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Sommario ragionato
di Elisabetta Longari
Questo numero di Academy, come è nostra vocazione
dalla nascita, fa il punto su alcune problematiche legate
alla gestione delle Belle Arti in Italia, soprattutto, com’è
ovvio, relative alla Pubblica Istruzione, ma non solo. Il
paese che è stato premiato con l’Oscar a Sorrentino per
la Grande Bellezza sembra ormai purtroppo sclerotizzato
nelle sue patologie, e si direbbe quasi compiaciuto del
proprio stesso degrado. Eppure le risorse creative
interne al paese sono molte, basterebbe davvero riuscire
a valorizzarle, incanalarle, coagularle intorno a progetti
sani, ma forse il marcio che prevale prevarrà sempre
e continuiamo a raccontarci delle favole belle per non
morire. Evviva l’ottimismo!
Il servizio sulla mostra torinese Accademia Italia,
che ha visto nella sede dell’Accademia Albertina
la prima tappa di una tournée che prevede
la presentazione in diverse città italiane di
un’esposizione che parzialmente cambierà volto
in quanto il primo nucleo di artisti di volta in volta
si arricchirà di nuove presenze di docenti delle
istituzioni locali a documentare per fatti concludenti
la ricchezza espressiva che abita le accademie
italiane, pubbliche e private. La prossima
edizione avrà luogo a ottobre, all’inizio dell’anno
accademico, presso l’Accademia Ligustica di
Genova, dove insegna Alessandro Fabbris il cui
contributo, su questo numero 18 della rivista,
intitolato Cosa significa Decorazione? si inserisce
nel dibattito già date tempo avviato attraverso una
serie di “interrogazioni sistematiche” sugli specifici
delle diverse discipline artistiche.
La copertina, e il relativo articolo principale di questo
numero sono dedicati a Fabrizio Plessi, pioniere
delle video-installazioni in Italia riconosciuto a livello
internazionale, artista che ha creato ambienti interni
immersivi di particolare suggestione e atmosfere speciali
anche all’aperto, nello spazio esterno.
Tra le recensioni si segnalano quella della mostra
sugli Anni ‘70 a Roma, curata da Daniela Lancioni
e da lei allestita in modo molto significativo, e
quella delle opere su carta che Franco Marrocco,
Direttore dell’Accademia di Brera e coordinatore
della conferenza dei Direttori, ha tenuto a Santa
Monica (Ca).
Con un “reportage” da Varsavia proseguiamo il nostro
viaggio di ricognizione nelle istituzioni preposte
all’educazione artistica all’estero, e con il contributo di
Francesco Correggia, dall’eloquente titolo Accademie e
Professori, gioie e dolori! e con l’intervista a Dora Liguori
ci occupiamo invece dei problemi di casa.
SOMMARIO
02 Redazionale di Gaetano Grillo
NUMERO 18, anno 2014
SEDE
Viale Stelvio, 66
20159 Milano
tel. 02 392 9149654
fax 02 6072609
[email protected]
DIRETTORE RESPONSABILE
Gaetano Grillo
DIRETTORE EDITORIALE
Gaetano Grillo
[email protected]
*Tutte le collaborazioni si intendono a titolo gratuito
ACADEMY OF FINE ARTS
Iscritta al Tribunale di Trani
n.3/09
Rivista fondata da Gaetano Grillo
04 Artista di copertina: Fabrizio Plessi
23 Intervista a Dora Liguori
26 Accademia Italia
28 Cosa significa Decorazione
30 Anni ‘70 a Roma
32 Riccardo Cordero
34 Franco Marrocco
36 Emilio Scanavino
45 Libri
Hanno collaborato:
Elena Cantarella
UFF. GRAFICO
[email protected]
Guido Curto
EDITRICE
L’IMMAGINE SRL
Via Lucarelli 62/H
70124 BARI
Alessandro Fabbris
www.editricelimmagine.it
[email protected]
19 Accademie e Professori, gioie e dolori!
40 Recensioni
Claudio Cerritelli
tel. +39.0803381123
fax +39.0803381251
12 Qui Varsavia
38 In vino veritas
VICE- DIRETTORE EDITORIALE
Elisabetta Longari
[email protected]
REDAZIONE
Gaetano Grillo
Elisabetta Longari
Gaetano Centrone
Melissa Provezza
1
Anna D’Elia
Lorella Giudici
Flaminio Gualdoni
Pietro Marino
Nicolas Martino
Giusy Petruzzelli
Alex Urso
48 Immagini della ditta MAIMERI
54 Tarshito
56 Flash giovani artisti
In copertina
Continuiamo la serie di copertine pensate dagli artisti
espressamente per ACADEMY, dopo l’ultima realizzata da Luigi Mainolfi in terracotta policroma, questa
volta è il turno di Fabrizio Plessi che con il suo inconfondibile gesto forte e sintetico ha pensato ad un segno di fuoco, una colata di lava incandescente su una
superficie lavica raffreddata.
Fabrizio Plessi, per Academy 2014, foto e pastello
su cartoncino cm. 32 x 24
L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE.
Renzi
pensaci tu!
Da lla città del Rinascimento
alla rinascita del nostro Paese
mettendo al centro la cultura,
la nostra risorsa più preziosa
per decenni trascurata
dalla miopia della politica.
Alessandro Manzoni aveva usato la metafora “sciacquare
i panni in Arno” riferendosi alla necessità di pulire la lingua
italiana troppo contaminata soprattutto dai dialetti, andando
geograficamente e idealmente alla fonte della nostra lingua,
la Toscana.
Questa regione, a distanza di oltre cinque secoli, resta per noi
una sorta di ancora identitaria che definisce il profilo italiano
nell’immaginario collettivo, nonostante la nostra vera identità
vada cercata e compresa nella dimensione imprescindibilmente
polifonica e maculata. Tuttavia è difficile non pensare alla
Toscana ed a Firenze quando si parla di bellezza, di cultura,
di arte, di architettura, di armonia del paesaggio, di equilibri
formali, di mitezza del clima, di simmetrie e di rinascimento.
Probabilmente avevamo bisogno che a capo del Governo
arrivasse un giovane sindaco di Firenze per sentir parlare,
almeno nell’ambito dei suoi intenti, di ritorno alla cultura e alla
bellezza.
Forse solo da quella città-capolavoro, ancora simbolo per
antonomasia dell’Italia che piace nel mondo, poteva venire
un nuovo impulso a credere e ad investire sui nostri grandi
giacimenti culturali e sull’istruzione.
Sembrano lontani i tempi in cui Tremonti, in veste di super
ministro all’economia e alla finanza sosteneva che con la
cultura non si mangia, così come sembrano lontani anche i
tempi in cui Berlusconi si faceva riprendere nello studio della
casa di Arcore con lo sfondo della sua librera, con volume così
evidentemente intonsi, costosi e mai sfogliati.
Un tempo bastava entrare nella casa di qualcuno per capire la
sua formazione culturale semplicemente guardando i quadri
alle pareti e i libri nella libreria, poi con l’inizio del declino,
hanno assunto sempre più importanza i mobili, poi gli oggetti di
design, finchè siamo arrivati agli abiti pur sapendo bene, come
dice il proverbio, che non è l’apparenza a fare la sostanza.
Nascere a Firenze, avere continuamente sotto gli occhi dei
capolavori e soprattutto essere testimoni di una filosofia di vita
deve pur significare qualcosa, particolarmente se si è il primo
cittadino.
Renzi - è vero - è partito all’attacco con la tipica arroganza
dei giovani che sono certi di dare la birra alle generazioni
precedent, ma talvolta, per uscire dall’immobilismo e tuffarsi
nell’agone è necessario uno scatto di reni che solo un giovane
ambizioso può avere. Vogliamo ora tutti tornare a guardare
il bicchiere mezzo pieno e siamo tutti più o meno stanchi
di sentirci inferiori ad altri cugini europei, siamo più o meno
stanchi di essere depressi e soprattutto stanchi di non poter
esprimere le nostre migliori qualità che forse non saranno
lo zelo e il rigore ma sicuramente albergano nella nostra
intelligente vocazione alla comunicazione, all’iniziativa, alla
creatività, all’abilità e alla qualità, nonchè al nostro spiccato
senso del gusto e della bellezza.
Bellezza?
Pensare che nel sistema dell’arte contemporanea la bellezza
è diventata un difetto!
Sono stato di recente a Varsavia, dove ho incontrato intellettuali,
artisti, curatori, direttori di musei e mi son sentito dire che l’arte
polacca è oggi importantissima perchè che vuole cambiare il
mondo, che è audace, socialmente impegnata, forte, estrema,
concettuale, performativa, viva; mentre l’arte italiana è
“decorativa” attribuendo naturalmente a questo termine un
valore negativo e vicino al concetto di leziosità formale.
Potete immaginare un’Italia dura, estrema, radicale,
drammatica, astratta, intollerante, introspettiva, buia? Potete
immaginare un’Italia che non sorride? Un’Italia senza ironia?
Un’Italia senza bellezza? Un’Italia senza colori? Un’Italia
senza ingegno, senza operosità, senza piccoli paesi, senza
colline, senza artigiani, senza pini e senza cipressi? Potete
immaginare un’Italia senza Giotto, senza Dante, senza Piero
della Francesca e senza Michelangelo? Senza la genialità di
Leonardo e senza l’armonia di Raffaello?
E’ mai possibile che non siamo più capaci di ripartire proprio
dalle nostre migliori radici per avviare un nuovo rinascimento?
Renzi ha il coraggio o la splendida ingenuità di un trentenne,
Ora basta!
Ripartiamo dai nostril giacimenti culturali con la coscienza
che lì risiede la nostra forza e che da lì dobbiamo ripartire
per risalire dal declino culturale che ha intossicato l’Italia.
Dobbiamo avere la forza di affermare la nostra identità, il
coraggio di ribadire che la bellezza non si deve confondere
con la leziosità e che la forma non è un orpello della sostanza.
L’Italia, l’Italia bella, quella che in tutto il mondo la gente sogna
di conoscere e di attraversare, deve tornare al suo orgoglio,
deve tornare all’istruzione, all’educazione culturale ma anche
civile, deve credere in se stessa e nelle sue tante qualità.
Milano si sta preparando all’EXPO 2015, si è messa in
moto, è tutta un cantiere, Eataly ha scommesso sulle nostre
eccellenze gastronomiche e sta riscuotendo un successo
mondiale, la gente da tutto il mondo si riverserà a Milano
nel prossimo anno e Milano può essere in questo momento
proprio l’opportunità per passare dal declino al rinascimento
del nostro Paese. Dobbiamo crederci, dobbiamo avere la
forza di affermare con convinzione le nostre idee così come
noi docenti delle Accademie di Belle Arti dobbiamo credere
nel riscatto del nostro sistema e rimettere al centro il valore
dell’arte colta, della bella arte italiana.
Caro Renzi non dimenticare che su questa scommessa ci
giochiamo la ripresa!
Errata corrige:
Nel
numero
scorso,
all’interno
dello
servizio
speciale
sul
Premio
Nazionale delle Arti a Bari, a
proposito della redazione del
catalogo sono stati omessi
involontariamente i nomi
delle curatrici dell’edizione,
le storiche dell’arte Lia De
Venere e Giustina Coda.
Ci scusiamo per l’accaduto.
redazionale
redazionale
Di Gaetano Grillo
per affermare che bisogna tornare a quella stagione per
incamminarsi verso il riscatto del Paese. Un Paese che in
tutti questi anni non ha creduto nell’arte, nella cultura, nella
bellezza e nell’istruzione, non ha creduto nella capacità di
fare, innata nel nostro popolo.
Per tanti anni abbiamo confuso i valori, abbiamo scambiato
la furbizia con l’intelligenza, abbiamo creduto che la capacità
di sgomitare fosse una virtù, che il successo personale fosse
al primo posto della scala valoriale, che la logica del profitto e
del mercato fosse l’unico vero metro di attribuzione del valore,
abbiamo creduto nella vanità dell’egocentrismo, abbiamo
creduto a dismisura nella vacuità dell’apparire.
Abbiamo pensato che la cultura fosse un orpello da poveri
sfigati legati nostalgicamente al passato, abbiamo pensato
che l’inglese e la tecnologia potessero sostituire pienamente
la cultura classica e la filosofia, che la forza del calcolo avesse
definitivamente soppiantato la fragilità della sensibilità.
Abbiamo pensato che la cultura potesse essere un fardello
che appesantisce la creatività e così abbiamo acclamato I
cosiddetti “creativi” e trascurato I colti. Abbiamo creduto che
l’istruzione fosse quasi inutile e che nella vita basta essere
astuti e imprenditori per avere successo. Abbiamo pensato che
adottare il sistema delle scorciatoie fosse il modo per arrivare
primi, ma primi a cosa? Al traguardo degli imbecilli che hanno
distrutto il prezioso spessore culturale del nostro Paese. Per
anni molti hanno sostenuto con evidente compiacimento
che gli artisti di maggior successo non si sono formati nelle
accademie, nelle quali invece è sovrana la mediocrità. Per
anni si è dato credito ad ignoranti che in quanto tali, hanno
disprezzato e denigrato come obsoleta la conoscenza
specifica dei linguaggi dell’arte. Troppo facile parlar male della
pittura se non si è capaci ne di farla e neanche di capirla.
Per tanto tempo il sistema e il mercato hanno protetto cose
e persone che iniziano ora a mostrare tutta la loro fragilità.
Per tanto tempo l’Italia dell’arte ha vissuto un complesso
d’inferiorità perchè ha inseguito altri modelli, per tanto tempo
abbiamo creduto che quei modelli fossero giusti e che noi
fossimo indietro; per troppo tempo abbiamo subito con
frustrazione la supremazia di mondi lontani dal nostro.
Fabrizio
PLESSI
Incontro Fabrizio Plessi nel suo studio
alla Giudecca, uno spazio grandissimo,
organizzatissimo e minimalista.
Un pensatoio affacciato su quel canale
che per secoli, ha fatto incontrare e
scontrare l’occidente con l’oriente.
Si avverte il peso del lavoro immane che
Plessi ha fatto in tanti anni di attività ma
portato con la freschezza di uno spirito
giovane e comunicatore.
Oggi è il 21 marzo del 2014, il primo
giorno di questa primavera e fra tre giorni
Fabrizio compie gli anni, auguri Fabrizio!
A cura di Gaetano Grillo
Fabrizio tu hai un lavoro imponente, frutto di un’attività
intensissima con tantissime importanti mostre nel mondo
ma come è iniziata la tua avventura, da ragazzo sognavi
già di fare l’artista? Tu non sei Veneziano di nascita,
quando e perché sei arrivato in questa città?
Io sono di Reggio Emilia ma ho sempre avuto il mito di
Venezia, certamente perché era la città della Biennale ma
anche perché aveva un’Accademia prestigiosa, più di quella
di Bologna, dove sarebbe stato naturale andare a studiare per
un ragazzo emiliano. Io sono venuto qui a soli quindici anni
già per frequentare il Liceo Artistico dove ho avuto la fortuna
di incontrare persone meravigliose perché allora nei Licei
Artistici insegnavano tanti artisti.
Lì ho conosciuto Bacci, Morandi, Guidi, ecc. Bacci, come un
vero papà mi ha introdotto al Guggenheim che era il luogo
dove gravitavano tutti gli artisti; ti faccio una confessione
davvero confidenziale, io allora, a quindici anni, avevo
già la convinzione che prima o poi avrei fatto la mostra al
Guggenheim di New York e quando l’ho fatta, nel novantotto, è
stato come vedere la realizzazione del sogno di un ragazzino.
Io credo che i sogni si devono realizzare, guai se ciò non
accade! i sogni che restano sogni diventano col tempo delle
cose dure e crude che segnano e fanno male.
Altra grande opportunità era la Biennale che per me è stata
come una mamma e vivendo a Venezia mi ha dato molte
opportunità, pensa che ne ho fatte quattordici.
Ma dai, più di Mario Vedova?
Tra l’altro ho partecipato anche al Festival del Cinema, al
Festival della Musica ecc. avendo attraversato i linguaggi sono
stato presente in tutte le occasioni espositive delle arti, non
solo di quelle visive. Quindi Venezia mi ha accolto a braccia
aperte dagli anni sessanta.
E poi dopo il Liceo Artistico hai frequentato l’Accademia?
Con chi, con Vedova?
Pensa che io ho insegnato tantissimi anni al Liceo Artistico
e contemporaneamente ero studente all’Accademia dove poi
ho avuto per tanti anni la cattedra di Pittura ed insegnavo
nell’aula accanto a quella di Emilio Vedova con cui avevo
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un rapporto meraviglioso, finchè nel 1990 il Ministro tedesco
dell’Istruzione mi ha invitato come vice-direttore alla
Kunsthochschule fur Medien a Colonia e ho dovuto dare le
dimissioni dall’Accademia di Venezia ma la cosa curiosa è che
mai nessuno prima aveva dato le dimissioni e non si sapeva
neanche come formalizzare la cosa.
Ho anche insegnato alla Summeracademy di Salisburgo dove
prima di me aveva insegnato Vedova con il quale come vedi,
ho avuto sempre curiosamente un rapporto molto intrecciato,
mi stimava molto; io lo vedevo come un vero grande artista,
così coinvolto nel suo lavoro e dinamico.
Come vedi ho sempre avuto un rapporto con la scuola,
con l’Accademia e con i giovani. Quando ho insegnato a
Colonia hanno istituito una cattedra proprio per me, infatti
l’insegnamento si chiamava Umanizzazione delle tecnologie
ed era molto importante proprio per avviare un progetto
formativo e innovativo per l’arte, d’altronde il mio lavoro
d’artista era molto consociuto in Germania.
Ancora oggi in arte si confonde spesso la tecnologia
come un linguaggio mentre è soltanto un mezzo come
ce ne sono tanti. Aggiungerei anche che la tecnologia da
sola non basta ad attualizza il linguaggio che è invece il
risultato di una innovazione del pensiero.
Sono d’accordo con te e aggiungo che pur essendo stato
accolto a Colonia con grande ammirazione da tutti, a un certo
punto devo essere sembrato troppo italiano e mediterraneo
in un ambiente di tecnocrati. Come hai detto anche tu, certi
equivoci sulla tecnologia persistono ancora oggi mentre negli
anni ’70 si indagava sui mezzi e si approfondiva la ricerca, vedi
Gary Hill, Bruce Nauman, Nam June Paik, Bill Viola. C’era un
clima di ricerca negli anni ’70 che nel decennio successivo si
è trasformato in consumo ed uno come me l’ha proprio vissuto
sulla propria pelle.
Fabrizio tu sei sempre stato un outsider senza mai
appartenere ad un gruppo o ad una situazione, questa
scelta ti ha condizionato la carriera oppure oggi puoi dire
che sia stato meglio così, cos’ha comportato?
Ha comportato un completo isolamento, proprio per me che
sono una persona a cui piace molto comunicare. Potrei dire,
parafrasando il mio rapporto con l’acqua e con Venezia, che
sono stato un navigatore solitario.
Mi hanno etichettato come un video-artista, cosa che non è
vera, non centro assolutamente nulla io con la video-arte e
spesso dico: “Michelangelo era per caso un marmo-artista?”.
Io ho usato e uso il video come uso tanti altri media ma la
gente è riduttiva e spesso lo è anche il sistema dell’arte; si
tende ad incasellare così come ad escludere.
Io non ho mai fatto video e non ho mai sopportato vedere
gente seduta a terra in galleria che guarda un video lungo e
noioso accettando la dittatura della durata dell’opera, io ho
parlato di video installazione e mi ricordo che la prima volta
che usato questo termine è stato al Palazzo dei Diamanti di
Ferrara e c’era anche Gillo Dorfles che intervenne dicendo
che non potevo usare quel termine da “elettrauto”.
La mia video installazione è contaminata dai materiali, l’acqua,
il ferro, il legno, la pietra e tanti altri materiali classici dell’arte,
il video è uno di questi materiali, non certo l’unico. Io lavoro
nello spazio e questo è molto importante per me, è la base
del mio lavoro, è una macchina teatrale che deve prendere
sia l’intelligenza sia l’emozione, da questo punto di vista io
artista di copertina
artista di copertina
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artista di copertina
artista di copertina
“Foresta sospesa” videoinstallazione, Scuderie del Quirinale, Roma, 2002
“Foresta sospesa” videoinstallazione,Foundation Schneider Wattwinter, 2014
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“Bombay-Bombay” videoinstallazione, Martin Gropius Bau, Barlino 2014
Quanto conta per te il colore?
Pochissimo, da questo punto di vista non mi sento veneziano,
perciò Bill Viola dice che io infondo sono uno scultore mentre
lui è un pittore. Io e Bill Viola siamo grandi amici e ci stimiamo
reciprocamente ma c’è molta differenza fra noi.
Bill ha cercato una strada bizantina su due dimensioni, nella quale
il colore conta molto come in un dipinto, io ho cercato la plasticità
con il connubio fra materie povere e tecnologia.
Tu hai parlato di materiali naturali e poveri come il legno, la
pietra, il fuoco ecc. eppure non sei mai stato un artista dell’Arte
Povera.
Io naturalmente mi sono formato con l’arte povera, ero dentro i suoi
concetti ma a me non bastava, trovavo un aspetto ecumenistico che
non condividevo. Se oggi penso ad una cosa che contraddistingue
i poveri, penso alla televisione, alle antenne paraboliche e alla
disperazione di quella gente, magari delle favelas, che ha trasferito
i propri sogni in quell’oggetto. Non c’è niente di più povero che la
televisione.
Con il senno di poi potremmo dire che la televisione non era il simbolo
della borghesia, come forse Celant pensava ed io oggi voglio dire
con forza che sono stato sempre più avanti degli altri. Dicevano
“quello è pazzo! Vuole fare l’arte utilizzando la televisione..”
Se avessimo avuto un critico davvero forte come è stato Achille
Bonito Oliva per la Transavanguardia o Celant per l’Arte Povera, a
parte Vittorio Fagone che si è occupato dei nuovi media, noi artisti
Non è tanto una questione anagrafica, più
probabilmente è cambiato il metro e non è più
possibile giudicare con i parametri di prima ma
è anche vero che qualche anno fa’ si è celebrato
il funerale del secolo scorso e che questa crisi
mette a nudo la verità, ovvero che sta già mutando
il paradigma. Non ti chiedo di prendere la sfera di
cristallo e di fare il veggente ma dimmi cosa avverti.
Dal duemila, esattamente dal duemila, il mondo dell’arte
è cambiato per una semplice ragione, perché è entrato a
far parte di un sistema economico mondiale.
Pensare che oggi forse la metà delle opere presenti
nelle mostre internazionali è fatta con la tecnologia..
Comunque immagino che questa situazione ti abbia
costretto in tutti questi anni a lottare duramente da
solo ed ora che hai alle spalle questa mole enorme
di lavoro come ti senti e cosa pensi di fare?
Devo dire che sin dall’inizio volevo esporre nei musei
più importanti del mondo, è stata quasi un’ossessione
per la quale ho trascurato anche la mia famiglia ma
sento di essere stato fortunato nella mia vita perché
ho incontrato curatori e direttori che mi hanno offerto
la mano, che mi hanno portato al Guggenheim di New
York, di Bilbao, a Berlino, al Beaubourg di Parigi, alla
Fondacion Mirò ecc.
Ho avuto tante opportunità ma ero fuori completamente
dal mercato, ho fatto un lavoro culturale senza
interessarmi di lavorare con le gallerie, con la sola
eccezione del Centro Video Arte di Ferrara, ho sempre
fatto tutto il mio lavoro da solo.
Ora mi trovo tante opere nei musei ma ho sempre
fatto un lavoro solitario ed egocentrico. Ho fatto tante
Biennali di Venezia ma il risultato che mi ha dato la
partecipazione a Kassel è stato davvero speciale.
Eravamo tre italiani, io, Penone e Cucchi ma io
avevo la sala più importante dove presentai l’opera
Roma, l’abbiamo inaugurata la mattina alle dieci e
a mezzogiorno era venduta alla Galleria Thomas di
Monaco, in quel momento all’improvviso Plessi è
diventato un artista internazionale. Occorre fortuna e
trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Forse più finanziario, legato al profitto!
La finanza ha distrutto l’originalità culturale e creativa
ed ha creato un sistema al servizio di un meccanismo
internazionale d’interessi incrociati. Sono cambiate
completamente le regole del gioco, i galleristi in accordo
con le banche e soprattutto con il disastro di queste aste
manovrate, hanno creato un mondo artificiale distante
dal valore reale delle cose.
Operatori del sistema dell’arte, con funzioni diverse,
convergono
su
strategie
definendo
gerarchie
d’importanza e dunque anche economiche. Oggi il
mondo è controllato da grandi gruppi d’interesse che
manipolano anche l’orientamento del gusto.
Fabrizio come se ne esce da questa situazione?
Guarda Gaetano, se ne esce proprio con questa crisi; io
sto male con questa crisi ma ben venga perché è come
un setaccio e deterge da questa immondizia incredibile
che ci circonda però mi viene anche da pensare che chi
resterà dopo questa auspicabile pulizia non è detto che
sarà il migliore ma colui che ha le spalle più coperte, che
“Llaut light” installazione, Ludwing Mùzeum Budapest, 2014
Fabrizio cosa sta accadendo in questo momento?
Non so, forse è l’età ma io non riesco più a trovare cose
stimolanti nel lavoro dei giovani artisti, mi sembra tutto
così visto, ogni opera che io guardo è come se l’avessi
già vista, metabolizzata, vissuta.
Non so se questi giovani ne abbiano coscienza e fino a
che punto, se le copiano, malamente, o se invece non
le conoscono affatto.
Secondo Marco Meneguzzo, con cui ne parlavo l’altro
giorno, i giovani non conoscono molte cose e spesso
non sono neanche interessati a conoscerle. Certo
manca un’energia culturale ma capisco anche la loro
condizione perché si trovano in questa massa immensa
di immagini che ha reso tutto più complesso. Internet ha
stravolto tutto.
Internet ha ampliato la comprensione ma ha
accelerato la schematizzazione e la percezione
semplificativa del tutto; è come se avesse
autorizzato la scorciatoia a tutti i percorsi.
Certo, tu vai a Roma, a Parigi, a New York, a Doubai
e trovi ovunque le stesse cose. E’ un mondo piatto e
orizzontale, pieno di cose che io ho già visto.
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artista di copertina
artista di copertina
sono molto all’antica. Quando vado a fare un sopralluogo quello è il
momento che trovo più eccitante, ho bisogno della tridimensionalità
e della profondità.
che abbiamo lavorato con la tecnologia non saremmo
stati abbandonati. In fondo è stata una miopia perché io
immaginavo la grande affermazione che avrebbe avuto
la tecnologia ma forse ero vent’anni avanti. Certo non
potevo immaginare che avremmo avuto l’ipad o l’iphone
ma certo sapevo che i televisori non sarebbero stati più
delle scatole con il tubo catodico.
Quando nel 1986 ho esposto il mio Bronx alla Biennale
di Venezia, i miei televisori sono rimasti fuori dalle sale
per due giorni perché non era considerato materiale
artistico, puoi immaginare che situazione?
“Waterfire” videoinstallazione, Museo Correr, Piazza S. Marco, Venezia, 2001
può resistere meglio ed allora torniamo
nella trappola di prima.
Si tratta dell’incapacità dell’uomo di
essere artefice assoluto del destino.
In che senso?
Nel senso che forse l’uomo non è
così capace di controllare tutto e
che ad un certo punto altre forze
prendono il sopravvento. Avrebbero
mai potuto immaginare i nobili
francesi di finire alla ghigliottina?
Certo, il lavoro dell’artista non è tanto
quello di risolvere dei problemi quanto
quello di porsi delle domande, l’artista
ha delle antenne sensibili e percepisce
in anticipo i mutamenti.
Però l’artista realizza con la sua
opera un modello possibile e questo
è una risposta.
Io dico sempre una cosa: la scienza
definisce il mondo, l’arte lo sdefinisce!
Quando io faccio le mie barche
gigantesche, di quaranta metri e
le metto in piedi cosa sono se non
l’affermazione di una dimensione
illogica. Le mie barche non stanno mai
in acqua, stanno in cielo, stanno in
piedi, capovolte ma mai come stanno
normalmente nella realtà.
La metafora che mi piace è pensare
che l’artista non rotola verso il basso
seguendo la forza di gravità ma
rotola verso l’alto alterando le logiche
precostituite.
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“Lava” (particolare) videoinstallazione, Ludwing Mùzeum, Budapest, 2014
Se tu non vivessi più a Venezia dove
potresti vivere?
Io vorrei vivere a Maillorca, la ho
una casa in mezzo alla campagna
che come era l’Italia negli anni ’50,
con cavalli, olivi e pietre calde che si
scaldano al sole.
Un artista che ha usato prima degli
altri la tecnologia ed i suoi complessi
equilibri che torna alla natura?
A Maillorca c’è una luce che si taglia
con il coltello, così precisa, assoluta,
è un’isola del mediterraneo ed io
adoro il mediterraneo anche se ho
dovuto vivere gran parte della mia
vita in Germania e nei paesi freddi.
Un luogo dove è presente ancora
una dimensione mitica dell’esistenza
e della storia, della favola, della luce.
Venezia è un po’ il mio alibi culturali,
capisci? Se mi chiedono perché
l’acqua? Rispondo perché vivo a
Venezia. Quando dico che l’acqua
entra nei riflessi e si specchia sulle
mie mani mentre disegno, mi riferisco
alla liquidità della luce e della mia
personalità. A Venezia ho imparato ad
artista di copertina
artista di copertina
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“Lava” videoinstallazione, Ludwing Mùzeum, Budapest, 2014
“Mare verticale” videoinstallazione, Biennale di Venezia, 2005
essere liquido e tollerante, oggi mi sento come un vaso comunicante, mi adatto agli
spazi. Io, emiliano, con il senso plastico della vita, con le case quadrate, ho imparato
ad amare l’architettura di questa città e la sua liquidità.
Venezia in fondo è come un grande schermo a cristalli liquidi o al plasma,
un’immagine di luce ma senza ombre, proprio come nei dipinti di Guardi e
Canaletto. Forse senza Venezia non saresti arrivato ad usare la tecnologia
immateriale e virtuale della luce, anche se l’hai compensata fortemente con i
volumi e la spettacolarità dello spazio solido e fisico.
Hai ragione, io mi sono molto ammorbidito! In fondo la tolleranza ci aiuta a farci
vivere meglio, in maniera più soave, più delicata, più profonda.
Venezia, 21 marzo 2014
“La flotta di Berlino” Videoinstallazione, Martin Gropius Bau, Berlino 2004
Paola Ciccolella
Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura, Varsavia
Cosa succede a Varsavia nel mondo della cultura, in un momento
di apertura molto interessante per la storia di questa città?
La città è molto vivace e per quanto riguarda l’arte contemporanea
Varsavia è dotata di ben tre musei che svolgono un’attività espositiva
costante ma sono nate anche molte gallerie private che lavorano
soprattutto con gli artisti locali.
Da quello che vedo c’è una forte preferenza per l’arte concettuale
anche perché ai polacchi piace molto il dibattito e la partecipazione
più che la contemplazione. La mia impressione è che loro sono
diffidenti nei confronti di linguaggi specifici come la pittura, anche
quando si tratta di pittori molto interessanti, loro sono più rivolti ai
linguaggi performativi e d’impegno filosofico e sociale.
C’è anche molto interesse per il teatro di prosa e d’avanguardia
anche se manca un vero festival. Sono molto attivi anche per quanto
riguarda la lirica e l’opera, pensi che il Teatro dell’Opera è grandissimo
ed ha spazi dove si organizzano anche delle mostre, pare che sia
dotato del palcoscenico più grande d’Europa.
Varsavia e la Polonia in generale guardano con attenzione alla
cultura italiana?
La Polonia è molto affascinata dall’Italia, talvolta anche in maniera
ingenua perché non riescono a vedere i difetti che pur noi abbiamo.
Abbiamo organizzato una bellissima mostra di Carla Accardi al Centro
d’Arte Contemporanea Znaki Czasu di Torùn, una mostra curata da
Laura Cherubini e Maria Rosa Sossai.
L’Ambasciata D’Italia ha organizzato una bellissima mostra del
Guercino a cura di Nelly Guariglia e la più grande esposizione del
Guercino fatta nel Museo Nazionale è stata davvero un grande
successo.
Quando loro pensano all’Italia a quale espressione del nostro
Paese pensano come prima cosa?
Guardi Grillo, qui molta architettura è stata progettata da architetti
italiani, poi amano curiosamente un garibaldino, Francesco Nullo, che
è venuto qui a morire come patriota combattendo per l’indipendenza
della Polonia, qui ci sono scuole, strade e monumenti dedicati a Nullo.
I polacchi sono soprattutto amanti dell’Italia per il suo territorio e per
il clima solare.
Naturalmente a loro piace molto anche la moda italiana e anche
il design ma noi cerchiamo di promuovere anche altri aspetti della
nostra nazione per non restare sempre imprigionati dai luoghi
comuni. L’Italia può dire cose interessanti anche sulla letteratura,
sulla scienza, sul teatro.
Un’altra cosa che iniziamo a promuovere è la cultura del vino, anche
se in Polonia il consumo del vino è bassissimo perché sono per
tradizione orientati verso la birra o i superalcolici. Noi abbiamo fatto
dei corsi di avvicinamento al vino anche perchè cerchiamo, quando
possibile, di promuovere la cultura collegandola al commercio e alla
promozione delle nostre eccellenze nazionali.
L’Accademia di Brera e nello specifico la Scuola di Pittura, sta
lavorando ad un grande progetto per l’EXPO che consisterà in
tantissimi messaggi visivi che arriveranno da tutti gli artisti del
mondo e che saranno riprodotti su grandi dimensioni e installati
nella piazza del nuovo grattacielo della Regione Lombardia.
Lei quali pensa che siano gli artisti più rappresentativi per la
Polonia?
Progetto bellissimo, immagino già come sarà la mostra, complimenti!
Circa l’indicazione degli artisti direi che Cavallucci potrà essere
senz’altro più competente di me, io ne ho conosciuti diversi e
comunque posso dire che negli ultimi anni gli artisti polacchi si sono
affermati ai più alti livelli internazionali, con un lavoro che è molto
forte, forse per certi versi lontano dalla nostra arte che si esprime
maggiormente nella forma e nella bellezza mentre la loro tratta di
argomenti più radicali e sociali.
Noi cerchiamo di proporre anche artisti italiani contemporanei, ma
non è facile proprio per questa diversa identità dell’arte, ci riesce
maggiormente con artisti del passato e il caso del Guercino ne è una
palese dimostrazione.
E’ stata una mostra fantastica, anche grazie al contributo di Joanna
Kilian che è esperta dell’arte italiana dal trecento al seicento presso il
Museo Nazionale di Varsavia.
Cosa succede a Varsavia e in Polonia? Negli ultimi anni in Polonia e a Varsavia in particolare, poiché come
capitale è il luogo di maggiore attrazione, c’è una situazione artistica
molto fertile, cominciata già a partire dagli anni ’70, ma sbocciata
pienamente dalla caduta del muro di Berlino. Da quel momento si
sono succedute tre generazioni di artisti che hanno lavorato con
grande energia ed entusiasmo, perché bisognava trovare una nuova
identità che il Paese non ha sempre avuto negli ultimi secoli. La prima
generazione degli anni ’90, la cosiddetta “arte critica”, ha fatto lavori
fortissimi discutendo di temi importanti per l’umanità come la vita, la
morte, la malattia, il sesso ecc. Qualcosa di simile a quanto è avvenuto in Gran Bretagna con gli Young
British Artists, tant’è che qualche mese fa abbiamo fatto una mostra
intitolata “British British, Polish Polish”. Sia in Gran Bretagna che in
Polonia l’arte dei primi anni ‘90 ha scatenato molte polemiche sui
media; polemiche che sembravano ottenere effetti negativi, ma che
invece hanno fatto conoscere l’arte contemporanea. Conseguenza è
stata che qui in Polonia si è deciso di costruire otto nuovi musei d’arte
contemporanea. Stai dicendo che lo Stato polacco ha guardato con attenzione
all’arte contemporanea ed ha già investito molte risorse in
questa direzione? Diciamo che questa energia che è venuta dagli artisti, anche dai più
giovani i quali credono fermamente in quello che fanno, ha portato
ad avere un pubblico interessato e pensa che lo è tanto da evitare
le inaugurazioni ed i momenti ufficiali per poter vedere con calma le
mostre. Un’altra caratteristica importante è la grande partecipazione
del pubblico ai dibattiti; insomma c’è un interesse reale che porta
anche all’interesse dei politici. Cominciamo a fare dei nomi di quegli artisti che hanno segnato
e stanno segnando la svolta dell’arte in Polonia. Nella generazione dell’“arte critica” abbiamo Katarzyna Kozyra,
Paweł Althamer, Artur Żmijewski. Sono costoro che principalmente
hanno creato la spinta forte degli anni ’90. C’è stata poi una seconda
ondata fra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni ‘00, che non
coincide necessariamente con una seconda generazione anagrafica,
una generazione che ha potuto godere gia’di notorietà internazionale
e di un certo mercato determinato per esempio dalla Foksal Gallery
Foundation che li ha sostenuti. Fra questi Wilhelm Sasnal, Monika
Sosnowska, Cesary Bodzianowski ed altri. Poi c’è una terza ondata
composta da artisti giovanissimi, addirittura sotto i trent’anni,
che lavorano in maniera diversa dalle prime due generazioni ma
mantengono ugualmente una forte energia e credono fermamente
in ciò che fanno. Pensa che due anni fa, ad un certo punto gli artisti
hanno deciso di fare uno sciopero e tutte le istituzioni pubbliche
hanno aderito, compreso il Centro che dirigo, ovviamente. Questo in
Italia sarebbe impensabile, mentre in Polonia il Ministro della Cultura
ha dovuto prenderne atto e dare delle risposte. 13
Si può parlare di un preciso profilo identitario dell’arte polacca
contemporanea? Secondo me ha ancora senso parlare di profili nazionali perché
in fondo ci sono le lingue, le culture, e quindi ci sono dei caratteri
nazionali benchè andiamo sempre più verso un codice universale. Possiamo dire, mi pare di capire che il linguaggio degli artisti
polacchi è sintonizzato su quello internazionale, con l’utilizzo
degli stessi media? Per quanto riguarda i media certamente, anche gli artisti polacchi
utilizzano gli stessi media: dall’installazione al video, dalla fotografia
alla performance. Ma per capire le differenze, Katarzyna Kozyra, ad
esempio, mi dice: “Sai, in Italia l’arte è decorativa, qui è una voce”.
Questa è la differenza sostanziale fra i nostri Paesi, in Italia l’arte è
una questione formale mentre qui è una questione sociale e politica. Non credo sia corretto parlare di forma come decorazione,
diciamo piuttosto che la nostra cultura affonda le sue radici
nell’identità mediterranea e nella cultura greca legata anche
al mito della bellezza, della composizione, dell’armonia e della
misura come in tutto il Rinascimento. Si hai ragione, ma qui la forma viene dopo; prima viene la necessità
dei contenuti. Ma non è che l’arte in Italia non abbia contenuti, ne ha casomai
di diversi, certo non sono quelli drammatici della morte, della
malattia, della violenza, del sesso. Qui l’arte è una cosa che discute la realtà e la società. Un altro
aspetto è quello di essere performativa. Non performance, ma
performativa, più attenta al processo che al risultato finale. Talvolta
questo comporta il fatto che alcuni artisti siano poco puliti e poco abili
nel produrre un lavoro finale e prevale il processo, il percorso. Cio’
qui varsavia
qui varsavia
Paola Ciccolella, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a
Varsavia, qual è l’artista italiano che le piace di più?
In assoluto Michelangelo Pistoletto, vidi una sua mostra a Napoli
negli anni ’70 e m’impressionò molto. Prima di venire qui a Varsavia
ero a Zagabria e lì abbiamo organizzato una sua bellissima mostra
e in quella occasione l’ho conosciuto personalmente apprezzando
molto anche la sua intelligenza e la sua capacità di comunicare.
Direttore del Centro d’Arte Contemporanea, Varsavia
A cura di Gaetano Grillo
A cura di Gaetano Grillo
12
Fabio Cavallucci
tra l’altro fa riferimento a una tradizione precisa che va da Kantor a
Grotowsky, al teatro, alla performance da strada come per Akademia
Ruchu, provocatoria e contro il regime. Potrei citare ad esempio
Althamer che va a Munster, luogo della scultura e cosa fa? Segna
un percorso in un campo, ovvero nulla rispetto all’idea classica della
scultura. Come fanno a vivere gli artisti in assenza di mercato o quasi? Vivono facendo grandi sforzi, fanno altri lavori come l’insegnamento o
la grafica. Ma qui ci sono molti finanziamenti pubblici con un sistema
di distribuzione a pioggia. Bisogna aggiungere che i polacchi sono
molto attenti a spendere bene i soldi che vengono dati loro e sono
ben organizzati per riuscire ad ottenere questi finanziamenti: pensa
che a Varsavia ci sono circa seicento associazioni e fondazioni di
carattere culturale finanziate dagli enti pubblici. Possiamo dire pubblicamente che stai chiudendo questa
esperienza e che stai per tornare in Italia a dirigere il Museo
Pecci di Prato? E’ ormai un incarico ufficiale quindi possiamo dirlo. Qual è il bilancio consuntivo? Intanto devo dire che è aumentato il mio rispetto per l’arte polacca
che avevo conosciuto già quattordici anni fa, facendo una visita fra gli
studi degli artisti. Proprio da quel viaggio ho iniziato ad interessarmi
a questo Paese.
Dal punto di vista del sistema organizzativo e delle procedure
abbiamo modalità molto diverse. Io sono abituato a tempi veloci e
scattanti, non voglio dire necessariamente migliori ma… per farti
un esempio qualche mese fa parlavo con Giacinto Di Pietrantonio
e gli raccontavo che qui ho venti curatori e che per organizzare una
mostra ci vuole almeno un anno e Giacinto mi ha risposto: “dillo in
Italia, dove pretendono di organizzare una mostra in due mesi!”.
Quindi è come dire che in Italia i tempi non sono compatibili con
un vero approfondimento, dall’altra parte qui ci sono delle lungaggini
che sono ancora eredità del vecchio sistema. In ogni caso devo dire che quest’esperienza sarà di sicuro molto
importante per me. Credo di aver imparato tante cose, e se non altro,
almeno un pò di polacco.
La Polonia ha sfornato negli ultimi decenni un gran numero
di artisti che si sono imposti a livello internazionale, da Piotr
Uklański a Wilhelm Sasnal a Katarzyna Kozyra. I limiti dell’arte
polacca, semmai, sono quelli relativi al mercato e all’assenza di
un sistema di coesione interna che contribuisca a far crescere e
irrobustire dall’interno queste energie. Sei d’accordo?
Credo che il mercato dell’arte polacco abbia molte lacune, dovute
principalmente ad una debole coesione interna tra le varie istituzioni.
Inoltre l’interesse del pubblico è stato per anni rivolto esclusivamente
all’arte moderna, preferendo quasi sempre prodotti artistici che
rispecchiassero un certo canone tradizionalista.
Questo ha creato diffidenza verso il contemporaneo, che solo ora
inizia ad essere apprezzato. Credo che tutto sia ancora molto fresco,
e che solo adesso pubblico e mercato stiano alimentando, finalmente,
un’ottica più matura e consapevole.
Quanto pensi che l’Italia, e in generale l’Europa occidentale,
conosca dell’arte polacca?
L’arte polacca oggi ha nomi che occupano posizioni molto alte a livello
internazionale, che certamente gli addetti ai lavori italiani conoscono:
hai citato Uklański o Kozyra, a cui aggiungo Mirosław Bałka, Paweł
Althamer o Paulina Olowska per dirne alcuni. Inoltre molti artisti
polacchi lavorano attivamente con gallerie italiane (penso allo stesso
Uklański), così come molte personalità italiane si trovano in Polonia
occupando a volte anche alte cariche nel campo culturale ed artistico
(ad esempio Fabio Cavallucci, direttore del Centro contemporaneo
per l’arte a Varsavia).
I contatti artistici tra le due nazioni sono quindi ottimi. Certamente,
se esiste una scarsa conoscenza riguardo alla cultura polacca,
dipende anche dalla pigrizia e dalla poca curiosità delle persone,
che considerano spesso l’est europeo come una sorta di periferia
dell’Europa occidentale.
Soffermiamoci su Varsavia, centro culturale, economico e
politico della Polonia, nonché città nella quale lavori come
curatrice presso la Zachęta National Gallery of Art. Quali sono le
istituzioni artistiche di riferimento in città?
Per quanto riguarda le istituzioni pubbliche principalmente la Zachęta
National Gallery, il Centro contemporaneo per l’arte CSW e il Museum
14
of Modern Art. Ci sono inoltre molte gallerie private (Raster, Starter,
Propaganda) o importanti realtà storiche come la Foksal Gallery
Foundation, galleria no profit sovvenzionata dal governo.
C’è collaborazione tra di esse?
Sicuramente le nostre istituzioni potrebbero lavorare meglio insieme:
nel mondo dell’arte, come in ogni mercato, la collaborazione è
necessaria. Ogni istituzione è un punto singolo di uno stesso insieme.
Academy è nata nel 2008 con l’obiettivo di mettere in
comunicazione il sistema dell’arte col grande mondo dell’alta
formazione accademica. Mi piacerebbe a riguardo un tuo parere
sul ruolo dell’accademia in Polonia. Le accademie d’arte sono
ancora un luogo necessario? Quanta attenzione c’è verso gli
studenti da parte dei curatori? E che relazioni intercorrono tra
docenti, studenti e operatori del settore?
Certamente il ruolo delle accademie d’arte è ancora centrale.
L’interesse da parte degli addetti ai lavori riguardo gli studenti è alto,
a testimoniare una forte coesione tra ambito educativo e settore
professionale. I docenti in tutto questo rappresentano un collante
decisivo tra i due mondi: i nostri professori sono spesso artisti
affermati che tuttavia considerano ancora con profondo impegno
l’attività scolastica. Uno dei momenti in cui meglio si manifesta
questo scambio di energie tra scuole d’arte, curatori e gallerie, è
quello degli open day, in cui le varie accademie vengono aperte al
pubblico esponendo i risultati raggiunti dai migliori studenti durante
l’anno scolastico.
Consiglieresti ad uno studente d’arte italiano di venire a studiare
in Polonia?
L’arte polacca, come quella di molte altre realtà dell’est europeo,
al momento penso possa offrire molti stimoli. Il mercato inizia a
crescere, e l’attenzione rivolta agli artisti polacchi è in aumento. Inoltre
nello specifico Varsavia è un ottimo crocevia di energie artistiche,
essendo geograficamente collocata tra San Pietroburgo, Berlino e
la penisola scandinava, ottimi punti strategici dell’arte internazionale
contemporanea. Per cui ovviamente credo che per un giovane
studente vivere una situazione di fermento come quella polacca, al
momento, possa essere di grande crescita e stimolo creativo.
15
Maria Brewinska
A cura di Alex Urso
Mi piacerebbe chiederti innanzitutto una breve descrizione sullo
stato di salute dell’arte polacca contemporanea: com’è cambiata
negli ultimi anni e in che direzione sta andando?
Credo che l’arte contemporanea polacca abbia attraversato negli
ultimi venti anni un periodo di forte crescita. Come in molte altre realtà
dell’est europeo, le nuove generazioni di artisti sentono sulle spalle il
peso di un passato drammatico che non vogliono dimenticare.
C’è dunque una sincera necessità di dire, di fare. Penso che
molti giovani artisti, avendo vissuto esattamente nel mezzo di una
transizione sociale e politica difficile come quella dovuta al passaggio
dalla dittatura alla democrazia, abbiano oggi gran voglia di ricevere
attenzione e parlare della propria storia: questo dimostra una
autentica volontà di dare ancora all’arte un senso profondo, che va
ben oltre la semplice funzione estetica.
La Polonia, e in particolare Varsavia, hanno subito dagli anni
Novanta un notevole sviluppo economico, coinciso con le
liberalizzazioni del mercato messe in atto dopo il ritorno della
democrazia (1990) e l’ingresso nell’Unione Europea (2004).
Come si riflette questa accelerazione economica nell’arte?
Varsavia è un caso esemplare in quello che dici. La città è in
continua evoluzione, e il cambiamento è percepibile ad esempio
nell’architettura. C’è un fermento culturale che coinvolge tutti gli
aspetti della vita cittadina, e questo è dovuto sicuramente a una
condizione economica in crescita.
Ovviamente tutto ciò si riflette positivamente anche nell’arte. Dagli
anni Novanta ad oggi sono nate ottime gallerie private, mentre
le istituzioni pubbliche si sono sempre più aperte al mercato
internazionale. Tutto ciò crea ottime energie creative, e gli artisti non
possono che beneficiarne.
Quanto è forte l’interesse dello Stato nei confronti dell’arte
nazionale?
Credo che l’interesse dello Stato nei confronti della cultura non sia
mai abbastanza. Le risorse mancano ovunque, ed è una certezza
statistica che purtroppo accomuna molte realtà europee.
qui varsavia
qui varsavia
Curatrice alla Zacheta National Gallery, Warsaw
d’arte, poter apprezzare la sua bellezza o la sua forza è una cosa non
facile. E’ come acchiappare una bellissima farfalla colorata, senza
aver esperienza per farlo. Attraversando secoli e regioni geografiche
diverse troviamo tanti modelli di bellezza e tanti valori da apprezzare
o da contestare ma non ci sono ricette pronte, definizoni facili, ne per
l’artista ne per lo spettatore.
E’ possibile che si riveda il paradigma dell’arte contemporanea
riportanto l’interesse verso i temi della classicità e della
specificità dei linguaggi artistici? Per me un artista contemporaneo deve sempre misurasi con la
tradizione. La sua arte ha senso solo se c’e dietro il bagaglio della
cultura delle generazioni precedenti, la cultura antica e quella
recente, quella artistica ma anche quella letteraria. Qualsiasi senso
troviamo nell’opera moderna (qualla video, quella ambientale,
quella concentuale o di altro tipo) il punto di riferimento è quello
Joanna Kilian
Curator of Italian Painting
National Museum Warsaw
dell’approfondimento e questo coincide sempre con l’arte dei
maestri antichi. L’arte classica, astratta nel medioevo, mimetica dopo
rinascimento, quella prima delle avanguardie all’inizio ventesimo
secolo, puo’ essere respinta, o reinterpretata, ma mai ignorata.
Senza il passato la nostra cultura è vuota, povera, perde il senso.
Le nuove “Avanguardie” di oggi sono spesso molto ripetitive.
I dadadaisti erano freschi, autentici, giovani, forti e convincenti
nella lora vera intransigenza. Loro stessi più “tardi” sono diventati
accademici.
Per me non c’e niente di peggio dall’avanguardia accademica! E’’
una contradizione! L’artista contemporaneo non deve seguire le
mode, non deve essere ripetitivo, ma deve essere sempre curioso
delle novita’, deve camminare un passo avanti, guardando però
il passato con l’attenzione, con l’erudizione e sopratutto con la
sensibilità.
peso a queste cose e la crisi attuale nonché l’artificiosità dei
valori finanziari ha fatto emergere con forza la contraddizione
fra arte e sistema di mercato.
L’arte polacca è considerata una delle più interessanti al mondo
ed io voglio approfittare di questa situazione del momento per
dare spazio agli artisti; noi abbiamo buoni contatti con New York
e riusciamo piano piano a mandare i nostri lì. Questo non significa
che loro devono rimanere lì per sempre ma almeno fare esperienza
internazionale.
In quale direzione va l’arte polacca della generazione della
quale ti occupi, quella appunto dei trenta-quarantenni?
Noi siamo nella tradizione concettuale, ora assistiamo anche ad un
certo ritorno della narrazione ma anche questa avviene attraverso
un pensiero e una modalità concettuale. Da noi è molto importante
che l’arte abbia una dose di rischio e di coraggio, forse i più giovani,
mi riferisco alla generazione dei ventenni, non rischiano, non
osano abbastanza mentre la generazione precedente ha almeno
l’aspirazione di cambiare il mondo.
16
Chi è Joanna Kilian Michieletti?
Io sono curatrice italiana dal trecento fino al settecento, qui nel Museo
Nazionale abbiamo opere importanti dell’arte italiana, soprattutto del
rinascimento e del barocco. Sono particolarmente interessata della
pittura senese e veneziana del cinquecento e mi piace molto il vostro
Paese.
E’ appena finita la mostra di Guercino che abbiamo organizzato
con Fausto Gozzi, il direttore della Pinacoteca di Cento, è stata
una mostra che ha avuto grande successo benchè Guercino non
abbia la notorietà di Caravaggio ma ha avuto comunque circa
quarantacinquemila visitatori.
Io come curatrice sono una maniaca della buona scenografia
allestitiva e per questo mi sono rivolta ad uno scenografo dell’opera
molto importante che si chiama Boris Kullicka, che fa le scenografie
per l’Opera Nazionale di Varsavia, Frankoforte, New York, Tokyo
ma anche per la stessa Scala di Milano. La scenografia aveva un
sottotitolo che era “Guercino. Trionfo barocco”.
Sei una storica dell’arte oppure t’interessi anche di arte
contemporanea?
Faccio spesso discussione con i miei colleghi che pensano che
solo l’arte contemporanea può attrarre pubblico ma io non credo
questo anzi penso che l’arte classica possa interessare molto anche
i giovani ma dobbiamo imparare ad esporla in modo attraente e non
noioso. L’arte classica antica può essere sempre viva come è vivo
Shakespeare. L’arte contemporanea è sinonimo di libertà ma i critici
d’arte contemporanea sono più rigidi e fanatici di noi che ci occupiamo
di arte antica, tendono a vedere l’arte in termini dogmatici.
Sarebbe ingenuo pensare che il sistema dell’arte contemporanea
non risponda appunto a un sistema e come tale a un’oligarchia
intellettuale con precisi interessi sia culturali sia di potere
e di mercato. Un gruppo di noi artisti italiani “Accademia
Italia” che insegniamo nelle accademie, stiamo in qualche
Questa è una galleria privata?
No questa è una galleria pubblica, non abbiamo niente a che fare
con il mercato e con i soldi, il budget è molto contenuto ma noi
lavoriamo tantissimo per la promozione dei nostri artisti, abbiamo
un archivio digitale importante sul quale c’è anche l’interesse del
MOMA e del Metropolitan per farlo funzionare al meglio. Foxal non
ha mai funzionato come un white cube ed ogni mostra è un progetto
specifico per Foxal, un po’ come project room e site specific.
modo sostenendo la necessità di rifarci alla grande tradizione
riconsiderando la memoria dei nostri linguaggi ed esponendo
volutamente il nostro lavoro negli spazi dei musei d’arte antica,
dimostrando anche la fertilità del dialogo fra i linguaggi del
passato e quelli recenti pensando all’arte come a un’unica
espressione, pensando che tutta l’arte sia contemporanea.
Si io credo fermamente che bisogna ristabilire il dialogo fra i linguaggi
dell’arte indipendentemente dall’epoca in cui si sono realizzati.
Dovremmo sviluppare di più la discussione intorno ai temi dell’arte
o anche intorno ad un aspetto monografico; quest’anno per esempio
l’abbiamo fatto sulla scuola di Giulio Romano con anche uno
spettacolo intorno ad un solo dipinto.
Credo che la vostra idea di ricostruire un dialogo con la storia sia
molto interessante e vedo qui dal catalogo che il rapporto fra le
opere e lo spazio è molto felice ma sono temi che vanno molto
approfonditi; in questo momento c’è l’interesse a superare un certo
ermetismo dell’arte moderna e questa crisi ci spinge a concentrarci
maggiormente.
A cura di Gaetano Grillo
Lo stato polacco sta investendo sull’arte?
Assolutamente no, abbiamo sempre discussioni su questo ma qui è
come in Italia, abbiamo credo solo l’uno per cento del bilancio che
viene destinato all’arte. Per fortuna ci sono sempre più possibilità di
sponsorizzazioni come è stato per la stessa mostra del Guercino.
L’anno prossimo faremo una mostra importante di Tamara de
Lempicka che come puoi immaginare ha dipinti costosi che solo di
assicurazione ci richiederanno molte risorse.
La prossima volta vorrei che incontrassi anche il nostro vice-direttore
Piotr Rypson che ha una particolare sensibilità per l’arte moderna e
per il dialogo fra l’arte di tempi diversi.
Come opera una galleria a Varsavia? C’è un mercato dell’arte
contemporanea che permette di lavorare?
Purtroppo qui il mercato è molto ridotto, è come se non esistesse
e per questo motivo le gallerie private svolgono quasi la stessa
attività di quelle pubbliche. Per me in questo momento è importante
lavorare con i nostri artisti trenta-quarantenni, che da noi non sono
considerati molto giovani, ma che hanno già un certo successo qui
in Polonia.
La strategia della galleria Foxal non è quella di lavorare sulla mostra
di un artista ma di concorrere alla sua carriera costruendo insieme
un percorso.
Ma voi pensate che il mercato sia una forma di compromesso
dell’arte oppure pensate che sia necessario?
No, non penso che il mercato sia un nemico dell’arte, qui anche
i curatori talvolta comprano delle opere, anch’io ho comprato
ultimamente dei quadri ed ora soffro perché devo pagarli ma il
desiderio di averli è stato molto più forte. Adesso le gallerie due
volte l’anno organizzano “Saloon” per invogliare i giovani ad iniziare
una piccola collezione di arte contemporanea, stabilendo un tetto
massimo proprio per invogliarli il più possibile, l’anno scorso era di
ottocento euro, quest’anno è di milleduecento euro. Le gallerie si
sono associate in un’associazione e quest’anno per la terza volta ci
sarà l’iniziativa “Gallery weekend”.
Esiste il valore specifico di un’opera? da quali elementi dipende?
Il valore specifico di un’opera mi sembra un enigma insolubile, come
enigma rimane il mistero della vera bellezza. Comprendere un opera
In questo momento da più parti ci si domanda se sia ancora
giusto continuare a parlare di arte in relazione alla “carriera” e
al “successo”, forse negli ultimi decenni abbiamo troppo dato
Quali sono le tue relazioni con l’arte italiana?
Io ho fatto la mostra di Cattelan e ho contatti con la Fondazione
Sandretto di Torino.
Justina Wesolowska
Curatrice e gallerista FOXAL
Quindi non esiste per niente oppure inizia a svilupparsi un
piccolo mercato?
Io non dovrei proprio occuparmene e per me è molto importante
l’etica, quindi come galleria pubblica non dovrei pensare all’arte
commerciale ma solo all’arte ambiziosa. Le nostre gallerie private
devono portare avanti lo sviluppo commerciale degli artisti, per
questo motivo quando queste vanno nelle fiere internazionali come
per esempio Art Basel, hanno il supporto dello Stato.
qui varsavia
qui varsavia
A cura di Gaetano Grillo
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Wojciech Zubala
Pro-Rettore all’Accademia di Belle Arti, Varsavia
Noi qui a Varsavia, preferiamo stare con il Ministero della
Cultura per salvaguardare la nostra tradizione. Questo
è importante anche perché le persone che lavorano nel
Ministero della Cultura capiscono meglio i problemi
specifici della formazione artistica. Il Ministero della
Scienza tende ad unificare tutte le Istituzioni secondo
un modello comune mentre noi crediamo che la nostra
autonomia didattica sia un valore da tutelare.
A cura di Gaetano Grillo
Sono interessato a capire come funziona il vostro sistema
accademico in Polonia per compararlo con il nostro, in Italia.
In Polonia abbiamo otto Accademie di Belle Arti, ognuna di queste è
autonoma, nel senso didattico, significa che le decisioni sui programmi
sono prese indipendentemente, possiamo cooperare con le altre
accademie ma non abbiamo un sistema integrato. L’importante è avere
la supervisione del Ministero della Cultura e della Eredità Nazionale.
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Voi dipendete dal Ministero della Cultura e non da quello
dell’Istruzione e dell’Università?
Noi dipendiamo da due ministeri, da quello della Cultura e da quello
dell’Università, le decisioni di quest’ultimo ci riguardano ma per noi è
più importante il Ministero della Cultura.
C’è un organismo o una figura che si interfaccia fra il Ministro e i
Rettori delle varie Accademie?
All’interno del Ministero della Cultura c’è un Dipartimento dedicato
all’Istruzione Artistica mentre il Dipartimento dedicato all’Università
non dipende dal Ministero della Cultura ma dal Ministero della Scienza.
Il vostro titolo di studio com’è considerato?
Come una laurea, come nelle Università, allo stesso livello.
E il trattamento economico?
Non è uguale perché il Ministero della Scienza finanzia meglio le sue
istituzioni, è per questo motivo che alcune Accademie, come quella
di Poznan, hanno deciso di passare sotto il Ministero della Scienza
e Poznan è diventata un’Università dell’Arte. La stessa cosa l’hanno
fatta alcune Accademie di Musica.
Per voi è giusto che ci sia questa differenza oppure siete orientati
a convergere in un sistema universitario unico?
Questa è una questione soggettiva, noi qui a Varsavia, preferiamo
stare con il Ministero della Cultura per salvaguardare la nostra
tradizione. Questo è importante anche perché le persone che lavorano
nel Ministero della Cultura capiscono meglio i problemi specifici della
formazione artistica. Il Ministero della Scienza tende ad unificare tutte
le Istituzioni secondo un modello comune mentre noi crediamo che la
nostra autonomia didattica sia un valore da tutelare.
Quale è la vostra posizione rispetto al Processo di Bologna che
prevedeva un unico sistema europeo?
Il Processo di Bologna vede sempre più crescere il numero delle persone
che nutrono un sentimento critico verso quella soluzione e un piccolo
numero di persone che ne sono ancora entusiaste. La conseguenza
più grave di quel processo sarebbe la perdita del carattere artistico
Gli studenti aumentano qui da voi?
Quando io ho studiato in questa accademia, venticinque anni fa,
c’erano seicento studenti, oggi ne abbiamo quasi milleseicento. Oggi
abbiamo nove dipartimenti, Pittura, Scultura, Grafica, New Media ecc.
Però l’ampliamento dell’offerta formativa e dei dipartimenti già
di per sé implica un’identità meno artistica di un tempo e più
eterogenea, forse più orientata alla creatività che all’arte.
La cosa più importante è il rapporto diretto fra il professore e lo
studente e quando il numero degli studenti aumenta troppo è sempre
più difficile riuscire ad avere quel rapporto che invece è l’unica vera
qualità della nostra formazione che si basa non sulle nozioni generali
ma soprattutto sull’intelligenza individuale.
In Italia lo Stato eroga sempre meno fondi alle Accademie
costringendole a finanziarsi con i soldi degli studenti e così noi
siamo costretti ad accettarne molti di più di quanto vorremmo.
Ma da voi le Accademie sono private?
No, sto parlando delle Accademie pubbliche.
In Polonia gli studi sono totalmente gratuiti, lo Stato tutela il diritto allo
studio. Dopo il grande cambiamento sociale di venti anni fa’ c’è la
tentazione di iniziare a far pagare qualcosa ma si teme di innescare
delle reazioni forti da parte della popolazione e per questo motivo il
processo è molto lento e prudente.
Il rapporto docente-studente nelle nostre accademie italiane
è sempre più difficile proprio per l’alto numero di studenti; la
conseguenza diretta è che i nostri insegnamenti artistici diventano
sempre più teorici e la stessa ricerca si basa sempre più sulle
idee, sui processi e sul metodo concettuale piuttosto che sulla
forma. Oggi ho visitato la vostra Accademia ed ho visto che i
laboratori sono molto vitali, ogni studente ha spazio per lavorare
ma da noi questo è sempre più difficoltoso. Paradossalmente
potrei dire che lo Stato italiano, costringendoci a questa politica
quantitativa sta lentamente distruggendo la nostra vocazione alla
qualità e all’eccellenza.
Capisco il problema perché anche noi riceviamo dal Ministero risorse
economiche in rapporto al numero degli studenti perciò tendiamo ad
averne più di quanti sarebbe giusto averne, anche se non arriviamo al
rapporto, forse eccessivo, che avete voi in Italia.
Anche per questo motivo vogliamo rimanere con il Ministero della
Cultura, perché capisce meglio che la formazione artistica è una cosa
molto particolare e che il numero degli studenti non può essere alto
ma deve rimanere entro il tre per cento della popolazione studentesca
così com’è ora.
Francesco Hajez, autoritratto.
ACCADEMIE
E PROFESSORI,
gioie e dolori !
Di Francesco Correggia
Considerazioni generali. Che strano paese è mai questo dove tutto sembra come prima, dove
non si riesce più a reagire, a prendere coscienza? Il silenzio sembra essersi impossessato di tutti. Mi riferisco non tanto
al silenzio discreto, tenero e educato che in qualche modo apre al
linguaggio, al sentire, alla sorpresa della parola, ma a quel silenzio
che si è costretti a subire e cioè a quella dimensione del lasciar fare,
del lasciare andare, tanto le cose non cambieranno mai. E’ per tale
ragione che mi sono messo a scrivere su un argomento che forse
non fa notizia, che non incuriosisce più e forse ne scrivo proprio per
questo. Scrivere sullo stato delle Accademie di Belle Arti, della loro riforma,
dei loro problemi è cosa ormai che non interessa più nessuno, in
considerazione anche del fatto che ormai questo paese appare
lobotizzato, in un degrado culturale avanzato, che investe non solo
le Accademie di Belle Arti ma tutte le Istituzioni Universitarie. E allora
perché scrivere su una vicenda che sembrerebbe non riguardarmi
più, considerando che mi sono messo da qualche anno in pensione?
Lo faccio per i miei colleghi, per il bene comune, per l’Istituzione,
per il Ministero, per l’Alta formazione artistica, musicale e coreutica
(AFAM) a cui sono relegate le Accademie con la famigerata riforma
508 del 1999? No, non lo faccio per questa ragione ma solo perché ho
deciso di buttare via qualcosa come cinque scatoloni che contengono
centinaia di pagine, di documenti, progetti, atti dei numerosi convegni,
programmi, vertenze sindacali, ricorsi al TAR ecc. Tutto questo materiale ormai mi pesa come un macigno, come un
pugno sullo stomaco. Esso mi accompagna ormai da molti decenni
19
opinioni
qui varsavia
I professori delle accademie hanno lo stesso trattamento
economico dei docenti dell’Università?
In tutte le Accademie i professori hanno gli stessi titoli giuridici dei
colleghi dell’Università, hanno lo stesso valore.
delle nostre istituzioni e per gli studenti è sempre più difficile trovare
il tempo per la loro ricerca individuale perché siamo costretti sempre
più a riempire moduli per fare troppi esami. La burocrazia aumenta
sempre più e questo è in antitesi al metodo artistico.
e ogni volta che cambio casa (per me succede spesso) me lo porto
dietro. Non so mai, dove sistemare questi fogli, queste pagine
sbiadite, documenti che in qualche modo sanciscono un fallimento.
Esse suonano come un’accusa del perché io abbia speso tutte
queste energie a battermi contro un muro di burocrazia, d’ignoranza,
di omertà. Di recente non apro questi portali dell’orrore che pure
contengono una cronistoria, direi quasi istruttiva, dell’inefficienza
amministrativa delle nostre Istituzioni accademiche. Non li apro
perché solo a pensare di consultarne le pagine mi si apre una
voragine e una sequenza d’immagini, parole, promesse intorno a
lotte e speranze, tutte andate perdute. Le circolari ministeriali, i decreti leggi, i documenti sindacali, le lettere
indirizzate al Parlamento, ai vari Presidenti della repubblica, alle
Commissioni parlamentari sono sotto i miei occhi ed io mi chiedo
perché stanno qui e recalcitro a gettare tutto nell’immondizia in fondo
essi sono a testimoniare un fallimento doloroso. E allora che farne?
Ho appunto deciso di liberarmene. Ciò vuol dire anche ricordare
le lotte passate ma anche chi non è più ormai con noi e che si è
battuto per una riforma giusta, in linea con i tempi e la dimensione
problematica e fattuale dell’arte. Mi guida la memoria di docenti che non ci sono più come Cavaliere,
Ferrari, Ortelli, Fabro, Aricò, per chi è andato in pensione un po’
malinconicamente come Ceretti, De Valle, De Filippi, Bucciarelli,
Esposito, Garutti, un po’ come me per esasperazione e rabbia (in
fondo sarei potuto rimanere ancora per qualche anno) per non esser
riuscito a cambiare le cose.
Ciò che m’induce a scrivere è proprio il tentativo di liberarmi di tutte
queste carte. Non si tratta di una retorica lamentosa che gira su se
stessa, ma è per senso di verità nel prendere atto di un disastro tutto
italiano che parte anche dalle modalità con cui le Istituzioni di questo
paese hanno affrontato con le loro sguaiate riforme, l’istruzione
superiore, il sapere, la ricerca, le conoscenze. Sono piccole cose
come queste a incarnare tutti gli altri mali che portiamo con noi come
un macigno insostenibile. Da dove partire? Dalla descrizione dei
vari decreti che si sono succeduti dopo la Legge 508 del lontano
dicembre del 1999? Dalle declaratorie, dalle ordinanze Ministeriali dei vari Direttori
generali del settore, dagli innumerevoli e infiniti ricorsi? No non me la
sento sarebbe come scrivere una storia inutile e tutti sappiamo che
la storia la si racconta non solo per essere consegnata al passato
ma per ammonirci sulle cose presenti e poi questa storia sembra
dirci bene ciò che conosciamo già con ineluttabile rassegnazione.
Nelle Accademie di Belle Arti si dimentica spesso la propria storia
figuriamoci quella più recente. E’ stato scritto già abbastanza da
parte mia e da altri sia in sede sindacale sia in quella istituzionale
(sono stato nel Consiglio di Amministrazione per due anni, per sei
anni nel Consiglio Accademico, a lungo nel direttivo nazionale della
CGIL e poi in quello della CISL). Non è servito a niente, era come
muoversi in un pantano. Mi limiterò solo a raccontarvi in breve una
specie di cronistoria dello stato di malinconica decadenza in cui
vivono le Accademie di Belle Arti. Non voglio parlare di quanto sono pagati i docenti. . Questa è appunto
letteratura. Orami si sa che un docente di prima fascia (ex docente di
cattedra) arriva alla fine della sua carriera a percepire mensilmente
2,200,00, un professore di seconda fascia, (ex assistente 1.600,00)
un supplente precario 1,300,00, un contrattista da un minimo di
1,800, 00 all’anno a un massimo di 3.000,00. Ormai bisogna quasi ringraziare stipendi come questi in un paese
che non sa misurare il merito, distinguere il bene dal male, il vero
dal falso, in un paese dove tutto appare mischiato in un lavaggio di
sentimenti, passioni, promesse e falsità di ogni specie da parte di chi
è preposto alla cosa pubblica e dare normative intelligenti e razionali
per consentire a questo paese di crescere. E’ da venti anni che la
crisi sembra suonare irrimediabilmente sempre quando si affronta la
questione delle Accademie di Belle Arti. Quando si arrivava a siglare un accordo sindacale con l’ARAN
(l’agenzia che tratta per conto del governo) c’è sempre stata una
crisi. La risposta è sempre stata la stessa: sì certo avete ragione ma
non ci sono risorse, dovete accontentarvi. Ormai questo argomento
è diventato una specie di Tabù visto come vanno le cose in Italia
con manager e politici che se la godono con i loro stipendi e la loro
liquidazione. Non voglio entrare nel merito e nell’agone della politica di casa nostra.
Il mio intervento a proposito delle Accademie di Belle Arti italiane si
LA STORIA
La legge di riforma 508 delle Accademie e dei conservatori arriva
nel dicembre 1999 ed è già in ritardo rispetto alla precedente legge
Gentile che addirittura risale al 1923.
Essa fu insieme alla Legge per l’Università la 509 sempre del
1999 l’espressione di una visione del sistema universitario, di una
specie di affresco, sono proprio le parole usate dell’allora ministro
al MIUR Luigi Berlinguer, il quale appunto ne disegnava, come se
fosse una visione, in un convegno a Roma i comparti. Da una parte
c’era l’università, le sue conoscenze, la libera ricerca, dall’altra l’Alta
formazione artistica musicale (AFAM) che comprendeva Accademie
di Belle Arti, Conservatori, L’Accademia nazionale di Danza, l’Istituto
superiore per l’industria artistica.
Questa divisione corrispondeva a una maniera sbagliata di concepire
il senso operativo, progettuale della formazione artistica superiore.
Da una parte c’era l’Università, dall’altra la formazione artistica
superiore con percorsi separati ma paralleli.
Che cosa voleva dire tale delirio ? Possiamo comprenderlo nelle due
leggi che in qualche modo disegnavano i comparti del MIUR. Una: la
legge 509/99 per l’Università, luoghi di un sapere teorico scientifico
e l’altra: la 508/99 che metteva insieme le Accademie di Belle Arti, i
Conservatori, gli Istituti superiori per l’industria artistica (ISIA) in un
unico comparto di una formazione tecnica professionale. L’AFAM
Fu il risultato di un compromesso politico sindacale che costringeva
le Accademie a fare un passo indietro rispetto alla sua vocazione
decisamente universitaria. Le due leggi avevano qualcosa in
comune secondo il modello anglo sassone: la formazione di primo
livello il famigerato triennio (diploma di primo livello) e il secondo
livello (diploma di secondo livello). Il percorso formativo era di tipo
universitario ma separato, e già ciò era un pasticcio tutto italiano.
La 508 non era altro che un contenitore vuoto che andava riempito
attraverso vari decreti legislativi che dovevano in qualche modo
indicare la strada e il percorso universitario, le discipline, i settori, i
percorsi formativi. Il problema di questa riforma concepita da una volontà distorta
dell’allora regime politico era proprio il fatto che essa non corrispondeva
alla realtà culturale, della formazione artistica superiore sia da un
punto di vista dei saperi dell’arte sia per quanto atteneva il quadro
normativo.
Intanto le Accademie già da tempo avevano istituito percorsi
universitari con corsi teorici e pratici teorici chiamati corsi speciali, a
differenza dei Conservatori i cui percorsi formativi includevano anche
la possibilità di accesso anche con la scuola media. La questione più
rilevante era ed è che le Accademie di Belle Arti in tutti gli altri paesi
europei erano già nel sistema universitario senza ma e senza se. Esse non avevano bisogno di attivare un percorso formativo
equiparato all’Università poiché le medesime avevano già all’interno
dei loro ordinamenti una coerenza universitaria.
Ciò era ed è una questione non solo formale ma sostanziale che
avrebbe dovuto consentire, non un percorso parallelo e separato
dall’Università, ma una normativa che includeva le Accademie nel
comparto universitario. Bastava estendere la 509/99, (Legge di
riforma dell’Università) anche e solo alle Accademie di Belle Arti
prevedendo appunto una fase di transizione.
La realtà delle Accademie era ben diversa da quelle dei Conservatori
la cui normativa per quanto riguardava gli accessi, le discipline e gli
strumenti era ancora in una fase iniziale . Non entro qui in merito alle
numerose proposte di riforma presentate prima della 508. Voglio soltanto ribadire che rispetto ai progetti di legge precedenti
essa nasceva già sbagliata, monca, senza alcuna sostanziale
motivazione culturale e fra l’altro senza alcuna risorsa per sostenerla,
senza senso e sostanzialmente punitiva. Infatti, per la prima volta
nella storia sindacale dell’Italia, i soggetti di una legge di riforma
e cioè tutto il personale docente è messo in uno stato giuridico ad
esaurimento il che vuol dire, quasi una messa in quarantena, un non
potere accedere ai livelli superiori neanche attraverso nuovi sistemi
concorsuali. Ciò che invece accade di paradossale è che l’entrata in vigore
della legge dopo tanti e inutili convegni organizzati dai vari Direttori
generali, con spese a volte eccessive, ha consentito a gran parte
del personale dell’Ispettorato Istruzione Artistica a cui facevano
capo le Accademie, i Conservatori e i licei artistici, di essere, di fatto,
promosso a un livello superiore con miglioramenti economici e di
carriera, nella Direzione generale AFAM con un suo Direttore.
Sarebbe come dire che invece di eliminare la cancrena di un
Ispettorato all’Istruzione artistica, burocratico clientelare si è preferito
promuovere i propri dipendenti ad incarichi superiori.
Le conseguenze sono state disastrose: l’immobilismo, la confusione,
la non chiarezza, accordi sindacali a danno delle istituzioni. Insomma
l’inizio della fine. Dopo 15 anni dall’entrata in vigore della legge non
sono ancora stati attuati tutti i decreti attuativi. Sono sotto gli occhi
di tutti il degrado, le anomalie in cui vivono queste nobili istituzioni.
Si è vero sono stati emanati numerosi decreti applicativi che
avrebbero dovuto portare chiarezza rispetto ai percorsi disciplinari
e all’equiparazione universitaria ma tali decreti si sono dimostrati
inefficaci e lontani da una vera autonomia universitaria e scientifica. Ne riporto qui di seguito un elenco per chi volesse seguirne lo
sviluppo e capire come una riforma con pretese di riqualificazione di
un settore così importatene abbia potuto alla fine produrre il classico
topolino, cioè niente: D.P.R. 28 febbraio 2003, n.132 - Regolamento recante criteri per
l’autonomia statutaria, regolamentare e organizzativa delle istituzioni
artistiche e musicali, a norma della legge 21 dicembre 1999, n.
508. D.P.R. 8 luglio 2005, n. 212 - Regolamento recante disciplina
per la definizione degli ordinamenti didattici delle Istituzioni di alta
formazione artistica, musicale e coreutica, a norma dell’articolo 2
della L. 21 dicembre 1999, n. 508. D.M. 16 settembre 2005, n.236 Regolamento recante la composizione, il funzionamento e le modalità
di nomina e di elezione dei componenti il Consiglio nazionale per l’alta
formazione artistica e musicale. Regolamento recanti disposizioni
correttive ed integrative al DPR 28 febbraio 2003, n. 132, in materia di
modalità di nomina dei presidenti delle Istituzioni artistiche e musicali.
D.P.R. 31 ottobre 2006, n. 295 . D.M. 3 luglio 2009, n.89 - Settori
artistico-disciplinari delle Accademie di Belle Arti. D.M. 3 luglio 2009,
n.90 - Settori artistico-disciplinari dei Conservatori di Musica. D.M.
30 settembre 2009, n.123 - Ordinamenti didattici dei corsi di studio
per il conseguimento del diploma accademico di primo livello nelle
Accademie di Belle Arti. Decreto Interministeriale 30 dicembre 2010,
n. 302 - Istituzione del corso di diploma accademico di secondo livello
di durata quinquennale abilitante alla professione di “restauratore di
beni culturali”. D.M. 23 giugno 2011, n. 81 - Restauro: definizione
degli ordinamenti curriculari dei profili formativi professionalizzanti
del corso di diploma accademico di durata quinquennale in restauro,
abilitante alla professione di “Restauratore di beni culturali”. D.M. 28
marzo 2013, n. 241 - D.M. di definizione della corrispondenza dei titoli
sperimentali triennali validati dal Ministero con i diplomi accademici
di I livello degli Istituti Superiori per le Industrie Artistiche. D.M. 28
marzo 2013, n. 242 di definizione della corrispondenza dei titoli
sperimentali triennali validati dal Ministero con i diplomi accademici
di I livello della Accademie Belle Arti e delle Accademie - di Belle Arti
Legalmente Riconosciute. Nel 2007 visto il decreto ministeriale 16 settembre 2005, n. 236
viene costituito il CNAM che doveva avere compiti analoghi a quelli
del CUN (Consiglio Universitario Nazionale) . Esso avrebbe dovuto
promuovere e perseguire la qualità più elevata nella formazione,
nella ricerca e nella correlata attività di produzione artistica, anche
in riferimento al processo di armonizzazione dei modelli didattici ed
alla costruzione di uno spazio europeo dell’alta formazione artistica
e musicale. Il CNAM avrebbe dovuto incentivare e valorizzare il processo di
autonomia delle istituzioni, con al centro del sistema formativo lo
studente ed una più adeguata applicazione delle norme sul diritto
allo studio, strutture e servizi di sostegno e di orientamento idonei,
anche in riferimento alla forte attrazione internazionale del sistema
formativo artistico nazionale.
Niente di tutto ciò è accaduto realmente. Il CNAM nei fatti ha impedito
quel processo di autonomia e organizzazione disciplinare, né ha
favorito la programmazione e l’attivazione di tutti i tre cicli dell’alta
formazione. Come luogo di progetto e organizzazione scientifica
didattica ha prodotto solo confusione allontanando tali Istituzioni
da quella internalizzazione del sistema e la valorizzazione della
produzione, della ricerca e della formazione artistica, che era uno dei
suoi compiti istituzionali.
Dopo ben 15 anni più che portare a termine il processo di riforma
della 508 non si è fatto che, in qualche modo ribadire, la distanza
dall’Università, altro che percorso parallelo, ma ancora peggio tutti i
decreti più che armonizzare il settore hanno disarticolato l’unitarietà,
la coerenza disciplinare dei piani formativi e il percorso didattico
delle pratiche e dei linguaggi espressivi delle scuole tradizionali
che confluendo nello stesso dipartimento si sono visti stringere in
una logica di divisione in scuole ormai anacronistica nel panorama
dell’arte e della sua dimensione operativa e formativa didattica. E’ così venuto meno quell’equilibrio fra pratiche e teorie, tradizioni e
attualità che hanno da sempre costituito l’ossatura della formazione e
la parte centrale dell’insegnamento artistico superiore. La mancanza
di normative adeguate ha fatto perfino rimpiangere la Legge Gentile
che almeno aveva una sua coerenza e una dimensione didattica
che corrispondeva al proprio tempo, al lavoro, all’impegno, alla
qualità dell’opera. Il non avere emanato norme giuridiche efficaci ha
aperto la strada ad accordi sindacali con l’ARAN che hanno sancito,
senza alcuna definizione di uno stato giuridico per via legislativa,
una specie di normativa sindacale/ministeriale interna. Invece di
arrivare a definire per decreto legge un’uniformità parallela a quella
universitaria con verifiche curriculari, si è preferito portare i docenti
titolari di cattedre a docenti di prima fascia e gli assistenti a docenti
di seconda fascia, senza alcun criterio logico e naturalmente,
senza alcuna risorsa finanziaria. Ciò che doveva essere regolato
da un decreto sullo stato giuridico della docenza ora è stato risolto
attraverso un contratto, un accordo sindacale arbitrario. La responsabilità dei Direttori Generali dell’AFAM in particolare del
Dott. Civello, dei vari ministri che si sono succeduti al MIUR nonché
dei sindacati, in tutti questi anni è stata forte e ha manifestato una
profonda ignoranza sulla dimensione produttiva dell’arte in generale
e, quel che è peggio, sullo stesso quadro formativo europeo della
formazione universitaria. La responsabilità non è soltanto politica
ma va divisa anche all’interno delle Accademie stesse. D’altra
parte come si fa a pensare a percorsi disciplinari seri e specialistici
quando il sistema di reclutamento dei docenti non esiste, non si
fanno concorsi nazionali per esami e titoli dal 1992. Il Ministero con
il D.P.R. 8 luglio 2005, n. 212, ha cercato di armonizzare i percorsi
disciplinari attraverso la creazione di dipartimenti che non erano altro
che raggruppamenti di scuole e un offerta formativa con materie
raggruppate in settori scientifico disciplinari, D.M. 3 luglio 2009,
n.89 . Ad ogni disciplina corrispondeva una declaratoria. In realtà
molte materie proposte erano il frutto non di una logica scientifica
disciplinare ma di una spartizione e di una proliferazione numerica
dei corsi, ripartiti in settori scientifici disciplinari molte volte incoerenti.
Il risultato è stato un triennio e un biennio con una serie di discipline
a volte doppie e con denominazioni arbitrarie che in qualche modo
hanno fatto venir meno l’operatività del laboratorio e delle stesse
scuole, soprattutto per le discipline tradizionali e fondative come
Pittura, Decorazione, Scultura raggruppate in un unico dipartimento
di Arti visive insieme a Grafica che in realtà non ha mai fatto
parte delle scuole tradizionali. Nel dipartimento di Arti applicate
confluivano le scuole di scenografia, di progettazione artistica per
l’impresa, la scuola di restauro, di nuove tecnologie dell’arte, e la
scuola di fotografia. Il dipartimento di Comunicazione e didattica
dell’arte comprendeva la scuola di didattica dell’arte, e la Scuola d
comunicazione i valorizzazione del patrimonio artistico. Una ripartizione con un numero di scuole incedibile e una
proliferazione di corsi che ogni dipartimento provvedeva a istituire
sulla base di criteri appunto di comodo, di elargizione di favori e di
opportunità dei singoli responsabili dei dipartimenti. Ora la domanda
è: Chi andava ad insegnare le discipline della nuova offerta formativa?
Siccome non era possibile avviare un sistema concorsuale senza
un decreto sullo stato giuridico della docenza si è aperto l’abisso
dell’affido di tutte le materie dell’offerta formativa a docenti di ruolo di
prima e seconda fascia. Il Ministero con la grave responsabilità del
CNAM e della conferenza dei Direttori (un organo non previsto dalle
attuali norme) che serviva solo al Dott. Civello per le sue manovre
e contrastare così gli obblighi istituzionali del CNAM previsti per
legge, ha consentito che tutti i docenti di ruolo potessero insegnare
tutte le discipline dell’offerta formativa senza tener conto dei settori
scientifico/ disciplinari, dei curricula, e delle competenze necessarie
per l’insegnamento di tali discipline. Oltretutto l’incarico veniva dato
su materie diverse da quelle per cui i medesimi docenti erano stati
assunti sulla base di regolari concorsi e cioè per esami e titoli e per
soli titoli. Certo le Accademie attraverso i propri organi Istituzionali
Consiglio Accademico in primis hanno istituito commissioni interne per
la valutazione curriculare ma molte volte le medesime commissioni
sono guidate da logiche diverse, di filiazione, di scambio elettorale,
tutte logiche che rientrano nei modi della politica a cui siamo abituati
con umiliante rassegnazione, e non da criteri oggettivi e di merito. Il mancato rinnovo contrattuale e il fatto che i docenti siano obbligati
ad insegnare in una situazione ed una didattica universitaria, con
titoli rilasciati agli studenti equiparati a lauree universitarie senza
una conseguente normativa sullo stato giuridico della docenza ha
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opinioni
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limiterà a raccontare alcuni paradossi di questa storia, così in maniera
semplice ed evidente. Mi limiterò solo a seguire le tracce delle pagine
che stanno qui sotto i miei occhi: I progetti, le vertenze, i bandi di
concorso, l’offerta formativa, gli iter parlamentari, i progetti di corsi di
formazione alla ricerca, i corsi specialistici e via di seguito. Quando ci
si riferisce alla cultura e all’Istruzione Universitaria (sembra che oggi
ciò accada di frequente) chi ci rappresenta al parlamento e in senato
forse non sa di che cosa parla.
Come se le parole: Formazione, Ricerca, Cultura fossero una specie
di lavacro sacrale, di parole d’ordine che sbloccano tutto, che aprono
all’immaginazione. Solitamente la parola “cultura” è accompagnata
da altre due magiche parole: La Scuola e l’Università, l’AFAM non
è mai citata poiché appunto ancora non si sa in quale contesto
essa debba stare, appunto perché rimane un ibrido, un’invenzione
mostruosa, paradossale nel sistema universitario.
Tutte le parti politiche dicono in maniera diversa che bisogna ripartire
dall’istruzione e la ricerca. La domanda che si pone al di là di ogni elementare retorica è: qual’
è il grado di conoscenza della realtà, di come realmente stanno
le cose da parte di chi avrebbe l’obbligo morale di intervenire con
leggi ponderate ed intelligenti? E’ evidente che questi signori non
conoscono il mondo delle arti visive e neppure si rendono conto
della sua ricchezza in termini di nuovi lavori e di economia oppure
se conoscono tali potenzialità se ne guardano bene dall’agire con
norme e leggi adeguate che sappiano interpretare il ruolo e la
funzione delle dinamiche formative e produttive delle conoscenze
dell’arte. Tutto ciò è il palese risultato di una mancanza di vocabolari
adeguati ad esprimere le cose e la realtà del mondo in un sistema
che appare sempre più senza radici, senza consapevolezza critica,
teorica. In altre parole se vogliamo abbattere la corruzione, lo
strapotere, le ineguaglianze sociali, la violenza, occorre ripartire dai
nodi fondamentali del vivere quotidiano, dalle relazioni, dai rapporti
interpersonali, dalla ricerca della verità. C’è bisogno di una svolta etica che solo un sistema di valori condiviso
può portare a compimento, a partire proprio dalle conoscenze,
dalla ricerca, dall’arte, dal paesaggio, dalla storia, dalla poesia, dal
pensiero filosofico ed estetico che non sono universi immaginari che
stanno nell’iperuranio ma cose reali, motori necessari per lo sviluppo
di un’impresa, di un’economia, di un paese. Bisogna ricostruire il
senso di una ritrovata moralità nei costumi come avrebbe detto Kant
e di una responsabilità rispetto alla società civile. Non si tratta quindi
solo di dare risorse economiche (anche se queste sono necessarie
per lo sviluppo e per qualsiasi riforma) in un contenitore vuoto ma
occorre sapere che queste risorse sono destinate a mondi che
appunto dovrebbero esercitare non solo un alto livello di formazione
ed aprire a nuovi sbocchi occupazionali ma portare consapevolezza,
sviluppare capacità interpretative e creative nuove. Ciò non può che fondarsi sul concetto di disciplina e sul senso
morale che tali istituzioni dovrebbero incarnare a cominciare da uno
degli argomenti preferiti dai giornali quando si parla di Accademie
in maniera scandalistica e che invece ha implicazioni gravissime
sul livello culturale della didattica. Intendo riferirmi non tanto al
trasferimento di Brera in un altro luogo (ne parleremo nella prossima
puntata) o alla rottura di una qualche copia in gesso di una storica
scultura romana (cosa fra l’altro deprecabile e atto vandalico) ma alla
confusione legislativa, alle promesse non mantenute, a procedure
concorsuali inesistenti, all’assenza di un piano di sviluppo, il che
trascina con sé il livello di coerenza scientifica e disciplinare di tali
Istituzioni e ciò che esse rappresentano.
Tale questione va affrontata alla radice del sistema che per quanto
riguarda le Accademie e i conservatori origina dalla stessa politica in
materia d’istruzione artistica, mi riferisco all’Alta formazione artistica
musicale e coreutica, la cui dirigenza ha finora in qualche modo
contribuito al disastro normativo di tutto il settore. scatenato un assalto all’insegnamento sulle nuove materie dell’offerta
normativa con la conseguenza che molti docenti di ruolo si trovano
ad insegnare oltre la loro disciplina due, tre materie a volte quattro
con programmi simili. Conseguenze Dora Liguori
Intervista a tutto campo sullo stato
attuale dell’AFAM e sui motivi di una
riforma bloccata da 15 anni, la L. 508/99.
Che cosa si può fare Da questo non edificante quadro giuridico emergono una condizione
difficile, un degrado, una condizione esistenziale precaria.
Occorrerebbe da parte di questo governo un intervento immediato,
un salto di qualità che risponda ad una contingenza culturale
inderogabile, che faccia cambiare rotta a questo paese, a cominciare
proprio dall’Istruzione, nel nostro caso dalle Accademie di Belle Arti. C’è bisogno forse di un nuovo intervento legislativo, di una nuova
legge che con chiarezza abolisca la 508 e definisca il passaggio delle
Accademie nel comparto dell’Università con una fase di transizione
sia per quanto riguarda le nuove norme sia per la definizione dello
stato giuridico nei nuovi ruoli di docenza nel comparto dell’Università.
Per far ciò occorre soprattutto uscire dall’AFAM che finora non ha
fatto altro che corrispondere a posizioni di retroguardia culturale e
artistica.
Non basta un’iniziativa annuale come il premio Nazionale delle Arti
a lavare la coscienza, a superare gravi inadempienze e riempire il
vuoto legislativo cercando di accontentare gli studenti che avrebbero
bisogno di ben altro come l’avvio del terzo ciclo specialistico e dei
dottorati di ricerca o di formazione alla ricerca. Bisogna abolire il CNAM che si è mostrato un organo desueto,
inservibile, arroccato su falsi privilegi. Su questi punti bisogna
essere chiari e avere una posizione comune a meno che non si
voglia rimanere dove si è. In questo caso bisogna intervenire subito,
completando la 508/99 con decreti importanti come la definizione
dello stato giuridico della docenza, l’emanazione di concorsi, per
tutta l’offerta formativa, il completamento dei percorsi formativi per
quanto attiene il terzo ciclo della formazione (Corsi di formazione
alla ricerca, Dottorati congiunti con l’università ecc.). Bisogna dare
maggiore autonomia alle singole accademie trasformandole in Atenei
con norme universitarie. Aprire anche per l’AFAM la possibilità di far
parte di organismi come il CUN-CRUI l’ANVUR. Tutto ciò si può fare?
Io credo di no. E’ proprio la famigerata legge 508 a impedirlo e a trascinare le nostre
Istituzioni in una terra di nessuno. E’ la sua concezione concettuale
e normativa che non prevede tali cambiamenti. Insomma basterebbe
una nuova legge o un semplice decreto che sancisca l’appartenenza
al comparto universitario una volta per tutte e credo che in questo
senso si possa fare molto. In fondo le Accademie ma anche i
Conservatori con la loro storia sono un bene, un patrimonio culturale
importante e senza eguali in Europa.
Cosa intende fare questo governo? lasciare tutto così com’è?
Nominare un nuovo dirigente, un altro ennesimo sottosegretario che
non sa di che si parla, con delega all’AFAM, un Direttore generale
espresso dalla politica, senza alcuna competenza? Ripristinare
il CNAM? Riunire ancora commissioni per giungere a un niente di
fatto?
Insomma che si cominci a cambiare rotta anche e soprattutto a
partire da queste dimensioni apparentemente non importanti, rispetto
all’economia, al lavoro, alla disoccupazione, è proprio da qui che
bisogna iniziare per fare chiarezza, dare maggiore motivazione,
consapevolezza e dignità a tutto il sistema Italia.
Ora posso gettare al macero i miei miseri scatoloni di documenti o al
contrario posso tenerli e forse alla prossima mia mostra potrò farne
un’installazione. * Francesco Correggia è artista, ha insegnato per tanti anni
all’Accademia di Brera dove è sempre stato attivissimo nel perseguire
la riforma e nel Consiiglio Accademico.
Intervista a cura di Gaetano Grillo
Il CUN è articolato in Comitati d’area come: “Scienze
mediche”, “Scienze giuridiche”, “Ingegneria civile
e Architettura”, “Scienze dell’antichità, filologicoletterarie e storico-artistiche”, “Scienze storiche,
filosofiche, pedagogiche e psicologiche” ecc.
Le nostre discipline non sarebbero quindi separate dalle
altre, ma potrebbero avere due Comitati d’area dedicati,
rispettosi delle nostre specificità e articolazioni, cui
assegnare rispettivamente un numero congruo di
membri.
Dora tu sei stata il primo Presidente del C.N.A.M. subito dopo
l’approvazione della Legge 508/99, quale è stata la tua esperienza?
Esaltante e frustrante insieme. Esaltante perché grazie anche alla
bravura e alla competenza dei colleghi presenti nel CNAM, tutti
insieme pensavamo di poter fare qualcosa di altamente positivo per
Accademie e Conservatori tramite la stesura dei regolamenti attuativi
stilati in linea con i principi espressi dalla Costituzione e dalla legge
508 (a sua volta attuativa del dettato costituzionale); frustrante perché
detto lavoro, fatto per ben tre volte e ottimamente, restava sempre…
al palo. E tutto ciò è avvenuto anche quando l’ultima stesura di
detti regolamenti, per mia precisa volontà, è avvenuta presso la
Presidenza del Consiglio previo accordo politico con tutti i partiti
presenti in Parlamento (come noto i regolamenti debbono avere poi il
benestare, oltre che del Consiglio di Stato, anche delle Commissioni
parlamentari Cultura e Istruzione di Camera e Senato). In quel caso
noi tutti pensavamo di poter stare “sereni” ma, con ogni evidenza, chi
la riforma intendeva attuarla altrimenti (ed erano molti i soggetti che
covavano questo retro pensiero) ci ha fatto fare la fine… di Letta. Di
qui la frustrazione!
A distanza di 15 anni da quella legge di riforma, per altro non
ancora completata, puoi fare un bilancio individuando gli aspetti
positivi e quelli negativi di quel provvedimento?
Esiste sulla 508 molta confusione messa artatamente in giro dai
soggetti contrari di cui sopra. Infatti la legge, dopo anni di battaglie
e di umiliazioni che avevano visto il settore divenire stimato ancor
meno di una scuola secondaria, andando ad attuare finalmente il
dettato costituzionale, non può che definirsi una legge positiva (oltre
la Costituzione non è possibile andare).
La drammatica situazione successiva discende dal fatto che, essendo
la 508 una legge di riforma, essa non poteva non prevedere, per
andare a regime, tutta una serie di regolamenti attuativi. Pertanto se la
legge è ottima alla base, poiché riprende la Costituzione, la medesima
legge è divenuta discutibile in alcune sue parti applicate, a seguito del
tradimento operato, appunto attraverso la stesura di alcuni dei suoi
regolamenti attuativi (e ne mancano dopo 14 anni ancora altri).
E affermazioni del genere non le fa solo la sottoscritta ma lo
dicono anche, riferendosi ad alcune parti dei regolamenti stilati
dall’Amministrazione, pareri del Consiglio di Stato nonchè numerose
sentenze dei Tribunali Amministrativi. Ciò nonostante ogni qualvolta
a qualche “bello spirito” viene in mente di “punirci” (uno degli sport
italiani è proprio quello di dare addosso all’artista) la 508 è stata
sempre in grado di salvarci proprio appellandoci ai Tribunali.
Chi e cosa ha ostacolato o se vogliamo ha ritardato di così tanto
il completamento della sua applicazione?
La risposta in apparenza potrebbe apparire sin troppo facile: era
l’Amministrazione che, nella sua interezza (leggasi Direzione
Generale AFAM, Ufficio legislativo MIUR, Gabinetto del Ministro)
doveva provvedere alla stesura dei regolamenti; ma se detta stesura
è stata effettuata, per molti versi, in modo negativo (ed anche
questo è sotto gli occhi di tutti) sarebbe appunto troppo facile darne
tutta la responsabilità a detta Amministrazione, oppure lamentarsi
degli interventi non proprio amicali dei colleghi dell’università. Infatti
senza le necessarie coperture l’Amministrazione (in particolare la
direzione AFAM) non avrebbe potuto procedere. Se poi qualcuno
volesse sapere il nome di questi poteri ostativi, come già sopra
detto, basterebbe che andasse a rileggersi le dichiarazioni di quanti
contrastavano la legge durante il suo iter (in ogni caso gli onorevoli e
i senatori Carelli, Sbarbati, Asciutti, Napoli, Vita e tanti altri possono
ancora testimoniare). Purtroppo occorre dire che dove c’è l’Arte ci
sono forti interessi e i medesimi non sono sempre del tutto trasparenti.
Cosa manca per completare e mettere ad ordinamento quella
riforma?
Mancano i restanti regolamenti, e manca la messa a sistema dei gradi
precedenti, mediante l’introduzione della musica nella scuola primaria,
il completamento degli indirizzi strumentali delle medie, e la diffusione
sul territorio dei licei musicali, il tutto in sinergia coi conservatori. E se
per i primi regolamenti abbiamo dovuto attendere 14 anni speriamo
che per ultimarli non si debba attenderne altrettanti. Ricordasi che
per la messa in ordinamento del biennio specialistico è dovuto, grazie
all’azione dell’UNAMS, intervenire direttamente il Parlamento senza il
quale saremmo stati ancora… all’“introito della messa”.
C’è assolutamente bisogno di un nuovo C.N.A.M. per completare
quel processo oppure è un atto che può fare direttamente il
C.U.N. rispettando le autonomie didattiche delle Istituzioni sino
ad ora chiamate A.F.A.M.?
Certo che lo può fare il C.U.N., ovviamente con l’inserimento di nostre
rappresentanze. E se lo fa, essendo grazie a Dio il C.U.N. un organo
di cui il Ministro raramente disattende i pareri, potremmo finalmente
sperare di non dover assistere a quanto spesso avvenuto con il
C.N.A.M. ove, nonostante l’ottimo competente ed estenuante lavoro
dei consiglieri puntualmente si procedeva con un: “letto il parere,
facciamo il contrario”. Far parte di organismi forti è sempre utile. In
tal senso ricordo il lavoro da me svolto come componente del C.N.P.I.
23
u.n.a.m.s.
opinioni
22
I titoli di studio rilasciati dalle Accademie sono diplomi di primo livello
e di secondo livello. Essi sono equipollenti ai titoli di laurea. In effetti,
La Legge 268/02 è si intervenuta per riconoscere l’equiparazione
alla laurea universitaria dei titoli accademici conseguiti nel sistema
artistico e musicale italiano ma solo ai fini di un pubblico concorso e
del riconoscimento dei crediti formativi da spendere nei due sistemi
dell’Alta Formazione (AFAM e Università). La non applicazione della normativa europea a proposito di Istruzione
superiore e Università ha portato a una serie di confusione per cui i
titoli rilasciati dalle Accademie molte volte non sono riconosciuti da altri
paesi europei per gli accessi ai Bienni. Esiste di fatto un disequilibrio
fra i due sistemi quello dell’Università e quello dell’Afam sia da un
punto di vista dell’Autonomia sia per quello delle finalità didattiche.
Verso la fine degli anni novanta, un forte impulso alla trasformazione
dell’università in “senso europeo” (per quanto il termine sia stato
usato in sensi molto spesso contrapposti), viene dato dalla riforma
che introduce l’autonomia degli atenei. La riforma, rimodella anche i corsi di studio, introducendo la cosiddetta
formula del 3+2, basata sul modello anglosassone, il che è ribadito
ai sensi della legge 15 maggio 1997, n. 127, attuata con decreto del
Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica con
la legge 509. Se, in sostanza l’autonomia per gli atenei è tale da
consentire loro un reale cambiamento e rimodellamento dei percorsi
disciplinari anche con provvedimenti autonomi e attraverso il CUN.
Per le Accademie tale percorso di autonomia non esiste. Manca la
possibilità di rimodellare i percorsi disciplinari secondo le esigenze
didattiche e culturali di ogni singola Accademia. Il modello poi del Tre
+ Due non sempre funziona soprattutto per le scuole tradizionali i cui
livelli di didattica esperienziale, espressiva e poetica devono essere
più intensi, il che è difficile da misurare in crediti. Sebbene Il D.P.R.
28/02/2003, n. 132 abbia dotato le istituzioni AFAM di autonomia
statutaria, regolamentare, organizzativa, finanziaria e contabile nel
rispetto dei principi dettati dalla Stato.
Il successivo D.P.R. dell’8/07/2005 n. 212, ha indicato per il nuovo
ordinamento i principi e criteri generali della nuova offerta formativa
e della loro autonomia didattica, con l’articolazione degli studi in 3
cicli, secondo il modello ispirato dalla Dichiarazione di Bologna e in
convergenza con il modello europeo dell’istruzione di terzo livello,
delineato dagli accordi europei della Sorbona, di Bologna, di Praga
e di Berlino, ma in effetti i tre cicli non sono mai andati del tutto a
regime. Ne è un esempio il progetto di Dottorato alla ricerca in Antropologia
dell’immagine e problematiche del contemporaneo della gloriosa
Accademia di Brera (Corso di formazione alla ricerca) che
avrebbe dovuto aprire il terzo ciclo alla formazione. Il Dottorato
era stato approvato dal Consiglio Accademico e dal Consiglio di
amministrazione ma non è mai partito per mancanze di risorse da
parte del Ministero che indubbiamente può finanziare dottorati di
ricerca per le Università, seppure in maniera limitata, ma non può
finanziare quelli dell’Accademia smentendo gli accordi di Bologna. Ma ci sono anche problematiche interne a Brera dove prevalgono le
invidie, i personalismi, l’ansia di potere, dove si fa a gara per avere
una poltrona nel Consiglio accademico o per diventare Direttore e
non si guarda al bene e all’interesse comune, al bene degli studenti
e dell’Istituzione.
Non essendoci alcun concorso nazionale per esami e titoli funzionano
ancora le vecchie graduatorie per esami e titoli del 1992 per cui sono
chiamati a insegnare materie importanti come Pittura, Decorazione
personale che risulta nelle ultime posizioni di quelle graduatorie. Il risultato è che le Accademie, complice l’AFAM immettono in
ruolo per incarichi di docenza su discipline di indirizzo persone
che svolgono magari qualche altra attività e che non pensavano di
esseri chiamati dopo ventidue anni dall’entrata in vigore di quelle
graduatorie a svolgere un incarico così importante.
Il paradosso è sconvolgente e si commenta solo. Si può attingere
anche alle graduatorie di supplenze nazionali con conferimento
d’incarichi a tempo determinato ex Legge 143/2004: i cui criteri
selettivi per soli titoli seguono le norme della secondaria superiore,
basta leggere l’art, 272 del Decreto legislativo 16 Aprile 1994. Poi
ci sono le graduatorie di supplenza interne, che ogni Accademia
Istituisce per quelle materie le cui graduatorie di supplenze nazionali
risultino esaurite.
Anche qui c’è da registrare il fatto che molti di questi professori hanno
accumulato più di dieci anni di supplenza senza poter intravedere
alcuna prospettiva di stabilizzazione. Alla fine abbiamo le materie
dell’offerta formativa in affido ai docenti di ruolo su sui ci siamo già
pronunciati, e i contratti per le materie restanti a docenti esterni.
Docenti che fra l’altro hanno accumulato anni di esperienza didattica
con compensi vergognosi per un paese civile, senza poter sperare in
un miglioramento del loro stato. (Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione) all’interno del quale i
pareri resi dalla Commissione Istruzione Artistica di cui facevo parte,
oltre ad essere rispettati dal Consiglio nella sua interezza, nemmeno
sono stai mai disattesi dal Ministro di turno.
Secondo quale passaggio giuridico e/o tecnico le Istituzioni
A.F.A.M. potrebbero entrare nel C.U.N.?
Ovviamente tramite un semplice comma inserito in una qualche legge
in itinere (quando vuole l’Amministrazione è “maestra”, oltre che
rapidissima, in questo tipo di operazioni). L’emendamento dovrebbe
contenere contestualmente l’abolizione dell’articolo della 508 che
istituiva il C.N.A.M. e l’allargamento del numero dei consiglieri del
C.U.N.
Quale differenza sussiste fra Accademie e Conservatori in termini
di offerta formativa a tutti gli effetti terziaria?
Nessuna. L’unica differenza consiste nel fatto che ci conosciamo
poco; questo sì… spesso fa la differenza! A conoscerci meglio si
eviterebbero tante idiozie, come quella di fare il gioco di chi ci vuole
male.
24
Come fareste voi per i corsi pre-accademici destinati a studenti
minorenni?
Anche su questo argomento esistono molte favole che, o vengono
poste volutamente in giro per le motivazioni di cui sopra, o fanno parte
della non-conoscenza reciproca. I corsi pre-accademici giuridicamente
parlando, come anche detto autorevolmente da Corte dei Conti e
Avvocatura dello Stato, non esistono. Purtuttavia i Conservatori di
musica, nella loro autonomia didattica – come avviene anche nelle
Università (per esempio con la formazione continua, con i corsi per
la terza età ecc.) o nelle Accademie (con i già corsi liberi della scuola
del nudo)- possono attivare dei corsi di preparazione per l’ingresso al
triennio.
In ogni caso questa esigenza è venuta a crearsi per il parziale e
difettoso avvio dei licei musicali che, previsti dalla normativa vigente,
sono stati appunto solo in parte attivati.
Pensi che le nostre Istituzioni di Alta Cultura potrebbero perdere
specificità passando direttamente sotto la direzione generale
dell’Università?
Assolutamente no, poiché le nostre Istituzioni manterrebbero le
specificità e, in aggiunta, avrebbero tutti i vantaggi, soprattutto da
parte di chi, anche a livello ministeriale, essendo abituato a ragionare,
in termini economici e didattici, con le Istituzioni universitarie, non
farebbe degli inutili e sorpassati distinguo.
Perché le discipline artistiche dovrebbero essere separate in un
comparto diverso da tutte le altre discipline?
Il CUN è articolato in Comitati d’area come: “Scienze mediche”,
“Scienze giuridiche”, “Ingegneria civile e Architettura”, “Scienze
dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche”, “Scienze
storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche” ecc.; le nostre
discipline non sarebbero quindi separate dalle altre, ma potrebbero
avere due Comitati d’area dedicati, rispettosi delle nostre specificità
e articolazioni, cui assegnare rispettivamente un numero congruo di
membri.
La Legge di Stabilità del dicembre 2013 ha sancito il definitivo
riconoscimento del valore legale dei titoli di studio di primo e
di secondo livello che noi rilasciamo, questo provvedimento
è da intendersi in termini assoluti oppure lo è limitatamente
all’accesso per i concorsi pubblici?
Il valore legale dei titoli di studio è indispensabile proprio per l’accesso
ai concorsi pubblici e per essere riconosciuto sia in Italia che in Europa.
Pertanto quest’obiettivo deve intendersi raggiunto. Ma a nostro parere
è ancora più importante, con lo stesso provvedimento, aver previsto
Un nostro studente può dire o no di avere un Diploma Accademico
che è equipollente ad una Laurea, e se no, perché?
Certo che è equipollente. Come ovvio mantenendo le proprie
specificità di formazione, e i propri percorsi lavorativi. Ovvero un
laureato in medicina, la cui laurea ha lo stesso valore legale di quella
che ha conseguito un ingegnere, non può comunque pretendere di
andare a costruire un ponte!
Cosa non fanno i nostri studenti per non godere di questo
legittimo diritto considerato che il loro percorso formativo
è assolutamente parallelo a quello di tutte le altre facoltà
universitarie italiane ed europee?
Il diritto è ormai sancito, come sopra detto, ma più che gli studenti
a non fare, sono certi “illuminati” del MIUR che ancora non riescono
a capacitarsi sulle difficoltà e sulla valenza del percorso formativo
artistico.
Avere tre soli rappresentanti nel C.U.N. per tutte le Istituzioni
A.F.A.M. sarebbe davvero poco bilanciato rispetto agli equilibri
già esistenti e rischierebbe di vederci, come alcuni sostengono,
seduti su di uno strapuntino, anche per questa ragione molti
preferirebbero restare nel recinto A.F.A.M. Non sarebbe meglio,
per essere più forti, pensare di occupare due aree distinte, quella
delle Belle Arti e quella delle Arti Musicali?
L’ingresso nel C.U.N. infatti non può non prevedere, come detto,
che due Comitati d’area distinti, ben rappresentati numericamente,
esattamente come avviene per le altre aree disciplinari universitarie.
Come tu sai io da anni non sono più iscritto ad alcun sindacato
perché ritengo incompatibile il ruolo di questi ultimi con la nostra
docenza inquadrata nell’Università, tu come Segretario Nazionale
dell’U.N.A.M.S. come ti poni rispetto a questa svolta che dovrà, a
mio giudizio, assolutamente avvenire in tempi brevissimi?
Da anni dico e chiedo al Parlamento, in nome e per conto del sindacato
che ho l’onore di rappresentare, di entrare nel sistema pubblicistico,
sistema proprio delle Università e che non prevede contrattazione
sindacale. Infatti, da sempre, sono fermamente convinta che laddove
esiste una forte autonomia non possano esistere i sindacati. In tal
senso, determinate storture abbastanza evidenti, sono avvenute
anche grazie ai sindacati rimasti o silenti o addirittura favorevoli
(a litigare con l’Amministrazione non ci si “guadagna”). Dopo… i
risultati non possono essere che quelli che sono; e vorrei evitare di
doverli sottolineare ulteriormente. Non a caso l’UNAMS si è rifiutata
di siglare molti accordi riscuotendo, come ovvio, “spiccate simpatie”
presso l’Amministrazione. In sintesi, piaccia o non piaccia il discorso,
determinate iniziative sono state possibili perché non è intervenuta
una concreta azione sindacale, neppure per quelle parti ove è prevista
la contrattazione obbligatoria e i sindacati avevano spazio per porre
dei veti. E l’Amministrazione, quindi, forte del consenso dei sindacati,
tranne ovviamente quello dell’UNAMS, ha potuto procedere a suo
piacimento. (Non è un caso se, ad un certo punto, i sindacati, proprio
per non avere tra i piedi i testimoni scomodi dell’UNAMS, hanno
preteso di procedere con i tavoli separati.
Aggiungerei però che i sindacati, a loro volta, procedono sulla
base anche del consenso ottenuto dal personale nel contesto delle
votazioni per le RSU (altra stortura che sarebbe rimossa entrando nel
sistema pubblicistico).
Insomma se il personale continua a votare per l’”amico” sindacalista –
senza riflettere sul fatto che quel voto, poi, sarà speso anche a livello
nazionale, magari proprio ad avallare le storture di cui sopra – non si
esce dall’inganno. Occorre maturità e consapevolezza da tutti i lati.
Per questo confesso di invidiare e ammirare Landini (il Segretario
della F.I.O.M.)… anch’io, sia pure per poco, vorrei essere a capo
di un sindacato di metalmeccanici, ci intenderemmo a meraviglia e
raggiungeremmo subito gli obiettivi… i metalmeccanici non sono fessi!
Il fatto che al momento non ci sia un Direttore Generale dell’A.F.A.M.
e che siamo sotto la Direzione Generale dell’Università, è un dato
che ci agevola il passaggio all’università oppure ci complica
delle cose?
Sicuramente ci agevola. Al momento siamo sotto il Capo-dipartimento
dell’Università, Dottor Mancini, che sinora non pare abbia mostrato
cattive intenzioni o preso iniziative contrarie al settore. Siamo
comunque agli inizi e il tempo ci racconterà il resto. O meglio come
dicono i napoletani in modo colorato ma assolutamente esplicativo…
“a’ ‘o sfrije se sente l’addore” (“quando si frigge si sente l’odore del
pesce fresco”).
Far parte del C.U.N. significherebbe di fatto riconoscere
l’equiparazione giuridica di noi docenti ad esaurimento A.F.A.M.
con quella dei nostri colleghi dell’università; credi che questo
sia possibile, considerando che richiederebbe un esborso
economico importante per lo Stato in un momento come quello
che stiamo vivendo?
Prima di tutto occorre sgombrare il campo dalle interpretazioni
volutamente idiote se non delinquenziali date alla frase “ruolo ad
esaurimento mantenendo le funzioni”, contenute nella Legge 508.
Queste parole sono nate per proteggere la docenza che era presente
nei Conservatori e nelle Accademie da imposte secondarizzazioni che
si volevano esperire anche attraverso incostituzionali concorsi (non
si può concorrere per divenire ciò che già si è; il farlo significherebbe
negare il proprio “status” e quindi ciò che ci ha riconosciuto la
Costituzione).
Infatti, se il Conservatorio o l’Accademia, come da Costituzione è (non
deve divenire) un’Istituzione di Alta Cultura, ne discende che questa
Alta Cultura non sia riferita alle mura delle Istituzioni ma al personale
che vi opera. Onde per cui, per evitare incursioni secondarizzanti
sempre dietro l’angolo, i tecnici del Parlamento, fra i quali il Segretario
Generale della Camera, stabilirono attraverso l’inserimento di questa
frase che gli attuali docenti mantenessero la loro funzione (quella
appunto al più alto livello) sino all’esaurimento, non nervoso… ma
pensionistico.
Più chiari di così non potevano essere; eppure quando proprio la
Triplice (C.G.I.L., C.I.S.L., U.I.L.), confortata da determinati funzionari,
mise in giro la voce che non si potevano rinnovare i contratti per via di
quella frase, nessuno, rilevandone il ridicolo, li contrastò. Venne perso
un sacco di tempo, sinché, l’U.N.A.M.S., attraverso la Presidenza del
Consiglio, riuscì a sollecitare l’allora Ministro del Tesoro, Tremonti,
che, compresa la situazione (sbloccò anche i fondi “misteriosamente”
imboscati), aprì le trattative nel giro di quarantott’ore. Poi, di contratti,
se ne siglarono due.
E anche questo è un paradosso, poiché viene da chiedersi: come è
possibile che i sindacati, nati per la contrattazione, possano, attraverso
simile balle, perdere e far perdere tempo? Chissà, forse (il forse è
consigliato dall’avvocato), speravano che il personale stanco di non
avere gli aumenti contrattuali s’acconciasse a trattare all’interno del
contratto della secondaria.
Insomma sembra (pure il sembra è consigliato dall’avvocato) che le
pensassero tutte per secondarizzarci. Questo è uno dei tanti motivi
per cui io sono contraria ai sindacati in questo settore e come dire in
versione poetica “ne ho ben donde”.
Tornando alla domanda, e premesso che i sindacati, quando si
comportano bene, sono un grande strumento di Democrazia, sottolineo
che l’entrata nel C.U.N. non costituisce un automatico livellamento dei
nostri stipendi all’Università, ma certo va a rappresentare l’inserimento
di un forte tassello perché ciò avvenga. Infatti, dopo l’approvazione
della sempre benedetta legge sull’equipollenza dei titoli e sui bienni,
posti finalmente in ordinamento, sono in corso di elaborazione presso
l’U.N.A.M.S., alcune iniziative riferite a questo traguardo economico.
Ma su di esse manteniamo, vista l’esperienza passata, un opportuno
silenzio. I nemici non si arrendono mai!
Non rischiamo di essere ingenui e di fare dichiarazioni legittime
ma demagogiche appellandoci ai nostri pur sacrosanti diritti
senza avere una strategia politica e neppure una parte politica
che ci sostenga?
Nessuno, oggi, è più in grado di contestare come l’U.N.A.M.S., proprio
in virtù di una strategia politica ad altissimo livello, nonché di un grande
senso dell’onestà, sia riuscita a portare a casa tanti provvedimenti.
Pertanto la strategia politica, almeno dal nostro punto di vista, è
sempre esistita, anzi uno degli aspetti principali di questa politica è
consistita nel fatto di riuscire a far comprendere ed accettare, presso
i partiti politici, che l’Arte non debba essere affare di un solo partito ma
che, essendo il bene culturale più alto nel mondo, debba appartenere,
senza ambigue colorazioni, a tutti. Non a caso i provvedimenti
sponsorizzati dall’U.N.A.M.S. sono sempre stati approvati “bipartisan”.
Cosa succederebbe se avessimo un nuovo C.N.A.M.?
Prova ad immaginare! Mah! L’esperienza vissuta lascia poco spazio
all’immaginazione. Essa m’insegna che forse avremmo un nuovo
strumento “utile”, nonostante dedizione, capacità e competenze
dei vari eletti, a far baloccare i medesimi, mentre Amministrazione
e Ministri vari, non ritenendo sufficientemente forte l’organismo,
continuerebbero a evadere le pronunce di quest’organo. Insomma,
prima di vedere il completamento della Riforma, soprattutto se fatta in
modo valido, attenderemmo (e speriamo di no) almeno un’altra decina
di anni.
Se il nuovo Ministro, che è stato anche Rettore Universitario a
Perugia, ostacolasse il nostro percorso cosa dovremmo fare?
Il Ministro, se non ha intorno cattivi consiglieri o sindacati acquiescenti,
non ha motivi per ostacolarci. E comunque, come detto per il Dottor
Mancini, diamogli fiducia e un piccolo lasso di tempo prima di
giudicare. In ogni caso sono certa che l’individuazione di aspetti e
traguardi condivisi da Accademie e Conservatori rappresenterebbe
un’arma formidabile contro la quale nessun Ministro oserebbe porsi.
Siamo o non siamo il settore italiano più qualificante, culturalmente
parlando, e più rappresentativo nel mondo?
La “carità del natio loco” di dantesca memoria, mi fa sottolineare anche,
e con orgoglio, come gli stranieri, in Italia, non vengano per studiare
medicina o ingegneria, bensì per vivere l’esaltante, e formativa al
più alto livello, esperienza di acquisire un diploma accademico (o
laurea) presso “San Pietro a Majella” o “Brera” (e ovviamente in tutti
gli altri Conservatori e Accademie). Quindi (e sarebbe bene che ce lo
ricordassimo anche noi) chi può vantare un potere morale più grande
del nostro?
25
u.n.a.m.s.
u.n.a.m.s.
Esistono nei Conservatori docenti che insegnano sia nei corsi
pre-accademici che in quelli accademici?
Sì, ma vi insegnano solo per una loro libera scelta. In ogni caso le ore
che impegnano non possono essere computate nel numero delle ore
324 (250+ 74) stabilite del contratto. Comunque molti Conservatori
tendono, a seguito di verifica concorsuale dei titoli didattici ed artistici,
ad affidare queste ore a personale esterno, ossia a giovani e meritevoli
diplomati, innestando una dinamica virtuosa.
la messa in ordinamento dei bienni, affidandola alle Istituzioni, con
finalmente una data certa per la fine del lungo periodo transitorio, che
ci ha indubbiamente penalizzato.
Fotografie di Cosmo Laera
Fotografie di Cosmo Laera
Ingresso della Pinacoteca
Luca Caccioni
26
Stefano Pizzi
ACCADEMIA
ITALIA
Pinacoteca della
Accademia Albertina di Torino
accademia italia
A cura di Guido Curto
Più che una singola mostra, Accademia Italia vuol essere
un evento espositivo in progress e site specific, per dirla
con moderna enfasi in inglese, in quanto l’obiettivo dei primi
ideatori, gli artisti-docenti a Brera, Gaetano Grillo, Nicola
Salvatore e Stefano Pizzi, è quello di coinvolgere i tanti valenti
artisti-colleghi che insegnano nelle Accademia di Belle Arti
italiane come di titolari sulla Cattedra di Pittura, presentandoli
negli spazi espositivi pubblici o delle Accademie stesse o
ancor meglio incastonando le loro opere all’interno dei musei
annessi alle Accademie, quand’essi esistano come nel caso
delle Pinacoteche di Accademie storiche, di Napoli e Torino, un
tempo “Reali” e oggi di Stato, ma anche di Pinacoteche non
meno storiche benché non statali, quali la Ligustica di Genova
e la Carrara di Bergamo; senza dimenticare che in passato le
Accademie di Milano, Venezia e Firenze avevano splendidi
musei di loro proprietà, sottratti per varie e inopinate ragioni ai
loro legittimi “genitori” e questa potrebbe essere la occasione
per una debita benché temporanea riappropriazione.
Aldo Spoldi
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Luigi Carboni
Omar Galliani
Albano Morandi
Proprio da qui, adesso, si vuole partire con il progetto
Accademia Italia, nella volontà di creare una mostra itinerante
e “fluida” oggi diremmo, citando Zizek, perché via via si potranno
aggiungere nuovi lavori e nuovi protagonisti, allievi compresi, in
una rassegna a più voci dove i lavori di artisti contemporanei
professori d’Accademia s’accostano e dialogano con i dipinti
di antichi Maestri e di autori moderni già storicizzati, nell’ottica
di riprendere quella tradizione virtuosa, tutta italiana appunto,
che aveva visto nascere, dal Cinquecento in poi, Pinacoteche
e musei annessi alle Accademie di Belle Arti, come strumenti
di un modello didattico di alta formazione che avviene per
emulazione, non per mera e pedissequa imitazione o copia.
Questo era stato possibile in passato grazie a generose
donazioni, o a prestiti o a comodati di lungo periodo, o da una
vera e propria campagna di acquisizioni delle opere migliori dei
migliori docenti e in certi casi persino degli studenti.
Nicola Salvatore
Marco Cingolani
Lanino, Girolamo Giovenone e vari altri maestri di quel a lungo
sminuito rinascimento piemontese, che trova invece una sua
forte autorevolezza e una piena riqualificazione negli stretti
contatti avuti con la pittura lombarda e persino con Leonardo.
gerarchie o diritti di primogenitura: Luca Caccioni, titolare della
cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna; Albano
Morandi della Accademia S. Giulia di Brescia; Omar Galliani, da
quest’anno docente a Brera dopo essere stato all’Accademia
di Carrara (MC), Marco Cingolani, artista milanese docente
adesso all’Albertina di Torino dopo un appassionato soggiorno
palermitano; Luigi Carboni dell’Accademia di Urbino; il già
citato Gaetano Grillo, oggi docente nella Milano sua città
d’adozione (è pugliese di nascita, ma si è formato a Brera con
Alik Cavaliere), anche se il suo passaggio come docente per
otto anni all’Albertina di Torino ha lasciato tracce importanti in
tanti giovani artisti oggi di successo; e a chiudere Stefano Pizzi
e Nicola Salvatore, titolari a Brera sulla Cattedra di Pittura e
Aldo Spoldi, già molto noto al sistema dell’arte.
Da quest’idea e da questo progetto in fieri, la cui anteprima
era stata presentata due anni fa a Milano nella Accademia
di Brera, riprende Accademia Italia scegliendo come sede
di questo seconda puntata la Pinacoteca dell’Accademia
Albertina di Torino. Nel poco noto, ma eccellente museo
interno all’Accademia Albertina, dotato di una ventina di sale
dove il percorso espositivo prende il via da capolavori di pittura
quattrocentesca come le due tavole di Filippo Lippi (quella
centrale è al Metropolitan di New York) per concludersi con
pittori d’inizio Novecento quali Giacomo Grosso, trovando il
suo momento clou e anzi un vero e proprio climax in quella
raccolta, unica al mondo, di Cartoni Gaudenziani, ovvero quei
59 giganteschi fogli di carta, disegnati a matita con le scene
sacre pronte per essere trasferite fedelmente in scala uno a
uno, sui grandi dipinti, su tela o su tavola, opera di Gaudenzio
Ferrari e degli artisti della sua Scuola. Scuola o entourage
del quale facevano parte autori prestigiosi come Bernardino
Nella contiguità e se sarà il caso anche nei corto circuiti
che s’innestano tra questi antichi Maestri e i nuovi Maestri
selezionati per questa prima tourné di Accademia Italia, trova il
senso e la sua piena specificità, nonché originalità, una mostra
a cui partecipano artisti molto diversi tra loro, accomunati
dalla capacità di fare Arte con l’A maiuscola e dalla volontà di
comunicarla ai giovani insegnando un metodo di lavoro, più che
una mera tecnica o uno stile cui l’allievo potrebbe esser tenuto
ad adeguarsi diventando una banale epigono o addirittura un
clone.
Ma ecco la squadra che per l’inizio del campionato 2014
scende in campo a Torino: li citiamo in ordine alfabetico, senza
Da qui si parte e poi molti altri Maestri verranno, magari
accompagnati dai loro più promettenti allievi. Buon viaggio!
accademia italia
30 gennaio al 4 marzo 2014
Gaetano Grillo
28
Cosa significa Decorazione?
Di Alessandro Fabbris
Seguendo l’insegnamento di Matisse, passando attraverso la
ricerca di Warhol, del “decorativismo” di Giorgio Griffa (a tal
proposito si ricordi l’opera Matisseria) e giungendo ad artisti
quali David Tremlett, Philip Taaffe, Peter Zimmermann, Shirley
Kaneda potremmo asserire che essere decorativi è portare
l’opera alla conquista totale della superficie.
Sempre più spesso artisti e designers che operano nel
decorativo sconfinano nei linguaggi, ma ha senso oggi parlare
di confini all’interno della ricerca artistica e, soprattutto,
nell’ambito della Decorazione?
A distanza di qualche anno dalla proposta suggerita da Nicola
Maria Martino a proposito di cosa sia la Decorazione, provo a
inserirmi nel dibattito, insegnando questa materia (dapprima
nel Laboratorio di Decorazione per il biennio specialistco
e successivamente come Tecniche per la decorazione)
all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova.
“Bisogna essere per prima cosa decorativi” sosteneva Henri
Matisse nel 1931, ma cosa significa oggi essere decorativi e
cosa è oggi decorazione?
Insegnare Decorazione in un’Accademia di Belle Arti vuol
dire insegnare a leggere e a percepire gli spazi interni/esterni
del contingente per cercare di modellarli attraverso l’uso
di pattern decorativi che diano nuova vita e nuovi significati
agli spazi stessi. Imparare a creare un pattern, a evolverlo in
linee fluide, sinusali come negli edifici di Soler o imparare a
evolverlo in modo tale che diventi ritmo disorientante come
nei tappeti di Michael Lin vuol dire saper prendere coscienza
del tempo storico che stiamo vivendo: un tempo malleabile,
fluido e scandito non più da una prospettiva lineare. L’Arte del
postmoderno conquista la superficie, così come Mario Costa
ci ricorda nel suo saggio Dall’estetica dell’ornamento alla
computerart.
Lo studio della Decorazione deve allora essere compiuto
tenendo conto dello sviluppo spaziale dell’architettura e
dell’urbanistica nonchè dello spazialismo proprio del linguaggio
visivo. Non solo. Lo studio della decorazione oggi è volto a
creare la pelle degli elementi inorganici che ci circondano,
suggerendoci nuove visioni – intese nell’accezione di Luca
Massimo Barbero a proposito dell’opera di David Tremlett –
“Far accadere sottolineando, svelando”.
A differenza di ciò che una determinata decorazione ha offerto
per secoli con l’inganno visivo - decorazione legata a un
*Alessandro Fabbris
é docente all’Accademia Ligustica di Genova
e allo IED di Torino
www.alessandrofabbris.com
Didascalie delle immagini:
Nella pagina a fianco: Michael Lin
Installazione al Centro per l’Arte Contemporanea
Luigi Pecci (particolare) 2010
In alto a sinistra: Tobias Rehberger
caffetteria al Padiglione centrale della Biennale di
Venezia, 2009
In basso a sinistra: David Tremlett
Casa Tremlett-Genillard, Hertfordshire, U.K.,
2008 Walldrawing
In alto a destra: Giorgio Griffa 3 linee con
arabesco.
29
riflessioni didattiche
riflessioni didattiche
Potremmo asserire che essere decorativi è portare l’opera alla conquista
totale della superficie?
concetto prospettico che al nostro tempo non più appartiene - la pittura
murale, il wallpaper, e il design applicato all’interior devono rapportarsi e
confrontarsi con quel dato pertinente allo spazio contingente: lo sviluppo del
virtuale. Il bombaradamento visivo della società dello spettacolo, nonchè
sistemi narrativi postmoderni ci portano alla rilettura di un linguaggio visivo
che non può più essere lineare, prospettico, seguendo gli schemi percettivi
tipici del modernismo.
Conseguentemente, la decorazione intesa come finestra, come appunto
l’inganno visivo offre, allude a uno spazio tempo che non collima con la
percezione che oggi abbiamo della spazialità e dell’abitare. La decorazione
applicata all’architettura o all’interior deve allora suggerire una nuova
modalità di percezione.
Marco Belpoliti, in uno scritto apparso su La Stampa, riferendosi alla filosofia
di Gaston Bachelard ci ricorda come l’estetica dell’ornamento sia estetica
della superficie, “come del frammento, del continuo e del discontinuo, del
montaggio come della pluralità ritmica”.
Ponendo l’attenzione sull’origine del postmoderno e su come sia stata
detrminante la ricerca di Warhol all’interno del dibattito attuale sul
decorativo, Belpoliti fa notare come, a differenza della modernità puritana
che aveva favorito l’impiego del vetro, dell’allegoria geometrica, della
linea dritta nell’architettura, “il postmodernismo che nasce con Warhol e
con gli altri artisti della Pop Art, declina insieme forme espressive e forme
decorative” (Marco Belpoliti, La rivincita di Klimt nell’era digitale, La Stampa,
10/08/2012)
Nell’estetica contemporanea interno/esterno, fondo-sfondo-figura-forma
si fondano gli uni negli altri. Lo spazio, qui, appare fluido, modellabile e
indefinito come lo spazio del virtuale.
Il postmoderno ha visto il trionfo dell’immagine nell’architettura, citando
elementi decorativi della tradizione che si completano e si ampliano
in nuove spirali, in forme frattalizate, in linee che si aprono e chiudono
seguendo l’evolversi della programazione della
computer grafica. Si pensi alle architetture di
Marco Novak, ai dipinti di Albert Oehlen, agli
spazi interni ridisegnati da Diego Grandi o da
Michael Lin.
In un mondo globalizzato la “teoria del rivestimento”
torna a essere ancor più attuale affinchè lo spazio
esterno/interno possa continuamente adattarsi,
come in un processo camaleontico, per rivestire
quel mondo in cui, riprendendo le parole di BuciGluskmann, “l’artificio non si oppone più alla
natura , ma diventa natura.”
Per dare vita a questo nuovo mondo “bisogna
essere per prima cosa decorativi” e per poter
essere tali bisogna prima prendere coscienza
di cosa sia la Decorazione. A noi il compito di
insegnarla.
Anni ‘70 a Roma
Palazzo delle Esposizioni
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Una mostra al Palazzo delle Esposizioni ha ricostruito il percorso italiano delle Neoavanguardie: Arte Concettuale, Arte di Comportamento, Body Art, Land Art e i diversi incroci con l’arte internazionale in un momento storico che segna la centralità di Roma
nella vita culturale del Paese e il suo ruolo di capitale dell’arte.
Non è, comunque, una rassegna facile, quella curata da Elisa
Lancioni. Il decennio è stato tra i più complessi della storia ed è
tutt’altro che unitario.
Si aprì con gli ultimi furori delle lotte studentesche del 1968 che,
a Roma, ebbero il loro epicentro a Valle Giulia e si chiuse, dopo
l’assassinio di Moro nel 1978, con un ritorno all’ordine siglato in
arte dalla Transavanguardia che poneva fine alle contaminazioni
e trasfusioni linguistiche per ratificare l’immersione nei primordi
della coscienza individuale e collettiva.
Gli artisti selezionati sono raggruppati intorno ad alcune parole
chiave quali: “memoria, racconto, labirinto, politica, il doppio, l’altro, linguaggio, fenomeno, tutto..” che sintetizzano le tematiche
dominanti di quegli anni e aiutano a ritrovare, dietro la superficie delle opere, i fili conduttori di una ricerca protesa verso le
più diverse aree disciplinari: antropologia, filosofia, psicoanalisi,
scienze. Anche sul piano linguistico si spaziò a 360° con interventi video, installativi, performativi in cui fotografia, disegno, oggetto e tracce di pittura si mescolavano al riutilizzo di tecniche
artigianali attinte da culture altre.
E’ il caso degli arazzi di Alighiero Boetti fatti realizzare in Afghanistan. Il viaggio e il nomadismo furono, infatti, tra i miti di quegli
anni accanto alle intersezioni tra arte, vita e habitat. Christo ricoprì con teli bianchi le Mura Aureliane, Vettor Pisani dipinse una
stella rossa in piazza del Campidoglio, Luciano Fabro collocò il
suo “Io(uovo)” nella Fontana delle Api, Michele Zaza focalizzò il
suo sguardo sul tempo soggettivo e cosmico, Luigi Ontani diede
inizio alla perlustrazione dei suoi molteplici “io”. La scelta espositiva non è né monografica, né cronologica, ma ruota intorno
a quattro mostre che segnarono la vita artistica romana degli
anni Settanta. La prima mostra,“Vitalità del Negativo nell’arte
italiana”, tenutasi al Pala Expo nel 1971 a cura di Achille Bonito
Oliva, offrì uno spaccato poliedrico e polifonico dell’arte italiana
di quegli anni.
Tra le opere selezionate per l’esposizione odierna, spiccano le
superfici ritmiche di Enrico Castellani e gli spazi elastici di Gianni Colombo, i timbri e le sagome di Renato Mambor, le installazioni arboree di Giuseppe Penone , le operazioni concettuali
di Giulio Paolini. Da questa mostra sarebbero nati “gli Incontri
Internazionali d’Arte, l’associazione culturale fondata da Graziella Leonardi Buontempo, che promossero a Palazzo Taverna,
per tutto il decennio, una fitta rete di eventi, coordinati da Bruno
Corà, consolidando i rapporti l’ambiente romano e quello internazionale.
La seconda mostra “Fine dell’Alchimia”, a firma di Maurizio Calvesi, inaugurata nel dicembre del 1970 nella galleria-garage
l’Attico di Fabio Sargentini, esplorò i confini tra alchimia e letteratura, esoterismo e filosofia. E’ qui che possiamo rivedere il
noto scheletro coi pattini di Gino De Dominicis e le tartarughe
pilotate di Vettor Pisani nell’installazione “io non amo la natura”.
Grazie alla lungimiranza di Fabio subentrato al padre nella direzione della galleria, gli artisti romani poterono confrontarsi col
meglio delle Avanguardie Internazionali. Fu nell’Attico che Sol
Lewitt dipinse il suo primo Wall Drawing, che Simon Forti si esibì
nelle sue innovative performance e che Joseph Beyus discusse
le sue teorie sull’Azione Terza Via: Idea e tentativo pratico per
realizzare una alternativa ai sistemi sociali esistenti nell’Occidente e nell’Oriente.
La terza mostra è “Ghenos, Eros e Thanatos”, a cura di Alberto Boatto, proposta
nel febbraio del 1975 dalla Galleria La Salita di Tommaso Liverani. L’esposizione
mostrava il lavoro di quegli artisti che esploravano i confini oscuri tra arte e psiche.
Loro numi tutelari erano Rainer Maria Rilke, Frederich Nietzsche, Alfred Jarry, Andrè Breton.
Il tema della morte fu affrontato dagli artisti invitati in modo più che perturbante.
Gino De Dominicis realizzò “L’epigrafe”, Vettor Pisani mise in atto la performance
“Lo Scorrevole”, Jannis Kounellis propose il “Motivo Africano”. Erano loro tre i capifila della Roma d’avanguardia - lo ricorda in catalogo Fabio Belloni – sottolineando
come l’arte di comportamento avesse in quegli anni molti proseliti tra il pubblico
più attento. La quarta mostra scelta per documentare l’arte del decennio è “Con-
31
una mostra
una mostra
Di Anna D’Elia
temporanea”, la rassegna di taglio internazionale e pluridisciplinare che si tenne nel 1973-4
nei parcheggi di Villa Borghese, su un’area di
10.000 mq, attuando l’uscita dell’arte dal museo-galleria per creare un’offerta e un circuito
nuovi. Fu questa, infatti, un’altra delle conquiste fatte allora.
L’esposizione comprendeva al suo interno
diverse espressioni: architettura, arti visive,
cinema, danza, design, dischi e libri d’artista,
fotografia, informazione alternativa, musica,
performance, poesia visiva. Venne giudicata
una delle mostre più importanti del secondo
Novecento, voleva mettersi alla pari della
Biennale, proponendo un nuovo modello.
Un momento centrale della manifestazione
fu quello dedicato alla politica. Da Soccorso
Rosso, ai comitati per la casa della Maglina,
da Magistratura democratica al gruppo di psichiatria di Franco Basaglia, ai gruppi ecologisti tutti furono coinvolti nel progetto e vi parteciparono con incontri e dibattiti.
Pochi, invece, i nomi delle autrici tra cui quelli
di: Carla Accardi, Cloti Ricciardi, Marisa Merz,
Tomaso Binga, Giosetta Fioroni. Non ebbero
vita facile le artiste in anni in cui il maschilismo
era imperante anche tra gli artisti, nonostante
l’importante ruolo avuto dai movimenti femministi nel ripensare le pratiche dell’arte e dell’estetica, come dimostra il lavoro di Carla Lonzi.
Per le Arti Visive furono un centinaio circa gli
invitati, molti gli americani per rappresentare
il New Dada, la Pop art e la nuova Fotografia.
Un ruolo importante per molti degli eventi di
quegli anni, fondati in gran parte su operazioni
effimere, fu quello dei fotografi grazie alla cui
documentazione è stato possibile, oggi, realizzare questa mostra. Alle immagini di Claudio
Abate si affiancano le preziose testimonianze
di Ugo Mulas, Elisabetta Catalano e Massimo Piersanti. Il catalogo edito da Iacobelli è
aperto da un’intervista ad Achille Bonito Oliva
di Francesco Bartolini, cui seguono i testi di
Matteo Lafranconi, Valentina Valentini, Paola Bonani, Denis Viva e altri. (17 dicembre-2
marzo 2014).
RICCARDO CORDERO
32
BIBLIOTECA
DELL’ACCADEMIA DI BRERA
RICCARDO CORDERO
L’Accademia di Belle Arti di Brera ha ospitato (5 febbraio-14
marzo 2014) una mostra di opere su carta dello scultore Riccardo
Cordero (Alba 1942) che documenta la pratica disegnativa e
progettuale della sua ricerca plastica, dai primi anni Sessanta
al oggi. Diplomato presso l’Accademia Albertina di Belle Arti
di Torino (1965), Cordero sviluppa la sua formazione creativa
legandosi al magistero di artisti come Sandro Cherchi e Franco
Garelli. Dal loro esemplare insegnamento lo scultore torinese
apprende lo spirito di sperimentazione dei materiali, coniugando
la conoscenza della scultura tradizionale e l’esigenza di cercare
forme esplodenti e slanci costruttivi.
Dopo una fase dedicata all’uso di nuovi materiali sintetici e di
tecniche industriali, Cordero realizza corpi plastici con strutture
geometriche e materie informi, aggregazioni spaziali di elementi
sospesi tra costruzione razionale e carattere embrionale della
forma. La pratica dei materiali (dal legno al polistirolo laminato,
dal plexiglass all’alluminio, dal ferro smaltato fino al bronzo)
mette in evidenza il dinamismo della forma in rapporto con lo
spazio ambientale, verificando l’equilibrio sempre diverso delle
forme geometriche (soprattutto quadrati e triangoli), calibrate in
relazione a nuclei disarticolati, fino ad esaltarne l’energia delle
reciproche tensioni spaziali.
Da questi orientamenti espressivi, la visione di
Cordero si sviluppa come luogo di proiezione
cosmica
attraverso
continue
allusioni
metaforiche a comete, meteore, stelle, segni di
una costellazione immaginaria, dove lo scultore
materializza i suoi sogni di sconfinamento.
Questi complessi caratteri di ricerca sono
restituiti compiutamente nelle opere su carta
scelte per questa mostra come un viaggio
parallelo finalizzato all’ideazione e alla
realizzazione delle sculture. Va infine ricordato
che Riccardo Cordero ha insegnato nelle
Accademie di Belle Arti di Carrara, Bologna,
Milano e presso l’Accademia Albertina di
Torino, dove è stato titolare della cattedra di
Scultura dal 1990 al 2002.
Claudio Cerritelli
33
una mostra
una mostra
Progetti di scultura
Opere su carta (1961-2013)
Intorno a questi orientamenti creativi Cordero costruisce un
linguaggio plastico basato sul divenire della forma, intesa
come “sostanza densa” che si aggrega e si disarticola secondo
differenti prospettive immaginative. Il carattere progettuale è
fondamentale per le metodologie costruttive dell’artista, intese
come insiemi di idee plastiche che costituiscono un laboratorio
formale che si sviluppa nel tempo.
La ricerca di opposte tensioni spaziali prelude -all’inizio degli
anni Ottanta- a un ciclo di ricerche caratterizzate da evocazioni
naturalistiche e figurali, spazi proiettati oltre la soglia del paesaggio
(terra e nuvole, orizzonte e cielo), distanze plasticamente fissate
nelle variazioni tra pieni e vuoti. Dopo questa fase, Cordero si
dedica a misurare le possibili amplificazioni costruttive della forma,
confrontandosi con opere di grande dimensione, come momenti
di verifica della collocazione ambientale del progetto plastico.
La scultura è vissuta come soggetto dinamico che interagisce
con la dimensione urbana e con l’atmosfera del paesaggio, la
sua forza vitale s’identifica nei grandi ferri dal profilo sospeso,
cerchi spezzati e segni in rotazione, forme disarticolate che non
perdono mai di vista il moto espansivo che dal centro protende
verso l’infinito. Il senso cosmico della scultura nasce dallo sforzo
di spezzare il canone geometrico, di rendere inquieto l’equilibrio
compositivo attraverso gesti di accerchiamento dello spazio
dinamico, aprendo il nucleo generativo delle forme con scatti
allusivi a ulteriori dimensioni. Nella figura del cerchio l’artista
sogna la possibilità di portarsi sempre fuori dal suo perimetro
circoscritto, con intersecazioni di superfici spezzate e quasi
aggrovigliate che ricordano voli protesi nel vuoto, spostamenti
simultanei verso altri ordini di riferimento. Per sostenere
queste scelte Cordero riflette non solo sulla scultura di Julio
Gonzales, ma anche su quella di Anthony Caro e, soprattutto,
di Eduardo Chillida, esempi di ricerca illuminanti per immaginare
le vibrazioni della forma come energie essenziali per captare
le profondità dell’aria, l’equilibrio tra le masse
plastiche e la funzione dei vuoti, l’instabilità
che si genera all’interno del loro stesso spazio
d’azione. Se osserviamo un “grande segno” di
Cordero collocato in un ambiente urbano o nel
paesaggio naturale, abbiamo la sensazione di
vedere un organismo plastico che si modifica
costantemente, restituendo sempre una
diversa emozione percettiva, in un corpo a
corpo che non esaurisce il rapporto con l’opera,
anzi ne aumenta la capacità magnetica. La
scultura comunica il divenire del movimento
circolare, le sue componenti si contraggono e
si espandono verso l’ambiente, quasi in bilico
tra il proprio centro di gravità e un’assoluta
liberazione dal peso. L’articolazione specifica
dello spazio tende ad aggregare pieni e vuoti
come valori reciproci, in rotazione intorno
ad un fulcro ipotetico, mutevole, instabile. Lo
spettatore scopre i diversi volti della scultura
attraverso un’azione di avvicinamento e di
distacco, di rotazione intorno al suo perimetro,
un movimento indispensabile per valutare sia i
particolari strutturali dei primi piani sia gli effetti
dell’immagine totale, complessità architettonica
attraversata da energie visibili e invisibili,
astratte e concrete. Queste dinamiche sono
presenti nella ricerca disegnativa che l’artista
torinese non ha mai trascurato nel corso
della sua ricerca, sia in chiave progettuale sia
nell’espressività pura del segno. Pur autonomi
nella loro metodologia esecutiva, progetti e
disegni si accordano all’oggetto plastico, ne
afferrano gli equilibri instabili, le torsioni, i punti
estremi in cui la linea si spezza e si proietta
verso altre direzioni. Attraverso l’uso di carboni
pressati, carcoal, grafite e sanguigna rossa
il segno acquista un’intensità visiva che dà
vigore espressivo alla frammentazione del
corpo plastico e alla discontinuità delle sue
articolazioni. La sensibilità dinamica del segno
consente di non definire i limiti delle forme, del
resto Cordero ama il continuo modificarsi del
progetto scultoreo in una complessità di lineeforza che sembrano aggredire l’idea iniziale e
spingerla verso differenti soluzioni. L’artista
insiste sul concetto di “scultura come presenza”,
come attivazione di percezioni simultanee che
coinvolgono opera e ambiente, senza che sia
l’una a prevalere sull’altra componente.
Così come il suo segno è un segnare, alla stessa stregua
il suo porsi davanti al foglio non è uno specchiarsi nella
superficie di codice, ma un maneggiare una cosa concreta,
consistente, una sostanza. La carta è materia, e materia viva,
dotata di caratteri e vocazioni, d’aromi e memorie. È insieme,
nell’intendimento di Marrocco, scena e attrice della vicenda
dell’esprimere.
Con arbitrio sovrano egli la manipola, la segna, la colora, la
stratifica, in una combinatoria di possibili che determina uno
spazio di relazioni tra momenti e picchi espressivi diversi, dal
cui equilibrio complessivo scaturisce l’immagine.
L’immagine è comunque, infine, compiuta. E leggera, dotata
d’una trasparenza che la rende, piuttosto che cosa, impasto
di luci. Luci che nascono da una convocazione sapiente del
colore, altra componente essenziale dell’operare tutto di
Marrocco.
Nelle serie ultime di lavori esso si è reso protagonista,
ancorché non assoluto, della formazione dell’immagine,
cadenzandosi per partizioni regolari, d’una geometria sottile
e asciutta, e vibranti come aliti, quasi fossero climi emotivi più
che enunciazioni plastiche.
È chiaro che Marrocco ragiona anche in questo caso nei
termini di un’astrazione d’umore comunque metafisico, e con
forti accentuazioni poetiche. Passo dopo passo, la sensualità
del suo fare si stempera in un piacere dell’immagine non
affidato alla captazione visiva, al piacere dello sguardo, ma
a una trama di echi e suggestioni lontane, d’ineffabile grazia.
34
FRANCO
MARROCCO
Building Bridges Art Foundation
Bergamot Station Arts Center
Santa Monica, USA
Il fare con la carta e il fare la pittura si ritrovano, né altrimenti avrebbe
potuto essere, in consonanza perfetta: intensi per qualità, nitidi e
trasparenti per sostanza visiva.
* Franco Marrocco è artista e Direttore all’Accademia di Brera, Milano.
35
Pratica della carta
Di Flaminio Gualdoni
percezione o, in altri termini, dell’inverarsi della storia”, ha scritto
di recente Paolo Biscottini a proposito dell’intensa, meditativa
pittura di Franco Marrocco.
E la luce, una luce non fisica ma qui tutta d’anima, è anche quella
che abita da sempre le sue carte, le quali rappresentano tutt’altro
che la pars minor del suo fare.
Carte è dizione corrente, e di solito indica l’opera su carta. Nel
caso di Marrocco, tuttavia, sarebbe assai più appropriato parlare
di opere nella carta, con la carta. Non tanto per pignoleria tecnica
e didascalica, ma per comprendere la qualità intrinseca di questi
lavori, la loro genesi e il loro statuto.
Marrocco ha un approccio alla pittura molto selettivo e distillato.
È davvero, per lui, un “fare l’opera”, ovvero attuare, per usare
l’espressione di Henri Focillon, un “tentativo verso l’unico” che
“si afferma come un tutto, come un assoluto, e, nello stesso
tempo, appartiene a un sistema di relazioni complesse”. Esiste
un presupposto fondamentale di unicità, nella prova pittorica, e
da subito un aroma d’assolutezza.
A tale momento di concentrazione e di necessità Marrocco giunge
attraverso una pratica quotidiana, laboriosa e fervida, che è tutta
della carta, e che è il fil rouge della sua stessa idea del fare in
arte.
Il foglio, è noto, è materia confidente e complice, cui affidare gli
estri e le intuizioni, in cui saggiare le temperature del pensiero
e della mano; è, per evocare la lettera celebre di Machiavelli, la
“veste cotidiana” rispetto ai “panni reali e curiali” della pittura: la
quale è comunque liturgia, momento autorevole e alto.
In quanto abito ordinario del fare, la carta consente invece anche
l’eccesso, l’esperimento, le dismisure piccole e grandi della
prova. Che sono, poi, la natura istintiva di Marrocco, il quale nel
proliferare, nella seriazione fitta e intensa delle carte fa aggallare
liberamente, e poi verifica e decanta ciò che il suo temperamento,
assai più sensuoso e tattile di quanto non appaia alla prima, e
assai più visionario e nomade di quanto la disciplina ferrea della
tela lasci intuire, detta.
Alcune ricorrenze appaiono tipiche della sua pluridecennale
pratica d’atelier nella carta, la quale solo raramente sinora – ed è
stato un peccato – ha goduto dell’onore di pareti espositive.
In primo luogo figura la questione del segno. Resa definitiva la
propria scelta non oggettiva, Marrocco fa del segno non una qualità
enunciativa ma interrogativa, un darsi e fluire il quale da se stesso
trovi ragioni di senso, e di spazio. È, verrebbe da dire, piuttosto
un segnare, un atto di trasferimento anche fisico d’energia (di
“energia pura libera di scattare” ha ben scritto Massimo Bignardi),
in cui svolge un ruolo importante, tra la fine degli anni Novanta e
l’inizio del millennio nuovo, anche la rievocazione non banale da
parte dell’artista della cultura incisoria. Il segno breve e ordinante,
d’umore organico, stabilisce una sorta di dominante di tenebra, in
cui spadroneggia il noir couleur, e una spaziosità come ansiosa,
in cui sono possibili apparizioni.
Altrimenti il segno si declina ispido e urgente, divaga per fremiti,
s’incide e graffia, oppure si spossa in soliloquio mormorante,
come per accenti posti a cadenzare una blankness tutta affettiva.
Il segno non decide mai tuttavia, né ora né in seguito, gli statuti
di spazio e immagine. Così come sostanze diverse di segno
si attuano nel medesimo processo, e nel loro collidere fervido
attivano inneschi di senso, così Marrocco sempre si manifesta
riottoso – per tensione critica e analitica – ad accogliere gli statuti
unitari della superficie, la rettangolarità ordinaria del supporto.
una mostra
una mostra
“Nel buio la luce rivela come per Caravaggio il momentodella
Emilio Scanavino, Scultura, 1968, sabbia e uova in terracotta smaltata, dimensioni variabili
36
37
EMILIO
SCANAVINO
Emilio Scanavino, Senza titolo, 1978, acrilico e matita grassa su cartoncino, cm. 70x99,5
Nascenza, Palazzo delle Stelline, Milano
E’ una mostra che sorprende quella di Emilio Scanavino (19221986) alla Fondazione Stelline di Milano. E lo stupore non sta nel
constatare il valore e la forza della sua ricerca artistica, oramai
incontrovertibile e assodata, anzi da tempo inserita a buon
titolo nell’olimpo dell’Informale, ma nel percorso che Elisabetta
Longari ha sapientemente composto per farci cogliere aspetti e
intuizioni (formali e tematiche) fino ad ora nascosti o tralasciati.
Vediamoli.
Nella selezione di disegni, tutti inediti e realizzati tra il 1961
e il 1978, si rintraccia il suo inconfondibile segno, graffiante
come il filo spinato e incisivo come i lemmi di un alfabeto, ma
anche un’inaspettata germinazione di punti, tratti e cerchi che
fecondano lo spazio e promettono nuova vita.
Ciononostante, “nascenza” è di fatto un atto potenziale, una
possibilità, attuabile solo in condizioni adatte e per Scanavino,
figlio di una generazione che allo scoppio della guerra non
aveva nemmeno vent’anni, che ha saputo raccontato la vita
come il mistero dell’origine (“Quando dipingo racconto l’anima
dell’uomo”, diceva) ma anche come l’enigma della fine, per lui
nascere non è una risposta, ma una domanda.
E su questo tema si intrecciano anche le diciassette sculture, tutte
datate tra il 1959 e il 1969 e di rado esposte prima, che rendono
l’idea del vasto campionario materico utilizzato dal Maestro:
bronzo, ceramica smaltata, gesso, terracotta, legno… . Sono
uova mai schiuse, gusci abbandonati e senza più un nido, semi
avvizziti o embrioni di volatili abortiti dalle radiazioni atomiche
di Hiroshima; sono geometrie imperfette, malate e rattoppate:
quadrati e angoli di legno, tenuti insieme da spaghi annodati
come gli attrezzi di un naufrago; sono vertebre di bronzo, ma nate
da pugni di materia strizzata e messa ad asciugare come fanno
i bambini sulla spiaggia e tuttora conservano intatte le impronte
delle mani che le hanno generate; o, ancora, germogli dorati che
si affacciano da zolle annerite o da baccelli carbonizzati.
Le forme silenti e immobili dialogano con bianchi siderali,
neri profondi e attoniti, superfici opache e pensose, scevre di
qualsiasi bagliore perché capaci di assorbire e filtrare la luce
(anche quando sono d’oro) come i ciottoli al sole. Il tempo,
solitamente così zelante, davanti a quelle presenze archetipiche
e primordiali sembra essersi annullato, anzi sospeso.
“Mi portavo appresso un senso di morte, cercavo di capire la
morte”, avrebbe detto molto tempo dopo. Eppure la morte non
è la realtà ultima.
Non può esserlo. Altrimenti non avrebbe senso quella dimensione
metafisica e spirituale che si coglie in ogni sua opera e che per
un attimo fa dimenticare la materia nel tentativo di afferrare e
svelare quell’enigma che è alla genesi del mondo: “La continua
messa a morte del reale che è la vita, frutto di un momentaneo
equilibrio tra forze opposte – ha scritto Elisabetta Longari - ben
rappresentate dalla presenza di forme geometriche in relazione
con forme organiche, sembra essere il vero soggetto dell’opera
di Scanavino”.
Emilio Scanavino, Geometria malata, 1967
legno e corda, cm. 54x5x3,5x54 (foto Jurgen Becker)
Emilio Scanavino, Scultura, 1968, bigoli in terracotta smaltata e
uovo dorato a terzo fuoco, dimensioni variabili
una mostra
una mostra
Di Lorella Giudici
IN VINO
VERITAS
A cura di Marianne Wild
Arte Contemporanea UnicA
Torre di Porta Gabella
Ripa Teatina / Chieti
Enrico Bafico
Marco Cingolani
Enzo De Leonibus
Franco Fiorillo
Gaetano Grillo
Igino Iurilli
Paolo Lunanova
Nicola Maria Martino
Giuseppe Sylos Labini
Nicola Maria Martino
Tzimtzum
Paolo Lunanova
Di Nicolas Martino
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Marco Cingolani
Iginio Iurilli
Ciò che vale per il vino nelle società postmoderne vale anche per
il cinema, per la letteratura e per l’arte. Il fallimento dell’utopia
delle avanguardie e delle neoavanguardie ha esaurito la parabola
del modernismo rivelando l’opera d’arte nella sua essenza come
merce tra le altre. Rivelandola anzi come la merce modello, un
prodotto perennemente obsoleto, il cui unico interesse risiede
nelle sue astratte trovate tecnico-estetiche e il cui solo uso
consiste nello status che conferisce a quelli che ne consumano la
versione più recente. Anche qui la sussuzione del lavoro artistico
e culturale nella rete produttiva del capitalismo ha comportato una
domesticazione generalizzata. L’opera d’arte è un gadget di lusso
che risponde a un protocollo predeterminato dal sistema globale
dell’arte. Produce capitale simbolico e distinzione, ma dev’essere
facile, divertente, ben confezionata, curiosa forse, mai dissonante
però, perché non sorprende né disorienta mai davvero. Risponde a
un gusto internazionalmente omologato, a uno sguardo colonizzato
e addomesticato. In fin dei conti è di questo che parla La grande
bellezza di Sorrentino: se la merce ha colonizzato anche lo sguardo,
se l’antropomorfosi del capitale è compiuta, allora non potrai
vedere Roma se non come una cartolina turistica, non potrai che
rappresentarla come uno spot pubblicitario. Ora anche l’artista è
diventato spettacolo, merce che contempla sé stessa.
possibile aprire brecce, produrre incidenti, resistenze e bruciature.
Come per il vino anche per l’arte... Prima del moderno l’artista
coincideva con l’artigiano e il suo contrassegno era l’anonimato
come nella cultura bizantina. L’ascesa sociale dell’artista, la nascita
dell’artista moderno, andrà invece di pari passo con l’imporsi del nome
proprio e col suo graduale emanciparsi dal monopolio corporativo.
Mentre nel caso dell’artigiano il valore estetico faceva tutt’uno con la
perizia del mestiere, con la padronanza tecnica, nel caso dell’artista il
valore estetico diventa un plusvalore sovrapposto alla perizia tecnica
e alle regole tramandate. L’opera d’arte è definita dal segno di un
genio individuale come in Giotto, il traditore, il primo che dicendo Io
ha inaugurato lo spettacolo moderno dell’arte. Il nuovo status sociale
dell’artista troverà man mano un riscontro sociale con la diffusione
del genere letterario delle biografie culminato nelle Vite di Giorgio
Vasari. L’artista è diventato un creatore, la prerogativa essenziale del
Dio cristiano è stata trasposta sul piano della produzione artistica
conferendo al manufatto un alone prestigioso. Ma questa assunzione
di una prerogativa divina ha fatto dell’artista il prototipo del soggetto
moderno, l’individuo «artefice della propria fortuna». L’artista è quindi
una figura essenzialmente moderna, e ancora di più, una vera e
propria metafora della modernità. Il processo di emancipazione
del soggetto moderno, che trova in Cartesio la sua sanzione
metafisica, è completo: il soggetto moderno è l’artista. Pronto, dopo
la secolarizzazione e il fallimento delle utopie rivoluzionarie del
Novecento, a essere sussunto dal capitalismo semiotico.
Eppure anche qui non tutto è perduto, nel tessuto del capitale è sempre
Come liberarsi dunque dal doppio legame che incatena l’arte e
Gaetano Grillo
Enzo De Leonibus
l’artista, come sciogliere il nodo di gordio che lega il moderno al postmoderno?
Perché, ricordiamolo, il postmoderno nelle sue diverse formulazioni è, avrebbe
detto Michelstaedter con la sua splendida metafora, un peso agganciato al
moderno e non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto
pende dipende.
Nel 1974, mentre cominciava a prendere forma il mondo attuale, Jacques
Camatte ci invitava ad «abbandonare questo mondo in cui domina il capitale
divenuto spettacolo degli esseri e delle cose». Ma come? E ome sottrarsi
alla colonizzazione dello sguardo e del gusto e alla loro domesticazione?
Un’indicazione suggestiva ci viene da un’antica parola ebraica, Tzimtzum,
che significa ritrazione o contrazione, e sta a indicare
l’atto d’amore con cui Dio, al momento della creazione, si
è ritirato per far posto al mondo. Ecco, allo stesso modo
l’artista, con un atto d’amore, deve ritirarsi e rinunciare alla
sua identità forte di artista, nella sua versione moderna e,
contemporaneamente, in quella simulacrale e manierista
postmoderna. Se Dio si è ritirato per far posto al mondo,
l’artista deve ritirarsi per far posto all’opera. A opere che non
saranno più tutte unite nel segno dello spettacolo e della
domesticazione, ma tutte uniche come quelle esposte qui
che sorprendono e annunciano il tempo a venire, quando
l’opera verrà restituita alla sua dimensione collettiva, sarà
opera di tutti e per tutti nella costruzione di uno spazio
comune dell’abitare. Se sapremo rompere l’incanto della
domesticazione e della colonizzazione del gusto e dello
sguardo, allora davvero verrà il tempo della profezia paolina
e «l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte».
una mostra
una mostra
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In vino veritas recita il titolo di questa mostra. Ed è vero, perché nel
vino è la verità del capitale. Già, perché da quando la produzione
viti-vinicola è stata sussunta nel processo di valorizzazione del
capitale, il valore estetico del vino è sempre più espressione del
valore economico e del potere. Se vendi vali, e per vendere devi
costruire un prodotto rassicurante, facile, divertente, ben confezionato
e opportunamente addomesticato. Ed è proprio questa la verità del
capitale, la domesticazione del gusto e della dimensione estetica, la
riconfigurazione progressiva dell’intera sensibilità umana. L’enologia
insomma è diventata l’impianto che trasforma il vino in spettacolo, in
una società dove, lo aveva intuito l’intelligenza visionaria di Debord,
tutta la vita si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli.
Questo è il vino al tempo della sua «riproducibilità tecnica» e del
marketing, per dirla con il filosofo e cantiniere Michel Le Gris. Eppure
non tutto è perduto, anzi... Andate a vedere il bellissimo documentario
di Jonathan Nossiter, Resistenza naturale, presentato quest’anno alla
Berlinale, e scoprirete che una rivoluzione sta scuotendo il mondo del
vino, che alcuni coraggiosi poeti della terra, qui come altrove, hanno
organizzato una gioiosa insubordinazione estetica e producono degli
straordinari vini dissonanti e sorprendenti.
Caterina ARCURI
Respiro silente
Museo FRAC, Baronissi
La mostra si articola in tre “spazi” della galleria dei Frati, nei quali
l’artista struttura un dialogo tra installazione e video: Fonti, 2013,
un’installazione ambientale composta da sei elementi posizionati a
pavimento, di recente presentata nella personale allestita alla galleria
TRAleVOLTE, di Roma; nell’area centrale del corpo longitudinale
sono collocati tre schermi con la proiezione dei video Nella luce
(2014, 5’), Genesi (2011, 4’), Oltre il confine (2008, 4’). Infine nella
sala laterale lavori sull’elemento acqua, terra, fuoco, di cui due a
parete, Mater, Origine, e due sculture, Natura, opere del 20122013. L’allestimento, afferma l’artista vuol essere «una costruzione
di elementi fisici, psichici, geometrici, in un viaggio di ascesi per
raccordarsi al divino...».
«In fondo – osserva Massimo Bignardi – i corpi plastici che l’Arcuri
propone in questa antologia di lavori recenti che appartengono agli
ultimi cinque anni, dichiarano una libertà che ha ormai lasciato alle
spalle l’amarezza della solitudine, il diario intimo della memoria, fil
rouge di Genesi un video del 2011. Sono opere con le quali si è infatti
spinta al di là di quella soglia che solo apparentemente aveva varcato
quando, negli ultimi secondi di Oltre il confine (video del 2008), si era
lasciata inghiottire dalla luce».
In Fonti, rileva Paolo Aita «il corpo diventa spazio. Come prima
c’è stata la presentazione tramite elementi simbolici e corporali
della femminilità, oggi c’è una sensibilizzazione dello spazio che,
invece di essere rappresentato come una mappa, viene trattato alla
stregua di un archivio di segni obliati di una condizione dolorosa,
per fortuna ormai superata. Dietro ognuna di queste opere/
sovrapposizioni occorre leggere il tentativo di conquistare una
verticalità, una tettonica, del tutto estranea alla corporeità femminile,
e che questa addomestica con i suoi sistemi. Infatti lo specchio
ci ricorda continuamente chi siamo e da dove veniamo, con una
considerazione auto-analitica estremamente realistica della propria
condizione, contro l’aggressività maschile che tenta continuamente
una annessione cieca dell’esterno».
In occasione della mostra è stato pubblicato, dalle edizioni del MuseoFrac il catalogo monografico Caterina Arcuri. Respiro silente, con
testi di Paolo Aita e Massimo Bignardi, con apparati biografici e
bibliografici ed un corredo illustrativo a colori e in bianco e nero.
* Caterina Arcuri è nata a Catanzaro, dove vive e opera. Ha compiuto
studi artistici e musicali (Accademia di Belle Arti e Conservatorio di
musica). È docente di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro.
PAOLO
LAUDISA
La melanconia come pittura
Galleria Ninni Esposito, Bari
Di Pietro Marino
Torna a Bari con una personale, dopo cinque anni, Paolo Laudisa,
il noto artista barese che vive a Roma. Lo ritroviamo con un ciclo
di dipinti recenti e inediti, ispirati fin dal titolo “Melancholia” ad un
film 2011 di Lars Von Trier: dove una storia di relazione amorosa
tormentata si svolge nel contesto di un’attesa cosmica di collisione
della Terra con un pianeta chiamato appunto Melancholia.
Tema ovviamente inquietante – come tutti i film del celebre regista
danese, per di più afflitto da crisi depressiva.
Ma come si sa “l’humor nero” è motivo, psicologico e filosofico,
che ha lunga tradizione in letteratura come in pittura, a partire dalla
famosa incisione di Durer.
La tonalità che assume il sentimento malinconico nelle tele di
Laudisa non si tinge però dei colori della tristezza o del pessimismo.
La sua pittura si affida da sempre all’espressività del minimalismo
cromatico, con stesure larghe di colori primari, il blu, il rosso, il
giallo. Privilegiando, il Blu – colore “spirituale” per eccellenza – sin
dai tempi in cui dichiarava il suo omaggio a Yves Klein.
A conferma che la scelta di campo per un’arte “astratta” non
muoveva da purismo formale. Elaborava il lascito della kandinskiana
“necessità interiore” contaminandola con la cultura del gesto postinformale. Con i grumi di materia, i residui frammenti oggettuali
inseriti nella tela, a designare un altro “omaggio”, reso a Carmelo
Bene.
Ora, dal film di Von Trier il pittore desume un sentimento, o
presentimento, di meditativa attesa che dalla crisi cosmica sfinisce
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in metafora di stato d’animo universale, Zeitgeist, “spirito del
tempo”. La sua pittura ora gioca di fino su campi con trasparenze e
velature, s’indovinano vaghe sinopie di presenze aliene, disegnini
di astronavi, macchie come meteoriti. Ma soprattutto si aggruma
in vortici di colore o per cracquelers (alla Burri) il disco di un astro
o pianeta, in arrivo o ascesa. Non necessariamente minaccioso
o apocalittico, come rassicura una grande tela che si distende in
giallo di luce solare. Piuttosto in sospensione ambigua, condizione
della precarietà e fugacità del moderno. Ma consolata dalla serenità
sublimatoria della pittura.
*(Gazzetta del Mezzogiorno)
una mostra
una mostra
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Curata da Massimo Bignardi, è stata inaugurata la mostra personale
“Respiro silente”, dell’artista C at e r i n a A r c u r i , promossa in
collaborazione con la cattedra di Storia e fenomenologia dell’arte
contemporanea della Scuola di Specializzazione in Beni Storico
Artistici dell’Università di Siena.
Il Museo-Frac con questo nuovo appuntamento riapre il dibattito
su esperienze attuali e lo fa’ «con un’artista della grande area
mediterranea, una terra magica che respira l’anima profonda della
sua storia – sottolineano Giovanni Moscatiello sindaco di Baronissi
e Maria Pia Marotta assessore alla cultura. Caterina Arcuri, con le
sue capacità di intervenire negli spazi, negli ambienti espositivi, si fa
interprete di una nuova riflessione sulle domande che la donna oggi
pone e si pone rispetto alla realtà».
Pratica medica, pratica
artistica: Santi Medici
tra arte e medicina.
Torrione Angioino e Chiesa di San Giorgio, Bitonto
Rosario Genovese
Alpha/Beta
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Ae Aquarii A + B, 2014
A - Supporto ligneo, acrilico e matita su tela;
B - Supporto ligneo, acrilico e matita su stampa diretta inkjet
UV su tela cm. 170 x 85
Museo Permanente d’Arte Moderna Le
Vite, Catania. A cura di Giuseppe Frazzetto
A cura di Elena Cantarella
Chi è l’artista?
L’artista è un “genitore consapevole” che si prepara all’evento
della nascita. Quando inizio una nuova opera, la progetto,
studio il soggetto, decido la tecnica, preparo i supporti, penso
a come collocarla in una mostra.
All’inizio i suoi dipinti rappresentavano scorci di città, poi
la sua attenzione si è spostata allo spazio.
Un giorno iniziai a guardare l’universo. Rappresentai il sole, le
galassie e le costellazioni tenendo conto di tutti i rapporti tra le
stelle, del mito e dell’etimologia dei nomi. I supporti divennero
circolari.
Tra pochi giorni verrà inaugurata la sua personale Alpha/
Beta. Corrispondenze. Cosa racconta di nuovo?
Le mie opere continuano a parlare dell’Infinito. Questa
volta attraverso dittici circolari modulati diversamente in
dimensione e superficie. Purtroppo i locali della mostra non mi
permetteranno di installare le tele secondo le distanze in scala,
così ho optato per un’esposizione lineare.
Come nasce l’idea di queste opere doppie?
Nasce da stelle chiamate doppie binarie a contatto, astri
gemelli che condividono massa ed energia e che nel tempo
acquisiscono peculiarità proprie.
Quindi non si tratta di immagini perfettamente speculari.
Nulla in natura è identico. Per questo la mostra parla di
corrispondenze e non di uguaglianze, anche se è proprio
nel cercare le uguaglianze che trovo le varianti. Alpha e Beta
nascono dal tentativo di renderle identiche: inizio stendendo
su una tela un impasto cromatico, poi la fotografo e faccio
stampare la foto su un’altra tela che viene montata su un telaio
identico.
Ho così i miei due gemelli su cui agisco contemporaneamente
ma trasmettendo la mia energia con grado differente, andando
avanti e indietro fino a che le opere sono complete.
Come nascono le immagini che popolano le sue stelle?
Nascono da un colore magmatico dove centinaia di anime
vogliono emergere; io fisso col disegno quelle che realizzano il
mio intento che racconto in dei componimenti poetici che creo
prima e durante l’esecuzione.
Le sue opere hanno un valore comprensibile solo se se ne
conosce la genesi. Cosa vi vedrà l’osservatore inesperto?
Mi piace pensare ai miei quadri come a delle opere aperte,
dove si potranno vedere anche quelle immagini rimaste
nascoste nel colore e a cui non ho dato forma.
Beppe Sylos Labini
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una mostra
una mostra
Si inizia in una Catania assolata, lungo la passeggiata che
dall’Accademia di Belle Arti conduce al suo studio nella
vicina via Plebiscito.
“Mentre giro la chiave nella serratura”, dice Genovese “penso
a quel che vedrò, a quel che ho fatto e a quel che farò”.
Nella sua voce si avverte un’emozione rinnovatasi giornalmente
in decenni di attività artistica. Entriamo. I colori aleggiano come
se fossero profumi; quadri, sculture, telai in preparazione
e attrezzi del mestiere abitano le due stanze dello studio
lasciando intuire la passione e la disciplina di un artista che ha
veramente cura delle proprie cose.
Magda Milano
Pratica medica, pratica artistica: Santi Medici tra arte e
medicina
Unire il culto dei Santi Medici, la riflessione critica sull’attuale
professione medica e la pratica artistica contemporanea è
stato l’impegnativo compito cui non si è sottratto il curatore Vito
Caiati, coadiuvato dall’artista Magda Milano, nell’ideazione
e nella realizzazione della mostra “Santi Medici tra arte e
medicina”, patrocinata dalla Fondazione Santi Medici di
Bitonto (BA) e dall’Accademia di Belle Arti di Bari, che ha
trovato spazi ospitali nella città dei Santi Medici, Bitonto
appunto, tra il Torrione Angioino e la Chiesa di San Giorgio.
Ma alle tre coordinate della mostra si sono ben adattati anche
i 35 artisti e i 14 studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bari
con opere nate per lo più per l’occasione.
Sul fronte artistico ai Santi Medici dedicò molti dipinti Beato
Angelico, il quale colse con una pittura straordinaria per
qualità gli aspetti più intimi, ma anche più spettacolari, della
miracolistica legata a Cosma e Damiano.
Nell’immaginario collettivo, probabilmente, oggi i “Medici
senza frontiere” hanno surclassato i Santi Medici. Ed è
comprensibile in una società sempre più secolare, sempre
più multietnica, sempre più globalizzata la sostituzione
all’iconema sacro, in vigore da svariati secoli sia in Oriente
sia in Occidente, dell’iconema laico.
Confrontarsi con il tema del sacro che cura, o meglio con i
risvolti psicologici dell’auto-guarigione grazie al medico ideale
che si prende cura del malato più che curare la malattia (l’I
care inglese), sono i presupposti storico-teorici della mostra,
e sono dei presupposti con cui non era facile confrontarsi per
molte ragioni. Bisogna dire che la rassegna non solo ha retto
il confronto, ma ha molto favorevolmente stupito.
Partendo dai più giovani, essi, come scrive il docente della
I Cattedra di Pittura dell’Accademia barese, Fabio Bonanni,
hanno vissuto e metabolizzato l’esperienza del confronto
con il racconto agiografico, secondo “non un’arte sacra, ma
un’arte non indifferente al sacro” con “formule di originalità
e di trascendimento dei luoghi comuni”. Da segnalare i
lavori di Crisa, Annalaura Cuscito, Chiara Gatto, Antonio
Prima: se mostre come questa, secondo quanto scrive il
direttore dell’Accademia, Giuseppe Sylos Labini, sono un
“osservatorio di espressioni creative”, sui giovani artisti citati
allevati nel vivaio barese, vi sono già gli occhi della critica e
dei galleristi, avvalorando il fatto che le Accademie – e Bari
vive un momento felice – “sono parte determinante e fondante
del sistema dell’arte”, come giustamente rileva Sylos Labini.
Riguardo ai 35 maestri, il livello dei nomi e delle opere
esposte è stato di qualità. Vi è stata come una gara a dare il
meglio di sé da parte di ogni artista, che si è rapportato con
la propria esperienza al tema della mostra. Il tema è stato,
afferma il curatore Vito Caiati, il “recinto di senso in cui si
invitava l’artista ad abitare con la sua libertà creativa e con la
sua opera. Questo recinto era ed è quello sacro, segnato dai
nostri due Santi che, per questo, anche a livello subliminale
si sono affacciati in ogni opera attraverso un linguaggio
simbolico”. Il riferimento all’immagine votiva, quando c’è
stato, è stato adoperato sotto forma di citazione, parafrasato,
ironizzato (in Agrimi, Carmentano, D’Orazio, Foti, Giancaspro,
Labianca, Liberatore, Lisi, Mezzina, Monticelli & Pagone,
Patruno, Quarta, Sivilli, Speranza, Suppa, Sylos Labini,
Tarshito). Per alcuni preponderante è stato il riferimento al
gesto che cura, secondo un’impostazione etica dell’arte (in
Caputi, Cetera, De Gennaro, Fioriello, Mitolo). In altri casi la
componente simbolica è risultata preponderante (Bonanni,
Cicchelli, Corazziari-Malerba, Corbascio, Di Terlizzi, Fiorella,
Grillo, Liuzzi, Lunanova, Maggiulli, Martino, Milano, Quida).
Per tutti, probabilmente la mostra è stata l’occasione per una
riflessione profonda sul fatto che l’arte è punto di contatto fra
l’artista e dio, quel dio che, secondo il curatore della mostra,
è immanente alla persona: riconoscere questa presenza
– artisti e non – porta sulla via della guarigione, curando le
discrasie interiori di cui le malattie non sono che i sintomi.
Giusy Petruzzelli
Scenamadre
di grafica editoriale e quindi ci possiamo permettere di progettare
pubblicazioni eleganti, funzionali alla didattica e a una prezzo
decisamente abbordabile, tanto più nella fase di crisi che stiamo tutti
attraversando. Inoltre abbiamo utilizzato il metodo che negli ultimi
anni ha fatto sì che l’intera istituzione abbia la possibilità di viaggiare
con una marcia in più: il lavoro di gruppo e il coinvolgimento nelle
progettualità degli studenti, il che ci porta a valorizzazione le nostre
eccellenze mettendole in rapporto con il mondo del lavoro.
modelli per una storia dell’architettura scenica
Il lavoro ospitato dal 26 ottobre 2013, ricostruisce un particolare aspetto della storia del teatro: quello dell’architettura teatrale, della scenografia e della scenotecnica indagati coi mezzi del disegno e delle videoinstallazioni. Ma soprattutto della
ricostruzione plastica, del tradizionale modellino costruito e
dipinto e il più delle volte anche animato grazie alla riedizione
dei meccanismi, che unica può riattualizzare la realtà di una
storia dello spettacolo troppo spesso analizzata coi soli perciò
parziali mezzi del linguaggio scritto e parlato. Quando la sua
espressione originale, la sua idea-azione, nasce e si articola
coi segni dell’arte e della ingegneria teatrale. Che sono spaziali e visivi, prima che parlati e scritti.
Come si struttura la collana?
L’editore, di concerto con il comitato editoriale della collana, ha
programmato per quest’anno l’uscita dei primi quattro volumi: New
Ritual Society. Consumismo e cultura nella società contemporanea,
di Gianpiero Vincenzo (già nelle librerie);Harald Szeemann, L’arte di
creare mostre, di Ambra Stazzone; Network di Babele. Videogiochi,
scatole blu e altre storie tecnologiche, di Giuseppe Frazzetto; La
cultura del progetto grafico. La grafica di pubblica utilità in Italia, di
Gianni Latino. I primi tre volumi potrebbero essere tutti già stampati
per la Fiera del Libro di Torino, il prossimo maggio, dove sarò presente
insieme agli autori.
L’anteprima di Scena Madre al Castello di Racconigi presenta circa 40 plastici di grandi dimensioni (su un totale realizzato
di oltre 70) di progetti teatrali, scenografici e scenotecnici, corredati da copie dei disegni o da ricostruzioni. Una originale e
ampia carrellata storica internazionale, dal teatro della Grecia
classica al ‘900; completata da un inedito collage composto
da spezzoni di film: l’idea che la modernità si è fatta di una
storia nata con l’uomo e la sua ritualità.
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* Gianpiero Vincenzo (Napoli, 1961) è docente di Discipline
sociologiche all’Accademia di Belle Arti di Catania.
Il progetto è una creazione del Corso di Scenografia e Scenografia a indirizzo teatrale dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino (Prof.ri Piasentà, Voghera ed Esposito, e
prima del Prof. Coffano, con tutti i loro studenti degli ultimi
cinque anni), con la collaborazione della Cattedra di Scenografia a indirizzo cinetelevisivo, per il montaggio filmico (dei
Prof.ri Ajani e Costagliola) che si ringrazia, congiuntamente
alle realtà territoriali che hanno reso possibile la ricerca e la
realizzazione dell’esposizione.
Primi fra tutti l’Ente ospitante: il Real Castello di Racconigi,
Direzione Regionale della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Torino, Asti, Cuneo,
Biella e Vercelli; il Teatro Stabile di Torino, con il suo Centro
Studi e il Teatro Carignano e la Regione Piemonte, che ha
finanziato gran parte dell’iniziativa.
Ricostruzione del Teatro Carignano secondo il progetto di Benedetto Alfieri,
Torino 1752. Spaccato longitudinale sulla sala e il palcoscenico. Dimensioni
cm. 250X130X120 h.
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Gianpiero Vincenzo
NEW RITUAL SOCIETY
Dal 20 marzo sarà in distribuzione presso le librerie italiane il
primo volume della collana di saggi ricercainaccademia, Fausto
Lupetti editore Bologna-Milano. Intervistiamo il direttore Virgilio
Piccari in relazione a questo nuovo progetto dell’Accademia di
Belle Arti di Catania.
Perché questa collana?
Perché le accademie italiane sono molto cresciute negli ultimi dieci
anni, prima tra tutte quella di Catania. Non solo numericamente ma
anche come capacità progettuale e di ricerca. Mancava però una
collana di saggi che documentassero questa crescita, raccogliendo
gli studi più significativi prodotti dalle nostre istituzioni. Abbiamo
realizzato quindi una partnership con Fausto Lupetti, editore
particolarmente attento al mondo della ricerca sul contemporaneo. Le accademie sono sempre più vicine alle università, quindi?
Lo sono ormai da dieci anni, da quando le due riforme “gemelle” 508 e
509 hanno avviato il processo del loro riordino fino a sancire l’effettiva
equiparazione dei titoli di studio rilasciati da università e accademie.
Ma, ovviamente, noi manteniamo, e siamo fieri di questo, la nostra
specificità. La nostra ricerca, così come conseguentemente la nostra
didattica, è rivolta a contenuti di grande attualità spesso non ancora
indagati in ambito universitario forse perché spesso ci inoltriamo in
ambiti ancora “in costruzione”. Ma questa per noi è la sfida…questo
è il nostro modo di lavorare…
La veste grafica si differenzia molto, però, dalla media delle
pubblicazioni universitarie.
Confrontarsi non vuol dire omologarsi, ma sviluppare le proprie
peculiarità, le proprie ricerche. Inoltre, noi abbiamo un’ottima scuola
libri
scenografia all’albertina
Una collana dell’Accademia di Catania?
Diciamo un progetto che parte da Catania. Pensiamo, infatti, di
invitare anche altre Accademie a partecipare alla collana, proponendo
la pubblicazione delle ricerche più significative da pubblicare a partire
dall’anno prossimo.
In occasione della mostra di Pietro Coletta alla Fondazione Mudima
di Milano, è stata pubblicata una monografia a cura di Luigi Sansone
dal titolo “Nel segno del fuoco”. Un volume di 180 pagine con testi di:
Gianluca Ranzi, Gillo Dorfles, Luciano Caramel, laudio Cerritelli,
Martina Corgnati, Fabrizio D’Amico, Andrea B. Del Guercio, Flaminio
Gualdoni, Elisabetta Longari, Cristina Muccioli, Gabriele Perretta,
Elena Pontiggia, Luigi Sansone, Arturo Schwarz, Francesco
Tedeschi, Salvatore Veca e note biografiche di Matteo Zarbo.
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Roberto Zanon
MAIMERI, un’azienda, un mondo di colori
Verso il design
libri
*Roberto Zanon, architetto, insegna Design all’Accademia di Belle
Arti di Venezia. Per i tipi della Cleup ha pubblicato, tra gli altri, i
volumi: Allestimento per la moda (2003), Scenografie di moda (2006),
Contesto, suggestioni percettive (2009).
Titolo: Verso il design. Appunti per uno sviluppo critico
ISBN:9788867871391
Collana: Ingegneria civile e architettura
Autore: Roberto Zanon
Prefazione: Aldo Cibic
Illustrazioni: Marta Naturale
Edizione: 2013
Editore: CLEUP, Padova
Numero pagine: 266
Prezzo: €18.00
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consultarli quando vorrai ed eventualmente
stampare solo gli articoli che ti interessano.
www.academy-of.eu
digita
e segui le indicazioni che troverai nella casella
lampeggiante “abbonati”.
Tradizione e innovazione sono gli elementi distintivi che hanno sempre caratterizzato
Maimeri e, negli ultimi anni, i continui studi del laboratorio di ricerca e sviluppo hanno
permesso l'introduzione di nuove gamme di colore. Oggi,di fronte alle esigenze dettate
dalla concorrenza internazionale, Maimeri ha ampliato ulteriormente i propri impianti, in
previsione delle crescenti sfide incui si troverà nei prossimi anni. In tal modo, partendo
da piccolo laboratorio artigianale negli anni venti, l'azienda è riuscita a conquistare
un suo preciso e ambito spazio nel mercato nazionale e internazionale dei prodotti
per Belle Arti. L'area attualmente occupata dalla struttura e dai servizi dell'azienda ha
raggiunto gli 11.300 mq ed il magazzino, costituito da un edificio apposito, consente
un efficace sfruttamento delle nuove tecnologie informatiche applicate alle operazioni
di immagazzinaggio e spedizione. La produzione dell'azienda si dimostra attuale,
efficiente e perfettamente funzionale alle esigenze di qualità, quantità e servizio volute
dal mercato.
Da alcuni anni la nostra rivista, che è distribuita nelle
Accademie di Belle Arti in Italia, ha avviato una solida forma
di collaborazione con l’azienda MAIMERI che stimiamo per
l’operosità e per la serietà con cui lavora.
Gianni Maimeri porta avanti la tradizione ma guarda anche
all’innovazione conducendo l’azienda non solo nella conquista
di nuovi mercati internazionali ma anche investendo nella
ricerca per interpretare sempre più lo spirito del nostro tempo
e per produrre colori che siano in sintonia con la pittura e la
creatività delle istanze contemporanee.
Abbiamo organizzato insieme il Primo Premio Maimeri
riservato agli studenti delle Accademie, abbiamo pubblicato
degli editoriali per far conoscere la storia e la filosofia
di questa azienda, tutta italiana, della quale andiamo
orgogliosi e cerchiamo di veicolare come possiamo fra gli
oltre venticinquemila studenti che frequentano le accademie
italiane.
Questa volta non vogliamo raccontarvi altro che non sia già
raccontato ed evocato dalle immagini fotografiche di particolari
delle fasi di produzione dell’azienda. Buona visione!
mondo colori maimeri
Nel mare magnum che è il mondo del design attuale, il testo si propone
di essere propedeutico e offrire degli stimoli e dei punti di riflessione
nell’ambito del progetto degli artefatti. Una concatenazione di
considerazioni strutturate e circostanziate che toccano aspetti storici,
percettivi, semantici, compositivi della disciplina del design avendo
come finalità la costruzione di una conoscenza critica nei confronti
del mondo tridimensionale. Le valutazioni sono spesso anche il
pretesto per citare dei prodotti-icona che permettano di focalizzare
l’attenzione su aspetti determinanti nella formazione di un progettista.
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Il mondo di TARSHITO
L’incontro fra Oriente e Occidente,
fra il materiale e lo spirituale,
fra l’individuale e il collettivo,
fra utopia e progetto, sognato e
perseguito da Tarshito per oltre
trent’anni ha ora nel Villaggio di
via Torre di Mizzo la sua cittadella.
PIETRO MARINO
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luoghi d’arte
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Mi rinviano indietro nel tempo le due parole traforate
sul cancello che si spalanca per accogliermi dopo un
breve viaggio di iniziazione. Giungere dal centro di
Bari sino allo svincolo per l’IKEA era stato agevole, ma
poi non bisognava cedere alle lusinghe consumistiche
dell’insegna svedese, e proseguire per una strada buia
che portava alla stazione di Mungivacca, abbandonata
e silenziosa come in quadro di De Chirico. E per un
momento non sapere più dove andare, poi indovinare
un vicolo sulla fiancata dell’edificio. E inoltrarsi
con qualche patema sino ad un lampione rosso
lampeggiante su un binario, come ad avvertire del
pericolo di arrivo di un treno fantasma. E passare più
alla svelta possibile, per andare incontro ad un altro
muro. E lì ancora intravedere lontano sulla destra,
come un miraggio, la curvatura alta di un edificio bianco
allucinato nella notte da un faro, effetto Taj Mahal. Ed
è qui, sulla soglia del villaggio che l’artista-designerarchitetto-guru ha realizzato ai margini della cinta
urbana di Bari, che la favola del viaggio di iniziazione
finisce e da quella parola a sorpresa, Speciale, si
riapre una storia.
Non posso ora fare a meno di ricordare quello spazio
d’incontro (un po’ laboratorio, un po’ showroom) che
così si intestava – Speciale, appunto - aperto in corso
Vittorio Emanuele da due giovani che si facevano
chiamare Tarshito e Shama. Pareva un omaggio
alla moda “arancione” dell’India che possedeva una
generazione in fuga dalla delusione dei Settanta, gli
anni di piombo. Nicola Strippoli da Corato ci era andato
nel 1979, per “sete di conoscenza interiore”. Questo
significa in sanscrito il nome che assunse dopo aver
incontrato a Pune il santone Osho. E m’intrigò molto
allora questo iniziale offerta di connubio tra vago
spiritualismo asiatico e le prove di design radicale
che per la prima volta a Bari venivano proposte
da Speciale, con Mendini, Dalisi, Marano, Lovi, e
naturalmente Gianni Pettena che era stato il maestro
di Nicola Strippoli nell’Università di Firenze. E poteva
apparire una contraddizione, questo incontro fra
un contemplativo animismo di ispirazione buddistainduista e l’ironia laica dei giovani promotori di una
forma “alchemica” accesa di colori pop che contestava
il primato prescrittivo della funzione, il canone
modernista della razionalità occidentale.
Così la successiva e progressiva affermazione da
parte di Tarshito di un mondo di amore e di pace
universale che si espande nella fioritura esuberante
di forme di vitalismo prezioso e di simbolismo estatico
è potuta apparire come superamento definitivo o
addirittura negazione di quello storico snodo di complessità.
Ho sempre sospettato che le cose non stessero esattamente in
questo modo, mentre registravo con qualche misura di distaccata
attenzione l’apparizione negli anni di mirabolanti apparati della
fantasia sospesi fra arte e design. Nati dalla collaborazione non
solo con un collaudato team pugliese ma con artigiani indiani,
ed ora (mi par di capire) anche nordafricani. Portatori di incontri
fra mani e culture diverse per infinite variazioni sul tema centrale
della “meditazione” come metodo, prima che di stile, di “viaggio
dentro di sé” come ama invocare Tarshito, e come ama ripetere ai
suoi studenti, quando insegna in Accademia. I Guerrieri d’amore,
i Tappeti della Meditazione, le Case-Pesce e le Case–Fiori, i Vasi
con radici e i Vasi Umani, i tavoli–vaso e i gli strumenti musicali
abitabili, le fontane sacre e i paraventi, le campane e i campanelli,
i candelieri e gli incensieri, le tartarughe che trasportano templi, i
leopardi assorti, le Geografie Sacre... Un immaginario dello spirito
travasato nelle pratiche manuali più diverse e nei materiali che
sanno di pregio. E i suoi personali inchiostri col segno-griffe della
doppia ansa e i pensieri riportati del suo sincretistico empireo
spirituale, Osho, don Tonino Bello, Tich Nath Hahn, Aivov…
Tutto il repertorio che ora ritrovo accortamente dispiegato ed
esaltato nei nove capannoni in muratura dove si lavorava la sansa
di olive, tipica deriva meridionale della perduta economia di riuso
dei frutti dell’agricoltura. Ambienti ora trasformati in lindi edifici di
un Villaggio Speciale con candori esterni di latte di calce e respiri
di open spaces ben cadenzati all’interno sotto i rivestimenti di
strutture lignee, vetrine e splendori dorati. Sparsi fra vialetti con
geometrie di praticelli e palme giovani ben disposte alla crescita,
luci diffuse con regìa di discrezione e misura. Spazi organizzati
per le diverse funzioni d’incontro, fra museo personale e laboratori
collettivi per le diverse attività artigianali. In primo luogo la
ceramica, linguaggio portante di culture che nascono dalla terra.
E che quindi sa molto di tradizione pugliese, sotto l’opulenza delle
metamorfosi dell’immaginazione orientalista.
Una “nuova area di creatività, spiritualità e tradizione”, la definisce
con giusto orgoglio il suo ideatore e architetto. Ma proprio in questa
sintesi è avvertibile – come sospettavo – l’estensione originale di
quella nuova cultura del design come operazione liberatrice di
contaminazioni creative che fu all’inizio della sua avventura. Il
Villaggio di Tarshito insomma non è piccolo Bauhaus di Weimar
anche se ne deduce l’impulso olistico del progetto fondativo di
Gropius, ma non è nemmeno un Monte Verità di Ascona col suo
elitarismo di eremiti del pensiero alternativo. Si avverte un sano
pragmatismo “occidentale” nel conferire struttura d’impresa per
architettura d’interni al sogno “orientale” di un villaggio d’amore
e di pace. Altre volte e per altre storie si è segnalato non solo
da me come l’eclettismo sia una caratteristica storica della cultura
pugliese. Talvolta un limite, più spesso una risorsa. L’incontro fra
Oriente e Occidente, fra il materiale e lo spirituale, fra l’individuale e
il collettivo, fra utopia e progetto, sognato e perseguito da Tarshito
per oltre trent’anni ha ora nel Villaggio di via Torre di Mizzo la sua
cittadella. Il più impegnativo campo di prova di operante amore.
flash
giovani
artisti
maestri
storici
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Donatella De Rosa
Donatella De Rosa ha appena conseguito la
Laurea in Pittura all’Accademia di Brera.
Nella sua installazione “Diario del corpo”
archivia disegni, fotografie, su carta da lucido,
barattoli di vetro e oggetti vari di piccole
dimensioni, tutta una serie di presenze sensibili
e poetiche che rimandano ad una interiorità
profonda.
Pur ancora sedotta da una certa atmosfera
da transavanguardia, la giovane artista
mostra una vocazione alla pittura narrativa di
particolare sensibilità e disinvoltura nell’uso di
vari materiali e nella capacità di farli convivere
dolcemente.
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