Il pensiero di Cristo e l`identità dell`uomo
Transcript
Il pensiero di Cristo e l`identità dell`uomo
Il pensiero di Cristo e l’identità dell’uomo “Educarsi al pensiero di Cristo” Lett. Past., card. Angelo Scola 1° Incontro di catechesi parrocchiale «Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?» (Sal 8, 15) Una premessa Iniziamo quest'anno il percorso della catechesi e desidero richiamare la ragione e il valore di questi momenti che sono chiesti alla comunità degli adulti della nostra parrocchia. I contenuti che verranno proposti, proprio perché contenuti di una catechesi vissuta nell'ambito di una comunità cristiana cattolica, non appartengono a una teoria astratta o a una filosofia religiosa; sono piuttosto il patrimonio di coscienza matura e consapevole dell'esperienza della fede cristiana vissuta dalla Chiesa dall'origine a oggi. Io mi sento di proporli chiedendovi di non dare per scontato ciò verrà detto ma di renderlo occasione di una verifica della propria esperienza personale e comunitaria, fino a rendere le parole o i contenuti, percepiti come problematici, occasione di una riflessione e di un confronto ancora più determinanti. 1) Chi è l’uomo? Un imprescindibile interrogativo Non possiamo affrontare questa domanda senza avere chiara consapevolezza che tutta la vita di un uomo, nelle infinite sue espressioni (azioni, rapporti, giudizi, scelte) è determinata, lo voglia o non lo voglia, ne sia cosciente o non ne sia cosciente, è determinata ultimamente proprio dalla consapevolezza che ha di sè, dalla percezione del proprio io. La trascuratezza, la superficialità, l'immaturità, con cui un uomo potrebbe considerare questo interrogativo, costituiscono la difficoltà e la fragilità più pesante per il suo cammino umano e alla lunga producono un inevitabile sfaldamento della sua esperienza. Insomma è proprio questa la grande questione: non essere capaci, bravi, buoni, coerenti ma veri con se stessi. In fondo, tutto ci è dato per affermare sempre di più la verità di noi stessi, una verità, per di più, che ci supera sempre come bene afferma Paul Ricoeur: «Quello che io sono è incommensurabile con quello che io so». Per questo troviamo imponente e consolante la testimonianza che ci è data da tutto il cammino della storia umana, in particolare dalla grande tradizione giudaico cristiana. Essa ha sempre riconosciuto il valore supremo di questa domanda. Ciascuno di noi, credo senza alcuna forzatura, dalla sensibilità personale e dall'esperienza vissuta, in un cammino magari fatto di sprazzi di luce e di chiarezza come di momenti di problematicità e forse di oscurità, ciascuno si sentirebbe di confermare questo giudizio. Del resto come sarebbe possibile entrare, in un rapporto veramente personale, con la realtà, con le cose, con le persone tanto da poter dire “mio” il rapporto con tutto, (gli amici, i figli, il cielo e stelle) se non fosse messa in campo una chiarezza circa la consistenza del mio io. Tutto ciò affermiamo pur consapevoli che, da tanta parte della cultura di oggi, viene dimenticato, svilito e addirittura negato il valore e l'importanza dell'interrogativo sulla propria identità. «E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile».(R.M. Rilke, «Seconda Elegia», in Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1978.) Occorre una vigilanza personale e un intelligente richiamo fraterno perché non si ceda, magari inconsapevolmente, a questa pressione forte e subdola, operata dal mondo che ci circonda e che tende, attraverso la pluralità dei suoi strumenti, a svilire in noi la passione per il nostro io, rendendoci sempre più fragili e confusi. Papa Francesco chiama tutto questo: colonizzazione ideologica. A questo interrogativo ci accostiamo, valorizzando la capacità di conoscenza e di riflessione della nostra ragione nel riferimento esplicito al contributo della tradizione giudaico cristiana. 2) L'uomo è creatura di Dio «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». (Gen 1, 27) «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona». (Gen 1, 31) Oggi questa parola, "creatura", può risultare vetusta, di altri tempi, può essere percepita scomoda o generare una sorta di fastidio ma resta una parola grande e preziosa perchè ha la forza di introdurre l’uomo alla conoscenza della verità profonda del suo essere, del suo io. [1] Essa afferma che il dato costitutivo dell'uomo è una relazione, è un rapporto con qualcosa d'altro o meglio con Qualcuno altro da sè. Questo rapporto si qualifica con due attributi: è originario, nella sua duplice valenza: sta all'origine e dà origine; è la fonte da cui viene fuori l'uomo, vengo fuori io, vieni fuori tu, in modo permanente. è ontologico, cioè riguarda profondamente e realmente l'essere dell'uomo nella sua interezza, il mio come il tuo essere. È un dato che non sta alla superfice, non riguarda ciò che appare. Qual è la sorgente?, è rapporto con chi? La sorgente che fa essere l’uomo è il mistero di Dio, nella Sua volontà, nella Sua libertà, nella Sua intelligenza e nel Suo amore. L'uomo è creatura di Dio L'uomo, dunque, nella sua natura, afferma una dipendenza perchè creato da Dio, fatto da Dio; non ci sarebbe se Dio non lo creasse; non ci saresti se non ti creasse, non ci sarei se non mi creasse, istante dopo istante. L'uomo moderno e contemporaneo si scandalizza di questa parola “dipendenza” e freneticamente tenta di liberarsi da questa prospettiva di dipendenza perché teme che diminuisca o schiacci la sua grandezza e la sua dignità. In realtà non è così, perché la dipendenza da Dio non si configura come schiavitù, come dominio, come prigionia, come potere, bensì come appartenenza, amorevole appartenenza a Dio. Cosa significa appartenere? Vi è una traduzione semplice di questa delicata e dignitosa parola: appartenere vuol dire "essere di". È l'insegnamento del bambino. Se immaginassimo un bambino piccolo dotato di una miracolosa capacità di autocoscienza e a lui rivolgessimo la domanda "chi sei, cosa sei tu", la sua risposta non sarebbe una parola detta ma uno sguardo rivolto, rivolto a sua madre e a suo padre, comunicando, con semplicità e evidenza la coscienza di “essere di” sua madre e “di essere di” suo padre, cioè di appartenere a loro. Appartenere è affermare una Presenza che mi costituisce perché è più me di me stesso. La vita dell'uomo e il suo rapporto con Dio coincidono, tanto che posso affermare: io sono Tu che mi fai. Vi sono tre frutti impressionantemente positivi che derivano dalla certezza di appartenere a Dio. -- L'appartenenza al mistero di Dio fonda la dignità, unica, originale, irripetibile e assoluta di ogni singolo uomo. Non vi è altro fattore che entra in gioco nella determinazione del valore dell'uomo. Ti definisce l'appartenenza a Dio perché sei di Lui, sei Suo. Niente e nessuno può formulare la pretesa di una ultima determinazione della tua dignità; non lo può la società, lo stato, non lo può tuo padre, tua madre, i tuoi amici, non lo può la politica, la scienza, la biologia... perché niente e nessuno, all'infuori di Dio, può dire: tu sei mio, tu mi appartieni. In questo orizzonte è emerso e maturato nella storia umana il concetto di "persona". «L’uomo è persona in quanto è chiamato da Dio e fondato nel suo proprio essere da Colui che l’ha creato. Se prescindiamo da ciò non comprendiamo l’uomo. Se infatti abbozziamo altri tentativi per comprendere la sua essenza non l a si afferra». (R. Guardini, “Solo chi conosce Dio conosce l’uomo”, in “Humanitas”, Brescia, fasc. 11, 1953) -- L'appartenenza al mistero di Dio rende certi nella vita di una compagnia, la Sua, che non può mai venire meno. Ogni altro fattore della esperienza umana può venir meno proprio per la sua connaturata fragilità e precarietà. Dice san Paolo: «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (1 Cor 7, 29-31) La compagnia creaturale di Dio nei confronti dell'uomo permane sempre come verità di ogni istante, di ogni circostanza, di ogni frangente della vita, facile o difficile, lieto o doloroso. Pur con dolore e sofferenza, nemmeno la morte ha la forza di rompere questo legame costitutivo con il Mistero. Infatti la morte è introduzione al momento definitivo e compiuto della vita come appartenenza a Lui. È così strappato via dal cammino umano la tragicità di una radicale solitudine. Se non ci fosse questa certezza l’uomo si sentirebbe profondamente solo, fosse pur stretto ai fianchi da 10, 100, 1000 braccia; si sentirebbe buttato, come «una canna, la piú fragile della natura» (dice Pascal) o come minuscolo granello di sabbia, nella immensità sconfinata del mondo, dell'universo e della realtà. Anche la paura non albergherebbe più come sentimento ultimo della vita perché la paura caratterizza l’uomo che “ha”, che “possiede” non l’uomo che “è”, che è “posseduto”. [2] -- L'appartenenza al mistero di Dio rivela alla nostra intelligenza e al nostro cuore il senso ultimo, lo scopo e il compito ultimo della nostra esistenza. Possiamo utilizzare le parole del catechismo antico e nuovo: «Per qual fine Dio ci ha creato? Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell'altra in paradiso». (Catechismo Pio X,13). «Dio ha creato tutto per l'uomo, ma l'uomo è stato creato per servire e amare Dio e per offrirgli tutta la creazione».(CCC,358) Questo è il compito ultimo che vibra, come tensione oggettiva, dentro tutte le giornate, tutte le ore, tutti i minuti della nostra esistenza nel coinvolgimento con tutte le circostanze concrete di cui è fatta la nostra esistenza: figli, moglie, lavoro, amici, colleghi, impegni sociali, culturali, politici, vittorie, sconfitte, nascita, morte... A questo fine l’uomo è stato creato ed è questo il fondamento della sua dignità. «L’uomo è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa»; (GS 24,3) «Quale fu la ragione perchè tu ponessi l'uomo in tanta dignità? Certo l'amore inestimabile con il quale hai guardato in te medesimo la tua creatura e ti sei innamorato di lei; per amore infatti tu l'hai creata, per amore tu le hai dato un essere capace di gustare il tuo Bene eterno». (Santa Caterina da Siena, Il dialogo della Divina Provvidenza, 13) Ecco il senso, il compito: servire, amare e “gustare” Dio. Siamo chiamati alla vita da Dio per entrare in rapporto con la vita stessa di Dio, riconoscerla, farla crescere, portarla a compimento, renderne testimonianza attraverso "tutta la creazione", resi capaci da Dio di custodire e portare a compimento l'opera della creazione stessa. Mi sento comunque di affermare che l’appartenenza è un dato inevitabile della esperienza di ogni uomo. Se non si appartiene a Dio, si appartiene a qualcosa o a qualcun’altro; ultimamente al mondo che ci sta attorno e al suo potere di pensiero, di giudizio e di azione. Tutto ciò accade anche quando si voglia appartenere solo a se stessi, abbandonandosi alla propria misura, sensibilità o “coscienza” o, ancor più gravemente, alla propria istintività e reattività. Per questo San Paolo nella lettera ai Romani parla di una “schiavitù” dell’uomo cui non contrappone una autonomia ma una figliolanza, una “schiavitù di Cristo”. «Io, Paolo, servo di Cristo Gesù». Rom 1,1) La questione decisiva non è dunque eliminare l’appartenenza che è costitutiva dell’uomo, ma realizzarla in Colui che solo può veramente rendere veri, cioè liberi. «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio». (Rom 8, 15-16) 3) Una verità commovente come annuncio ma drammatica come esperienza Per l’uomo non vi è percezione di pace, di bellezza, di positività più corrispondente e più intensa di quella generata dall'umile e certo riconoscimento di appartenere a Dio. Lo testimonia il salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora io ti cerco, ha sete di te l'anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz'acqua». (Sal 63, 2) «Come la cerva anela ai corsi d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio; L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente». (Sal 41, 1) Quale commozione e quale gratitudine è permessa e donata all'uomo autenticamente religioso! Nel contempo però la storia dell’uomo, proprio nel suo inizio, ci pone di fronte alla drammatica esperienza della fragilità umana; l'uomo non riesce a tenere viva questa commozione. Lo vince una tentazione. Si affaccia il peccato originale. È il tentativo che i nostri progenitori hanno messo in atto volendo sottrarsi al rapporto costitutivo con Dio, pretendendo sostituirsi a Lui e credendo di poter fare senza di Lui. Il peccato originale ha proprio questa radice: la volontà di una padronanza di sé, autonoma, indipendente; il gusto illusorio di un possesso di sé in forza della donata capacità di intelligenza e di libertà propria della sua natura fatta da Dio a "Sua immagine e somiglianza" per aderire a Lui, non per ribellarsi a Lui. Ma la verità della creatura, seppur ferita, permane anche dopo il peccato e rimane nell'uomo il desiderio struggente, confuso e nascosto, del rapporto con Dio, quasi sigillo impresso nella sua anima e nella sua carne dal Creatore stesso. “In terra arida, assetata, senz'acqua io, o Dio, Ti cerco”. Seppure in una condizione di aridità come afferma il salmista, questa tensione è incancellabile dal cuore dell'uomo. Anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare mai definitivamente la sete di Lui. Così l’uomo si abbandona spesso a una deriva scettica e nichilista della esistenza oppure si butta in una ricerca affannosa e sterile di falsi “dei” che possano soddisfare almeno per qualche momento la sete dell'anima e l'anelito della carne. Così tanti idoli si sostituiscono al Creatore e le infinite cose buone che il [3] Creatore ha dato all'uomo non lo accompagnano più nelle braccia del Suo Amore. 4) Creati in Cristo Gesù (Ef 2, 10) Tutti noi partecipiamo della fragilità dell'uomo, segnato dal peccato originale. Per questo a ciascuno di noi risulta drammatica, non scontata, non facile, l'esperienza di una vita vissuta come appartenenza a Dio. Quanto sono segnate le nostre giornate, i nostri rapporti, la nostra vita di tutti i giorni dalla lontananza della verità di noi stessi e dalla dimenticanza della nostra identità! Quanta idolatria è presente anche nella nostra esistenza! Cosa può fare l'uomo, cosa possiamo fare noi, in questa condizione di fragilità? Una prima ipotesi: consapevole d'essere gravemente ferito, l'uomo si affida a uno sforzo accanito della sua intelligenza e della sua volontà per non disperdere totalmente l'appartenenza al Mistero. Nei confronti di questa ipotesi san Tommaso ha una espressione che ne evidenzia la debolezza; questa prospettiva dice: «non sarebbe stata accessibile se non a pochi, dopo lungo tempo e non senza errori». (san Tommaso, Summa Th. 1, q,1 art.1) Una seconda ipotesi: lasciarsi andare, distogliere lo sguardo dal Mistero e abbandonarsi alle realtà più banali, più immediate, più a portata di mano; cedere in fondo all'idolatria; affidarsi al fascino dell'autonomia tanto presuntuosa quanto illusoria arrivando a teorizzare l’impossibilità di vivere all’altezza della nostra natura. Una terza ipotesi: l'imprevedibile novità dell’iniziativa di Dio. «Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il figlio suo, nato da donna, perché ricevessimo l'adozione a figli». (Gal. 4, 4-5) «Dio ha tanto amato il mondo, che ha sacrificato il suo figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca ma abbia la vita eterna». (Gv. 3,3). È l’iniziativa della Sua Misericordia Così Dio, il mio Creatore, entra nella storia attraverso Suo Figlio, Gesù Cristo, Colui, nel quale, per il quale, con il quale, Dio ha creato e crea tutto ciò che esiste fin dall'inizio del mondo. «Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione…Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui». (Col 1, 15,17) Gesù è la grande e straordinaria circostanza che permette all'uomo di salvare, cioè portare a compimento l'opera della creazione, con il suo contenuto di familiarità e di appartenenza a Dio. Così il Creatore è entrato nella storia, ha assunto la finitezza dell’uomo e ha sanato la distanza incolmabile con la Sua creatura. «Qual è dunque l'essere che deve venire all'esistenza circondato di una tale considerazione? È l'uomo, grande e meravigliosa figura vivente, più prezioso agli occhi di Dio dell'intera creazione: è l'uomo, è per lui che esistono il cielo e la terra e il mare e la totalità della creazione, ed è alla sua salvezza che Dio ha dato tanta importanza da non risparmiare, per lui, neppure il suo Figlio unigenito. Dio infatti non ha mai cessato di tutto mettere in atto per far salire l'uomo fino a sé e farlo sedere alla sua destra». (San Giovanni Crisostomo, Sermones in Genesim, 2,1) Gesù è profondamente consapevole del disegno che il Padre Gli ha affidato. La Sua missione è far conoscere la verità «udita dal Padre» (Gv 8, 40) «perché (gli uomini) abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». (Gv 10,10) Lo testimoniano questi riferimenti del nuovo testamento: «Poi disse loro una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». (Lc 12, 16-21) E poi, ancora più pungente: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se puoi perde la sua anima?». (Mc 8,32) La sua anima che altro è se non la realtà profonda di sé, la verità del proprio io, i lineamenti del suo volto di creatura, la ricchezza della sua appartenenza al Padre. E ancora: Gesù, nell’incontro con Nicodemo, lo sollecita a nascere di nuovo; «In verità in verità ti dico: nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce di nuovo» e poco più avanti «In verità, in verità ti dico: chi non nasce per acqua e spirito non può entrare nel regno di Dio». (Gv 3, 3,5) “Vedere” e “entrare” nel [4] regno di Dio significa fare esperienza della familiarità con Dio, dell’appartenenza a Lui. Nella storia umana, dopo Gesù, la creazione, con il suo contenuto di verità e di bellezza, si compie nella sequela, nella affezione a Cristo e nel lasciarsi afferrare dal Suo Spirito, dalla Sua Presenza. San Paolo ne è profondamente consapevole: «Se uno è in Cristo, egli è una nuova creatura: le vecchie cose sono passate, ecco, ne sono nate delle nuove!»; (2Cor 5, 17) e anche «Ciò che conta è l’essere nuova creatura». (Gal 6, 16). L’opera redentrice di Cristo è il compimento della opera creatrice del Padre e così all’uomo è dato di trovare nella profondità della dipendenza creaturale di Dio la gioiosa realtà della figliolanza con il Padre. «Carissimi, ora siamo figli di Dio»; (1Gv 3,2) e poi: «ma a tutti coloro che lo hanno ricevuto (il Signore Gesù Cristo), egli ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome». (Gv 1,12) 5) La preghiera: espressione dell’uomo creato La certezza della appartenenza al Mistero non può essere ridotta a una pura consapevolezza di pensiero, di idea. Quanto più affermo con sincerità e lealtà che io sono “Tu che mi fai” tanto più scaturisce nel profondo dell’animo la necessità della preghiera. «Gesù disse ai discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai». (Lc 18, 1) Perché un invito di tale portata? La passione per la vita, la tensione a vivere, quando incontra la sua origine nell’opera amorevole creatrice e redentrice di Dio in Cristo, non può che tradursi nella tensione a mantenere viva la verità di sé. La preghiera è innanzitutto gesto di memoria che rende dimensione della vita la consapevolezza di appartenere a Dio. La preghiera è nel contempo gesto di domanda perché Lui continui la Sua opera rivelandosi sempre più come permanente sorgente dell’essere, come senso dell’esistere, come bene profondo da sperimentare; come compagnia che strappa dalla solitudine, come energia che vince la fragilità, come possibilità di realizzazione autentica di se stessi e di tutti i rapporti con le persone e con le cose. San Tommaso ha definito la preghiera: «Petitio decentium a Deo» (S. Tommaso, Super Mt, cap. 6 v. 9), domanda di cose convenienti a Dio. Tutto può essere chiesto a Dio a condizione però che il contenuto e la ragione di ciò che domandiamo affermi e confermi la nostra appartenenza a Lui. Gesù ha affermato questo giudizio nella preghiera del Padre Nostro che ci ha insegnato: «Padre nostro, che sei nei cieli, venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà…» e lo ha testimoniato sul legno della croce: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». (Lc 22, 42)… «Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”». (Lc 23, 46). Per questo un giorno Gesù ebbe a dire: «Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù». (Mt. 6;33) La preghiera, se non avesse questo orizzonte anche solo implicitamente, cesserebbe di essere affermazione di una appartenenza e diventerebbe un’irragionevole tentativo di meschina pretesa o si ridurrebbe a intimistica introspezione. La preghiera è anche gesto di ringraziamento che nasce da una gratitudine senza confini. «Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome per la tua fedeltà (nel darmi l’essere) e la tua misericordia (nel portarlo a compimento)». (Sal 137, 1-2) Termino riproponendo un brano di san Paolo che bene esprime la consapevolezza che aveva del senso e del fine ultimo di tutta la realtà creata: «Perché (Dio) sia tutto in tutti». (1 Cor 15,28. Lascio alla vostra lettura alcuni brani tratti dalle Confessioni di Sant’Agostino e una riflessione di Benedetto XVI. «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». (Conf. 1,1,1) «Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non fossero in te, neppure esisterebbero. Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la mia sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, [5] e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l’ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio di conseguire la tua pace». (Conf 10, 27, 38) «Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? è chi è l'uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te». (Conf.4, 1, 1) «Se ti piacciono i corpi loda Dio per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch'esse, ma in lui si fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di' loro: "Amiamolo, amiamolo: lui è il creatore di queste cose e non ne è lontano, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov'è? Dove si assapora la verità? È nell'intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie aspre e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è lì, dove voi cercate. Voi cercate una vita felice in un paese di morte: non è lì. Come potrebbe essere una vita felice ove manca la vita?». (Conf.4, 12, 18) «Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un'insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entro nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria». (Conf. 2, 10, 18) «O eterna verità e vera carità e cara eternità! Tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Appena ti conobbi mi hai sollevato in alto perché vedessi quanto era da vedere e ciò che da solo non sarei mai stato in grado di vedere. Hai abbagliato la debolezza della mia vista, splendendo potentemente dentro di me. Tremai di amore e di terrore. Mi ritrovai lontano come in una terra straniera, dove mi pareva di udire la tua voce dall’alto che diceva: “Io sono il cibo dei forti, cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me”». (Conf 7, 10, 16) «L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybris del potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, perde sempre di più la vita. La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di lui. Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno» E spostando lo sguardo da Dio all'uomo ha così proseguito: «Viviamo in un tempo in cui i criteri dell’essere uomini sono diventati incerti. L’etica viene sostituita con il calcolo delle conseguenze. Di fronte a ciò noi come cristiani dobbiamo difendere la dignità inviolabile dell’uomo, dal concepimento fino alla morte – nelle questioni della diagnosi pre-impiantatoria fino all’eutanasia. 'Solo chi conosce Dio, conosce l’uomo', ha detto una volta Romano Guardini. Senza la conoscenza di Dio, l’uomo diventa manipolabile». (Benedetto XVI, venerdì 23 settembre 2011, Viaggio apostolico in Germania) Don Luigi Milano 09/10/2016 [6]