RELAZIONE FINALE - Master in Diritti Umani, Migrazioni, Sviluppo
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RELAZIONE FINALE - Master in Diritti Umani, Migrazioni, Sviluppo
MASTER UNIVERSITARIO INTERATENEO DI I° LIVELLO IN DIRITTI UMANI E INTERVENTO UMANITARIO Anno Accademico 2011/2012 RELAZIONE FINALE “Environmental or Climate Refugees”: una questione aperta Studentessa: Rosa Cristina di Toma INDICE Parte I. I Rifugiati ambientali: inquadramento della questione 1. Introduzione: Dimensioni del problema 2. Le migrazioni ambientali 3. Una definizione problematica 4. Il ruolo della comunità internazionale 5. Gli scenari del Climate Change Displacement Parte II. Le sfide giurdiche e politiche 1. Natura del Movimento e soggetti coinvolti a) Disastri improvvisi b) Degrado ambientale e Disastri progressivi c) “Sinking small island states” d) Aree designate ad alto rischio e) Disordini che disturbano l'ordine pubblico, violenza e conflitti armati 2. Quadri di Protezione Applicabili a) IDPS- Internal Displaced Persons b) Persone sfollate attraverso i confini internazionali B.1. Rifugiati B.2. Altre persone 3. Proposte per superare i gap nel regime di protezione dei rifugiati ambientali a) Ampliare la Convenzione del 1951 b) Stabilire un regime giuridico internazionale ad hoc per i rifugiati ambientali c) Mandato al Consiglio di Sicurezza 4. Conclusioni 5. Bibliografia Parte I. I Rifugiati Climatici: inquadramento della questione 1. Introduzione: Dimensioni del problema Le migrazioni ambientali non rappresentano un fenomeno recente, tutt'altro. Tuttavia il cambiamento climatico globale minaccia di incrementare in maniera significativa i movimenti umani, sia all'interno degli stati che attraverso le frontiere internazionali. L'IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, infatti, ha previsto1 un aumento nella frequanza e nell'incidenza di eventi climatici estremi quali tempeste, cicloni e uragani, e un'intensificazione di processi di lunga durata, quali l'innalzamento del livello del mare e la desertificazione, che mineranno la capacità di sopravvivenza e sostentamento delle popolazioni in alcune aree del mondo. Anche se gli scienziati non posssono prevedere precisamente quando il cambiamento climatico innescherà il displacement e in quali numeri le persone si trasferiranno, tuttavia ciò che risulta chiaro è l'inadeguatezza dei quadri giuridici e normativi attuali, nazionali e internazionali, nell' affrontare il fenomeno. I cataclismi climatici e i disastri ambientali, coinvolgendo fette sempre più enormi della popolazione mondiale, causano il fenomeno migratorio nuovo e in continua ascesa dei cosiddetti “rifugiati climatici”. Tale terminologia fortemente controversa allude ad una categoria di persone che non potendo più continuare a vivere sul territorio dove è sempre vissuta, si trova ad abbandonarlo e a spostarsi in altre regioni. L'OIM, International Organization for Migration, definisce i migranti per cause climatiche “persons or group of persons who, for compelling reasons of sudden or progressive change in the environment that adversely affects their lives or living conditions, are obliged to leave their habitual homes, or choose to do so, either temporarily or permanently, and who move either within their country abroad”.2 Gli esperti concordano sul fatto che il numero delle persone che saranno sfollate per ragioni ambientali sia destinato ad aumentere velocemente in futuro, superando il numero dei rifugiati tradizionali, di coloro cioè che fuggono persecuzioni politiche. Tuttavia elaborare una stima 1 IPCC, Climate Change 2007-Summary fro Policymakers of Working Group I Report: The Physical Science Basis, Fourth Assessment Report, Cambridge, 2007. 2 IOM, Migration, Environment and Climate Changing: Assessing the Evidence, 2009, p. 19 precisa è una questione veramente complicata, a tal punto che le proiezioni per il 2050 variano ampiamente dai 50 ai 250 milioni di individui. Una tale discordanza deriva dai modi in cui le cifre sono aggregate e dalla mancanza di dati disponibili, da attribuirsi in ultima analisi proprio all'assenza di una terminologia condivisa. Questi migranti non sono contemplati in nessuna catgoria burocratica, né nelle leggi sull'immigrazione di alcun paese. Inoltre i soggetti che sono idonei a migrare secondo programmi regolari per lavoro, istruzione o ricongiungimento familiare tenderanno ad accedere alle categorie dei visti esistenti dove possibile. Infine, come vedremo, gran parte dei flussi migratiori legati al cambiamento climatico sono di tipo interno, e pochi paesi registrano le motivazioni e le mete dei cittadini che si muovono all'interno del paese godendo della libertà di movimento entro i confini nazionali. Pertanto tali flussi migratori rischiano di rimanere un fenomeno largamente invisibile in termini giuridici e burocratici. Ad ogni modo, nonostante la discordanza dei dati e le stime più disparate, ci si può affidare agli studi dell'OIM, che pur ammettendo l'inevitabile approssimazione dei propri calcoli, stima che solo nel 2008 venti milioni di persone sono state costrette a migrare in conseguenza di eventi climatici estremi; cui bisogna aggiungere quanti sono stati costretti a migrare per eventi climatici progressivi. “There are no reliable estimates of climate change induced migration. But it is evident that gradual and sudden environmental changes are already resulting in substantial population movements. The number of storms, droughts and floods has increased threefold over the last 30 years with devastating effects on vulnerable communities, particularly in the developing world. In 2008, 20 million persons have been displaced by extreme weather events, compared to 4.6 million internally displaced by conflict and violence over the same period. Gradual changes in the environment tend to have an even greater impact on the movement of people than extreme events. For instance, over the last thirty years, twice as many people have been affected by droughts as by storms (1,6 billion compared with approx 718 m). Future forecasts vary from 25 million to 1 billion environmental migrants by 2050, moving either within their countries or across borders, on a permanent or temporary basis, with 200 million being the most widely cited estimate. This figure equals the current estimate of international migrants worldwide” IAN Proprio studi come questo hanno permesso che negli ultimi anni l'argomento acquisesse una risonanza crescente a livello internazionale. Certamente, vi è sempre stata una stretta correlazione tra cambiamenti climatici, mutamento delle condizioni ambientali e necessità di emigrazione, una correlazione alla base di fenomeni migratori che si verificano da millenni, che rappresentano una risposta razionale di adattamento e una strategia ben documentata di sopravvivenza. Tuttavia alcuni elementi spiegano la novità del fenomeno delle migrazioni per ragioni ambientali: il numero sempre maggiore di persone che si pensa siano esposte ad esso, la sua base antropogenica e la rapidità e l'irreversibilità con le quali il cambiamento climatico si sta verificando che moltiplicherà il rischio di eventi climatici estremi, di aumento delle temperature e del livello del mare che travolgeranno probabilmente le strategie tradizionali delle persone di affrontarlo. Eppure le migrazioni ambientali, e in particolare il trasferimento aldilà dei confini innescato da disastri naturali e dagli effetti dei mutamenti climatici, rappresentano un gap normativo nel regime di protezione giuridica internazionale. Infatti coloro che migrano come conseguenza del cambiamento climatico non rientrano nella definizione giuridica di “rifugiato”, e non beneficiano dunque di nessun riconoscimento statutario o diritto di protezione a livello internazionale. Mentre quindi il cambiamento climatico intensifica i flussi migratori attraverso i confini internazionali, questo non è riconosciuto come base giuridica valida per garantire lo status di rifugiato. Prima di procedere ad analizzare il gap normativo delle migrazioni ambientali e tentare di mettere a punto possibili strategie di risposta, è necessario delineare i tratti principali del fenomeno in questione. 2. Le migrazioni ambientali È possibile classificare le migrazioni ambientali secondo tre possibili criteri. Se consideriamo le cause, dobbiamo distinguere le situazioni di lento e progressivo declino delle condizioni ambientali (per esempio, la desertificazione, la deforestazione e l'inquinamento), dalle catastrofi ambientali improvvise (terremoti e disastri naturali). In riferimento alla durata della migrazione, invece, osserviamo spostamenti temporanei (quelli che permettono un ritorno al luogo d'origine, una volta cessati o ridotti gli effetti della causa che li aveva prodotti) oppure definitivi. Naturalmente, la distinzione tra le due categorie non è agevole, in quanto possono esservi abbandoni permanenti, ma per ragioni che richiederebbero solo spostamenti temporanei. Infine, in riferimento all'origine del degrado ambientale, esso può essere naturale oppure risultato dell'attività umana (per esempio l'attività di estrazione mineraria o petrolifera). Anche questa distinzione tuttavia è imprecisa in quanto molti fenomeni naturali sono prodotti o incrementati nei loro effetti dall'attività o dalla negligenza dell'uomo. Basti pensare a fenomeni naturali improvvisi quali tornado o alluvioni o di lenta durata come desertificazione, deforestazione, esaurimento delle risorse naturali che possono provocare effetti più devastanti e dare luogo a movimenti migratori per il combinarsi dell'incuria o della negligenza dell'attività dell'uomo. 3. Una definizione problematica Nonostante le ampie dimensioni del fenomeno, non c'è una terminologia uniforme usata per descrivere le persone che si trasferiscono come risposta agli impatti del mutamento climatico. Ma non si tratta semplicemente di una questione semantica, poiché ogni definizione che sarà eventualmente accolta avrà implicazioni importanti per le responsablità della comunità internazionale sotto il diritto internazionale. Il termine “environmental refugee” è stato introdotto per la prima volta nel 1984 da Lester Brown dell'International Institute for Environment and Development. L'anno successivo ha trovato una collocazione ufficiale nel report per lo UN Environment Programme di Essam ElHinnawi per definire: “Those people who have been forced to leave their traditional habitat, temporarily or permanently, because of a marked environmental disruption (natural and/or triggered by people) that jeopardized their existence and/or seriously affected the quality of their life”. 3 Tuttavia, si può ragionevolmente sostenere che l'obiettivo dello studioso egiziano, sebbene abbia usato il linguaggio di protezione dei rifugiati, fosse di portare l'attenzione sugli effetti dannosi dei cambiamenti climatici di origine umana sugli insediamenti umani, piuttosto che sostenere l'estensione del regime di protezione internazionale a coloro che per tali cambiamenti si sono trasferiti. Tuttavia l'adozione di tale categoria è fortemente controversa e molte organizzazioni intergovernative, quali l'OIM e l'UNHCR, criticano fortemente la sua mancanza di rigore intellettuale, teoretico ed empirico, e l'assenza di ogni fondamento a livello giuridico. La definizione di rifugiato climatico, infatti, solleva numerose problematicità, giuridiche e 3 Essam El-Hinnawi, Environmental Refugees (United Nations Environment Programme, 1985) concettuali. La definizione di “rifugiato” e i diritti che da essa scaturiscono sono stati sistematizzati nella Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, e ripresa nel Protocollo del 1967, che all'Art. 1A (2) afferma che è rifugiato colui che: “owing to well-founded fear to being persecuted for reasons of race, religion, nationality, membership of a particular social group or political opinion, is outside the country of his nationality and is unable or, owing to such fear, is unwilling to avail himself of the protection of that country; or who, not haing a nationality and being outside the country of his former habitual residence as a result of such events, is unable or, owing to such fear, is unwillingto return it”. Una serie di ostacoli giuridici minano il tentativo di far rientrare i rifugiati ambientali in questa definizione. Innanzitutto la definizione si applica a coloro che hanno già attraversato un confine internazionale, ritrovandosi al di fuori del paese d'origine Requisito preliminare è infatti l'attraversamento di una frontiera riconosciuta internazionalmente, mentre la maggior parte dei flussi migratori ambientali è costituita come vedremo da sfollati interni. Proprio per superare questa dicotomia tra la protezione garantita ai rifugiati e quella offerta ad altri individui in necessità di protezione internazionale ha indotto il Norwegian Refugee Council a proporre la definizione di “environmentally-displaced persons” per includere sia i flussi migratori interni che quelli transfrontalieri4. Il secondo ostacolo è rappresentato dalla difficoltà di configurare il cambiamento climatico nei termini di una “persecuzione”. ulteriormente complicata dall'elemento discriminatorio. È necessario, in altre parole, dimostrare che il persecutore stia perpetrando atti persecutori per un attributo- reale o percepito- della persona, in base ai cinque ground della convenzione (razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un gruppo sociale particolare). In realtà gli impatti del cambiamento climatico agiscono in maniera del tutto indiscriminata. Ancor prima, si riscontra la difficoltà di identificare il “persecutore”. Normalmente le comunità fuggono dai propri territori, nonostante i governi dei climate-displaced continuano a voler proteggere i propri cittadini. Alcuni sostengono che il persecutore potrebbe individuarsi nella “comunità internazionale”, in particolare nei paesi industrializzati principali responsabili delle emissioni di gas serra. Tuttavia viene a spezzarsi il nesso tra l'attore di persecuzione e il territorio 4 Norwegian Refugee Council, Future Floods of Refugees: a Comment onClimate Change,Conflict and Forced Migration, Oslo, April 2008, 23. dal quale avviene la fuga, ottenendo l'esatto rovesciamento del paradigma tradizionale del rifugiato5. Inoltre la persecuzione riguarda singoli individui, mentre il displacement o la migrazione indotta dal mutamento climatico coinvolge perlopiù gruppi, comunità e persino intere nazioni, come nel caso degli small island states. Infine, il concetto di rifugiato implica il diritto a ritornare nel proprio paese quando la persecuzione che ha innescato il movimento è cessata. Tuttavia tale diritto, ne è prova evidente il caso degli small island states, non sempre può essere esercitato, proprio perchè alcuni territori diventano inabitabili, o scompaiono letteralmente. Per tutti questi motivi l'adozione del termine rifugiato può risultare fuorviante, e ricondurre alla nozione di rifugiato anche persone che fuggono dal proprio Stato di origine per sfuggire a pericoli naturali, può essere considerata un'estensione analogica priva di fondamento normativo. La seconda problematicità riguarda l'aggettivo “climatico”. Questo, infatti, inerendo la causa che ha determinato la fuga del soggetto, stabilisce un nesso di causalità tra la catastrofe naturale e lo spostamento del proprio Stato d'origine ad altro Stato. Tuttavia tale nesso è molto difficile da individuare. Ancora più difficile è capire quando l'unica motivazione che abbia spinto il soggetto a spostarsi sia effettivamente il cambiamento climatico o il cataclisma naturale. Il mutamento climatico sta avendo un impatto reale sulla vita delle persone, ma in moltissimi casi è una delle ragioni per cui le persone decidono di trasferirsi. Questo è perchè il mutamento climatico tende a moltiplicare i fattori di stress e le vulnerabilità preesistenti, piuttosto che causarne da solo il movimento. La complessità delle decisioni di migrare e l'interconnessione di fattori ambientali, economici, sociali e politici rende virtualmente impossibile fornire una stima accurata delle persone che migrano a causa del mutmento climatico. Come vedremo infatti, i fattori ambientali hanno un ruolo importante ma sono sempre collegati ad un'ampia gamma di determinanti politiche, sociodemografiche ed economiche . 5 Vedi J.Mac Adam sull'importanza della convenzione dei rifugiati del 1951. Nonostante gli ostacoli giuridici, individua eccezioni limitate in cui l'esposizione a impatti climatici o degrado ambientale può equivalere a persecuzione per una ragione della convenzione. J.Mac Adam elenca i seguenti casi: 1) vittime di disastri naturali che fuggono perchè il loro governo ha consapevolmente rifiutato o ostacolato assistenza al fine di punirli o marginalizzarli sulla base di uno dei 5 campi della convenzione; 2) le politiche di governo puntano a gruppi particolari la cui sopravvivenza dipende dall'agricoltura in casi in cui il cambiamento climatico sta già compromettendo la loro sussistenza; 3) un governo provoca la siccità distruggendo o avvelenando l'acqua, o contribuisce alla distruzione ambientale inquinando la terra o il mare; 4) un governo rifiuta di accettare aiuto da altri Stati quando è nel bisogno, come all'indomani di un disastro; 5) un governo non stabilisce misure appropriate per la prevenzione di un disastro. Infine, l'ultimo elemento di criticità è costituito dal fattore geografico. Quando si parla di rifugiati si intendono i soggetti fuggiti dal proprio Stato, corrispondente ad un'area delimitata da confini ben precisi. Invece il “rifugiato climatico” non sempre fugge da uno Stato specifico, bensì da un generico territorio non sempre coincidente con un unico Stato, in quanto il cambiamento climatico può interessere aree infra-statali, ma anche inter-statali, più ampie rispetto al territorio di un unico Stato. Altre ragioni includono preoccupazioni riguardo l'uso del termine “climate refugee”- che non è solo erroneo dal punto di vista giuridico ma è un'etichetta rifutata da molti dei soggetti cui viene attribuita. Portando in sé un senso di impotenza e di mancanza di dignità si rivela insopportabile per molte popolazioni costrette a trasferirsi, proprio perchè sottolinea il fallimento nelle loro condotte, nella protezione delle famiglie e delle comunità di appartenenza. Eppure, nonostante tali criticità, proprio la necessità di dare tutela a migliaia di individui giustifica l'utilizzo di questa definizione problematica e impone l'urgenza di formulare definizioni alternative. Tale incertezza nelle definizioni induce anche Walter Kalin a mettere in guardia dalle conclusioni frettolose e dai toni allarmisti che caratterizzano le discussioni sui trasferimenti di persone, in particolare quelli forzati indotti dagli effetti del cambiamento climatico. Alcuni, infatti, non esitano a definirli “rifugiati”; altri, invece, in riferimento alle genti che abitano le isole minacciate dall'innalzamento del livello del mare, parlano di “apolidi”, e altri ancora stabiliscono un nesso diretto tra il surriscaldamento globale, il numero di disastri che determinano il trasferimento e l'ampiezza crescente del numero di persone da esso colpite. Questa incertezza si è tradotta in due scuole di pensiero che hanno dato vita a due approcci possibili alla questione: uno di tipo “massimalista” e l'altro di tipo “minimalista”. Il primo, che trova nello scienziato sociale Norman Myers6 uno dei suoi principali sostenitori, ma che caratterizza organizzazioni ed esperti in studi ambientali, prevede centinaia di milioni di persone sfollate in conseguenza del cambiamento climatico. Tentando in parte di sottolineare gli effetti deleteri del mutamento climatico sulla società umana, questa corrente ha alimentato l'idea che i trasferimenti legati al cambiamento climatico rappresentino una minaccia per la sicurezza internazionale, finendo per influenzare le agende per la sicurezza nazionale. Molti stati infatti hanno già trasformato il discorso della sicurezza, passando dalla sicurezza umana dei trasferiti 6 Norman Myers, Environmental Exodus: An Emergent Crisis in the Global Arena, Climate Istitute, Washington DC, 1995 alla protezione di se stessi. Tuttavia, le stime numeriche di Myers sono state criticate troppo semplicistiche nel loro metodo di calcolo perchè non considerano la variabile più complessa da calcolare, ossia la capacità di adattamento e di resilienza umana. È evidente nella letteratura dei rifugiati che non si può prevedere il momento in cui le persone si muoveranno in risposta ad eventi esterni così come guerre o persecuzioni: alcuni fuggono subito, altri più tardi altri ancora rimarranno nei luoghi d'origine. Nonostante questo, analisi empiriche e ponderate sono state spesso oscurate da discorsi allarmisti e disinformanti sul numero delle persone e sulla natura del movimento, e l'approccio massimalista o allarmista ha raccolto una considerevole attenzione pubblica. Il secondo approccio, detto minimalista o scettico, sottolineando la molteplicità e la complessità delle determinanti coinvolte nelle decisioni di trasferirsi e l'importanza di tener conto della capacità di resilienza e di adattamento, prevede un numero senza dubbio minore di casi di displacement direttamente collegabili agli effetti del cambiamento climatico. È la visione caratteristica di coloro che lavorano nel campo della protezione profughi e/o migrazione, sia a livello accademico che istituzionale, che temono la messa a punto di politiche che non riconoscano la complessità del movimento umano, insistendo sulla necessità di considerare gli schemi delle migrazioni passate e contemporanee per valutare il probabile movimento futuro, così come il ruolo di adattamento nel prevenire un possibile movimento. 4. Il ruolo della comunità internazionale Al di là delle questioni di definizione e dei possibili approcci è chiaro che il problema di coloro che vengono sradicati dai loro luoghi di residenza in ragione di fenomeni ambientali deve essere affrontato dalla comunità internazionale. In particolare, il riconoscimento costituisce una tappa indispensabile per pianificare degli interventi volti a limitare le cause delle migrazioni di massa, che non possono ridursi ai soli aiuti economici o agli interventi estemporanei della comunità internazionale in caso di disastri. È sempre più urgente, infatti, prendere in considerazione gli aspetti politici, tecnologici e scientifici delle soluzioni volte a limitare gli effetti dei cambiamenti climatici, tenendo tra l'altro presente che sono proprio i paesi ricchi, con le loro emissioni di gas serra, i maggiori responsabili di questi cambiamenti. Sotto questo profilo, è stato sostenuto che gli Stati poveri sono tutti ”creditori ecologici” degli Stati ricchi, che hanno prodotto in passato e continuano a riprodurre oggi, influendo in modo preponderante sul cambiamento climatico, le condizioni di povertà che determinano le migrazioni” 7. F. Argese, individua un gap operativo profondo, a livello della comunità internaizonale, relativo alla questione del rifugiati ambientali. Sottolinea, infatti, la mancanza di un'istituzione specifica che si occupi di essi. Sappiamo che il diritto internazionale dei rifugiati e degli apolidi, incluso il mandato dell'UNHCR, sono stati originariamente intesi per gestire popolazioni sfollate durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per queso motivo non esiste alcuna istituzione internazionale dotata di esperti e di un mandato chiaramente specifico in materia di climate-change displacement. L'UNHCR si oppone fortemente all'idea di modificare il regime dei rifugiati per includere persone che fuggono dai propri paesi per ragioni ambientali per diverse ragioni. Da un punto di vista politico, infatti, il regime dei rifugiati è sotto la pressione costante dei paesi sviluppati che perseguono un'interpretazione restrittiva dei suoi provvedimenti per evitare di essere costretti ad offrire agli sfollati ambientali la stessa protezione dei rifugiati politici. Per questo motivo, l'UNHCR teme quindi che una definizione più ampia possa condurre ad una rinegoziazione dell'intera Convenzione dei Rifugiati del 1951 e tradursi in un indebolimento dei diritti tradizionali dei richiedenti asilo. Altra ragione, di carattere materiale, è la scarsità di mezzi a disposizione dell'UNHCR, che non potrebbe occuparsi di flussi migratori venti volte puù grandi dei dieci milioni di persone che fuggono per persecuzioni poltiche di cui già si occupa. Ad ogni modo, il numero degli sfollati in ragioni del cambiamento climatico è destinato inevitabilmente ad aumentare, sollevando la sfida di come costruire le capacità necessarie finanziarie, operative e giuridiche per affrontare le loro specifiche necessità di protezione e di assistenza. Si tratta di sfide che dobbiamo inserire nel quadro più ampio delle responsabilità che gli stati devono affrontare. A tal proposito è interessante l'analisi di W. Kalin, il quale individua tre livelli di responsabilità, relativi alle cause, agli effetti e alle conseguenze del cambiamento climatico. Per quanto riguarda le cause, gli stati hanno il dovere primario di mitigare il mutamento climatico. Per questo motivo gli stati parti dello UN Framework Convention on Climate change (UNFCCC) e dei suoi Protocolli di Kyoto si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra. L'obiettivo di queste misure è quello di fermare o perlomeno di rallentare il mutamento climatico e le sue conseguenze disastrose. Tuttavia proprio perchè il cambiamento climatico sta già mostrando il suo impatto distruttivo, gli 7 Andrew Simms, da Federalismi stati, secondo Kalin, hanno anche il dovere di intervenire sul piano degli effetti del cambiamento climatico, che implica ridurre l'impatto dei rischi e le vulnerabilità indotte da esso. Questo significa anche potenziare le capacità di resilienza e rafforzare le misure di adattamento delle popolazioni coinvolte8. Il dovere di ridurre il rischio di disastri, oltre ad essere enunciato nello Hyogo Framework for Action, è chiaramente sancito dalla Corte Europea dei Diritti Umani in relazione al dovere degli stati di proteggere il diritto alla vita e alla proprietà. Infine, Kalin delinea profili di responsabilità per gli stati anche sul piano delle conseguenze, affermando il loro dovere di proteggere e assistere gli sfollati, ossia le vittime del cambiamento climatico. Gli Stati che accolgono gli sfollati, infatti, sono vincolati dal diritto dei diritti umani a rispettare e proteggere attivamente i diritti di coloro che sono stati colpiti, adottando quindi misure positive che permettano loro il pieno godimento dei loro diritti. Prima però di approcciarsi alla terza sfida, quella cioè di sviluppare le risposte giuridiche e politiche più appropriate alla questione, che è l'obiettivo centrale della trattazione, è necessario aver ben presenti tre coordinate fondamentali per un inquadramento corretto della questione del displacement conseguente al cambiamento climatico. Innanzitutto, il cambiamento climatico non è sufficiente da solo ad innescare il displacement, ma alcuni dei suoi effetti hanno le potenzialità di farlo; inoltre, il movimento migratorio può essere volontario o forzato e, da ultimo, può aver luogo all'interno o attraverso i confini internazionali. A questo punto è opportuno delineare prima gli scenari che vengono a crearsi, per poi tentare di capire la natura del movimento e le persone coinvolte. In questo modo riusciremo a valutare fino a che punto i quadri normativi correnti garantiscano un livello adeguato di protezione, individuando i gap normativi e affrontandoli facendo attenzione soprattutto alla condizione di coloro che attraversano forzatamente i confini internazionali e di coloro che sono costretti ad abbandonare gli stati piccole isole che affondano. 8 Lo “Hyogo Framework for Action: Building the Resilience of Nations and Communities to Disasters”, adottato nel 2005 dalla Conferenza Mondiale sulla Riduzione dei Disastri, fornisce un modello che gli stati dovrebbero considerare. Sebbene giuridicamente non vincolante, espreime il riconoscimento da parte degli Stati che “that efforts to reduce disaster risks must be systematically integrated into policies, plans and programmes for sustainable development and poverty reduction, and supported through bilateral, regional and international cooperation, including partnership”. 5. Gli scenari del Climate Change Displacement Data l'estrema complessità del concetto di migrazione ambientale, sono state elaborate diverse classificazioni. Ovviamente ogni schematizzazione risulta artificiosa non considerando la fluidità delle categorie, tuttavia la suddivisione più funzionale a questa trattazione è quella offerta da W. Kalin. Lo studioso distingue cinque differenti scenari, che richiederanno risposte giuridiche e politiche differenti. 1) Disastri improvvisi: alluvioni, tempeste, frane causate da forti piogge possono innescare trasferimenti su larga scala, non necessariamente di natura permanente. Molti di questi disastri non sono direttamente collegabili al cambiamento climatico (i terremoti per esempio), e nel caso siano legati la causalità non è comunque facile da dimostrare. 2) Degrado ambientale progressivo: desertificazione, innalzamento del livello del mare, carestie e alluvioni determinano una progressiva riduzione della disponibiltà d'acqua in alcune regioni e alluvioni ricorrenti in altre. Minacciando inevitabilmente le possibilità economiche delle aree colpite, potrebbe indurre le persone a considerare la migrazione “volontaria” quale un modo per adattarsi alle condizioni ambientali oppure un motivo per il quale ci si muove verso regioni con migliori condizioni di vita. Se le aree col tempo diventano inabitabili per l'ulteriore degrado, i movimenti di popolazione possono essere considerati forzati e diventare permanenti. 3) “Sinking small island states”: si tratta di territori, atolli e isole, che a causa della progressiva erosione del suolo conseguente all'innalzamento del livello del mare, col tempo non riusciranno più ad ospitare le proprie popolazioni che dovranno essere trasferite permanentemente in altri paesi. Si è calcolato, infatti, che esistono 47 stati costituiti da piccole isole e arcipelaghi, situati prevalentemente nei Caraibi e nelle regioni asiatiche del Pacifico e che ospitano il 5% della popolazione mondiale. È questo il caso in cui il nesso tra l'impatto del cambiamento climatico e la perdita del territorio nazionale emerge chiaramente, sollevando non poche difficoltà per il diritto internazionale. Si tratta di territori particolarmente esposti al cambiamento climatico che andrà ad esacerbare fattori di vulnerabilità preesistenti. Sono tra l'altro per la maggior parte paesi in via di sviluppo, per i quali l'azione dei donors e dei loro programmi di assitenza allo sviluppo svolge un ruolo vitale, ma che potrebbe essere scoraggiato dalla compromissione delle condizioni ambientali. 4) Aree designate ad alto rischio: si tratta cioè di aree divenute troppo pericolose per gli insediamenti umani a causa dei pericoli ambientali e che per questo renderanno necessari trasferimenti di popolazioni. A differenza di quanto avviene nei disastri improvvisi, in questo caso è lo stesso Stato ad impedirne il ritorno, sollevando questioni giuridiche complesse. 5) Disordini che disturbano l'ordine pubblico, violenza e conflitti armati: si tratta di eventi che potrebbero essere innescati in parte dalla scarsità di risorse riconducibile al cambiamento climatico. Dove peraltro la scarsità di risorse non puo essere risolta sarà difficile raggiungere accordi di pace per una soluzione equa. Il conflitto è più sociale che di natura armata. Ogni singolo scenario coinvolge pressioni e impatti che agiranno in modi diversi, condizionando tempo, velocità e dimensioni del movimento. Proprio la compresenza di scenari diversi all'interno della nozione di “climate displacement” lascia presagire l'inappropriatezza di una singola soluzione giuridica o politica. Si può già intuire come i quadri giuridici esistenti siano meglio preparati a rispondere ad un movimento legato ad un disastro improvviso piuttosto che ai movimenti preventivi per processi progressivi. A questo punto, avendo delineato questi scenari possibili, possiamo comprendere la natura del movimento, se cioè è volontario o forzato, e possiamo anche descrivere coloro che sono coinvolti, se possono quindi essere classificati come IDPs, rifugiati, apolidi o altro. Parte II. Le sfide giuridiche e politiche I principi del diritto internazionale dei diritti umani, del diritto dei rifugiati e dei principi generali internazionali di dignità, umanità e cooperazione internazionale forniscono un quadro utile per sostenare una varietà di strategie legali e politiche. Indubbiamente il mutamento climatico impatta e impatterà sul godimento dei diritti umani da parte degli individui. Erosione costiera, alluvioni, siccità, aumento del livello del mare, insieme agli eventi climatici gravi più frequenti ed intensi, come tempeste e cicloni, colpiranno l'agricoltura, le infrastrutture, i servizi e l'abitabilità di alcune parti del mondo. Inevitabilmente ciò minaccerà i diritti fondamentali quali il diritto alla vita, alla salute, alla casa, alla cultura, ai mezzi di sostentamento, e nei casi estremi, all'autodeterminazione. Gli impatti più drastici probabilmente sono più sentiti nelle parti più povere del mondo, dove la protezione dei diritti umani è spesso debole.e le capacità di adattamento sono compromesse dagli scarsi livelli di istruzione, capacità tecnica, disponibilità di risorse e supporto istituzionale. Il diritto internazionale dei diritti umani permette tuttavia di stabilire gli standard minimi che gli Stati devono offrire agli individui all'interno dei loro territori o giurisdizioni, e fornisce un mezzo per valutare quali diritti sono compromessi e quali autorità nazionali hanno la responsabilità primaria di far fronte a quei diritti a rischio. Inoltre, se i diritti sono a rischio, il diritto dei diritti umani fornisce una base giuridica sui cui potrebbe essere richiesta (e garantita) la protezione in altri Stati (conosciuta come “protezione complementare”). Infine, a trasferimento avvenuto, richiede che siano osservati standard minimi di trattamento nello Stato ospite, e questo, come si può immaginare, è rilevante per lo statuto giuridico offerto ai displaced. Il diritto dei diritti umani ha allargato gli obblighi di protezzione degli Stati oltre la categoria del rifugiato, includendo almeno le persone a rischio di deprivazione arbitraria della vita, della tortura, o trattamento crudele, inumano o degradante o pena. Questo nel diritto è conosciuto appunto come “protezione complementaria”, poiché descrive una protezione basata sui diritti umani che è complementaria a qualle fornita dalla Convenzione del 1951. UE, Canada, USA, Nuova Zelanda , Hong Kong, Messico e Australia hanno messo in atti sistemi di protezione complementaria al fine implementare questi obblighi giurdici internazionali. Per quanto riguarda il diritto dei rifugiato, sebbene ci sono alcune circostanze in cui sarà applicabile, in generale, è un quadro normativo inappropriato a rispondere ai bisogni di coloro che sono costretti a trasferirsi in ragione di fattori ambientali per consid ambientali. Nonstante ciò, il diritto dei rifugiati offre strumenti concettuali utili per mettere appunto strategiie di protezione, come la valutazzione del danno potenziale o futuro. Come osserva J. Mac Adam, quando la legge si confronta con una nuova sfida potrebbe comportarsi in modi differenti. I principi giuridici esistenti potrebbero essere estesi e adattati per rispondere a circostanze nuove, sia attraverso un'interpretazione creativa che un'estrapolazione per analogia. Una strategia alternativa può essere invece quella di riconoscere la lacuna delle norme legali esistenti e svilupparne di nuove. Questa opzione è normalmente più complessa e difficoltosa perchè richiede una forte e condivisa volontà politica, e anche quando si riesce, non bisogna sottovalutare il rischio che l'accordo sia raggiutno sul minimo comune denominatore e che potrebbe soffrire della mancanza di implementazione e rafforzamento. 1. Natura del Movimento e soggetti coinvolti a) Disastri improvvisi I disastri idro-geologici innescano per lo più un movimento all'interno del proprio paese. In questo senso possiamo parlare di Internally Displaced People, intendendo appunto persone che abbandonano il proprio territorio d'origine a seguito di cataclismi climatici su larga scala pur rimanendo all'interno del proprio Stato. Basti pensare alle migliaia di sfollati prodotti dallo Tsunami del 2004 in Estremo Oriente o dall'uragano Katrina nel 2005. Questi soggetti sono tutelati dal diritto dei diritti umani e dagli UN Guiding Principles on Internal Displacement9 del 1998. Ma possiamo individuare altri strumenti di tutela regionali quali il Protocollo del 2006 sulla “Protection and Assistance to Internally Displaced Persons” e la Convenzione dell'Unione Africana per la “Protection and Assistance of Internally Displaced Persons in Africa”. Questi strumenti contenendo una definizione sufficientemente ampia e non rendendo necessario stabilire se l'origine del disastro sia legata al cambiamento climatico o se invecesia di natura umana o naturale, si rivelano particolarmente efficace. Tuttavia può accadere che gli sfollati per disastri improvvisi attraversino i confini, se ad esempio il proprio paese è incapace di proteggerli o semplicemente sperando di ricevere un'assistenza 9 Definiscono Internally displaced persons “persons or group of persons who have been forced or obliged to flee or to leave their homes or places of habitual residence, in particular as a result of or in order to avoid the effects of..natural or human-made disasters, and who have not crossed an internationally recognized State border”. La stessa definizione è ripresa dai due strumenti africani. I Guiding Principles: Commissione dei diritti umani, Report of the Representative of the SG on the guiding principles on internal displacement, UN Doc. E/CN.4/1998/53/Add.2 dell'11 febbraio 1998, il cui testo è pubblicato in OCHA/AID/2004/01. migliore. Ad essi si potrebbero applicare i principi cardine della tutela classica dei rifugiati; in primis, il principio del non refoulement, codificato nell'art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951: “Nessuno stato contraente potrà espellere o respingere- in nessun modo- un rifugiato verso le frotniere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della razza, religione, nazionalità appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”. Tale principio però non fornisce nessun fondamento per lo stabilimento permanente presso un altro stato. In questo modo comincia a delinearsi una grave lacuna normativa, che lascia questi soggetti deboli in una sorta di limbo giuridico che li tutela dall'essere rimandato nello Stato d'origine ma che d'altro canto non garantisce loro alcun diritto allo stabilimento nel nuovo luogo ove si stanno radicando. Insomma, paradossalmente, bisogna attendere che il disastro si verifichi, per poi estendere analogicamente ai soggetti interessati la tutela esistente per le differenti categorie che peraltro anch'essa si rivela poco efficace. Questi soggetti non perdono la protezione prevista dal diritto dei diritti umani che obbliga gli stati a garantire i diritti di coloro che sono all'interno del loro territorio o giurisdizione. Tuttavia il diritto internazionale, mentre in alcune circostanze impedisce il rejection ai confini10, non fornisce nessuna garanzia di essere ammesso o di continuare a risiedere in un paese straniero a meno che non si tratti di rifugiati o di coloro che sono protetti dal principio del non-refoulement11. Come abbiamo visto il termine rifugiato si riferisce alla definizione giuridica contenuta negli strumenti internazionali: la convenzione del 1951 sullo Status dei Rifugiati, la Convenzione dell'OUA del 1969 e la Dichiarazione di Cartagena sui Rifugiati del 1984. È evidente come il displacement prodotto dal cambiamento climatico non rientrasse negli obiettivi della Convenzione del 1951, né fosse considerato dai redattori, a meno che qualora le vittime di disastri improvvisi fuggono all'estero perchè il proprio governo ha negato o ostacolato l'assistenza al fine di punirli o marginalizzarli sulla base di uno dei cinque Convention grounds. È chiaro che pochi sfollati possono rientrare in questa definizione e comunque coloro che sono vittime di disastri naturali non sono perseguitati per nessuna di queste ragioni. Inoltre viene meno uno degli elementi fondamentali e cioè che non si deve pensare che i governi di paesi 10 L'art.33 della Convenzione sullo Status dei Rifugiati (1951) obbliga gli stati ad esaminare le richieste d'asilo se il rejection al confine potrebbe significare che devono rientrare nei loro presunti paesi d'origine. 11 Si tratta del principio di protezione sussidiaria o complementaria, sulla base ad esempio della privazione arbitraria della vita, tortura o trattamento crudele, disumano odegradante. colpiti da disastri non siano più capaci oppure non vogliono fornire protezione ai loro cittadini (il fatto che un individuo non possa o non voglia disporre della protezione di un paese è uno dei fondamenti). La Convenzione dell'OUA in Africa e la Dichiarazione di Cartagena in America Latina contengono definizioni di rifugiato più ampie. La Convenzione OUA, infatti, espande la definizione includendo anche: “every person who, owing to..events seriously disturbing public order in either part or the whole of his country of origin or nationality, is compelled to leave his place of habitual residence in order to seek refuge in another place outside his country of origin or nationality” Alcuni hanno sostenuto che i disastri improvvisi siano sufficienti a provocare disordine pubblico, ma è improbabile che gli stati accettino un'espansione del concetto oltre il significato convenzionale di disturbo all'ordina pubblico che sfocia in violenza. Ne è prova il fatto che, pur accogliendo individui che sfuggivano catastrofi di questo tipo, gli stati accoglienti raramente hanno dichiarato di agire perseguendi i doveri della Convenzione dell'OUA. E sappiamo quanto siano importanti le modalità di spiegazione di un'azione condotta da uno stato per verificare se supporta o meno un'interpretazione liberale del trattato. Ad ogni modo, se un individuo cerca rifugio a causa di violenza come sommosse seguenti ad un disastro, innescati dalla non volontà o dall'incapacità di un governo di affrontare le conseguenze di un disastro o di fornire l'assistenza necessaria alle vittime, lo strumento potrebbe trovare applicazione. Possiamo fare un discorso analogo per la Dichiarazione di Cartagena, che parla di “massive violation of human rights”. È chiaro, quindi, che richiedendo la prova di una minaccia presente, puttosto che valutando il rischio di un potenziale danno futuro (com'è nella Convenzione del 1951), i due strumenti non saranno però efficaci nel fornire un protezione preventiva. Abbiamo quindi individuato un primo gap normativo profondo. In alcuni casi, i governi ospiti hanno permesso per ragioni umanitarie che tali individui permanessero finchè era loro precluso un ritorno in sicurezza e dignità, ma non si tratta di una pratica che è stata uniforme. Lo status di questi individui rimane poco chiaro, e nonostante l'applicabilità del diritto dei diritti umani, c'è un rischio che possano finire in un limbo giuridico e operativo. b) Degrado ambientale e Disastri progressivi Il deterioramento delle condizioni di vita e delle opportunità economiche come conseguenza del cambiamento climatico potrebbe indurre le persone a cercare migliori opportunità e condizioni di vita in altri luoghi all'interno del proprio paese o all'estero, prima che le aree in cui vivono diventino inabitabili. Nel primo caso godono della libertà di movimento, nel secondo invece diventano migranti. Non c'è una definizione di “migrante” nel diritto internazionale. L'OIM ha parlato di “environmental migrants”12, senza però trovare consensi. L'unica definizione che possiamo trovare in un trattato internazionale è quella di “migrant worker”13. Ad ogni modo sono protetti dalla Convenzione sui Migranti appena citata e dal diritto dei diritti umani, anche se non viene fornita loro nessuna garanzia di essere ammessi in un altro paese. Se le aree intanto diventano inabitabili (per i processi di desertificazione o nel caso delle piccole isole che rischiano di essere sommerse), il movimento può essere considerato “forced displacement” e diventare permanente. A quel punto i quadri normativi da applicare sono gli stessi del primo scenario: qualora rimangano all'interno dello stesso paese, ricadono nei Guiding Principles on Internal Displacement, se invece si sono trasferiti all'estero saranno tutelati dal diritto internazionale dei diritti umani, ma senza nessuna garanzia e a discrezione dei paesi ospitanti. È uno scenario che pone due difficoltà. La prima, è quella di stabilire il confine tra movimento forzato e volontario. La seconda è quella appunto di trovare una definizione di migrante adeguata alternativa a quella di “migrant worker” poiché, anche se tali persone trovano lavoro all'estero sono primariamente alla ricerca di protezione e di assistenza e la loro decisione di partire non è stata innescata da considerazioni economiche. Si intuisce quindi come siano gli impatti del mutamento climatico che hanno un inizio lento a porre una sfida ai quadri tradizionali delle migrazioni forzate: sebbene le persone potrebbero non avere prospettiva di mezzi di sostentamento sostenibili se rimangono nelle loro terre, non stanno affrontando una danno imminente. Mentre il movimento preventivo in alcune circostanze è una risposta umana razionale, né il diritto internazionale né il diritto nazionale lo agevolano. 12 Nel 2007, l'Oim definisce “Environmental migrants are persons or group of persons who, for compelling reasons of sudden or progressive changes in the environment that adversely affect their lives or living conditions, are obliged to leave their habitual homes, or choose to do so, either temporarily or permanently, and who move either within their country or abroad” 13 L'”International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of their Families”, adottata nel dicembre 1990, parla di “migrant worker” per intendere “a person who is to be engaged, is engaged or has been engaged in a remunerated activity in a State of which he or she is not a national”. c) “Sinking small island states” La scomparsa degli small island states è un processo graduale. Nella fase iniziale questo processo potrebbe incoraggiare le persone, come parte di strategie di adattamento individuali e di gruppo, a migrare verso altre isole all'interno dello stesso paese oppure all'estero alla ricerca di migliori condizioni di vita. In quest'ultimo caso sono tutelati dal diritto dei diritti umani e dalle convenzioni sui lavoratori migranti e sulle loro famiglie. Più tardi se le aree diventano inabitabili o scompaiono completamente o se il territorio rimasto è incapace di ospitare l'intera popolazione questi movimenti assumono il carattere del forced displacement e diventano permanente. In questo caso esistono gap normativi per coloro che si sono trasferiti all'estero: non essendo nè migrant workers nè rifugiati, rimangono in un limbo giuridico In particolare non è chiaro se possono trovare applicazione i provvedimenti relativi agli apolidi, restando il dubbio su cosa si intenda nel diritto internazionale per apolide. Il concetto, infatti, è legato al difetto di cittadinanza a seguito della mancata attribuzione della stessa in base alle norme statali, e non in seguito alla scomparsa completa del territorio dello Stato. Nel nostro caso, invece, se venisse sommerso il territorio di queste stati, i governi manterrebbero i loro apparati e le loro leggi. In sostanza, i cittadini di questi stati diverrebbero de facto privi di Stato, ma certo non catalogabili come privi di cittadinaza de jure. Il diritto internazionale si trova davanti ad un terreno assolutamente inesplorato: una tale eventualità, infatti, non è contemplata né dalla Convenzione sugli apolidi del 1954 né dalla Convenzione del 1961 sulla “Reduction of Statelessness”. d) Aree designate ad alto rischio Anche in questo si potrebbero applicare i principi del diritto internazionale o i Guiding Principles on Internal Displacement e le norrme analoghe sulla rilocazione. Coloro che abitano queste aree tuttavia possono decidere di lasciare il loro paese perchè rifiutano i territori loro offerti o perchè il loro governo non fornisce loro soluzioni sostenibili e con standard adeguati. La protezione all'estero allora sarà garantita anche in questo caso dal diritto dei diritti umani, inclusi i principi applicabili ai lavoratori migranti. Il loro statuts giuridico formale rimarrà però poco chiaro, e non potranno avere diritto ad entrare e rimanere nel paese di rifugio. e) Disordini che disturbano l'ordine pubblico, violenza e conflitti armati Gli effetti del cambiamento climatico, in particolare sulla contrazione delle risorse, possono contribuire alle tensioni sociali, che a sua volta possono degenerare in conflitti violenti, innescando un displacement forzato. Quanti si muovono all'interno del proprio paese sono IDPs. Coloro che invece fuggono all'estero potrebbero qualificarsi come rifugiati protetti dalla Convenzione dei Rifugiati o dagli strumenti regionali o essere persone bisognose di forme complementari di protezione o di protezione temporanea nel caso di fuga da conflitti armati. I quadri normativi disponibili sono i Guiding Principles sul displacement interno, il diritto internazionale umanitario, il diritto dei diritti umani e diritto dei rifugiati, i quali forniscono un quadro normativo sufficientemente adeguato per affrontare queste situazioni, pochè coloro che sono colpiti stanno fuggendo da una rottura dell'ordine pubblico, violenza e conflitti armati o persecuzioni, piuttosto che dai cambiamenti prodotti dal surriscaldamento globale in sé. 2. Quadri di Protezione Applicabili A) IDPS- Internal Displaced Persons Come abbiamo visto sopra, gli IDPs sono coloro che sono costretti ad andar via all'interno del proprio paese in conseguenza di disastri improvvisi, coloro che fuggono perchè il loro luogo d'origine è diventato inabitabile per processi progressivi, o dichiarato troppo pericolso per gli insediamenti umani e coloro che fuggono violenze o conflitti armati legati al clima. Gli idps sono protetti dalle garanzie dei diritti umani che vincolano uno stato poiché sono cittadini o residenti del loro proprio paese e continuano a godere dell'intera gamma delle garanzie disponibili per la popolazione generale. Ma i diritti umani che sono particolarmente importanti per gli idps sono elencati e ulteriormente specificati nei Guiding Principles on Internal Displacement. Si tratta di un documento che riguarda tutte le fasi del displacement, prima e durante lo sfollamento, durante il ritorno e la fase di ristabilimento. Per esempio essi affermano che le evacuazioni forzate in casi di disastri sono proibite “unless the safety and health of those affected require suche measures” (princ 6). Inoltre le evacuazioni, qualora necessarie, devono essere condotte in modo che non violino “il diritto alla vita, alla dignità, alla libertà e sicurezza di coloro che sono colpiti” (princ 8). Per quanto riguarda la protezione durante lo sfollamento, in situazioni di conflitto armato ma considerando anche i bisogni delle famiglie separate da disastri improvvisi, si stabilisce che “all internally displaced persons have the right to know the fate and whereabouts of missing relatives”, e le autorità in questione sono obbligate, a tal proposito a “endeavour to establish the fate and whereabouts of internally displaced persons reported missing, and cooperate with relavant international organisations engaged in this task. They shall inform the next of kin on the progress of the investigation and notify them of any result” (princ. 16). Per quanto riguardo l'aiuto umanitario, gli IDPs hanno il diritto di avere accesso sicuro al cibo e all'acqua potabile, rifugio sicuro e alloggio, vestiti appropriati e srvizi medici di base (princ. 18). Inoltre, per quanto riguarda la fase di recupero, i Guiding Principles affermano il principio che gli IDPs hanno il diritto di scegliere tra il ritorno volontario alle loro prime case, integrandosi dove sono stati sfollati, o muovendo verso un'altra parte del paese (princ 28) e sanciscono anche il diritto alla restituzione dei beni (princ 29). I Guiding Principles anche se non sono un trattato vincolante, traendo la loro autorità dalla coerenza con i principi vincolanti dei diritti umani, oggi sono riconosciuti dagli stati come un importante quadro internazionale per la protezione degli idps. Diversi stati li hanno integrati nel proprio diritto interno. In Africa, il “Great Lakes IDP Protocol” e la Convenzione di Campala, che affrontano in maniera specifica lo sfollamento per disastri naturali, ad esempio, citano i Guiding Principles. Un ulteriore strumento importante per identificare e implementare i diritti umani per le persone sfollate in conseguenza di disastri naturali, se sfollate o meno, sono le Operational Guidelines on Human Rights and Natural disasters14. Adottate nel giugno del 2006 dallo IASC, UN's Inter-Agency Standing Committee,'ente che coordina le agenzie umanitarie, incluse le grandi organizzazioni non-governative internazionali, mirano ad incrementare le capacità di protezione degli attori umanitari. Basate sui Guiding Principles, riguardano anche le popoalzioni non sfollate colpite da disastri naturali. Si tratta di uno strumento finalizzato a sensibilizzare gli operatori umanitari verso le sfide per i diritti umani, sottolineando le attività che dovrebbero essere intraprese in questa direzione. Dunque, per le persone forzatamente sfollate in conseguenza degli effetti del cambiamento climatico all'interno del proprio paese il quadro dei diritti umani esistente, codificato nei guiding principles, è sostanzialmente sufficiente. La sfida adesso è quella di incorporare questo quadro all'interno della legislazione domestica e di rafforzare le capacità delle autorità nazionali e locali 14 Consiglio dei diritti umani, Report of the Representative of the Secretary-General on human rights of internally displaced persons, Walter Kalin, UN Doc. A/HRC/4/38/Add.1 del 23 gennaio 2006. nell'implementarlo e nell'applicarlo e includendo i responsabili per la gestione dei disastri e le comunità15. B Persone sfollate attraverso i confini internazionali B.1. Rifugiati Coloro che sono costretti a varcare i confini internazionali possono essere qualificati in alcuni casi come rifugiati, in particolare se le autorità rifiutano di assistere e di proteggerle sulla base della loro razza, religione, nazionalità appartenenza a un gruppo sociale particolare o opinione politica nel contesto dei disastri, violenza o conflitti armati innescati dagli effetti del cambiamento climatico. In tali casi trovera piena applicazione la protezione del diritto internazionale e regionale dei rifugiati. Particolarmente importante è il principio del non-refoulement sancito dall'art. 33 (1) della Convenzione dei Rifugiati che vieta in ogni modo di riportare un rifugiato alle frontiere di territori dove la sua vita e la sua libertà potrebbero essere minacciate. Mentre, come abbiamo visto, questo divieto non fornisce una base per l'ammissione permanente in un altro paese, obbliga però gli stati ad ammettere almeno temporaneamente le persone che fuggono da pericoli che costituiscono persecuzione. Tuttavia tale protezione riguarda pericoli che provengono da agenti di persecuzione e non è disponibile per persone direttamente sfollate da disastri. Nelle regioni parte dalla convenzione dell'OUA e dalla Dichiarazione di Cartagena, in cui gli eventi che provocano disordine pubblico potrebbero condurre alla protezione di rifugiato, il gruppo di potenziali beneficiari di tale protezione potrebbe essere esteso da un'espansione della dottrina sull'interpretazione di questa nozione, fermo restando la dubbia accettazione da parte degli Stati. B.2. Altre persone La sfida principale è quella però di chiarire, se non di sviluppare, il quadro normativo applicabile a quanti attraversano i confini dopo disastri improvvisi o come conseguenza di processi distruttivi più lenti, o per l'affondamento degli small island states, o subito dopo la designazione del posto d'origine come zona altamente a rischio pericolosa per le abitazioni umane. In questi casi, infatti, tutta una serie di questioni deve essere affrontata. 15 W.Kalin, p. 81 La prima questione è quella di differenziare coloro che si muovono volontariamente rispetto a coloro che sono costretti a farlo. Questo non solo rispetto all'assistenza e alla protezione mentre sono lontani da casa, ma anche rispetto alla loro possibilità (o persino il diritto) di essere ammessi in altri paesi e rimanervi, almeno temporaneamente. La soluzione sembra chiara: il diritto internazionale attuale, mentre riconosce il diritto di tutti gli esseri umani al pieno godimento dei diritti umani, nei fatti poi distingue tra coloro che si muovono volontariamente e non hanno nessuna protezione giuridica specifica, e coloro che sono sfollati forzatamente, per i quali sono stati sviluppati alcuni regimi normativi specifici (diritto dei rifugiati e Guiding Principles on Internal Displacement). In generale, la sovranità statale nel campo dell'ammissione o allontanamento degli stranieri è più limitata quando si parla di migranti forzati, rispetto alla situazione dei migranti volontari. Nel caso del movimento interno, il diritto alla libertà di movimento e alla scelta di residenza fornisce agli individui la possibilità di andare in altri luoghi all'interno del proprio paese, senza considerare se hanno lasciato volontariamente o meno il loro luogo d'origine. Ma il diritto alla libertà di movimento in quanto tale non fornisce un diritto ad essere ammessi in un altro stato, anche nel caso in cui la sceltadi muoversi è forzata. Gli Stati, infatti, dovrebbero cominciare a considerare la migrazione volontaria come parte di una strategia individuale di adattamento per affrontare gli effetti negativi del cambiamento cliamatico e, a seconda delle circostanze, ad agevolarla in quanto contributo all'adattamento in generale. Il diritto internazionale, tuttavia, con l'eccezione del diritto dei rifugiati e il principio del nonrefoulement che proibisce in alcune circostanze l'allontanamento ai confini del paese di rifugio, non fornisce nessun titolo ad essere ammesso in un altro paese. I movimenti volontari e forzati spesso non possono essere chiaramente distinti nella vita reale. Piuttosto, come suggerisce Hugo, costituiscono due poli di un continuum, con un'area particolarmente grigia nel mezzo, in cui elementi di scelta e di coercizione si confondono. Tuttavia il diritto deve sempre tracciare linee chiare, deve quindi necessariamente specificare il movimento sia che sia volontario che forzato. Così, è necessario definire i criteri rilevanti per distinguere tra coloro che lasciano volontarimanete le loro case o i luoghi di residenza abituali per gli effetti del cambiamento climatico, e coloro che sono costretti a lasciarli per tali effetti oanche se all'inizio l'hanno lasciato volontariamente- non possono più tornare e quindi dovrebbero avere il diritto di protezione all'estero. Al fine di tracciare questa linea, si potrebbe elaborare un'analisi delle vulnerabilità per individuare quando le vulnerabilità hanno raggiunto un livello tale che una persona è costretta a lasciare la propria casa. Tuttavia sarebbe ovviamente estremamente complesso sviluppare criteri generici su questa base e applicarli individualmente, in particolare in situazioni di disastri dall'innesco lento. A questo punto, Kalin propone un approccio differente. Basandosi sui tre elementi della definizione d i rifugiati nell'art. 1 A (2) della Convenzione sui Rifugiati: 1) essere al di fuori del paese d'origine; 2) la persecuzioni sulla base di specifici motivi (religione, razza, etc..) 3) non potere o non volere disporre della protezione di un paese. Le persone sfollate al di là dei confini per effetto del cambiamento climatico soddisfano sicuramente il primo criterio, l'essere cioè fuori dal proprio paese d'origine. Abbiamo visto anche che, tranne in alcuni casi, non sono rifugiati perchè non vengono perseguiti sulla base di nessuna delle ragioni previste. Tuttavia, in maniera simile alla persecuzione gli effetti del cambiamento climatico possono costituire serie minacce alla vita e alla salute e gil sfollati sono costretti ad affrontare pericoli simili anche se per diversi motivi. Il terzo criterio potrebbe anche essere utile per preparare una soluzione. Come per i rifugiati, Kalin invita a chiedersi in quali circostanze non ci si dovrebbe aspettare che gli sfollati attraverso i confini per gli effetti del cambiamento climatico o debbano ritornare nel proprio paese d'origine, necessitando di qualche forma di protezione internazionale, temporanea o permanente. In generale la risposta, come per i rifugiati, dipenderà dall'incapacità o dalla non volontà delle autorità del paese d'origine o di residenza abituale di fornire la protezione e l'assistenza necessarie, nel caso di disastri naturali alle persone coinvolte. C'è quindi una differenza tra due situazioni: nel caso di persecuzione, il presupposto è che le autorità del paese d'origine non vogliono proteggere le persone interessate. Nel caso di disastri invece il presupposto dovrebbe essere una volontà continua da parte di queste autorità di fornire protezone e assistenza, ma in molti casi sarà chiaro che la capacità di farlo è limitata o persino inesistente. Questi criteri aiutano a determinare chi dovrebbe essere ammesso al confine di un altro stato e dovrebbe avere il permesso di rimanere, almeno temporaneamente. Nel caso dell'arrivo al confine di un paese vicino all'indomani di un disastro naturale, coloro che sono stati costretti a fuggire devono certamente inizialmente essere ammessi sulla base del fatto che il loro movimento è forzato al momento della partenza e che hanno deciso che fuggire attraverso il confine ritenendo fosse la migliore opzione per mettersi in sicurezza. Ancora più rilevante e complicata è la questionese se tali persone possono essere obbligate a ritornare al loro paese d'origine una volta che l'immediato pericolo è superato. Il punto di partenza in questo caso non dovrebbero essere le motivazioni soggettive degli individui e delle comunità da cui è scaturita la decisione di trasferirsi. Piuttosto bisognerebbe considerare, alla luce delle circostanze prevalenti e delle vulnerabilità di coloro che sono interessati, se è irragionevole, e quindi inappropriato, chiedere loro di ritornare al paese d'origine. Questo sorta di test della “returnability” aiuta ad identificare meglio coloro che necessitano di protezione internazionale, interessando non solo coloro che fuggono forzatamente in un altro paese, ma anche coloro il cui movimento iniziale è stato volontario ma col tempo il ritorno non costituisce più un'opzione possibile. La prospettiva è quella di valutare il grado di sicurezza del ritorno, chiedendosi se è ammissibile giuridicamente, se è realmente possibile e, infine, se è ragionevole. Per quanto riguarda il primo criterio (permissibility), ci sono alcuni casi in cui il diritto dei diritti umani, per analogia col principio del diritto dei rifugiati del non-refoulement, stabilisce che il ritorno è inammissibile. Il primo esempio è la proibizione del rientro di qualcuno ad una situazione qualora ci siano ragioni sostanziali di credere che un individuo potrebbe affrontare il rischio reale di tortura o trattamento crudele e degradante o pena di morte, oppure una privazione arbitraria della vita. Questa proibizione è stata sancita dalla Corte Europea dei diritti umani e dalla Commissione dei diritti umani, dall'art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani e dall'art. 7 dell'Iccpr, tuttavia non è ancora stata applicata alle situazioni di disastro. Il secondo esempio è la proibizione delle espulsioni collettive, non basandosi su valutazioni individuali. Il secondo criterio (Feasibility), invece, riguarda il caso in cui il ritorno potrebbe essere concretamente impossibile per impedimenti tecnici o amministrativi. Ciò avviene, ad esempio, quando le strade sono inagibili per le alluvioni o gli aeroporti nel paese d'origine sono chiusi, oppure per ragioni pratiche, se il paese d'origine rifiua la reammissione per ragioni tecniche e giuridiche (durante un'emergenza, un paese potrebbe non riuscire ad accogliere ampi flussi di ritorno, o potrebbe prevenire la riammissione di persone i cui documenti di viaggio o di dimostrazione di cittadinanza sono distrutti, persi o seplicemente rimasti indietro a momento della partenza. L'ultimo criterio (Reasonableness) riguarda gli impedimenti umanitari, ossia quando il ritorno, pur essendo ammissibile giuridicamente e realmente fattibile, non è possibile sulla base di ragioni giuridiche e umanitaire. In altre parole, non si può stabilire il rientro se il paese d'origine non fornisce alcuna garanzia di protezione o assistenza, o se ciò che è fornito non risponde a standard internazionali di protezione adeguati. Ciò vale anche nel caso in cui le autorità non forniscono agli sfollati nessun tipo di soluzione durevole in linea con gli standard internazionali, che permetta loro di ripendere le vite normali, specialmente nel caso di territori divenuti inabitabili. Se uno di questitre criteri non è soddisfatto allora gli individui coinvolti dovrebbero essere considerati vittime di trasferimento forzato che richiedono protezione e assistenza in un altro stato. In questi casi, dovrebbe essere garantita almeno una permanenza temporanea nel paese dove hanno trovato rifugio fino a quando le condizioni per il ritorno nonsono adeguate ai criteri delineati. Qualora invece i territori siano divenuti inabitabili o il ritorno non sarà possibile per lungo tempo, devono essere individuate soluzioni permanenti sul territorio di altri stati. 3. Proposte per superare i gap nel regime di protezione dei rifugiati Diverse proposte sono state avanzate per superare i gap giuridici e normativi che abbiamo individuato, mirate a permettere alle persone che necessitano di protezione internazionale di beneficiare di meccanismi di supporto specifici da una parte e ad imporre obblighi specifici agli stati firmatari dall'altra. Alcuni hanno proposto di rivedere e ampliare la definizione tradizionale di rifugiato così come è stata stabilita dalla Convenzione del 1951 per includere i cosiddetti “environmental refugees”. Altri di adottare una nuova convenzione internazionale o persino un protocollo speranto alla Convenzione del 1951. Altri ancora, vedendo nel cambiamento climatico una delle principali minacce future alla pace e alla sicurezza internazionali, hanno proposto formalmente di attribuire un mandato specifico al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. a) Ampliare la Convenzione del 1951 Dal momento dell'adozione della Convenzione dei Rifugiati del 1951 la configurazione dei flussi migratori è profondamente mutata. In particolare, i fattori ambientali giocano un ruolo crescentemente critico per cui gli esperti e le agezie umanitarie invocano un'interpretazionee comprensiva e innovativa della Convenzione, passata nei decenni senza aver subito una qualche modifica sostanziale. Alcuni propongono di ampliarla per includere i rifugiati ambientali in linea con l'esempio fornito da alcune convenzioni regionali che si occupano di rifugiati, quali la Cartagena Declaration on Refugees, adottata dall'Organizzazione degli Stati Americani nel 1984, che afferma che “in addition to containing the elements of the 1951 Convention […] the definition includes among refugees persons who have fled their country because their lives, safety or freedom have been threatened by generalized violence, foreign aggression, internal conflicts, massive violations of human rights or other circumstances which have seriously disturbed the public order”16. Inoltre la San Josè Declaration on Refugees and Displaced Persons, adottata nel 1994 afferma “existing regional fora dealing with matters such as economic issues, securuty and protection of the environment to include in their agenda consideration of themes connected with refugees, other forced displaced populations and migrants”. Sebbene queste convenzioni non siano state concepite avendo in mente la questione degli “environmental refugees”, possono essere a ragione considerate come includenti anche questa nuova categoria di rifugiati tra le categorie che potrebbero seriamente minacciare l'ordine pubblico. In questo modo, una definizione più ampia potrebbe essere: “any person who owing (1) to well-founded fear or being persecuted for reason of race, religion, nationality, membership of a particular social group, or political opinion, or (2) to degraded environmental conditions threatening his life, health, means of subsistence, or use of natural resources, is outside the country of his nationality and is unable or, owing to such fear, is unwilling to aveil himself of the protection of that country”. Scrive Cooper environmental refugees:meeting the requirements of the refugee definition. Un'altra opzione per espandere l'ambito della convenzione del 1951 potrebbe essere l'incorporazione di quei diritti umani che sono stati già ricnosciuti nella Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 e da altre convenzioni internazionali 17. Una risoluzione dello UN Consiglio dei diritti umani, promossa da molti Small Islands States e infine adottata nel marzo 2008, ha riconosciuto esplicitamente il cambiamento climatico come una questione di diritti umani, e invita l'UNHCR ad investigare sugli effetti del cambiamento climatico sul pieno godimento dei diritti economici, sociali e culturali. Allo stesso tempo, come abbiamo visto, alcuni sostengono che gli effetti del cambiamento climatico sono gravi abbastanza da costituire una forma di persecuzione nel senso della 16 Art. 3, OAS/Ser.L/V/11.66. Doc 10, rev. 190-193, Section III. 17 Basti pensare agli articoli sulla libertà dalla persecuzione for “reasons of race, religion, nationality, membership of a social group and political opinion”, così come il diritto di richiedere e godere dell'asilo in altri paesi dalle persecuzioni sono state stabilite per la prima volta nella dichiarazione universale su diritti umani art. 2, 14, 18, 19. inoltre, la convenzione del 1966 sui diritti civili e politici riconosce ad ognuno il diritto “to enjoy and utilize fully and freely the natural wealth and resources (art. 47) in maniera simile la Commissione Interamericana sui diritti umani ha interpretato il diritto alla vita come necessariamente collegato e dipendente dall'ambiente fisico. Convenzione del 1951, cosicchè coloro che sono stati costretti a trasferirsi o a migrare in conseguenza del degrado ambientale possono qualificarsi come rifugiati nel senso stretto giuridico. Proprio la complessità e la scarsa definizione del termine “persecution” fa sì che si può pensare che si possa essere perseguitati dal danno ambientale. b) Stabilire un regime giuridico internazionale ad hoc per i rifugiati ambientali Tuttavia un'espansione della definizione di rifugiato potrebbe limitare i benefici per gli “environmental refugees”. Permanendo il requisito dell'attraversamento dei confini, infatti, sarebbero esclusi dalla protezione internazionale quanti non attraversano i confini internazionali e sono molto probabilmente da qualificarsi come IDPS. Per questo motivo alcuni esperti invocano la negoziazione di una nuova convenzione multilaterale o di un protocollo separato alla Convenzione dei rifugiati del 1951, tesa al riconoscimento e alla protezione di coloro che pur necessitando di protezione internazionale, non soddisfano i criteri della Convenzione dei 1951. Subito dopo l'iniziativa di Toledo del 2004 su Environmental Refugees and Ecological Restoration, i governi delle Maldive e di Tuvalu, supportati da molti altri small island states, hanno proposto l'adozione di un Protocollo sui rifugiati ambientali. Improntato all'obiettivo di mettere gli stati in grado di gestire proattivamente il reinsediamento di persone che affrontano il trasferimento per il cambiamento climatico, include tutte “persons displaced by impacts on the environment, which include, but are not limited to, climate change, force majeure, pollution, and conditions that are forced upon the environment by state, commercial enterprises or a combination of state and commercial entities”. Una nuova convenzione internazionale, secondo F. Argese, dovrebbe contemplare una serie di elementi quali 1) programmi di reinsediamenteo di lungo termine pianificati e volontari e integrazione delle persone coinvolte come immigrati permanenti nei paesi ospiti, 2) attenzione ai bisogni di gruppi di persone o persino intere nazioni -come nel caso degli small siland statespiuttosto che su persone perseguitate individualmennte, 3) supporto ai governi e alle agenzie nazionali nel proteggere le persone all'interno dei territori piuttosto che fuori. 4) finanziare un fondo per le migrazioni basato sul principio che “the polluter pays” 18. Più in generale la convenzione dovrebbe operare secondo un approccio che guarda alla protezione di persone come problema globale e di responsabilità in accordo col principio di UNFCC di “common but 18 Biermann. Boas, protecting climate refugees: the case for a global protocol, ennvironment: science and policy for sustainable development, nov.dic 2008 differentiated responsabilities”. Per quanto riguarda invece l'implementazione di una nuova convenzione internazionale le posizioni in campo sono diverse. Alcuni propongono di affidare ad un network coordinato di agenzie che abbiano esperti giurdici e tecnici in questa materia, quali UNHCR, lo UN Development Programme, lo UN Environmental Programme, e la Banca Mondiale. Le questioni del displacement e delle migrazioni per motivi ambientali sollevano, infatti, un gran numero di questioni quali il bisogno di protezione, i diritti umani, i diritti degli indigeni, i diritti culturali e i problemi ambientali- che riguardano una varietà di differenti mandati istituzionali. Altri invece, temendo il rischio di una gestione frammentata propongono di affidare un mandato specifico permanente ad una singola organizzazione. c) Mandato al Consiglio di Sicurezza Abbiamo già visto come il potenziale senza precedenti dei flussi migratori per ragoni ambientali, che eccede ampiamente il numero dei rifugiati tradizionali da persecuzioni politiche, solleva serie questioni di politiche di sicurezza. Gli “environmental refugees” potrebbero in modi diversi provocare violenti conflitti, sia a livello interno che internazionale. In realtà il cambiamento climatico non costituisce di per sé una causa diretta di instabilità. Tuttavia, senza strategie efficaci di mitigazione e di adattamento, potrebbe agire come una minccia amplificatrice e innescare o esacerbare conflitti, destabilizzando internamente gli Stati. Per questo motivo gli approcci tradizionali alla prevenzione e risoluzione dei conflitti potrebbero essere riconsiderati alla luce della natura critica del nesso tra ambiente, sviluppo e sicurezza. In questo senso, da un punto di vista giuridico, si arriva a sollevare la questione della competenza del Consiglio di Sicurezza delle UN, sancita nell'art. 39 della Carta, di “decide what measures shall be taken to maintain or restor international peace and security”. Nell'aprile del 2004 per la prima volta il Consiglo di Sicurezza ha tenuto un dibattito su tale questione, mentre nel 2009 l'Assemblea Generale ha approvato una risoluzione su “Climate Change and its possible security implications”19. In realtà, però, da una parte sono proprio i potenti membri del Consiglio di Sicurezza, Russia e Cina, a mettere in discussione se la questione del cambiamento climatico rientra nell'agenda del Consiglio di Sicurezza. Dall'altra, anche molti paesi in via di sviluppo diffidano di tale istituzione, temendo che un mandato più ampio estenderebbe l'influsso del consiglio nelle 19 UN General Assembly Draft Resolution, A/63/L.8/Reev !. politiche interne. Ma il Consiglio sconterebbe un difetto di legittimità di fondo, dato il potere di veto dei sui cinque membri permanenti che sono tra i maggiori produttore di gas serra. Infine, bisognerebbe tener presente che la funzione del consiglio di sicurezza è di preservare la pace e la sicurezza internazionali autorizzando l'uso della forza qualora necessario. Evidentemente il cambiamento climatico ha una natura completamente differente, mettendo quindi in dubbio la necessità di un ruolo più forte del consiglio. Conclusioni Resta tuttavia la questione degli small island states. Proprio relativamente ad essa sono state state messe a punto alcune strategie che al momento sembrano le uniche opzioni possibili. L'opzione più adatta per permettere alle popolazioni degli small island states di reinsediarsi e ottenere l'ammissione in paesi stranieri prima che i loro paesi siano sommersi potrebbe essere la negoziazione di accordi ad hoc interstatali. Tali accordi bilaterali o regionali dovranno affrontare il problema del dove e con quale base giuridica le persone potrebbero essere reinsediate, definire gli standard di trattamento da applicare, salvaguardando in particolar modo la cultura e l'identità dell'isola. Tuttavia i pochi programmi di reinsediamento messi in atto finora si sono concentrati sooprattutto sui processi di reinsediamento fisico piuttosto che sull'integrazione sociale e culturale delle persone sfollate una volta che sono state accolte nelle comunità ospitanti. Per questo motivo la sfida più grande riguarderà la questione di come assicurare che le popolazioni colpite possano continuare a mantenere la propria identità di comunità anche dopo la perdita dei territori. Nel 2000 il governo di Tuvalu ha chiesto sia all'Australia che alla Nuova Zelanda, vista la prossimità geografica, di ospitare dei cittadini se il livello del mare raggiunge il punto in cui l'evacuazione diventa inevitabile. Sebbene riluttanti, gli abitanti di Tuvalu hanno cominciato a muoversi verso la Nuova Zelanda nei termini di uno schema di migrazione trentennale chiamato “Pacific Access Category” negoziato nel 2001 tra i governi della Nuova Zelanda e Tuvalu, così come Fiji, Kiribati e Tonga. Ogni paese beneficiario ha stanziato una quota definita di cittadini cui ogni anno è garantita residenza in Nuova Zelanda. In realtà la quota definita è insufficiente a riallocare l'intera popolazione entro il 2050, quando è prevista la scomparsa dello stato, e così il governo di Tuvalu si appresta a stipulare nuovi accordi o addirittura riflette sul possibile acquisto di terre in altri Stati. Sebbene quest'accordo non citi il cambiamento climatico e si configura come un tipico accordo di migrazione, il Pacific Access Category è il primo accordo internazionele ad aver stabilito uno schema di reinsediamenteo, fornendo così un modello di coooperazione internazionale e di Burden-Sharing. Vale la pena segnalare un'altra iniziativa, questa volta lanciata dall'OIM nell'ottobre 2008. Si tratta della “Climate Change, Environment and Mitigation Alliance” stabilita al fine di condurre una serie di ricerche e progetti pilota che cercano di riqualificare e reinsediare le persone che hanno perso le loro terre e mezzi di sostentamento in conseguenza del cambiamento climatico, compreso l'innalzameno del livello del mare. È un segnale importante vista la necessità di ulteriori ricerche per delineare gli schemi migratori legati al cambiamento climatico, le motivazioni alla base di questi movimenti, al fine di sviluppare criteri di analisi rilevanti e identificare e affrontare i gap normativi soprattuto per quanto riguarda coloro che attraversano i confini internazionali. Tuttavia, bisogna tener bene a mente che l'implementazione di ognuna delle proposte delineate sinora si basa esclusivamente sulla volontà politica degli stati e il fallimento della Conferenza di Copenaghen delle Nazioni Unite sul Climate Change nel 2009 non aiuta certamente ad essere ottimisti. Come abbiamo visto si tratta di una questione estremamente complessa con cui la comunità internazionale dovrà inevitabilmente confrontarsi. Sarà importante, nell'approcciarsi ad essa, cominciare a guardare il displacement come un meccanismo di adattamento, sostenere gli stati colpiti nei loro sforzi di prevenzione e trovare soluzioni durevoli per rispondere ai bisogni di protezione e di assistenza delle persone colpite. L'obiettivo della trattazione è stato quello di mettere in luce tale complessità del displacement che lascia presagire l'inevitabile comeplessità di qualsiasi tentativo di risposta ad esso. Ma perchè le risposte si rivelino efficaci, bisognerà considerare tutta una serie di elementi. Il primo è il ruolo cruciale del cambiamento climatico nell'innescare il displacement. Abbiamo visto come la categoria della causalità non possa applicarsi ai processi migratori e come sia più corretto dire che il mutamanto climatico avrà un impatto aggravante, che va ad aggiungersi a problemi e minacce preesistenti. La natura del movimento, infatti, varierà grandemente a seconda del contesto specifico, che potrebbe interagire in modi, tempi e pressioni politiche, economiche, sociali e ambientali diversi. Per questo motivo possiamo dire che gli effetti del cambiamento climatico, sebbene indiscriminati, sono socialmente e spazialmente differenziati. Gli impatti del mutamento climatico saranno sentiti differentemente nelle diverse comunità, poiché differerente sarà la capacità delle persone di affrontarli. Per capacità intendiamo le infrastruttture, la resilienza economica, l'abilità nel ricostruire le proprie vite, che non può non essere condizionata dalle situazioni politiche, economiche e sociali preesistenti. Si intuisce come ovviamente il livello di sviluppo di un paese diventi centrale per la propria capacità di adattamento, poiché è incrementata dalle risorse e dalla tecnologia, mentre è fortemente limitata dalla povertà. Inevitabilmente quindi gli effetti del cambiamento saranno sentiti maggiormente in alcune parti del mondo piuttosto che in altre. Il secondo elemento riguarda il fatto che il movimento sia principalmente interno e/o graduale: ed è questo senza dubbio un elemento fondamentale di cui tener conto nel momento in cui si mettono appunto le politiche, soprattutto a livello nazionale. Il terzo elemento, da tener presente ad ogni livello della questione, regionale, nazionale e internazionale, è che ogni strategia deve adottare un approccio integrato, intendendo l'attenzione a considerare i desideri delle comunità interessate, rispettandone la volonta, e rispondendo adeguatamente ai loro bisogni e alle loro preoccupazioni. J. Barnett e J. Campbell scrivono: Adaptations will not be implemented, nor be successful, unless they are consistent with the social and cultural mores particular to the community in which adaptation takes place. Put another way, adaptation activities have to be aligned with what people consider to be their needs, rights and values, otherwise implementation of adaptation will fail. It is therefore important that adaptation strategies are not imposed by outsiders, and that local communities are carefully and deliberately involved and empowered in decision making about and implementation of adaptation activities.20 Infine, l'ultimo elemento riguarda l'importanza di inserire l'impatto climatico sulla mobilità, e le politiche che ne derivano, all'interno di un più ampio contesto storico e sociale. Diversamente si avrebbero politiche nel vuoto, inefficaci e talvolta dannose. Riconoscere il ruolo duraturo che la migrazione ha giocato come meccanismo di adattamento in alcune regioni aiuta ad informare e contestualizzare i dibattiti politici correnti, e potrebbe anche aiutare ad attenuare alcuni degli approcci più clamorosi che a volte sono stati invocati. Per questo è necessario un approccio multidisciplinare che garantisca soluzioni olistiche. In definitiva, abbiamo potuto vedere come i quadri giuridici e normativi offerti dal diritto internazionale non siano adeguati ad affrontare la questione nella sua complessità. Tuttavia, pòssono sicuramente offrire concetti e parametri utili per sviluppare soluzioni guiridiche e politiche incentrate sui diritti umani. 20 J. Mac Adam, Climate-Change, Forced Migration, and International Law,Oxford, 2012, p.268. 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It depends on the Source», in Colorado Journal of International Environmental Law and Policy, 2001, vol. 12, p. 1-19; -Argese Francesco, Threats from sea-level rise to small and low-lying island States: is international law a hope for "environmental refugees"), in La Comunità Internazionale, 2010 fasc. 3, pp. 435 – 454; -Jane Mc Adam, Climate change and displacement : multidisciplinary perspectives, Oxford; -Jane Mc Adam, Complementary protection in international refugee law ,New York: Oxford University press, 2007; -Jane Mc Adam, Forced migration, human rights and security, Oxford, Oregon: Hart, 2008; - Guy S. Goodwin-Gill and Jane McAdam, The refugee in international law Portland,