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Sommario ragionato di Elisabetta Longari Questo numero di Academy, come è nostra vocazione dalla nascita, fa il punto su alcune problematiche legate alla gestione delle Belle Arti in Italia, soprattutto, com’è ovvio, relative alla Pubblica Istruzione, ma non solo. Il paese che è stato premiato con l’Oscar a Sorrentino per la Grande Bellezza sembra ormai purtroppo sclerotizzato nelle sue patologie, e si direbbe quasi compiaciuto del proprio stesso degrado. Eppure le risorse creative interne al paese sono molte, basterebbe davvero riuscire a valorizzarle, incanalarle, coagularle intorno a progetti sani, ma forse il marcio che prevale prevarrà sempre e continuiamo a raccontarci delle favole belle per non morire. Evviva l’ottimismo! Il servizio sulla mostra torinese Accademia Italia, che ha visto nella sede dell’Accademia Albertina la prima tappa di una tournée che prevede la presentazione in diverse città italiane di un’esposizione che parzialmente cambierà volto in quanto il primo nucleo di artisti di volta in volta si arricchirà di nuove presenze di docenti delle istituzioni locali a documentare per fatti concludenti la ricchezza espressiva che abita le accademie italiane, pubbliche e private. La prossima edizione avrà luogo a ottobre, all’inizio dell’anno accademico, presso l’Accademia Ligustica di Genova, dove insegna Alessandro Fabbris il cui contributo, su questo numero 18 della rivista, intitolato Cosa significa Decorazione? si inserisce nel dibattito già date tempo avviato attraverso una serie di “interrogazioni sistematiche” sugli specifici delle diverse discipline artistiche. La copertina, e il relativo articolo principale di questo numero sono dedicati a Fabrizio Plessi, pioniere delle video-installazioni in Italia riconosciuto a livello internazionale, artista che ha creato ambienti interni immersivi di particolare suggestione e atmosfere speciali anche all’aperto, nello spazio esterno. Tra le recensioni si segnalano quella della mostra sugli Anni ‘70 a Roma, curata da Daniela Lancioni e da lei allestita in modo molto significativo, e quella delle opere su carta che Franco Marrocco, Direttore dell’Accademia di Brera e coordinatore della conferenza dei Direttori, ha tenuto a Santa Monica (Ca). Con un “reportage” da Varsavia proseguiamo il nostro viaggio di ricognizione nelle istituzioni preposte all’educazione artistica all’estero, e con il contributo di Francesco Correggia, dall’eloquente titolo Accademie e Professori, gioie e dolori! e con l’intervista a Dora Liguori ci occupiamo invece dei problemi di casa. SOMMARIO 02 Redazionale di Gaetano Grillo NUMERO 18, anno 2014 SEDE Viale Stelvio, 66 20159 Milano tel. 02 392 9149654 fax 02 6072609 [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE Gaetano Grillo DIRETTORE EDITORIALE Gaetano Grillo [email protected] *Tutte le collaborazioni si intendono a titolo gratuito ACADEMY OF FINE ARTS Iscritta al Tribunale di Trani n.3/09 Rivista fondata da Gaetano Grillo 04 Artista di copertina: Fabrizio Plessi 23 Intervista a Dora Liguori 26 Accademia Italia 28 Cosa significa Decorazione 30 Anni ‘70 a Roma 32 Riccardo Cordero 34 Franco Marrocco 36 Emilio Scanavino 45 Libri Hanno collaborato: Elena Cantarella UFF. GRAFICO [email protected] Guido Curto EDITRICE L’IMMAGINE SRL Via Lucarelli 62/H 70124 BARI Alessandro Fabbris www.editricelimmagine.it [email protected] 19 Accademie e Professori, gioie e dolori! 40 Recensioni Claudio Cerritelli tel. +39.0803381123 fax +39.0803381251 12 Qui Varsavia 38 In vino veritas VICE- DIRETTORE EDITORIALE Elisabetta Longari [email protected] REDAZIONE Gaetano Grillo Elisabetta Longari Gaetano Centrone Melissa Provezza 1 Anna D’Elia Lorella Giudici Flaminio Gualdoni Pietro Marino Nicolas Martino Giusy Petruzzelli Alex Urso 48 Immagini della ditta MAIMERI 54 Tarshito 56 Flash giovani artisti In copertina Continuiamo la serie di copertine pensate dagli artisti espressamente per ACADEMY, dopo l’ultima realizzata da Luigi Mainolfi in terracotta policroma, questa volta è il turno di Fabrizio Plessi che con il suo inconfondibile gesto forte e sintetico ha pensato ad un segno di fuoco, una colata di lava incandescente su una superficie lavica raffreddata. Fabrizio Plessi, per Academy 2014, foto e pastello su cartoncino cm. 32 x 24 L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE. Renzi pensaci tu! Da lla città del Rinascimento alla rinascita del nostro Paese mettendo al centro la cultura, la nostra risorsa più preziosa per decenni trascurata dalla miopia della politica. Alessandro Manzoni aveva usato la metafora “sciacquare i panni in Arno” riferendosi alla necessità di pulire la lingua italiana troppo contaminata soprattutto dai dialetti, andando geograficamente e idealmente alla fonte della nostra lingua, la Toscana. Questa regione, a distanza di oltre cinque secoli, resta per noi una sorta di ancora identitaria che definisce il profilo italiano nell’immaginario collettivo, nonostante la nostra vera identità vada cercata e compresa nella dimensione imprescindibilmente polifonica e maculata. Tuttavia è difficile non pensare alla Toscana ed a Firenze quando si parla di bellezza, di cultura, di arte, di architettura, di armonia del paesaggio, di equilibri formali, di mitezza del clima, di simmetrie e di rinascimento. Probabilmente avevamo bisogno che a capo del Governo arrivasse un giovane sindaco di Firenze per sentir parlare, almeno nell’ambito dei suoi intenti, di ritorno alla cultura e alla bellezza. Forse solo da quella città-capolavoro, ancora simbolo per antonomasia dell’Italia che piace nel mondo, poteva venire un nuovo impulso a credere e ad investire sui nostri grandi giacimenti culturali e sull’istruzione. Sembrano lontani i tempi in cui Tremonti, in veste di super ministro all’economia e alla finanza sosteneva che con la cultura non si mangia, così come sembrano lontani anche i tempi in cui Berlusconi si faceva riprendere nello studio della casa di Arcore con lo sfondo della sua librera, con volume così evidentemente intonsi, costosi e mai sfogliati. Un tempo bastava entrare nella casa di qualcuno per capire la sua formazione culturale semplicemente guardando i quadri alle pareti e i libri nella libreria, poi con l’inizio del declino, hanno assunto sempre più importanza i mobili, poi gli oggetti di design, finchè siamo arrivati agli abiti pur sapendo bene, come dice il proverbio, che non è l’apparenza a fare la sostanza. Nascere a Firenze, avere continuamente sotto gli occhi dei capolavori e soprattutto essere testimoni di una filosofia di vita deve pur significare qualcosa, particolarmente se si è il primo cittadino. Renzi - è vero - è partito all’attacco con la tipica arroganza dei giovani che sono certi di dare la birra alle generazioni precedent, ma talvolta, per uscire dall’immobilismo e tuffarsi nell’agone è necessario uno scatto di reni che solo un giovane ambizioso può avere. Vogliamo ora tutti tornare a guardare il bicchiere mezzo pieno e siamo tutti più o meno stanchi di sentirci inferiori ad altri cugini europei, siamo più o meno stanchi di essere depressi e soprattutto stanchi di non poter esprimere le nostre migliori qualità che forse non saranno lo zelo e il rigore ma sicuramente albergano nella nostra intelligente vocazione alla comunicazione, all’iniziativa, alla creatività, all’abilità e alla qualità, nonchè al nostro spiccato senso del gusto e della bellezza. Bellezza? Pensare che nel sistema dell’arte contemporanea la bellezza è diventata un difetto! Sono stato di recente a Varsavia, dove ho incontrato intellettuali, artisti, curatori, direttori di musei e mi son sentito dire che l’arte polacca è oggi importantissima perchè che vuole cambiare il mondo, che è audace, socialmente impegnata, forte, estrema, concettuale, performativa, viva; mentre l’arte italiana è “decorativa” attribuendo naturalmente a questo termine un valore negativo e vicino al concetto di leziosità formale. Potete immaginare un’Italia dura, estrema, radicale, drammatica, astratta, intollerante, introspettiva, buia? Potete immaginare un’Italia che non sorride? Un’Italia senza ironia? Un’Italia senza bellezza? Un’Italia senza colori? Un’Italia senza ingegno, senza operosità, senza piccoli paesi, senza colline, senza artigiani, senza pini e senza cipressi? Potete immaginare un’Italia senza Giotto, senza Dante, senza Piero della Francesca e senza Michelangelo? Senza la genialità di Leonardo e senza l’armonia di Raffaello? E’ mai possibile che non siamo più capaci di ripartire proprio dalle nostre migliori radici per avviare un nuovo rinascimento? Renzi ha il coraggio o la splendida ingenuità di un trentenne, Ora basta! Ripartiamo dai nostril giacimenti culturali con la coscienza che lì risiede la nostra forza e che da lì dobbiamo ripartire per risalire dal declino culturale che ha intossicato l’Italia. Dobbiamo avere la forza di affermare la nostra identità, il coraggio di ribadire che la bellezza non si deve confondere con la leziosità e che la forma non è un orpello della sostanza. L’Italia, l’Italia bella, quella che in tutto il mondo la gente sogna di conoscere e di attraversare, deve tornare al suo orgoglio, deve tornare all’istruzione, all’educazione culturale ma anche civile, deve credere in se stessa e nelle sue tante qualità. Milano si sta preparando all’EXPO 2015, si è messa in moto, è tutta un cantiere, Eataly ha scommesso sulle nostre eccellenze gastronomiche e sta riscuotendo un successo mondiale, la gente da tutto il mondo si riverserà a Milano nel prossimo anno e Milano può essere in questo momento proprio l’opportunità per passare dal declino al rinascimento del nostro Paese. Dobbiamo crederci, dobbiamo avere la forza di affermare con convinzione le nostre idee così come noi docenti delle Accademie di Belle Arti dobbiamo credere nel riscatto del nostro sistema e rimettere al centro il valore dell’arte colta, della bella arte italiana. Caro Renzi non dimenticare che su questa scommessa ci giochiamo la ripresa! Errata corrige: Nel numero scorso, all’interno dello servizio speciale sul Premio Nazionale delle Arti a Bari, a proposito della redazione del catalogo sono stati omessi involontariamente i nomi delle curatrici dell’edizione, le storiche dell’arte Lia De Venere e Giustina Coda. Ci scusiamo per l’accaduto. redazionale redazionale Di Gaetano Grillo per affermare che bisogna tornare a quella stagione per incamminarsi verso il riscatto del Paese. Un Paese che in tutti questi anni non ha creduto nell’arte, nella cultura, nella bellezza e nell’istruzione, non ha creduto nella capacità di fare, innata nel nostro popolo. Per tanti anni abbiamo confuso i valori, abbiamo scambiato la furbizia con l’intelligenza, abbiamo creduto che la capacità di sgomitare fosse una virtù, che il successo personale fosse al primo posto della scala valoriale, che la logica del profitto e del mercato fosse l’unico vero metro di attribuzione del valore, abbiamo creduto nella vanità dell’egocentrismo, abbiamo creduto a dismisura nella vacuità dell’apparire. Abbiamo pensato che la cultura fosse un orpello da poveri sfigati legati nostalgicamente al passato, abbiamo pensato che l’inglese e la tecnologia potessero sostituire pienamente la cultura classica e la filosofia, che la forza del calcolo avesse definitivamente soppiantato la fragilità della sensibilità. Abbiamo pensato che la cultura potesse essere un fardello che appesantisce la creatività e così abbiamo acclamato I cosiddetti “creativi” e trascurato I colti. Abbiamo creduto che l’istruzione fosse quasi inutile e che nella vita basta essere astuti e imprenditori per avere successo. Abbiamo pensato che adottare il sistema delle scorciatoie fosse il modo per arrivare primi, ma primi a cosa? Al traguardo degli imbecilli che hanno distrutto il prezioso spessore culturale del nostro Paese. Per anni molti hanno sostenuto con evidente compiacimento che gli artisti di maggior successo non si sono formati nelle accademie, nelle quali invece è sovrana la mediocrità. Per anni si è dato credito ad ignoranti che in quanto tali, hanno disprezzato e denigrato come obsoleta la conoscenza specifica dei linguaggi dell’arte. Troppo facile parlar male della pittura se non si è capaci ne di farla e neanche di capirla. Per tanto tempo il sistema e il mercato hanno protetto cose e persone che iniziano ora a mostrare tutta la loro fragilità. Per tanto tempo l’Italia dell’arte ha vissuto un complesso d’inferiorità perchè ha inseguito altri modelli, per tanto tempo abbiamo creduto che quei modelli fossero giusti e che noi fossimo indietro; per troppo tempo abbiamo subito con frustrazione la supremazia di mondi lontani dal nostro. Fabrizio PLESSI Incontro Fabrizio Plessi nel suo studio alla Giudecca, uno spazio grandissimo, organizzatissimo e minimalista. Un pensatoio affacciato su quel canale che per secoli, ha fatto incontrare e scontrare l’occidente con l’oriente. Si avverte il peso del lavoro immane che Plessi ha fatto in tanti anni di attività ma portato con la freschezza di uno spirito giovane e comunicatore. Oggi è il 21 marzo del 2014, il primo giorno di questa primavera e fra tre giorni Fabrizio compie gli anni, auguri Fabrizio! A cura di Gaetano Grillo Fabrizio tu hai un lavoro imponente, frutto di un’attività intensissima con tantissime importanti mostre nel mondo ma come è iniziata la tua avventura, da ragazzo sognavi già di fare l’artista? Tu non sei Veneziano di nascita, quando e perché sei arrivato in questa città? Io sono di Reggio Emilia ma ho sempre avuto il mito di Venezia, certamente perché era la città della Biennale ma anche perché aveva un’Accademia prestigiosa, più di quella di Bologna, dove sarebbe stato naturale andare a studiare per un ragazzo emiliano. Io sono venuto qui a soli quindici anni già per frequentare il Liceo Artistico dove ho avuto la fortuna di incontrare persone meravigliose perché allora nei Licei Artistici insegnavano tanti artisti. Lì ho conosciuto Bacci, Morandi, Guidi, ecc. Bacci, come un vero papà mi ha introdotto al Guggenheim che era il luogo dove gravitavano tutti gli artisti; ti faccio una confessione davvero confidenziale, io allora, a quindici anni, avevo già la convinzione che prima o poi avrei fatto la mostra al Guggenheim di New York e quando l’ho fatta, nel novantotto, è stato come vedere la realizzazione del sogno di un ragazzino. Io credo che i sogni si devono realizzare, guai se ciò non accade! i sogni che restano sogni diventano col tempo delle cose dure e crude che segnano e fanno male. Altra grande opportunità era la Biennale che per me è stata come una mamma e vivendo a Venezia mi ha dato molte opportunità, pensa che ne ho fatte quattordici. Ma dai, più di Mario Vedova? Tra l’altro ho partecipato anche al Festival del Cinema, al Festival della Musica ecc. avendo attraversato i linguaggi sono stato presente in tutte le occasioni espositive delle arti, non solo di quelle visive. Quindi Venezia mi ha accolto a braccia aperte dagli anni sessanta. E poi dopo il Liceo Artistico hai frequentato l’Accademia? Con chi, con Vedova? Pensa che io ho insegnato tantissimi anni al Liceo Artistico e contemporaneamente ero studente all’Accademia dove poi ho avuto per tanti anni la cattedra di Pittura ed insegnavo nell’aula accanto a quella di Emilio Vedova con cui avevo 5 un rapporto meraviglioso, finchè nel 1990 il Ministro tedesco dell’Istruzione mi ha invitato come vice-direttore alla Kunsthochschule fur Medien a Colonia e ho dovuto dare le dimissioni dall’Accademia di Venezia ma la cosa curiosa è che mai nessuno prima aveva dato le dimissioni e non si sapeva neanche come formalizzare la cosa. Ho anche insegnato alla Summeracademy di Salisburgo dove prima di me aveva insegnato Vedova con il quale come vedi, ho avuto sempre curiosamente un rapporto molto intrecciato, mi stimava molto; io lo vedevo come un vero grande artista, così coinvolto nel suo lavoro e dinamico. Come vedi ho sempre avuto un rapporto con la scuola, con l’Accademia e con i giovani. Quando ho insegnato a Colonia hanno istituito una cattedra proprio per me, infatti l’insegnamento si chiamava Umanizzazione delle tecnologie ed era molto importante proprio per avviare un progetto formativo e innovativo per l’arte, d’altronde il mio lavoro d’artista era molto consociuto in Germania. Ancora oggi in arte si confonde spesso la tecnologia come un linguaggio mentre è soltanto un mezzo come ce ne sono tanti. Aggiungerei anche che la tecnologia da sola non basta ad attualizza il linguaggio che è invece il risultato di una innovazione del pensiero. Sono d’accordo con te e aggiungo che pur essendo stato accolto a Colonia con grande ammirazione da tutti, a un certo punto devo essere sembrato troppo italiano e mediterraneo in un ambiente di tecnocrati. Come hai detto anche tu, certi equivoci sulla tecnologia persistono ancora oggi mentre negli anni ’70 si indagava sui mezzi e si approfondiva la ricerca, vedi Gary Hill, Bruce Nauman, Nam June Paik, Bill Viola. C’era un clima di ricerca negli anni ’70 che nel decennio successivo si è trasformato in consumo ed uno come me l’ha proprio vissuto sulla propria pelle. Fabrizio tu sei sempre stato un outsider senza mai appartenere ad un gruppo o ad una situazione, questa scelta ti ha condizionato la carriera oppure oggi puoi dire che sia stato meglio così, cos’ha comportato? Ha comportato un completo isolamento, proprio per me che sono una persona a cui piace molto comunicare. Potrei dire, parafrasando il mio rapporto con l’acqua e con Venezia, che sono stato un navigatore solitario. Mi hanno etichettato come un video-artista, cosa che non è vera, non centro assolutamente nulla io con la video-arte e spesso dico: “Michelangelo era per caso un marmo-artista?”. Io ho usato e uso il video come uso tanti altri media ma la gente è riduttiva e spesso lo è anche il sistema dell’arte; si tende ad incasellare così come ad escludere. Io non ho mai fatto video e non ho mai sopportato vedere gente seduta a terra in galleria che guarda un video lungo e noioso accettando la dittatura della durata dell’opera, io ho parlato di video installazione e mi ricordo che la prima volta che usato questo termine è stato al Palazzo dei Diamanti di Ferrara e c’era anche Gillo Dorfles che intervenne dicendo che non potevo usare quel termine da “elettrauto”. La mia video installazione è contaminata dai materiali, l’acqua, il ferro, il legno, la pietra e tanti altri materiali classici dell’arte, il video è uno di questi materiali, non certo l’unico. Io lavoro nello spazio e questo è molto importante per me, è la base del mio lavoro, è una macchina teatrale che deve prendere sia l’intelligenza sia l’emozione, da questo punto di vista io artista di copertina artista di copertina 4 6 7 artista di copertina artista di copertina “Foresta sospesa” videoinstallazione, Scuderie del Quirinale, Roma, 2002 “Foresta sospesa” videoinstallazione,Foundation Schneider Wattwinter, 2014 8 “Bombay-Bombay” videoinstallazione, Martin Gropius Bau, Barlino 2014 Quanto conta per te il colore? Pochissimo, da questo punto di vista non mi sento veneziano, perciò Bill Viola dice che io infondo sono uno scultore mentre lui è un pittore. Io e Bill Viola siamo grandi amici e ci stimiamo reciprocamente ma c’è molta differenza fra noi. Bill ha cercato una strada bizantina su due dimensioni, nella quale il colore conta molto come in un dipinto, io ho cercato la plasticità con il connubio fra materie povere e tecnologia. Tu hai parlato di materiali naturali e poveri come il legno, la pietra, il fuoco ecc. eppure non sei mai stato un artista dell’Arte Povera. Io naturalmente mi sono formato con l’arte povera, ero dentro i suoi concetti ma a me non bastava, trovavo un aspetto ecumenistico che non condividevo. Se oggi penso ad una cosa che contraddistingue i poveri, penso alla televisione, alle antenne paraboliche e alla disperazione di quella gente, magari delle favelas, che ha trasferito i propri sogni in quell’oggetto. Non c’è niente di più povero che la televisione. Con il senno di poi potremmo dire che la televisione non era il simbolo della borghesia, come forse Celant pensava ed io oggi voglio dire con forza che sono stato sempre più avanti degli altri. Dicevano “quello è pazzo! Vuole fare l’arte utilizzando la televisione..” Se avessimo avuto un critico davvero forte come è stato Achille Bonito Oliva per la Transavanguardia o Celant per l’Arte Povera, a parte Vittorio Fagone che si è occupato dei nuovi media, noi artisti Non è tanto una questione anagrafica, più probabilmente è cambiato il metro e non è più possibile giudicare con i parametri di prima ma è anche vero che qualche anno fa’ si è celebrato il funerale del secolo scorso e che questa crisi mette a nudo la verità, ovvero che sta già mutando il paradigma. Non ti chiedo di prendere la sfera di cristallo e di fare il veggente ma dimmi cosa avverti. Dal duemila, esattamente dal duemila, il mondo dell’arte è cambiato per una semplice ragione, perché è entrato a far parte di un sistema economico mondiale. Pensare che oggi forse la metà delle opere presenti nelle mostre internazionali è fatta con la tecnologia.. Comunque immagino che questa situazione ti abbia costretto in tutti questi anni a lottare duramente da solo ed ora che hai alle spalle questa mole enorme di lavoro come ti senti e cosa pensi di fare? Devo dire che sin dall’inizio volevo esporre nei musei più importanti del mondo, è stata quasi un’ossessione per la quale ho trascurato anche la mia famiglia ma sento di essere stato fortunato nella mia vita perché ho incontrato curatori e direttori che mi hanno offerto la mano, che mi hanno portato al Guggenheim di New York, di Bilbao, a Berlino, al Beaubourg di Parigi, alla Fondacion Mirò ecc. Ho avuto tante opportunità ma ero fuori completamente dal mercato, ho fatto un lavoro culturale senza interessarmi di lavorare con le gallerie, con la sola eccezione del Centro Video Arte di Ferrara, ho sempre fatto tutto il mio lavoro da solo. Ora mi trovo tante opere nei musei ma ho sempre fatto un lavoro solitario ed egocentrico. Ho fatto tante Biennali di Venezia ma il risultato che mi ha dato la partecipazione a Kassel è stato davvero speciale. Eravamo tre italiani, io, Penone e Cucchi ma io avevo la sala più importante dove presentai l’opera Roma, l’abbiamo inaugurata la mattina alle dieci e a mezzogiorno era venduta alla Galleria Thomas di Monaco, in quel momento all’improvviso Plessi è diventato un artista internazionale. Occorre fortuna e trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Forse più finanziario, legato al profitto! La finanza ha distrutto l’originalità culturale e creativa ed ha creato un sistema al servizio di un meccanismo internazionale d’interessi incrociati. Sono cambiate completamente le regole del gioco, i galleristi in accordo con le banche e soprattutto con il disastro di queste aste manovrate, hanno creato un mondo artificiale distante dal valore reale delle cose. Operatori del sistema dell’arte, con funzioni diverse, convergono su strategie definendo gerarchie d’importanza e dunque anche economiche. Oggi il mondo è controllato da grandi gruppi d’interesse che manipolano anche l’orientamento del gusto. Fabrizio come se ne esce da questa situazione? Guarda Gaetano, se ne esce proprio con questa crisi; io sto male con questa crisi ma ben venga perché è come un setaccio e deterge da questa immondizia incredibile che ci circonda però mi viene anche da pensare che chi resterà dopo questa auspicabile pulizia non è detto che sarà il migliore ma colui che ha le spalle più coperte, che “Llaut light” installazione, Ludwing Mùzeum Budapest, 2014 Fabrizio cosa sta accadendo in questo momento? Non so, forse è l’età ma io non riesco più a trovare cose stimolanti nel lavoro dei giovani artisti, mi sembra tutto così visto, ogni opera che io guardo è come se l’avessi già vista, metabolizzata, vissuta. Non so se questi giovani ne abbiano coscienza e fino a che punto, se le copiano, malamente, o se invece non le conoscono affatto. Secondo Marco Meneguzzo, con cui ne parlavo l’altro giorno, i giovani non conoscono molte cose e spesso non sono neanche interessati a conoscerle. Certo manca un’energia culturale ma capisco anche la loro condizione perché si trovano in questa massa immensa di immagini che ha reso tutto più complesso. Internet ha stravolto tutto. Internet ha ampliato la comprensione ma ha accelerato la schematizzazione e la percezione semplificativa del tutto; è come se avesse autorizzato la scorciatoia a tutti i percorsi. Certo, tu vai a Roma, a Parigi, a New York, a Doubai e trovi ovunque le stesse cose. E’ un mondo piatto e orizzontale, pieno di cose che io ho già visto. 9 artista di copertina artista di copertina sono molto all’antica. Quando vado a fare un sopralluogo quello è il momento che trovo più eccitante, ho bisogno della tridimensionalità e della profondità. che abbiamo lavorato con la tecnologia non saremmo stati abbandonati. In fondo è stata una miopia perché io immaginavo la grande affermazione che avrebbe avuto la tecnologia ma forse ero vent’anni avanti. Certo non potevo immaginare che avremmo avuto l’ipad o l’iphone ma certo sapevo che i televisori non sarebbero stati più delle scatole con il tubo catodico. Quando nel 1986 ho esposto il mio Bronx alla Biennale di Venezia, i miei televisori sono rimasti fuori dalle sale per due giorni perché non era considerato materiale artistico, puoi immaginare che situazione? “Waterfire” videoinstallazione, Museo Correr, Piazza S. Marco, Venezia, 2001 può resistere meglio ed allora torniamo nella trappola di prima. Si tratta dell’incapacità dell’uomo di essere artefice assoluto del destino. In che senso? Nel senso che forse l’uomo non è così capace di controllare tutto e che ad un certo punto altre forze prendono il sopravvento. Avrebbero mai potuto immaginare i nobili francesi di finire alla ghigliottina? Certo, il lavoro dell’artista non è tanto quello di risolvere dei problemi quanto quello di porsi delle domande, l’artista ha delle antenne sensibili e percepisce in anticipo i mutamenti. Però l’artista realizza con la sua opera un modello possibile e questo è una risposta. Io dico sempre una cosa: la scienza definisce il mondo, l’arte lo sdefinisce! Quando io faccio le mie barche gigantesche, di quaranta metri e le metto in piedi cosa sono se non l’affermazione di una dimensione illogica. Le mie barche non stanno mai in acqua, stanno in cielo, stanno in piedi, capovolte ma mai come stanno normalmente nella realtà. La metafora che mi piace è pensare che l’artista non rotola verso il basso seguendo la forza di gravità ma rotola verso l’alto alterando le logiche precostituite. 11 “Lava” (particolare) videoinstallazione, Ludwing Mùzeum, Budapest, 2014 Se tu non vivessi più a Venezia dove potresti vivere? Io vorrei vivere a Maillorca, la ho una casa in mezzo alla campagna che come era l’Italia negli anni ’50, con cavalli, olivi e pietre calde che si scaldano al sole. Un artista che ha usato prima degli altri la tecnologia ed i suoi complessi equilibri che torna alla natura? A Maillorca c’è una luce che si taglia con il coltello, così precisa, assoluta, è un’isola del mediterraneo ed io adoro il mediterraneo anche se ho dovuto vivere gran parte della mia vita in Germania e nei paesi freddi. Un luogo dove è presente ancora una dimensione mitica dell’esistenza e della storia, della favola, della luce. Venezia è un po’ il mio alibi culturali, capisci? Se mi chiedono perché l’acqua? Rispondo perché vivo a Venezia. Quando dico che l’acqua entra nei riflessi e si specchia sulle mie mani mentre disegno, mi riferisco alla liquidità della luce e della mia personalità. A Venezia ho imparato ad artista di copertina artista di copertina 10 “Lava” videoinstallazione, Ludwing Mùzeum, Budapest, 2014 “Mare verticale” videoinstallazione, Biennale di Venezia, 2005 essere liquido e tollerante, oggi mi sento come un vaso comunicante, mi adatto agli spazi. Io, emiliano, con il senso plastico della vita, con le case quadrate, ho imparato ad amare l’architettura di questa città e la sua liquidità. Venezia in fondo è come un grande schermo a cristalli liquidi o al plasma, un’immagine di luce ma senza ombre, proprio come nei dipinti di Guardi e Canaletto. Forse senza Venezia non saresti arrivato ad usare la tecnologia immateriale e virtuale della luce, anche se l’hai compensata fortemente con i volumi e la spettacolarità dello spazio solido e fisico. Hai ragione, io mi sono molto ammorbidito! In fondo la tolleranza ci aiuta a farci vivere meglio, in maniera più soave, più delicata, più profonda. Venezia, 21 marzo 2014 “La flotta di Berlino” Videoinstallazione, Martin Gropius Bau, Berlino 2004 Paola Ciccolella Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura, Varsavia Cosa succede a Varsavia nel mondo della cultura, in un momento di apertura molto interessante per la storia di questa città? La città è molto vivace e per quanto riguarda l’arte contemporanea Varsavia è dotata di ben tre musei che svolgono un’attività espositiva costante ma sono nate anche molte gallerie private che lavorano soprattutto con gli artisti locali. Da quello che vedo c’è una forte preferenza per l’arte concettuale anche perché ai polacchi piace molto il dibattito e la partecipazione più che la contemplazione. La mia impressione è che loro sono diffidenti nei confronti di linguaggi specifici come la pittura, anche quando si tratta di pittori molto interessanti, loro sono più rivolti ai linguaggi performativi e d’impegno filosofico e sociale. C’è anche molto interesse per il teatro di prosa e d’avanguardia anche se manca un vero festival. Sono molto attivi anche per quanto riguarda la lirica e l’opera, pensi che il Teatro dell’Opera è grandissimo ed ha spazi dove si organizzano anche delle mostre, pare che sia dotato del palcoscenico più grande d’Europa. Varsavia e la Polonia in generale guardano con attenzione alla cultura italiana? La Polonia è molto affascinata dall’Italia, talvolta anche in maniera ingenua perché non riescono a vedere i difetti che pur noi abbiamo. Abbiamo organizzato una bellissima mostra di Carla Accardi al Centro d’Arte Contemporanea Znaki Czasu di Torùn, una mostra curata da Laura Cherubini e Maria Rosa Sossai. L’Ambasciata D’Italia ha organizzato una bellissima mostra del Guercino a cura di Nelly Guariglia e la più grande esposizione del Guercino fatta nel Museo Nazionale è stata davvero un grande successo. Quando loro pensano all’Italia a quale espressione del nostro Paese pensano come prima cosa? Guardi Grillo, qui molta architettura è stata progettata da architetti italiani, poi amano curiosamente un garibaldino, Francesco Nullo, che è venuto qui a morire come patriota combattendo per l’indipendenza della Polonia, qui ci sono scuole, strade e monumenti dedicati a Nullo. I polacchi sono soprattutto amanti dell’Italia per il suo territorio e per il clima solare. Naturalmente a loro piace molto anche la moda italiana e anche il design ma noi cerchiamo di promuovere anche altri aspetti della nostra nazione per non restare sempre imprigionati dai luoghi comuni. L’Italia può dire cose interessanti anche sulla letteratura, sulla scienza, sul teatro. Un’altra cosa che iniziamo a promuovere è la cultura del vino, anche se in Polonia il consumo del vino è bassissimo perché sono per tradizione orientati verso la birra o i superalcolici. Noi abbiamo fatto dei corsi di avvicinamento al vino anche perchè cerchiamo, quando possibile, di promuovere la cultura collegandola al commercio e alla promozione delle nostre eccellenze nazionali. L’Accademia di Brera e nello specifico la Scuola di Pittura, sta lavorando ad un grande progetto per l’EXPO che consisterà in tantissimi messaggi visivi che arriveranno da tutti gli artisti del mondo e che saranno riprodotti su grandi dimensioni e installati nella piazza del nuovo grattacielo della Regione Lombardia. Lei quali pensa che siano gli artisti più rappresentativi per la Polonia? Progetto bellissimo, immagino già come sarà la mostra, complimenti! Circa l’indicazione degli artisti direi che Cavallucci potrà essere senz’altro più competente di me, io ne ho conosciuti diversi e comunque posso dire che negli ultimi anni gli artisti polacchi si sono affermati ai più alti livelli internazionali, con un lavoro che è molto forte, forse per certi versi lontano dalla nostra arte che si esprime maggiormente nella forma e nella bellezza mentre la loro tratta di argomenti più radicali e sociali. Noi cerchiamo di proporre anche artisti italiani contemporanei, ma non è facile proprio per questa diversa identità dell’arte, ci riesce maggiormente con artisti del passato e il caso del Guercino ne è una palese dimostrazione. E’ stata una mostra fantastica, anche grazie al contributo di Joanna Kilian che è esperta dell’arte italiana dal trecento al seicento presso il Museo Nazionale di Varsavia. Cosa succede a Varsavia e in Polonia? Negli ultimi anni in Polonia e a Varsavia in particolare, poiché come capitale è il luogo di maggiore attrazione, c’è una situazione artistica molto fertile, cominciata già a partire dagli anni ’70, ma sbocciata pienamente dalla caduta del muro di Berlino. Da quel momento si sono succedute tre generazioni di artisti che hanno lavorato con grande energia ed entusiasmo, perché bisognava trovare una nuova identità che il Paese non ha sempre avuto negli ultimi secoli. La prima generazione degli anni ’90, la cosiddetta “arte critica”, ha fatto lavori fortissimi discutendo di temi importanti per l’umanità come la vita, la morte, la malattia, il sesso ecc. Qualcosa di simile a quanto è avvenuto in Gran Bretagna con gli Young British Artists, tant’è che qualche mese fa abbiamo fatto una mostra intitolata “British British, Polish Polish”. Sia in Gran Bretagna che in Polonia l’arte dei primi anni ‘90 ha scatenato molte polemiche sui media; polemiche che sembravano ottenere effetti negativi, ma che invece hanno fatto conoscere l’arte contemporanea. Conseguenza è stata che qui in Polonia si è deciso di costruire otto nuovi musei d’arte contemporanea. Stai dicendo che lo Stato polacco ha guardato con attenzione all’arte contemporanea ed ha già investito molte risorse in questa direzione? Diciamo che questa energia che è venuta dagli artisti, anche dai più giovani i quali credono fermamente in quello che fanno, ha portato ad avere un pubblico interessato e pensa che lo è tanto da evitare le inaugurazioni ed i momenti ufficiali per poter vedere con calma le mostre. Un’altra caratteristica importante è la grande partecipazione del pubblico ai dibattiti; insomma c’è un interesse reale che porta anche all’interesse dei politici. Cominciamo a fare dei nomi di quegli artisti che hanno segnato e stanno segnando la svolta dell’arte in Polonia. Nella generazione dell’“arte critica” abbiamo Katarzyna Kozyra, Paweł Althamer, Artur Żmijewski. Sono costoro che principalmente hanno creato la spinta forte degli anni ’90. C’è stata poi una seconda ondata fra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni ‘00, che non coincide necessariamente con una seconda generazione anagrafica, una generazione che ha potuto godere gia’di notorietà internazionale e di un certo mercato determinato per esempio dalla Foksal Gallery Foundation che li ha sostenuti. Fra questi Wilhelm Sasnal, Monika Sosnowska, Cesary Bodzianowski ed altri. Poi c’è una terza ondata composta da artisti giovanissimi, addirittura sotto i trent’anni, che lavorano in maniera diversa dalle prime due generazioni ma mantengono ugualmente una forte energia e credono fermamente in ciò che fanno. Pensa che due anni fa, ad un certo punto gli artisti hanno deciso di fare uno sciopero e tutte le istituzioni pubbliche hanno aderito, compreso il Centro che dirigo, ovviamente. Questo in Italia sarebbe impensabile, mentre in Polonia il Ministro della Cultura ha dovuto prenderne atto e dare delle risposte. 13 Si può parlare di un preciso profilo identitario dell’arte polacca contemporanea? Secondo me ha ancora senso parlare di profili nazionali perché in fondo ci sono le lingue, le culture, e quindi ci sono dei caratteri nazionali benchè andiamo sempre più verso un codice universale. Possiamo dire, mi pare di capire che il linguaggio degli artisti polacchi è sintonizzato su quello internazionale, con l’utilizzo degli stessi media? Per quanto riguarda i media certamente, anche gli artisti polacchi utilizzano gli stessi media: dall’installazione al video, dalla fotografia alla performance. Ma per capire le differenze, Katarzyna Kozyra, ad esempio, mi dice: “Sai, in Italia l’arte è decorativa, qui è una voce”. Questa è la differenza sostanziale fra i nostri Paesi, in Italia l’arte è una questione formale mentre qui è una questione sociale e politica. Non credo sia corretto parlare di forma come decorazione, diciamo piuttosto che la nostra cultura affonda le sue radici nell’identità mediterranea e nella cultura greca legata anche al mito della bellezza, della composizione, dell’armonia e della misura come in tutto il Rinascimento. Si hai ragione, ma qui la forma viene dopo; prima viene la necessità dei contenuti. Ma non è che l’arte in Italia non abbia contenuti, ne ha casomai di diversi, certo non sono quelli drammatici della morte, della malattia, della violenza, del sesso. Qui l’arte è una cosa che discute la realtà e la società. Un altro aspetto è quello di essere performativa. Non performance, ma performativa, più attenta al processo che al risultato finale. Talvolta questo comporta il fatto che alcuni artisti siano poco puliti e poco abili nel produrre un lavoro finale e prevale il processo, il percorso. Cio’ qui varsavia qui varsavia Paola Ciccolella, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a Varsavia, qual è l’artista italiano che le piace di più? In assoluto Michelangelo Pistoletto, vidi una sua mostra a Napoli negli anni ’70 e m’impressionò molto. Prima di venire qui a Varsavia ero a Zagabria e lì abbiamo organizzato una sua bellissima mostra e in quella occasione l’ho conosciuto personalmente apprezzando molto anche la sua intelligenza e la sua capacità di comunicare. Direttore del Centro d’Arte Contemporanea, Varsavia A cura di Gaetano Grillo A cura di Gaetano Grillo 12 Fabio Cavallucci tra l’altro fa riferimento a una tradizione precisa che va da Kantor a Grotowsky, al teatro, alla performance da strada come per Akademia Ruchu, provocatoria e contro il regime. Potrei citare ad esempio Althamer che va a Munster, luogo della scultura e cosa fa? Segna un percorso in un campo, ovvero nulla rispetto all’idea classica della scultura. Come fanno a vivere gli artisti in assenza di mercato o quasi? Vivono facendo grandi sforzi, fanno altri lavori come l’insegnamento o la grafica. Ma qui ci sono molti finanziamenti pubblici con un sistema di distribuzione a pioggia. Bisogna aggiungere che i polacchi sono molto attenti a spendere bene i soldi che vengono dati loro e sono ben organizzati per riuscire ad ottenere questi finanziamenti: pensa che a Varsavia ci sono circa seicento associazioni e fondazioni di carattere culturale finanziate dagli enti pubblici. Possiamo dire pubblicamente che stai chiudendo questa esperienza e che stai per tornare in Italia a dirigere il Museo Pecci di Prato? E’ ormai un incarico ufficiale quindi possiamo dirlo. Qual è il bilancio consuntivo? Intanto devo dire che è aumentato il mio rispetto per l’arte polacca che avevo conosciuto già quattordici anni fa, facendo una visita fra gli studi degli artisti. Proprio da quel viaggio ho iniziato ad interessarmi a questo Paese. Dal punto di vista del sistema organizzativo e delle procedure abbiamo modalità molto diverse. Io sono abituato a tempi veloci e scattanti, non voglio dire necessariamente migliori ma… per farti un esempio qualche mese fa parlavo con Giacinto Di Pietrantonio e gli raccontavo che qui ho venti curatori e che per organizzare una mostra ci vuole almeno un anno e Giacinto mi ha risposto: “dillo in Italia, dove pretendono di organizzare una mostra in due mesi!”. Quindi è come dire che in Italia i tempi non sono compatibili con un vero approfondimento, dall’altra parte qui ci sono delle lungaggini che sono ancora eredità del vecchio sistema. In ogni caso devo dire che quest’esperienza sarà di sicuro molto importante per me. Credo di aver imparato tante cose, e se non altro, almeno un pò di polacco. La Polonia ha sfornato negli ultimi decenni un gran numero di artisti che si sono imposti a livello internazionale, da Piotr Uklański a Wilhelm Sasnal a Katarzyna Kozyra. I limiti dell’arte polacca, semmai, sono quelli relativi al mercato e all’assenza di un sistema di coesione interna che contribuisca a far crescere e irrobustire dall’interno queste energie. Sei d’accordo? Credo che il mercato dell’arte polacco abbia molte lacune, dovute principalmente ad una debole coesione interna tra le varie istituzioni. Inoltre l’interesse del pubblico è stato per anni rivolto esclusivamente all’arte moderna, preferendo quasi sempre prodotti artistici che rispecchiassero un certo canone tradizionalista. Questo ha creato diffidenza verso il contemporaneo, che solo ora inizia ad essere apprezzato. Credo che tutto sia ancora molto fresco, e che solo adesso pubblico e mercato stiano alimentando, finalmente, un’ottica più matura e consapevole. Quanto pensi che l’Italia, e in generale l’Europa occidentale, conosca dell’arte polacca? L’arte polacca oggi ha nomi che occupano posizioni molto alte a livello internazionale, che certamente gli addetti ai lavori italiani conoscono: hai citato Uklański o Kozyra, a cui aggiungo Mirosław Bałka, Paweł Althamer o Paulina Olowska per dirne alcuni. Inoltre molti artisti polacchi lavorano attivamente con gallerie italiane (penso allo stesso Uklański), così come molte personalità italiane si trovano in Polonia occupando a volte anche alte cariche nel campo culturale ed artistico (ad esempio Fabio Cavallucci, direttore del Centro contemporaneo per l’arte a Varsavia). I contatti artistici tra le due nazioni sono quindi ottimi. Certamente, se esiste una scarsa conoscenza riguardo alla cultura polacca, dipende anche dalla pigrizia e dalla poca curiosità delle persone, che considerano spesso l’est europeo come una sorta di periferia dell’Europa occidentale. Soffermiamoci su Varsavia, centro culturale, economico e politico della Polonia, nonché città nella quale lavori come curatrice presso la Zachęta National Gallery of Art. Quali sono le istituzioni artistiche di riferimento in città? Per quanto riguarda le istituzioni pubbliche principalmente la Zachęta National Gallery, il Centro contemporaneo per l’arte CSW e il Museum 14 of Modern Art. Ci sono inoltre molte gallerie private (Raster, Starter, Propaganda) o importanti realtà storiche come la Foksal Gallery Foundation, galleria no profit sovvenzionata dal governo. C’è collaborazione tra di esse? Sicuramente le nostre istituzioni potrebbero lavorare meglio insieme: nel mondo dell’arte, come in ogni mercato, la collaborazione è necessaria. Ogni istituzione è un punto singolo di uno stesso insieme. Academy è nata nel 2008 con l’obiettivo di mettere in comunicazione il sistema dell’arte col grande mondo dell’alta formazione accademica. Mi piacerebbe a riguardo un tuo parere sul ruolo dell’accademia in Polonia. Le accademie d’arte sono ancora un luogo necessario? Quanta attenzione c’è verso gli studenti da parte dei curatori? E che relazioni intercorrono tra docenti, studenti e operatori del settore? Certamente il ruolo delle accademie d’arte è ancora centrale. L’interesse da parte degli addetti ai lavori riguardo gli studenti è alto, a testimoniare una forte coesione tra ambito educativo e settore professionale. I docenti in tutto questo rappresentano un collante decisivo tra i due mondi: i nostri professori sono spesso artisti affermati che tuttavia considerano ancora con profondo impegno l’attività scolastica. Uno dei momenti in cui meglio si manifesta questo scambio di energie tra scuole d’arte, curatori e gallerie, è quello degli open day, in cui le varie accademie vengono aperte al pubblico esponendo i risultati raggiunti dai migliori studenti durante l’anno scolastico. Consiglieresti ad uno studente d’arte italiano di venire a studiare in Polonia? L’arte polacca, come quella di molte altre realtà dell’est europeo, al momento penso possa offrire molti stimoli. Il mercato inizia a crescere, e l’attenzione rivolta agli artisti polacchi è in aumento. Inoltre nello specifico Varsavia è un ottimo crocevia di energie artistiche, essendo geograficamente collocata tra San Pietroburgo, Berlino e la penisola scandinava, ottimi punti strategici dell’arte internazionale contemporanea. Per cui ovviamente credo che per un giovane studente vivere una situazione di fermento come quella polacca, al momento, possa essere di grande crescita e stimolo creativo. 15 Maria Brewinska A cura di Alex Urso Mi piacerebbe chiederti innanzitutto una breve descrizione sullo stato di salute dell’arte polacca contemporanea: com’è cambiata negli ultimi anni e in che direzione sta andando? Credo che l’arte contemporanea polacca abbia attraversato negli ultimi venti anni un periodo di forte crescita. Come in molte altre realtà dell’est europeo, le nuove generazioni di artisti sentono sulle spalle il peso di un passato drammatico che non vogliono dimenticare. C’è dunque una sincera necessità di dire, di fare. Penso che molti giovani artisti, avendo vissuto esattamente nel mezzo di una transizione sociale e politica difficile come quella dovuta al passaggio dalla dittatura alla democrazia, abbiano oggi gran voglia di ricevere attenzione e parlare della propria storia: questo dimostra una autentica volontà di dare ancora all’arte un senso profondo, che va ben oltre la semplice funzione estetica. La Polonia, e in particolare Varsavia, hanno subito dagli anni Novanta un notevole sviluppo economico, coinciso con le liberalizzazioni del mercato messe in atto dopo il ritorno della democrazia (1990) e l’ingresso nell’Unione Europea (2004). Come si riflette questa accelerazione economica nell’arte? Varsavia è un caso esemplare in quello che dici. La città è in continua evoluzione, e il cambiamento è percepibile ad esempio nell’architettura. C’è un fermento culturale che coinvolge tutti gli aspetti della vita cittadina, e questo è dovuto sicuramente a una condizione economica in crescita. Ovviamente tutto ciò si riflette positivamente anche nell’arte. Dagli anni Novanta ad oggi sono nate ottime gallerie private, mentre le istituzioni pubbliche si sono sempre più aperte al mercato internazionale. Tutto ciò crea ottime energie creative, e gli artisti non possono che beneficiarne. Quanto è forte l’interesse dello Stato nei confronti dell’arte nazionale? Credo che l’interesse dello Stato nei confronti della cultura non sia mai abbastanza. Le risorse mancano ovunque, ed è una certezza statistica che purtroppo accomuna molte realtà europee. qui varsavia qui varsavia Curatrice alla Zacheta National Gallery, Warsaw d’arte, poter apprezzare la sua bellezza o la sua forza è una cosa non facile. E’ come acchiappare una bellissima farfalla colorata, senza aver esperienza per farlo. Attraversando secoli e regioni geografiche diverse troviamo tanti modelli di bellezza e tanti valori da apprezzare o da contestare ma non ci sono ricette pronte, definizoni facili, ne per l’artista ne per lo spettatore. E’ possibile che si riveda il paradigma dell’arte contemporanea riportanto l’interesse verso i temi della classicità e della specificità dei linguaggi artistici? Per me un artista contemporaneo deve sempre misurasi con la tradizione. La sua arte ha senso solo se c’e dietro il bagaglio della cultura delle generazioni precedenti, la cultura antica e quella recente, quella artistica ma anche quella letteraria. Qualsiasi senso troviamo nell’opera moderna (qualla video, quella ambientale, quella concentuale o di altro tipo) il punto di riferimento è quello Joanna Kilian Curator of Italian Painting National Museum Warsaw dell’approfondimento e questo coincide sempre con l’arte dei maestri antichi. L’arte classica, astratta nel medioevo, mimetica dopo rinascimento, quella prima delle avanguardie all’inizio ventesimo secolo, puo’ essere respinta, o reinterpretata, ma mai ignorata. Senza il passato la nostra cultura è vuota, povera, perde il senso. Le nuove “Avanguardie” di oggi sono spesso molto ripetitive. I dadadaisti erano freschi, autentici, giovani, forti e convincenti nella lora vera intransigenza. Loro stessi più “tardi” sono diventati accademici. Per me non c’e niente di peggio dall’avanguardia accademica! E’’ una contradizione! L’artista contemporaneo non deve seguire le mode, non deve essere ripetitivo, ma deve essere sempre curioso delle novita’, deve camminare un passo avanti, guardando però il passato con l’attenzione, con l’erudizione e sopratutto con la sensibilità. peso a queste cose e la crisi attuale nonché l’artificiosità dei valori finanziari ha fatto emergere con forza la contraddizione fra arte e sistema di mercato. L’arte polacca è considerata una delle più interessanti al mondo ed io voglio approfittare di questa situazione del momento per dare spazio agli artisti; noi abbiamo buoni contatti con New York e riusciamo piano piano a mandare i nostri lì. Questo non significa che loro devono rimanere lì per sempre ma almeno fare esperienza internazionale. In quale direzione va l’arte polacca della generazione della quale ti occupi, quella appunto dei trenta-quarantenni? Noi siamo nella tradizione concettuale, ora assistiamo anche ad un certo ritorno della narrazione ma anche questa avviene attraverso un pensiero e una modalità concettuale. Da noi è molto importante che l’arte abbia una dose di rischio e di coraggio, forse i più giovani, mi riferisco alla generazione dei ventenni, non rischiano, non osano abbastanza mentre la generazione precedente ha almeno l’aspirazione di cambiare il mondo. 16 Chi è Joanna Kilian Michieletti? Io sono curatrice italiana dal trecento fino al settecento, qui nel Museo Nazionale abbiamo opere importanti dell’arte italiana, soprattutto del rinascimento e del barocco. Sono particolarmente interessata della pittura senese e veneziana del cinquecento e mi piace molto il vostro Paese. E’ appena finita la mostra di Guercino che abbiamo organizzato con Fausto Gozzi, il direttore della Pinacoteca di Cento, è stata una mostra che ha avuto grande successo benchè Guercino non abbia la notorietà di Caravaggio ma ha avuto comunque circa quarantacinquemila visitatori. Io come curatrice sono una maniaca della buona scenografia allestitiva e per questo mi sono rivolta ad uno scenografo dell’opera molto importante che si chiama Boris Kullicka, che fa le scenografie per l’Opera Nazionale di Varsavia, Frankoforte, New York, Tokyo ma anche per la stessa Scala di Milano. La scenografia aveva un sottotitolo che era “Guercino. Trionfo barocco”. Sei una storica dell’arte oppure t’interessi anche di arte contemporanea? Faccio spesso discussione con i miei colleghi che pensano che solo l’arte contemporanea può attrarre pubblico ma io non credo questo anzi penso che l’arte classica possa interessare molto anche i giovani ma dobbiamo imparare ad esporla in modo attraente e non noioso. L’arte classica antica può essere sempre viva come è vivo Shakespeare. L’arte contemporanea è sinonimo di libertà ma i critici d’arte contemporanea sono più rigidi e fanatici di noi che ci occupiamo di arte antica, tendono a vedere l’arte in termini dogmatici. Sarebbe ingenuo pensare che il sistema dell’arte contemporanea non risponda appunto a un sistema e come tale a un’oligarchia intellettuale con precisi interessi sia culturali sia di potere e di mercato. Un gruppo di noi artisti italiani “Accademia Italia” che insegniamo nelle accademie, stiamo in qualche Questa è una galleria privata? No questa è una galleria pubblica, non abbiamo niente a che fare con il mercato e con i soldi, il budget è molto contenuto ma noi lavoriamo tantissimo per la promozione dei nostri artisti, abbiamo un archivio digitale importante sul quale c’è anche l’interesse del MOMA e del Metropolitan per farlo funzionare al meglio. Foxal non ha mai funzionato come un white cube ed ogni mostra è un progetto specifico per Foxal, un po’ come project room e site specific. modo sostenendo la necessità di rifarci alla grande tradizione riconsiderando la memoria dei nostri linguaggi ed esponendo volutamente il nostro lavoro negli spazi dei musei d’arte antica, dimostrando anche la fertilità del dialogo fra i linguaggi del passato e quelli recenti pensando all’arte come a un’unica espressione, pensando che tutta l’arte sia contemporanea. Si io credo fermamente che bisogna ristabilire il dialogo fra i linguaggi dell’arte indipendentemente dall’epoca in cui si sono realizzati. Dovremmo sviluppare di più la discussione intorno ai temi dell’arte o anche intorno ad un aspetto monografico; quest’anno per esempio l’abbiamo fatto sulla scuola di Giulio Romano con anche uno spettacolo intorno ad un solo dipinto. Credo che la vostra idea di ricostruire un dialogo con la storia sia molto interessante e vedo qui dal catalogo che il rapporto fra le opere e lo spazio è molto felice ma sono temi che vanno molto approfonditi; in questo momento c’è l’interesse a superare un certo ermetismo dell’arte moderna e questa crisi ci spinge a concentrarci maggiormente. A cura di Gaetano Grillo Lo stato polacco sta investendo sull’arte? Assolutamente no, abbiamo sempre discussioni su questo ma qui è come in Italia, abbiamo credo solo l’uno per cento del bilancio che viene destinato all’arte. Per fortuna ci sono sempre più possibilità di sponsorizzazioni come è stato per la stessa mostra del Guercino. L’anno prossimo faremo una mostra importante di Tamara de Lempicka che come puoi immaginare ha dipinti costosi che solo di assicurazione ci richiederanno molte risorse. La prossima volta vorrei che incontrassi anche il nostro vice-direttore Piotr Rypson che ha una particolare sensibilità per l’arte moderna e per il dialogo fra l’arte di tempi diversi. Come opera una galleria a Varsavia? C’è un mercato dell’arte contemporanea che permette di lavorare? Purtroppo qui il mercato è molto ridotto, è come se non esistesse e per questo motivo le gallerie private svolgono quasi la stessa attività di quelle pubbliche. Per me in questo momento è importante lavorare con i nostri artisti trenta-quarantenni, che da noi non sono considerati molto giovani, ma che hanno già un certo successo qui in Polonia. La strategia della galleria Foxal non è quella di lavorare sulla mostra di un artista ma di concorrere alla sua carriera costruendo insieme un percorso. Ma voi pensate che il mercato sia una forma di compromesso dell’arte oppure pensate che sia necessario? No, non penso che il mercato sia un nemico dell’arte, qui anche i curatori talvolta comprano delle opere, anch’io ho comprato ultimamente dei quadri ed ora soffro perché devo pagarli ma il desiderio di averli è stato molto più forte. Adesso le gallerie due volte l’anno organizzano “Saloon” per invogliare i giovani ad iniziare una piccola collezione di arte contemporanea, stabilendo un tetto massimo proprio per invogliarli il più possibile, l’anno scorso era di ottocento euro, quest’anno è di milleduecento euro. Le gallerie si sono associate in un’associazione e quest’anno per la terza volta ci sarà l’iniziativa “Gallery weekend”. Esiste il valore specifico di un’opera? da quali elementi dipende? Il valore specifico di un’opera mi sembra un enigma insolubile, come enigma rimane il mistero della vera bellezza. Comprendere un opera In questo momento da più parti ci si domanda se sia ancora giusto continuare a parlare di arte in relazione alla “carriera” e al “successo”, forse negli ultimi decenni abbiamo troppo dato Quali sono le tue relazioni con l’arte italiana? Io ho fatto la mostra di Cattelan e ho contatti con la Fondazione Sandretto di Torino. Justina Wesolowska Curatrice e gallerista FOXAL Quindi non esiste per niente oppure inizia a svilupparsi un piccolo mercato? Io non dovrei proprio occuparmene e per me è molto importante l’etica, quindi come galleria pubblica non dovrei pensare all’arte commerciale ma solo all’arte ambiziosa. Le nostre gallerie private devono portare avanti lo sviluppo commerciale degli artisti, per questo motivo quando queste vanno nelle fiere internazionali come per esempio Art Basel, hanno il supporto dello Stato. qui varsavia qui varsavia A cura di Gaetano Grillo 17 Wojciech Zubala Pro-Rettore all’Accademia di Belle Arti, Varsavia Noi qui a Varsavia, preferiamo stare con il Ministero della Cultura per salvaguardare la nostra tradizione. Questo è importante anche perché le persone che lavorano nel Ministero della Cultura capiscono meglio i problemi specifici della formazione artistica. Il Ministero della Scienza tende ad unificare tutte le Istituzioni secondo un modello comune mentre noi crediamo che la nostra autonomia didattica sia un valore da tutelare. A cura di Gaetano Grillo Sono interessato a capire come funziona il vostro sistema accademico in Polonia per compararlo con il nostro, in Italia. In Polonia abbiamo otto Accademie di Belle Arti, ognuna di queste è autonoma, nel senso didattico, significa che le decisioni sui programmi sono prese indipendentemente, possiamo cooperare con le altre accademie ma non abbiamo un sistema integrato. L’importante è avere la supervisione del Ministero della Cultura e della Eredità Nazionale. 18 Voi dipendete dal Ministero della Cultura e non da quello dell’Istruzione e dell’Università? Noi dipendiamo da due ministeri, da quello della Cultura e da quello dell’Università, le decisioni di quest’ultimo ci riguardano ma per noi è più importante il Ministero della Cultura. C’è un organismo o una figura che si interfaccia fra il Ministro e i Rettori delle varie Accademie? All’interno del Ministero della Cultura c’è un Dipartimento dedicato all’Istruzione Artistica mentre il Dipartimento dedicato all’Università non dipende dal Ministero della Cultura ma dal Ministero della Scienza. Il vostro titolo di studio com’è considerato? Come una laurea, come nelle Università, allo stesso livello. E il trattamento economico? Non è uguale perché il Ministero della Scienza finanzia meglio le sue istituzioni, è per questo motivo che alcune Accademie, come quella di Poznan, hanno deciso di passare sotto il Ministero della Scienza e Poznan è diventata un’Università dell’Arte. La stessa cosa l’hanno fatta alcune Accademie di Musica. Per voi è giusto che ci sia questa differenza oppure siete orientati a convergere in un sistema universitario unico? Questa è una questione soggettiva, noi qui a Varsavia, preferiamo stare con il Ministero della Cultura per salvaguardare la nostra tradizione. Questo è importante anche perché le persone che lavorano nel Ministero della Cultura capiscono meglio i problemi specifici della formazione artistica. Il Ministero della Scienza tende ad unificare tutte le Istituzioni secondo un modello comune mentre noi crediamo che la nostra autonomia didattica sia un valore da tutelare. Quale è la vostra posizione rispetto al Processo di Bologna che prevedeva un unico sistema europeo? Il Processo di Bologna vede sempre più crescere il numero delle persone che nutrono un sentimento critico verso quella soluzione e un piccolo numero di persone che ne sono ancora entusiaste. La conseguenza più grave di quel processo sarebbe la perdita del carattere artistico Gli studenti aumentano qui da voi? Quando io ho studiato in questa accademia, venticinque anni fa, c’erano seicento studenti, oggi ne abbiamo quasi milleseicento. Oggi abbiamo nove dipartimenti, Pittura, Scultura, Grafica, New Media ecc. Però l’ampliamento dell’offerta formativa e dei dipartimenti già di per sé implica un’identità meno artistica di un tempo e più eterogenea, forse più orientata alla creatività che all’arte. La cosa più importante è il rapporto diretto fra il professore e lo studente e quando il numero degli studenti aumenta troppo è sempre più difficile riuscire ad avere quel rapporto che invece è l’unica vera qualità della nostra formazione che si basa non sulle nozioni generali ma soprattutto sull’intelligenza individuale. In Italia lo Stato eroga sempre meno fondi alle Accademie costringendole a finanziarsi con i soldi degli studenti e così noi siamo costretti ad accettarne molti di più di quanto vorremmo. Ma da voi le Accademie sono private? No, sto parlando delle Accademie pubbliche. In Polonia gli studi sono totalmente gratuiti, lo Stato tutela il diritto allo studio. Dopo il grande cambiamento sociale di venti anni fa’ c’è la tentazione di iniziare a far pagare qualcosa ma si teme di innescare delle reazioni forti da parte della popolazione e per questo motivo il processo è molto lento e prudente. Il rapporto docente-studente nelle nostre accademie italiane è sempre più difficile proprio per l’alto numero di studenti; la conseguenza diretta è che i nostri insegnamenti artistici diventano sempre più teorici e la stessa ricerca si basa sempre più sulle idee, sui processi e sul metodo concettuale piuttosto che sulla forma. Oggi ho visitato la vostra Accademia ed ho visto che i laboratori sono molto vitali, ogni studente ha spazio per lavorare ma da noi questo è sempre più difficoltoso. Paradossalmente potrei dire che lo Stato italiano, costringendoci a questa politica quantitativa sta lentamente distruggendo la nostra vocazione alla qualità e all’eccellenza. Capisco il problema perché anche noi riceviamo dal Ministero risorse economiche in rapporto al numero degli studenti perciò tendiamo ad averne più di quanti sarebbe giusto averne, anche se non arriviamo al rapporto, forse eccessivo, che avete voi in Italia. Anche per questo motivo vogliamo rimanere con il Ministero della Cultura, perché capisce meglio che la formazione artistica è una cosa molto particolare e che il numero degli studenti non può essere alto ma deve rimanere entro il tre per cento della popolazione studentesca così com’è ora. Francesco Hajez, autoritratto. ACCADEMIE E PROFESSORI, gioie e dolori ! Di Francesco Correggia Considerazioni generali. Che strano paese è mai questo dove tutto sembra come prima, dove non si riesce più a reagire, a prendere coscienza? Il silenzio sembra essersi impossessato di tutti. Mi riferisco non tanto al silenzio discreto, tenero e educato che in qualche modo apre al linguaggio, al sentire, alla sorpresa della parola, ma a quel silenzio che si è costretti a subire e cioè a quella dimensione del lasciar fare, del lasciare andare, tanto le cose non cambieranno mai. E’ per tale ragione che mi sono messo a scrivere su un argomento che forse non fa notizia, che non incuriosisce più e forse ne scrivo proprio per questo. Scrivere sullo stato delle Accademie di Belle Arti, della loro riforma, dei loro problemi è cosa ormai che non interessa più nessuno, in considerazione anche del fatto che ormai questo paese appare lobotizzato, in un degrado culturale avanzato, che investe non solo le Accademie di Belle Arti ma tutte le Istituzioni Universitarie. E allora perché scrivere su una vicenda che sembrerebbe non riguardarmi più, considerando che mi sono messo da qualche anno in pensione? Lo faccio per i miei colleghi, per il bene comune, per l’Istituzione, per il Ministero, per l’Alta formazione artistica, musicale e coreutica (AFAM) a cui sono relegate le Accademie con la famigerata riforma 508 del 1999? No, non lo faccio per questa ragione ma solo perché ho deciso di buttare via qualcosa come cinque scatoloni che contengono centinaia di pagine, di documenti, progetti, atti dei numerosi convegni, programmi, vertenze sindacali, ricorsi al TAR ecc. Tutto questo materiale ormai mi pesa come un macigno, come un pugno sullo stomaco. Esso mi accompagna ormai da molti decenni 19 opinioni qui varsavia I professori delle accademie hanno lo stesso trattamento economico dei docenti dell’Università? In tutte le Accademie i professori hanno gli stessi titoli giuridici dei colleghi dell’Università, hanno lo stesso valore. delle nostre istituzioni e per gli studenti è sempre più difficile trovare il tempo per la loro ricerca individuale perché siamo costretti sempre più a riempire moduli per fare troppi esami. La burocrazia aumenta sempre più e questo è in antitesi al metodo artistico. e ogni volta che cambio casa (per me succede spesso) me lo porto dietro. Non so mai, dove sistemare questi fogli, queste pagine sbiadite, documenti che in qualche modo sanciscono un fallimento. Esse suonano come un’accusa del perché io abbia speso tutte queste energie a battermi contro un muro di burocrazia, d’ignoranza, di omertà. Di recente non apro questi portali dell’orrore che pure contengono una cronistoria, direi quasi istruttiva, dell’inefficienza amministrativa delle nostre Istituzioni accademiche. Non li apro perché solo a pensare di consultarne le pagine mi si apre una voragine e una sequenza d’immagini, parole, promesse intorno a lotte e speranze, tutte andate perdute. Le circolari ministeriali, i decreti leggi, i documenti sindacali, le lettere indirizzate al Parlamento, ai vari Presidenti della repubblica, alle Commissioni parlamentari sono sotto i miei occhi ed io mi chiedo perché stanno qui e recalcitro a gettare tutto nell’immondizia in fondo essi sono a testimoniare un fallimento doloroso. E allora che farne? Ho appunto deciso di liberarmene. Ciò vuol dire anche ricordare le lotte passate ma anche chi non è più ormai con noi e che si è battuto per una riforma giusta, in linea con i tempi e la dimensione problematica e fattuale dell’arte. Mi guida la memoria di docenti che non ci sono più come Cavaliere, Ferrari, Ortelli, Fabro, Aricò, per chi è andato in pensione un po’ malinconicamente come Ceretti, De Valle, De Filippi, Bucciarelli, Esposito, Garutti, un po’ come me per esasperazione e rabbia (in fondo sarei potuto rimanere ancora per qualche anno) per non esser riuscito a cambiare le cose. Ciò che m’induce a scrivere è proprio il tentativo di liberarmi di tutte queste carte. Non si tratta di una retorica lamentosa che gira su se stessa, ma è per senso di verità nel prendere atto di un disastro tutto italiano che parte anche dalle modalità con cui le Istituzioni di questo paese hanno affrontato con le loro sguaiate riforme, l’istruzione superiore, il sapere, la ricerca, le conoscenze. Sono piccole cose come queste a incarnare tutti gli altri mali che portiamo con noi come un macigno insostenibile. Da dove partire? Dalla descrizione dei vari decreti che si sono succeduti dopo la Legge 508 del lontano dicembre del 1999? Dalle declaratorie, dalle ordinanze Ministeriali dei vari Direttori generali del settore, dagli innumerevoli e infiniti ricorsi? No non me la sento sarebbe come scrivere una storia inutile e tutti sappiamo che la storia la si racconta non solo per essere consegnata al passato ma per ammonirci sulle cose presenti e poi questa storia sembra dirci bene ciò che conosciamo già con ineluttabile rassegnazione. Nelle Accademie di Belle Arti si dimentica spesso la propria storia figuriamoci quella più recente. E’ stato scritto già abbastanza da parte mia e da altri sia in sede sindacale sia in quella istituzionale (sono stato nel Consiglio di Amministrazione per due anni, per sei anni nel Consiglio Accademico, a lungo nel direttivo nazionale della CGIL e poi in quello della CISL). Non è servito a niente, era come muoversi in un pantano. Mi limiterò solo a raccontarvi in breve una specie di cronistoria dello stato di malinconica decadenza in cui vivono le Accademie di Belle Arti. Non voglio parlare di quanto sono pagati i docenti. . Questa è appunto letteratura. Orami si sa che un docente di prima fascia (ex docente di cattedra) arriva alla fine della sua carriera a percepire mensilmente 2,200,00, un professore di seconda fascia, (ex assistente 1.600,00) un supplente precario 1,300,00, un contrattista da un minimo di 1,800, 00 all’anno a un massimo di 3.000,00. Ormai bisogna quasi ringraziare stipendi come questi in un paese che non sa misurare il merito, distinguere il bene dal male, il vero dal falso, in un paese dove tutto appare mischiato in un lavaggio di sentimenti, passioni, promesse e falsità di ogni specie da parte di chi è preposto alla cosa pubblica e dare normative intelligenti e razionali per consentire a questo paese di crescere. E’ da venti anni che la crisi sembra suonare irrimediabilmente sempre quando si affronta la questione delle Accademie di Belle Arti. Quando si arrivava a siglare un accordo sindacale con l’ARAN (l’agenzia che tratta per conto del governo) c’è sempre stata una crisi. La risposta è sempre stata la stessa: sì certo avete ragione ma non ci sono risorse, dovete accontentarvi. Ormai questo argomento è diventato una specie di Tabù visto come vanno le cose in Italia con manager e politici che se la godono con i loro stipendi e la loro liquidazione. Non voglio entrare nel merito e nell’agone della politica di casa nostra. Il mio intervento a proposito delle Accademie di Belle Arti italiane si LA STORIA La legge di riforma 508 delle Accademie e dei conservatori arriva nel dicembre 1999 ed è già in ritardo rispetto alla precedente legge Gentile che addirittura risale al 1923. Essa fu insieme alla Legge per l’Università la 509 sempre del 1999 l’espressione di una visione del sistema universitario, di una specie di affresco, sono proprio le parole usate dell’allora ministro al MIUR Luigi Berlinguer, il quale appunto ne disegnava, come se fosse una visione, in un convegno a Roma i comparti. Da una parte c’era l’università, le sue conoscenze, la libera ricerca, dall’altra l’Alta formazione artistica musicale (AFAM) che comprendeva Accademie di Belle Arti, Conservatori, L’Accademia nazionale di Danza, l’Istituto superiore per l’industria artistica. Questa divisione corrispondeva a una maniera sbagliata di concepire il senso operativo, progettuale della formazione artistica superiore. Da una parte c’era l’Università, dall’altra la formazione artistica superiore con percorsi separati ma paralleli. Che cosa voleva dire tale delirio ? Possiamo comprenderlo nelle due leggi che in qualche modo disegnavano i comparti del MIUR. Una: la legge 509/99 per l’Università, luoghi di un sapere teorico scientifico e l’altra: la 508/99 che metteva insieme le Accademie di Belle Arti, i Conservatori, gli Istituti superiori per l’industria artistica (ISIA) in un unico comparto di una formazione tecnica professionale. L’AFAM Fu il risultato di un compromesso politico sindacale che costringeva le Accademie a fare un passo indietro rispetto alla sua vocazione decisamente universitaria. Le due leggi avevano qualcosa in comune secondo il modello anglo sassone: la formazione di primo livello il famigerato triennio (diploma di primo livello) e il secondo livello (diploma di secondo livello). Il percorso formativo era di tipo universitario ma separato, e già ciò era un pasticcio tutto italiano. La 508 non era altro che un contenitore vuoto che andava riempito attraverso vari decreti legislativi che dovevano in qualche modo indicare la strada e il percorso universitario, le discipline, i settori, i percorsi formativi. Il problema di questa riforma concepita da una volontà distorta dell’allora regime politico era proprio il fatto che essa non corrispondeva alla realtà culturale, della formazione artistica superiore sia da un punto di vista dei saperi dell’arte sia per quanto atteneva il quadro normativo. Intanto le Accademie già da tempo avevano istituito percorsi universitari con corsi teorici e pratici teorici chiamati corsi speciali, a differenza dei Conservatori i cui percorsi formativi includevano anche la possibilità di accesso anche con la scuola media. La questione più rilevante era ed è che le Accademie di Belle Arti in tutti gli altri paesi europei erano già nel sistema universitario senza ma e senza se. Esse non avevano bisogno di attivare un percorso formativo equiparato all’Università poiché le medesime avevano già all’interno dei loro ordinamenti una coerenza universitaria. Ciò era ed è una questione non solo formale ma sostanziale che avrebbe dovuto consentire, non un percorso parallelo e separato dall’Università, ma una normativa che includeva le Accademie nel comparto universitario. Bastava estendere la 509/99, (Legge di riforma dell’Università) anche e solo alle Accademie di Belle Arti prevedendo appunto una fase di transizione. La realtà delle Accademie era ben diversa da quelle dei Conservatori la cui normativa per quanto riguardava gli accessi, le discipline e gli strumenti era ancora in una fase iniziale . Non entro qui in merito alle numerose proposte di riforma presentate prima della 508. Voglio soltanto ribadire che rispetto ai progetti di legge precedenti essa nasceva già sbagliata, monca, senza alcuna sostanziale motivazione culturale e fra l’altro senza alcuna risorsa per sostenerla, senza senso e sostanzialmente punitiva. Infatti, per la prima volta nella storia sindacale dell’Italia, i soggetti di una legge di riforma e cioè tutto il personale docente è messo in uno stato giuridico ad esaurimento il che vuol dire, quasi una messa in quarantena, un non potere accedere ai livelli superiori neanche attraverso nuovi sistemi concorsuali. Ciò che invece accade di paradossale è che l’entrata in vigore della legge dopo tanti e inutili convegni organizzati dai vari Direttori generali, con spese a volte eccessive, ha consentito a gran parte del personale dell’Ispettorato Istruzione Artistica a cui facevano capo le Accademie, i Conservatori e i licei artistici, di essere, di fatto, promosso a un livello superiore con miglioramenti economici e di carriera, nella Direzione generale AFAM con un suo Direttore. Sarebbe come dire che invece di eliminare la cancrena di un Ispettorato all’Istruzione artistica, burocratico clientelare si è preferito promuovere i propri dipendenti ad incarichi superiori. Le conseguenze sono state disastrose: l’immobilismo, la confusione, la non chiarezza, accordi sindacali a danno delle istituzioni. Insomma l’inizio della fine. Dopo 15 anni dall’entrata in vigore della legge non sono ancora stati attuati tutti i decreti attuativi. Sono sotto gli occhi di tutti il degrado, le anomalie in cui vivono queste nobili istituzioni. Si è vero sono stati emanati numerosi decreti applicativi che avrebbero dovuto portare chiarezza rispetto ai percorsi disciplinari e all’equiparazione universitaria ma tali decreti si sono dimostrati inefficaci e lontani da una vera autonomia universitaria e scientifica. Ne riporto qui di seguito un elenco per chi volesse seguirne lo sviluppo e capire come una riforma con pretese di riqualificazione di un settore così importatene abbia potuto alla fine produrre il classico topolino, cioè niente: D.P.R. 28 febbraio 2003, n.132 - Regolamento recante criteri per l’autonomia statutaria, regolamentare e organizzativa delle istituzioni artistiche e musicali, a norma della legge 21 dicembre 1999, n. 508. D.P.R. 8 luglio 2005, n. 212 - Regolamento recante disciplina per la definizione degli ordinamenti didattici delle Istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica, a norma dell’articolo 2 della L. 21 dicembre 1999, n. 508. D.M. 16 settembre 2005, n.236 Regolamento recante la composizione, il funzionamento e le modalità di nomina e di elezione dei componenti il Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale. Regolamento recanti disposizioni correttive ed integrative al DPR 28 febbraio 2003, n. 132, in materia di modalità di nomina dei presidenti delle Istituzioni artistiche e musicali. D.P.R. 31 ottobre 2006, n. 295 . D.M. 3 luglio 2009, n.89 - Settori artistico-disciplinari delle Accademie di Belle Arti. D.M. 3 luglio 2009, n.90 - Settori artistico-disciplinari dei Conservatori di Musica. D.M. 30 settembre 2009, n.123 - Ordinamenti didattici dei corsi di studio per il conseguimento del diploma accademico di primo livello nelle Accademie di Belle Arti. Decreto Interministeriale 30 dicembre 2010, n. 302 - Istituzione del corso di diploma accademico di secondo livello di durata quinquennale abilitante alla professione di “restauratore di beni culturali”. D.M. 23 giugno 2011, n. 81 - Restauro: definizione degli ordinamenti curriculari dei profili formativi professionalizzanti del corso di diploma accademico di durata quinquennale in restauro, abilitante alla professione di “Restauratore di beni culturali”. D.M. 28 marzo 2013, n. 241 - D.M. di definizione della corrispondenza dei titoli sperimentali triennali validati dal Ministero con i diplomi accademici di I livello degli Istituti Superiori per le Industrie Artistiche. D.M. 28 marzo 2013, n. 242 di definizione della corrispondenza dei titoli sperimentali triennali validati dal Ministero con i diplomi accademici di I livello della Accademie Belle Arti e delle Accademie - di Belle Arti Legalmente Riconosciute. Nel 2007 visto il decreto ministeriale 16 settembre 2005, n. 236 viene costituito il CNAM che doveva avere compiti analoghi a quelli del CUN (Consiglio Universitario Nazionale) . Esso avrebbe dovuto promuovere e perseguire la qualità più elevata nella formazione, nella ricerca e nella correlata attività di produzione artistica, anche in riferimento al processo di armonizzazione dei modelli didattici ed alla costruzione di uno spazio europeo dell’alta formazione artistica e musicale. Il CNAM avrebbe dovuto incentivare e valorizzare il processo di autonomia delle istituzioni, con al centro del sistema formativo lo studente ed una più adeguata applicazione delle norme sul diritto allo studio, strutture e servizi di sostegno e di orientamento idonei, anche in riferimento alla forte attrazione internazionale del sistema formativo artistico nazionale. Niente di tutto ciò è accaduto realmente. Il CNAM nei fatti ha impedito quel processo di autonomia e organizzazione disciplinare, né ha favorito la programmazione e l’attivazione di tutti i tre cicli dell’alta formazione. Come luogo di progetto e organizzazione scientifica didattica ha prodotto solo confusione allontanando tali Istituzioni da quella internalizzazione del sistema e la valorizzazione della produzione, della ricerca e della formazione artistica, che era uno dei suoi compiti istituzionali. Dopo ben 15 anni più che portare a termine il processo di riforma della 508 non si è fatto che, in qualche modo ribadire, la distanza dall’Università, altro che percorso parallelo, ma ancora peggio tutti i decreti più che armonizzare il settore hanno disarticolato l’unitarietà, la coerenza disciplinare dei piani formativi e il percorso didattico delle pratiche e dei linguaggi espressivi delle scuole tradizionali che confluendo nello stesso dipartimento si sono visti stringere in una logica di divisione in scuole ormai anacronistica nel panorama dell’arte e della sua dimensione operativa e formativa didattica. E’ così venuto meno quell’equilibrio fra pratiche e teorie, tradizioni e attualità che hanno da sempre costituito l’ossatura della formazione e la parte centrale dell’insegnamento artistico superiore. La mancanza di normative adeguate ha fatto perfino rimpiangere la Legge Gentile che almeno aveva una sua coerenza e una dimensione didattica che corrispondeva al proprio tempo, al lavoro, all’impegno, alla qualità dell’opera. Il non avere emanato norme giuridiche efficaci ha aperto la strada ad accordi sindacali con l’ARAN che hanno sancito, senza alcuna definizione di uno stato giuridico per via legislativa, una specie di normativa sindacale/ministeriale interna. Invece di arrivare a definire per decreto legge un’uniformità parallela a quella universitaria con verifiche curriculari, si è preferito portare i docenti titolari di cattedre a docenti di prima fascia e gli assistenti a docenti di seconda fascia, senza alcun criterio logico e naturalmente, senza alcuna risorsa finanziaria. Ciò che doveva essere regolato da un decreto sullo stato giuridico della docenza ora è stato risolto attraverso un contratto, un accordo sindacale arbitrario. La responsabilità dei Direttori Generali dell’AFAM in particolare del Dott. Civello, dei vari ministri che si sono succeduti al MIUR nonché dei sindacati, in tutti questi anni è stata forte e ha manifestato una profonda ignoranza sulla dimensione produttiva dell’arte in generale e, quel che è peggio, sullo stesso quadro formativo europeo della formazione universitaria. La responsabilità non è soltanto politica ma va divisa anche all’interno delle Accademie stesse. D’altra parte come si fa a pensare a percorsi disciplinari seri e specialistici quando il sistema di reclutamento dei docenti non esiste, non si fanno concorsi nazionali per esami e titoli dal 1992. Il Ministero con il D.P.R. 8 luglio 2005, n. 212, ha cercato di armonizzare i percorsi disciplinari attraverso la creazione di dipartimenti che non erano altro che raggruppamenti di scuole e un offerta formativa con materie raggruppate in settori scientifico disciplinari, D.M. 3 luglio 2009, n.89 . Ad ogni disciplina corrispondeva una declaratoria. In realtà molte materie proposte erano il frutto non di una logica scientifica disciplinare ma di una spartizione e di una proliferazione numerica dei corsi, ripartiti in settori scientifici disciplinari molte volte incoerenti. Il risultato è stato un triennio e un biennio con una serie di discipline a volte doppie e con denominazioni arbitrarie che in qualche modo hanno fatto venir meno l’operatività del laboratorio e delle stesse scuole, soprattutto per le discipline tradizionali e fondative come Pittura, Decorazione, Scultura raggruppate in un unico dipartimento di Arti visive insieme a Grafica che in realtà non ha mai fatto parte delle scuole tradizionali. Nel dipartimento di Arti applicate confluivano le scuole di scenografia, di progettazione artistica per l’impresa, la scuola di restauro, di nuove tecnologie dell’arte, e la scuola di fotografia. Il dipartimento di Comunicazione e didattica dell’arte comprendeva la scuola di didattica dell’arte, e la Scuola d comunicazione i valorizzazione del patrimonio artistico. Una ripartizione con un numero di scuole incedibile e una proliferazione di corsi che ogni dipartimento provvedeva a istituire sulla base di criteri appunto di comodo, di elargizione di favori e di opportunità dei singoli responsabili dei dipartimenti. Ora la domanda è: Chi andava ad insegnare le discipline della nuova offerta formativa? Siccome non era possibile avviare un sistema concorsuale senza un decreto sullo stato giuridico della docenza si è aperto l’abisso dell’affido di tutte le materie dell’offerta formativa a docenti di ruolo di prima e seconda fascia. Il Ministero con la grave responsabilità del CNAM e della conferenza dei Direttori (un organo non previsto dalle attuali norme) che serviva solo al Dott. Civello per le sue manovre e contrastare così gli obblighi istituzionali del CNAM previsti per legge, ha consentito che tutti i docenti di ruolo potessero insegnare tutte le discipline dell’offerta formativa senza tener conto dei settori scientifico/ disciplinari, dei curricula, e delle competenze necessarie per l’insegnamento di tali discipline. Oltretutto l’incarico veniva dato su materie diverse da quelle per cui i medesimi docenti erano stati assunti sulla base di regolari concorsi e cioè per esami e titoli e per soli titoli. Certo le Accademie attraverso i propri organi Istituzionali Consiglio Accademico in primis hanno istituito commissioni interne per la valutazione curriculare ma molte volte le medesime commissioni sono guidate da logiche diverse, di filiazione, di scambio elettorale, tutte logiche che rientrano nei modi della politica a cui siamo abituati con umiliante rassegnazione, e non da criteri oggettivi e di merito. Il mancato rinnovo contrattuale e il fatto che i docenti siano obbligati ad insegnare in una situazione ed una didattica universitaria, con titoli rilasciati agli studenti equiparati a lauree universitarie senza una conseguente normativa sullo stato giuridico della docenza ha 21 opinioni opinioni 20 limiterà a raccontare alcuni paradossi di questa storia, così in maniera semplice ed evidente. Mi limiterò solo a seguire le tracce delle pagine che stanno qui sotto i miei occhi: I progetti, le vertenze, i bandi di concorso, l’offerta formativa, gli iter parlamentari, i progetti di corsi di formazione alla ricerca, i corsi specialistici e via di seguito. Quando ci si riferisce alla cultura e all’Istruzione Universitaria (sembra che oggi ciò accada di frequente) chi ci rappresenta al parlamento e in senato forse non sa di che cosa parla. Come se le parole: Formazione, Ricerca, Cultura fossero una specie di lavacro sacrale, di parole d’ordine che sbloccano tutto, che aprono all’immaginazione. Solitamente la parola “cultura” è accompagnata da altre due magiche parole: La Scuola e l’Università, l’AFAM non è mai citata poiché appunto ancora non si sa in quale contesto essa debba stare, appunto perché rimane un ibrido, un’invenzione mostruosa, paradossale nel sistema universitario. Tutte le parti politiche dicono in maniera diversa che bisogna ripartire dall’istruzione e la ricerca. La domanda che si pone al di là di ogni elementare retorica è: qual’ è il grado di conoscenza della realtà, di come realmente stanno le cose da parte di chi avrebbe l’obbligo morale di intervenire con leggi ponderate ed intelligenti? E’ evidente che questi signori non conoscono il mondo delle arti visive e neppure si rendono conto della sua ricchezza in termini di nuovi lavori e di economia oppure se conoscono tali potenzialità se ne guardano bene dall’agire con norme e leggi adeguate che sappiano interpretare il ruolo e la funzione delle dinamiche formative e produttive delle conoscenze dell’arte. Tutto ciò è il palese risultato di una mancanza di vocabolari adeguati ad esprimere le cose e la realtà del mondo in un sistema che appare sempre più senza radici, senza consapevolezza critica, teorica. In altre parole se vogliamo abbattere la corruzione, lo strapotere, le ineguaglianze sociali, la violenza, occorre ripartire dai nodi fondamentali del vivere quotidiano, dalle relazioni, dai rapporti interpersonali, dalla ricerca della verità. C’è bisogno di una svolta etica che solo un sistema di valori condiviso può portare a compimento, a partire proprio dalle conoscenze, dalla ricerca, dall’arte, dal paesaggio, dalla storia, dalla poesia, dal pensiero filosofico ed estetico che non sono universi immaginari che stanno nell’iperuranio ma cose reali, motori necessari per lo sviluppo di un’impresa, di un’economia, di un paese. Bisogna ricostruire il senso di una ritrovata moralità nei costumi come avrebbe detto Kant e di una responsabilità rispetto alla società civile. Non si tratta quindi solo di dare risorse economiche (anche se queste sono necessarie per lo sviluppo e per qualsiasi riforma) in un contenitore vuoto ma occorre sapere che queste risorse sono destinate a mondi che appunto dovrebbero esercitare non solo un alto livello di formazione ed aprire a nuovi sbocchi occupazionali ma portare consapevolezza, sviluppare capacità interpretative e creative nuove. Ciò non può che fondarsi sul concetto di disciplina e sul senso morale che tali istituzioni dovrebbero incarnare a cominciare da uno degli argomenti preferiti dai giornali quando si parla di Accademie in maniera scandalistica e che invece ha implicazioni gravissime sul livello culturale della didattica. Intendo riferirmi non tanto al trasferimento di Brera in un altro luogo (ne parleremo nella prossima puntata) o alla rottura di una qualche copia in gesso di una storica scultura romana (cosa fra l’altro deprecabile e atto vandalico) ma alla confusione legislativa, alle promesse non mantenute, a procedure concorsuali inesistenti, all’assenza di un piano di sviluppo, il che trascina con sé il livello di coerenza scientifica e disciplinare di tali Istituzioni e ciò che esse rappresentano. Tale questione va affrontata alla radice del sistema che per quanto riguarda le Accademie e i conservatori origina dalla stessa politica in materia d’istruzione artistica, mi riferisco all’Alta formazione artistica musicale e coreutica, la cui dirigenza ha finora in qualche modo contribuito al disastro normativo di tutto il settore. scatenato un assalto all’insegnamento sulle nuove materie dell’offerta normativa con la conseguenza che molti docenti di ruolo si trovano ad insegnare oltre la loro disciplina due, tre materie a volte quattro con programmi simili. Conseguenze Dora Liguori Intervista a tutto campo sullo stato attuale dell’AFAM e sui motivi di una riforma bloccata da 15 anni, la L. 508/99. Che cosa si può fare Da questo non edificante quadro giuridico emergono una condizione difficile, un degrado, una condizione esistenziale precaria. Occorrerebbe da parte di questo governo un intervento immediato, un salto di qualità che risponda ad una contingenza culturale inderogabile, che faccia cambiare rotta a questo paese, a cominciare proprio dall’Istruzione, nel nostro caso dalle Accademie di Belle Arti. C’è bisogno forse di un nuovo intervento legislativo, di una nuova legge che con chiarezza abolisca la 508 e definisca il passaggio delle Accademie nel comparto dell’Università con una fase di transizione sia per quanto riguarda le nuove norme sia per la definizione dello stato giuridico nei nuovi ruoli di docenza nel comparto dell’Università. Per far ciò occorre soprattutto uscire dall’AFAM che finora non ha fatto altro che corrispondere a posizioni di retroguardia culturale e artistica. Non basta un’iniziativa annuale come il premio Nazionale delle Arti a lavare la coscienza, a superare gravi inadempienze e riempire il vuoto legislativo cercando di accontentare gli studenti che avrebbero bisogno di ben altro come l’avvio del terzo ciclo specialistico e dei dottorati di ricerca o di formazione alla ricerca. Bisogna abolire il CNAM che si è mostrato un organo desueto, inservibile, arroccato su falsi privilegi. Su questi punti bisogna essere chiari e avere una posizione comune a meno che non si voglia rimanere dove si è. In questo caso bisogna intervenire subito, completando la 508/99 con decreti importanti come la definizione dello stato giuridico della docenza, l’emanazione di concorsi, per tutta l’offerta formativa, il completamento dei percorsi formativi per quanto attiene il terzo ciclo della formazione (Corsi di formazione alla ricerca, Dottorati congiunti con l’università ecc.). Bisogna dare maggiore autonomia alle singole accademie trasformandole in Atenei con norme universitarie. Aprire anche per l’AFAM la possibilità di far parte di organismi come il CUN-CRUI l’ANVUR. Tutto ciò si può fare? Io credo di no. E’ proprio la famigerata legge 508 a impedirlo e a trascinare le nostre Istituzioni in una terra di nessuno. E’ la sua concezione concettuale e normativa che non prevede tali cambiamenti. Insomma basterebbe una nuova legge o un semplice decreto che sancisca l’appartenenza al comparto universitario una volta per tutte e credo che in questo senso si possa fare molto. In fondo le Accademie ma anche i Conservatori con la loro storia sono un bene, un patrimonio culturale importante e senza eguali in Europa. Cosa intende fare questo governo? lasciare tutto così com’è? Nominare un nuovo dirigente, un altro ennesimo sottosegretario che non sa di che si parla, con delega all’AFAM, un Direttore generale espresso dalla politica, senza alcuna competenza? Ripristinare il CNAM? Riunire ancora commissioni per giungere a un niente di fatto? Insomma che si cominci a cambiare rotta anche e soprattutto a partire da queste dimensioni apparentemente non importanti, rispetto all’economia, al lavoro, alla disoccupazione, è proprio da qui che bisogna iniziare per fare chiarezza, dare maggiore motivazione, consapevolezza e dignità a tutto il sistema Italia. Ora posso gettare al macero i miei miseri scatoloni di documenti o al contrario posso tenerli e forse alla prossima mia mostra potrò farne un’installazione. * Francesco Correggia è artista, ha insegnato per tanti anni all’Accademia di Brera dove è sempre stato attivissimo nel perseguire la riforma e nel Consiiglio Accademico. Intervista a cura di Gaetano Grillo Il CUN è articolato in Comitati d’area come: “Scienze mediche”, “Scienze giuridiche”, “Ingegneria civile e Architettura”, “Scienze dell’antichità, filologicoletterarie e storico-artistiche”, “Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche” ecc. Le nostre discipline non sarebbero quindi separate dalle altre, ma potrebbero avere due Comitati d’area dedicati, rispettosi delle nostre specificità e articolazioni, cui assegnare rispettivamente un numero congruo di membri. Dora tu sei stata il primo Presidente del C.N.A.M. subito dopo l’approvazione della Legge 508/99, quale è stata la tua esperienza? Esaltante e frustrante insieme. Esaltante perché grazie anche alla bravura e alla competenza dei colleghi presenti nel CNAM, tutti insieme pensavamo di poter fare qualcosa di altamente positivo per Accademie e Conservatori tramite la stesura dei regolamenti attuativi stilati in linea con i principi espressi dalla Costituzione e dalla legge 508 (a sua volta attuativa del dettato costituzionale); frustrante perché detto lavoro, fatto per ben tre volte e ottimamente, restava sempre… al palo. E tutto ciò è avvenuto anche quando l’ultima stesura di detti regolamenti, per mia precisa volontà, è avvenuta presso la Presidenza del Consiglio previo accordo politico con tutti i partiti presenti in Parlamento (come noto i regolamenti debbono avere poi il benestare, oltre che del Consiglio di Stato, anche delle Commissioni parlamentari Cultura e Istruzione di Camera e Senato). In quel caso noi tutti pensavamo di poter stare “sereni” ma, con ogni evidenza, chi la riforma intendeva attuarla altrimenti (ed erano molti i soggetti che covavano questo retro pensiero) ci ha fatto fare la fine… di Letta. Di qui la frustrazione! A distanza di 15 anni da quella legge di riforma, per altro non ancora completata, puoi fare un bilancio individuando gli aspetti positivi e quelli negativi di quel provvedimento? Esiste sulla 508 molta confusione messa artatamente in giro dai soggetti contrari di cui sopra. Infatti la legge, dopo anni di battaglie e di umiliazioni che avevano visto il settore divenire stimato ancor meno di una scuola secondaria, andando ad attuare finalmente il dettato costituzionale, non può che definirsi una legge positiva (oltre la Costituzione non è possibile andare). La drammatica situazione successiva discende dal fatto che, essendo la 508 una legge di riforma, essa non poteva non prevedere, per andare a regime, tutta una serie di regolamenti attuativi. Pertanto se la legge è ottima alla base, poiché riprende la Costituzione, la medesima legge è divenuta discutibile in alcune sue parti applicate, a seguito del tradimento operato, appunto attraverso la stesura di alcuni dei suoi regolamenti attuativi (e ne mancano dopo 14 anni ancora altri). E affermazioni del genere non le fa solo la sottoscritta ma lo dicono anche, riferendosi ad alcune parti dei regolamenti stilati dall’Amministrazione, pareri del Consiglio di Stato nonchè numerose sentenze dei Tribunali Amministrativi. Ciò nonostante ogni qualvolta a qualche “bello spirito” viene in mente di “punirci” (uno degli sport italiani è proprio quello di dare addosso all’artista) la 508 è stata sempre in grado di salvarci proprio appellandoci ai Tribunali. Chi e cosa ha ostacolato o se vogliamo ha ritardato di così tanto il completamento della sua applicazione? La risposta in apparenza potrebbe apparire sin troppo facile: era l’Amministrazione che, nella sua interezza (leggasi Direzione Generale AFAM, Ufficio legislativo MIUR, Gabinetto del Ministro) doveva provvedere alla stesura dei regolamenti; ma se detta stesura è stata effettuata, per molti versi, in modo negativo (ed anche questo è sotto gli occhi di tutti) sarebbe appunto troppo facile darne tutta la responsabilità a detta Amministrazione, oppure lamentarsi degli interventi non proprio amicali dei colleghi dell’università. Infatti senza le necessarie coperture l’Amministrazione (in particolare la direzione AFAM) non avrebbe potuto procedere. Se poi qualcuno volesse sapere il nome di questi poteri ostativi, come già sopra detto, basterebbe che andasse a rileggersi le dichiarazioni di quanti contrastavano la legge durante il suo iter (in ogni caso gli onorevoli e i senatori Carelli, Sbarbati, Asciutti, Napoli, Vita e tanti altri possono ancora testimoniare). Purtroppo occorre dire che dove c’è l’Arte ci sono forti interessi e i medesimi non sono sempre del tutto trasparenti. Cosa manca per completare e mettere ad ordinamento quella riforma? Mancano i restanti regolamenti, e manca la messa a sistema dei gradi precedenti, mediante l’introduzione della musica nella scuola primaria, il completamento degli indirizzi strumentali delle medie, e la diffusione sul territorio dei licei musicali, il tutto in sinergia coi conservatori. E se per i primi regolamenti abbiamo dovuto attendere 14 anni speriamo che per ultimarli non si debba attenderne altrettanti. Ricordasi che per la messa in ordinamento del biennio specialistico è dovuto, grazie all’azione dell’UNAMS, intervenire direttamente il Parlamento senza il quale saremmo stati ancora… all’“introito della messa”. C’è assolutamente bisogno di un nuovo C.N.A.M. per completare quel processo oppure è un atto che può fare direttamente il C.U.N. rispettando le autonomie didattiche delle Istituzioni sino ad ora chiamate A.F.A.M.? Certo che lo può fare il C.U.N., ovviamente con l’inserimento di nostre rappresentanze. E se lo fa, essendo grazie a Dio il C.U.N. un organo di cui il Ministro raramente disattende i pareri, potremmo finalmente sperare di non dover assistere a quanto spesso avvenuto con il C.N.A.M. ove, nonostante l’ottimo competente ed estenuante lavoro dei consiglieri puntualmente si procedeva con un: “letto il parere, facciamo il contrario”. Far parte di organismi forti è sempre utile. In tal senso ricordo il lavoro da me svolto come componente del C.N.P.I. 23 u.n.a.m.s. opinioni 22 I titoli di studio rilasciati dalle Accademie sono diplomi di primo livello e di secondo livello. Essi sono equipollenti ai titoli di laurea. In effetti, La Legge 268/02 è si intervenuta per riconoscere l’equiparazione alla laurea universitaria dei titoli accademici conseguiti nel sistema artistico e musicale italiano ma solo ai fini di un pubblico concorso e del riconoscimento dei crediti formativi da spendere nei due sistemi dell’Alta Formazione (AFAM e Università). La non applicazione della normativa europea a proposito di Istruzione superiore e Università ha portato a una serie di confusione per cui i titoli rilasciati dalle Accademie molte volte non sono riconosciuti da altri paesi europei per gli accessi ai Bienni. Esiste di fatto un disequilibrio fra i due sistemi quello dell’Università e quello dell’Afam sia da un punto di vista dell’Autonomia sia per quello delle finalità didattiche. Verso la fine degli anni novanta, un forte impulso alla trasformazione dell’università in “senso europeo” (per quanto il termine sia stato usato in sensi molto spesso contrapposti), viene dato dalla riforma che introduce l’autonomia degli atenei. La riforma, rimodella anche i corsi di studio, introducendo la cosiddetta formula del 3+2, basata sul modello anglosassone, il che è ribadito ai sensi della legge 15 maggio 1997, n. 127, attuata con decreto del Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica con la legge 509. Se, in sostanza l’autonomia per gli atenei è tale da consentire loro un reale cambiamento e rimodellamento dei percorsi disciplinari anche con provvedimenti autonomi e attraverso il CUN. Per le Accademie tale percorso di autonomia non esiste. Manca la possibilità di rimodellare i percorsi disciplinari secondo le esigenze didattiche e culturali di ogni singola Accademia. Il modello poi del Tre + Due non sempre funziona soprattutto per le scuole tradizionali i cui livelli di didattica esperienziale, espressiva e poetica devono essere più intensi, il che è difficile da misurare in crediti. Sebbene Il D.P.R. 28/02/2003, n. 132 abbia dotato le istituzioni AFAM di autonomia statutaria, regolamentare, organizzativa, finanziaria e contabile nel rispetto dei principi dettati dalla Stato. Il successivo D.P.R. dell’8/07/2005 n. 212, ha indicato per il nuovo ordinamento i principi e criteri generali della nuova offerta formativa e della loro autonomia didattica, con l’articolazione degli studi in 3 cicli, secondo il modello ispirato dalla Dichiarazione di Bologna e in convergenza con il modello europeo dell’istruzione di terzo livello, delineato dagli accordi europei della Sorbona, di Bologna, di Praga e di Berlino, ma in effetti i tre cicli non sono mai andati del tutto a regime. Ne è un esempio il progetto di Dottorato alla ricerca in Antropologia dell’immagine e problematiche del contemporaneo della gloriosa Accademia di Brera (Corso di formazione alla ricerca) che avrebbe dovuto aprire il terzo ciclo alla formazione. Il Dottorato era stato approvato dal Consiglio Accademico e dal Consiglio di amministrazione ma non è mai partito per mancanze di risorse da parte del Ministero che indubbiamente può finanziare dottorati di ricerca per le Università, seppure in maniera limitata, ma non può finanziare quelli dell’Accademia smentendo gli accordi di Bologna. Ma ci sono anche problematiche interne a Brera dove prevalgono le invidie, i personalismi, l’ansia di potere, dove si fa a gara per avere una poltrona nel Consiglio accademico o per diventare Direttore e non si guarda al bene e all’interesse comune, al bene degli studenti e dell’Istituzione. Non essendoci alcun concorso nazionale per esami e titoli funzionano ancora le vecchie graduatorie per esami e titoli del 1992 per cui sono chiamati a insegnare materie importanti come Pittura, Decorazione personale che risulta nelle ultime posizioni di quelle graduatorie. Il risultato è che le Accademie, complice l’AFAM immettono in ruolo per incarichi di docenza su discipline di indirizzo persone che svolgono magari qualche altra attività e che non pensavano di esseri chiamati dopo ventidue anni dall’entrata in vigore di quelle graduatorie a svolgere un incarico così importante. Il paradosso è sconvolgente e si commenta solo. Si può attingere anche alle graduatorie di supplenze nazionali con conferimento d’incarichi a tempo determinato ex Legge 143/2004: i cui criteri selettivi per soli titoli seguono le norme della secondaria superiore, basta leggere l’art, 272 del Decreto legislativo 16 Aprile 1994. Poi ci sono le graduatorie di supplenza interne, che ogni Accademia Istituisce per quelle materie le cui graduatorie di supplenze nazionali risultino esaurite. Anche qui c’è da registrare il fatto che molti di questi professori hanno accumulato più di dieci anni di supplenza senza poter intravedere alcuna prospettiva di stabilizzazione. Alla fine abbiamo le materie dell’offerta formativa in affido ai docenti di ruolo su sui ci siamo già pronunciati, e i contratti per le materie restanti a docenti esterni. Docenti che fra l’altro hanno accumulato anni di esperienza didattica con compensi vergognosi per un paese civile, senza poter sperare in un miglioramento del loro stato. (Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione) all’interno del quale i pareri resi dalla Commissione Istruzione Artistica di cui facevo parte, oltre ad essere rispettati dal Consiglio nella sua interezza, nemmeno sono stai mai disattesi dal Ministro di turno. Secondo quale passaggio giuridico e/o tecnico le Istituzioni A.F.A.M. potrebbero entrare nel C.U.N.? Ovviamente tramite un semplice comma inserito in una qualche legge in itinere (quando vuole l’Amministrazione è “maestra”, oltre che rapidissima, in questo tipo di operazioni). L’emendamento dovrebbe contenere contestualmente l’abolizione dell’articolo della 508 che istituiva il C.N.A.M. e l’allargamento del numero dei consiglieri del C.U.N. Quale differenza sussiste fra Accademie e Conservatori in termini di offerta formativa a tutti gli effetti terziaria? Nessuna. L’unica differenza consiste nel fatto che ci conosciamo poco; questo sì… spesso fa la differenza! A conoscerci meglio si eviterebbero tante idiozie, come quella di fare il gioco di chi ci vuole male. 24 Come fareste voi per i corsi pre-accademici destinati a studenti minorenni? Anche su questo argomento esistono molte favole che, o vengono poste volutamente in giro per le motivazioni di cui sopra, o fanno parte della non-conoscenza reciproca. I corsi pre-accademici giuridicamente parlando, come anche detto autorevolmente da Corte dei Conti e Avvocatura dello Stato, non esistono. Purtuttavia i Conservatori di musica, nella loro autonomia didattica – come avviene anche nelle Università (per esempio con la formazione continua, con i corsi per la terza età ecc.) o nelle Accademie (con i già corsi liberi della scuola del nudo)- possono attivare dei corsi di preparazione per l’ingresso al triennio. In ogni caso questa esigenza è venuta a crearsi per il parziale e difettoso avvio dei licei musicali che, previsti dalla normativa vigente, sono stati appunto solo in parte attivati. Pensi che le nostre Istituzioni di Alta Cultura potrebbero perdere specificità passando direttamente sotto la direzione generale dell’Università? Assolutamente no, poiché le nostre Istituzioni manterrebbero le specificità e, in aggiunta, avrebbero tutti i vantaggi, soprattutto da parte di chi, anche a livello ministeriale, essendo abituato a ragionare, in termini economici e didattici, con le Istituzioni universitarie, non farebbe degli inutili e sorpassati distinguo. Perché le discipline artistiche dovrebbero essere separate in un comparto diverso da tutte le altre discipline? Il CUN è articolato in Comitati d’area come: “Scienze mediche”, “Scienze giuridiche”, “Ingegneria civile e Architettura”, “Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche”, “Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche” ecc.; le nostre discipline non sarebbero quindi separate dalle altre, ma potrebbero avere due Comitati d’area dedicati, rispettosi delle nostre specificità e articolazioni, cui assegnare rispettivamente un numero congruo di membri. La Legge di Stabilità del dicembre 2013 ha sancito il definitivo riconoscimento del valore legale dei titoli di studio di primo e di secondo livello che noi rilasciamo, questo provvedimento è da intendersi in termini assoluti oppure lo è limitatamente all’accesso per i concorsi pubblici? Il valore legale dei titoli di studio è indispensabile proprio per l’accesso ai concorsi pubblici e per essere riconosciuto sia in Italia che in Europa. Pertanto quest’obiettivo deve intendersi raggiunto. Ma a nostro parere è ancora più importante, con lo stesso provvedimento, aver previsto Un nostro studente può dire o no di avere un Diploma Accademico che è equipollente ad una Laurea, e se no, perché? Certo che è equipollente. Come ovvio mantenendo le proprie specificità di formazione, e i propri percorsi lavorativi. Ovvero un laureato in medicina, la cui laurea ha lo stesso valore legale di quella che ha conseguito un ingegnere, non può comunque pretendere di andare a costruire un ponte! Cosa non fanno i nostri studenti per non godere di questo legittimo diritto considerato che il loro percorso formativo è assolutamente parallelo a quello di tutte le altre facoltà universitarie italiane ed europee? Il diritto è ormai sancito, come sopra detto, ma più che gli studenti a non fare, sono certi “illuminati” del MIUR che ancora non riescono a capacitarsi sulle difficoltà e sulla valenza del percorso formativo artistico. Avere tre soli rappresentanti nel C.U.N. per tutte le Istituzioni A.F.A.M. sarebbe davvero poco bilanciato rispetto agli equilibri già esistenti e rischierebbe di vederci, come alcuni sostengono, seduti su di uno strapuntino, anche per questa ragione molti preferirebbero restare nel recinto A.F.A.M. Non sarebbe meglio, per essere più forti, pensare di occupare due aree distinte, quella delle Belle Arti e quella delle Arti Musicali? L’ingresso nel C.U.N. infatti non può non prevedere, come detto, che due Comitati d’area distinti, ben rappresentati numericamente, esattamente come avviene per le altre aree disciplinari universitarie. Come tu sai io da anni non sono più iscritto ad alcun sindacato perché ritengo incompatibile il ruolo di questi ultimi con la nostra docenza inquadrata nell’Università, tu come Segretario Nazionale dell’U.N.A.M.S. come ti poni rispetto a questa svolta che dovrà, a mio giudizio, assolutamente avvenire in tempi brevissimi? Da anni dico e chiedo al Parlamento, in nome e per conto del sindacato che ho l’onore di rappresentare, di entrare nel sistema pubblicistico, sistema proprio delle Università e che non prevede contrattazione sindacale. Infatti, da sempre, sono fermamente convinta che laddove esiste una forte autonomia non possano esistere i sindacati. In tal senso, determinate storture abbastanza evidenti, sono avvenute anche grazie ai sindacati rimasti o silenti o addirittura favorevoli (a litigare con l’Amministrazione non ci si “guadagna”). Dopo… i risultati non possono essere che quelli che sono; e vorrei evitare di doverli sottolineare ulteriormente. Non a caso l’UNAMS si è rifiutata di siglare molti accordi riscuotendo, come ovvio, “spiccate simpatie” presso l’Amministrazione. In sintesi, piaccia o non piaccia il discorso, determinate iniziative sono state possibili perché non è intervenuta una concreta azione sindacale, neppure per quelle parti ove è prevista la contrattazione obbligatoria e i sindacati avevano spazio per porre dei veti. E l’Amministrazione, quindi, forte del consenso dei sindacati, tranne ovviamente quello dell’UNAMS, ha potuto procedere a suo piacimento. (Non è un caso se, ad un certo punto, i sindacati, proprio per non avere tra i piedi i testimoni scomodi dell’UNAMS, hanno preteso di procedere con i tavoli separati. Aggiungerei però che i sindacati, a loro volta, procedono sulla base anche del consenso ottenuto dal personale nel contesto delle votazioni per le RSU (altra stortura che sarebbe rimossa entrando nel sistema pubblicistico). Insomma se il personale continua a votare per l’”amico” sindacalista – senza riflettere sul fatto che quel voto, poi, sarà speso anche a livello nazionale, magari proprio ad avallare le storture di cui sopra – non si esce dall’inganno. Occorre maturità e consapevolezza da tutti i lati. Per questo confesso di invidiare e ammirare Landini (il Segretario della F.I.O.M.)… anch’io, sia pure per poco, vorrei essere a capo di un sindacato di metalmeccanici, ci intenderemmo a meraviglia e raggiungeremmo subito gli obiettivi… i metalmeccanici non sono fessi! Il fatto che al momento non ci sia un Direttore Generale dell’A.F.A.M. e che siamo sotto la Direzione Generale dell’Università, è un dato che ci agevola il passaggio all’università oppure ci complica delle cose? Sicuramente ci agevola. Al momento siamo sotto il Capo-dipartimento dell’Università, Dottor Mancini, che sinora non pare abbia mostrato cattive intenzioni o preso iniziative contrarie al settore. Siamo comunque agli inizi e il tempo ci racconterà il resto. O meglio come dicono i napoletani in modo colorato ma assolutamente esplicativo… “a’ ‘o sfrije se sente l’addore” (“quando si frigge si sente l’odore del pesce fresco”). Far parte del C.U.N. significherebbe di fatto riconoscere l’equiparazione giuridica di noi docenti ad esaurimento A.F.A.M. con quella dei nostri colleghi dell’università; credi che questo sia possibile, considerando che richiederebbe un esborso economico importante per lo Stato in un momento come quello che stiamo vivendo? Prima di tutto occorre sgombrare il campo dalle interpretazioni volutamente idiote se non delinquenziali date alla frase “ruolo ad esaurimento mantenendo le funzioni”, contenute nella Legge 508. Queste parole sono nate per proteggere la docenza che era presente nei Conservatori e nelle Accademie da imposte secondarizzazioni che si volevano esperire anche attraverso incostituzionali concorsi (non si può concorrere per divenire ciò che già si è; il farlo significherebbe negare il proprio “status” e quindi ciò che ci ha riconosciuto la Costituzione). Infatti, se il Conservatorio o l’Accademia, come da Costituzione è (non deve divenire) un’Istituzione di Alta Cultura, ne discende che questa Alta Cultura non sia riferita alle mura delle Istituzioni ma al personale che vi opera. Onde per cui, per evitare incursioni secondarizzanti sempre dietro l’angolo, i tecnici del Parlamento, fra i quali il Segretario Generale della Camera, stabilirono attraverso l’inserimento di questa frase che gli attuali docenti mantenessero la loro funzione (quella appunto al più alto livello) sino all’esaurimento, non nervoso… ma pensionistico. Più chiari di così non potevano essere; eppure quando proprio la Triplice (C.G.I.L., C.I.S.L., U.I.L.), confortata da determinati funzionari, mise in giro la voce che non si potevano rinnovare i contratti per via di quella frase, nessuno, rilevandone il ridicolo, li contrastò. Venne perso un sacco di tempo, sinché, l’U.N.A.M.S., attraverso la Presidenza del Consiglio, riuscì a sollecitare l’allora Ministro del Tesoro, Tremonti, che, compresa la situazione (sbloccò anche i fondi “misteriosamente” imboscati), aprì le trattative nel giro di quarantott’ore. Poi, di contratti, se ne siglarono due. E anche questo è un paradosso, poiché viene da chiedersi: come è possibile che i sindacati, nati per la contrattazione, possano, attraverso simile balle, perdere e far perdere tempo? Chissà, forse (il forse è consigliato dall’avvocato), speravano che il personale stanco di non avere gli aumenti contrattuali s’acconciasse a trattare all’interno del contratto della secondaria. Insomma sembra (pure il sembra è consigliato dall’avvocato) che le pensassero tutte per secondarizzarci. Questo è uno dei tanti motivi per cui io sono contraria ai sindacati in questo settore e come dire in versione poetica “ne ho ben donde”. Tornando alla domanda, e premesso che i sindacati, quando si comportano bene, sono un grande strumento di Democrazia, sottolineo che l’entrata nel C.U.N. non costituisce un automatico livellamento dei nostri stipendi all’Università, ma certo va a rappresentare l’inserimento di un forte tassello perché ciò avvenga. Infatti, dopo l’approvazione della sempre benedetta legge sull’equipollenza dei titoli e sui bienni, posti finalmente in ordinamento, sono in corso di elaborazione presso l’U.N.A.M.S., alcune iniziative riferite a questo traguardo economico. Ma su di esse manteniamo, vista l’esperienza passata, un opportuno silenzio. I nemici non si arrendono mai! Non rischiamo di essere ingenui e di fare dichiarazioni legittime ma demagogiche appellandoci ai nostri pur sacrosanti diritti senza avere una strategia politica e neppure una parte politica che ci sostenga? Nessuno, oggi, è più in grado di contestare come l’U.N.A.M.S., proprio in virtù di una strategia politica ad altissimo livello, nonché di un grande senso dell’onestà, sia riuscita a portare a casa tanti provvedimenti. Pertanto la strategia politica, almeno dal nostro punto di vista, è sempre esistita, anzi uno degli aspetti principali di questa politica è consistita nel fatto di riuscire a far comprendere ed accettare, presso i partiti politici, che l’Arte non debba essere affare di un solo partito ma che, essendo il bene culturale più alto nel mondo, debba appartenere, senza ambigue colorazioni, a tutti. Non a caso i provvedimenti sponsorizzati dall’U.N.A.M.S. sono sempre stati approvati “bipartisan”. Cosa succederebbe se avessimo un nuovo C.N.A.M.? Prova ad immaginare! Mah! L’esperienza vissuta lascia poco spazio all’immaginazione. Essa m’insegna che forse avremmo un nuovo strumento “utile”, nonostante dedizione, capacità e competenze dei vari eletti, a far baloccare i medesimi, mentre Amministrazione e Ministri vari, non ritenendo sufficientemente forte l’organismo, continuerebbero a evadere le pronunce di quest’organo. Insomma, prima di vedere il completamento della Riforma, soprattutto se fatta in modo valido, attenderemmo (e speriamo di no) almeno un’altra decina di anni. Se il nuovo Ministro, che è stato anche Rettore Universitario a Perugia, ostacolasse il nostro percorso cosa dovremmo fare? Il Ministro, se non ha intorno cattivi consiglieri o sindacati acquiescenti, non ha motivi per ostacolarci. E comunque, come detto per il Dottor Mancini, diamogli fiducia e un piccolo lasso di tempo prima di giudicare. In ogni caso sono certa che l’individuazione di aspetti e traguardi condivisi da Accademie e Conservatori rappresenterebbe un’arma formidabile contro la quale nessun Ministro oserebbe porsi. Siamo o non siamo il settore italiano più qualificante, culturalmente parlando, e più rappresentativo nel mondo? La “carità del natio loco” di dantesca memoria, mi fa sottolineare anche, e con orgoglio, come gli stranieri, in Italia, non vengano per studiare medicina o ingegneria, bensì per vivere l’esaltante, e formativa al più alto livello, esperienza di acquisire un diploma accademico (o laurea) presso “San Pietro a Majella” o “Brera” (e ovviamente in tutti gli altri Conservatori e Accademie). Quindi (e sarebbe bene che ce lo ricordassimo anche noi) chi può vantare un potere morale più grande del nostro? 25 u.n.a.m.s. u.n.a.m.s. Esistono nei Conservatori docenti che insegnano sia nei corsi pre-accademici che in quelli accademici? Sì, ma vi insegnano solo per una loro libera scelta. In ogni caso le ore che impegnano non possono essere computate nel numero delle ore 324 (250+ 74) stabilite del contratto. Comunque molti Conservatori tendono, a seguito di verifica concorsuale dei titoli didattici ed artistici, ad affidare queste ore a personale esterno, ossia a giovani e meritevoli diplomati, innestando una dinamica virtuosa. la messa in ordinamento dei bienni, affidandola alle Istituzioni, con finalmente una data certa per la fine del lungo periodo transitorio, che ci ha indubbiamente penalizzato. Fotografie di Cosmo Laera Fotografie di Cosmo Laera Ingresso della Pinacoteca Luca Caccioni 26 Stefano Pizzi ACCADEMIA ITALIA Pinacoteca della Accademia Albertina di Torino accademia italia A cura di Guido Curto Più che una singola mostra, Accademia Italia vuol essere un evento espositivo in progress e site specific, per dirla con moderna enfasi in inglese, in quanto l’obiettivo dei primi ideatori, gli artisti-docenti a Brera, Gaetano Grillo, Nicola Salvatore e Stefano Pizzi, è quello di coinvolgere i tanti valenti artisti-colleghi che insegnano nelle Accademia di Belle Arti italiane come di titolari sulla Cattedra di Pittura, presentandoli negli spazi espositivi pubblici o delle Accademie stesse o ancor meglio incastonando le loro opere all’interno dei musei annessi alle Accademie, quand’essi esistano come nel caso delle Pinacoteche di Accademie storiche, di Napoli e Torino, un tempo “Reali” e oggi di Stato, ma anche di Pinacoteche non meno storiche benché non statali, quali la Ligustica di Genova e la Carrara di Bergamo; senza dimenticare che in passato le Accademie di Milano, Venezia e Firenze avevano splendidi musei di loro proprietà, sottratti per varie e inopinate ragioni ai loro legittimi “genitori” e questa potrebbe essere la occasione per una debita benché temporanea riappropriazione. Aldo Spoldi 27 Luigi Carboni Omar Galliani Albano Morandi Proprio da qui, adesso, si vuole partire con il progetto Accademia Italia, nella volontà di creare una mostra itinerante e “fluida” oggi diremmo, citando Zizek, perché via via si potranno aggiungere nuovi lavori e nuovi protagonisti, allievi compresi, in una rassegna a più voci dove i lavori di artisti contemporanei professori d’Accademia s’accostano e dialogano con i dipinti di antichi Maestri e di autori moderni già storicizzati, nell’ottica di riprendere quella tradizione virtuosa, tutta italiana appunto, che aveva visto nascere, dal Cinquecento in poi, Pinacoteche e musei annessi alle Accademie di Belle Arti, come strumenti di un modello didattico di alta formazione che avviene per emulazione, non per mera e pedissequa imitazione o copia. Questo era stato possibile in passato grazie a generose donazioni, o a prestiti o a comodati di lungo periodo, o da una vera e propria campagna di acquisizioni delle opere migliori dei migliori docenti e in certi casi persino degli studenti. Nicola Salvatore Marco Cingolani Lanino, Girolamo Giovenone e vari altri maestri di quel a lungo sminuito rinascimento piemontese, che trova invece una sua forte autorevolezza e una piena riqualificazione negli stretti contatti avuti con la pittura lombarda e persino con Leonardo. gerarchie o diritti di primogenitura: Luca Caccioni, titolare della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna; Albano Morandi della Accademia S. Giulia di Brescia; Omar Galliani, da quest’anno docente a Brera dopo essere stato all’Accademia di Carrara (MC), Marco Cingolani, artista milanese docente adesso all’Albertina di Torino dopo un appassionato soggiorno palermitano; Luigi Carboni dell’Accademia di Urbino; il già citato Gaetano Grillo, oggi docente nella Milano sua città d’adozione (è pugliese di nascita, ma si è formato a Brera con Alik Cavaliere), anche se il suo passaggio come docente per otto anni all’Albertina di Torino ha lasciato tracce importanti in tanti giovani artisti oggi di successo; e a chiudere Stefano Pizzi e Nicola Salvatore, titolari a Brera sulla Cattedra di Pittura e Aldo Spoldi, già molto noto al sistema dell’arte. Da quest’idea e da questo progetto in fieri, la cui anteprima era stata presentata due anni fa a Milano nella Accademia di Brera, riprende Accademia Italia scegliendo come sede di questo seconda puntata la Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino. Nel poco noto, ma eccellente museo interno all’Accademia Albertina, dotato di una ventina di sale dove il percorso espositivo prende il via da capolavori di pittura quattrocentesca come le due tavole di Filippo Lippi (quella centrale è al Metropolitan di New York) per concludersi con pittori d’inizio Novecento quali Giacomo Grosso, trovando il suo momento clou e anzi un vero e proprio climax in quella raccolta, unica al mondo, di Cartoni Gaudenziani, ovvero quei 59 giganteschi fogli di carta, disegnati a matita con le scene sacre pronte per essere trasferite fedelmente in scala uno a uno, sui grandi dipinti, su tela o su tavola, opera di Gaudenzio Ferrari e degli artisti della sua Scuola. Scuola o entourage del quale facevano parte autori prestigiosi come Bernardino Nella contiguità e se sarà il caso anche nei corto circuiti che s’innestano tra questi antichi Maestri e i nuovi Maestri selezionati per questa prima tourné di Accademia Italia, trova il senso e la sua piena specificità, nonché originalità, una mostra a cui partecipano artisti molto diversi tra loro, accomunati dalla capacità di fare Arte con l’A maiuscola e dalla volontà di comunicarla ai giovani insegnando un metodo di lavoro, più che una mera tecnica o uno stile cui l’allievo potrebbe esser tenuto ad adeguarsi diventando una banale epigono o addirittura un clone. Ma ecco la squadra che per l’inizio del campionato 2014 scende in campo a Torino: li citiamo in ordine alfabetico, senza Da qui si parte e poi molti altri Maestri verranno, magari accompagnati dai loro più promettenti allievi. Buon viaggio! accademia italia 30 gennaio al 4 marzo 2014 Gaetano Grillo 28 Cosa significa Decorazione? Di Alessandro Fabbris Seguendo l’insegnamento di Matisse, passando attraverso la ricerca di Warhol, del “decorativismo” di Giorgio Griffa (a tal proposito si ricordi l’opera Matisseria) e giungendo ad artisti quali David Tremlett, Philip Taaffe, Peter Zimmermann, Shirley Kaneda potremmo asserire che essere decorativi è portare l’opera alla conquista totale della superficie. Sempre più spesso artisti e designers che operano nel decorativo sconfinano nei linguaggi, ma ha senso oggi parlare di confini all’interno della ricerca artistica e, soprattutto, nell’ambito della Decorazione? A distanza di qualche anno dalla proposta suggerita da Nicola Maria Martino a proposito di cosa sia la Decorazione, provo a inserirmi nel dibattito, insegnando questa materia (dapprima nel Laboratorio di Decorazione per il biennio specialistco e successivamente come Tecniche per la decorazione) all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. “Bisogna essere per prima cosa decorativi” sosteneva Henri Matisse nel 1931, ma cosa significa oggi essere decorativi e cosa è oggi decorazione? Insegnare Decorazione in un’Accademia di Belle Arti vuol dire insegnare a leggere e a percepire gli spazi interni/esterni del contingente per cercare di modellarli attraverso l’uso di pattern decorativi che diano nuova vita e nuovi significati agli spazi stessi. Imparare a creare un pattern, a evolverlo in linee fluide, sinusali come negli edifici di Soler o imparare a evolverlo in modo tale che diventi ritmo disorientante come nei tappeti di Michael Lin vuol dire saper prendere coscienza del tempo storico che stiamo vivendo: un tempo malleabile, fluido e scandito non più da una prospettiva lineare. L’Arte del postmoderno conquista la superficie, così come Mario Costa ci ricorda nel suo saggio Dall’estetica dell’ornamento alla computerart. Lo studio della Decorazione deve allora essere compiuto tenendo conto dello sviluppo spaziale dell’architettura e dell’urbanistica nonchè dello spazialismo proprio del linguaggio visivo. Non solo. Lo studio della decorazione oggi è volto a creare la pelle degli elementi inorganici che ci circondano, suggerendoci nuove visioni – intese nell’accezione di Luca Massimo Barbero a proposito dell’opera di David Tremlett – “Far accadere sottolineando, svelando”. A differenza di ciò che una determinata decorazione ha offerto per secoli con l’inganno visivo - decorazione legata a un *Alessandro Fabbris é docente all’Accademia Ligustica di Genova e allo IED di Torino www.alessandrofabbris.com Didascalie delle immagini: Nella pagina a fianco: Michael Lin Installazione al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci (particolare) 2010 In alto a sinistra: Tobias Rehberger caffetteria al Padiglione centrale della Biennale di Venezia, 2009 In basso a sinistra: David Tremlett Casa Tremlett-Genillard, Hertfordshire, U.K., 2008 Walldrawing In alto a destra: Giorgio Griffa 3 linee con arabesco. 29 riflessioni didattiche riflessioni didattiche Potremmo asserire che essere decorativi è portare l’opera alla conquista totale della superficie? concetto prospettico che al nostro tempo non più appartiene - la pittura murale, il wallpaper, e il design applicato all’interior devono rapportarsi e confrontarsi con quel dato pertinente allo spazio contingente: lo sviluppo del virtuale. Il bombaradamento visivo della società dello spettacolo, nonchè sistemi narrativi postmoderni ci portano alla rilettura di un linguaggio visivo che non può più essere lineare, prospettico, seguendo gli schemi percettivi tipici del modernismo. Conseguentemente, la decorazione intesa come finestra, come appunto l’inganno visivo offre, allude a uno spazio tempo che non collima con la percezione che oggi abbiamo della spazialità e dell’abitare. La decorazione applicata all’architettura o all’interior deve allora suggerire una nuova modalità di percezione. Marco Belpoliti, in uno scritto apparso su La Stampa, riferendosi alla filosofia di Gaston Bachelard ci ricorda come l’estetica dell’ornamento sia estetica della superficie, “come del frammento, del continuo e del discontinuo, del montaggio come della pluralità ritmica”. Ponendo l’attenzione sull’origine del postmoderno e su come sia stata detrminante la ricerca di Warhol all’interno del dibattito attuale sul decorativo, Belpoliti fa notare come, a differenza della modernità puritana che aveva favorito l’impiego del vetro, dell’allegoria geometrica, della linea dritta nell’architettura, “il postmodernismo che nasce con Warhol e con gli altri artisti della Pop Art, declina insieme forme espressive e forme decorative” (Marco Belpoliti, La rivincita di Klimt nell’era digitale, La Stampa, 10/08/2012) Nell’estetica contemporanea interno/esterno, fondo-sfondo-figura-forma si fondano gli uni negli altri. Lo spazio, qui, appare fluido, modellabile e indefinito come lo spazio del virtuale. Il postmoderno ha visto il trionfo dell’immagine nell’architettura, citando elementi decorativi della tradizione che si completano e si ampliano in nuove spirali, in forme frattalizate, in linee che si aprono e chiudono seguendo l’evolversi della programazione della computer grafica. Si pensi alle architetture di Marco Novak, ai dipinti di Albert Oehlen, agli spazi interni ridisegnati da Diego Grandi o da Michael Lin. In un mondo globalizzato la “teoria del rivestimento” torna a essere ancor più attuale affinchè lo spazio esterno/interno possa continuamente adattarsi, come in un processo camaleontico, per rivestire quel mondo in cui, riprendendo le parole di BuciGluskmann, “l’artificio non si oppone più alla natura , ma diventa natura.” Per dare vita a questo nuovo mondo “bisogna essere per prima cosa decorativi” e per poter essere tali bisogna prima prendere coscienza di cosa sia la Decorazione. A noi il compito di insegnarla. Anni ‘70 a Roma Palazzo delle Esposizioni 30 Una mostra al Palazzo delle Esposizioni ha ricostruito il percorso italiano delle Neoavanguardie: Arte Concettuale, Arte di Comportamento, Body Art, Land Art e i diversi incroci con l’arte internazionale in un momento storico che segna la centralità di Roma nella vita culturale del Paese e il suo ruolo di capitale dell’arte. Non è, comunque, una rassegna facile, quella curata da Elisa Lancioni. Il decennio è stato tra i più complessi della storia ed è tutt’altro che unitario. Si aprì con gli ultimi furori delle lotte studentesche del 1968 che, a Roma, ebbero il loro epicentro a Valle Giulia e si chiuse, dopo l’assassinio di Moro nel 1978, con un ritorno all’ordine siglato in arte dalla Transavanguardia che poneva fine alle contaminazioni e trasfusioni linguistiche per ratificare l’immersione nei primordi della coscienza individuale e collettiva. Gli artisti selezionati sono raggruppati intorno ad alcune parole chiave quali: “memoria, racconto, labirinto, politica, il doppio, l’altro, linguaggio, fenomeno, tutto..” che sintetizzano le tematiche dominanti di quegli anni e aiutano a ritrovare, dietro la superficie delle opere, i fili conduttori di una ricerca protesa verso le più diverse aree disciplinari: antropologia, filosofia, psicoanalisi, scienze. Anche sul piano linguistico si spaziò a 360° con interventi video, installativi, performativi in cui fotografia, disegno, oggetto e tracce di pittura si mescolavano al riutilizzo di tecniche artigianali attinte da culture altre. E’ il caso degli arazzi di Alighiero Boetti fatti realizzare in Afghanistan. Il viaggio e il nomadismo furono, infatti, tra i miti di quegli anni accanto alle intersezioni tra arte, vita e habitat. Christo ricoprì con teli bianchi le Mura Aureliane, Vettor Pisani dipinse una stella rossa in piazza del Campidoglio, Luciano Fabro collocò il suo “Io(uovo)” nella Fontana delle Api, Michele Zaza focalizzò il suo sguardo sul tempo soggettivo e cosmico, Luigi Ontani diede inizio alla perlustrazione dei suoi molteplici “io”. La scelta espositiva non è né monografica, né cronologica, ma ruota intorno a quattro mostre che segnarono la vita artistica romana degli anni Settanta. La prima mostra,“Vitalità del Negativo nell’arte italiana”, tenutasi al Pala Expo nel 1971 a cura di Achille Bonito Oliva, offrì uno spaccato poliedrico e polifonico dell’arte italiana di quegli anni. Tra le opere selezionate per l’esposizione odierna, spiccano le superfici ritmiche di Enrico Castellani e gli spazi elastici di Gianni Colombo, i timbri e le sagome di Renato Mambor, le installazioni arboree di Giuseppe Penone , le operazioni concettuali di Giulio Paolini. Da questa mostra sarebbero nati “gli Incontri Internazionali d’Arte, l’associazione culturale fondata da Graziella Leonardi Buontempo, che promossero a Palazzo Taverna, per tutto il decennio, una fitta rete di eventi, coordinati da Bruno Corà, consolidando i rapporti l’ambiente romano e quello internazionale. La seconda mostra “Fine dell’Alchimia”, a firma di Maurizio Calvesi, inaugurata nel dicembre del 1970 nella galleria-garage l’Attico di Fabio Sargentini, esplorò i confini tra alchimia e letteratura, esoterismo e filosofia. E’ qui che possiamo rivedere il noto scheletro coi pattini di Gino De Dominicis e le tartarughe pilotate di Vettor Pisani nell’installazione “io non amo la natura”. Grazie alla lungimiranza di Fabio subentrato al padre nella direzione della galleria, gli artisti romani poterono confrontarsi col meglio delle Avanguardie Internazionali. Fu nell’Attico che Sol Lewitt dipinse il suo primo Wall Drawing, che Simon Forti si esibì nelle sue innovative performance e che Joseph Beyus discusse le sue teorie sull’Azione Terza Via: Idea e tentativo pratico per realizzare una alternativa ai sistemi sociali esistenti nell’Occidente e nell’Oriente. La terza mostra è “Ghenos, Eros e Thanatos”, a cura di Alberto Boatto, proposta nel febbraio del 1975 dalla Galleria La Salita di Tommaso Liverani. L’esposizione mostrava il lavoro di quegli artisti che esploravano i confini oscuri tra arte e psiche. Loro numi tutelari erano Rainer Maria Rilke, Frederich Nietzsche, Alfred Jarry, Andrè Breton. Il tema della morte fu affrontato dagli artisti invitati in modo più che perturbante. Gino De Dominicis realizzò “L’epigrafe”, Vettor Pisani mise in atto la performance “Lo Scorrevole”, Jannis Kounellis propose il “Motivo Africano”. Erano loro tre i capifila della Roma d’avanguardia - lo ricorda in catalogo Fabio Belloni – sottolineando come l’arte di comportamento avesse in quegli anni molti proseliti tra il pubblico più attento. La quarta mostra scelta per documentare l’arte del decennio è “Con- 31 una mostra una mostra Di Anna D’Elia temporanea”, la rassegna di taglio internazionale e pluridisciplinare che si tenne nel 1973-4 nei parcheggi di Villa Borghese, su un’area di 10.000 mq, attuando l’uscita dell’arte dal museo-galleria per creare un’offerta e un circuito nuovi. Fu questa, infatti, un’altra delle conquiste fatte allora. L’esposizione comprendeva al suo interno diverse espressioni: architettura, arti visive, cinema, danza, design, dischi e libri d’artista, fotografia, informazione alternativa, musica, performance, poesia visiva. Venne giudicata una delle mostre più importanti del secondo Novecento, voleva mettersi alla pari della Biennale, proponendo un nuovo modello. Un momento centrale della manifestazione fu quello dedicato alla politica. Da Soccorso Rosso, ai comitati per la casa della Maglina, da Magistratura democratica al gruppo di psichiatria di Franco Basaglia, ai gruppi ecologisti tutti furono coinvolti nel progetto e vi parteciparono con incontri e dibattiti. Pochi, invece, i nomi delle autrici tra cui quelli di: Carla Accardi, Cloti Ricciardi, Marisa Merz, Tomaso Binga, Giosetta Fioroni. Non ebbero vita facile le artiste in anni in cui il maschilismo era imperante anche tra gli artisti, nonostante l’importante ruolo avuto dai movimenti femministi nel ripensare le pratiche dell’arte e dell’estetica, come dimostra il lavoro di Carla Lonzi. Per le Arti Visive furono un centinaio circa gli invitati, molti gli americani per rappresentare il New Dada, la Pop art e la nuova Fotografia. Un ruolo importante per molti degli eventi di quegli anni, fondati in gran parte su operazioni effimere, fu quello dei fotografi grazie alla cui documentazione è stato possibile, oggi, realizzare questa mostra. Alle immagini di Claudio Abate si affiancano le preziose testimonianze di Ugo Mulas, Elisabetta Catalano e Massimo Piersanti. Il catalogo edito da Iacobelli è aperto da un’intervista ad Achille Bonito Oliva di Francesco Bartolini, cui seguono i testi di Matteo Lafranconi, Valentina Valentini, Paola Bonani, Denis Viva e altri. (17 dicembre-2 marzo 2014). RICCARDO CORDERO 32 BIBLIOTECA DELL’ACCADEMIA DI BRERA RICCARDO CORDERO L’Accademia di Belle Arti di Brera ha ospitato (5 febbraio-14 marzo 2014) una mostra di opere su carta dello scultore Riccardo Cordero (Alba 1942) che documenta la pratica disegnativa e progettuale della sua ricerca plastica, dai primi anni Sessanta al oggi. Diplomato presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino (1965), Cordero sviluppa la sua formazione creativa legandosi al magistero di artisti come Sandro Cherchi e Franco Garelli. Dal loro esemplare insegnamento lo scultore torinese apprende lo spirito di sperimentazione dei materiali, coniugando la conoscenza della scultura tradizionale e l’esigenza di cercare forme esplodenti e slanci costruttivi. Dopo una fase dedicata all’uso di nuovi materiali sintetici e di tecniche industriali, Cordero realizza corpi plastici con strutture geometriche e materie informi, aggregazioni spaziali di elementi sospesi tra costruzione razionale e carattere embrionale della forma. La pratica dei materiali (dal legno al polistirolo laminato, dal plexiglass all’alluminio, dal ferro smaltato fino al bronzo) mette in evidenza il dinamismo della forma in rapporto con lo spazio ambientale, verificando l’equilibrio sempre diverso delle forme geometriche (soprattutto quadrati e triangoli), calibrate in relazione a nuclei disarticolati, fino ad esaltarne l’energia delle reciproche tensioni spaziali. Da questi orientamenti espressivi, la visione di Cordero si sviluppa come luogo di proiezione cosmica attraverso continue allusioni metaforiche a comete, meteore, stelle, segni di una costellazione immaginaria, dove lo scultore materializza i suoi sogni di sconfinamento. Questi complessi caratteri di ricerca sono restituiti compiutamente nelle opere su carta scelte per questa mostra come un viaggio parallelo finalizzato all’ideazione e alla realizzazione delle sculture. Va infine ricordato che Riccardo Cordero ha insegnato nelle Accademie di Belle Arti di Carrara, Bologna, Milano e presso l’Accademia Albertina di Torino, dove è stato titolare della cattedra di Scultura dal 1990 al 2002. Claudio Cerritelli 33 una mostra una mostra Progetti di scultura Opere su carta (1961-2013) Intorno a questi orientamenti creativi Cordero costruisce un linguaggio plastico basato sul divenire della forma, intesa come “sostanza densa” che si aggrega e si disarticola secondo differenti prospettive immaginative. Il carattere progettuale è fondamentale per le metodologie costruttive dell’artista, intese come insiemi di idee plastiche che costituiscono un laboratorio formale che si sviluppa nel tempo. La ricerca di opposte tensioni spaziali prelude -all’inizio degli anni Ottanta- a un ciclo di ricerche caratterizzate da evocazioni naturalistiche e figurali, spazi proiettati oltre la soglia del paesaggio (terra e nuvole, orizzonte e cielo), distanze plasticamente fissate nelle variazioni tra pieni e vuoti. Dopo questa fase, Cordero si dedica a misurare le possibili amplificazioni costruttive della forma, confrontandosi con opere di grande dimensione, come momenti di verifica della collocazione ambientale del progetto plastico. La scultura è vissuta come soggetto dinamico che interagisce con la dimensione urbana e con l’atmosfera del paesaggio, la sua forza vitale s’identifica nei grandi ferri dal profilo sospeso, cerchi spezzati e segni in rotazione, forme disarticolate che non perdono mai di vista il moto espansivo che dal centro protende verso l’infinito. Il senso cosmico della scultura nasce dallo sforzo di spezzare il canone geometrico, di rendere inquieto l’equilibrio compositivo attraverso gesti di accerchiamento dello spazio dinamico, aprendo il nucleo generativo delle forme con scatti allusivi a ulteriori dimensioni. Nella figura del cerchio l’artista sogna la possibilità di portarsi sempre fuori dal suo perimetro circoscritto, con intersecazioni di superfici spezzate e quasi aggrovigliate che ricordano voli protesi nel vuoto, spostamenti simultanei verso altri ordini di riferimento. Per sostenere queste scelte Cordero riflette non solo sulla scultura di Julio Gonzales, ma anche su quella di Anthony Caro e, soprattutto, di Eduardo Chillida, esempi di ricerca illuminanti per immaginare le vibrazioni della forma come energie essenziali per captare le profondità dell’aria, l’equilibrio tra le masse plastiche e la funzione dei vuoti, l’instabilità che si genera all’interno del loro stesso spazio d’azione. Se osserviamo un “grande segno” di Cordero collocato in un ambiente urbano o nel paesaggio naturale, abbiamo la sensazione di vedere un organismo plastico che si modifica costantemente, restituendo sempre una diversa emozione percettiva, in un corpo a corpo che non esaurisce il rapporto con l’opera, anzi ne aumenta la capacità magnetica. La scultura comunica il divenire del movimento circolare, le sue componenti si contraggono e si espandono verso l’ambiente, quasi in bilico tra il proprio centro di gravità e un’assoluta liberazione dal peso. L’articolazione specifica dello spazio tende ad aggregare pieni e vuoti come valori reciproci, in rotazione intorno ad un fulcro ipotetico, mutevole, instabile. Lo spettatore scopre i diversi volti della scultura attraverso un’azione di avvicinamento e di distacco, di rotazione intorno al suo perimetro, un movimento indispensabile per valutare sia i particolari strutturali dei primi piani sia gli effetti dell’immagine totale, complessità architettonica attraversata da energie visibili e invisibili, astratte e concrete. Queste dinamiche sono presenti nella ricerca disegnativa che l’artista torinese non ha mai trascurato nel corso della sua ricerca, sia in chiave progettuale sia nell’espressività pura del segno. Pur autonomi nella loro metodologia esecutiva, progetti e disegni si accordano all’oggetto plastico, ne afferrano gli equilibri instabili, le torsioni, i punti estremi in cui la linea si spezza e si proietta verso altre direzioni. Attraverso l’uso di carboni pressati, carcoal, grafite e sanguigna rossa il segno acquista un’intensità visiva che dà vigore espressivo alla frammentazione del corpo plastico e alla discontinuità delle sue articolazioni. La sensibilità dinamica del segno consente di non definire i limiti delle forme, del resto Cordero ama il continuo modificarsi del progetto scultoreo in una complessità di lineeforza che sembrano aggredire l’idea iniziale e spingerla verso differenti soluzioni. L’artista insiste sul concetto di “scultura come presenza”, come attivazione di percezioni simultanee che coinvolgono opera e ambiente, senza che sia l’una a prevalere sull’altra componente. Così come il suo segno è un segnare, alla stessa stregua il suo porsi davanti al foglio non è uno specchiarsi nella superficie di codice, ma un maneggiare una cosa concreta, consistente, una sostanza. La carta è materia, e materia viva, dotata di caratteri e vocazioni, d’aromi e memorie. È insieme, nell’intendimento di Marrocco, scena e attrice della vicenda dell’esprimere. Con arbitrio sovrano egli la manipola, la segna, la colora, la stratifica, in una combinatoria di possibili che determina uno spazio di relazioni tra momenti e picchi espressivi diversi, dal cui equilibrio complessivo scaturisce l’immagine. L’immagine è comunque, infine, compiuta. E leggera, dotata d’una trasparenza che la rende, piuttosto che cosa, impasto di luci. Luci che nascono da una convocazione sapiente del colore, altra componente essenziale dell’operare tutto di Marrocco. Nelle serie ultime di lavori esso si è reso protagonista, ancorché non assoluto, della formazione dell’immagine, cadenzandosi per partizioni regolari, d’una geometria sottile e asciutta, e vibranti come aliti, quasi fossero climi emotivi più che enunciazioni plastiche. È chiaro che Marrocco ragiona anche in questo caso nei termini di un’astrazione d’umore comunque metafisico, e con forti accentuazioni poetiche. Passo dopo passo, la sensualità del suo fare si stempera in un piacere dell’immagine non affidato alla captazione visiva, al piacere dello sguardo, ma a una trama di echi e suggestioni lontane, d’ineffabile grazia. 34 FRANCO MARROCCO Building Bridges Art Foundation Bergamot Station Arts Center Santa Monica, USA Il fare con la carta e il fare la pittura si ritrovano, né altrimenti avrebbe potuto essere, in consonanza perfetta: intensi per qualità, nitidi e trasparenti per sostanza visiva. * Franco Marrocco è artista e Direttore all’Accademia di Brera, Milano. 35 Pratica della carta Di Flaminio Gualdoni percezione o, in altri termini, dell’inverarsi della storia”, ha scritto di recente Paolo Biscottini a proposito dell’intensa, meditativa pittura di Franco Marrocco. E la luce, una luce non fisica ma qui tutta d’anima, è anche quella che abita da sempre le sue carte, le quali rappresentano tutt’altro che la pars minor del suo fare. Carte è dizione corrente, e di solito indica l’opera su carta. Nel caso di Marrocco, tuttavia, sarebbe assai più appropriato parlare di opere nella carta, con la carta. Non tanto per pignoleria tecnica e didascalica, ma per comprendere la qualità intrinseca di questi lavori, la loro genesi e il loro statuto. Marrocco ha un approccio alla pittura molto selettivo e distillato. È davvero, per lui, un “fare l’opera”, ovvero attuare, per usare l’espressione di Henri Focillon, un “tentativo verso l’unico” che “si afferma come un tutto, come un assoluto, e, nello stesso tempo, appartiene a un sistema di relazioni complesse”. Esiste un presupposto fondamentale di unicità, nella prova pittorica, e da subito un aroma d’assolutezza. A tale momento di concentrazione e di necessità Marrocco giunge attraverso una pratica quotidiana, laboriosa e fervida, che è tutta della carta, e che è il fil rouge della sua stessa idea del fare in arte. Il foglio, è noto, è materia confidente e complice, cui affidare gli estri e le intuizioni, in cui saggiare le temperature del pensiero e della mano; è, per evocare la lettera celebre di Machiavelli, la “veste cotidiana” rispetto ai “panni reali e curiali” della pittura: la quale è comunque liturgia, momento autorevole e alto. In quanto abito ordinario del fare, la carta consente invece anche l’eccesso, l’esperimento, le dismisure piccole e grandi della prova. Che sono, poi, la natura istintiva di Marrocco, il quale nel proliferare, nella seriazione fitta e intensa delle carte fa aggallare liberamente, e poi verifica e decanta ciò che il suo temperamento, assai più sensuoso e tattile di quanto non appaia alla prima, e assai più visionario e nomade di quanto la disciplina ferrea della tela lasci intuire, detta. Alcune ricorrenze appaiono tipiche della sua pluridecennale pratica d’atelier nella carta, la quale solo raramente sinora – ed è stato un peccato – ha goduto dell’onore di pareti espositive. In primo luogo figura la questione del segno. Resa definitiva la propria scelta non oggettiva, Marrocco fa del segno non una qualità enunciativa ma interrogativa, un darsi e fluire il quale da se stesso trovi ragioni di senso, e di spazio. È, verrebbe da dire, piuttosto un segnare, un atto di trasferimento anche fisico d’energia (di “energia pura libera di scattare” ha ben scritto Massimo Bignardi), in cui svolge un ruolo importante, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del millennio nuovo, anche la rievocazione non banale da parte dell’artista della cultura incisoria. Il segno breve e ordinante, d’umore organico, stabilisce una sorta di dominante di tenebra, in cui spadroneggia il noir couleur, e una spaziosità come ansiosa, in cui sono possibili apparizioni. Altrimenti il segno si declina ispido e urgente, divaga per fremiti, s’incide e graffia, oppure si spossa in soliloquio mormorante, come per accenti posti a cadenzare una blankness tutta affettiva. Il segno non decide mai tuttavia, né ora né in seguito, gli statuti di spazio e immagine. Così come sostanze diverse di segno si attuano nel medesimo processo, e nel loro collidere fervido attivano inneschi di senso, così Marrocco sempre si manifesta riottoso – per tensione critica e analitica – ad accogliere gli statuti unitari della superficie, la rettangolarità ordinaria del supporto. una mostra una mostra “Nel buio la luce rivela come per Caravaggio il momentodella Emilio Scanavino, Scultura, 1968, sabbia e uova in terracotta smaltata, dimensioni variabili 36 37 EMILIO SCANAVINO Emilio Scanavino, Senza titolo, 1978, acrilico e matita grassa su cartoncino, cm. 70x99,5 Nascenza, Palazzo delle Stelline, Milano E’ una mostra che sorprende quella di Emilio Scanavino (19221986) alla Fondazione Stelline di Milano. E lo stupore non sta nel constatare il valore e la forza della sua ricerca artistica, oramai incontrovertibile e assodata, anzi da tempo inserita a buon titolo nell’olimpo dell’Informale, ma nel percorso che Elisabetta Longari ha sapientemente composto per farci cogliere aspetti e intuizioni (formali e tematiche) fino ad ora nascosti o tralasciati. Vediamoli. Nella selezione di disegni, tutti inediti e realizzati tra il 1961 e il 1978, si rintraccia il suo inconfondibile segno, graffiante come il filo spinato e incisivo come i lemmi di un alfabeto, ma anche un’inaspettata germinazione di punti, tratti e cerchi che fecondano lo spazio e promettono nuova vita. Ciononostante, “nascenza” è di fatto un atto potenziale, una possibilità, attuabile solo in condizioni adatte e per Scanavino, figlio di una generazione che allo scoppio della guerra non aveva nemmeno vent’anni, che ha saputo raccontato la vita come il mistero dell’origine (“Quando dipingo racconto l’anima dell’uomo”, diceva) ma anche come l’enigma della fine, per lui nascere non è una risposta, ma una domanda. E su questo tema si intrecciano anche le diciassette sculture, tutte datate tra il 1959 e il 1969 e di rado esposte prima, che rendono l’idea del vasto campionario materico utilizzato dal Maestro: bronzo, ceramica smaltata, gesso, terracotta, legno… . Sono uova mai schiuse, gusci abbandonati e senza più un nido, semi avvizziti o embrioni di volatili abortiti dalle radiazioni atomiche di Hiroshima; sono geometrie imperfette, malate e rattoppate: quadrati e angoli di legno, tenuti insieme da spaghi annodati come gli attrezzi di un naufrago; sono vertebre di bronzo, ma nate da pugni di materia strizzata e messa ad asciugare come fanno i bambini sulla spiaggia e tuttora conservano intatte le impronte delle mani che le hanno generate; o, ancora, germogli dorati che si affacciano da zolle annerite o da baccelli carbonizzati. Le forme silenti e immobili dialogano con bianchi siderali, neri profondi e attoniti, superfici opache e pensose, scevre di qualsiasi bagliore perché capaci di assorbire e filtrare la luce (anche quando sono d’oro) come i ciottoli al sole. Il tempo, solitamente così zelante, davanti a quelle presenze archetipiche e primordiali sembra essersi annullato, anzi sospeso. “Mi portavo appresso un senso di morte, cercavo di capire la morte”, avrebbe detto molto tempo dopo. Eppure la morte non è la realtà ultima. Non può esserlo. Altrimenti non avrebbe senso quella dimensione metafisica e spirituale che si coglie in ogni sua opera e che per un attimo fa dimenticare la materia nel tentativo di afferrare e svelare quell’enigma che è alla genesi del mondo: “La continua messa a morte del reale che è la vita, frutto di un momentaneo equilibrio tra forze opposte – ha scritto Elisabetta Longari - ben rappresentate dalla presenza di forme geometriche in relazione con forme organiche, sembra essere il vero soggetto dell’opera di Scanavino”. Emilio Scanavino, Geometria malata, 1967 legno e corda, cm. 54x5x3,5x54 (foto Jurgen Becker) Emilio Scanavino, Scultura, 1968, bigoli in terracotta smaltata e uovo dorato a terzo fuoco, dimensioni variabili una mostra una mostra Di Lorella Giudici IN VINO VERITAS A cura di Marianne Wild Arte Contemporanea UnicA Torre di Porta Gabella Ripa Teatina / Chieti Enrico Bafico Marco Cingolani Enzo De Leonibus Franco Fiorillo Gaetano Grillo Igino Iurilli Paolo Lunanova Nicola Maria Martino Giuseppe Sylos Labini Nicola Maria Martino Tzimtzum Paolo Lunanova Di Nicolas Martino 39 Marco Cingolani Iginio Iurilli Ciò che vale per il vino nelle società postmoderne vale anche per il cinema, per la letteratura e per l’arte. Il fallimento dell’utopia delle avanguardie e delle neoavanguardie ha esaurito la parabola del modernismo rivelando l’opera d’arte nella sua essenza come merce tra le altre. Rivelandola anzi come la merce modello, un prodotto perennemente obsoleto, il cui unico interesse risiede nelle sue astratte trovate tecnico-estetiche e il cui solo uso consiste nello status che conferisce a quelli che ne consumano la versione più recente. Anche qui la sussuzione del lavoro artistico e culturale nella rete produttiva del capitalismo ha comportato una domesticazione generalizzata. L’opera d’arte è un gadget di lusso che risponde a un protocollo predeterminato dal sistema globale dell’arte. Produce capitale simbolico e distinzione, ma dev’essere facile, divertente, ben confezionata, curiosa forse, mai dissonante però, perché non sorprende né disorienta mai davvero. Risponde a un gusto internazionalmente omologato, a uno sguardo colonizzato e addomesticato. In fin dei conti è di questo che parla La grande bellezza di Sorrentino: se la merce ha colonizzato anche lo sguardo, se l’antropomorfosi del capitale è compiuta, allora non potrai vedere Roma se non come una cartolina turistica, non potrai che rappresentarla come uno spot pubblicitario. Ora anche l’artista è diventato spettacolo, merce che contempla sé stessa. possibile aprire brecce, produrre incidenti, resistenze e bruciature. Come per il vino anche per l’arte... Prima del moderno l’artista coincideva con l’artigiano e il suo contrassegno era l’anonimato come nella cultura bizantina. L’ascesa sociale dell’artista, la nascita dell’artista moderno, andrà invece di pari passo con l’imporsi del nome proprio e col suo graduale emanciparsi dal monopolio corporativo. Mentre nel caso dell’artigiano il valore estetico faceva tutt’uno con la perizia del mestiere, con la padronanza tecnica, nel caso dell’artista il valore estetico diventa un plusvalore sovrapposto alla perizia tecnica e alle regole tramandate. L’opera d’arte è definita dal segno di un genio individuale come in Giotto, il traditore, il primo che dicendo Io ha inaugurato lo spettacolo moderno dell’arte. Il nuovo status sociale dell’artista troverà man mano un riscontro sociale con la diffusione del genere letterario delle biografie culminato nelle Vite di Giorgio Vasari. L’artista è diventato un creatore, la prerogativa essenziale del Dio cristiano è stata trasposta sul piano della produzione artistica conferendo al manufatto un alone prestigioso. Ma questa assunzione di una prerogativa divina ha fatto dell’artista il prototipo del soggetto moderno, l’individuo «artefice della propria fortuna». L’artista è quindi una figura essenzialmente moderna, e ancora di più, una vera e propria metafora della modernità. Il processo di emancipazione del soggetto moderno, che trova in Cartesio la sua sanzione metafisica, è completo: il soggetto moderno è l’artista. Pronto, dopo la secolarizzazione e il fallimento delle utopie rivoluzionarie del Novecento, a essere sussunto dal capitalismo semiotico. Eppure anche qui non tutto è perduto, nel tessuto del capitale è sempre Come liberarsi dunque dal doppio legame che incatena l’arte e Gaetano Grillo Enzo De Leonibus l’artista, come sciogliere il nodo di gordio che lega il moderno al postmoderno? Perché, ricordiamolo, il postmoderno nelle sue diverse formulazioni è, avrebbe detto Michelstaedter con la sua splendida metafora, un peso agganciato al moderno e non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Nel 1974, mentre cominciava a prendere forma il mondo attuale, Jacques Camatte ci invitava ad «abbandonare questo mondo in cui domina il capitale divenuto spettacolo degli esseri e delle cose». Ma come? E ome sottrarsi alla colonizzazione dello sguardo e del gusto e alla loro domesticazione? Un’indicazione suggestiva ci viene da un’antica parola ebraica, Tzimtzum, che significa ritrazione o contrazione, e sta a indicare l’atto d’amore con cui Dio, al momento della creazione, si è ritirato per far posto al mondo. Ecco, allo stesso modo l’artista, con un atto d’amore, deve ritirarsi e rinunciare alla sua identità forte di artista, nella sua versione moderna e, contemporaneamente, in quella simulacrale e manierista postmoderna. Se Dio si è ritirato per far posto al mondo, l’artista deve ritirarsi per far posto all’opera. A opere che non saranno più tutte unite nel segno dello spettacolo e della domesticazione, ma tutte uniche come quelle esposte qui che sorprendono e annunciano il tempo a venire, quando l’opera verrà restituita alla sua dimensione collettiva, sarà opera di tutti e per tutti nella costruzione di uno spazio comune dell’abitare. Se sapremo rompere l’incanto della domesticazione e della colonizzazione del gusto e dello sguardo, allora davvero verrà il tempo della profezia paolina e «l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte». una mostra una mostra 38 In vino veritas recita il titolo di questa mostra. Ed è vero, perché nel vino è la verità del capitale. Già, perché da quando la produzione viti-vinicola è stata sussunta nel processo di valorizzazione del capitale, il valore estetico del vino è sempre più espressione del valore economico e del potere. Se vendi vali, e per vendere devi costruire un prodotto rassicurante, facile, divertente, ben confezionato e opportunamente addomesticato. Ed è proprio questa la verità del capitale, la domesticazione del gusto e della dimensione estetica, la riconfigurazione progressiva dell’intera sensibilità umana. L’enologia insomma è diventata l’impianto che trasforma il vino in spettacolo, in una società dove, lo aveva intuito l’intelligenza visionaria di Debord, tutta la vita si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Questo è il vino al tempo della sua «riproducibilità tecnica» e del marketing, per dirla con il filosofo e cantiniere Michel Le Gris. Eppure non tutto è perduto, anzi... Andate a vedere il bellissimo documentario di Jonathan Nossiter, Resistenza naturale, presentato quest’anno alla Berlinale, e scoprirete che una rivoluzione sta scuotendo il mondo del vino, che alcuni coraggiosi poeti della terra, qui come altrove, hanno organizzato una gioiosa insubordinazione estetica e producono degli straordinari vini dissonanti e sorprendenti. Caterina ARCURI Respiro silente Museo FRAC, Baronissi La mostra si articola in tre “spazi” della galleria dei Frati, nei quali l’artista struttura un dialogo tra installazione e video: Fonti, 2013, un’installazione ambientale composta da sei elementi posizionati a pavimento, di recente presentata nella personale allestita alla galleria TRAleVOLTE, di Roma; nell’area centrale del corpo longitudinale sono collocati tre schermi con la proiezione dei video Nella luce (2014, 5’), Genesi (2011, 4’), Oltre il confine (2008, 4’). Infine nella sala laterale lavori sull’elemento acqua, terra, fuoco, di cui due a parete, Mater, Origine, e due sculture, Natura, opere del 20122013. L’allestimento, afferma l’artista vuol essere «una costruzione di elementi fisici, psichici, geometrici, in un viaggio di ascesi per raccordarsi al divino...». «In fondo – osserva Massimo Bignardi – i corpi plastici che l’Arcuri propone in questa antologia di lavori recenti che appartengono agli ultimi cinque anni, dichiarano una libertà che ha ormai lasciato alle spalle l’amarezza della solitudine, il diario intimo della memoria, fil rouge di Genesi un video del 2011. Sono opere con le quali si è infatti spinta al di là di quella soglia che solo apparentemente aveva varcato quando, negli ultimi secondi di Oltre il confine (video del 2008), si era lasciata inghiottire dalla luce». In Fonti, rileva Paolo Aita «il corpo diventa spazio. Come prima c’è stata la presentazione tramite elementi simbolici e corporali della femminilità, oggi c’è una sensibilizzazione dello spazio che, invece di essere rappresentato come una mappa, viene trattato alla stregua di un archivio di segni obliati di una condizione dolorosa, per fortuna ormai superata. Dietro ognuna di queste opere/ sovrapposizioni occorre leggere il tentativo di conquistare una verticalità, una tettonica, del tutto estranea alla corporeità femminile, e che questa addomestica con i suoi sistemi. Infatti lo specchio ci ricorda continuamente chi siamo e da dove veniamo, con una considerazione auto-analitica estremamente realistica della propria condizione, contro l’aggressività maschile che tenta continuamente una annessione cieca dell’esterno». In occasione della mostra è stato pubblicato, dalle edizioni del MuseoFrac il catalogo monografico Caterina Arcuri. Respiro silente, con testi di Paolo Aita e Massimo Bignardi, con apparati biografici e bibliografici ed un corredo illustrativo a colori e in bianco e nero. * Caterina Arcuri è nata a Catanzaro, dove vive e opera. Ha compiuto studi artistici e musicali (Accademia di Belle Arti e Conservatorio di musica). È docente di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. PAOLO LAUDISA La melanconia come pittura Galleria Ninni Esposito, Bari Di Pietro Marino Torna a Bari con una personale, dopo cinque anni, Paolo Laudisa, il noto artista barese che vive a Roma. Lo ritroviamo con un ciclo di dipinti recenti e inediti, ispirati fin dal titolo “Melancholia” ad un film 2011 di Lars Von Trier: dove una storia di relazione amorosa tormentata si svolge nel contesto di un’attesa cosmica di collisione della Terra con un pianeta chiamato appunto Melancholia. Tema ovviamente inquietante – come tutti i film del celebre regista danese, per di più afflitto da crisi depressiva. Ma come si sa “l’humor nero” è motivo, psicologico e filosofico, che ha lunga tradizione in letteratura come in pittura, a partire dalla famosa incisione di Durer. La tonalità che assume il sentimento malinconico nelle tele di Laudisa non si tinge però dei colori della tristezza o del pessimismo. La sua pittura si affida da sempre all’espressività del minimalismo cromatico, con stesure larghe di colori primari, il blu, il rosso, il giallo. Privilegiando, il Blu – colore “spirituale” per eccellenza – sin dai tempi in cui dichiarava il suo omaggio a Yves Klein. A conferma che la scelta di campo per un’arte “astratta” non muoveva da purismo formale. Elaborava il lascito della kandinskiana “necessità interiore” contaminandola con la cultura del gesto postinformale. Con i grumi di materia, i residui frammenti oggettuali inseriti nella tela, a designare un altro “omaggio”, reso a Carmelo Bene. Ora, dal film di Von Trier il pittore desume un sentimento, o presentimento, di meditativa attesa che dalla crisi cosmica sfinisce 41 in metafora di stato d’animo universale, Zeitgeist, “spirito del tempo”. La sua pittura ora gioca di fino su campi con trasparenze e velature, s’indovinano vaghe sinopie di presenze aliene, disegnini di astronavi, macchie come meteoriti. Ma soprattutto si aggruma in vortici di colore o per cracquelers (alla Burri) il disco di un astro o pianeta, in arrivo o ascesa. Non necessariamente minaccioso o apocalittico, come rassicura una grande tela che si distende in giallo di luce solare. Piuttosto in sospensione ambigua, condizione della precarietà e fugacità del moderno. Ma consolata dalla serenità sublimatoria della pittura. *(Gazzetta del Mezzogiorno) una mostra una mostra 40 Curata da Massimo Bignardi, è stata inaugurata la mostra personale “Respiro silente”, dell’artista C at e r i n a A r c u r i , promossa in collaborazione con la cattedra di Storia e fenomenologia dell’arte contemporanea della Scuola di Specializzazione in Beni Storico Artistici dell’Università di Siena. Il Museo-Frac con questo nuovo appuntamento riapre il dibattito su esperienze attuali e lo fa’ «con un’artista della grande area mediterranea, una terra magica che respira l’anima profonda della sua storia – sottolineano Giovanni Moscatiello sindaco di Baronissi e Maria Pia Marotta assessore alla cultura. Caterina Arcuri, con le sue capacità di intervenire negli spazi, negli ambienti espositivi, si fa interprete di una nuova riflessione sulle domande che la donna oggi pone e si pone rispetto alla realtà». Pratica medica, pratica artistica: Santi Medici tra arte e medicina. Torrione Angioino e Chiesa di San Giorgio, Bitonto Rosario Genovese Alpha/Beta 42 Ae Aquarii A + B, 2014 A - Supporto ligneo, acrilico e matita su tela; B - Supporto ligneo, acrilico e matita su stampa diretta inkjet UV su tela cm. 170 x 85 Museo Permanente d’Arte Moderna Le Vite, Catania. A cura di Giuseppe Frazzetto A cura di Elena Cantarella Chi è l’artista? L’artista è un “genitore consapevole” che si prepara all’evento della nascita. Quando inizio una nuova opera, la progetto, studio il soggetto, decido la tecnica, preparo i supporti, penso a come collocarla in una mostra. All’inizio i suoi dipinti rappresentavano scorci di città, poi la sua attenzione si è spostata allo spazio. Un giorno iniziai a guardare l’universo. Rappresentai il sole, le galassie e le costellazioni tenendo conto di tutti i rapporti tra le stelle, del mito e dell’etimologia dei nomi. I supporti divennero circolari. Tra pochi giorni verrà inaugurata la sua personale Alpha/ Beta. Corrispondenze. Cosa racconta di nuovo? Le mie opere continuano a parlare dell’Infinito. Questa volta attraverso dittici circolari modulati diversamente in dimensione e superficie. Purtroppo i locali della mostra non mi permetteranno di installare le tele secondo le distanze in scala, così ho optato per un’esposizione lineare. Come nasce l’idea di queste opere doppie? Nasce da stelle chiamate doppie binarie a contatto, astri gemelli che condividono massa ed energia e che nel tempo acquisiscono peculiarità proprie. Quindi non si tratta di immagini perfettamente speculari. Nulla in natura è identico. Per questo la mostra parla di corrispondenze e non di uguaglianze, anche se è proprio nel cercare le uguaglianze che trovo le varianti. Alpha e Beta nascono dal tentativo di renderle identiche: inizio stendendo su una tela un impasto cromatico, poi la fotografo e faccio stampare la foto su un’altra tela che viene montata su un telaio identico. Ho così i miei due gemelli su cui agisco contemporaneamente ma trasmettendo la mia energia con grado differente, andando avanti e indietro fino a che le opere sono complete. Come nascono le immagini che popolano le sue stelle? Nascono da un colore magmatico dove centinaia di anime vogliono emergere; io fisso col disegno quelle che realizzano il mio intento che racconto in dei componimenti poetici che creo prima e durante l’esecuzione. Le sue opere hanno un valore comprensibile solo se se ne conosce la genesi. Cosa vi vedrà l’osservatore inesperto? Mi piace pensare ai miei quadri come a delle opere aperte, dove si potranno vedere anche quelle immagini rimaste nascoste nel colore e a cui non ho dato forma. Beppe Sylos Labini 43 una mostra una mostra Si inizia in una Catania assolata, lungo la passeggiata che dall’Accademia di Belle Arti conduce al suo studio nella vicina via Plebiscito. “Mentre giro la chiave nella serratura”, dice Genovese “penso a quel che vedrò, a quel che ho fatto e a quel che farò”. Nella sua voce si avverte un’emozione rinnovatasi giornalmente in decenni di attività artistica. Entriamo. I colori aleggiano come se fossero profumi; quadri, sculture, telai in preparazione e attrezzi del mestiere abitano le due stanze dello studio lasciando intuire la passione e la disciplina di un artista che ha veramente cura delle proprie cose. Magda Milano Pratica medica, pratica artistica: Santi Medici tra arte e medicina Unire il culto dei Santi Medici, la riflessione critica sull’attuale professione medica e la pratica artistica contemporanea è stato l’impegnativo compito cui non si è sottratto il curatore Vito Caiati, coadiuvato dall’artista Magda Milano, nell’ideazione e nella realizzazione della mostra “Santi Medici tra arte e medicina”, patrocinata dalla Fondazione Santi Medici di Bitonto (BA) e dall’Accademia di Belle Arti di Bari, che ha trovato spazi ospitali nella città dei Santi Medici, Bitonto appunto, tra il Torrione Angioino e la Chiesa di San Giorgio. Ma alle tre coordinate della mostra si sono ben adattati anche i 35 artisti e i 14 studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bari con opere nate per lo più per l’occasione. Sul fronte artistico ai Santi Medici dedicò molti dipinti Beato Angelico, il quale colse con una pittura straordinaria per qualità gli aspetti più intimi, ma anche più spettacolari, della miracolistica legata a Cosma e Damiano. Nell’immaginario collettivo, probabilmente, oggi i “Medici senza frontiere” hanno surclassato i Santi Medici. Ed è comprensibile in una società sempre più secolare, sempre più multietnica, sempre più globalizzata la sostituzione all’iconema sacro, in vigore da svariati secoli sia in Oriente sia in Occidente, dell’iconema laico. Confrontarsi con il tema del sacro che cura, o meglio con i risvolti psicologici dell’auto-guarigione grazie al medico ideale che si prende cura del malato più che curare la malattia (l’I care inglese), sono i presupposti storico-teorici della mostra, e sono dei presupposti con cui non era facile confrontarsi per molte ragioni. Bisogna dire che la rassegna non solo ha retto il confronto, ma ha molto favorevolmente stupito. Partendo dai più giovani, essi, come scrive il docente della I Cattedra di Pittura dell’Accademia barese, Fabio Bonanni, hanno vissuto e metabolizzato l’esperienza del confronto con il racconto agiografico, secondo “non un’arte sacra, ma un’arte non indifferente al sacro” con “formule di originalità e di trascendimento dei luoghi comuni”. Da segnalare i lavori di Crisa, Annalaura Cuscito, Chiara Gatto, Antonio Prima: se mostre come questa, secondo quanto scrive il direttore dell’Accademia, Giuseppe Sylos Labini, sono un “osservatorio di espressioni creative”, sui giovani artisti citati allevati nel vivaio barese, vi sono già gli occhi della critica e dei galleristi, avvalorando il fatto che le Accademie – e Bari vive un momento felice – “sono parte determinante e fondante del sistema dell’arte”, come giustamente rileva Sylos Labini. Riguardo ai 35 maestri, il livello dei nomi e delle opere esposte è stato di qualità. Vi è stata come una gara a dare il meglio di sé da parte di ogni artista, che si è rapportato con la propria esperienza al tema della mostra. Il tema è stato, afferma il curatore Vito Caiati, il “recinto di senso in cui si invitava l’artista ad abitare con la sua libertà creativa e con la sua opera. Questo recinto era ed è quello sacro, segnato dai nostri due Santi che, per questo, anche a livello subliminale si sono affacciati in ogni opera attraverso un linguaggio simbolico”. Il riferimento all’immagine votiva, quando c’è stato, è stato adoperato sotto forma di citazione, parafrasato, ironizzato (in Agrimi, Carmentano, D’Orazio, Foti, Giancaspro, Labianca, Liberatore, Lisi, Mezzina, Monticelli & Pagone, Patruno, Quarta, Sivilli, Speranza, Suppa, Sylos Labini, Tarshito). Per alcuni preponderante è stato il riferimento al gesto che cura, secondo un’impostazione etica dell’arte (in Caputi, Cetera, De Gennaro, Fioriello, Mitolo). In altri casi la componente simbolica è risultata preponderante (Bonanni, Cicchelli, Corazziari-Malerba, Corbascio, Di Terlizzi, Fiorella, Grillo, Liuzzi, Lunanova, Maggiulli, Martino, Milano, Quida). Per tutti, probabilmente la mostra è stata l’occasione per una riflessione profonda sul fatto che l’arte è punto di contatto fra l’artista e dio, quel dio che, secondo il curatore della mostra, è immanente alla persona: riconoscere questa presenza – artisti e non – porta sulla via della guarigione, curando le discrasie interiori di cui le malattie non sono che i sintomi. Giusy Petruzzelli Scenamadre di grafica editoriale e quindi ci possiamo permettere di progettare pubblicazioni eleganti, funzionali alla didattica e a una prezzo decisamente abbordabile, tanto più nella fase di crisi che stiamo tutti attraversando. Inoltre abbiamo utilizzato il metodo che negli ultimi anni ha fatto sì che l’intera istituzione abbia la possibilità di viaggiare con una marcia in più: il lavoro di gruppo e il coinvolgimento nelle progettualità degli studenti, il che ci porta a valorizzazione le nostre eccellenze mettendole in rapporto con il mondo del lavoro. modelli per una storia dell’architettura scenica Il lavoro ospitato dal 26 ottobre 2013, ricostruisce un particolare aspetto della storia del teatro: quello dell’architettura teatrale, della scenografia e della scenotecnica indagati coi mezzi del disegno e delle videoinstallazioni. Ma soprattutto della ricostruzione plastica, del tradizionale modellino costruito e dipinto e il più delle volte anche animato grazie alla riedizione dei meccanismi, che unica può riattualizzare la realtà di una storia dello spettacolo troppo spesso analizzata coi soli perciò parziali mezzi del linguaggio scritto e parlato. Quando la sua espressione originale, la sua idea-azione, nasce e si articola coi segni dell’arte e della ingegneria teatrale. Che sono spaziali e visivi, prima che parlati e scritti. Come si struttura la collana? L’editore, di concerto con il comitato editoriale della collana, ha programmato per quest’anno l’uscita dei primi quattro volumi: New Ritual Society. Consumismo e cultura nella società contemporanea, di Gianpiero Vincenzo (già nelle librerie);Harald Szeemann, L’arte di creare mostre, di Ambra Stazzone; Network di Babele. Videogiochi, scatole blu e altre storie tecnologiche, di Giuseppe Frazzetto; La cultura del progetto grafico. La grafica di pubblica utilità in Italia, di Gianni Latino. I primi tre volumi potrebbero essere tutti già stampati per la Fiera del Libro di Torino, il prossimo maggio, dove sarò presente insieme agli autori. L’anteprima di Scena Madre al Castello di Racconigi presenta circa 40 plastici di grandi dimensioni (su un totale realizzato di oltre 70) di progetti teatrali, scenografici e scenotecnici, corredati da copie dei disegni o da ricostruzioni. Una originale e ampia carrellata storica internazionale, dal teatro della Grecia classica al ‘900; completata da un inedito collage composto da spezzoni di film: l’idea che la modernità si è fatta di una storia nata con l’uomo e la sua ritualità. 44 * Gianpiero Vincenzo (Napoli, 1961) è docente di Discipline sociologiche all’Accademia di Belle Arti di Catania. Il progetto è una creazione del Corso di Scenografia e Scenografia a indirizzo teatrale dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino (Prof.ri Piasentà, Voghera ed Esposito, e prima del Prof. Coffano, con tutti i loro studenti degli ultimi cinque anni), con la collaborazione della Cattedra di Scenografia a indirizzo cinetelevisivo, per il montaggio filmico (dei Prof.ri Ajani e Costagliola) che si ringrazia, congiuntamente alle realtà territoriali che hanno reso possibile la ricerca e la realizzazione dell’esposizione. Primi fra tutti l’Ente ospitante: il Real Castello di Racconigi, Direzione Regionale della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Torino, Asti, Cuneo, Biella e Vercelli; il Teatro Stabile di Torino, con il suo Centro Studi e il Teatro Carignano e la Regione Piemonte, che ha finanziato gran parte dell’iniziativa. Ricostruzione del Teatro Carignano secondo il progetto di Benedetto Alfieri, Torino 1752. Spaccato longitudinale sulla sala e il palcoscenico. Dimensioni cm. 250X130X120 h. 45 Gianpiero Vincenzo NEW RITUAL SOCIETY Dal 20 marzo sarà in distribuzione presso le librerie italiane il primo volume della collana di saggi ricercainaccademia, Fausto Lupetti editore Bologna-Milano. Intervistiamo il direttore Virgilio Piccari in relazione a questo nuovo progetto dell’Accademia di Belle Arti di Catania. Perché questa collana? Perché le accademie italiane sono molto cresciute negli ultimi dieci anni, prima tra tutte quella di Catania. Non solo numericamente ma anche come capacità progettuale e di ricerca. Mancava però una collana di saggi che documentassero questa crescita, raccogliendo gli studi più significativi prodotti dalle nostre istituzioni. Abbiamo realizzato quindi una partnership con Fausto Lupetti, editore particolarmente attento al mondo della ricerca sul contemporaneo. Le accademie sono sempre più vicine alle università, quindi? Lo sono ormai da dieci anni, da quando le due riforme “gemelle” 508 e 509 hanno avviato il processo del loro riordino fino a sancire l’effettiva equiparazione dei titoli di studio rilasciati da università e accademie. Ma, ovviamente, noi manteniamo, e siamo fieri di questo, la nostra specificità. La nostra ricerca, così come conseguentemente la nostra didattica, è rivolta a contenuti di grande attualità spesso non ancora indagati in ambito universitario forse perché spesso ci inoltriamo in ambiti ancora “in costruzione”. Ma questa per noi è la sfida…questo è il nostro modo di lavorare… La veste grafica si differenzia molto, però, dalla media delle pubblicazioni universitarie. Confrontarsi non vuol dire omologarsi, ma sviluppare le proprie peculiarità, le proprie ricerche. Inoltre, noi abbiamo un’ottima scuola libri scenografia all’albertina Una collana dell’Accademia di Catania? Diciamo un progetto che parte da Catania. Pensiamo, infatti, di invitare anche altre Accademie a partecipare alla collana, proponendo la pubblicazione delle ricerche più significative da pubblicare a partire dall’anno prossimo. In occasione della mostra di Pietro Coletta alla Fondazione Mudima di Milano, è stata pubblicata una monografia a cura di Luigi Sansone dal titolo “Nel segno del fuoco”. Un volume di 180 pagine con testi di: Gianluca Ranzi, Gillo Dorfles, Luciano Caramel, laudio Cerritelli, Martina Corgnati, Fabrizio D’Amico, Andrea B. Del Guercio, Flaminio Gualdoni, Elisabetta Longari, Cristina Muccioli, Gabriele Perretta, Elena Pontiggia, Luigi Sansone, Arturo Schwarz, Francesco Tedeschi, Salvatore Veca e note biografiche di Matteo Zarbo. 46 47 Roberto Zanon MAIMERI, un’azienda, un mondo di colori Verso il design libri *Roberto Zanon, architetto, insegna Design all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Per i tipi della Cleup ha pubblicato, tra gli altri, i volumi: Allestimento per la moda (2003), Scenografie di moda (2006), Contesto, suggestioni percettive (2009). Titolo: Verso il design. Appunti per uno sviluppo critico ISBN:9788867871391 Collana: Ingegneria civile e architettura Autore: Roberto Zanon Prefazione: Aldo Cibic Illustrazioni: Marta Naturale Edizione: 2013 Editore: CLEUP, Padova Numero pagine: 266 Prezzo: €18.00 Sostieni la nostra rivista con il tuo abbonamento individuale all’edizione online, costa solo 20 euro l’anno e ti offre tante opportunità, non ultima la possibilità di scaricare gratuitamente tutti i pdf dei numeri pubblicati sin’ora; potrai consultarli quando vorrai ed eventualmente stampare solo gli articoli che ti interessano. www.academy-of.eu digita e segui le indicazioni che troverai nella casella lampeggiante “abbonati”. Tradizione e innovazione sono gli elementi distintivi che hanno sempre caratterizzato Maimeri e, negli ultimi anni, i continui studi del laboratorio di ricerca e sviluppo hanno permesso l'introduzione di nuove gamme di colore. Oggi,di fronte alle esigenze dettate dalla concorrenza internazionale, Maimeri ha ampliato ulteriormente i propri impianti, in previsione delle crescenti sfide incui si troverà nei prossimi anni. In tal modo, partendo da piccolo laboratorio artigianale negli anni venti, l'azienda è riuscita a conquistare un suo preciso e ambito spazio nel mercato nazionale e internazionale dei prodotti per Belle Arti. L'area attualmente occupata dalla struttura e dai servizi dell'azienda ha raggiunto gli 11.300 mq ed il magazzino, costituito da un edificio apposito, consente un efficace sfruttamento delle nuove tecnologie informatiche applicate alle operazioni di immagazzinaggio e spedizione. La produzione dell'azienda si dimostra attuale, efficiente e perfettamente funzionale alle esigenze di qualità, quantità e servizio volute dal mercato. Da alcuni anni la nostra rivista, che è distribuita nelle Accademie di Belle Arti in Italia, ha avviato una solida forma di collaborazione con l’azienda MAIMERI che stimiamo per l’operosità e per la serietà con cui lavora. Gianni Maimeri porta avanti la tradizione ma guarda anche all’innovazione conducendo l’azienda non solo nella conquista di nuovi mercati internazionali ma anche investendo nella ricerca per interpretare sempre più lo spirito del nostro tempo e per produrre colori che siano in sintonia con la pittura e la creatività delle istanze contemporanee. Abbiamo organizzato insieme il Primo Premio Maimeri riservato agli studenti delle Accademie, abbiamo pubblicato degli editoriali per far conoscere la storia e la filosofia di questa azienda, tutta italiana, della quale andiamo orgogliosi e cerchiamo di veicolare come possiamo fra gli oltre venticinquemila studenti che frequentano le accademie italiane. Questa volta non vogliamo raccontarvi altro che non sia già raccontato ed evocato dalle immagini fotografiche di particolari delle fasi di produzione dell’azienda. Buona visione! mondo colori maimeri Nel mare magnum che è il mondo del design attuale, il testo si propone di essere propedeutico e offrire degli stimoli e dei punti di riflessione nell’ambito del progetto degli artefatti. Una concatenazione di considerazioni strutturate e circostanziate che toccano aspetti storici, percettivi, semantici, compositivi della disciplina del design avendo come finalità la costruzione di una conoscenza critica nei confronti del mondo tridimensionale. Le valutazioni sono spesso anche il pretesto per citare dei prodotti-icona che permettano di focalizzare l’attenzione su aspetti determinanti nella formazione di un progettista. mondo colori maimeri mondo colori maimeri 49 48 mondo colori maimeri mondo colori maimeri 51 50 mondo colori maimeri mondo colori maimeri 53 52 Il mondo di TARSHITO L’incontro fra Oriente e Occidente, fra il materiale e lo spirituale, fra l’individuale e il collettivo, fra utopia e progetto, sognato e perseguito da Tarshito per oltre trent’anni ha ora nel Villaggio di via Torre di Mizzo la sua cittadella. PIETRO MARINO 55 luoghi d’arte luoghi d’arte 54 Mi rinviano indietro nel tempo le due parole traforate sul cancello che si spalanca per accogliermi dopo un breve viaggio di iniziazione. Giungere dal centro di Bari sino allo svincolo per l’IKEA era stato agevole, ma poi non bisognava cedere alle lusinghe consumistiche dell’insegna svedese, e proseguire per una strada buia che portava alla stazione di Mungivacca, abbandonata e silenziosa come in quadro di De Chirico. E per un momento non sapere più dove andare, poi indovinare un vicolo sulla fiancata dell’edificio. E inoltrarsi con qualche patema sino ad un lampione rosso lampeggiante su un binario, come ad avvertire del pericolo di arrivo di un treno fantasma. E passare più alla svelta possibile, per andare incontro ad un altro muro. E lì ancora intravedere lontano sulla destra, come un miraggio, la curvatura alta di un edificio bianco allucinato nella notte da un faro, effetto Taj Mahal. Ed è qui, sulla soglia del villaggio che l’artista-designerarchitetto-guru ha realizzato ai margini della cinta urbana di Bari, che la favola del viaggio di iniziazione finisce e da quella parola a sorpresa, Speciale, si riapre una storia. Non posso ora fare a meno di ricordare quello spazio d’incontro (un po’ laboratorio, un po’ showroom) che così si intestava – Speciale, appunto - aperto in corso Vittorio Emanuele da due giovani che si facevano chiamare Tarshito e Shama. Pareva un omaggio alla moda “arancione” dell’India che possedeva una generazione in fuga dalla delusione dei Settanta, gli anni di piombo. Nicola Strippoli da Corato ci era andato nel 1979, per “sete di conoscenza interiore”. Questo significa in sanscrito il nome che assunse dopo aver incontrato a Pune il santone Osho. E m’intrigò molto allora questo iniziale offerta di connubio tra vago spiritualismo asiatico e le prove di design radicale che per la prima volta a Bari venivano proposte da Speciale, con Mendini, Dalisi, Marano, Lovi, e naturalmente Gianni Pettena che era stato il maestro di Nicola Strippoli nell’Università di Firenze. E poteva apparire una contraddizione, questo incontro fra un contemplativo animismo di ispirazione buddistainduista e l’ironia laica dei giovani promotori di una forma “alchemica” accesa di colori pop che contestava il primato prescrittivo della funzione, il canone modernista della razionalità occidentale. Così la successiva e progressiva affermazione da parte di Tarshito di un mondo di amore e di pace universale che si espande nella fioritura esuberante di forme di vitalismo prezioso e di simbolismo estatico è potuta apparire come superamento definitivo o addirittura negazione di quello storico snodo di complessità. Ho sempre sospettato che le cose non stessero esattamente in questo modo, mentre registravo con qualche misura di distaccata attenzione l’apparizione negli anni di mirabolanti apparati della fantasia sospesi fra arte e design. Nati dalla collaborazione non solo con un collaudato team pugliese ma con artigiani indiani, ed ora (mi par di capire) anche nordafricani. Portatori di incontri fra mani e culture diverse per infinite variazioni sul tema centrale della “meditazione” come metodo, prima che di stile, di “viaggio dentro di sé” come ama invocare Tarshito, e come ama ripetere ai suoi studenti, quando insegna in Accademia. I Guerrieri d’amore, i Tappeti della Meditazione, le Case-Pesce e le Case–Fiori, i Vasi con radici e i Vasi Umani, i tavoli–vaso e i gli strumenti musicali abitabili, le fontane sacre e i paraventi, le campane e i campanelli, i candelieri e gli incensieri, le tartarughe che trasportano templi, i leopardi assorti, le Geografie Sacre... Un immaginario dello spirito travasato nelle pratiche manuali più diverse e nei materiali che sanno di pregio. E i suoi personali inchiostri col segno-griffe della doppia ansa e i pensieri riportati del suo sincretistico empireo spirituale, Osho, don Tonino Bello, Tich Nath Hahn, Aivov… Tutto il repertorio che ora ritrovo accortamente dispiegato ed esaltato nei nove capannoni in muratura dove si lavorava la sansa di olive, tipica deriva meridionale della perduta economia di riuso dei frutti dell’agricoltura. Ambienti ora trasformati in lindi edifici di un Villaggio Speciale con candori esterni di latte di calce e respiri di open spaces ben cadenzati all’interno sotto i rivestimenti di strutture lignee, vetrine e splendori dorati. Sparsi fra vialetti con geometrie di praticelli e palme giovani ben disposte alla crescita, luci diffuse con regìa di discrezione e misura. Spazi organizzati per le diverse funzioni d’incontro, fra museo personale e laboratori collettivi per le diverse attività artigianali. In primo luogo la ceramica, linguaggio portante di culture che nascono dalla terra. E che quindi sa molto di tradizione pugliese, sotto l’opulenza delle metamorfosi dell’immaginazione orientalista. Una “nuova area di creatività, spiritualità e tradizione”, la definisce con giusto orgoglio il suo ideatore e architetto. Ma proprio in questa sintesi è avvertibile – come sospettavo – l’estensione originale di quella nuova cultura del design come operazione liberatrice di contaminazioni creative che fu all’inizio della sua avventura. Il Villaggio di Tarshito insomma non è piccolo Bauhaus di Weimar anche se ne deduce l’impulso olistico del progetto fondativo di Gropius, ma non è nemmeno un Monte Verità di Ascona col suo elitarismo di eremiti del pensiero alternativo. Si avverte un sano pragmatismo “occidentale” nel conferire struttura d’impresa per architettura d’interni al sogno “orientale” di un villaggio d’amore e di pace. Altre volte e per altre storie si è segnalato non solo da me come l’eclettismo sia una caratteristica storica della cultura pugliese. Talvolta un limite, più spesso una risorsa. L’incontro fra Oriente e Occidente, fra il materiale e lo spirituale, fra l’individuale e il collettivo, fra utopia e progetto, sognato e perseguito da Tarshito per oltre trent’anni ha ora nel Villaggio di via Torre di Mizzo la sua cittadella. Il più impegnativo campo di prova di operante amore. flash giovani artisti maestri storici 56 Donatella De Rosa Donatella De Rosa ha appena conseguito la Laurea in Pittura all’Accademia di Brera. Nella sua installazione “Diario del corpo” archivia disegni, fotografie, su carta da lucido, barattoli di vetro e oggetti vari di piccole dimensioni, tutta una serie di presenze sensibili e poetiche che rimandano ad una interiorità profonda. Pur ancora sedotta da una certa atmosfera da transavanguardia, la giovane artista mostra una vocazione alla pittura narrativa di particolare sensibilità e disinvoltura nell’uso di vari materiali e nella capacità di farli convivere dolcemente. ACADEMY segnala Se sei interessato a Donatella De Rosa scrivi a: [email protected] Ti metteremo in contatto con lei.