Breve premessa storica - Centro per gli Studi Criminologici

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Breve premessa storica - Centro per gli Studi Criminologici
LUCI E OMBRE DELLA L. 354/75: SISTEMA PENITENZIARIO E FATTI DI CRONACA
cura della Dr.ss Vitalba Surico
Dottore in Giurisprudenza - Criminologo
Breve premessa storica
Nell’analisi panoramica della criminalità e della sua punibilità, è lapalissiano come ogni epoca storica ha
tentato di difendersi da tutto ciò che poteva compromettere la stabilità sociale, il più delle volte ricorrendo
anche a mezzi di “fortuna” ma che apparivano, in quel momento, i più opportuni.
In epoca medievale, per esempio, la punizione del reo era intesa come supplizio e aveva un carattere
drammaticamente punitivo e privatistico. Difatti, tutto il sistema giurisdizionale dell’epoca si basava sulla
legge del taglione, privando pertanto il reo di quei beni riconosciuti dalla comunità come valori sociali (la
vita, l'integrità fisica e il denaro). In seguito, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, si diffondeva
l'idea illuministica del "libero arbitrio nell'agire umano".
La pena iniziava così ad assumere un valore retributivo ed era comminata proporzionalmente alla gravità del
reato indipendentemente dall'appartenenza del colpevole a particolari classi sociali (concetto di "pena
giusta").
La detenzione in carcere diventava così la forma primaria di punizione (e un tipico esempio fu la figura
architettonica del Panopticon ¹ espressa da Bentham). Particolarmente indicativo era stato il contributo
dell’illuminista lombardo Cesare Beccaria, che nella sua opera “Dei delitti e delle pene” del 1764, criticava
fortemente qualsiasi pratica “disumana” poiché non garantiva l’emergere della verità, giacché davanti al
dolore fisico chiunque sarebbe stato disposto a confessare un delitto.
Invece, con l'avvento della Scuola Positiva di diritto penale (sec. XIX), veniva messo in discussione il
principio del "libero arbitrio" d’impronta illuministica e si cominciavano ad attribuire le cause del
comportamento antisociale sia ad anomalie della persona, sia alle condizioni ambientali e sociali nelle quali
la persona stessa era vissuta. Significative in Italia furono le opere di Ferri, Garofalo e Lombroso.
Quest'ultimo, con l'introduzione della teoria dell'"atavismo" e della categoria del "delinquente nato",
individuava negli aspetti fisici ed esteriori (fronte bassa, naso storto, sopracciglia folte...), nelle
caratteristiche psicologiche e comportamentali (indifferenza nei confronti della morte, inclinazione al
tatuaggio, mancanza di religiosità e di senso morale...), nelle anomalie cerebrali (epilessia, malattie
cerebrali...), quelle variabili personali che "predestinano" l'essere umano a delinquere. Le teorie della Scuola
Positiva favorirono anche la nascita delle prime scuole criminologiche. Diversamente, con l’avvento del
fascismo si iniziava ad avere, una netta involuzione sul piano del trattamento carcerario a tal punto che la
pena di morte, abolita nell’età giolittiana, veniva reintrodotta in quanto esigenza di politica economicosociale. In pieno regime autoritario, entrava in vigore il codice penale Rocco del 1930 che introduceva per la
prima volta le sanzioni sostitutive delle pene detentive e il principio della "rieducazione" del condannato.
Ma è solo con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 che l’idea della rieducazione diventava così
norma costituzionale (art. 27 Cost. 3 comma).²
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------¹ Il principio del Panopticon si può così riassumere: una costruzione ad anello, suddivisa in celle, con al
centro una torre composta da finestre che si aprono sulla facciata interna dell'anello. Ogni singola cella ha
due finestre: una verso l'interno e l'altra verso l'esterno. In questo modo, il sorvegliante nella torre centrale,
può
osservare
ogni
minimo
movimento
del
detenuto
senza
essere
visto.
² “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”.
Il trattamento rieducativo del reo
Nel corso del Congresso Internazionale di Criminologia a Roma nel 1938, emerse la necessità di studiare la
personalità del reo attraverso centri d’osservazione dei detenuti e fu rimarcata la necessità di una
preparazione non solo giuridica ma anche criminologica del giudice penale e di affiancare dei tecnici al
giudice di sorveglianza.
Era pertanto necessario individuare le cause del comportamento deviante e definire le regole di trattamento
più idonee per il suo pieno recupero. L’osservazione della persona, in primis, deve essere “scientifica”: è
possibile pertanto il ricorso a strumenti psico-diagnostici (test, questionari…) e colloqui clinici, diretta ad
accertare tutti i fattori fisio-psichici, culturali, affettivi e sociali che hanno pregiudicato l’instaurazione di una
normale vita sociale e al fine di individuare i bisogni del soggetto e la sua attuale disponibilità ad usufruire
degli interventi del trattamento.
La formula “trattamento rieducativo” è destinata solo ai detenuti condannati, destinatari di interventi diretti
alla loro rieducazione, invece il trattamento penitenziario è riferito a qualsiasi tipo di detenuto, a prescindere
dal loro status e definisce il quadro delle regole e dei modi secondo i quali si svolge la vita dei detenuti. Ciò è
ribadito anche nell’art. 1 dell’O.P. che oggi, può essere letto come un “manifesto” della filosofia politica
complessiva cui s’ispira l’intera legge ³ e la sua assoluta imparzialità, richiama il principio costituzionale
dell’eguaglianza, evidenziando in tal modo l’assenza di “discriminazioni” arbitrarie nell’ambito del
trattamento. Il programma del trattamento individualistico s’incentra su tre aspetti importanti:
1) la comprensione del vissuto del soggetto;
2) la sua percezione a proposito della sua situazione attuale e alla comprensione delle intenzioni;
3) la disponibilità ad accettare le offerte del sistema penitenziario.
Con la l. del ‘75, il detenuto acquista per la prima volta una propria soggettività, sostanziale, poiché titolare
di diritti ed aspettative; formale, perché legittimato all’agire giuridico, almeno riguardo a determinate
posizioni, proprio nella qualità di detenuto. La detenzione, pertanto, non è intesa più come privazione della
libertà fisica bensì come coacervo di regole e strumenti di trattamento con cui il soggetto può essere
rieducato. Tuttavia, nella prospettiva della risocializzazione il reo viene quasi deresponsabilizzato; si rischia
di non reputarlo più un trasgressore della legge (come, in effetti, si dovrebbe intendere), ma a tutti gli effetti
viene assimilato ad un malato, un malato afflitto da un grave male. Per vincere la crisi del concetto di
rieducazione, Baratta propone una nuova definizione del concetto di risocializzazione, intesa come un
insieme di diritti del detenuto e come un obbligo da parte dello Stato di prestare i servizi richiesti. Egli evita,
dunque, sia la soluzione idealistica, che attribuisce al carcere una funzione rieducativa, sia la soluzione
cinica, secondo cui l’idea di rieducazione è da abbandonare (in quanto non si sono riscontrati esiti positivi) e
da sostituire con quella della deterrenza (racchiusa nel concetto di punizione). Appare quindi evidente la
necessità di creare una maggiore osmosi tra il carcere e società civile, in cui entrambi dovrebbero essere resi
corresponsabili di un’interazione positiva di reciproco scambio e riconoscimento.
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------³ “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità
della persona”.
Carcere e società a confronto
Oggi i media dedicano molto spazio a quelle informazioni concernenti fatti delittuosi e di tutte le vicende che
ne conseguono. In particolare, negli ultimi anni, sta riaffiorando un notevole interesse (quasi ai limiti della
morbosità) nei confronti della normativa dell’Ordinamento Penitenziario. L’opinione pubblica odierna trova
terreno fertile su tutte quelle problematiche relative la recidiva del reo, la permissività offerta e la liberazione
“facile”. Su questo humus fatto di polemica, di scontro e allarme sociale, i media trovano materia alquanto
invitante, «attivandosi in crociate e guerre senza limiti, nella finora vana speranza di trovar soluzioni di breve
o medio raggio» . Vi è quindi un forte richiamo ad una giustizia di tipo retribuzionistica, ma anche ad un
ritorno alla tranquillità interiore e perciò connessa alla sicurezza di una sentenza che sia definitiva e certa.
Per meglio comprendere ciò, è necessario analizzare e confrontare le caratteristiche dell’informazione della
stampa quotidiana italiana, in merito a tematiche concernenti l’esecuzione della pena, le misure premiali e la
loro applicazione. Tale lavoro si basa soprattutto sui dati forniti da tre quotidiani nazionali: il “Corriere della
Sera”, “La Repubblica”, “Il Giornale”. La scelta è orientata nel senso di preferire tre diverse testate, che per
la loro estesa diffusione in tutto il territorio nazionale, costituiscono una rilevante cassa di risonanza
sull’opinione pubblica nazionale. Inoltre, la loro diversa impostazione ideologica e storica, ci fornisce
un’equilibrata e obiettiva visione della realtà. Introducendo un’analisi comparativistica e critica tra le
principali linee di tendenza espresse dai giornali al centro della mia ricerca, si nota che gli anni
dell’introduzione dell’Ordinamento Penitenziario, hanno coinciso con un discreto interesse de “Il Corriere
della Sera” e de “La Repubblica”, riservandovi uno spazio esteso alla nuova prospettiva del trattamento
penale; nel 1990 tale argomento susciterà, all’improvviso, anche l’interesse de “Il Giornale”, dopo anni
d’indifferenza (questa dovuta probabilmente ad una precisa scelta redazionale, guidata da motivi ideologici,
politici o semplicemente di audience). Le tre testate utilizzavano, tuttavia, con riferimento alle misure
premiali, definizioni inesatte e pregiudiziali, quali “vacanze” o “ferie”.
D’altronde, questo linguaggio era maggiormente in grado di far “presa” sull’attenzione di chi leggeva il
testo, agevolando processi di regressione e di forti critiche nei confronti di chi trasgrediva. Tutte le tre
testate, rilevavano il fallimento delle misure; pertanto, le valutazioni generali circa l’utilità del trattamento in
carcere, apparivano fortemente ostili. Le proposte più “gettonate” sono state quelle facenti leva sulla
necessità d’inasprimento delle pene, proponendo ulteriori posizioni rigorose e dure, senza possibilità di
mediazione. Riguardo invece le opinioni espresse dalla gente riguardo ai protagonisti di tali fatti delittuosi e
così riportati dai quotidiani in questione, si adottavano le seguenti chiavi di lettura:
• soggetti meritevoli;
• soggetti criminali – delinquenti;
• recidivi;
• approfittatori;
• indegni di fiducia;
• irrecuperabili.
Riguardo all’approccio della collettività con l’operato dei magistrati, si riportano i seguenti giudizi:
• giudici utili;
• giudici inutili;
• giudici che decarcerizzano invece che mandare in prigione;
• giudici anomali;
• giudici che sbagliano
Sul tema della criminalità, l’informazione fornita dai giornali sin d’ora esaminati, dà una netta prevalenza
dell’accentuazione negativa, coinvolgendo di conseguenza l’intera visione riabilitativa e risocializzativa della
pena. I dati statistici ufficiali, invece, esprimono una situazione paradossalmente opposta a quella che è
proposta dai giornali. La natura riabilitativa della pena, l’elevato allarme sociale, sono tutte questioni di
elevato interesse sociale, con importanti ricadute nel senso di fiducia e di sicurezza e che richiederebbero
maggiore chiarezza, oltre che un approccio più rigoroso, critico e razionale e ciò al fine di indurre ad una
maggiore conoscenza dei fatti attinenti alla criminalità e all’esecuzione della pena, favorendo la capacità di
formulare giudizi più distaccati e meno infarciti di pregiudizi e di stereotipi.
Un caso esemplare:"il Mostro del Circeo"
Tralasciando la cronistoria di Angelo Izzo, è fondamentale soffermarci sulla sua forte indole persuasiva e sul
grave errore giudiziario che si commise all’epoca nel definirlo un soggetto “riabilitato”. In seguito
all’omicidio di Maria Carmela Linciano e di sua figlia Valentina Maiorano, le reazioni suscitate sui media e
in generale sull’opinione pubblica sono state notevoli e in particolare perché fu risollevato il solito polverone
concernente l’efficacia delle misure alternative alla detenzione; problematica, questa, sempre affrontata in
ambito giudiziario. Difatti il problema delle misure alternative non riguardava più la loro utilità, ma si
fondava sul presupposto che non dovevano essere concesse a soggetti psicopatici e con forti tendenze
manipolative, anche perché questi soggetti non erano aiutati in modo approfondito e adeguato in carcere.
La personalità di Izzo è molto immatura, caratterizzata da sadismo e inferiorità sessuale che sono poi gli
aspetti tipici di un perfetto serial killer. Sicuramente uno dei maggiori errori da rimproverare al sistema
giudiziario è stato quello di permettere di “eroicizzare” la posizione da pentito di Izzo, attribuendoli
addirittura un ruolo importante, quale di operatore sociale, alimentando il suo grande egocentrismo e il suo
desiderio di controllare le persone.
La tristissima vicenda criminale di cui è protagonista Angelo Izzo pone interrogativi inquietanti. L’analogia
tra due delitti, eseguiti a trent’anni di distanza l’uno dall’altro, spiazza e mette in crisi la storia.
Come nella migliore commedia napoletana, il briccone può simulare la pazzia per sottrarsi alla punizione; il
reo può ostentare pentimento per usufruire i vantaggi e il condannato può inventare diversi escamotage per
allontanare le conseguenze delle sue azioni. Da un esame attento del caso Izzo, emerge anche la
problematica riguardante la reiterazione del delitto. Ciò mette nuovamente in crisi la funzione rieducativa
della pena che è la base del moderno ordinamento giudiziario; ma le pene non possono essere pensate solo in
chiave repressiva, ma primariamente in chiave rieducativa. Tuttavia, le bestialità compiute da Izzo non
devono fermare il processo di civilizzazione dei processi carcerari; non si deve accettare il concetto
d’irrecuperabilità o in ogni caso non si devono fermare i processi di formazione che urgentemente si devono
percorrere. Il caso Izzo, pertanto, deve essere trascurato poiché centinaia di detenuti, diversamente, riescono
ad aiutare chi è in difficoltà e a svolgere lavori sociali. Non solo: quanto più grave è il reato commesso, tanto
più la maggior parte di condannati avverte il bisogno di dare un significato alla propria vita lavorando in
funzione degli altri, nel tentativo di colmare il proprio dolore e con la volontà di risarcire in qualche modo le
persone alle quali si è arrecato un danno. Reazioni identiche al caso Izzo sono sorte in seguito alla
concessione dell’indulto, facendo riaffiorare, quindi, vecchi interrogativi.
Diversi fatti di cronaca nera hanno suscitato varie riflessioni quale l’inconsistenza dell’apparato repressivo
italiano, vittima spesso del lassismo penale e del garantismo indiscriminato. Pur tuttavia, con l’indulto si è
risolto un problema grande e rilevante del carcere italiano, ossia il sovraffollamento.
Difatti, garantire la vivibilità all’interno di un penitenziario, significa garantire la dignità del detenuto.
Conclusioni
Nonostante l’esistenza di un ampio quadro legislativo a favore del recupero delle persone detenute, il carcere
rappresenta molto spesso lo spegnitoio che soffoca la fiamma della speranza insita in ogni uomo. Il
riconoscimento del valore della dignità umana del carcerato è il primo passo verso percorsi altamente e
fondatamente educativi. Finché il recluso continuerà ad essere considerato mero destinatario di un intervento
giuridico e non soggetto capace di scelte responsabili, la detenzione difficilmente potrà rappresentare
l’esperienza educativa che rinvigorisce e alimenta la speranza assopita del detenuto. Un carcere che umilia e
schiaccia l’uomo senza preoccuparsi del recupero della persona, di certo non contribuisce a risolvere il
problema della criminalità. Al contrario esso concorre a generare una delinquenza ancora più agguerrita.
Quindi, la pena non deve essere concepita come un male da contrapporre ad un altro male, bensì come un
processo
positivo
di
risanamento
del
rapporto
personale
e
sociale
spezzato.
Pertanto, solo una sanzione che stimoli l’uomo alla costruzione di un futuro responsabile attraverso un
dialogo costruttivo, può assegnare alla punizione una funzione autenticamente pedagogica. L’apertura verso
percorsi alternativi non è un’utopia irrealizzabile. Il detenuto Jack Mapanje formulò un pensiero indicativo a
riguardo: «Sopravvivere al carcere è un’arte…una volta che si è carcerati, si è carcerati per sempre; una volta
che si è esuli si è esuli per sempre» .
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