Juan Ignacio BAÑARES - Pontificia Università della Santa Croce

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Juan Ignacio BAÑARES - Pontificia Università della Santa Croce
TESTO PROVVISORIO
Pontificia Università della Santa Croce - Facoltà di Diritto Canonico - XVI Convegno di studi
Roma, 26-27 aprile 2012
DISCREZIONE DI GIUDIZIO E CAPACITÀ DI ASSUMARE: LA FORMULAZIONE DEL CANONE 1095
Il senso della discrezione di giudizio secondo il canone 1095, 2º
REV. PROF. JUAN IGNACIO BAÑARES
Facultad de Derecho Canónico, Universidad de Navarra
SOMMARIO
1. Introduzione; 2. Una prospettiva antropologica; 3. Soggetto, oggetto e unità dell’atto del consenso; 4. Il bene
giuridico protetto; 5. La misura del difetto di discrezione di giudizio; 6. Conseguenze pratiche di questa interpretazione
del difetto grave di discrezione di giudizio; 7. Il ruolo dei giudici.
1. Introduzione
Sarebbe prassi comune, nonché dovuta cortesia accademica, iniziare il mio intervento
ringraziando gli organizzatori di questo evento scientifico, che sono stati così gentili da invitarmi a
dare un mio contributo su uno dei temi trattati. Ma un inizio del genere parrebbe eccessivo e
inadeguato. Inadeguato perché, nella mia situazione, ritengo che la gratitudine non sia un mero atto
di cortesia accademica ma qualcosa di più sostanziale. Pur esagerando con l’analogia, potremmo
affermare che la mia gratitudine odierna non proviene da una norma o da un’usanza introdotta dal
diritto positivo, ma sorge da un dovere di diritto naturale. Eccessivo perché in questa Università mi
sento come a casa mia. Non posso infatti dimenticare che l’inizio della mia attività di docenza e di
ricerca in Diritto Canonico nell’Università di Navarra ebbe luogo, e non per caso, quando
l’avventura di questa splendida realtà, che oggi è la Pontificia Università della Santa Croce, era agli
inizi. E ricordo con piacere gli splendidi momenti che ho trascorso in questi quasi 30 anni,
condividendo preoccupazioni e lavori – sia qui che nella mia Università di appartenenza – con i
professori e gli studenti di questa Facoltà.
Del resto, il tema dell’incapacità del consenso matrimoniale per cause di natura psichica è
sempre stato, per me come per tanti altri, una curiosa combinazione di novità, sfida e mistero. La
varietà di opinioni sulla dottrina e sulla prassi giudiziaria – spesso anche nel Tribunale della Rota
Romana –, la complessità delle questioni che vi sono implicate, la molteplicità dei casi e la
relazione con i fondamenti antropologici e psichici, mi hanno lasciato perplesso per parecchi anni.
La verità è che non riuscivo a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle, né ero soddisfatto dei
molteplici contributi che venivano offerti da molte e differenti prospettive.
Grazie a Dio, come dicevo all’inizio, qui mi sento a casa e mi sembra che questo sia il luogo
più adatto per fare alcune riflessioni che potrebbero essere recepite come semplici o addirittura
azzardate, ma che rispecchiano con veracità l’evoluzione personale sia del mio modo di intendere i
problemi posti dall’incapacità e sia dei valori di riferimento che mi aiutano a trovare soluzioni o,
almeno, spiegazioni. Occupiamoci ora del complesso tema del contenuto del canone 1095,2.
Poco più di 20 anni fa, nel 1990, ebbi l’opportunità di studiare le prime sentenze della
Giurisprudenza rotale sui punti 2 e 3 del canone 1095, nel tentativo di chiarire le differenze tra l’uno
e l’altro1. Tra le altre cose, la mia analisi giungeva alle seguenti conclusioni: 1) la maggior parte
delle sentenze si rifacevano alla discrezione di giudizio, mentre poche erano quelle che si riferivano
all’incapacità di 1095,3; 2) i vari ponenti erano molto concordi sul contenuto dell’in iure delle
sentenze riferite a 1095,2 ed esso sembrava assai più istituzionalizzato, mentre nelle cause riferite al
1095,3 si osservava generalmente una maggiore diversità di impostazioni e interpretazioni, nonché
1
Cfr. Breve síntesis sobre criterios de distinción entre falta de discreción de juicio e incapacidad de asumir, en las
sentencias recientes de la Rota Romana, Ius Canonicum 61 (1991) 253-263.
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meno sicurezza di esposizione; 3) quanto ai casi, era unanime l’attribuzione al punto 2 del canone
delle cause che vertevano sulla libertà interiore, e quasi unanime la riconduzione a questo
medesimo punto di quelle che avevano la propria origine nell’immaturità affettiva, esigendo in
entrambi i casi una prova inequivoca della lesione prodotta nel contraente; 4) i criteri di fondo per
giudicare sui casi che si rifacevano ai due punti erano unici e spesso intercambiabili.
Interpretando questi dati da una prospettiva attuale, ritengo che queste caratteristiche erano in
buona parte dovute alla tradizione legata al concetto giuridico di discrezione di giudizio, e anche
alla maggiore novità rappresentata allora dal canone 1095,3. Ma non credo siano solo questi i
motivi. Vi è anche una connessione con un importante fondamento antropologico.
2. Una prospettiva antropologica
In effetti, sembra che la multisecolare interpretazione della discrezione di giudizio rispettasse
delicatamente non solo l’unità dell’atto del consenso – che resisteva, per così dire, ai tentativi di
dissezionarlo o almeno spezzettarlo – ma anche, e soprattutto, l’unità della persona umana. Anche
se, certamente, la comprensione della vasta portata della ricchezza della persona e del dono di sé
coniugale era fondamentalmente più povera di quella attuale. Il concetto classico di discretio iudicii
in ambito matrimoniale era in relazione alla sufficienza del possesso di sé come uomo o come
donna ed era inteso come parte del processo di maturazione naturale della persona che giungeva a
termine con l’adolescenza: una felice congiunzione di spirito e corporeità. Per questo sono poco a
poco sempre più incline a identificare la discrezione di giudizio con la capacità di emettere il
consenso matrimoniale. Ma torniamo a considerare l’unità sostanziale della persona.
Nella convergenza e nell’integrazione di spirito e materia della persona umana, entrambi
questi elementi agiscono come principi di un solo e unico essere: la persona umana è tale proprio
perché è spirito e materia. Di conseguenza, la sessualità è radicata nel carattere corporeo dell’essere
umano, ma diviene umana attraverso l’unione di materia e spirito2. Nell’uomo non esiste una
sessualità che non sia personale, così come non può esistere una persona umana che non sia, nella
sua interezza, femminile o maschile: «il carattere costitutivamente personale del corpo umano
determina il senso costitutivamente personale della sessualità propria dell’uomo»3.
La sessualità costituisce pertanto una dimensione dell’intera persona umana ed è in questa
dimensione che risiede il principio di complementarietà. «In effetti, dire che ogni persona è
maschile o femminile e che tutta la persona è maschile o femminile vuol dire che la differenza nei
due modi di essere persona offre una peculiare ricchezza ontologica che non può essere altro che
complementare: siccome sono entrambe umane, sono diverse; ed essendo la persona un soggetto
radicalmente aperto alla comunicazione, alla socialità e all’amore personale, questa diversità deve
ugualmente palesarsi nella possibilità di relazione e amore interpersonale tra una persona umana
maschile e una persona umana femminile»4. In altri termini, nella persona umana sessuata la
diversità diviene complementarietà in quanto l’unità della persona la abbraccia interamente. La
complementarietà è un attributo esclusivamente umano perché fa parte della struttura stessa
dell’essere umano.
Quando Millán Puelles pone il problema della categoria metafisica della dimensione sessuata
della persona umana – della relazione tra sessualità ed essenza nell’essere umano –, la colloca
nell’ambito della logica dei predicati, nei termini di relazione possibile tra soggetto e predicato di
una proposizione. Seguendo la classificazione aristotelica, Millán Puelles identifica la sessualità
2
“Human sexuality is the sexuality of a human person and is hence personal in character. Sexuality has to do with our
bodiliness. Our bodies, however, are not impersonal instruments that are to be used by our persons; instead, they are
integral components of our being as persons.” (MAY – MCGINEY 3). W. E. MAY - MICHAEL J. MCGIVNEY, The
‘Beatifying Beginning’ of Human Existence, in Marriage and the Complementarity of Male and Female, 3
http://www.christendom-awake.org/pages/may/marrcomp.htm Version: 23rd November 2002 (publicado in:
Anthropotes: Rivista sulla persona e la famiglia, 8.1,1992, 41-60).
3
A. MILLÁN PUELLES, Persona humana y sexualidad, in Matrimonio. El matrimonio y su expresión canónica ante
el III Milenio, Actas del X Congreso Internacional de Derecho Canónico, Pamplona 2000, 9.
4
J. I. BAÑARES, Sexualidad humana, in Diccionario General de Derecho Canónico, (in stampa).
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umana come “idion” o “proprietà”, “ciò che non indica l’essenza di una cosa, ma è in essa e vi si
può attribuire in maniera convertibile”. Questa convertibilità del termine “persona sessuata” con il
termine “essere umano” manifesta l’unità di materia e spirito di cui abbiamo parlato prima.
Che la dimensione sessuata della persona risieda nella sua struttura ontologica significa che
essa si configura come sponsalità. Quest’ultima agisce come “potenza” rispetto alla possibile
donazione coniugale che solo la persona stessa può realizzare attraverso l’atto del consenso
matrimoniale: «il vincolo nasce certamente dal consenso, cioè da un atto della volontà dell’uomo e
della donna, tuttavia questo consenso attualizza una potenza che già esiste nella natura dell’uomo e
della donna»5. Questo vincolo giuridico, osserva Hervada, «li unisce in un’unità nelle nature.
Questa unità consiste nella partecipazione – giuridica, non ontologica – al dominio che ciascuno
possiede, in virtù dell’essere persona, sul proprio essere, una partecipazione limitata alla struttura
maschile e femminile [...] il matrimonio implica, per il vincolo giuridico, una compartecipazione e
una copossessione mutue della virilità e della femminilità»6.
Con questi brevi cenni di antropologia volevo soltanto sottolineare due dati circa l’essere
umano di esperienza comune e di profonda tradizione. In primo luogo, volevo ricordare il carattere
personale come fondamento dell’unità dell’essere umano – uomo o donna – per indicare che siffatta
unità si esprime anche nell’agire: non esiste infatti l’agire della persona da un lato, e l’agire
dell’essere sessuato dall’altro. È sempre la stessa persona – la persona stessa, uomo o donna – che
realizza ciascuno dei suoi atti. In secondo luogo, volevo sottolineare la normalità della dimensione
sponsale della persona maschile e femminile e della corrispondente inclinazione naturale tra uomo e
donna: non sembra che la necessaria libertà per far passare questa potenza all’atto (per costituire la
sponsalità come coniugalità) debba essere differente da altre forme di dominio di sé, o possa essere
e rimanere isolata da altre manifestazioni dell’agire umano nel compimento della sua vita ordinaria.
Più avanti torneremo su questo tema.
3. Soggetto, oggetto e unità dell’atto del consenso
Parlando di consenso matrimoniale e della capacità di compiere l’atto che lo esprime, è
comune riferirsi alla differenza tra l’atto soggettivo del consenso e l’oggetto di tale atto. Da questo
punto di vista, una cosa sarebbe la volontà del soggetto (il contraente) e altra sarebbe la sua capacità
nei confronti dell’oggetto del patto coniugale. Ritengo che questa distinzione abbia a che fare, per
lo meno frequentemente, con la differenza tra ciò che possiamo chiamare “carica” o “potenza” di un
atto del soggetto pieno in se stesso e l’incapacità della volontà di compiere o portare a termine
l’assunzione (non parliamo qui di compimento) dell’impegno desiderato.
Su questo aspetto concordo con l’opinione di H. Franceschi che in questa prospettiva intuisce
una certa decomposizione dell’unità dell’atto umano del consenso e un’eccessiva autonomia (se non
proprio una frattura) dell’unità della sfera psichica e di quella intellettivo-volitiva. Alla domanda
fondamentale «se si possa dire che esista un atto volontario quando il suo oggetto è radicalmente
impossibile», risponde seguendo san Tommaso d’Aquino ed Hervada che «il consenso
matrimoniale, per essere tale, deve essere non solo voluto (volitum) ma volontario, il che implica un
vero e proprio atto di volontà (voluntarium)», in modo che «quando si vuole l’impossibile non c’è
una scelta vera e propria della volontà, perché le incapacità che intaccano direttamente le altre
potenze sensibili hanno conseguenze anche sull’intelletto e la volontà»7.
Se ci ricordiamo che l’oggetto dell’atto del consenso consiste nel darsi e nel riceversi come
coniugi nell’ordine della dimensione sessuata e in ragione dei fini e delle tendenze naturalmente
inseriti nella relazione a cui la complementarietà è incline, e se partiamo da quei principi dell’unità
e della normalità della condizione sessuata della persona umana, sembra difficile comprendere che
possa esistere un aliquid diversum che, per così dire, consenta libertà al soggetto rispetto al suo atto
5
GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Tribunale della Rota Romana, 2001, 5.
Diálogos sobre el amor y el matrimonio, 4ª Pamplona 2007, 229.
7
H. FRANCESCHI, Consideraciones acerca de algunas cuestiones disputadas sobre el canon 1095, Ius Canonicum 51
(2011) 469.
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ma la impedisca rispetto all’assunzione dell’oggetto dell’atto stesso. Così facendo, si avallerebbe un
atto di libertà consensuale autonomo e isolato, diverso e distante dalla capacità del soggetto, come
se girasse a vuoto. Mi risulta difficile non vedere questa incapacità come qualcosa di estrinseco che,
in fin dei conti, si interporrebbe tra la persona e il suo atto. In realtà, a forza di separare soggetto e
oggetto forse stiamo finendo per elevare la capacità a vero oggetto del consenso: secondo me la
capacità è solo una facoltà del soggetto personale e, quindi, un’incapacità deve riguardare la
persona per intero (anche se non necessariamente in tutti gli ambiti).
A mio modo di vedere, la capacità (o l’incapacità) non ha per oggetto il “compiere un atto” –
come se fosse un qualcosa di esterno e di astratto – che poi abbia la forza di generare un vincolo.
Porre l’atto del consenso è la stessa cosa che consentire: e l’efficacia del consenso, in quanto atto,
non può essere impedita. Ritengo piuttosto che la capacità si dia tra il soggetto e il suo atto, che è
sempre un atto di possesso e di dominio di sé, del proprio io personale e, pertanto, sessuato. In caso
contrario, si rischierebbe di lacerare l’unità della persona umana in quanto si considererebbero in
maniera separata, come realtà autonome, la capacità di possedersi e la capacità di darsi.
Porre l’atto del consenso, cioè, significa sia possedersi che darsi, dato che è un atto della
volontà libera attraverso il quale il soggetto dispone del proprio essere e della propria biografia
personale. Se non sono capace di possedere me stesso, perché non sono libero di farlo, nemmeno
posso compiere un atto di volontà di donazione di me stesso. A questa forza generativa dell’atto del
consenso si riferiscono alcune parole di Benedetto XVI con cui indicava che la capacità deve
misurarsi «in relazione al volere efficace di ciascuno dei contraenti»8.
Poco fa dicevamo che la capacità si stabilisce tra il soggetto e il suo atto, come espressione di
sufficiente possesso di sé9. In tal senso, non ci sono dubbi che la mancanza grave di discrezione di
giudizio sia una forma di incapacità (insufficiente disponibilità di se stessi); personalmente, come
ho detto precedentemente, il dubbio che mi preoccupa è piuttosto se entrambi questi termini ed
entrambe queste realtà non siano convertibili. Mi è in effetti difficile pensare a qualcuno con un
grave difetto di discrezione di giudizio che goda di capacità matrimoniale. Ma mi risulta ancora più
difficile pensare a qualcuno che sia incapace, del quale possa però dirsi che non soffra di un grave
difetto di discrezione di giudizio. Anche su questo torneremo più avanti.
Ad ogni modo, il difetto grave di discrezione di giudizio ha luogo nella mancanza di
connessione tra il soggetto e il suo atto, che si esprime tanto nella disconnessione netta dell’origine
nel soggetto (imputabilità) quanto nella disconnessione nell’atto di causalità o forza che genera
l’effetto (efficienza).
Si potrebbe affermare che un minimo di conoscenza della sostanza del matrimonio è
presupposto dalla tradizione canonica e dal canone 1096 con una presunzione di sufficienza
semplicemente dovuta a cause naturali che si manifestano nella complementarietà tra la persona
maschile e la persona femminile. In modo analogo, si potrebbe anche dire che la discrezione di
giudizio della persona è quella di una persona “sponsale” e, quindi, con capacità critica e di
discernimento a proposito del dono sponsale di sé, sia nel matrimonio che nel celibato apostolico.
4. Il bene giuridico protetto
Conviene ora soffermarci a considerare il bene giuridico che si vuole proteggere stabilendo la
causa di nullità per mancanza di discrezione di giudizio. Da un lato si potrebbe considerare che la
norma irritante del grave difetto di discrezione di giudizio riconosce e rende positivo un contenuto
di diritto naturale in quanto difende l’altra parte contraente. Senza dubbio sembra essere una
prospettiva valida giacché chi accoglie l’altro come sposo lo accoglie come copossessore e
certamente non può ricevere il possesso di uno che non può darlo in quanto non possiede se stesso a
8
Discorso al Tribunale della Rota Romana, 29 gennaio 2009. Il corsivo è mio.
BIANCHI, Paolo G., Il difetto di discrezione di giudizio circa e diritti e doveri essenziali del matrimonio (can. 1095,
2º), in “L’incapacità di intendere e di valere nel diritto matrimoniale canonico (can. 1095 nn. 1-2)”, Città del Vaticano
(2000), pp. 126-7.
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sufficienza. Del resto, nemmeno questi può darsi come copossessore all’altro contraente in quanto
se non possiede se stesso nemmeno potrà essere copossessore del coniuge.
Dall’altro lato, tuttavia, mi sembra che il bene giuridico protetto sia qualcosa di più profondo
ed esteso. A mio modo di vedere, ciò che si protegge – anche come esigenza di diritto naturale – è
proprio la connessione tra la libertà del soggetto che contrae e l’atto del consenso che ha la forza
causale del vincolo. E questo bene non è solamente una forma di protezione per l’altro contraente,
ma anche una forma di protezione nei confronti del contraente che soffre questa incapacità perché,
se non è stato in grado di donarsi realmente e di ricevere l’altro, non ci sarà stato nessun vincolo
coniugale e l’anomalia che patisce renderebbe “anomala” la vita coniugale.
In terzo luogo, possiamo affermare che il grave difetto di discrezione di giudizio produce la
nullità anche per proteggere l’istituzione matrimoniale stessa – che presuppone e richiede almeno
una normalità sufficiente–, la famiglia fondata con il patto coniugale, la società civile che si fonda
sulla stabilità ordinaria della famiglia e delle relazioni parentali e la società ecclesiale che ha la
stessa base di quella civile e conta, inoltre, sul matrimonio e sulla famiglia per svolgere un proprio
compito peculiare in entrambe queste società.
Ci troviamo qui a un punto cruciale: al nocciolo della questione sul grave difetto di
discrezione di giudizio ( e per estensione di ogni incapacità). Ultimamente mi sono posto più volte
il problema della specificità dell’incapacità matrimoniale. Mi spiego meglio: ovviamente non dubito
dell’esistenza dell’incapacità matrimoniale e, in particolare, dell’esistenza del difetto grave di
discrezione di giudizio. Ciò che mi domando, piuttosto, è se possa esistere una vera incapacità
matrimoniale come tale, cioè che sia riferita unicamente alla dimensione sessuata della persona.
Si rende qui necessario tornare ai brevi cenni antropologici fatti all’inizio. Perché si afferma
che il grave difetto di discrezione di giudizio riguarda i diritti e i doveri essenziali del matrimonio?
Non sarebbe già sufficiente un grave difetto di discrezione di giudizio senza ulteriori specificazioni?
Esiste un grave difetto di discrezione di giudizio della persona umana – uomo o donna – che non
riguardi l’impegno dei diritti e dei doveri del matrimonio? O, al contrario, esiste un grave difetto di
discrezione di giudizio rispetto ai diritti e ai doveri essenziali del matrimonio che non riguardi in
maniera grave la persona in quanto tale, anche in altri ambiti?
E, traendo estreme conclusioni, si può affermare che esista una capacità specifica per il
matrimonio che riguardi solo la dimensione sponsale della persona? Dico subito chiaramente di sì.
Ritengo che esista una capacità specifica per il consenso matrimoniale. All’inizio ho parlato del
concetto classico della discrezione di giudizio applicata al processo di maturazione fisica e psichica
di ogni persona umana. Non è che non vi sia nulla di specifico per il matrimonio – o per la capacità
di matrimonio – ma forse non c’è nulla di specifico per l’incapacità di consenso, e per conoscere e
verificare questa capacità.
La capacità per il consenso matrimoniale ha la propria specificità in ciò che distingue il
matrimonio da tutto ciò che matrimonio non è. Ma non so se si possa dire che anche l’incapacità
necessiti di una sua specificità. Considerando i principi di “unità” e di “normalità” propri della
persona umana sessuata, ai quali ci stiamo riferendo in questa relazione, ho seri dubbi che possa
darsi una vera e propria incapacità – un vero difetto grave di discrezione di giudizio – che sia tale
solo per il patto coniugale e che non colpisca seriamente gli altri ambiti della vita di una persona
(anche se ovviamente non tutti). Ritengo che le cose stiano a questo modo proprio per la forza
strutturale della dimensione sessuata della persona umana: nella naturalità della sponsalità, cioè
nella potenzialità dell’essere e nella dinamicità della tendenza ad agire.
La sponsalità non può essere distinta – o meglio, separata – dalla persona, così come non può
essere separata dalla coniugalità, dalla persona sposata. In entrambi i casi si tratta di caratteristiche
dell’identità nell’essere, a loro volta legate alla storicità della persona, alle fasi di sviluppo di una
medesima dimensione strutturale. Ritengo che il significato sponsale del suo essere, con la sua
tendenza al dono di sé, sia una caratteristica talmente specifica della persona umana che, in realtà,
per contrarre matrimonio è sufficiente la libertà della persona nel dominio della propria intimità,
mentre invece, affinché esista un grave difetto di discrezione di giudizio, è per così dire necessario
che agisca una necessità di natura nel blocco del normale processo di sviluppo.
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Se l’oggetto dell’atto del consenso è realmente così vincolato alla persona umana, e se il
grave difetto di discrezione di giudizio si dà tra la persona e il suo atto fino al punto di provocare
una grave carenza di efficienza nella causalità, allora uno può legittimamente chiedersi se sia
necessario altro.
Potrebbe sembrare che il riferimento specifico ai diritti e ai doveri essenziali del matrimonio
serva a delimitare i fatti e a proteggere il matrimonio da interpretazioni arbitrarie della legge: come
se l’ambito della nullità fosse più ristretto. Se ogni grave difetto di discrezione di giudizio
nell’intima disposizione di se stessi rende incapaci al consenso matrimoniale – e ritengo che le cose
stiano proprio in questo modo – non sono allora necessarie ulteriori specificazioni: si tratta solo di
provare un difetto grave di discrezione di giudizio nella globalità (unità) della persona.
Personalmente ritengo che il fatto sarebbe più chiaro e più definito.
Al contrario, con la formula vigente riferita ai diritti e doveri coniugali non si riesce a
delimitare meglio l’ambito, ma piuttosto si dà luogo a un’interpretazione moltiplicativa e
disgregante del matrimonio e della persona nella sua sponsalità: come se potesse esistere un difetto
grave di discrezione di giudizio rispetto a ciascuno dei diritti e dei doveri matrimoniali. Se teniamo
presente, inoltre, che le opinioni e l’elenco stesso di tali diritti e doveri sono assai diversi, è palese
che invece di chiarire i fatti si produca l’effetto contrario.
Mi sembra, invece, che il difetto grave di discrezione di giudizio – come ogni incapacità –
esista solamente quando si lede seriamente il bene giuridico protetto: la relazione tra la libertà del
soggetto che contrae e l’atto del consenso che origina e causa il vincolo. E la libertà di cui ha
bisogno una persona normale – una libertà necessaria e sufficiente – è quella libertà che impegna
liberamente il futuro della propria intimità.
Chi non può impegnare la propria intimità in un serio compromesso rivolto al futuro è
evidente che manca dell’opportuna discrezione di giudizio. Chi invece è capace di impegnare il
proprio futuro in altri ambiti personali della propria intimità, sembra difficile che possa essere
incapace di celebrare il matrimonio per un difetto di discrezione di giudizio che sia sufficientemente
grave. E chi è così carente nella discrezione di giudizio da non essere capace di contrarre
matrimonio, dubito che non possa dirsi di lui che non sia gravemente limitato come persona, non
solo nella sua sponsalità: difficilmente vi può essere una vera libertà della persona come tale se essa
non possiede le facoltà sufficienti a esercitare un diritto fondamentale della persona e del fedele
quale è lo ius connubii.
Riassumendo, mi sembra che il significato sponsale della persona umana con la sua tendenza
al dono di sé sia talmente specifico che nella realtà la capacità matrimoniale equivale alla capacità
di impegnare seriamente e liberamente la propria intimità per il futuro. Al contrario, ritengo che non
esista una mancanza di capacità per un intimo impegno, libero e serio, per il futuro che non sia, a
sua volta, incapacità della persona e del matrimonio. La “misura” dei diritti e delle obbligazioni
serve da guida, da riferimento ma non è una parte intrinseca della capacità del soggetto. In tal senso,
mi ha fatto molto piacere leggere un testo dell’attuale Decano della Rota Romana in cui indicava
che «la giurisprudenza rotale recente sembra insistere di più sull’accertamento della disfunzione
delle facoltà psichiche, intellettive e volitive, impegnate nella formazione del consenso, che sui
singoli diritti e doveri matrimoniali essenziali»10.
Il significato sponsale della persona e la sua capacità giuridica di azione per esplicitarlo nella
propria esistenza reale non possono essere distinte né separate dalla capacità – simpliciter – della
persona rispetto alla propria intimità. Il riferimento agli obblighi e ai diritti del matrimonio
(all’oggetto dell’atto del consenso) serve a dare l’idea che l’atto del consenso esige un possesso
della propria intimità sufficiente ad assumere uno stato di vita, un impegno personale stabile per il
futuro come se fosse un debito. Questi elementi che compongono l’oggetto, però, non devono mai
essere “sostanzializzati”, convertendo ciascuno di essi in una piccola incapacità autonoma. Non
possiamo dimenticare che il soggetto del consenso non è la capacità ma è sempre e comunque la
10
STANKIEWICZ, Antoni, Il contributo della giurisprudenza rotale al Defectus usus rationi et discretionis iudicii: Gli
ultimi sviluppi e le prospettive nuove, in “L’incapacità di intendere e di valere nel diritto matrimoniale canonico (can.
1095 nn. 1-2)”, cit., p. 293.
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persona (capace), anche se ciò non esclude che il riferimento ai diritti e agli obblighi coniugali offra
uno dei modi possibili per conoscere l’incapacità per il matrimonio.
5. La misura del difetto di discrezione di giudizio
Se diciamo che il riferimento ai diritti e agli obblighi del matrimonio è conveniente solo come
guida o riferimento, quale sarà allora la misura adeguata per il difetto grave di discrezione di
giudizio? Per questo aspetto dobbiamo ritornare sul bene giuridico che si vuole proteggere, cioè
sulla relazione tra la libertà del contraente e l’atto del consenso che origina e causa il vincolo.
Positivamente, come abbiamo visto, è richiesto un sufficiente possesso di se stessi come
persona, in prospettiva dell’impegno della propria intimità in futuro, poiché il dono di sé si può
realizzare solamente stabilendo un titolo giuridico nella copossessione del proprio essere personale,
maschile e femminile. Negativamente, solo una carenza del possesso della propria intimità può
impedire l’esercizio della causalità vincolante dell’atto del consenso. Questa carenza implica
certamente un’anomalia e, sicuramente, si tratta di un’anomalia di carattere psichico. Di
conseguenza, sembra che il criterio di misura debba essere l’effetto dell’anomalia, cioè una seria
lesione della libertà, colpita proprio nella capacità di intendere o di volere un impegno della propria
intimità personale nel tempo.
Rispetto all’intelletto va ricordato il consolidato criterio della giurisprudenza di riferire la
lesione a una conoscenza critica o estimativa – non solo teorica – dell’intelletto pratico, che va ben
oltre l’apprensione necessaria per giungere al raziocinio o alla ponderazione, in quanto si tratta di
un dono e di un’accettazione tra persone11. Rispetto alla volontà si tratterebbe, in fin dei conti, di
una lesione della libertà in quanto essa si muove in maniera incoercibile12.
In sostanza, ritengo che come misura sia sufficiente quella indicata da Giovanni Paolo II nel
noto Discorso alla Rota Romana del 1987, citato nuovamente dal Papa attuale nel suo Discorso del
2009 presso lo stesso foro: «Una vera incapacità è ipotizzabile solo in presenza di una seria forma
di anomalia che, comunque si voglia definire, deve intaccare sostanzialmente le capacità di
intendere e/o di volere del contraente»13. La misura di questa lesione, a sua volta, verrà indicata
dalla sua indeclinabilità, cioè dal carattere determinante del disturbo, dalla sua insuperabilità da
parte del soggetto, che ha provocato quella disconnessione tra contraente e atto di disposizione di se
stessi, di cui abbiamo già parlato.
6. Conseguenze pratiche di questa interpretazione del difetto grave di discrezione di giudizio
La prima conseguenza è quella di concentrare la prova del difetto grave di discrezione di
giudizio sulla lesione sostanziale della libertà nella persona del contraente rispetto alla disposizione
del suo io intimo che ne compromette il futuro, senza necessità di ricorrere esplicitamente agli
obblighi essenziali del matrimonio. Si tratterebbe di mostrare l’indeclinabilità del disturbo non tanto
sul piano dei fatti ma su quello del contraente, quanto alla padronanza suoi propri atti.
In tal modo, si potrà evitare il rischio di considerare l’atto del consenso come qualcosa di
astratto, autonomo, isolato dalla realtà e dalla vita abituale della persona, che avrebbe perciò
bisogno di una capacità di esigenza particolare e, anch’essa, isolata e autonoma. In questo senso,
nelle prove – e soprattutto nelle perizie – si dovrebbe considerare il modo in cui l’anomalia avrebbe
disturbato le facoltà del soggetto al momento del patto coniugale. Di fatto, l’art. 209 dell’Istruzione
Dignitas Connubii stabilisce che nelle cause vertenti sul canone 1095 non si ometta di indagare, a
11
Per un’analisi precisa delle tendenze della giurisprudenza rotale sugli elementi intellettivi e/o volitivi che
compongono l’accezione negativa e positiva della discrezione di giudizio, si veda STANKIEWICZ, Antoni, Il
contributo della giurisprudenza rotale al Defectus usus rationi et discretionis iudicii: Gli ultimi sviluppi e le prospettive
nuove. In “L’incapacità di intendere e di valere nel diritto matrimoniale canonico (can. 1095 nn. 1-2)”, cit., pp. 287-289.
12
Normalmente il difetto grave di discrezione di giudizio procederà da una causa psichica stabile. Ma può anche darsi
un disturbo psichico contingente che leda il soggetto in actu, per cause particolari: in ogni caso, ciò che va sempre
dimostrato è questa indeclinabilità, o determinazione, della volontà.
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GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Tribunale della Rota Romana, 5 febbraio 1987, n. 7.
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proposito del disturbo psichico, «quale era la sua gravità, quando, per quale motivo e in quali
circostanze si è originato e manifestato». E, in maniera particolare proprio rispetto al grave difetto
di giudizio, l'istruzione intima di domandare al perito «quale effetto ha prodotto l’anomalia sulla
facoltà di discernimento e di scelta nel prendere decisioni importanti e, in particolare, nella libera
scelta di uno stato di vita».
Si potrà, conseguentemente, anche facilitare il lavoro dei periti e il loro rigore facendo
domande sulla lesione della libertà e sui suoi possibili effetti nei diversi ambiti dell’agire umano, in
modo che sia palese l’unità intera della persona, specialmente si indagherà sugli effetti che si
riferiscono a impegni riguardanti la propria intimità. In tal modo si eviterebbe ancora più facilmente
il rischio che il perito esponga delle opinioni o giudizi diretti sulla capacità del contraente per il
matrimonio, che spettano solo al giudice.
Verrebbe rivalutato il vetitum, sia nel momento di stabilirlo sia quando cessa la sua vigenza.
Per il giudice sarebbe più facile percepire cosa comporta la gravità di un’anomalia che
impedisce l’esercizio del diritto fondamentale al matrimonio, se egli considerasse che essa deve
senza dubbio palesarsi e colpire anche altri aspetti della vita personale di chi la soffre. Forse su
questo aspetto patiamo le conseguenze della mancanza, nei tribunali della Chiesa, di cause non
matrimoniali che riguardino la capacità generale di agire dell’essere umano: in ambito patrimoniale,
penale, ecc.
Il difetto di libertà interna sarebbe accolto e riassunto più chiaramente nel contenuto del
difetto grave di discrezione di giudizio, perché le fattispecie si contemplano a partire dall’effetto
dell’anomalia nelle facoltà del contraente.
L’immaturità come concetto equivoco o ambiguo non avrebbe più senso: nella sua accezione
strettamente psicologica si mostra irrilevante come capo di nullità. Nella sua accezione strettamente
giuridica si identificherebbe con il concetto consolidato di discrezione di giudizio.
Comprendendo il difetto grave di discrezione di giudizio nel modo ora indicato, senza dubbio
le fattispecie che attualmente vengono considerate attraverso il canone 1095,3, potrebbero
collocarsi nel secondo punto del canone. Se il n. 3 del canone 1095 dovesse scomparire, forse si
eviterebbero non poche erplessità e alcuni abusi.
7. Il ruolo dei giudici
Su questo tema il ruolo della giurisprudenza della Rota Romana sembra che proseguirà a
essere fondamentale così come lo è stato finora. Dobbiamo tenere presente che, in fondo, forse il
problema principale non è tanto nelle “parole” della norma giuridica, cioè nell’azione del
legislatore, quanto nel modo in cui esse sono interpretate e applicate. Si può pensare che
converrebbe cambiare il testo del canone, perché sotto lo stesso testo – quello attualmente vigente –
ricadono applicazioni diverse e quasi opposte tra loro. Ma questo, quando avviene, potrebbe anche
essere perché chi ha il compito di interpretare e applicare la legge lo fa da presupposti antropologici
diversi e forse non tanto rispettosi dei principi di un’antropologia autentica e, per questo,
pienamente compatibile con la fede.
Spesso sembra che la causa delle differenze a cui assistiamo nei processi sul difetto grave di
discrezione di giudizio (e, in generale, su qualsiasi tipo di incapacità per cause di natura psichica)
risieda nel concetto che i periti e/o gli stessi giudici hanno della persona umana e della sua
dimensione sessuata, della capacità della libertà umana in particolare di creare vincoli stabili, della
natura stessa del matrimonio in fieri e in facto esse, con le sue proprietà e i suoi fini. Ovviamente
influisce anche il valore che si attribuisce alla realtà soprannaturale in relazione alla libertà
dell’essere umano e, in particolare, al valore che si dà alle ferite inferte dal peccato (originale e
personale) e alla forza della grazia e del sacramento del matrimonio.
In tal senso, probabilmente il miglior modo di centrare bene il tema senza cadere in schemi
rigidi e formalisti né in atteggiamenti pseudopastorali continua a essere la formazione – o, meglio
ancora, la formazione continua – di coloro che lavorano nei tribunali come operatori di giustizia, dei
periti e degli avvocati che vi collaborano stabilmente. Con questa formazione, previa
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TESTO PROVVISORIO
all’inserimento nel lavoro e continuativa nel futuro della loro professione, si possono evitare non
pochi errori.
Ad ogni modo, sottolineo di nuovo che il ruolo della Rota Romana deve essere fondamentale
su questo tema. È chiaro che la sua funzione principale come Tribunale Supremo della Chiesa
consista nel facilitare l’unità delle sentenze dei tribunali inferiori attraverso l’unità dei criteri
impiegati nelle decisioni della Rota Romana stessa. Certamente questo non esclude le prospettive
differenti e i diversi modi di affrontare i casi particolari che ogni Giudice rotale ha, ma mostrerebbe
comunque a tutti che, al di là delle personali differenze di stile, di vocabolario e di procedura,
esistono delle correlazioni comuni radicate tra ogni capo di nullità e la realtà antropologica della
persona maschile e femminile. Anzi, cosi si sottolineerebbe sempre più adeguatamente che è da
questa realtà previa della persona che sorge la dimensione giuridica della sponsalità e della
coniugalità umana.
Infine, mi sembra opportuno sottolineare due ovvie realtà che pongono nei giusti limiti il
difetto grave di discrezione di giudizio per quanto si riferisce alla funzione propria dei giudici. In
primo luogo, la giustizia si dà sempre in casu, cioè nella considerazione globale della fattispecie in
tutte le loro circostanze e della persona nella sua vita e nei suoi condizionamenti. In secondo luogo,
la determinazione della libertà di una persona in un momento della sua vita per emettere un atto di
consenso deve tenere anche presente il grado di lesione che un particolare disturbo o un’anomalia
possono produrre e la certezza a cui conducono le prove e gli indizi che vengono alla luce durante
l’istruzione della causa.
Questo lavoro non è né facile né esatto, ma nemmeno è impossibile. Con estrema precisione
Bianchi segnala: «È chiaro che – da un punto di vista giuridico – una persona non può essere
contemporaneamente libera o non libera nel porre il proprio atto di consenso, anzi potrà essere solo
in una delle due condizioni indicate: tuttavia, sul piano del fatto, le due condizioni soggettive non
esistono perfettamente isolate e per così dire allo stato puro (ossia di libertà o di mancanza di libertà
al cento per cento), ma come e per così dire progressivamente distanziantisi da quel discrimine che
le separa e che è compito dell’accertamento giudiziario identificare»14. Del resto, è sempre
necessario tenere presente la presunzione di validità del vincolo già costituito: il giudice è obbligato
a impegnarsi a ottenere la certezza giuridica necessaria, ma non è obbligato – e non si vede come
possa esserlo – a giungere sempre a questa situazione di certezza.
Siamo giunti alla fine del nostro intervento. Rivedendo quanto ho esposto sono consapevole
che, nel mio sforzo di rendermi comprensibile, mi è mancato tempo per trattare alcune delle
questioni più abituali che sono oggetto di dibattito nella dottrina canonica e nei tribunali. Ne chiedo
scusa ma non sono sicuro di esserne sinceramente pentito. Esponendo le mie riflessioni in questa
relazione ho realizzato un mio antico desiderio, facendo una cosa di cui sentivo personalmente il
dovere e mi sono liberato di un peso, che ora posso condividere con tutti voi e soprattutto con chi
ora prenderà la parola. Grazie della vostra attenzione!
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TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA, coram HUBER, Josef ‘Int. Malaesiae Paeninsulanae
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Necessità o meno della perizia. Sentenza definitiva, 22 maggio 2002, (con nota di ERRÁZURIZ
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TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA, coram STANKIEWICZ, Antoni, Rapoten, Nullità del
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pp. 107-147.
TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA, coram STANKIEWICZ, Antoni, Tolatana in America,
Nullità del matrimonio. Discrezione di giudizio, Sentenza definitiva, 26 giugno 2003, (con nota di
CORSI, Gina Maria), Ius Ecclesiae 18, 3 (2006) 669-701.
TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA, coram BOTTONE, Angelo Bruno, Reg. Calabri seu
Cosentina-Bisianianen), Nullità del matrimonio. Discrezione di giudizio, Sentenza definitiva, 6
ottobre 2005, Ius Ecclesiae 18, 3 (2006) 702- .
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