condizioni
necessarie, vale a dire un sistema monetario coerente con il nuovo ordine economico, venne inizialmente soddisfatta, poi violata, quindi parzialmente sostituita e, infine, incorporata nella moneta unica. Il fatto che il Trattato di
Maastricht abbia assunto la forma di una revisione del Trattato di Roma non è
un’accidentale formalità; esso riflette la sostanza della questione.
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La politica: dalla guerra al «dolce» commercio
Sebbene il suo contenuto sia prevalentemente economico, l’Unione europea è
una costruzione eminentemente politica. L’euro è un passo politico in un percorso politico, un progetto ideato e attuato nell’arco di molti decenni, da varie
generazioni di politici provenienti da diversi Paesi dell’Europa continentale.
Anche per un osservatore i cui interessi siano circoscritti alle questioni di economia e di banca centrale, l’unione monetaria europea risulterebbe difficile
da capire senza un riferimento alla sua dimensione politica.
I semi di un’Europa politicamente unita furono gettati, sia sul piano delle
idee sia su quello dell’azione, da alcune figure illuminate negli anni Quaranta,
quando la guerra stava ancora infuriando e l’odio reciproco sembrava l’unico
legame tra i popoli europei. Persone come Jean Monnet, Altiero Spinelli,
Jacques Maritain e Luigi Einaudi cercarono di capire che tipo di assetto avrebbe
potuto porre fine a secoli di guerre, interrotte solo da tregue temporanee fondate su precari equilibri delle forze. Essi raggiunsero la conclusione che una
pace durevole poteva essere raggiunta solo creando un ordine politico superiore al potere, ancora non soggetto a limiti, degli Stati-nazione.
«Mai più una guerra tra noi» era il motto di Robert Schuman, Konrad
Adenauer e Alcide De Gasperi, i leader politici di Francia, Germania e Italia al
potere alla fine degli anni Quaranta e all’inizio degli anni Cinquanta. Il primo
passo concreto, proposto dal francese Jean Monnet, fu di riunire e gestire congiuntamente le due risorse strategiche – il carbone e l’acciaio – per il controllo
delle quali erano state combattute molte guerre in Europa. Grazie alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), istituita con il Trattato di Parigi
(1951), sei Paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi),
con una decisione rivoluzionaria, trasferirono per la prima volta a un’istituzione
comune la sovranità in un campo decisivo, sebbene limitato. Il carbone e l’acciaio erano estratti principalmente da miniere situate in una regione che si estende
in Germania, Francia, Belgio e Lussemburgo. Il secondo passo fu costituito dal
tentativo, non riuscito, di istituire una Comunità europea di difesa; a tal fine
venne stipulato un trattato dagli stessi sei Paesi nel 1952, trattato che però non
entrò mai in vigore perché la ratifica venne negata dal Parlamento francese.
Nel 1957 a Roma fu firmato un terzo Trattato, che istituì la Comunità
economica europea (Cee), poi più volte emendato e ampliato, che rappresenta ancora oggi la carta fondamentale di quella che dal 1994 è l’Unione europea. Fallito il tentativo di dare all’Europa unita la forma politica di una comunità di difesa, si scelse la forma economica di un mercato comune. Espandendo e sviluppando l’intuizione che ispirava la Ceca, gli architetti della Comunità economica europea perseguirono la pace attraverso la creazione di una fitta
trama di interdipendenze economiche. Si potrebbe affermare, facendo riferimento ad Albert O. Hirschman, che, come le passioni avevano condotto alla
guerra, così gli interessi sembravano condurre alla pace. Sviluppando gli scambi
di beni e servizi e la circolazione di persone e capitali – così si pensava –,
sarebbe stato possibile sviluppare potenti interessi comuni, tali da indurre
legami di cooperazione ché, alla fine, l’unione politica sarebbe venuta come
una conseguenza naturale. Il «dolce» commercio avrebbe sostituito la barbara
bellicosità. Come disse Charles de Montesquieu: «il commercio […] ingentilisce
e addolcisce i costumi barbarici, come possiamo vedere ogni giorno».
È interessante notare che alcuni dei leader politici che crearono la Cee avevano scarse conoscenze specifiche in campo economico e addirittura avevano
agito contro il consiglio dei loro esperti (come Konrad Adenauer con Ludwig
Erhard). Nel corso degli anni, i passi in avanti, le pause e i temporanei arretramenti
nella realizzazione del mercato comune furono determinati prevalentemente da
fattori politici. Ad esempio, le cause all’origine del blocco all’adozione delle
norme necessarie per abolire le barriere nazionali e unificare la legislazione economica, blocco che durò dalla metà degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta,
furono interamente politiche. Tale blocco fu causato dall’iniziativa di Charles
de Gaulle di imporre l’unanimità come regola di decisione, anche là dove il
Trattato prescriveva la regola della maggioranza. Vent’anni dopo il blocco fu
superato, e un’accelerazione decisiva fu impressa al processo di integrazione,
quando fu ripristinata la regola della maggioranza e la sua applicazione fu notevolmente estesa. Anche questa fu un’iniziativa autenticamente politica.
Insieme all’esercito, la moneta è probabilmente la principale espressione
della sovranità nazionale e non è un caso che nomi come sovrana, luigi o reale
siano stati scelti, nel corso della storia, per indicare alcune monete. La decisione di sostituire le singole valute nazionali con la moneta unica europea è pro-
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babilmente il passo più avanzato compiuto nella lunga storia dell’integrazione
europea. Come ho spiegato nel paragrafo precedente, esistevano forti ragioni
economiche e tecniche a favore di questa decisione. Tuttavia, anche le ragioni
economiche più convincenti sarebbero state insufficienti per determinare l’adozione dell’euro, se decisioni politiche fondamentali, prese al più alto livello di
governo, non avessero guidato quel processo. Come Adenauer, De Gasperi e
Schuman negli anni Cinquanta, allo stesso modo Kohl, Mitterrand e Andreotti
negli anni Ottanta non avevano competenza specifica in campo monetario.
Tuttavia essi sapevano di volere che la costruzione europea facesse un balzo
decisivo in avanti e detenevano il potere in quei quattro anni cruciali nei
quali la moneta unica, da una delle tante idee della retorica pro-europea,
divenne il nucleo del nuovo Trattato. Non tutti i loro consiglieri economici
erano convinti e ci sono stati anche momenti, nel corso degli anni Novanta,
in cui il cancelliere Helmut Kohl fu solo nel difendere il progetto, opponendosi a qualsiasi rinvio.
Non solo leader politici di grande statura, ma anche non meno straordinarie circostanze politiche svolsero un ruolo di primo piano nel passaggio all’euro.
Nel momento cruciale, quando un piano tecnico relativo all’Uem redatto da
un comitato di composizione essenzialmente tecnica – il comitato Delors – si
trovava al bivio tra essere destinato alle biblioteche universitarie, dove i progetti non realizzati di questo tipo diventano oggetto di tesi di dottorato, e
avviarsi a realizzazione, cadde il muro di Berlino. La riunificazione della Germania divenne possibile; tornarono in vita sia le speranze di rimarginare l’ultima ferita della seconda guerra mondiale sia le vecchie paure riguardanti la
rinascita di una egemonia tedesca sul continente. Fu questa nuova situazione a
dare un impulso nuovo e decisivo al realizzarsi della moneta unica. Confermando il suo sostegno alla moneta unica, il governo tedesco diede un chiaro
segnale che per la Germania federale la riunificazione della nazione e un’ulteriore integrazione europea erano due aspetti inseparabili della stessa politica.
La ratifica del Trattato di Maastricht, in molti Paesi, fu occasione di un’intensa discussione politica sul rapporto del Paese con l’Europa e sulla questione della sovranità nazionale. In alcuni Stati membri, quali la Danimarca, l’Irlanda e la Francia, fu indetto un referendum; in altri, quale la Germania, fu
chiesto alla corte costituzionale se la cessione del potere di battere moneta
fosse compatibile con la Costituzione; in alcuni Paesi la Carta costituzionale
dovette essere modificata per divenire compatibile con il Trattato di Maastricht.
Le questioni al centro di queste discussioni erano politiche, più che economiche
e monetarie. A nessuno sfuggiva che attribuire all’Unione europea il potere di
emettere la moneta rappresentava un notevole passo verso una sorta di Stato.
L’ultima ratifica fu conseguita in Germania nell’ottobre 1993; il Trattato
poté entrare in vigore il successivo 1o novembre. I quattro anni che seguirono
furono gli anni della convergenza macroeconomica: riduzione dell’inflazione,
dei disavanzi di bilancio e del debito pubblico, stabilità del cambio. I criteri
stabiliti in questo campo dal Trattato dovevano essere soddisfatti da ogni Paese che volesse partecipare all’unione monetaria. Era fissata dal Trattato stesso
una data (1o gennaio 1999) alla quale la moneta unica sarebbe comunque par-
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tita, con la partecipazione di ogni Paese che soddisfacesse i criteri di convergenza. Questa data di avvio non era modificabile da alcuna decisione futura.
In altri campi, i quattro anni dal 1994 al 1997 non segnarono progressi
significativi dell’integrazione europea. Il regime di cambi fissi del Sistema
monetario europeo aveva subito una grave crisi nel 1992-93, cui sopravvisse a
stento, solo allargando i margini di fluttuazione delle monete partecipanti fino
al punto di perdere ogni funzione disciplinante sulle politiche economiche
nazionali. Tra i funzionari e i politici, pochi erano davvero convinti che la data
stabilita nel Trattato per l’avvio dell’euro sarebbe stata davvero rispettata.
I mercati finanziari, però, collegando la data del 1o gennaio 1999 con i criteri, numericamente definiti, per la convergenza macroeconomica, erano in grado
di giudicare ogni singolo Paese, quotandone il cambio e i titoli di Stato, in base
alla probabilità attesa di aderire alla moneta unica dall’inizio. Nessun governo
nazionale in cerca di popolarità e credibilità poté più permettersi di ignorare il
verdetto giornaliero del mercato. I criteri di convergenza e la partecipazione
all’Uem, a causa della pressione del mercato finanziario, furono catapultati al
centro del dibattito politico in tutti gli Stati membri e ne divennero un elemento
centrale, a prescindere dall’atteggiamento dei singoli governi nei confronti dell’Europa. Ancora una volta il fattore dinamico fu prevalentemente politico.
Il terzo percorso che ha portato alla Bce e all’euro è quello monetario, relativo
all’evoluzione delle monete e della banca centrale. In effetti il periodo tra il
Trattato di Roma e quello di Maastricht è stato un periodo storico molto importante non solo per la realizzazione dell’Europa unita, ma anche per l’evoluzione delle banche centrali e della politica monetaria. Tra il 1957 e il 1992 le
monete abbandonarono infatti la due ancore cui erano state saldamente legate sin dai tempi più antichi: l’oro e il potere dello Stato. Inoltre è stato il periodo in cui gli uomini impararono a governare una moneta interamente
fiduciaria, vale a dire una moneta il cui potere di acquisto si basa sulla fiducia
piuttosto che sul suo intrinseco valore. Lo statuto dell’euro incorpora il risultato di questo apprendimento. In poco più di tre decenni il paradigma intellettuale, il modo di condurre la politica economica e l’ambiente istituzionale
delle banche centrali hanno profondamente rinnovato i propri fondamenti.
Fin dai primi anni Sessanta il paradigma intellettuale, costruito sulle basi
gettate da John Maynard Keynes, John Hicks e Franco Modigliani, affermava
che l’effetto della politica monetaria sull’economia reale era rappresentato da
un’alternativa (trade-off) tra inflazione e disoccupazione. La moneta non era
neutrale. Lungo una curva che descrive questa alternativa (la curva di Phillips)
livelli di disoccupazione minore sono associati a tassi di inflazione più elevati
quando salari e prezzi non sono pienamente flessibili. Si supponeva che i prezzi
rispondessero con un ritardo all’aumento della domanda aggregata, inducendo
un’espansione del prodotto nazionale per assorbire parte di quell’aumento della domanda. Era dunque possibile ottenere con la politica monetaria livelli di
disoccupazione più bassi, purché si accettasse un tasso di inflazione più alta.
La non neutralità della moneta, tuttavia, fu messa in discussione da Don
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La moneta: da vecchie a nuove ancore
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Patinkin, Milton Friedman e Robert Lucas. Negli anni Settanta la tesi secondo
cui esisteva un tasso naturale di disoccupazione che, nel lungo periodo, non
poteva essere modificato dalla politica monetaria fu confermata anche dall’esperienza, cioè dagli sviluppi economici di molti Paesi industriali, dove la
curva di Phillips aveva subito spostamenti verso combinazioni caratterizzate
sia da maggiore inflazione sia da maggiore disoccupazione.
Oggi, mentre c’è un ampio consenso sulla neutralità della moneta nel lungo
periodo, le opinioni sui suoi effetti di breve periodo rimangono controverse. La
scuola delle aspettative razionali va ancora più oltre e afferma che il pubblico si
aspetta che le azioni di politica economica rispondano agli sviluppi economici
in modo sistematico, così che alla fine solo le azioni puramente casuali (random)
possono avere un qualche effetto. A livello empirico, i dati e le ricerche disponibili non permettono di trarre conclusioni univoche, ma ci suggeriscono che, in
una certa misura, anche variazioni di politica monetaria sistematiche e attese
possono avere un impatto di breve periodo sui valori economici reali a causa
delle frizioni, dei costi di aggiustamento e dell’informazione incompleta.
L’inefficacia della politica monetaria nell’influenzare le variabili reali nel lungo periodo ha portato ad accettare una gerarchia di obiettivi per la politica monetaria. È opinione diffusa che non vi sia alternativa alcuna per le autorità di politica
economica se non quella di concentrarsi prevalentemente sull’obiettivo della bassa inflazione, vale a dire sul raggiungimento della stabilità dei prezzi, lasciando alle
altre politiche (politiche sul mercato del lavoro, politiche dell’offerta, politiche
fiscali) l’obiettivo di conseguire una minore disoccupazione. In effetti, anche il
modo di condurre la politica economica, mosse nello stesso arco di tempo da un
atteggiamento molto ambizioso a uno più ragionevole circa i risultati che si potevano ottenere attraverso il controllo dell’emissione di moneta. L’abbandono della
tesi secondo cui la politica monetaria avrebbe potuto (o dovuto) scegliere tra inflazione e disoccupazione aprì la strada a una «depoliticizzazione» delle funzioni
della banca centrale e, di conseguenza, a una maggior attenzione agli aspetti tecnici invece che politici del suo ruolo. Ciò a sua volta rese più facile il trasferimento
della sovranità monetaria dagli Stati membri a un’istituzione europea, cui si assegnava il compito di assicurare la stabilità dei prezzi.
I trentacinque anni tra Roma e Maastricht sono anche il periodo nel quale,
con il crollo del sistema di Bretton Woods, si spezzò l’ultimo legame tra moneta
e oro. Insieme alla fluttuazione generalizzata, ciò provocò una protratta inflazione nella maggior parte dei Paesi industrializzati. La Germania fu la principale eccezione, forse perché la drammatica esperienza dell’iperinflazione aveva
sradicato dalla mente delle persone l’illusione che più creazione di moneta portasse anche più felicità. La rottura del legame tra moneta e oro fu causata, e a sua
volta permise, un governo della moneta basato solo sulla volontà umana, piuttosto che dettata dalla natura, vale a dire dalla produzione delle miniere d’oro.
Infine, negli stessi anni, mutò anche l’ambiente istituzionale delle banche
centrali. Con poche eccezioni (tra cui la Bundesbank e il sistema americano
della Riserva federale), per la maggior parte della seconda metà del XX secolo,
le banche centrali avevano avuto un rapporto di dipendenza con il Tesoro; quelle che non erano state create come istituzioni statali (come la Banque de France
fondata da Napoleone nel 1800) erano state nazionalizzate nel XX secolo; quelle che avevano mantenuto la forma di una società per azioni (la Banca d’Italia, la
Banca nazionale del Belgio) di fatto avevano perso il carattere di istituzione
privata. Mentre i sovrani avevano sempre considerato il conio della moneta una
loro prerogativa, le banche centrali moderne sono emerse come nuovi «sovrani», incaricati di emettere moneta. La sequenza delle trasformazioni che investirono l’ambiente istituzionale delle banche centrali riflette un dibattito, vecchio
di duecento anni, sui principi che devono regolare un sano sistema monetario.
Con l’invenzione delle banconote alla fine del XVII secolo, il principale
problema relativo alla moneta cessò di essere la scarsità e diventò il rischio di
un’emissione troppo abbondante. I successivi passaggi della stampa di moneta
dal sovrano a un’istituzione privata, poi a un’istituzione pubblica, e infine a
un’istituzione indipendente riflettono il tentativo di proteggere la creazione di
moneta dall’influenza di coloro che possono avere un interesse a crearla per
finanziarsi senza costi. In un regime di moneta fiduciaria l’indipendenza della
banca centrale ha un significato preciso: chi stampa moneta non deve dipendere
da chi la spende, sia esso un’impresa privata o un’istituzione pubblica. Finché i
bilanci pubblici rimasero sostanzialmente in equilibrio, una banca centrale di
proprietà pubblica godeva di una maggiore protezione rispetto a una banca
privata; con l’affermarsi della spesa in disavanzo, la sfera pubblica divenne essa
stessa inaffidabile e l’indipendenza dovette essere costruita su basi diverse.
I tre fondamenti istituzionali dell’Uem sono il risultato di questa lunga
ricerca. In nessuno statuto di nessuna banca centrale essi sono definiti così
chiaramente come nel Trattato di Maastricht; essi sono: a) l’indicazione della
stabilità dei prezzi come obiettivo primario della politica monetaria; b) la garanzia di piena indipendenza della banca centrale; c) il carattere costituzionale
dello statuto della banca centrale e della moneta. Questi tre fondamenti sono
stati identificati dalla ricerca accademica e dall’esperienza di politica economica, hanno guadagnato il favore dell’opinione pubblica e, infine, sono stati
condivisi da una componente sempre più ampia dello schieramento politico.
Il Trattato di Maastricht rappresenta quindi la prima costituzione della moneta che sostituisce completamente nuove ancore alle vecchie. La stampa di moneta è stata svincolata dai riferimenti costituiti dall’oro e dal sovrano per essere
ancorata a un mandato costituzionale associato all’indipendenza istituzionale.
Un’evoluzione di questo tipo, naturalmente, sarebbe potuta accadere in un quadro diverso da quello dell’Ue. Tuttavia, non va dimenticato un fattore molto
importante che contribuì all’incontro del percorso europeo con quello monetario: infatti, un’entità come l’Unione europea, che non detiene i tradizionali poteri di uno Stato, poteva apparire ai governi nazionali come un’istituzione adatta a ricevere quel potere monetario che essi erano pronti ad abbandonare.
[Traduzione di Annalisa Pontieri]
note
Questo articolo riprende e rielabora parzialmente il primo capitolo di un volume che l’Autore ha in
preparazione.
1
Cfr. T. Padoa-Schioppa, Efficienza, stabilità ed equità, Bologna, Il Mulino, 1987.
Europa anno zero
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