CORTE DI APPELLO DI PALERMO SEZIONE SESTA PENALE
Transcript
CORTE DI APPELLO DI PALERMO SEZIONE SESTA PENALE
CORTE DI APPELLO DI PALERMO SEZIONE SESTA PENALE REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L’anno duemiladieci il giorno VENTITRE’ del mese di dicembre N° 4034/2010 Sent. N° 2094/2010 R.G. LA CORTE DI APPELLO DI PALERMO N° 11498/2007 N.R. SEZIONE SESTA PENALE composta dai Sigg.ri : 1. Dott. 2. Dott. 3. Dott. Biagio INSACCO Presidente Carmelo Roberto LOMBARDO MURGIA Consigliere Consigliere Art. _________________ Camp. Penale Compilata scheda per il Casellario e per l’elettorato Addì con l’intervento del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa Anna _____________________ Maria LEONE, e con l’assistenza del Cancelliere Antonella FOTI, ha pronunziato la seguente Depositata in Cancelleria Addì SENTENZA _____________________ nei confronti di: 1) CONIGLIARO Angelo, nato a Carini il 27/10/1935 agli arr. dom. in Villagrazia di Carini Via Lampedusa n.36; dal 13.12.2010 det. x altro Casa Circ.le Palermo Pagliarelli. Irrevocabile il DETENUTO - PRESENTE ____________________ Difensore: Avv. Giuseppe Giambanco Foro di Palermo 1 2) ALTADONNA Lorenzo, nato a Carini il 04/10/1962 ivi elett.te dom. Via Provinciale n.56 ; detenuto dal 9/7/2009 al 23/12/2010 DETENUTO X ALTRO – PRESENTE Difensori: Avv. Carlo Ventimiglia Avv. Antonino Mormino del Foro di Palermo del Foro di Palermo 3) BIONDO Francesco, nato a Palermo il 26/03/1960 detenuto per altro c/o la Casa Circondariale di Torino “Lorusso-Cotugno”; DET. X ALTRO ASSENTE PER RINUNZIA Difensori: Avv. Antonino Zanghì del Foro di Palermo Avv. Raffaele Bonsignore del Foro di Palermo 4) COLLESANO Vincenzo, nato a Palermo il 30/01/1953, in atto detenuto c/o la Casa Circondariale di Palermo Pagliarelli DETENUTO - PRESENTE Difensore: Avv. Sergio Monaco del Foro di Palermo 5) CURULLI Vincenzo, nato a Palermo il 28/04/1956, detenuto c/o la Casa Circondariale di Palermo-Pagliarelli; DETENUTO - PRESENTE Difensori: Avv. Aldo Spatafora Avv. Maurizio Savarese del Foro di Palermo “ “ 6) CUSIMANO Antonio, nato a Palermo il 07/06/1945 ivi residente in Via Castelforte n.98/A; LIBERO – PRESENTE Difensori: Avv. Velio Sprio Avv. Riccardo Russo del Foro di Palermo “ “ 7) DE LUCA Antonino, nato a Palermo il 12/01/1970 ivi res.te Cortile dei Bovari n.47 in atto detenuto per altro c/o la Casa Circondariale di Palermo Pagliarelli; DET. X ALTRO – PRESENTE Difensori: Avv. Tommaso De Lisi Avv. Fabio Federico del Foro di Palermo “ Roma 8) IAQUINOTO Giorgio, nato a Vittoria 08/03/1955 in atto detenuto c/o la Casa Circondariale di Palermo-Pagliarelli; DETENUTO – PRESENTE Difensori: Avv. Vincenzo Lo Re Avv. Aldo Spatafora, del Foro di Palermo del Foro di Palermo 2 PARTI CIVILI 1. F.A.I.[FED.AS.ANTIRACKET] in persona Leg. Rappr. pro-tempore domiciliato c/o Avv. Salvatore Caradonna –. Difensore: Avv. Salvatore CARADONNA del Foro di Palermo ASSENTE 2. ASSOCIAZIONE COMITATO ADDIOPIZZO in persona Leg. Rappr. Perrotta R. domiciliato c/o Avv. Salvatore Forello – Difensore: Avv. Salvatore FORELLO del Foro di Palermo ASSENTE 3. CONFINDUSTRIA PALERMO in persona Pres. pro-tempore Salerno A. domiciliato in Palermo c/o Avv. Ettore BARCELLONA Difensore: Avv. Ettore BARCELLONA del Foro di Palermo ASSENTE 4. PROV. REG.LE PALERMO in persona Pres. pro-tempore domiciliato c/o Avv. Concetta Pillitteri – Difensore Avv. Concetta PILLITTERI del Foro di Palermo ASSENTE 5. CONFCOMMERCIO PALERMO in pers. Dr. Roberto HELG domiciliato c/o Avv. Gaetano Fabio Lanfranca Difensore: Avv. Gaetano Fabio LANFRANCA del Foro di Palermo Sostituto processuale avv. D. Martorana PRESENTE 6. S.O.S. IMPRESA PALERMO Leg. Rappr. Costantino Garaffa domiciliato in Palermo c/o Avv. Fausto Maria Amato. Difensore: Avv. Fausto Maria AMATO del Foro di Palermo ASSENTE 7. COMUNE DI CARINI in persona del Sindaco pro-tempore La Fata Gaetano domiciliato in Carini –c/o Avv. Marina Fonti. Difensore: Avv. Marina FONTI del Foro di Palermo ASSENTE 3 APPELLANTI Avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 03.07.2009 con la quale sono stati dichiarati colpevoli: - CONIGLIARO Angelo, dei reati di cui ai capi 1, 11, 13, 14, 15, unificati tali reati sotto il vincolo della continuazione; - COLLESANO Vincenzo e DE LUCA Antonino, del reato di cui al capo 22); - ALTADONNA Lorenzo, del reato di cui al capo 2); - BIONDO Francesco, del reato di cui al capo 26, unificato sotto il vincolo della continuazione con il reato di associazione di tipo mafioso giudicato con sentenza della Corte di Appello di Palermo in data 24 gennaio 2006, irrevocabile il 14 febbraio 2007; - CUSIMANO Antonio, del reato di cui al capo 10; - CURULLI Vincenzo e IAQUINOTO Giorgio, del reato di cui all‟art. 648 ter C.P. di cui al capo 17; eCONDANNATI - CONIGLIARO, alla pena di anni quindici di reclusione; - ALTADONNA e il DE LUCA, alla pena di anni dodici di reclusione ciascuno; - COLLESANO, alla pena di anni tredici di reclusione; - BIONDO Francesco, alla pena di anni due e mesi cinque di reclusione in aggiunta a quella inflitta con la sentenza della Corte di Appello di Palermo in data 24 gennaio 2006, sopra citata, pena che, per l‟effetto, diviene pari ad anni undici e mesi cinque di reclusione; - CUSIMANO, alla pena di anni otto di reclusione ed euro 3.000,00 di multa; - CURULLI, alla pena di anni sei di reclusione ed euro 8.000,00 di multa; - IAQUINOTO, alla pena di anni cinque, mesi sei di reclusione ed euro 7.000,00 di multa. nonché in solido, al pagamento delle spese processuali e, singolarmente al pagamento di quelle della rispettiva custodia cautelare; SONO STATI DICHIARATI i predetti colpevoli, interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l‟espiazione della pena ed applicata ai nominati CONIGLIARO, ALTADONNA, DE LUCA e COLLESANO la misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre ciascuno, a pena espiata. SONO STATI, INOLTRE, CONDANNATI: CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO e ALTADONNA, in solido, al risarcimento in favore della parte civile Comune di Carini, in 4 persona del Sindaco pro-tempore, dei danni morali e materiali liquidati in euro 30.000,00 (trentamila/00) nonché al pagamento delle spese processuali, in favore della medesima parte civile, che liquida nella misura complessiva di euro 15,742,00; l’ALTADONNA, il CONIGLIARO, il CURULLI ed il DE LUCA, in solido, al risarcimento in favore della parte civile Associazione ONLUS Comitato Addiopizzo, in persona del legale rappresentante pro tempore, dei danni morali e materiali liquidati in euro 15.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile che liquida in euro 9.052,00 oltre IVA e CPA come per legge; CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA, BIONDO Francesco, COLLESANO, DE LUCA, in solido, al risarcimento in favore della parte civile Provincia regionale di Palermo, in persona del Presidente pro tempore, dei danni morali e materiali liquidati in euro 30.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile che liquida in euro 16.326,00; CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA, BIONDO Francesco, COLLESANO, DE LUCA, in solido, al risarcimento in favore della parte civile FAI, Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura italiane, in persona del legale rappresentante pro tempore, dei danni morali e materiali che liquida in euro 15.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile liquidati in euro 9.052,00 oltre IVA e CPA come per legge; CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA, BIONDO Francesco, COLLESANO, DE LUCA, in solido, al risarcimento in favore della parte civile Associazione degli Industriali della Provincia di Palermo - Confindustria di Palermo in persona del legale rappresentante pro tempore, dei danni morali e materiali che liquida in euro 15.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile liquidati in euro 10.000,00 oltre IVA e CPA come per legge; CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA, BIONDO Francesco, COLLESANO e DE LUCA, in solido, al risarcimento in favore della parte civile SOS Impresa Palermo, in persona del legale rappresentante pro tempore, dei danni morali e materiali che liquida in euro 15.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile liquidati in euro 10.000,00 oltre IVA e CPA come per legge; CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA, BIONDO Francesco, COLLESANO e DE LUCA, in solido, al risarcimento in favore della parte civile Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, delle Professioni e delle piccole e medie imprese di Palermo - Confcommercio federazione provinciale di Palermo, in persona 5 del legale rappresentante pro tempore, dei danni morali e materiali liquidati in euro 15.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile che liquida in euro 10.000,00 oltre IVA e CPA come per legge. Sono stati assolti: - ALTADONNA Lorenzo e CONIGLIARO Angelo dalla imputazione di cui al capo 16) perché i fatti non sussistono; - CURULLI Vincenzo, dalla imputazione di cui al capo 2) per non aver commesso il fatto; Ed ordinata l’immediata liberazione di BIONDO Francesco se non detenuto per altra causa. CAPI DI IMPUTAZIONE CONIGLIARO Angelo 1) per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa aggravato (art. 416 bis c.p., aggravato dai commi 4 e 5 ) per avere, fatto parte dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere reati contro la vita, l‟incolumità individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, tra i quali quelli di cui ai capi che seguono, nonché per acquisire il controllo di attività economiche e appalti pubblici, comunque per realizzare profitti o vantaggi ingiusti. Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quarto c.p., trattandosi di associazione armata. Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quinto c.p., trattandosi di attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto di delitti; In Palermo sino alla data del 25.01.2007 ALTADONNA Lorenzo (in concorso con Sapienza Gioacchino, Privitera Saverio, Privitera Antonio, Cataldo Giovanni, Gelsomino Giuseppe, separatamente giudicati) 2) per il delitto concorso esterno in associazione mafiosa (articoli 110, 416 –bis comma 1°, 3°, 4°, 6° c.p.) per avere concorso ab externo associazione criminale denominata Cosa Nostra, tra l‟altro con gli uomini d‟onore LO PICCOLO Salvatore e Sandro, PIPITONE Vincenzo, PIPITONE Angelo Antonino, PIPITONE Antonino, PIPITONE Giovan Battista, DI MAGGIO Antonino e VALLELUNGA Vincenzo, delle famiglie di San Lorenzo, Tommaso Natale e Carini – ponendo in essere una serie di condotte continuate, che consentivano alla associazione stessa il controllo di attività economiche ed il reimpiego di danaro di provenienza illecita, in ciò agevolati 6 dalla forza di intimidazione del vincolo associativo, e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 – bis comma 4° c.p., trattandosi di associazione armata; Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 – bis comma 6° c.p., trattandosi di attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto di reati. Reato commesso in Carini e Palermo, sino alla data del 25.01.2007. CUSIMANO Antonio e LO PICCOLO Salvatore (in concorso con Di Blasi Francesco, Pipitone Antonino, separatamente giudicati) 10) per il delitto di estorsione aggravata e continuata in concorso ( p. e p. dagli artt. 110, 629 comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr.152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 203) per avere in concorso tra loro, mediante minacce, consistite nel manifestare i propri rapporti con l‟organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta organizzazione, costretto l‟imprenditore SCALICI Damiano, nato a Palermo il 09.12.1962, a fornirsi di materiale edile presso la ditta EDILPOMICE nel corso dei lavori eseguiti in Carini, C.da Ciachea, della società “SIMBA”, e ciò al fine di procurare a se stessi ed all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto. A Carini nel mese di maggio 2002 CONIGLIARO Angelo (in concorso con Pipitone Vincenzo separatamente giudicato) 11) per il delitto di estorsione aggravata in concorso (p. e p. dagli artt. 110, 629 comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 2039), per avere in concorso tra loro, mediante minacce, consistite nel manifestare la propria appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta organizzazione, costretto l‟imprenditore PRIANO Alfonso a consegnare loro somme di denaro allo stato imprecisate, la cui ultima trance è quantificabile in dieci milioni di lire, al fine di procurare a se stessi ed all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto. A Carini fino al mese di ottobre 2003 13) per il delitto di estorsione aggravata in concorso (p. e p. dagli artt. 110, 629 comma 2° in relazione al nr.3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 203) per avere, in concorso tra loro, mediante minacce, consistite nel manifestare la propria appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta organizzazione, costretto l‟imprenditore CUTIETTA Carlo, a 7 consegnargli la somma di lire cinque milioni, al fine di procurare a se stesso ed all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto. A Carini nel mese di settembre 2003 CONIGLIARO Angelo, LO PICCOLO Salvatore (in concorso con Di Napoli Pietro, Di Maggio Antonino, Pipitone Vincenzo, Pipitone Giovan Battista e Vallelunga Vincenzo separatamente giudicati) 14) per il delitto di estorsione aggravata e continuata in concorso (p. e p. dagli artt. 110, 56, 629 comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2° dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 203), per avere, in concorso tra loro, posto in essere atti idonei, consistiti nel manifestare la propria appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra e nella utilizzazione della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta organizzazione, diretti in modo non equivoco a costringere l‟imprenditore BILLECI Giovanni, in qualità di amministratore unico della “Falconara s.r.l.” , a consegnare loro quantomeno cinquecento milioni di lire, al fine di procurare a se stessi ed all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto, e ciò in relazione alla realizzazione di un complesso residenziale da sorgere nella C.da Piraineto, località “Marinalonga” di Carini. A Carini nel mese di settembre 2003 CONIGLIARO Angelo (in concorso con Di Maggio Antonino e Pipitone Vincenzo separatamente giudicati) 15) per il delitto di estorsione aggravata in concorso (p. e p. dagli artt. 110, 629 comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 2039), per avere in concorso tra loro, posto in essere atti idonei, consistiti nel manifestare la propria appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta organizzazione, diretti in modo non equivoco a costringere tali “BADALAMENTI”, proprietari terrieri, a consegnare loro cinquanta milioni di lire per la vendita e la successiva edificazione in alcuni terreni di alcune villette, e ciò al fine di procurare a se stessi ed all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto. A Carini fino al mese di ottobre 2003 ALTADONNA Lorenzo e CONIGLIARO Angelo (in concorso con Gallina Angelo, Pipitone Vincenzo, Vallelunga Vincenzo, Pipitone Giovan Battista e Palazzolo Vito Roberto separatamente giudicati) 16) per il delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita (art. 81 cpv., 110, 648 bis e 648 ter c.p. e art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152 conv. con modif. nella L. 12 luglio 1991 nr. 203) per avere PIPITONE Vincenzo, CONIGLIARO Angelo, VALLELUNGA Vincenzo, GALLINA Angelo e PIPITONE Giovan Battista, tutti esponenti 8 della famiglia mafiosa di Carini, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in concorso tra loro, trasferito ad ALTADONNA Lorenzo, anch’egli concorrente nel reato, denaro, beni ed altre utilità proveniente da delitti connessi alle illecite attività dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, denaro ed utilità poi impiegati da ALTADONNA Lorenzo in attività economiche, tra cui l‟acquisto di vari appezzamenti di terreno. Tutto ciò in modo da ostacolare l‟identificazione della provenienza delittuosa del denaro e delle utilità medesime ed al fine di agevolare l‟associazione per delinquere di stampo mafioso denominata “Cosa Nostra”. In Carini, sino al mese di dicembre 2003 CURULLI Vincenzo e IAQUINOTO Giorgio (in concorso con Vitale Fortunato, Cardinale Michele, Pipitone Vincenzo e Di Maggio Antonino separatamente giudicati) 17) per il delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita (art. 81 cpv, 110, 648 bis, 648 ter c.p. e art.7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152 conv. con modif. nella L. 12 luglio 1991 nr. 203) per avere CURULLI Vincenzo, PIPITONE Vincenzo e DI MAGGIO Antonino, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso tra loro, trasferito alla ditta “GIELLEI ELECTRO TRADING S.R.L.” di cui IAQUINOTO Giorgio, anch’egli concorrente nel reato, era apparente socio unico ed Amministratore, denaro, beni ed altre utilità proveniente da delitti connessi alle illecite attività dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, denaro, beni ed altre utilità che IAQUINOTO investiva nella detta società “GIELLEI”, con il concorso di VITALE Fortunato e CARDINALE Michele. Tutto ciò in modo da ostacolare l‟identificazione della provenienza delittuosa di denaro, dei beni e delle altre utilità, ed al fine di agevolare l’associazione per delinquere di stampo mafioso denominata “Cosa Nostra”. In Carini, sino al mese di marzo 2004. COLLESANO Vincenzo e DE LUCA Antonino 22) per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.), per avere, in concorso con numerose altre persone – fatto parte dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, ed in particolare della famiglia mafiosa di Partanna Mondello o per risultare, comunque, stabilmente inseriti nella detta associazione, composta da un numero superiore a 5 persone, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, per commettere reati contro la vita, l‟incolumità individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, tra i quali quelli di cui ai capi che seguono e, comunque, per realizzare profitti o vantaggi ingiusti, nonché per intervenire sulle istituzioni e sulla pubblica amministrazione; Con l’aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quarto c.p., trattandosi di associazione armata; 9 Con l’aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quinto c.p., trattandosi di attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto di delitti, In Palermo ed altre parti del territorio nazionale sino al 25 ed il 30.01.2007. BIONDO Francesco 26) per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.), per avere, in concorso con numerose altre persone – fatto parte dell’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, ed in particolare della famiglia mafiosa di S. Lorenzo o per risultare, comunque, stabilmente inseriti nella detta associazione, composta da un numero superiore a 5 persone, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, per commettere reati contro la vita, l‟incolumità individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, tra i quali quelli di cui ai capi che seguono e, comunque, per realizzare profitti o vantaggi ingiusti, nonché per intervenire sulle istituzioni e sulla pubblica amministrazione. Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quarto c.p., trattandosi di associazione armata. Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quinto c.p., trattandosi di attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto di delitti; In Palermo ed altre parti del territorio nazionale a decorrere dal 5 luglio 2002 , data della precedente sentenza di condanna per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e sino alla data odierna. BIONDO Salvatore (in concorso con Biondino Salvatore separatamente giudicato) 28) per il delitto di trasferimento fraudolento di valori aggravato (artt. 12 – quinquies legge n° 356/1992, 7 d.l. 13 maggio 1991, n° 152, conv. con modif. nella legge 12 luglio 1991, n° 203), per avere - pendendo a loro carico vari procedimenti penali e di prevenzione – fittiziamente attribuito la titolarità dei magazzini ubicati a Palermo, V.le regione Siciliana ai civici 4714, e 4658 e nr. 4698 a CUCCIA Giorgio, CUCCIA Antonietta, CUCCIA Giuseppe, CUCCIA Fabio, e ciò al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali. Con la circostanza aggravante di avere commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 – bis c.p. ed al fine di agevolare l‟attività dell’associazione denominata Cosa Nostra. Accertato in Palermo il 25 novembre 2005 10 CONCLUSIONI DELLE PARTI Il Procuratore Generale conclude chiedendo la conferma in toto della sentenza impugnata riservandosi di replicare a seguito delle conclusioni dei difensori. L’avv. M. Fonti, nell’interesse della P.C. Comune di Carini; L’avv. S. Forello, anche quale sostituto processuale dell’avv. Caradonna nell’interesse delle PP.CC. dagli stessi rappresentate; L’avv. D’Antoni, quale sostituto processuale dell’avv. E. Barcellona nell’interesse della P.C. Confindustria Palermo; L’avv. C. Pillitteri, nell’interesse della P.C. Provincia Regionale di Palermo; L’avv. D. Martorana, quale sostituto processuale degli Avv.ti Lanfranca ed Amato - nell’interesse delle PP.CC. dagli stessi rappresentate; concludono tutti come da comparsa che depositano unitamente alla nota spese. L’avv. Gaudesi, quale sostituto processuale dell’Avv. Zanghì nell’interesse di Biondo Francesco, conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di impugnazione. L’avv. S. Monaco, nell’interesse di Collesano Vincenzo, conclude insistendo nell’accoglimento dei motivi di appello. L’avv. R. Russo, nell’interesse di Cusimano Antonio, conclude chiedendo l’assoluzione del suo assistito perché il fatto non sussiste; in subordine chiede l’applicazione della continuazione con i reati di cui alla sentenza prodotta. L’avv. R. Bonsignore, nell’interesse di Biondo Francesco, conclude chiedendo la riforma della sentenza di primo grado e quindi una pronunzia assolutoria nei confronti del suo assistito. L’avv. A. Spatafora, nell’interesse di Curulli ed Iaquinoto, conclude insistendo nei motivi di appello. 11 L’avv. M. Savarese, nell’interesse di Curulli Vincenzo, conclude chiedendo che il suo assistito venga assolto con la formula perché il fatto non sussiste. L’avv. S. Monaco, nell’interesse di Collesano Vincenzo, conclude chiedendo l’assoluzione del suo assistito così come meglio specificato nei motivi aggiunti nei quali insiste. L’avv. V. Lo Re, nell’interesse di Iaquinoto Giorgio, conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di appello; deposita, altresì, memoria difensiva. L’avv. A. Mormino, nell’interesse di Altadonna Lorenzo, conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di appello. L’avv. T. De Lisi, nell’interesse di De Luca Antonino, conclude riportandosi ai motivi di appello di cui chiede l’accoglimento. L’avv. F. Federico, nell’interesse di De Luca Antonino, conclude riportandosi alle conclusioni adottate dal co-difensore ed alla memoria difensiva oggi depositata. L’avv. V. Sprio, nell’interesse di Cusimano Antonino, conclude riportandosi ai motivi di appello. L’avv. Giambanco, nell’interesse di Conigliaro Angelo, conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di appello. 12 IN FATTO E IN DIRITTO 1 - IL PRIMO GRADO DEL GIUDIZIO ‐ 1-1 PREMESSA Conigliaro Angelo, Altadonna Lorenzo, Biondo Francesco, Collesano Vincenzo, Curulli Vincenzo, Cusimano Antonio, De Luca Antonino e Iaquinoto Giorgio, venivano tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo in composizione collegiale, per rispondere: 1) il Conigliaro, del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa aggravato, per avere, fatto parte dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, in particolare della articolazione di questa operante nel territorio di Carini; 2) l’Altadonna ed il Curulli, del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, per avere concorso ab externo nell’associazione criminale denominata “cosa nostra”, supportando in particolare le attività criminali di Lo Piccolo Salvatore e Sandro, Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo Antonino, Pipitone Antonino, Pipitone Giovan Battista, Di Maggio Antonino e Vallelunga Vincenzo, soggetti intranei alle famiglie mafiose operanti nel territori di San Lorenzo, Tommaso Natale e Carini; 3) il Cusimano, in concorso con Di Blasi Francesco, Pipitone Antonino, separatamente giudicati, del delitto di estorsione aggravata e continuata, per avere, in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta organizzazione, costretto l’imprenditore Scalici Damiano a fornirsi di materiale edile presso la ditta Edilpomice nel corso dei lavori eseguiti in Carini, C.da Ciachea, della società “Simba”; 4) il Conigliaro, altresì, in concorso con Pipitone Vincenzo separatamente giudicato, del delitto di estorsione aggravata, per avere, in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta 13 organizzazione mafiosa, costretto l’imprenditore Priano Alfonso a consegnare somme di denaro imprecisate, la cui ultima tranche era comunque quantificabile in dieci milioni di lire; del delitto di estorsione aggravata, in concorso con Pipitone Vincenzo separatamente giudicato, per avere, in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo al predetto sodalizio, costretto l’imprenditore Cutietta Carlo, a consegnargli la somma di lire cinque milioni; del delitto di tentata estorsione aggravata e continuata, per avere, in concorso con Di Napoli Pietro, Di Maggio Antonino, Pipitone Vincenzo, Pipitone Giovan Battista e Vallelunga Vincenzo separatamente giudicati, posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere l’imprenditore Billeci Giovanni, in qualità di amministratore unico della “Falconara s.r.l.”, a consegnare loro, in relazione alla realizzazione di un complesso residenziale da sorgere nella C.da Piraineto, località “Marinalonga” di Carini, la somma di almeno cinquecento milioni di lire; del delitto di tentata estorsione aggravata, per avere, in concorso con Di Maggio Antonino e Pipitone Vincenzo separatamente giudicati, posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere tali “Badalamenti”, proprietari terrieri, a consegnare la somma di cinquanta milioni di lire in relazione alla vendita e alla successiva edificazione in alcuni terreni di alcune villette in territorio di Carini; 5) l’Altadonna ed il Conigliaro, altresì, in concorso con Gallina Angelo, Pipitone Vincenzo, Vallelunga Vincenzo, Pipitone Giovan Battista e Palazzolo Vito Roberto separatamente giudicati, del delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita, per avere i citati Pipitone Vincenzo, Conigliaro, Vallelunga, Gallina e Pipitone Giovan Battista, tutti esponenti della “famiglia” mafiosa di Carini trasferito ad Altadonna Lorenzo, anch’egli concorrente nel reato, denaro, beni ed altre utilità provenienti da delitti connessi alle illecite attività dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, poi impiegati dallo stesso Altadonna in attività economiche, tra cui l’acquisto di vari appezzamenti di terreno; 14 6) il Curulli e lo Iaquinoto, in concorso con Vitale Fortunato, Cardinale Michele, Pipitone Vincenzo e Di Maggio Antonino separatamente giudicati, del delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita, per avere Curulli Vincenzo, Pipitone Vincenzo e Di Maggio Antonino, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso tra loro, trasferito alla ditta “Giellei Electro Trading S.r.l.” di cui Iaquinoto Giorgio era apparente socio unico ed amministratore, denaro, beni ed altre utilità provenienti da delitti connessi alle illecite attività dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, denaro, beni ed altre utilità che Iaquinoto investiva nella detta società “Giellei”; 7) il Collesano ed il De Luca, del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, per avere, in concorso con numerose altre persone, fatto parte dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, ed in particolare della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello; 8) il Biondo, infine, del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, per avere, in concorso con numerose altre persone, fatto parte dell‟associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, ed in particolare della “famiglia” mafiosa di S. Lorenzo Con sentenza in data 3 luglio 2009 la sezione 3^ penale del Tribunale di Palermo dichiarava gli imputati sopra menzionati colpevoli di tutti i reati loro rispettivamente ascritti - fatta eccezione per quelli ascritti all’Altadonna ed al Conigliaro al capo 16) della rubrica (riciclaggio), al Curulli al capo 2) della rubrica (concorso esterno in associazione mafiosa), essendo stati assolti i primi due perché il fatto non sussiste ed il terzo per non avere commesso il fatto - e condannava il Conigliaro alla pena di anni quindici di reclusione, l’Altadonna e il De Luca a quella di anni dodici di reclusione ciascuno, il Collesano a quella di anni tredici di reclusione, il Biondo Francesco a quella di anni due e mesi cinque di reclusione in 15 aggiunta alla pena inflittagli con la sentenza di questa Corte di Appello in data 24 gennaio 2006, pena che, per l’effetto, diveniva pari ad anni undici e mesi cinque di reclusione, il Cusimano alla pena di anni otto di reclusione ed euro 3.000,00 di multa, il Curulli, a quella di anni sei di reclusione ed euro 8.000,00 di multa, e lo Iaquinoto, infine, a quella di anni cinque e mesi sei di reclusione ed euro 7.000,00 di multa. Tutti gli imputati, poi, venivano dichiarati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena. Al Conigliaro, all’Altadonna, al De Luca ed al Collesano veniva altresì applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre ciascuno, da eseguirsi dopo l’espiazione della pena. I suddetti imputati, infine, venivano condannati al pagamento delle spese processuali, ed al risarcimento dei danni materiali e morali in favore in favore delle parti civili costituite. Avverso la suddetta sentenza proponevano appello gli imputati Altadonna, Biondo, Collesano, Conigliaro, Curulli, Cusimano, De Luca, Iaquinoto, per i motivi che verranno in seguito esposti. 1-2. OGGETTO DEL PROCESSO. La sentenza impugnata rileva innanzitutto che il procedimento ha costituito l’epilogo di una intensa ed articolata attività investigativa, traente origine da indagini iniziate nel 2003 aventi ad oggetto le attività criminali di “cosa nostra” nel mandamento mafioso di San Lorenzo-Tommaso Natale, che costituisce storicamente una delle più rilevanti articolazioni del summenzionato sodalizio, anche sotto il profilo dell’estensione territoriale, comprendendo, oltre alla parte nord-occidentale del territorio metropolitano di Palermo, anche i territori di Capaci, Isola delle Femmine, Carini, Villagrazia di Carini, Sferracavallo-Tommaso Natale e Partanna-Mondello. 16 Nel corso delle indagini finalizzate alla ricerca ed alla cattura di Lo Piccolo Salvatore e di Lo Piccolo Sandro (esponenti di vertice del mandamento mafioso summenzionato e, dopo l’arresto di Bernardo Provenzano, dell’intera organizzazione mafiosa nel territorio di Palermo e provincia) l’attenzione degli inquirenti si accentrava, in particolare, sulle attività criminali riconducibili prevalentemente alla “famiglia” mafiosa di Carini. Venivano pertanto acquisite utili cognizioni in ordine alla identità dei membri di tale consorteria, ai suoi interessi economici sul territorio, ai suoi collegamenti con altre “famiglie” mafiose, al rapporto privilegiato da questa intrattenuto con i già menzionati Lo Piccolo Salvatore ed il figlio di questi, Sandro, all’epoca dei fatti ancora latitanti. Ed invero, le indagini citate avevano evidenziato l’importanza dei legami esistenti fra i Lo Piccolo ed i mafiosi di Carini, facendo emergere l’esistenza di un consolidato rapporto che aveva collocato la “famiglia” di Carini al centro delle dinamiche associative del mandamento di San Lorenzo-Tommaso Natale. Nella citata sentenza è stato evidenziato, altresì, come le fonti di prova raccolte fossero costituite prevalentemente da intercettazioni telefoniche e ambientali, da servizi di osservazione dinamica sul territorio, riprese video e riprese fotografiche, alle quali si erano aggiunte le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia che più di recente avevano reciso i loro legami con l’associazione mafiosa, quali Pulizzi Gaspare, Nuccio Antonio e Franzese Francesco. Il contributo dichiarativo fornito da detti soggetti aveva consentito, infatti, di delineare il quadro delle attività criminali svolte dalla “famiglia” di Carini, di disegnarne la composizione e di fare luce sulla figura del reggente Pipitone Vincenzo, sui suoi rapporti con Brusca Vincenzo, reggente della vicina “famiglia” mafiosa di Torretta, nonché sui rapporti intrattenuti con Di Napoli Pietro, reggente del mandamento mafioso della “Noce-Cruillas”, rendendo possibile fare luce sull'attività criminale riguardante il settore 17 delle estorsioni e la multiforme opera di condizionamento delle iniziative economiche nel territorio interessato. E’ stato pure evidenziato come tra coloro che avevano caratterizzato l’attività di “cosa nostra” nel territorio di Carini dovessero essere annoverati, in primo luogo, i componenti del gruppo familiare Pipitone, che comprendeva i fratelli Giovan Battista e Vincenzo Pipitone, già condannati per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., nella qualità di reggenti, in tempi successivi, della “famiglia” di Carini, Di Maggio Antonino, loro cognato, Pipitone Angelo Antonino, fratello dei suddetti Giovan Battista e Vincenzo, già condannato nel processo c.d. maxi-uno per il delitto di associazione mafiosa; gli appartenenti al gruppo familiare Gallina, composto da Gallina Salvatore, predecessore dei Pipitone, e dal figlio Ferdinando; i componenti dei gruppi familiari Passalacqua, Lo Duca e Vallelunga, tutti a vario titolo coinvolti, con ruoli e compiti differenti, nella gestione mafiosa di quel territorio. E’ stato poi osservato che parte rilevante dell’attività investigativa era costituita da servizi di intercettazione attivati all’interno dei locali della società S.B.S. di Gottuso Salvatore grazie ai quali erano stati acquisiti importanti contributi conoscitivi in ordine al conflitto esistente in seno alla “famiglia” di Partanna Mondello e, in particolare, tra i fratelli Collesano Vincenzo, appoggiato da Francesco Di Blasi, e Collesano Rosario, particolarmente vicino al “reggente” Davì Salvatore, quest’ultimo scarcerato dopo una lungo periodo di detenzione. Ed è stato sottolineato, ancora, come il quadro offerto dalle risultanze dei servizi di intercettazione, avesse evidenziato la posizione di rilievo assunta dal mandamento di San Lorenzo all’interno dell’intera organizzazione “cosa nostra”, al punto che Lo Piccolo Salvatore era divenuto - dopo oltre venti anni di latitanza - il più autorevole esponente mafioso presente nel territorio metropolitano di Palermo. Per quel che concerne le figure dei collaboratori di giustizia, nella sentenza impugnata sono state poste in particolare evidenza le dichiarazioni rese da 18 collaboratori “datati”, quali Avitabile Antonino, Onorato Francesco, Cracolici Isidoro, Mazzola Giovanni, La Manna Angelo e Neri Marco, significando però come pregnante rilevanza avessero avuto, per la loro attualità, soprattutto le collaborazioni di Pulizzi Gaspare, Nuccio Antonino, Franzese Francesco e Spataro Maurizio, la cui credibilità intrinseca era apparsa immediatamente di notevole spessore avendo trovato riscontro nelle risultanze di autonome indagini. La sentenza impugnata ha preso preliminarmente in esame alcune problematiche di carattere generale inerenti la struttura e l’organizzazione dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, divenuta realtà incontrovertibile dopo il passaggio in giudicato della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Palermo nel procedimento a carico di Abbate Giovanni ed altri, comunemente noto come primo “maxiprocesso”. Con questa fondamentale pronuncia, infatti, era stata definitivamente accertata la struttura unitaria e verticistica del citato sodalizio criminale, il cui funzionamento appare disciplinato da regole comportamentali rigidamente vincolanti per i suoi aderenti i quali, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo, operano al fine di porre sotto il controllo dell’organizzazione criminale ogni attività economica che assicuri ingenti profitti, con una capacità di infiltrazione in tutti i livelli della società che ne accresce le potenzialità operative e, quindi, la pericolosità. Si tratta, in buona sostanza, di un sodalizio criminale capillarmente organizzato sul territorio, dotato di ben oleati modelli operativi, con rigide gerarchie e ferree regole comportamentali, la cui osservanza è assicurata mediante sanzioni gravissime, che giungono fino alla eliminazione fisica del trasgressore. Le conclusioni che si traggono dal riconoscimento di una siffatta realtà portano a ritenere – osservano i primi Giudici – che non sussiste la necessità di provare, di volta in volta, gli elementi costitutivi dell’associazione, essendo stata dimostrata l’esistenza dell’organizzazione criminosa di che 19 trattasi dall’esito, dopo il citato maxi –uno, di centinaia e centinaia di altri processi. La sentenza impugnata si è soffermata, quindi, brevemente sulle modalità con cui gli adepti entrano a far parte dell’associazione, per così dire ritualmente, a seguito di una formale cerimonia di iniziazione, con l’avvertenza che può essere dimostrata l’appartenenza alla consorteria delinquenziale anche sulla base di facta concludentia, e quindi a prescindere da particolari formalità, come è stato riconosciuto anche dalla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione. E’ stato osservato, infatti, che l’associazione criminosa si è modificata nel tempo, e che il rito della “presentazione” fra adepti, in concomitanza con il massiccio dilagare del fenomeno del cd. pentitismo, si è affievolito fino quasi a scomparire, rendendo necessario il ricorso ad una ancora più accentuata segretezza. È stata, poi, presa in esame la figura del cd. “concorrente esterno”, che è colui che, senza far parte dell’associazione mafiosa, tuttavia concorre ad accrescere le potenzialità di tale sodalizio , come ormai affermato dalla Giusprudenza di legittimità a S.U. in tempi recenti dapprima con la nota sentenza Demitry del 1994, successivamente con la sentenza Carnevale del 30.12.2002 e, da ultimo, con la sentenza Mannino del 12.7.2005. Dopo essersi soffermati, in modo particolare, per la rilevanza che assume nel presente processo, sulle relazioni esistenti tra associazione mafiosa ed attività di impresa al fine di evidenziare le caratteristiche che debbono assumere le condotte dell’imprenditore colluso affinché le stesse possano essere inquadrate entro i canoni del concorso esterno in associazione mafiosa o addirittura di quelli della partecipazione piena alla stessa, i giudici di primo grado hanno preso in esame il tema della valutazione della prova, con specifico riguardo al valore probatorio delle intercettazioni ed a quello della cd. chiamata in (cor)reità. Con specifico riguardo al contributo dichiarativo reso dal collaboratore di giustizia Pulizzi Gaspare, il cui ruolo in seno all’associazione, quale uomo 20 di fiducia di Pipitone Vincenzo e poi di reggente della cosca di Carini, era già emerso dalle indagini che, nel novembre del 2007, avevano condotto all’arresto dello stesso, unitamente ai latitanti Lo Piccolo Salvatore e Lo Piccolo Sandro e ad Adamo Andrea, boss del mandamento di Brancaccio, è stato osservato come i fatti narrati da detto dichiarante si fossero immediatamente appalesati in linea con le risultanze investigative aliunde acquisite in ordine all’acclarato livello della sua compenetrazione nella cosca di Carini. In particolare, è stato rilevato come il Pulizzi avesse confessato di avere partecipato all’esecuzione di omicidi e alla soppressione di cadaveri (reati dei quali fino a quel momento non era stato sospettato), fornendo agli inquirenti dati obiettivi, che avrebbero potuto essere conosciuti solo all’interno dell’associazione criminale e da chi aveva effettivamente commesso quei gravi delitti. Le spontanee e complete ammissioni del Pulizzi, certamente non motivate da intenti calunniatori o da altri scopi strumentali, avevano contribuito, secondo i primi giudici, a fare chiarezza sulle dinamiche della sua cosca di appartenenza e dell’intera consorteria mafiosa sino quasi allo scadere dell’anno 2007. In ragione del ruolo ricoperto dal Pulizzi in seno alla “famiglia” mafiosa di Carini e degli stretti, costanti rapporti intrattenuti con esponenti di punta dell’associazione, le rivelazioni di detto collaborante si erano rivelate, infatti, particolarmente qualificate, dal momento che il suo radicato inserimento nel contesto mafioso, in posizione apicale, rendeva assolutamente credibile che egli fosse informato sulle dinamiche interne del sodalizio e sui soggetti orbitanti in tale realtà criminale. Considerazioni analoghe dovevano essere svolte, secondo i primi giudici, per il Franzese, esponente di spicco della cosca di Partanna (di cui era poi divenuto il reggente), tratto in arresto nell’agosto 2007 dopo un lungo periodo di latitanza. 21 Avviata la sua collaborazione con la giustizia, il Franzese aveva ammesso il suo ruolo di affiliato ed i contributi forniti alla realizzazione dei delitti, anche quelli più gravi, di cui era stato accusato, ricostruendo con dovizia di particolari il percorso criminale all’interno dell’organizzazione e la sua particolare vicinanza ai Lo Piccolo, in particolare a Sandro, il quale lo aveva formalmente combinato in “cosa nostra” nel luglio 2006. Il Franzese, peraltro, aveva contribuito alla decodificazione del contenuto dei “pizzini” sequestrati nel suo covo, ed aveva tracciato un quadro generale delle attività illecite svolte nella zona di sua competenza, fornendo preziose indicazioni anche sulla identità dei soggetti addetti alla capillare riscossione del pizzo. Il patrimonio di conoscenze del Franzese riguardava soprattutto la zona di competenza della “famiglia” di Partanna Mondello, ma concerneva altresì altre articolazioni territoriali, fra cui la “famiglia” di Carini, anch’essa ricompresa nel medesimo mandamento di San Lorenzo - Tommaso Natale. Quanto a Nuccio Antonino, la collaborazione di detto collaborante con la giustizia aveva consentito la puntuale ricostruzione di molteplici vicende delittuose consumate soprattutto nella zona di Partanna Mondello, nel periodo della reggenza del Franzese, allorchè questi si era dovuto dare alla latitanza. Il Nuccio, infatti, era stato introdotto di fatto fra i ranghi di “cosa nostra” e di quella “famiglia” mafiosa proprio grazie all’intervento del Franzese. Negli ultimi anni, dopo la cattura di numerosi esponenti locali e l’emissione di ordinanze di custodia cautelare che avevano indotto altri uomini d’onore a darsi alla latitanza, la circostanza che egli fosse a piede libero e dunque in grado di spostarsi senza limitazioni sul territorio, aveva consentito al Nuccio, oltre che di curare la latitanza del Franzese, di fare da tramite fra quest’ultimo ed altri associati, di eseguire e coordinare insieme ad un piccolo gruppo di sodali le istruzioni dei vertici locali che riguardavano il 22 settore delle estorsioni, il controllo della zona e, in qualche caso, i rapporti con altre famiglie. Tali incombenze avrebbero consentito pertanto al Nuccio di acquisire un apprezzabile bagaglio di informazioni, poi riferite agli organi inquirenti, ed il complesso delle sue propalazioni, che aveva trovato ampia rispondenza anche in altre risultanze investigative, sarebbe risultato in larga parte convergente con le dichiarazioni del Franzese, senza peraltro che fossero emerse circostanze dalle quali potere dedurre l’esistenza di intenti strumentali o motivi di rivalsa nei confronti dei soggetti chiamati in correità. Il Nuccio, in definitiva, aveva reso, secondo i giudici di prime cure, dichiarazioni precise, lucide, intimamente coerenti e ricche di dettagli narrativi, e l’indicazione da parte sua dei fatti e dei relativi protagonisti, derivante da una esperienza personale e diretta delle circostanze narrate, si era rilevata sorretta da un rilevante indice di attendibilità intrinseca. Per quanto concerne la valutazione delle dichiarazioni dello Spataro, questi aveva descritto il suo graduale inserimento nella cosca di Resuttana, favorito dal suo rapporto di parentela con il capomandamento Bonanno Giovanni, spiegando che la sua attività al servizio del sodalizio mafioso era consistita soprattutto nella riscossione dei proventi estorsivi dai commercianti della zona. Le mansioni di autista svolte per il Bonanno gli avevano consentito, peraltro, di estendere la sua rete di conoscenze nell’ambito di diverse “famiglie” mafiose e di acquisire un rilevante patrimonio di informazioni riguardanti altre articolazioni territoriali di “cosa nostra”. Le propalazioni di detto collaborante erano state ritenute dettagliate e coerenti, ed inoltre risultavano esplicitate, con riferimento ai fatti appresi per via indiretta, le relative fonti di conoscenza, sicché esse dovevano essere giudicate intrinsecamente attendibili, anche in considerazione della spontaneità che le caratterizzava, tenuto conto della specificità dei dettagli che arricchivano la compiuta ricostruzione dei fatti. 23 Per quanto concerne, infine, il contributo fornito dai più “datati” collaboranti Avitabile, Onorato, Cracolici e Mazzola, le loro dichiarazioni concernevano periodi largamente antecedenti a quello interessato dalle attività investigative, ma avevano comunque arricchito e completato il compendio probatorio, fornendo soprattutto informazioni di carattere generale sulla pregressa composizione delle “famiglie” mafiose e sulle figure di taluni protagonisti coinvolti nelle vicende sottoposte al vaglio del Tribunale. E si trattava, anche in questo caso, di propalazioni sempre lineari, coerenti e immuni da contraddizioni, corredate dall’indicazione di nomi e circostanze, non animate da sentimenti di astio o di risentimento nei confronti dei soggetti raggiunti da tali accuse, sicché apparivano sussistenti tutte le condizioni per formulare un giudizio di piena attendibilità intrinseca. 1-3. Procedendo quindi all’esame delle posizioni dei singoli imputati, il primo giudice ha ritenuto provato, in primo luogo, il coinvolgimento diretto di Conigliaro Angelo, quale braccio destro di Pipitone Vincenzo, nelle attività criminali del sodalizio mafioso di Carini ed, in particolare, nelle attività estorsive poste in essere ai danni degli imprenditori Priano, Cutietta e Billeci, nonché ai danni di tali Badalamenti, principalmente alla stregua del chiaro contenuto di svariate intercettazioni ambientali. Per quanto riguarda la vicenda relativa al Priano dal primo giudice è stato evidenziato il contenuto della conversazione del 6.10.2003, dalla quale si desumerebbe che l'imprenditore summenzionato era stato costretto al pagamento del “pizzo”, ma che gli era residuato, ad un certo punto, un debito di dieci milioni di lire di cui l'organizzazione criminale pretendeva il versamento. Lo stesso Conigliaro, parlando con il Pipitone, evidenziava nel corso del citato colloquio intercettato la difficoltà di recuperare proventi estorsivi dagli imprenditori vittime della pressione di “cosa nostra”, ed aveva ad un certo punto introdotto il tema della somma ancora dovuta dal Priano, 24 sottolineando con evidente disappunto che l’inadempienza dello stesso perdurava ormai da due anni. Un valido riscontro a tale già chiara ricostruzione dei fatti proveniva, secondo i primi giudici, dalle dichiarazioni del “collaborante” Pulizzi Gaspare, il quale aveva dichiarato di avere partecipato alle trattative per la “messa a posto” di Priano Alfonso, imprenditore che doveva avviare un’attività edilizia nei pressi dello svincolo autostradale di Carini. Quanto alla condotta estorsiva in danno dell’imprenditore Cutietta Carlo, la diretta partecipazione del Conigliaro al delitto in questione veniva dal giudice di prime cure desunta da una conversazione intercettata alle ore 11.37 del 27.12.2003, svoltasi all'interno dell'autovettura Peugeout 206 in uso allo stesso Conigliaro, fra quest’ultimo e la stessa vittima del reato. Ed invero, nel corso della conversazione il Conigliaro riferiva al Cutietta di avere ricevuto la visita di “cristiani”, che gli avevano chiesto conto del comportamento tenuto da esso Cutietta, che non si sarebbe ancora presentato per “mettersi a posto” con il pagamento del “pizzo”, in relazione ad un'attività edilizia in itinere. Il Cutietta, dal canto suo, aveva rappresentato al Conigliaro le sue difficoltà contingenti, evidenziando di non avere nemmeno comunicato al committente dei lavori la richiesta di pagamento del “pizzo”, di cui egli si era, pertanto, fatto interamente carico. Il Conigliaro replicava che egli personalmente non aveva alcun potere decisionale e che sebbene avesse chiarito ai suoi interlocutori (subdolamente rappresentati come i veri mandanti dell'estorsione) che il Cutietta era un povero “lavoratore”, gli era stato risposto “dobbiamo campare tutti”. Nel corso della conversazione il Conigliaro aveva precisato i termini della richiesta estorsiva, nel senso che il Cutietta doveva sborsare l’equivalente di cinque milioni delle vecchie lire per ciascuna delle villette che avrebbe dovuto realizzare, da consegnare agli esponenti dell'organizzazione criminale tramite tale “Giovanni”. 25 Trattandosi della costruzione di due villette, il Conigliaro suggeriva al suo interlocutore di versare almeno cinque dei dieci milioni di lire richiesti per evitare che accadessero “male cose”, fingendo un personale disinteresse per il risvolto economico della vicenda e, di contro, una sincera preoccupazione per le sorti del Cutietta. Quest’ultimo gli ricordava, allora, che aveva già pagato cinque milioni delle vecchie lire per i due fabbricati in questione e il Conigliaro, dopo avere effettivamente verificato che si trattava delle stesse villette per le quali aveva i ricevuto il sollecito dei "cristiani", lo dispensava immediatamente da ulteriori pagamenti, dimostrando, così, contrariamente alla rappresentazione dei fatti propinata fino a pochi istanti prima alla vittima dell'estorsione, di esercitare un autonomo potere decisionale, che presupponeva una posizione di primo piano nell'ambito della “famiglia” mafiosa di Carini. Quindi, il Conigliaro e il Cutietta avevano concordato il pagamento dell’equivalente di altri cinque milioni delle vecchie lire in relazione ai lavori edilizi che sarebbero stati successivamente intrapresi dall'imprenditore, non appena ultimati i lavori di costruzione delle due villette nella via del Girasole. Con riguardo all'estorsione tentata nei confronti del Billeci, gli elementi probatori a carico del Conigliaro si desumevano, secondo i primi giudici, dalla partecipazione di detto imputato alla riunione verificatasi il giorno 27.9.2003 presso l’abitazione del Pipitone tra i principali esponenti della “famiglia” mafiosa di Carini e Pierino Napoli, già reggente della “famiglia” palermitana della Noce-Cruillas, che era venuto a mediare nell'interesse dello stesso Billeci, per ottenere una significativa riduzione della somma originariamente richiesta quale “messa a posto” (da settecento a cinquecento milioni delle vecchie lire) in ordine alla costruzione di un complesso residenziale da realizzare in territorio di Carini. Il primo giudice ha evidenziato, poi, il contenuto di una conversazione svoltasi il 9 giugno 2003, alle ore 21.11, all'interno dell'abitazione di 26 Pipitone Vincenzo, nelle immediate adiacenze del ciclomotore Honda di proprietà dell’imputato Conigliaro Angelo. Nel corso della conversazione svoltasi fra il Pipitone e Conigliaro veniva ad un certo punto affrontato il tema di un “chiarimento” avvenuto tra lo stesso Pipitone Vincenzo ed il cugino di questi, Vallelunga Vincenzo, appellato “Enzino” (soggetto già condannato per il reato di associazione mafiosa), al quale il Pipitone rammentava di avere contestato il comportamento tenuto nei confronti di alcuni imprenditori operanti nella zona di Carini. Subito dopo il Pipitone e il Conigliaro, dopo avere interrotto temporaneamente il loro colloquio per leggere un “pizzino” contenente un messaggio inviato dal latitante Lo Piccolo Salvatore ed avere quindi distrutto tale compromettente documento, prendendo spunto dalla vicenda relativa al Vallelunga, si soffermavano sulla questione riguardante il Billeci. Hanno osservato i primi giudici come alle ore 15.35 del 27 settembre 2003, all’interno dell’abitazione di Pipitone Vincenzo, fosse stata registrata una ulteriore importante conversazione che vedeva come protagonisti lo stesso Pipitone Vincenzo, il Di Maggio, il Conigliaro e il Pulizzi. Nella prima parte della conversazione, intercorsa tra il Pipitone e il Conigliaro, il capomafia di Carini riepilogava la vicenda di un progetto edilizio concernente la costruzione di un complesso residenziale che avrebbe dovuto sorgere in territorio di Carini, chiarendo al suo interlocutore che la questione si protraeva ormai da cinque anni. Quando, poi, il Billeci aveva chiesto di realizzare in prima persona il complesso edilizio, senza interventi di altre imprese, veniva rammentato dal Pipitone come lui stesso e il di lui fratello Angelo Antonino (“Nino”) avessero contattato l’imprenditore ed anche tale Davì, uomo d’onore di Partanna Mondello, ed in quella circostanza fosse stato pattuito il pagamento di settecento milioni di lire a fronte della realizzazione di settanta villette. Il Pipitone aggiungeva che il Billeci, tuttavia, non aveva mantenuto gli impegni assunti. 27 Da questo primo stralcio della conversazione, quindi, appariva chiaro, secondo i primi giudici, che il Billeci si trovava al centro di una complessa vicenda estorsiva che aveva visto l’intervento di Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo Antonino e Vallelunga Vincenzo, oltre che del Conigliaro. Nel corso della conversazione intercettata, dopo pochi minuti, al Pipitone ed al Conigliaro si aggregavano Di Maggio Antonino e Pulizzi Gaspare, intrattenendosi a discutere di altri argomenti. Allorchè veniva ripreso l’argomento Billeci, il Pipitone accettava con riserva la proposta di definire la vicenda con il pagamento di cinquecento milioni di lire, dicendo al Di Napoli che sarebbe stato necessario, però, risentirsi dopo avere opportunamente consultato “lui”, Totuccio, vale a dire Lo Piccolo Salvatore, all’epoca ancora latitante, con il quale lo stesso Pipitone continuava a mantenere rapporti assai saldi. Ha osservato il primo giudice che il contenuto della conversazione appariva estremamente chiaro: nel caso in cui il Billeci avesse eseguito i lavori direttamente, non gli sarebbero stati richiesti altri esborsi di denaro; se invece avesse fatto realizzare i lavori da un’altra impresa, sarebbe stato tenuto ad ulteriori versamenti. Contestualmente, il Pipitone garantiva al suo interlocutore che il Billeci poteva “campare tranquillamente”, invitandolo comunque a rivolgersi a lui nel caso in cui l’imprenditore avesse deciso di fare eseguire i lavori a una ditta del posto, in quanto egli aveva la disponibilità di tutti i mezzi necessari alla realizzazione dell’opera. Hanno osservato poi i primi giudici come il compendio istruttorio fosse stato ulteriormente arricchito dalle dichiarazioni del Pulizzi, che avevano convalidato le risultanze delle intercettazioni. Il “collaborante” dopo avere menzionato la vicenda relativa al costruttore Billeci, che doveva realizzare cinquanta villette bifamiliari in un terreno sito nei pressi dello svincolo autostradale dell’aeroporto di Punta Raisi, si era quindi soffermato su una riunione cui anch’egli aveva partecipato. 28 Nel corso di detta riunione, cui avevano partecipato Pipitone Vincenzo, Conigliaro Angelo, Nino Di Maggio e Pierino Di Napoli, uomo d’onore della “famiglia” della Noce, vicino al Di Maggio, erano stati infatti concordati i termini della cd. “messa a posto” del Billeci, cioè della somma di denaro che l’imprenditore estorto avrebbe dovuto corrispondere per tacitare le pretese della cosca nel cui territorio i lavori dovevano essere compiuti. Quanto all'estorsione tentata nei confronti dei Badalamenti, proprietari di un fondo con destinazione edilizia, i primi Giudici rammentano la conversazione del 2.10.2003, nel corso della quale il Pipitone aveva chiarito con il Conigliaro che i suddetti Badalamenti avrebbero dovuto versare alla “famiglia” mafiosa una somma pari a cinquanta milioni di lire in relazione alla programmata costruzione di varie unità immobiliari, specificando peraltro che di tale provento illecito non avrebbe dovuto beneficiare il cugino Vallelunga. Rilevante al riguardo era stata ritenuta, poi, la conversazione del 9.10.2003, durante la quale il Conigliaro, all'arrivo di tale Lo Buglio nel luogo fissato per l'appuntamento, aveva espresso al Pipitone l'auspicio di riuscire finalmente ad ottenere “quei dieci milioni”, precisando immediatamente dopo, rivolto al nipote Angelo, l'importo complessivo del provento dell'estorsione e la sua destinazione finale in favore degli esponenti della locale “famiglia” mafiosa. Conclusivamente i primi giudici hanno osservato che l’importante potere decisionale del Conigliaro in ordine alle attività estorsive della “famiglia” di Carini, risultava ampiamente dimostrato dalla già citata conversazione intercorsa il 27.12.2003 con l'imprenditore Cutietta. L’imputato, già informato in ordine alla entità dei lavori che il Cutietta stava realizzando nel territorio di Carini, aveva avanzato la richiesta di pagamento del“pizzo”, correlandola esplicitamente all'attività edilizia dell’imprenditore. Nel corso del colloquio, evocando secondo una sperimentata strategia intimidatoria l'incombente presenza di “cristiani” in 29 grado di cagionare “male cose” e “camurrie” in caso di inottemperanza, si era proposto quale fautore di una mediazione finalizzata a preservare il Cutietta da possibili “maltrattamenti” e da un potenziale “massacro”. Infine, quando si era reso conto, recependo le rimostranze del Cutietta, che gli aveva rappresentato di avere già pagato in relazione ai due fabbricati in questione, lo aveva dispensato seduta stante da ulteriori pagamenti, mostrando così di avere una piena autonomia operativa e, quindi, di essere investito, alla stregua di direttive interne impartite dal Pipitone, di una responsabilità decisionale che poteva trovare il suo fondamento logico soltanto in una posizione di primo piano nell'ambito della “famiglia” mafiosa di Carini. Dette risultanze avevano trovato riscontro, peraltro, nelle propalazioni del Pulizzi, il quale aveva indicato nel Conigliaro l’uomo che insieme al Di Maggio affiancava il Pipitone nella gestione degli interessi della “famiglia” mafiosa, con particolare riguardo al settore delle estorsioni. 1-4. Per quanto concerne la posizione di Cusimano Antonio, hanno affermato i primi Giudici che numerose intercettazioni telefoniche ed ambientali eseguite nel maggio del 2002 avrebbero consentito di verificare come il predetto imputato avesse imposto all’imprenditore Scalici Damiano le forniture dei materiali destinati alla costruzione delle unità immobiliari che detto Scalici stava realizzando nel territorio di Carini. Sarebbe emerso, infatti, dalla organica disamina del contenuto delle registrazioni che il Cusimano aveva cercato insistentemente il contatto con Nino Pipitone, nel tentativo di ottenere dal nipote del reggente della “famiglia” mafiosa di Carini, nonché con l'appoggio decisivo di Di Blasi Francesco, il via libera per la fornitura di materiale edile all’impresa Scalici. L'intervento richiesto ai Pipitone, diretto ad ottenere l'attribuzione della fornitura, avrebbe raggiunto l'effetto desiderato, in quanto il Cusimano aveva ottenuto una parte della commessa. 30 La condizione di assoggettamento dello Scalici non poteva essere revocata in dubbio, in quanto la pressione esercitata sull'imprenditore dal Cusimano, mediante l'interposizione di esponenti mafiosi appartenenti a varie famiglie del mandamento di San Lorenzo (il Di Blasi di Pallavicino ed i cd. “cristiani” di Carini), aveva privato quest’ultimo di ogni autonomia nella scelta dei fornitori costringendolo a subire decisioni alle quali era rimasto totalmente estraneo. Le risultanze delle anzidette intercettazioni erano state convalidate dalle convergenti dichiarazioni dei “collaboratori di giustizia”, che avevano indicato le frequentazioni mafiose del Cusimano e la sua particolare contiguità a Di Blasi Francesco ed, in genere, agli affiliati alla famiglia di Partanna Mondello. In particolare, Nuccio Antonino, dopo avere riconosciuto in effigie fotografica il Cusimano, riferiva di averne sentito parlare negli anni 2002/2003 nel corso di colloqui con Mimmo Serio, “uomo d’onore” di Tommaso Natale. Spataro Maurizio, dopo avere riconosciuto in effigie fotografica il Cusimano, sosteneva di avere avuto modo di conoscerlo nel 1995, presso gli impianti della “Edilpomice”, siti a Vergine Maria, in quanto gli sarebbe stato presentato da Mimmo Cancelliere, in quel periodo reggente della “famiglia” di Borgo Nuovo, pur non essendo in grado di precisare se il Cusimano fosse organicamente inserito nell’associazione mafiosa. Anche Franzese Francesco, dopo avere operato un positivo riconoscimento fotografico del Cusimano, aveva indicato quest’ultimo come persona vicina a Ciccio Di Blasi, che lo chiamava “figlioccio”, rammentando come l’odierno imputato fosse titolare della ditta Edilpomice, sita all’Addaura, nei pressi del cimitero. Soggiungeva il collaborante di avere conosciuto per ragioni di lavoro il Cusimano, essendo solito recarsi spesso alla Edilpomice per effettuare carichi di materiale, e di avere notato in tali occasioni che nei locali della 31 ditta si trovava sovente il Di Blasi, che utilizzava quel luogo per i suoi appuntamenti con sodali mafiosi. Onorato Francesco, infine, aveva dichiarato di avere avuto modo di conoscere Antonio Cusimano, detto Tony, che aveva un deposito di materiale edile a Vergine Maria, e che lo stesso ed il fratello erano assai vicini al noto mafioso di Tommaso Natale, Lino Spatola, ed anche a Salvatore Lo Piccolo, e che l’imputato, in particolare, era figlioccio dello Spatola. Il “collaborante” aveva ricordato, infine, che il Cusimano ritirava la somma pagata a titolo di pizzo dal circolo Lauria e la consegnava allo Spatola, il quale poi gliela girava “per competenza”, trattandosi del territorio di Mondello. Ha osservato il primo giudice, dopo avere preso atto delle dichiarazioni spontanee di Cusimano Antonio (il quale aveva dichiarato che l’acquisizione della commessa dell’imprenditore Antonino Scalici per la fornitura di materiale edile era stata il frutto di una normale trattativa e non di coartazione mafiosa), che, alla stregua degli elementi probatori raccolti, poteva affermarsi che l’intervento richiesto ai Pipitone, diretto a difendere “le ragioni” del Cusimano nell’attribuzione della fornitura, aveva raggiunto l’effetto desiderato, in quanto l’imputato aveva ottenuto una parte della commessa. Doveva, pertanto, ritenersi provata la responsabilità del Cusimano in ordine al delitto di concorso in estorsione, perpetrato ai danni dello Scalici. Risultavano pacificamente sussistenti le aggravanti di cui agli 629 comma 2° c.p. e 7 del D.L. n. 152/1991, trattandosi di condotta posta in essere da esponenti mafiosi, con i metodi intimidatori tipicamente utilizzati dall’associazione criminale 1-5. Quanto ad Altadonna Lorenzo, imprenditore originario di Carini, il Tribunale, dopo avere riconosciuto che non sussistevano i presupposti di legge per affermare la responsabilità dello stesso in ordine al delitto di 32 riciclaggio aggravato e impiego di denaro di provenienza illecita in concorso, affermava che l’attività istruttoria avrebbe consentito, tuttavia, di accertare l’esistenza di stabili rapporti tra l’anzidetto imputato e l’associazione criminosa denominata “cosa nostra”, rapporti che avrebbero dimostrato, in particolare, la disponibilità dell’Altadonna ad effettuare rilevanti investimenti immobiliari per conto della “famiglia” mafiosa di Carini. Tale disponibilità trovava fondamento soprattuto nell’ambito di uno stretto rapporto di amicizia che legava l’Altadonna a Pipitone Vincenzo, reggente del sodalizio criminale di Carini. Ha osservato il primo giudice come, in sede di esame, l’imputato avesse tentato di negare l’esistenza di un consolidato rapporto con il Pipitone sostenendo di avere sì in qualche occasione frequentato detto soggetto anche perché lo stesso era stato padrino di cresima del figlio Salvatore, ma di non avere mai con il Pipitone posto in essere alcuna attività illecita. Il mendacio dell'Altadonna, tuttavia, sarebbe stato evidenziato, secondo i primi giudici, dal contenuto delle conversazioni intercettate, nelle quali il Pipitone, a dimostrazione del rapporto confidenziale esistente tra i due, si sarebbe riferito ripetutamente allo stesso, indicandolo come suo “compare Lorenzo”. L'intensità e la frequenza dei rapporti tra l'Altadonna e il Pipitone sarebbero state, quindi, chiaramente documentate dal complesso delle conversazioni di cui era protagonista lo stesso reggente della “famiglia” di Carini, e sarebbero state, inoltre, confermate dalle risultanze dell'attività di polizia giudiziaria. Soltanto nell'estate del 2003, l'Altadonna, infatti, come era stato documentato da servizi di osservazione, si era recato almeno in due occasioni nella villa del Pipitone. Le convergenti dichiarazioni dei “collaboranti” Pulizzi e Franzese, poi, avrebbero asseverano tali risultanze. 33 Il Franzese non aveva riferito significativi elementi circa il ruolo dell’Altadonna, pur ricordando di averne sentito parlare da Sandro Lo Piccolo, e lo Spataro lo aveva indicato esplicitamente come “vicino” agli esponenti mafiosi di Carini e di Torretta. Significativa sarebbe stata la circostanza che nel 1998 l'Altadonna era stato presentato allo stesso Spataro da Mannino Calogero - cugino di Salvatore Lo Piccolo e di Lorenzino Di Maggio - come una persona “vicina” ai Pipitone e, in particolare, a Pipitone Giovanni - reggente, in quel periodo, della “famiglia” di Carini - il quale “teneva tantissimo” all'Altadonna. La contiguità dell'imputato ad ambienti mafiosi sarebbe stata, inoltre, documentata dalla conversazione intercorsa tra Brusca Vincenzo (reggente della “famiglia” di Torretta) e il genero Di Maggio Antonino. Il colloquio avrebbe rivestito una particolare valenza accusatoria, rappresentativa della disponibilità offerta dall’imputato ad assecondare gli interessi di “cosa nostra”, spendendosi personalmente per il perseguimento degli interessi dell'associazione criminale. Il Brusca, infatti, aveva riferito al Di Maggio di avere chiesto all'imputato, indicato come “un amico vero”, di parlare con tali Caruso (consigliere comunale di Torretta) e Puccio (già sindaco di Capaci), per agevolare l'approvazione di un certo progetto edilizio che interessava la locale “famiglia” mafiosa. E l’Altadonna avrebbe ottemperato alla richiesta del Brusca, parlando con i due soggetti in questione, ancorché non avesse ottenuto alcuna risposta concreta, e mantenendo con loro il riserbo (giudicato assai opportuno dal capomafia di Torretta) circa la reale paternità dell'iniziativa. Ma la più evidente dimostrazione del diretto coinvolgimento dell'Altadonna nelle dinamiche dell'associazione criminale sarebbe scaturita da una conversazione intercorsa il 25 settembre 2003 tra il Pipitone ed il Conigliaro. La persona indicata con il nome “Roberto”, che avrebbe assicurato la sua protezione all'Altadonna e avrebbe potuto reagire assai negativamente se 34 questi avesse dovuto fargli giungere le sue rimostranze, sarebbe stato un esponente mafioso di primissimo piano, di cui lo stesso Pipitone parlava con deferenza mista a timore, e si sarebbe identificato, stando alle dichiarazioni del Pulizzi, nello stesso Lo Piccolo Salvatore, “capomandamento” di San Lorenzo, all'epoca latitante. Nello stesso contesto andava collocata l'esplicita menzione dell'Altadonna in due “pizzini”, sottoposti a sequestro in occasione dell'arresto dei Lo Piccolo, dai quali sarebbe emerso l'interessamento dei due esponenti di vertice di “cosa nostra” in una questione relativa a pregressi rapporti di affari tra l’Altadonna e l'imprenditore Leonardo, che reclamava la restituzione di una consistente somma di denaro. L’imputato, in conclusione, seppure non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo dell’affectio societatis, si sarebbe adoperato volontariamente in favore dell’organizzazione mafiosa, fornendo spontaneamente la propria disponibilità al servizio degli interessi di “cosa nostra”, nonché la sua rete di conoscenze, le sue attività commerciali e le sue qualità imprenditoriali. In definitiva, le convergenti risultanze processuali sarebbero state chiaramente indicative dell'esistenza di un rapporto interattivo istaurato dall'Altadonna con l'organizzazione mafiosa, in vista del conseguimento di propri interessi imprenditoriali. Nel caso di specie, sarebbe perciò venuta in rilievo la condotta di un imprenditore colluso, che non era succube dell'organizzazione mafiosa e non ne subiva passivamente le imposizioni, ma era legato da un rapporto di stabile collaborazione con il sodalizio criminale, in vista del conseguimento di reciproche utilità per entrambe le parti; si sarebbe trattato, quindi, di un consapevole, volontario contributo alla conservazione di “cosa nostra” e al rafforzamento delle sue capacità operative. 35 Il materiale probatorio raccolto a carico dell’Altadonna sarebbe stato ulteriormente integrato, ad avviso del Tribunale, dalle dichiarazioni rese dai “collaboratori di giustizia” sentiti nel corso del dibattimento. Il “collaborante” Pulizzi Gaspare aveva riconosciuto in effigie fotografica l’imputato, indicato come compare di Enzo Pipitone, essendo stato il padrino di cresima del di lui figlio. Aveva affermato il Pulizzi che l’Altadonna, il quale aveva acquistato un terreno a Carini, aveva consegnato a Pipitone Vincenzo la somma di denaro necessaria per liquidare i mezzadri presenti sul fondo da molti anni; si sarebbe trattato, in particolare, di Conigliaro Angelo, Gallina Angelo e Vallelunga Enzo, tutti appartenenti alla “famiglia” mafiosa di Carini, che si erano rivolti al Pipitone Vincenzo, nella sua qualità di reggente, per risolvere la questione. Aveva confermato che tra Pipitone Vincenzo e l’Altadonna, soprannominato “u’ pacchione”, vi era un rapporto di amicizia. In un’altra circostanza, il Pulizzi sarebbe stato presente a un incontro svoltosi in un fondo limitrofo, anch’esso di proprietà dell’Altadonna, cui avevano partecipato Pipitone Vincenzo, Inzerillo Franco e Mannino Sandro. Questi ultimi due avrebbero avuto l’intento di acquistare due lotti di terreno dall’Altadonna, e si sarebbero rivolti al Pipitone per ottenere uno sconto da quest’ultimo. Il “collaboratore” Franzese Francesco aveva correttamente indicato l’immagine fotografica dell’Altadonna, pur ricordandone il nome soltanto all’esito della contestazione delle sue precedenti dichiarazioni; si trattava di una persona di Carini, di cui aveva sentito parlare incidentalmente da Lo Piccolo Sandro e da Gaspare Pulizzi in relazione a rilevanti lavori edilizi. Costoro, infatti, ne parlavano come di una persona conosciuta, ma non vi sarebbe stato alcun riferimento a condotte estorsive perpetrate ai suoi danni. Spataro Maurizio aveva operato un positivo riconoscimento fotografico dell’Altadonna, ricordando che gli era stato presentato nel 1998 da Mannino 36 Calogero – cugino di Lo Piccolo Totuccio e di Di Maggio Lorenzino - come una persona “vicina” ai Pipitone. Sul conto dell’Altadonna aveva reso dichiarazioni dibattimentali anche il ragioniere La Porta Girolamo, consulente contabile della “Giellei Electro Trading s.r.l.”, dichiarando di averlo conosciuto per avere seguito per suo conto la fase prodromica all’apertura del negozio “Stock House”. Ed aveva altresì affermato che lo stesso operava nel mercato esclusivamente con risorse finanziarie proprie, avendo una particolare capacità di realizzare profitti e non avrebbe potuto tollerare eventuali compartecipazioni ai suoi affari, tant’è che egli lo aveva soprannominato “lo squalo”. Pertanto, alla luce dei principi giurisprudenziali illustrati nella parte introduttiva della sentenza, sarebbero emersi, secondo i primi giudici, tutti gli elementi integrativi del reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa, aggravato dalla disponibilità e dal riciclaggio dei proventi delittuosi (commi 4 e 6 dell'art. 416 bis c.p.), ancorché non fosse stato accertato alcuna attività di riciclaggio posta in essere dall’imputato in favore dell’associazione. Vero è nel corso del menzionato colloquio con il Conigliaro, il Pipitone aveva accennato apertamente al fatto che era stata destinata all’Altadonna la somma di trecentocinquanta milioni di lire, raccolta tra soggetti appartenenti o comunque “vicini” alla “famiglia” mafiosa, perché lo stesso imputato partecipasse a un’asta giudiziaria per l’acquisto di un capannone. Tuttavia, l’operazione non era andata a buon fine, in quanto il prezzo era lievitato fino a seicento milioni di lire e il capannone era stato acquistato da tale Ruffino. Analoga iniziativa sarebbe stata successivamente intrapresa per l’acquisto del magazzino di tale Buzzetta, ma anche in questa circostanza la somma stanziata si era rivelata insufficiente. 37 Si trattava, dunque, in entrambi i casi, di vicende che, se da un lato confermavano la disponibilità dell’Altadonna ad operare per conto dell’organizzazione mafiosa sul terreno degli investimenti immobiliari, per altro verso non avrebbero assunto di per sé rilevanza penale in relazione al paradigma normativo di cui agli artt. 648 bis e ter c.p., poiché dalle stesse parole del Pipitone risultava che tali operazioni non erano state portate a compimento e non avevano superato la fase meramente preparatoria, sia pure per l’intervento di fattori indipendenti dalla volontà dei protagonisti. Ha ritenuto, pertanto, il Tribunale che, di là dai comprovati rapporti di contiguità tra l’Altadonna e l’organizzazione criminale, non fossero emersi dal compendio istruttorio episodi specifici, idonei a dimostrare in concreto che il denaro di provenienza delittuosa, riconducibile alle attività illecite degli esponenti mafiosi di Carini, fosse stato effettivamente riciclato ovvero immesso nel circuito economico grazie all’intervento del predetto imputato, la cui posizione, con riferimento all’imputazione di cui al capo 16 della rubrica, andava definita con formula assolutoria. 1-6 Per quanto concerne la posizione degli imputati Curulli e Iaquinoto, il Tribunale ha osservato che le univoche risultanze dei servizi di intercettazione, valutate unitamente ai concordanti apporti dichiarativi di Pulizzi Gaspare, La Porta Girolamo e di La Manna Angelo, nonché agli esiti della puntuale attività di verifica eseguita dagli organi investigativi, avrebbero consentito di accertare che il Curulli e lo Iaquinoto, pienamente consapevoli della specifica finalità dei rispettivi apporti, avevano creato la fittizia apparenza di una società interamente riconducibile allo stesso Iaquinoto, ma in realtà partecipata con quote rilevanti da esponenti della “famiglia” mafiosa di Carini. In tal modo, gli imputati avrebbero consentito, mediante l’esercizio dell'attività di impresa, il reimpiego di risorse finanziarie di provenienza delittuosa, loro direttamente conferite dagli appartenenti al citato sodalizio mafioso. Quali fossero le fonti illecite di raccolta della provvista cui 38 attingevano il Pipitone e il Di Maggio sarebbe risultato evidente, alla stregua degli univoci elementi di prova raccolti in ordine all'asfissiante pressione estorsiva esercitata dalla “famiglia” mafiosa di Carini sulle attività economiche intraprese nel territorio. L’attiva natura dell'inserimento del Di Maggio e del Pipitone nella società formalmente amministrata dallo Iaquinoto, e con la partecipazione occulta del Curuli, si sarebbe ricavata, in particolare: - dai collegamenti di natura familiare tra il Curulli e Pipitone Vincenzo e dalla significativa presenza, fra i dipendenti della “Giellei Electrotrading”, di congiunti dello stesso Pipitone e del Di Maggio (egli stesso formalmente assunto con la qualifica di magazziniere); - dalle conversazioni intercettate all'interno del deposito del Gottuso, dalle quali si traeva la conferma del connubio esistente fra i predetti esponenti mafiosi e il Curulli, di cui veniva tratteggiato il ruolo di “curatore” di interessi economici facenti capo alla “famiglia” di Carini; - dall’esplicita indicazione del Pipitone - nelle esternazioni dello stesso Gottuso - come il vero “padrone” della società nella quale operava il Curulli; - dalla conversazione telefonica intercorsa tra Fortunato Vitale (Roberto) e la moglie Silvana, che offriva un quadro chiarissimo della reale attribuzione dei poteri di gestione della società, indicando il Di Maggio come la persona competente ad assumere le decisioni in materia di pagamento degli stipendi; - dai colloqui tra il Di Maggio e il Pipitone, dai quali emergeva altrettanto chiaramente la cointeressenza dei due interlocutori nella “Giellei Electrotrading”. Tali elementi avrebbero costituito la prova certa del fatto che gli odierni imputati erano i soggetti ai quali essi avevano affidato la cura dei loro interessi. E le anzidette circostanze, di per sé ampiamente sufficienti per ritenere fondato l'assunto accusatorio, sarebbero state asseverate dalle convergenti 39 deposizioni del Pulizzi e del La Porta, i quali - dai propri rispettivi angoli visuali - avrebbero descritto in termini convergenti il reale assetto societario, affermando che se formalmente lo Iaquinoto era l'amministratore unico, partecipavano in modo occulto alla compagine sociale oltre al Curulli, anche il Di Maggio e il Pipitone. Inoltre, il giro di assegni fra le banche di Carini e di Acireale, accertato dalla Guardia di Finanza, vale a dire tra banche situate a centinaia di chilometri di distanza, non giustificabili in relazione all'attività commerciale svolta dalla società, sarebbero stati tutti elementi indicativi di una serie di condotte volte alla “ripulitura” e al “ritorno” di cospicue somme di denaro di provenienza illecita, secondo lo schema normativo tipico del riciclaggio (sostituzione o trasferimento di denaro, ovvero compimento di operazioni tali da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa). Le difese degli imputati avevano cercato di dimostrare, in qualche modo riuscendovi, che in realtà tali operazioni erano determinate dalla necessità di fronteggiare la mancanza di liquidità nella quale la “Giellei Electrotrading” si dibatteva nel periodo in contestazione. Ciò, tuttavia, non avrebbe escluso che, in ogni caso, dietro l'attività commerciale apparentemente riconducibile allo Iaquinoto e, indirettamente, al Curulli (anch'egli, come si è visto, socio di fatto della “Giellei Electrotrading”), si celassero in realtà specifici interessi patrimoniali del Pipitone e del Di Maggio. Sarebbe stato accertato, infatti, alla stregua di convergenti acquisizioni istruttorie dotate di inoppugnabile valenza dimostrativa, che i due esponenti di vertice della cosca mafiosa di Carini avevano conferito ingenti risorse finanziarie di origine illecita nel capitale sociale ed erano, unitamente al Curulli, i reali gestori occulti della società, dietro lo schermo della titolarità formale attribuita al solo Iaquinoto. Con riguardo al profilo della qualificazione giuridica delle condotte in contestazione, premesso che nei confronti degli odierni imputati era stata 40 elevata un'imputazione di natura cumulativa ai sensi degli artt. 648 bis e 648 ter c.p. (capo 17 della rubrica), e che tra le due fattispecie sussiste certamente un rapporto di specialità, i primi Giudici hanno ritenuto che, avuto riguardo alle concrete modalità realizzative della condotta, attuata mediante l'immissione nel circuito economico di risorse finanziarie di derivazione illecita, apparisse più corretto ricondurre i fatti contestati al Curulli e allo Iaquinoto unicamente entro l'alveo di operatività dell’art. 648 ter cod. pen. Hanno ritenuto, invece, di dovere assolvere il Curulli dall’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa elevata a suo carico al capo 2 della rubrica. Hanno rilevato infatti con riguardo alla configurabilità del concorso tra il delitto di cui all’art. 648 ter c.p. e il reato associativo, che in passato la giurisprudenza di legittimità non aveva ravvisato alcun rapporto di “presupposizione” tra le fattispecie in esame e, pertanto, ritenendo non operante la clausola di esclusione prevista dall’inciso iniziale dell’art. 648 bis c.p. (e, analogamente, quella dell’art. 648 ter c.p.), aveva affermato che il partecipe al sodalizio criminoso risponde altresì dell’imputazione per riciclaggio dei beni acquisiti attraverso la realizzazione dei reati fine dell’associazione. In particolare, è stato osservato come la S.C., in un primo tempo, abbia statuito che “tra fattispecie associativa e delitto di riciclaggio non sussiste, in astratto, alcun rapporto di “presupposizione” giacché la partecipazione al sodalizio non equivale affatto a realizzare la fattispecie delittuosa dalla quale origina la successiva condotta prevista dal- l’art. 648 bis c.p., a prescindere da quelli che possono essere i reati programma del sodalizio stesso. Non potendosi quindi configurare una ontologica derivazione dei beni oggetto di riciclaggio dalla condotta associativa, non può evidentemente operare la clausola di esclusione con la quale esordisce l’art. 648 bis c.p.” (Cass., sez. II, 14.2.2003, n. 10582). 41 Hanno rilevato, però, come recentemente la stessa Cassazione abbia mutato indirizzo, affermando che “il delitto di associazione di tipo mafioso può costituire il presupposto di quello di riciclaggio, in quanto è di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso”, quale l’uso della forza intimidatrice della associazione, l’assoggettamento delle persone con tale timore, l’imposizione di atteggiamento omertoso” (Cass., sez. I, 27.11.2008, P.M. in proc. Ceccherini). È dunque possibile che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di altri diversi delitti da qualificare come reati-fine della associazione. Di ciò si avrebbe riprova, ad avviso della Suprema Corte, anche nella norma di cui all’art. 76 comma 4 bis del D.P.R. n. 115/2002 (introdotta dall’art. 12 ter della L. n. 125/2008), che prevede che in materia di patrocinio a spese dello Stato, per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui all’art. 416 bis c.p., nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, il reddito si presume superiore ai limiti previsti; la nuova disposizione, quindi, esclude dal gratuito patrocinio il soggetto condannato anche soltanto per associazione mafiosa, sul chiaro presupposto che tale reato possa produrre ex se lucrosi proventi, indipendentemente dai reati-fine della associazione. Nel caso di specie non era possibile affermare, però, che il Curulli, al di là dell’utilizzo di somme di denaro provenienti dal Pipitone e dal Di Maggio nella società Giellei, abbia inteso fornire un contributo alle finalità dell’associazione mafiosa “cosa nostra”. Hanno rammentato, infatti , come, secondo la più recente elaborazione giurisprudenziale della figura del concorrente “esterno”, assume tale veste il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa della consorteria criminale e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “fa 42 parte”), “fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala come "cosa nostra", di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima” (Cass., S.U., 12.7.2005, Mannino). E nella specie, di là dai comprovati rapporti di contiguità tra il Curulli ed il gruppo mafioso facente capo a Pipitone Vincenzo, compiutamente esplicati dalla partecipazione occulta alla “Giellei Electrotrading”, non risultavano acquisiti, a carico del predetto imputato, elementi dimostrativi di un diverso ed ulteriore contributo specifico, dotato di effettiva rilevanza causale ai fini del mantenimento e del rafforzamento dell’associazione mafiosa, sicché lo stesso doveva essere mandato assolto dall’imputazione di cui al capo 2 con la formula di rito. 1-7. Esaminando, poi, le posizioni di Collesano Vincenzo e De Luca Antonino, i primi giudici, dopo avere analizzato il contenuto delle conversazioni intercettate alle quali i predetti avevano partecipato, ovvero quelle in cui gli in cui i nominativi degli stessi erano stati menzionati da terzi, nonché le convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano riferito sul conto dei due indagati, hanno osservato, quanto al Collesano, che le risultanze dei servizi di intercettazione avevano assunto una straordinaria capacità rappresentativa del suo inserimento nell’organizzazione criminale denominata “cosa nostra”. I risultati dalle numerose registrazioni avevano consentito, infatti, di delineare chiaramente gli assetti della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, che in quella fase storica era caratterizzata dallo scontro intestino tra due gruppi contrapposti e dalla grave situazione di conflitto determinatasi tra i fratelli Collesano, schierati su fronti diversi ed entrambi 43 interessati a conseguire il maggior vantaggio possibile da una grossa operazione immobiliare in quel momento in fase progettuale. La contrapposizione esistente tra i fratelli Collesano era nota negli ambienti di “cosa nostra” e costituiva motivo di forte preoccupazione per il Gottuso, l’uomo che - come risultava dalle emergenze processuali - svolgeva attività di mediazione immobiliare, muovendosi con estrema disinvoltura tanto negli ambienti dell’imprenditoria, quanto tra gli uomini di “cosa nostra”, garantendo gli interessi delle “famiglie” mafiose di volta in volta interessate. Il Gottuso si era adoperato personalmente per comporre le tensioni createsi all’interno della “famiglia” di Partanna Mondello, ulteriormente esacerbate dal fatto che Davì Salvatore, scarcerato dopo un lungo periodo di detenzione, aspirava ad assumere il ruolo di vertice della cosca, forte del suo stretto rapporto con il capo mandamento Lo Piccolo Salvatore. Da una conversazione tra Collesano Rosario e la moglie era peraltro possibile trarre ulteriore conferma del fatto che il dissidio tra i fratelli non riguardava soltanto questioni personali (come si era sostenuto da parte dell’imputato in sede di esame dibattimentale), quanto, piuttosto, il loro rispettivo posizionamento nei due schieramenti contrapposti. Le dichiarazioni del collaborante Franzese confermavano pienamente le risultanze dell’attività di intercettazione, avendo detto collaborante efficacemente tracciato il quadro delle opposte fazioni formatesi in seno al sodalizio criminale, che vedevano da un lato il Davì, appoggiato da Collesano Rosario e da Bruno Giuseppe, detto “castagna”; dall’altro, Collesano Vincenzo e De Luca Antonino, nel gruppo sostenuto da Di Blasi Francesco, esponente mafioso di Pallavicino, divenuto reggente della “famiglia” di Partanna Mondello. Le indicazioni del Franzese erano ampiamente credibili in quanto detto collaborante era legato da un rapporto di amicizia al Collesano, ed aveva rivestito il ruolo di reggente della “famiglia” di Partanna Mondello dal 44 periodo immediatamente successivo alla operazione c.d. “Gotha” (nel corso della quale era stato arrestato, tra gli altri, il suo predecessore Davì Salvatore) fino al momento del suo arresto (avvenuto il 2 agosto 2007). La contrapposizione tra i due gruppi appariva peraltro plasticamente riproposta nella vicenda delle trattative per la compravendita del fondo Vernaci, illustrata dal Franzese in termini sostanzialmente coincidenti con il contenuto delle conversazioni intercettate. Il calibro dei soggetti coinvolti e l’estrema importanza che tutti i protagonisti della vicenda avevano attribuito alla questione, al punto da renderne partecipe lo stesso Lo Piccolo Salvatore, avrebbero reso vieppiù evidente che le ragioni dello scontro non attenevano soltanto a meri interessi privati inerenti ad una sia pure rilevante operazione immobiliare, ma involgevano direttamente gli equilibri interni alla cosca di Partanna Mondello e l’esercizio del potere di condizionamento mafioso sulle attività economiche presenti nel territorio. Il Collesano sarebbe stato personalmente coinvolto nelle trattative della sensaleria per la vendita del fondo Vernaci ed avrebbe cercato di accreditarsi presso Lo Piccolo Salvatore, al fine di prevalere sul Davì; ed a tale riguardo, sarebbe significativa del grado di inserimento dell’imputato nell’associazio- ne mafiosa anche la circostanza che l’imprenditore Filippo Cinà, incaricato dal Lo Piccolo di parlare con il Di Blasi per risolvere la questione, fosse stato da quest’ultimo dirottato proprio verso il Collesano, che doveva dunque considerarsi il referente del gruppo facente capo allo stesso Di Blasi, in relazione ad una vicenda nella quale erano coinvolti i principali esponenti mafiosi della zona e il vertice mandamentale di “cosa nostra”. Nella stessa prospettiva, assunìmeva una straordinaria valenza dimostrativa dell’assunto accusatorio il contenuto del “pizzino” sequestrato al Franzese in occasione del suo arresto. 45 Al riguardo era sufficiente ricordare che, secondo la coerente interpretazione autentica fornitane dallo stesso Franzese (il quale aveva scritto di suo pugno il documento in questione), le voci indicate nel manoscritto si riferivano alla suddivisione di una ingente somma di denaro ricavata da un’estorsione fra i vari appartenenti alla “famiglia” di Partanna Mondello, secondo i criteri stabiliti dai vertici del mandamento, in persona di Lo Piccolo Sandro. Ed invero, tra i soggetti destinatari dei proventi estorsivi, accanto agli stessi Lo Piccolo, al Davì e al Di Blasi – solo per citarne alcuni – figuravano anche i fratelli Vincenzo e Rosario Collesano (indicati con l’abbreviazione “coll”). Il Franzese, inoltre, aveva indicato Collesano Vincenzo come un soggetto particolarmente attivo nel settore delle estorsioni, essendo stato delegato a riscuotere il “pizzo” presso vari esercizi commerciali per conto di Francesco Di Blasi. Le dichiarazioni del Franzese avevano trovato adeguato riscontro, peraltro, in quelle del Nuccio, il quale aveva in primo luogo confermato il rapporto di sovraordinazione gerarchica esistente tra il Di Blasi e il Collesano, nonché i problemi di coesistenza verificatisi tra lo stesso Di Blasi e il Davì quando quest’ultimo era tornato in libertà dopo un lungo periodo di detenzione. Il Nuccio aveva inoltre ricordato, riscontrando sul punto le affermazioni del Franzese, che il Collesano si occupava della gestione delle attività estorsive nella zona di Partanna Mondello, rievocando un episodio che aveva visto l’odierno imputato anticipare il Mancuso nella richiesta estorsiva ai danni della vittima e nella conseguente riscossione di una parte del “pizzo”; per tale ragione lo stesso Mancuso aveva disposto che il Collesano non dovesse ricevere per un certo periodo il contributo in denaro erogato dalla “famiglia” mafiosa, della quale l’odierno imputato faceva parte. Le dichiarazioni del Nuccio coincidevano con quelle del Francese anche con riguardo alla mancata adesione del Collesano alla richiesta, 46 indirettamente proveniente da Lo Piccolo Sandro e veicolata dallo stesso Franzese, di cedere un lavoro di idraulica in favore di un altro soggetto gradito al capomandamento di San Lorenzo. L’indisponibilità del Collesano non avrebbe, tuttavia, compromesso i buoni rapporti intercorrenti con il Franzese. Lo stesso Collesano, del resto, aveva rievocato la vicenda nel corso del suo esame, sostenendo – con una affermazione davvero inverosimile - di avere intuito che il Franzese era coinvolto in affari illeciti solo nel momento in cui il suo compare gli aveva detto che la richiesta di affidare il lavoro ad un altro idraulico proveniva appunto da Lo Piccolo Sandro. L’esistenza dello stretto legame tra il Collesano e il Franzese era stata confermata anche dal collaborante Spataro, che aveva ricordato come il Bonanno, avendo la necessità di incontrare lo stesso Franzese in relazione ad una vicenda strettamente pertinente agli interessi dell’organizzazione mafiosa, si fosse rivolto proprio all’odierno imputato per stabilire il contatto con l’allora reggente della “famiglia” di Partanna Mondello. Anche il Pulizzi, infine, aveva dichiarato di conoscere il Collesano, ricordando il suo intervento infruttuoso nella vicenda relativa all’estorsione ai danni dell’imprenditore Caravello, volto ad ottenere una riduzione dell’im- porto coattivamente richiesto dalla “famiglia” mafiosa di Carini, in quel periodo capeggiata dallo stesso Pulizzi; in relazione a tale vicenda, il Collesano si era peraltro già rivolto a Nino Pipitone e non aveva mancato di precisare al Pulizzi che conosceva anche Nino Di Maggio. I contatti con il Pulizzi nell’ambito della vicenda relativa al Caravello sarebbero stati ammessi, infine, anche dallo stesso Collesano. Vero era che tanto i fratelli Testaverde, quanto i fratelli Adile - indicati dal Franzese tra i commercianti taglieggiati dalla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello mediante l’intervento diretto del Collesano - avevano negato di avere ricevuto richieste estorsive da parte dell’imputato, tuttavia siffatte deposizioni testimoniali dovevano ritenersi del tutto inidonee a scalfire l’attendibilità dei collaboratori di giustizia. 47 Era significativa, al riguardo, la circostanza che i fratelli Testaverde, in linea con quanto riferito dallo stesso Franzese, avessero dichiarato di essere legati all’imputato da un rapporto di amicizia, essendo ben noto il diffuso atteggiamento di reticenza delle vittime del racket delle estorsioni, che soltanto sporadicamente si liberano dal giogo mafioso e collaborano con gli organi inquirenti; ed a tale riguardo era stato evidenziato come i fratelli Adile fossero stati rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento. Pertanto, le difese spiegate dal Collesano, volte ad affermare la sua assoluta estraneità ai fatti illeciti che gli venivano contestati, avrebbero dimostrato tutta la loro inconsistenza a fronte degli evidenti elementi di prova acquisiti nel corso procedimento, attestanti i suoi costanti e documentati rapporti con noti esponenti mafiosi dai quali poteva ricavarsi per tabulas (come si desumeva dal manoscritto sequestrato al Franzese) la sua intraneità all’organizzazione criminale. In conclusione, benché non fosse emersa dalle fonti dichiarative la rituale affiliazione dell’imputato a “cosa nostra”, tuttavia l’imponente materiale probatorio raccolto a carico del Collesano avrebbe dimostrato, in termini inoppugnabili, il suo organico inserimento nella “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, il ruolo dinamico svolto al servizio della cosca, ed il consapevole contributo arrecato al perseguimento delle finalità illecite proprie dell’organizzazione criminale. Ha ritenuto, infine, il Tribunale di dovere pervenire alle medesime conclusioni per quanto concerne la posizione del De Luca. Dalle conversazioni intercorse tra il Gottuso e Collesano Rosario - entrambi bene inseriti negli ambienti mafiosi di Partanna Mondello e profondi conoscitori delle dinamiche interne al sodalizio criminale - sarebbe emerso che il De Luca era un uomo di fiducia di Collesano Vincenzo. La collocazione del De Luca nello stesso schieramento di Collesano Vincenzo, facente capo al Di Blasi, era stata ritenuta dai due interlocutori all’origine dell’incendio appiccato alla autovettura dello stesso De Luca, 48 che doveva, quindi, essere inquadrato nel contesto delle gravi tensioni sorte tra i due gruppi in competizione per la conquista del potere mafioso nella zona di Partanna Mondello. Secondo la qualificata ricostruzione del Gottuso, il De Luca sarebbe stato interpellato da un soggetto che voleva incontrare il Bruno – schierato invece con il Davì - per questioni di rilievo mafioso. Il De Luca lo avrebbe dissuaso, sostenendo che il Bruno era stato “posato” e dirottando il suo interlocutore verso Collesano Vincenzo. Le pesanti osservazioni del De Luca sulla persona del Bruno, l’implicita sconfessione del ruolo del Davì e dei suoi alleati, erano state perciò individuate come la plausibile causale del gesto intimidatorio compiuto ai suoi danni. L’attentato avrebbe avuto, dunque, una matrice mafiosa e sarebbe stato riconducibile all’esigenza del Davì di riaffermare il proprio controllo sul territorio a discapito della fazione contrapposta, cui apparteneva a pieno titolo il De Luca. Le dichiarazioni dei principali collaboratori di giustizia avrebbero completato il quadro probatorio relativo alla ritenuta appartenenza del De Luca all’associazione mafiosa. Tanto il Franzese, quanto il Nuccio avevano descritto - riscontrandosi reciprocamente - il ruolo svolto dall’imputato nell’ambito delle attività criminali della cosca di Partanna Mondello, indicandolo come un soggetto dapprima molto vicino a Collesano Vincenzo e quindi (in una fase evidentemente successiva a quella documentata dalle intercettazioni), transitato nell’orbita di Davì Salvatore. Il Franzese, inoltre, aveva indicato il vivaio del De Luca come un luogo più volte utilizzato per riunioni mafiose, alle quali egli stesso aveva avuto modo di partecipare, ed entrambi i collaboranti avevano affermato che il De Luca era attivo nel settore delle estorsioni, dei danneggiamenti e del traffico di droga per conto dell’associazione mafiosa; il Franzese, in particolare, si era 49 soffermato sui metodi particolarmente odiosi utilizzati dal Davì e dal De Luca nella gestione delle estorsioni, ciò che avrebbe determinato l’allontanamento dell’imputato da Collesano Vincenzo, il quale non condivideva quei metodi. Il De Luca, dal canto suo, aveva ammesso la propria responsabilità in ordine all’estorsione commessa ai danni di un’impresa avente il cantiere nella via Marinai Alliata, reato per il quale aveva già riportato una condanna. L’episodio rievocato dal Nuccio con riguardo all’estorsione commessa dal De Luca ai danni del titolare di un cantiere edile sito a Valdesi per conto del Davì, destinatario finale del provento estorsivo pagato mediante l’interposizione del Di Maio, era da ritenere assolutamente verosimile, per quanto non assistito da riscontri specifici, in quanto la narrazione era apparsa lineare e circostanziata, inscrivendosi in modo coerente nel quadro della personalità criminale dell’odierno imputato, tracciato dalle altre risultanze processuali. Per quanto concerne, infine, la concordanza delle fonti accusatorie sulla particolare “competenza” del De Luca in materia di traffico di sostanze stupefacenti, attività connaturata agli interessi criminali di “cosa nostra” ha ritenuto il Tribunale che, a tale riguardo, assumeva particolare rilievo la circostanza che sia il Nuccio, sia lo Spataro, narrando episodi diversi, avevano collegato la figura del De Luca a quella di Francesco Bonanno, cugino del più noto Giovanni, proprio in relazione alla detenzione e al traffico di cocaina. Il De Luca, dal canto suo, aveva sostenuto di non conoscere il Nuccio, ma la sua affermazione sarebbe stata di fatto smentita, sia dalla precisione e dalla costanza delle dichiarazioni accusatorie del collaborante, sia dal sicuro riconoscimento dell’imputato effettuato dallo stesso Nuccio nell’aula dibattimentale, all’esito di un confronto fino a quel momento svoltosi senza che i due potessero reciprocamente vedersi. 50 In definitiva, le condotte accertate a carico del De Luca avrebbero concretato uno stabile e consapevole contributo apportato agli interessi del sodalizio mafioso e al rafforzamento delle sue potenzialità offensive, denotando l’inserimento a pieno titolo dell’imputato nei ranghi dell’organizzazione criminale. Sulla base dei condivisibili principi giurisprudenziali in precedenza esaminati, dunque, nei confronti del Collesano e del De Luca doveva essere formulato un giudizio di colpevolezza in ordine al reato di partecipazione all’associazione mafiosa, aggravato dalla disponibilità di armi e dal riciclaggio dei proventi delittuosi (commi 4 e 6 dell’art. 416 c.p.). 1- 8. Quanto alla posizione di Biondo Francesco ha premesso il Tribunale che detto imputato era stato chiamato a rispondere del delitto di partecipazione all’associazione di tipo mafioso denominata “cosa nostra”, ascrittogli al capo 26 dell’epigrafe, segnatamente per avere fatto parte della “famiglia” di San Lorenzo; e che lo stesso era già stato riconosciuto responsabile del reato di cui all’art. 416 bis c.p. (nonché del delitto di riciclaggio continuato in concorso) e condannato alla pena di nove anni di reclusione per il suo coinvolgimento nelle attività criminali della “famiglia” mafiosa di San Lorenzo, con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 5.7.2002 (divenuta irrevocabile il 14.2.2007), in relazione a condotte commesse fino al 19.7.2000. Dunque, la risalente appartenenza del Biondo all’organizzazione mafiosa non poteva essere posta in discussione, in quanto tale circostanza costituiva oggetto di definitivo accertamento giurisdizionale. Ha osservato, quindi, il primo giudice che nell’odierno procedimento erano stati acquisiti, nei confronti del Biondo, inconfutabili elementi di prova, derivanti dai servizi di intercettazione ambientale, idonei a dimostrare che, anche dopo la condanna e l’espiazione della pena inflittagli, egli non aveva mai reciso i propri legami con l’organizzazione criminale, ma anzi li aveva ulteriormente coltivati e alimentati, intervenendo attivamente in una spinosa 51 vicenda, oggetto di discussione tra gli esponenti di varie “famiglie” mafiose appartenenti al mandamento di San Lorenzo. In particolare, la vicenda riguardava una disputa in corso tra Bruno Giuseppe (detto “castagna”) e vari appartenenti alla “famiglia” Liga, in relazione ad una attività commerciale nella quale il fratello del Bruno, a nome Andrea, era socio occulto del genero del noto esponente mafioso Liga Salvatore, detto “Tatunieddu”. Gli elementi di reità a carico del Biondo si sarebbero tratti, in particolare, dalla conversazione intercorsa con il Gottuso, alle ore 11,00 del 27 ottobre 2004, all’interno del deposito della S.B.S., di pertinenza dello stesso Gottuso. L’identificazione del Biondo sarebbe apparsa certa, sia per i riferimenti soggettivi contenuti nella conversazione – che si saldava a quella avvenuta il giorno successivo tra il Gottuso ed altri interlocutori – sia per il fatto che l’arrivo dello stesso Biondo a bordo di un motociclo era stato registrato dal sistema di videoripresa installato in prossimità dell’ingresso della SBS. Il messaggio era espresso in modo criptico, in quanto il Gottuso si guardava bene dal menzionare esplicitamente il nome del Davì, indicandolo al Collesano come “quello della scuola”, dal momento che in quel periodo il Davì lavorava presso un istituto scolastico privato di Palermo, con mansioni di addetto alla segreteria. Dalla parole del Gottuso si sarebbe rilevata la ragione dell’intervento del Biondo, il quale si sarebbe interessato in prima persona per tutelare gli interessi del noto esponente mafioso Liga Salvatore, detto “Tatunieddu”, già condannato all’ergastolo per omicidio, associazione mafiosa ed altri reati, e lontano parente di Lo Piccolo Salvatore, mentre il Liga Federico, citato nel corpo della stessa conversazione, era il figlio del predetto Liga Salvatore. Nel successivo tratto di conversazione il Gottuso, sempre più allarmato dalle possibili conseguenze della vicenda, chiedeva al Biondo se Lo Piccolo 52 Salvatore fosse stato messo a conoscenza della delicata questione; il Biondo rispondeva in senso affermativo, quindi il Gottuso, dopo avere affermato che era necessario verificare e valutare in modo oggettivo le ragioni dei contendenti, aveva raccontato al Biondo che in passato il Liga Federico si era comportato male nei suoi confronti. Il riferimento del Gottuso a tale “Leonardo”, indicato come il fratello del suo interlocutore, avrebbe offerto un ulteriore elemento che rendeva certa l’identificazione di Biondo Francesco, essendo stato accertato che quest’ultimo aveva un fratello a nome Leonardo. Nel descrivere in sintesi la vicenda dalla quale era scaturita l’imputazione a carico del Biondo, il Tribunale aveva rilevato che Liga Salvatore, detenuto in espiazione di pena, essendo stato condannato a ben quattro ergastoli, parente di Lo Piccolo Totuccio, aveva chiesto conto del comportamento tenuto da Bruno Giuseppe nei confronti di suo genero Garofalo Francesco; il Bruno, infatti, avrebbe materialmente impedito al Garofalo l’accesso nel suo esercizio commerciale (un supermercato), tranciando e sostituendo i lucchetti agli ingressi del locale. L’uomo che, su incarico del Liga Salvatore, aveva richiesto la consegna delle chiavi era Biondo Salvatore, inteso “Varvazza”, fratello dell’imputato, da poco scarcerato. Parlando con il Biondo, il Gottuso aveva preso le difese del Bruno, ritenendo improbabile che, conoscendo le regole di comportamento vigenti all’interno di “cosa nostra”, egli avesse potuto agire con leggerezza; per tale ragione, il Gottuso aveva obiettato al Biondo, il quale gli chiedeva di farsi consegnare le chiavi dal Bruno, che occorreva prima valutare oggettivamente i termini della contesa. Il Bruno peraltro sarebbe intervenuto a tutela del fratello Andrea, all’epoca detenuto, che a dire di Collesano Rosario aveva aperto il locale. Infatti il suo socio, vale a dire il Garofalo, non gli avrebbe fatto pervenire la sua quota di utili, che ammontava a circa trecento milioni di lire. Nel corso della conversazione, lo stesso Collesano Rosario assicurava al Gottuso che il Davì era già a conoscenza della questione; e quindi si era 53 attivato per contattare telefonicamente quest’ultimo, ma senza successo, manifestando poi l’intenzione di andare a trovarlo a casa; riusciva, invece, a rintracciare Bruno Giuseppe, invitandolo a presentarsi nel deposito del Gottuso. Quest’ultimo ribadiva che il Bruno non avrebbe mai preso una simile iniziativa senza essere stato “autorizzato”. Fatte tali premesse, il Tribunale ha osservato che la lunga conversazione intercorsa tra i personaggi anzidetti, avrebbe fornito tutti gli elementi necessari per comprendere l’accaduto e, in particolare, le motivazioni del gesto compiuto da Bruno Giuseppe. Secondo la versione di quest’ultimo, l’effettivo titolare dell’esercizio commerciale era il fratello Bruno Andrea, detenuto, che l’aveva fittiziamente intestato a Garofalo Francesco, genero di Liga Salvatore, il quale ora si comportava da “padrone” e da lungo tempo non faceva pervenire allo stesso Bruno Andrea i proventi dell’attività. Il Gottuso, su esplicita richiesta del Bruno, aveva riferito che ambasciatore delle lagnanze del Liga sarebbe stato Biondo Francesco, così dissipando definitivamente ogni eventuale dubbio sulla corretta identificazione del suo interlocutore nella conversazione del 27 ottobre. Il Bruno, allora, si era espresso in termini fortemente critici nei confronti del Biondo, affermando che “aveva parlato assai” e doveva “farsi i fatti suoi”. Inoltre, sollecitato dal Gottuso, il Bruno lasciava chiaramente intendere che era stato informato anche il latitante Lo Piccolo Salvatore, il quale lo aveva autorizzato a reagire con le modalità lamentate dal Liga; egli non sarebbe stato perciò tenuto a dare alcuna spiegazione del suo comportamento, ed esprimeva, comunque, tutta la sua stima nei confronti del Liga, con il quale aveva condiviso una esperienza carceraria, e sosteneva che il Garofalo non era degno di appartenere alla sua “famiglia”. Sulla base delle indicazioni fornite dai protagonisti della conversazione, gli organi inquirenti individuavano una prima attività commerciale, oggetto del 54 contendere, denominata Bar Marinella - sita in Palermo, nella via Caduti sul Lavoro - ed un secondo esercizio adiacente, denominato Salumeria DOC. Il proprietario della salumeria era Pedalino Davide, che alla fine del 2004 aveva rilevato l’attività da Garofalo Francesco, genero di Liga Salvatore; in precedenza, l’esercizio commerciale era appartenuto a tale Spitaleri Gaetano, come era risultato dalle visure camerali e dall’esistenza di un’insegna, all’interno del negozio, che riportava sul retro la dicitura “Sigma di Spitaleri Gaetano, Premiata Salumeria”; il Pedalino era cognato di Andrea e Giuseppe Bruno; il Bar Marinella era stato oggetto di un attentato incendiario, avvenuto il 10.5.2005. Sarebbe apparso evidente, dunque, che l’azione di forza del Bruno in danno del Garofalo, genero del Liga, si era conclusa con l’estromissione dello stesso Garofalo e con l’intestazione dell’esercizio commerciale al Pedalino, cognato del Bruno. Ha aggiunto il Tribunale che, essendo stato acquisito, con il consenso delle parti, il verbale dell’interrogatorio reso dal Franzese in data 24.1.2008, in questa circostanza quest’ultimo aveva dichiarato al P.M. di conoscere Biondo Francesco, che riconosceva in fotografia. Il Biondo, a suo parere, sembrava un poco esaurito, e, per quanto era a sua conoscenza, non sarebbe stato un “uomo d’onore”, anche se era “vicino” all’organizzazione mafiosa. A tale riguardo, Lo Piccolo Sandro gli avrebbe detto che conosceva Franco Biondo, e, d’altra parte, i Lo Piccolo avevano ottimi rapporti con i Biondo, in particolare con Carmelo e con Salvatore, detto “il lungo”. Ha rilevato che Biondo Francesco aveva prodotto alcuni fogli manoscritti, nei quali, pur ammettendo di essere l’interlocutore del Gottuso nella conversazione intercettata all’interno della S.B.S., aveva affermato la propria totale estraneità ai fatti che gli venivano contestati. Le risultanze dei servizi di intercettazione ambientale avrebbero dimostrato invece, con ogni evidenza, che il Biondo era intervenuto attivamente nella 55 contesa tra il Bruno e gli appartenenti alla “famiglia” Liga, portando la questione a conoscenza del Gottuso e chiedendogli espressamente di farsi consegnare dallo stesso Bruno le chiavi dei lucchetti, sostituiti con un atto di forza, allo scopo di estromettere dal locale il Garofalo, genero del noto ergastolano “Tatunieddu”. La caratura mafiosa dei soggetti coinvolti – da un lato il Bruno, affiliato alla “famiglia” di Partanna Mondello, dall’altro il nucleo familiare del più anziano Liga, parente di Lo Piccolo Salvatore – avrebbe escluso in radice che la vicenda potesse essere derubricata in una semplice controversia personale, mediata da un disinteressato intervento del Biondo quale mero nuncius delle rimostranze del Liga. Al contrario, la questione avrebbe coinvolto ab imis le dinamiche interne di “cosa nostra” e i suoi delicati equilibri, tant’è che venivano interessati oltre a personaggi di spicco delle famiglie di Tommaso Natale e Partanna Mondello, quali Cusimano Giovanni e Di Blasi Francesco - anche Davì Salvatore, reggente della “famiglia” di Partanna Mondello, nel cui territorio si erano verificati i fatti de quibus, e, soprattutto, il vertice del mandamento, Lo Piccolo Salvatore, all’epoca latitante. Sotto questo profilo, particolarmente indicativo della estrema delicatezza della questione sarebbe stato l’atteggiamento del Gottuso, allarmato dalle potenziali conseguenze del gesto del Bruno e vivamente preoccupato per le sue sorti. Alla rilevanza della questione trattata si sarebbe aggiunto, poi, l’univoco contegno manifestato dal Biondo, il quale - ad ulteriore riprova della sua ininterrotta intraneità alla consorteria criminale – avrebbe comunicato al Gottuso proprio la notizia del coinvolgimento diretto del Lo Piccolo e, per altro verso, avrebbe mostrato un personale interesse alla vicenda nel momento in cui aveva chiesto insistentemente al suo interlocutore di fissargli un appuntamento con lo stesso Bruno, per discutere collegialmente le possibili soluzioni della contesa. 56 E ad avviso del Tribunale, tali elementi di prova, oggettivamente desumibili dalle conversazioni intercettate, avrebbero confermato la piena operatività del Biondo in seno alla “famiglia” mafiosa di San Lorenzo e, in conclusione, la sua persistente appartenenza all’associazione criminale, sicché a carico di quest’ultimo doveva formularsi un giudizio di responsabilità penale in ordine al reato di partecipazione all’associazione mafiosa, aggravato dalla disponibilità di armi e dal riciclaggio dei proventi delittuosi. § 2. IL PROCEDIMENTO IN GRADO DI APPELLO – QUESTIONI PRELIMINARI - Avverso l’anzidetta sentenza tutti i suddetti imputati hanno proposto appello, deducendo i motivi di cui si dirà infra, con specifico riferimento alla posizione di ciascuno di essi. All’esito dell’odierno grado del giudizio, udita la relazione della causa, nonché la requisitoria del Procuratore Generale, le conclusioni dei difensori delle parti civili costituite e le arringhe dei difensori degli imputati, all’odierna udienza la causa è stata decisa come da dispositivo di cui è stata data immediata lettura. Tanto premesso, osserva la Corte che vanno esaminate anzitutto, per il loro carattere di preliminarietà, le questioni sollevate in limine dai difensori. Tali questioni sono costituite prevalentemente da contestazioni riguardanti le disposte intercettazioni ambientali. Al riguardo, va precisato che nel presente processo svoltosi nelle forme del rito abbreviato grande rilevanza hanno, al pari delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, numerose conversazioni ambientali e telefoniche oggetto di attività di intercettazioni eseguite nell’ambito di diversi procedimenti di cui il primo giudice ha disposto la trascrizione previo espletamento di perizia. Nessun rilievo in ordine alla utilizzabilità di tali intercettazioni è stato mosso dagli imputati nel corso del giudizio abbreviato e, per quanto a 57 conoscenza di questa Corte, le stesse hanno superato, in sede di procedimento incidentale concernente l’ordinanza custodiale, il vaglio del Tribunale del Riesame e della Suprema Corte. Trattandosi di intercettazioni eseguite nell’ambito di procedimenti diversi da quello in esame risulta dagli atti che, ai fini della utilizzazione, il PM ha ritualmente provveduto a depositare, ai sensi del 2° comma del.l’art. 270 c.p.p. i verbali e le registrazioni delle intercettazioni e non anche i relativi decreti. E’ pacifico, peraltro, che, ai fini dell’utilizzabilità degli esiti di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni nel procedimento diverso da quello nel quale furono disposte, non occorre la produzione del decreto relativo all’autorizzazione, essendo sufficiente il deposito presso l’A.G. competente per il “diverso” procedimento dei verbali e delle registrazioni (Cass. S.U. 17 novembre 2004- 23 novembre 2004, n. 45189, Esposito). Né si verifica, per quanto dispone il 2° comma dell’art. 270 c.p.p. una ingiusta compressione dei diritti della Difesa cui, in tal modo non sarebbe consentito di verificare l’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni per violazione degli artt. 267 e 268 commi 1 e 3 c.p.p., perché questa può essere comunque rilevata dal giudice del procedimento diverso da quello nel quale furono autorizzate, purchè risulti dagli atti del procedimento, non essendo detto giudice tenuto a ricercarne d’ufficio la prova. Grava, infatti, sulla parte interessata a farla valere l’onere di allegare e provare il fatto dal quale dipende l’eccepita in utilizzabilità, sulla base di copia degli atti rilevanti del procedimento originario che la parte stessa ha diritto di ottenere, a tal fine, in applicazione dell’art. 116 c.p.p. D’altra parte – è stato fatto notare dalla Suprema Corte – anche nel giudizio a quo, poiché l’inutilizzabilità discende dalla violazione delle norme richiamate dall’art. 271 comma 1 c.p.p. e non dalla mera indispoinibilità degli atti concernenti l’intercettazione e la sua legittimità, incombe alla parte l’onere di dedurne la sussistenza (Cass. S.U. 17 novembre 2004- 23 novembre 2004, n. 45189, Esposito). 58 Nel presente processo, all’udienza del 27 settembre 2010 la Corte, su richiesta del difensore dell’imputato Altadonna, avv. Mormino, che aveva fatto rilevare che i decreti di intercettazione erano stati dati per acquisiti nel processo di prumo grado, constatato che degli stessi non vi era traccia nel processo, riteneva, tenuto conto di tale particolare circostanza, di doversi fare carico della acquisizione presso la Procura della Repubblica di Palermo. Al’udienza del 15 ottobre 2010, essendo stati materialmente acquisiti i decreti relativi alle intercettazioni trascritte, a seguito di eccezione formulata dall’avvocato Mormino concernente l’asserita inutilizzabilità del decreto urgente di intercettazione ambientale nr. 2401/03, la Corte emetteva ordinanza, rilevando l’infondatezza della medesima, per i motivi in tale provvedimento specificamente menzionati. Nel prosieguo del giudizio, nel corso della discussione, l’avvocato Fabio Federico, nel frattempo subentrato ad altro difensore in precedenza revocato, intervenendo all’udienza del 13 dicembre 2010 nell’interesse dell’imputato De Luca, formulava una articolata serie di eccezioni di inutilizzabilità di taluni decreti di intercettazione, all’uopo depositando memoria difensiva. Del contenuto di tale memoria ritiene, pertanto, questa Corte di far specifica menzione in questa sede, se non altro per la valenza generale che ha la questione, essendo stata eccepita la inutilizzabilità di alcuni decreti riguardanti conversazioni intercettate più volte prese in esame nel presente processo con riguardo alle posizioni di più imputati. Orbene, in detta memoria il difensore del De Luca ha osservato, in primo luogo, che, da un accurato esame di tutte le conversazioni intercettate di cui era stata disposta la trascrizione aveva rilevato l’assenza agli atti del processo dei decreti contrassegnati con i numeri 1154/03, 1241/03 e 483/04. Precisava che, avendo preso cognizione di ciò, si era attivato, in data 1 dicembre 2010, a richiederli alla Procura della Repubblica di Palermo a mezzo fax e raccomandata, rappresentando che si doveva fare carico della 59 produzione dei decreti mancanti essendo altrimenti impossibilitato, oltre che nel presente giudizio, anche nell’eventuale giudizio di legittimità, di assolvere all’onere di indicare specificamente l’atto che deduce viziato. Soggiungeva l’avv. Federico di avere ricevuto in data 6 dicembre 2010 risposta a mezzo fax dalla Procura di Palermo del seguente tenore “Visto si autorizza la visione dei decreti in oggetto menzionati”, e rilevava come in tal modo il PM avesse omesso di dare compiuta risposta alle richieste difensive riguardanti, in particolare, i decreti nn. 1154/03, 1241/03 e 483/04. Nel sollecitare, pertanto, questa Corte all’acquisizione di tali decreti mancanti e della documentazione necessaria per verificare il corretto inoltro dei summenzionati decreti emessi in via di urgenza per il seguito di competenza della Sezione GIP, l’avvocato Federico perveniva eccepiva la inutilizzabilità delle conversazioni ambientali relative, asseritamente, a tali decreti di intercettazioni, dovendosi a questo punto nutrire il dubbio, se non la certezza, che a base della decisione di primo grado siano state poste alcune intercettazioni non corredate dai dovuti ecreti autorizzativi ex art. 267 e seg. c.p.p. Fatta salva questa eccezione, l’avv. Federico osservava inoltre che per quelli presenti agli atti emergevano, comunque, a suo giudizio, evidenti vizi soprattutto per la carenza di motivazione degli stessi circa l’effettiva sussistenza delle ragioni di urgenza ex art. 267 comma 2 c.p.p. e l’uso di impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica ex art. 268 comma 3 c.p.p.. In particolare, l’attenzione dell’avv. Federico si appuntava sul decreto n. 2401/03, di cui eccepiva l’inutlizzabilità rilevando come, al di là di una motivazione di stile, in esso non fosse stata data assolutamente contezza circa il “fondato motivo” che aveva fatto ritenere al PM che il “ritardo” nell’esecuzione delle intercettazioni avrebbe comportato gravi pregiudizi alle indagini. In altri termini, il PM si sarebbe limitato a riprodurre la disposizione normativa senza dare nessuna contezza delle ragioni per le quali ha ritenuto che l’eventuale posticipazione delle 60 intercettazioni avrebbe pregiudicato le indagini in corso. Nel caso in esame, il PM aveva così omesso di motivare in ordine ai motivi che lo avevano portato a derogare alla procedura ordinaria prevista dal comma 1 dell’art. 267 c.p.p. Ed invero, nella motivazione del decreto di urgenza non basta dimostrare il pericolo di modificazione della realtà concreta da cui deriverebbe il rischio di dispersione della prova, ma è necessario dimostrare l’incompatibilità della procedura ordinaria con la salvaguardia della situazione che si intende tutelare. A dire dell’avv. Federico, il decreto n. 2401/03 sarebbe, però, non adeguatamente motivato circa i requisiti di cui all’art. 268 comma 3 c.p.p., essendosi il PM, circa il presupposto dell’insufficienza degli impianti in dotazione alla Procura della Repubblica, limitato a “rilevare, colme attestato da certicicazione allegata al presente decreto, che tutte le postazioni in dotazione alla Procura della Repubblica sono già impegnate nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini tutt’ora in pieno svolgimento” e più oltre, nel medesimo decreto, avedo delegato però “per l’esecuzione del presente provvedimento Ufficiali ed Agenti di P,G. appartenenti alla Questura di Palermo…con l’asilio delle apparecchiature della ditta GEA servizi tecnologici Srl che si autorizza a nominare ausiliare di p.g. stante l’iidoneità ed indisponibilità degli apparati”, evidenziando così un problema di inidoneità per il quale non sussiste motivazione alcuna. Identico difetto era rilevabile, secondo l’avv. Federico, anche nel decreto n. 1012/03. In merito al vizio eccepito, osservava il difensore del De Luca, l’evoluzione giurisprudenziale di legittimità aveva definito l’obbligo di motivazione pendente a carico dell’Autorità procedente, quando si rende necessario l’utilizzo di apparecchiature non appartenenti alla Procura o fuori della sede della stessa. Nel caso in esame, il PM, avendo disposto il compimento delle operazioni di intercettazione mediante impianti in dotazione e/o a noleggio alla polizia giudiziaria, avre bbe dovuto adeguatamente motivare sulla insufficienza 61 e/o inidoneità degli impianti installati presso la Procura della Repubblica; sulla esistenza di eccezionali ragioni di urgenza. Ebbene, il decreto di intercettazione di conversazione in questione sarebbe totalmente privo di riscontri motivazionali circa l’esigenza di utilizzare apparecchature esterne al fine di effettuare le operazioni summenzionate. Se è vero infatti che il concetto di insufficienza può, quasi sempre, ricondursi ad un mero rapporto tra la disponibilità numerica degli impianti e le richieste di attività captative, quello relativo all’idoneità (tecnica) degli impianti presuppone un quid pluris motvazionale, richiedendosi anche una più completa motivazione, estesa anche alle valutazioni afferenti alla tipologia delle indagini. Nel caso di specie, si sarebbe in presenza di assenza assoluta di motoivazione in ordine alla idoneità degli impianti della Procura. In proposito l’avv Federico notava altresì come, nel caso si proceda al noleggio di impianti, solo in un caso non sarebbe ravvisabile la violazione dell’art. 268 comma 3 c.p.p. e cioè quando gli impianti noleggiati vengano installati presso il locali della Procura. A sostegno di tale tesi citava la pro nunzia della Suprema Corte sezione 1^, sentenza n. 45103 del 7 ottobre 2005 secondo cui 2non sussiste violazione dell’art. 268 comma 3 c.p.p. nel cado in cui le operazioni di intercettazione vengono eseguite su impianti presi a noleggio ma installati nei locali della Procura”. Nel caso in esame, viste le gravi carenze motivazionali dei decreti atorizzativi, non sarebbe dato sapere dove effettivamente questi impianti noleggiati dalla ditta GEA siano stai allocati, se presso le sale di ascolto della Procura o presso la Questura di Palermo., circostanza questa da non sottovalutare in quanto una eventuale allocazione dei suddetti impianti in luogo diverso dai locali della Procura comporterebbe violazione dell’art. 268 comma 3 con conseguente declaratoria di inutilizzabilità delle capazioni intercettate. Ed invero, una siffatta operazione di captazione non sarebbe nemmeno riconsìducibile alla tecnica della cd. remotizzazione delle intercettazioni che è lecita quando l’attività di registrazione avvenga all’interno dei locali della 62 Procura della Repubblica, essendo irrilevante che ivi avvengano anche le ulteriori attività di vebalizzazione e di riproduzione dei dati oggetto della registrazione “ (Cass. SS.UU. Sentenza n. 36359 del 26.6.2008). Sulla base di tali argomentazioni, l’avv. Federico chiedeva pertanto dichiararsi la inutilizzabilità di tutte le intercettazioni eseguite nel presente procedimento ricollegabili al decreto 2401/03 per violazione del combinato disposto degli art. 268 commi 1 e 3 271 c.p.p., ed in particolare delle seguenti intercettazioni indicate in sentenza: conversazione ore 12,30 del 12 feb braio 2004, all’interno del deposito Gottuso, fra quest’ultimo e Collesano; conversazione del 27 aprile 2004 fra Gottuso e Collegano; conversazione del 5 gennaio 2005 ore 16,06 fra Gottuso e soggetto non identificato. Ciò posto, rilevato come la Corte, per fugare qualsivoglia dubbio in ordine alla effettiva esistenza dei decreti nn. 1154/03, 1241/03 e 483/04, adombrata dall’avv. Federico, in realtà non trasmessi per mera dimenticanza dal’Ufficio del PM , ha proceduto alla loro materiale acquisizione agli atti, dandone comunicazione all’udienza del 23 dicembre 2010 al suddetto legale, che, presone atto, si è limitato a riportarsi alla memoria difensiva a suo tempo depositata, vale la pena a questo punto, quanto alla eccepita inutilizzabilità del decreto n. 2401/03, osservare quanto segue. Con decreto del 26 novembre 2003 emesso in via urgenza il Procuratore Distrettuale di Palermo, vista la allegata nota cat. T .2/2003 della Squadra Mobile di Palermo del 24 novembre 2003 al cui contenuto si rinviava (nella quale si dava atto che, alla stregua di conversazioni intercettate presso l’abitazione di Pipitone Vincenzo boss della famiglia mafiosa di Carini e di osservazioni sul territorio, era emerso che i locali della ditta SBS srl in uso a Gottuso Salvatore erano frequentati da personaggi di spicco della associazione mafiosa, fra cui Piero Di Napoli, boss della famiglia Cruillas – Malaspina, appena scarcerato, e che da intercettazioni in corso presso altro locale nella disponibilità del Gottuso, emergeva che vi erano in corso 63 trattative per “chiudere” una grossa attività estorsiva cui era interessato anche Salvatore Lo Piccolo e che la richiesta intercettazione ambientale nei locali della SBS srl si appalesava urgente per acquisire ulteriori e decisivi elementi probatori in ordinre alla summenzionata attività delinquenziali), ritenuto che vi fosse fondato motivo di ritenere che in tali luohi si stesse svolgendo attività criminosa e ricorressero gravi indizi in ordine ai reati di associazione mafiosa ed estorsione aggravata e che, ritenuta la natura dei reati per cui si procedeva si aveva ragione di ritenere che dal ritardo potesse derivare pregiudizio alle indagini, disponeva in via d’urgeìnza l’intercettazione. Rilevato poi che, alla stregua di quanto certificato dal funzionario di segreteria, tutte le postazioni in dotazione alla Procura erano già impegnate nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini in pieno svolgimento e che non poteva attendersi la prossima disponibilità di postazioni, stante la sussistenza di obiettive ragioni d’urgenza, di carattere eccezionale in considerazione della natura dei reati e del fatto che l’attività criminosa fosse in corso di svolgimento, ricorrendo i presupposti dell’art. 268 comma 3 c.p.p. che consente al P.M. di disporre il compimento delle operazioni di ascolto mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria autorizzando la stessa ad avvalersi delle apparecchiature della GEA servizi tecnologici srl, stante l’inidoneità ed indisponibilità di detti apparati presso l’Ufficio di Procura. Orbene, ritiene la Corte che la motivazione sopra citata adeguatamente giustifica la decisione del P.M. di emettere decreto di intercettazione fra presenti in via di urgenza ex art. 267 c.p.p. ravvisandosi ictu oculi sia l’urgenza di procedere tempestivamente al compimento delle indagini, potendo derivare dal ritardo grave pregiudizio per le stesse, sia le eccezionali ragioni di urgenza che legittimano a norma dell’art. 268 comma 3 c.,p.p. l’esecuzione delle operazioni mediante impianti in dotazione della p.g. qualora quelli installati nella Procura della Repubblica risultassero, 64 come dava correttamente atto il sostituto procuratore insufficienti e/o inidonei quelli installati presso la Procura. In particolare, è noto che la motivazione dei decreti con i quali il PM autorizza ex art. 268 3° comma c.p.p. il compimento delle operazioni di intercettazione “medianti impianti di pubblico servizio o in dotazione alla p.g. (essendo in questo caso, stante l’urgenza, legittima l’utilizzazione di apparecchiature appartenenti a privati, agenti come ausiliari della p.g.), ha costituito oggetto di numerose pronunce dei giudi di legittimità. In una relativamente recente pronunzia le SS.UU. della Cassazione (sentenza 12.7.2007, Aguneche) richiamando precdenti arresti giurisprudenziali, ha ribadito: 1) come a suo tempo precisato da SS.UU. 21.6.2000. Primavera, che è legittima la motivazione costruita, come nel caso in esame, per relationem , allorchè risulti evidente che il decidente ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e l’atto di riferimento risulti allegato o trascritto in modo da potere divenire almeno ostensibile; 2) come a suo tempo precisato da SS.UU. 31.10.2001, Policastro, che l’obbligo di congrua motivazione in ordine al requisito della insufficienza o inidoneità degli impianti di Procura e delle eccezionali ragioni di urgeza si concretano allorchè vengano rispettati i principi affermati nella sentenza Primavera; 3) come a suo tempo affermato da SS.UU. 26.11.2003, Gatto, “in tema di intercettazioni di comunicazioni o conversazioni ai fini della legittimità del decreto del P.M. che dispone a norma dell’art. 268 clomma 3 c.p.p. il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla P.G., la motivazione relativa alla insufficienza o alla inidoneità degli impianti della Procura della Repubblica non può limitarsi a dare atto dell’essstenza di tale situazione ma deve anche soecificare la ragione della insufficienza o della inidoneità sia pure medianter una indicazione sintetica, purchè questa non si traduca nella mera riproduzione del testo di legge, ma dia conto del 65 fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del P.M. che ha dato causa ad essa”. E non vi è dubbio che correttamente il P.M. ha usato, nel caso in esame, la frase, “tutte le postazioni in dotazione alla Procura sono già impegnate nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini tutt’ora in pieno svolgimento” soggiungendo poi che, stante l’inidoneità ed indisponibilità degli apparati della Procura, occorreva l’ausilio della ditta GEA. Risulta, invero, adeguato un decreto che, non ripetendo pedissequamente la formula legislativa, consentiva di identificare il fatto che aveva determinato l’insufficienza degli impianti ed offriva quindi al giudice ed alle parti uno strumento di controllo della correttezza dell’operato del P.M. E’ noto, peraltro, l’orientamento giurisprudenziale che consente una “ampia lettura” del significato di insufficienza ed inidoneità degli impianti in uso alla Procura, elaborando una nozione di “inidoneità di tipo funzionale” di detti impianti comprendente “non solo una obiettiva situazione di fatto che renda necessario il ricorso ad impianti esterni, come la indisponibilità di linee o di apparecchiature presso l’ufficio o il non funzionamento materiale delle stesse, ma anche la concreta inadeguatezza al raggiungimento dello scopo in relazione al reato per cui si procede ed alla tipologia di indagine necessaria all’accertamento dei fatti in relazione cioè alle caratteristiche concrete delle operazioni captative ed alle finalità investigative perseguite. E non vi è dubbio, nel caso in esame, che i presupposti della insufficienza ed idoneità abbiano avuto anche sotto questo aspetto ampio risalto in motivazione con il richiamo alla specifica tipologia di indagine da esperire in relazione ad un fatto estorsivo di grosse dimensioni che vedeva coinvolti più esponenti mafiosi di svariate famiglie mafiose. Tanto premesso, reputa la Corte che non sussistono – contrariamente a quanto dedotto dalla difesa del De Luca – motivi per giudicare inutilizzabili ai sensi dell’art. 271 c.p.p. i risultati delle intercettazioni disposte decreto autorizzativo n. 2401/03. 66 Appare appena il caso di segnalare, da ultimo, la non rilevanza ai fini che in questa sede rilevano del riferimento alla cd. tecnica di remotizzazione che, com’è noto, attiene non alle intercettazioni ambientali, come nel caso in esame, ma esclusivamente a quelle telefoniche. Quanto ai decreti decreti di intercettazione ambientale nn. 1154/03, 1241/03 e 483/04, della cui stessa esistenza l’avv. Federico ha inverosimilmente dubitato, il contenuto degli stessi (che riguarda: il primo, l’esecuzione urgente di intercettazione nelle immediate vicinanze di un ciclomotore in uso a Conigliaro Angelo (luogo spesso scelto dal predetto Conigliaro e da Pipitone Vincenzo per parlare delle questioni riguardanti la famiglia di Carini e le sue illecite attività: cfr. nota di p.g. allegata); il secondo, l’esecuzione urgente di intercettazione all’interno di auto in uso a Conigliaro Angelo utilizzata da questi per parlare con Pipitone Vincenzo dei fatti summenzionati: cfr. nota di p.g. allegata); il terzo, l’esecuzione urgente di intercettazione all’interno di auto in uso a Collesano Rosario utilizzata da questi per parlare con sodali della cosca di Partanna Mondello di fatti riguardanti l’attività estorsiva in quel territorio: cfr. nota di p.g. allegata) conferma la correttezza anche nel caso in esame dell’iter autorizzativo seguito. 2-1 – L’APPELLO NELL’INTERESSE DI CONIGLIARO ANGELO L’imputato, come si detto, è stato ritenuto, in primo luogo, responsabile del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., per avere, fatto parte dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, in particolare dell’articolazione di tale sodalizio operante in territorio di Carini, paese ubicato in prossimità di Palermo. L’appellante si duole dell’affermazione di responsabilità a suo carico ritenuta dai primi Giudici, assumendo essere insussistenti, nei fatti a lui ascritti, gli elementi costitutivi del reato associativo. 67 Premette la Difesa del Conigliaro che la S.C. ha delineato la figura dell’uomo d'onore” stabilendo che questa non è significativa di una semplice adesione morale, ma consegue alla formale affiliazione alla cosca, attraverso il particolare rito previsto dalle regole dell’organizzazione, comportando la contestuale assoluta accettazione delle regole dell’agire mafioso e conseguentemente la messa a disposizione del sodalizio di ogni energia e risorsa personale per qualsiasi impiego criminale che venga richiesto. Sul punto, infatti, ha affermato che, secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, “nella assunzione della qualifica di “uomo d'onore” va ravvisata non soltanto l’accertata “appartenenza” alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo, specificamente contraddistinto, cui l'associato viene ad appartenere sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole ed ai suoi comandi, ma altresì la prova del contributo causale che, seppur mancante nel caso della semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece nell’obbligo solenne di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca accrescendo così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento subdolo e violento nel tessuto sociale anche mercè l'aumento numerico dei suoi membri” (Cass. Pen. Sez. IV, n. 2040/1996, Brusca). E dall’esposto principio di diritto risulterebbe palese, pertanto, la estraneità del Conigliaro al ruolo contestatogli. Il complesso delle intercettazioni costituente parte significativa del compendio probatorio a carico di detto imputato, infatti, non varrebbe ad evidenziare in modo certo e determinante in capo al Conigliaro la qualità di “elemento di spicco” del sodalizio di Carini, posto che i suoi pur accertati rapporti con soggetti intranei alla organizzazione potrebbero al più qualificare, essendo stati meramente occasionali e limitati ad alcuni episodi, la figura del concorrente esterno. 68 L’imputato, inoltre, prima dei fatti da ultimo accertati, non avrebbe mai dato luogo a comportamenti denotanti una sua partecipazione alla associazione criminale, nè avrebbe riportato condanne per reati scopo, non potendosi pertanto seriamente sostenere che egli, nel breve arco di pochi anni, possa essere asceso ai ranghi di vertice dell'associazione criminale “cosa nostra”. In ogni caso, la figura del Conigliaro desumibile dagli atti sarebbe priva di poteri di iniziativa, di autonomia e di qualsiasi potere decisionale, tanto più che nessun ruolo specifico in fatti delittuosi gli sarebbe stato addebitato dai “collaboratori di giustizia” e dai testimoni escussi in sede dibattimentale. I primi Giudici avrebbero ritenuto, invece, che la centralità del Conigliaro in seno alla “famiglia” mafiosa di Carini ed il suo strettissimo rapporto con il reggente Pipitone Vincenzo, nonché il ruolo di “consigliere” di quest’ultimo, sarebbero emersi principalmente da una prima conversazione intercettata alle ore 21:11 del 9 giugno 2003, in prossimità dello scooter dello stesso imputato, che in quel momento si trovava all'interno della villa del Pipitone, nonché da una serie di conversazioni nel corso delle quali i due avevano discusso degli assetti interni alla cosca e, in particolare, dei problemi scaturiti dal comportamento di Pipitone Angelo Antonino, fratello di Vincenzo, “uomo d'onore” della “famiglia” di Torretta. Tale ricostruzione viene però contrastata dalla Difesa secondo la quale da tutti gli atti raccolti nel corso delle lunghe e accurate indagini preliminari, in gran parte versati nel giudizio di primo grado, non sarebbero emersi, in realtà, elementi né probanti né significativi. La sentenza impugnata, nel trattare la posizione del Conigliaro in ordine al reato associativo, si sarebbe limitata, infatti, a riportare una serie di intercettazioni nelle quali l’imputato risultava interlocutore diretto del Pipitone e di altri soggetti, senza però che da tali conversazioni emergesse alcun riferimento a specifici fatti delittuosi imputabili al prevenuto. 69 Tali intercettazioni non avrebbero indicato, comunque, alcun comportamento dimostrativo di quella “affectio societatis” che costituisce, insieme al contributo apprezzabile e concreto fornito per l'esistenza ed il rafforzamento della “societas sceleris”, l’essenza della condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso. E se è vero che la commissione di delitti non è essenziale ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 416/bis c.p., non potrebbe trascurarsi di considerare come il compimento di attività illecite si presenti come normale, sia nella fisiologia del vincolo associativo, ai fini del sostentamento della stessa associazione, sia nel momento patologico in cui possono verificarsi, addirittura con più frequenza, ritorsioni, omicidi, faide interne, danneggiamenti. E nella specie ai giudici di prime cure sarebbe dovuto risultare chiaro come, a fronte di una complessa indagine, non fossero stati acquisiti agli atti né elementi probatori, né elementi di riscontro esterno in ordine sia alle vicende oggetto delle conversazioni intercettate, sia alle propalazioni accusatorie del Pulizzi Gaspare. Il tenore delle conversazioni intercettate non proverebbe di per sé l’intraneità del Conigliaro alla associazione mafiosa né la pur accertata frequentazione di appartenenti alla organizzazione potrebbe dirsi dotata di una qualche valenza ai fini della dimostrazione di quella “affectio societatis” che dovrebbe legare l’imputato alla consorteria. L’appellante si sofferma, quindi, sui principi espressi dalla S.C. nella nota sentenza delle Sezioni Unite Penali 12 luglio 2005, n. 33748, secondo cui “In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di "partecipe" colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione, non solo "è" ma "fa parte" o, meglio ancora, "prende parte" alla stessa. A tal fine, sul piano probatorio, rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi la stabile compenetrazione del soggetto 70 nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve trattarsi di indizi gravi e precisi, tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, esemplificando, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di "uomo d'onore", la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi "facta concludentia", dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall'imputazione”. E con riferimento a tale arresto giurisprudenziale, dovrebbe ritenersi, è stato detto, non provata la partecipazione alla consorteria mafiosa dell'imputato,essendosi la sentenza impugnata limitata a riportare interi brani delle trascrizioni delle intercettazioni ambientali, senza fornire alcun serio argomento idoneo a dimostrare la penale responsabilità del Conigliaro. Non sarebbe stata dimostrata, infatti, l'attività da parte del prevenuto in favore del gruppo e della consapevolezza della sua esistenza, e, in definitiva, difetterebbe la prova dell'intervenuta adesione al sodalizio criminoso, prova da valutare, alla stregua della costante giurisprudenza, non secondo le regole della mafia ma sulla base della obiettiva condotta del soggetto, da esaminare alla stregua della logica e della comune esperienza. La condotta posta in essere dal Conigliaro, sulla base dei fatti emersi nel corso del processo, non potrebbe considerarsi dimostrativa di adesione alla mafia, nè l’imputato potrebbe essere qualificato "intraneo" dell'associazione stante la carenza, di "facta concludentia" in grado di provare tale circostanza. Invero, seppure la condotta di partecipazione all'associazione per delinquere di cui all'art. 416 bis c.p., sia “a forma libera”, è pur necessario che la stessa 71 si traduca in un contributo non marginale, ma apprezzabile, alla realizzazione degli scopi dell'organismo criminoso. E la sentenza impugnata non sarebbe riuscita in alcun modo ad indicare quale contributo apprezzabile e concreto il Conigliaro abbia dato all'esistenza ed al rafforzamento della mafia. Egli avrebbe intrattenuto, infatti, contatti con associati considerati “uti singuli”, e tali contatti non si sarebbero certo tradotti in una condotta di partecipazione, la quale dovrebbe indispensabilmente avvantaggiare la "societas sceleris" nel suo insieme e non già singoli suoi appartenenti. L’esame delle conversazioni ambientali intercettate, nella parte in cui terze persone indicano dati riferibili al Conigliaro, nessun elemento dimostrativo avrebbe apportato circa la "qualità" o il "ruolo" di quest’ultimo in seno all'associazione mafiosa. Ed invero, le dichiarazioni di tutti i “collaboratori di giustizia” escussi nessun elemento di conoscenza avrebbero apportato circa il rituale inserimento del Conigliaro nella consorteria mafiosa; ed anzi dette propalazioni, ove si volesse attribuire loro una qualunque credibilità, semmai avvalorerebbero la tesi che non basta, per essere ritenuto intraneo all'associazione, la frequentazione di un determinato appartenente a detto sodalizio. Dovrebbe perciò concludersi che, dati questi elementi, non sarebbe possibile rinvenire in atti la prova piena della colpevolezza del delitto di partecipazione all'associazione mafiosa ed attribuire al Conigliaro lo status di “uomo d'onore”, sicché lo stesso avrebbe dovuto essere assolto dal reato di cui all'art. 416/bis c.p. contestatogli. Osserva la Corte che le censure sono prive di fondamento. Va rilevato, innanzitutto, che non può condividersi la tesi per così dire “atomistica” sostenuta dall’appellante, secondo cui per la configurabilità di un rapporto associativo del tipo di quelli cui fa riferimento l’art. 416 bis 72 c.p., il rapporto stesso debba essere intrattenuto con l’associazione criminosa nel suo complesso, e non già con singoli adepti di essa. Invero, secondo le pronunzie della S.C. cui l’appellante fa riferimento, un dato assolutamente pacifico ed indiscutibile è che risponde di partecipazione ad associazione mafiosa colui che risulta in rapporto di stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare l'assunzione di un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato “prende parte” al fenomeno associativo rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. La Corte ha precisato, a tal proposito, che sul piano probatorio rilevano tutti gli “indicatori fattuali” dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio, purché si tratti di indizi gravi e precisi, come, ad esempio, l'affiliazione rituale, la commissione di delitti-scopo, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia. (cfr. Cass. Pen. Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748). Ciò posto, del tutto irrilevante sarebbe, ovviamente, il fatto che un soggetto intrattenga rapporti con uno o più appartenenti alla consorteria criminosa, ove tali rapporti siano solo di mera amicizia, frequentazione e/o di collaborazione in attività lecite. Nella specie si osserva, in primo luogo, che i rapporti di cui si discute vengono assiduamente intrattenuti dall’imputato, non già con uno qualsiasi dei membri della consorteria criminosa, bensì con il reggente della cosca mafiosa di Carini, e, come chiaramente può desumersi dal contenuto delle intercettazioni ambientali, attengono concretamente alle dinamiche interne della “famiglia” di Carini. 73 Ed assai significativo appare inoltre il fatto, bene posto in evidenza dai primi Giudici, che il Conigliaro non è un “uomo d’onore” qualsiasi, ma riveste l’importantissimo ruolo di “consigliere” della cosca, oltre che di confidente del Pipitone, di cui è l’abituale interlocutore, come chiaramente emerge dal contenuto delle citate intercettazioni. Riuscirebbe altrimenti difficile spiegare, peraltro, come il Pipitone, conclamato capo della cosca mafiosa di Carini, abbia potuto mettere l’odierno imputato a conoscenza dei più riposti segreti dell’associazione, leggendo ad alta voce, in sua presenza, un “pizzino” appena pervenutogli dal noto boss Lo Piccolo Salvatore, all’epoca ancora latitante, e come lo stesso imputato abbia potuto suggerire allo stesso Pipitone di distruggerlo al fine di cancellare ogni traccia dei suoi contatti diretti con la suddetta persona posta al vertice del mandamento nel quale ricade anche la “famiglia” mafiosa di Carini, trattandosi con ogni evidenza di fatti che implicano la sussistenza di un rapporto più che fiduciario. In virtù di tale rapporto di particolare contiguità, che emerge palesemente dall’insieme delle conversazioni captate, il Pipitone, come hanno rilevato i primi Giudici, porta a conoscenza del Conigliaro, in tempo reale e senza alcun filtro, le direttive provenienti da uno dei massimi esponenti di “cosa nostra”, i cui messaggi non possono non riguardare le più rilevanti dinamiche interne alla vita dell’organizzazione criminale. Parimenti significativo appare un successivo passaggio della medesima conversazione, nel quale il Pipitone impartisce al Conigliaro le direttive necessarie a garantire la continuità nella gestione delle attività criminali della “famiglia” per il caso dell’eventuale emissione di un provvedimento restrittivo nei suoi riguardi, mostrando in tal modo di avere piena fiducia nelle capacità del Conigliaro di operare una proficua gestione degli affari illeciti del sodalizio criminoso, ed al contempo indica nel nipote Pipitone Antonino e in Pulizzi Gaspare i soggetti del cui apporto l’odierno imputato avrebbe potuto avvalersi. 74 Non vi è chi non veda, peraltro, come il contenuto di questa intercettazione, oltre a costituire prova autonoma di colpevolezza a carico del prevenuto, offra un prezioso riscontro alle propalazioni del Pulizzi che, avendo deciso di collaborare con la giustizia, sosterrà di avere partecipato alle trattative per la “messa a posto” di Priano Alfonso, imprenditore che avrebbe dovuto avviare un’attività edilizia nei pressi dello svincolo autostradale di Carini, ossia di una estorsione, precisando che di tale fatto illecito si era occupato, in primo luogo, proprio il Conigliaro. Vanno, d’altra parte, pienamente condivise, in quanto rispondenti a criteri di logica e di ragionevolezza, le osservazioni del Tribunale, laddove afferma che il complessivo tenore del dialogo consente di affermare come il reggente della “famiglia” di Carini riconosca implicitamente al Conigliaro una approfondita conoscenza delle logiche che presiedono alle relazioni interpersonali nell’ambito di “cosa nostra”, nonché la correlata capacità di analisi e valutazione delle questioni problematiche che il cugino Vallelunga Vincenzo, a giudizio dello stesso Pipitone, avrebbe invece reiteratamente dimostrato di non possedere. Parimenti deve essere ritenersi assai significativa del ruolo ricoperto dall’imputato in seno alla consorteria la determinazione con la quale si dichiara intenzionato ad incontrare il latitante Lo Piccolo Salvatore. Ancora, condivisibile è il giudizio espresso dai primi Giudici in ordine alla continua presenza del Conigliaro al fianco del Pipitone nelle varie vicende che ineriscono alla vita ed al funzionamento dell’associazione criminosa, raccogliendo le confidenze di quest’ultimo e fornendogli consigli con l’autorevolezza che gli deriva dalla lunga militanza nella anzidetta associazione e dalla consuetudine di rapporti con i più importanti esponenti della “famiglia”. Ma, nel caso in esame, la prova della partecipazione del prevenuto alla associazione mafiosa può desumersi anche dalla partecipazione dello stesso a vere e proprie riunioni di mafia, in occasioni delle quali intrattiene rapporti con esponenti di svariate famiglie mafiose del palermitano. 75 Vanno rammentate, in proposito, la partecipazione dell’imputato al “summit” mafioso tenutosi in data 11.8.2003 presso il ristorante “Vecchio Mulino” di Torretta, nel quale, come esaurientemente esposto nella sentenza impugnata alla stregua delle risultanze di servizi di osservazioni e delle dichiarazioni di Gaspare Pulizzi, venne sancita la definitiva pacificazione tra le “famiglie” di Carini e Torretta, sotto l’“alto patronato” di Lo Piccolo Salvatore, in relazione ad una vicenda relativa a furti di bestiame perpetrati ai danni di Saverio Palazzolo, cognato del capo di “cosa nostra” Bernardo Provenzano; e le ulteriori vicende, pure dettagliatamente descritte nella sentenza impugnata, che qui si richiamano, confermative dell’esistenza di un costante rapporto di presenza e collaborazione del Conigliaro nell’impartire le direttive agli adepti dell’associazione criminosa, nonché nell’ideazione e nell’esecuzione di svariate imprese delittuose, che denotano l’ininterrotta partecipazione dell’imputato a pressoché tutte le vicende che connotano la vita e l’attività della societas sceleris. In conclusione, vanno pienamente condivise le argomentazioni dei primi Giudici, laddove sostengono che la continua presenza dell’ imputato accanto agli altri appartenenti all’articolazione carinese di “cosa nostra”, i rapporti intrattenuti anche con esponenti di altre famiglie mafiose, l’assunzione di decisioni di estrema rilevanza per l’assetto della “famiglia” mafiosa, la partecipazione a numerosi incontri nel corso dei quali vengono trattate le questioni inerenti alle situazioni conflittuali interne al sodalizio, ricercate e deliberate le strategie da adottare, pianificate le azioni delittuose finalizzate al perseguimento degli obiettivi del gruppo criminale, testimoniano, in termini di assoluta certezza, il livello di inserimento dell’imputato nella struttura della organizzazione criminale e l’impegno costante nel quale ha trovato concreta espressione l’affectio societatis. E si tratta, in verità, per confutare una specifica osservazione sul punto dell’appellante, di fatti che - al di là dall’esistenza o meno, nel caso di specie, della prova di una cerimonia rituale di affiliazione a seguito della quale il Conigliaro sia stato ritualmente affiliato, peraltro logicamente 76 desumibile dal ruolo di “consigliere” dal prevenuto svolto - non possono non rendere evidente la esistenza, per facta concludentia, della cd. affectio societatis sceleris. Né va sottaciuta, infine, oltre a quelli già menzionati, l’esistenza di facta concludentia di particolare spessore quali la dimostrata partecipazione dell’imputato a fatti di estorsione aggravata tentata e consumata sicuramente rientranti nelle dinamiche della “famiglia” di Carini dei quali il Conigliaro, unitamente al reato associativo, è stato chiamato a rispondere. Al riguardo, è vero che l’affermazione di responsabilità per il reato di associazione a delinquere non presuppone la commissione dei reati - fine , essendo sufficienti l'esistenza della struttura organizzativa ed il carattere criminoso del programma, sicché la prova della partecipazione all’associazione, stante l'autonomia del reato associativo rispetto ai reati fine, può essere data con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla commissione dei predetti, di talché non rileva, a tal fine, il fatto che l'imputato di reato associativo non sia stato condannato per i reati fine dell' associazione (v. da ultimo Cass. Pen. Sez. II, 16 marzo 2010, n. 24194). Di contro, è altrettanto vero, però, che la ripetuta commissione, in concorso con i partecipi al sodalizio criminoso, di reati - fine integra, per ciò stesso, gravi, precisi e concordanti elementi di colpevolezza in ordine alla partecipazione al reato associativo, superabili solo con la prova contraria che il contributo fornito non è dovuto ad alcun vincolo preesistente con i correi e fermo restando che detta prova, stante la natura permanente del reato de quo, non può consistere nell'allegazione della limitata durata dei rapporti intercorsi (Cass. Pen. Sez. II, 22 gennaio 2010, n. 5424). Ne consegue che i già menzionati elementi di colpevolezza acquisiti a carico dell’imputato in ordine al delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso ricevono ulteriore conferma, se ancora ve ne fosse bisogno, negli altrettanto chiari elementi di colpevolezza in ordine ad alcuni fatti estorsivi posti in essere con chiaro metodo mafioso, sicuramente riconducibili al sodalizio mafioso di Carini. 77 Ed invero, gli elementi probatori acquisiti agli atti consentono pienamente di confermare anche in relazione a tali fatti di reato la statuizione di condanna del primo giudice, con l’eccezione del delitto di estorsione consumata in danno dell’imprenditore Cutietta Carlo di cui al capo n. 13 della rubrica, per cui, come si dirà, gli indizi di reità si appalesano insufficienti. Procedendo, in primo luogo, all’esame dell’estorsione in danni di Priano Alfonso, l’appellante contesta la compiuta ricostruzione operata dai primi giudici secondo cui l’anzidetto imprenditore avrebbe subito richieste estorsive anche ad opera dei vertici della “famiglia” di Carini, tra i quali Pipitone Vincenzo, il quale avrebbe utilizzato all’uopo l'apporto personale del Conigliaro Angelo. Osserva la difesa del prevenuto che, a tal fine, il primo giudice aveva preso in esame una conversazione, intercettata il 5. 7.2002 nei locali della “Edilpomice” dei fratelli Cusimano, tra la vittima e tali Di Blasi e Cusimano nel corso della quale Priano avrebbe comunicato a costoro il prossimo avvio di lavori di ristrutturazioni nella zona di Cardillo, avvertendo che per il momento egli si sarebbe limitato ad effettuare una semplice pulizia della zona interessata, e chiedendo pertanto ai suoi interlocutori di avvertire i “cristiani competenti”, cioè i mafiosi competenti per territorio, perché attendessero l'effettivo avvio dei lavori prima di avanzare richieste estorsive. Successivamente uguale intermediazione sarebbe stata posta in essere da Cusimano e Di Blasi fra i vertici della “famiglia” di Carini ed il citato Priano, che aveva, infatti, anche un cantiere in attività in contrada “Giummari” in territorio di Carini, dove aveva sede la cooperativa edilizia “La Vela”. Nel corso della medesima conversazione, il Di Blasi ed il Cusimano si erano informati, infatti, con l’imprenditore dello stato di tali lavori su incarico degli “amici”, chiedendogli se avesse ricevuto una richiesta di 78 denaro dai vertici della locale “famiglia” ed in particolare da Conigliaro Angelo e Pipitone Vincenzo. Orbene, non vi è dubbio che questione di cui parlano i citati personaggi sia la stessa di cui, a distanza di circa un anno, parlano Conigliaro e Pipitone nel corso di una conversazione del 6 ottobre 2003. Nel corso della conversazione i due parlano esplicitamente delle somme di denaro da recuperare da alcuni imprenditori, citando tra gli altri il Priano, e dicendo altrettanto espressamente che questi ancora non aveva corrisposto la somma dovuta, pari a dieci milioni delle vecchie lire, nonostante il tempo trascorso pari a circa due anni, adducendo a mò di giustificazione di essere ancora in attesa di alcune autorizzazioni. Assume la difesa che il giudice del separato procedimento penale a carico del Pipitone, evidenziando la circostanza del ritardo nel pagamento sarebbe pervenuto alla conclusione che, nel caso di specie, l’ipotesi contestata non avrebbe superato la soglia del tentativo punibile ed avrebbe perciò commisurato la pena alla ipotesi del delitto tentato. Nel caso del Conigliaro, però, non sarebbe neppure possibile, secondo la difesa, ravvisare l'ipotesi del tentativo punibile, mancando del tutto la prova certa della idoneità degli atti posti in essere dal predetto imputato. Ed invero, nel corso dell'intera conversazione del 9 maggio 2002 fra i fratelli Cusimano nessuno degli interlocutori avrebbe fatto alcun riferimento alla persona del Conigliaro, né ad un suo ruolo diretto od indiretto nella vicenda. Ed ancora, per dimostrare tale assunto hanno richiamato il contenuto di altra conversazione intercettata alle ore 10,50 del 5 luglio 2002 avente ad oggetto i rapporti instaurati fra il Cusimano e gli esponenti della famiglia mafiosa di Carini in relazione ai lavori edili che in tale luogo doveva eseguire il Priano, per inferirne che anche in questo caso non solo non era presente il Conigliaro ma nessuno degli interlocutori avrebbe fatto riferimento a lui quale esponente di vertice della “famiglia” di Carini, ovvero quale membro da contattare per interloquire con i capi. 79 In ogni caso neanche dalla intercettazione del 6.10.2003, tra Conigliaro Angelo e Pipitone Vincenzo, la sola tra quelle riportate in motivazione in cui compare l’odierno imputato, sarebbe possibile desumere quale sarebbe stato il contributo causale fornito da quest’ultimo alla determinazione dell'evento - sia pure sotto il profilo del tentativo - sicché lo stesso dovrebbe essere assolto dal reato in pregiudizio del Priano, contestatogli al capo 11 della rubrica, per non avere commesso il fatto. Le censure sono prive di fondamento. L’azione estorsiva per cui è processo, per vero, vede il coinvolgimento, a vario titolo, di diverse persone, appartenenti alla “famiglia” mafiosa di Carini (Pipitone Vincenzo, Conigliaro) ed a quella di Pallavicino (Cataldo Giovanni, Cusimano Antonio, Di Blasi Francesco) alla quale si appoggia ilPriano per ottenere l’aiuto di questi ultimi nella cd. “messa a posto” presso famiglia mafiosa di Carini, diversa da quella di suo abituale riferimento, ove dovrà svolgere determinati lavori edili. E se risponde effettivamente a verità quanto è stato affermato dalla Difesa dell’appellante in ordine alla mancata partecipazione del Conigliaro sia alla conversazione intercettata il 5.7.2002 nei locali della “Edilpomice” dei fratelli Cusimano, tra la vittima, da una parte, ed il Di Blasi ed il Cusimano dall’altra, non può in alcun modo condividersi quanto è stato sostenuto in ordine all’intercettazione del 6.10.2003, secondo cui non sarebbe stato possibile rilevare il contributo causale fornito della condotta di esso appellante alla determinazione dell'evento, sia pure sotto il profilo del tentativo. Orbene, trascura la difesa di ben esaminare il contenuto di tale ultima conversazione nel corso della quale era il Conigliaro a introdurre il tema dei dieci milioni di lire ancora dovuti da Priano ed a sollecitare il Pipitone ad intervenire con tutta l’autorevolezza del caso (“dobbiamo spicciare questa cosa”, indiucendo quest’ultimo ad esclamare di rimando che i soldi dovevano essere al più presto corrisposti. 80 E dallo scambio di battute tra il capomafia di Carini e il suo “consigliere” si evince chiaramente che la persona tenuta a pagare i dieci milioni di lire era proprio il Priano, sebbene il rapporto con la “famiglia” mafiosa venisse mediato da un terzo soggetto, il cui nome restava incomprensibile. Il Conigliaro, infatti, precisa nel corso della conversazione che la somma di denaro in questione doveva essere versata dal Priano, lamentando il fatto che il sostanziale “inadempimento” dell’imprenditore perdurava ormai da due anni. Quanto al tipo di lavori svolti dal Priano in territorio di Carini, sulla base delle indicazioni contenute nelle conversazioni intercettate all’interno della Edilpomice, il cantiere del Priano era stato localizzato nella Contrada Giummari di Carini, ove erano in corso lavori edilizi per la cooperativa “La Vela”, ed in data 7 maggio 2002, Di Blasi Francesco e Cusimano Antonio si erano recati presso il predetto cantiere, come era stato documentato da un servizio di osservazione eseguito da personale della Squadra Mobile. Da accertamenti eseguiti presso gli archivi informatici della Camera di Commercio, era risultat, inoltre, che l’amministratore unico della “Giubileo Costruzioni S.r.l.”, indicata come ditta che eseguiva i lavori, era proprio Priano Alfonso. Un ulteriore riscontro in ordine al fatto che l’estorsione di cui parlavano il Conigliaro ed il Pipitone in data 6 ottobre 2003 era tutt’altro che in itinere e che la conversazione verteva piuttosto su un’ultima tranche ancora non versata può desumersi d’altra parte dalle dichiarazioni del “collaborante” Gaspare Pulizzi, il quale ha affermato di avere partecipato alle trattative per la “messa a posto” di Priano Alfonso, un imprenditore che avrebbe dovuto avviare un’attività edilizia nei pressi dello svincolo autostradale di Carini. Da un lato, quindi, risulta provato che un’attività estorsiva venne posta in essere nei confronti del Priano in epoca di gran lunga antecedente la conversazione del 6 ottobre 2003, dall’altro, che detta attività venne posta in essere, tra gli altri, da Pipitone Vincenzo, nella sua qualità di capomafia 81 di Carini, e che il Conigliaro, a sua volta, nella sua qualità di “consigliere” del Pipitone, ne fu, se non il determinatore, l’istigatore morale. Corretta appare, dunque, la statuizione di condanna adottata dai primi Giudici nei confronti del Conigliaro in ordine all’anzidetto reato. Per quel che concerne l’estorsione in danno dell’imprenditore Cutietta Carlo, contestata al Conigliaro al capo 13 della rubrica, l’appellante si duole della condanna in ordine all’anzidetto delitto, rilevando che la sentenza avrebbe individuato la di lui diretta partecipazione alla condotta estorsiva posta in essere dalla “famiglia” mafiosa di Carini nei confronti dell’anzidetto imprenditore esclusivamente alla stregua di una conversazione intercettata alle ore 17:37 del 27.12.2003 all'interno di una autovettura in uso allo stesso. Nel corso di tale conversazione il Conigliaro aveva riportato al suo interlocutore le richieste di denaro avanzate da alcuni soggetti in relazione ai lavori che lo stesso stava eseguendo in quel periodo nella zona di Carini. Il Cutietta aveva replicato, però, affermando di avere già corrisposto, proprio a quei soggetti, cinque milioni di vecchie lire e che il cantiere al quale si riferivano le nuove richieste era sempre il medesimo. A questo punto il Conigliaro avrebbe affermato che nulla doveva essere corrisposto a tali soggetti. Ne consegue che, dall’analisi della conversazione in questione, non sarebbe dato evincere che il Conigliaro abbia intimorito l'imprenditore per farsi consegnare del denaro; ed anzi, al contrario, quando si era avveduto che per quel lavoro era già stato corrisposto del denaro ad altri soggetti ed in altri tempi, avrebbe concluso che nulla doveva essere corrisposto dal Cutietta. In altri termini, l’imputato avrebbe desistito volontariamente dal portare avanti la richiesta estorsiva, e, d’altra parte, non sarebbe sussistita prova alcuna dell'avvenuto pagamento di somme di denaro in suo favore da parte del Cutietta. Ancora, non emergerebbe che il Cutietta si sia sentito in qualche modo minacciato o intimorito; avrebbe, infatti, al contrario, in maniera del tutto 82 naturale, glissato la richiesta, dicendo di avere già pagato ad altre persone non meglio specificate; rinviando una eventuale corresponsione di ulteriori somme di denaro ad una futura ed ipotetica apertura di un prossimo cantiere edile. L’appellante rammenta, quindi, che la desistenza, secondo il consolidato orientamento della S.C., si ha quando l'agente si arresta prima di avere posto in essere l'intera condotta tipica, mentre l'ipotesi del recesso attivo (detto anche, impropriamente, pentimento operoso) ricorre quando il soggetto, avendo esaurito la condotta tipica, agisce per impedire l'evento e riesce, effettivamente, a impedirlo. Ne deriva che la desistenza può aversi solo nella fase del “tentativo incompiuto”, postulando che l'agente abbandoni l'azione criminosa prima che questa sia portata a compimento. Aggiunge la difesa che correttamente il Giudice del correo Pipitone Vincenzo non ha escluso la possibilità, altrettanto sussistente, che il mandato al compimento dell’estorsione potesse essere individuato in altri soggetti, quali Di Maggio Antonino, esponente della “famiglia” di Carini, nell'ambito della quale rivestiva una posizione che risulta comunque di assoluto rilievo e che, pertanto, sarebbe del tutto incompatibile con l'ipotesi del conferimento di un incarico al Conigliaro, perché proprio le intercettazioni ambientali avrebbero evidenziato l'assenza di qualunque rapporto tra i due. E dovrebbe essere parimenti esclusa l'ipotesi che il Conigliaro possa avere assunto una posizione autonoma e prendere la decisione di posticipare la riscossione dell’ulteriore somma chiesta all'imprenditore all'apertura del nuovo cantiere. Nessun elemento condurrebbe, quindi, a ritenere che l’imputato abbia agito di propria iniziativa, sia pure nell'ambito di generiche direttive conferitagli dal Pipitone Vincenzo (che è stato assolto da tale reato) in relazione alle estorsioni da compiere nella zona. Restando, pertanto, l'identità dei presunti esecutori e mandanti della estorsione intentata ai danni di Cutietta Carlo, si dovrebbe pervenire, a dire 83 dell’appellante, così come si era verificato per il Pipitone Vincenzo, in riforma della sentenza appellata, ad una statuizione assolutoria nei di lui confronti, per non avere commesso il fatto. Le censure sono, in questo caso, fondate. Effettivamente, infatti, dal contenuto della conversazione del 27.12.2003 si rileva che il Conigliaro, contrariamente a quanto è stato sostenuto dai primi Giudici, ha desistito dal proprio proponimento criminoso, manifestato al Cutietta nella parte iniziale della conversazione, quando aveva fatto riferimento ad una pretesa visita di “cristiani” foriera di conseguenze spiacevoli per l’imprenditore, ove questi non si fosse affrettato a “mettersi a posto”, pagando quanto era ancora da lui dovuto, ossia la somma di lire cinque milioni a fronte della realizzazione di due villette in via del Girasole. L’imputato, infatti, dopo avere ascoltato le giustificazioni del Cutietta, il quale affermava di avere saldato il suo “debito” nei confronti della consorteria criminosa, lo aveva dispensato immediatamente dal suddetto pagamento. Vero è che siffatto comportamento, come è stato esattamente rilevato dal Tribunale, avrebbe denotato, in capo allo stesso imputato, l’esistenza di un potere decisionale che presupponeva una posizione di prim’ordine nell’ambito della “famiglia” mafiosa di appartenenza (e tale elemento appare senz’altro valutabile, sia ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis c.p. pure contestato al Conigliaro, sia ai fini della determinazione della gravità di esso per gli effetti di cui all’art. 133 c.p.); ma è altrettanto vero che con il medesimo comportamento l’imputato aveva assunto una chiara posizione di rinunzia a far valere la sua pretesa estorsiva, sicché, non ravvisandosi nell’attività da lui posta in essere alcun reato perseguibile d’ufficio (per la minaccia astrattamente ravvisabile nel pregresso comportamento tenuto dal Conigliaro non risulta essere stata sporta querela dal Cutietta), non può revocarsi in dubbio che nella specie il 84 delitto di estorsione contestato non può ritenersi sussistente ai sensi dell’art. 56 c.p., per avere lo stesso volontariamente desistito dall’azione. D’altra parte, non è dato ricavare da alcun’altra acquisizione processuale elementi che consentano di configurare una pregressa attività posta in essere dall’imputato per costringere il Cutietta al pagamento della somma in questione, ed è significativo il fatto che il Pipitone Vincenzo, come rammenta l’appellante, ancorché non risulti che la relativa decisione sia divenuta irrevocabile, sia stato assolto da tale reato. Non può, infine, ravvisarsi il reato in questione nel comportamento descritto nella sentenza impugnata, laddove il Conigliaro ed il Cutietta avevano concordato il versamento della ulteriore somma di lire cinquemilioni, da parte dello stesso Cutietta, all’associazione criminosa, a fronte degli eventuali lavori che quest’ultimo avrebbe potuto intraprendere, una volta ultimati i lavori relativi alle due villette di via del Girasole, e per le quali, come si è visto, aveva già corrisposto il “pizzo”. Invero, a prescindere da ogni altra considerazione, in materia di estorsione, la minaccia di un male ingiusto diretta al conseguimento di un ingiusto profitto intanto sussiste in quanto il destinatario di essa ne risulti coartato nella libera determinazione della volontà, sia cioè soggetto all'alternativa di sobbarcarsi il danno patrimoniale prospettato o di subire il male minacciato. Allorquando, invece, un soggetto, al fine di conseguire una qualsiasi utilità che gli può derivare dalla conclusione di un negozio giuridico, si induca ad aderire alle condizioni, quale che sia la loro natura, richieste e imposte dalla controparte per la conclusione del negozio, che ben avrebbe potuto rifiutare senza alcun danno giuridicamente rilevante, nessun costringimento morale è ravvisabile, proprio perché il sottostare a tali condizioni, anche se vessatorie, è frutto di una libera determinazione di volontà, effettuata in base ad una scelta autonoma, condizionata sì, ma non coartata (Cass. Pen. Sez. II, 26 settembre 1996, n. 3576). 85 Dal reato in questione, dunque, il Conigliaro, in riforma della sentenza impugnata sul punto, deve essere mandato assolto per non avere commesso il fatto. Quanto al delitto di estorsione in danno di Billeci Giovanni, contestato al capo 14 al Conigliaro, l’appellante osserva che la sentenza impugnata si dilunga per parecchie pagine nell’esame di una vicenda che si svolge tra Priano, Gottuso, Cusimano, Di Napoli, Di Blasi, riportando pressocchè nella loo interezza talune conversazioni intercettate, alle quali il Conigliaro è del tutto assente e senza che alcuno degli interlocutori sopra indicati faccia a lui riferimento. Rileva, quindi, che sul suo conto viene segnalata soltanto una conversazione intercettata il 9 giugno 2003, alle ore 21:11, all'interno dell'abitazione di Pipitone Vincenzo, nelle immediate adiacenze del ciclomotore “Honda Bali 50” in uso ad esso Conigliaro, in cui gli interlocutori sono gli stessi Pipitone e Conigliaro. Oggetto della conversazione era, tra l'altro, il racconto di un chiarimento avvenuto tra Pipitone Vincenzo ed il cugino di questi, Vallelunga Vincenzo, appellato con il diminutivo "Enzino". Pipitone contestava al Vallelunga di non avere saputo gestire la questione relativa a tale Billeci, pur essendosi impegnato in prima persona. Rileva, quindi, l’appellante che, secondo l’ipotesi accusatoria, altro imprenditore che risulterebbe aver subito una richiesta di natura estorsiva ad opera degli esponenti di punta della “famiglia” di Carini è, per l’appunto, Billeci Giovanni, il quale aveva chiesto il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione di un progetto relativo all'edificazione di 73 villette nel territorio del comune di Carini in località “Piraineto”, dopo avere acquistato il terreno sul quale il predetto complesso sarebbe dovuto sorgere. Secondo la sentenza appellata, che pedissequamente ricalca la ricostruzione accusatoria, l'interesse della “famiglia” di Carini nei confronti dell’imprenditore Billeci, emergerebbe da una conversazione intercettata il 09.06.03 tra Conigliaro e Pipitone Vincenzo, nel corso della quale il 86 predetto Pipitone aveva raccontato di una discussione avuta con il cugino Vallelunga Vincenzo, a causa del comportamento scorretto da questi tenuto nei confronti di Altadonna Lorenzo, nonché per essersi accordato con il Billeci, senza che questi avesse poi mantenuto l’impegno assunto. Successivamente, la vicenda sarebbe stata definitivamente chiarita dalla conversazione intercettata il 27.09.03 presso l'abitazione di Pipitone Vincenzo tra costui, Conigliaro, Di Maggio Antonino, Pulizzi e Di Napoli, che vi si era recato proprio per definire i termini della questione. In quella occasione, secondo la ricostruzione operata dall'accusa, in virtù della mediazione di Di Napoli, esponente del sodalizio mafioso di Cruillas – Noce, il Billeci avrebbe consegnato alla “famiglia” di Carini una somma pari ad almeno cinquecento milioni, avrebbe assicurato altresì agli esponenti di tale articolazione mafiosa l'affidamento di subappalti, delegando loro pure la gestione dei rapporti con il Comune presso il quale proprio Di Maggio, che peraltro partecipava attivamente alla discussione, si sarebbe attivato per sbloccare la situazione, e tuttavia un ostacolo più difficile da superare era costituito dalla Sopraintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali. Assume l’appellante che, secondo la sentenza emessa nel separato procedimento nei confronti di Pipitone, Di Maggio e Vallelunga, non sarebbe stato provato che la somma sia stata effettivamente pagata, emergendo per converso che, a causa dei ritardi verificatisi nell'approvazione del progetto da parte della sopraintendenza ai BB. CC.AA., Billeci aveva provato a vendere il terreno tramite Di Napoli e Gottuso Salvatore. Anche in questo caso, pertanto, quel giudice aveva ritenuto che dovessero ritenersi integrati solo gli estremi del solo tentativo. Nel caso in esame, a dire dell’appellante, non vi sarebbe stato nessun contributo alla realizzazione della condotta criminosa in questione da parte del Conigliaro, non emergendo dagli atti alcun ruolo attivo ascrivibile a questi, sia in ordine all'avanzamento che alla accettazione della richiesta. 87 Non sarebbe stato rinvenuto, infatti, negli atti processuali un solo elemento che possa consentire di ricollegare la richiesta estorsiva posta in essere in danno all'imprenditore Billeci, ad un fatto o ad un'azione o ad una discussione, fatta o voluta dal Conigliaro o a lui riferibile, sicché lo stesso dovrebbe esser assolto anche da tale reato per non aver commesso il fatto. Le censure sono prive di fondamento. Come è stato esattamente rilevato dai primi Giudici nel ricostruire la complessa vicenda, il Pipitone, per come aveva raccontato al Conigliaro, aveva vanamente cercato di inserire Cataldo Giovanni, Altadonna Lorenzo e Privitera - tutti imprenditori operanti nel comprensorio di Carini e vicini alla locale “famiglia” mafiosa - nella realizzazione del complesso di villette progettato dal Billeci. Quando, poi, il Billeci aveva chiesto di realizzare in prima persona il complesso edilizio, senza interventi di altre imprese, lo stesso Vincenzo Pipitone e il fratello Angelo Antonino (“Nino”) avevano contattato l’imprenditore ed anche tale Davì Salvatore, “uomo d’onore” di Partanna Mondello, ed in quella circostanza era stato pattuito il pagamento di settecento milioni di lire a fronte della realizzazione di settanta villette. Il Pipitone aggiungeva che il Billeci, tuttavia, non aveva mantenuto gli impegni assunti. Da questo primo stralcio della conversazione, quindi, appare chiaro che il Billeci si trovava al centro di una complessa questione che aveva visto l’intervento di Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo Antonino, Di Napoli Pierino e Vallelunga Vincenzo; e tale era la situazione che lo stesso Pipitone Vincenzo aveva riferito, come era solito fare, al fidato Conigliaro. Dopo pochi minuti, al Pipitone e al Conigliaro si aggiungevano Di Maggio Antonino e Pulizzi Gaspare, che si intrattenevano a discutere di altri argomenti. Il Di Napoli e il Pipitone si erano già incontrati poco tempo prima; in quella occasione, non appena il Di Napoli si era allontanato, era sopraggiunto il 88 Vallelunga, al quale il Pipitone aveva riferito il motivo della visita del Di Napoli, venuto “per il fatto delle vacche”; il Vallelunga gli aveva riferito che, secondo l’accordo raggiunto, il Billeci avrebbe dovuto versare “centocinquanta” per il “fatto delle vacche” e “duecento” per altre causali non meglio specificate. Il Di Napoli puntualizzava che, prima di esaminare la vicenda del terreno, per quanto riguarda “il fatto delle vacche” aveva già “chiuso il discorso” con il Billeci, richiamandolo alle sue responsabilità; e secondo le assicurazioni dello stesso Di Napoli, l’imprenditore, dal canto suo, avrebbe rispettato gli impegni assunti, senza frapporre ostacoli. Quindi il Di Napoli era passato ad affrontare i problemi relativi alla realizzazione del complesso residenziale di Marina Longa, ponendo all’attenzione del Pipitone le seguenti questioni: - occorreva in primo luogo ottenere, da parte del Comune di Carini, un’approvazione che era necessaria al Billeci per la realizzazione dell’opera (nella conversazione si fa cenno anche ad un eventuale “silenzio-assenso”); - sarebbe stato necessario ridurre la somma di dieci milioni di lire richiesta dalla “famiglia” mafiosa di Carini per ciascuna villetta realizzata, abbattendo l’importo complessivamente dovuto da settecento a cinquecento milioni di lire; - infine, sarebbe stato opportuno raggiungere un accordo per espletare i lavori con la garanzia della “tranquillità” e per stabilire i mezzi da utilizzare nella realizzazione dell’opera. Il Pipitone aveva accettato con riserva la proposta di definire la vicenda con il pagamento di cinquecento milioni di lire, dicendo al Di Napoli che sarebbe stato necessario risentirsi dopo avere opportunamente consultato “Totuccio”. Ed in considerazione della caratura del Pipitone - divenuto il reggente della cosca di Carini dopo l’arresto del fratello Giovan Battista - e tenuto conto dell’analogo spessore criminale del Di Napoli, già reggente della “famiglia” mafiosa della Noce-Cruillas, appariva evidente che il “Totuccio” cui entrambi gli esponenti di spicco di “cosa nostra” 89 riconoscevano il potere di pronunciare una decisione definitiva, doveva identificarsi in Lo Piccolo Salvatore, all’epoca ancora latitante, con il quale (come dimostra la ridetta intercettazione del 9.6.2003) lo stesso Pipitone continuava a mantenere rapporti assai saldi. La terza ed ultima questione trattata nel corso dell’incontro tra il Di Napoli e il gruppo facente capo al Pipitone riguardava la realizzazione dei lavori edili per il complesso residenziale di Marina Longa. Il contenuto della conversazione appare chiaro, dal momento che, nel caso in cui il Billeci avesse eseguito i lavori direttamente, non gli sarebbero stati richiesti altri esborsi di denaro; se invece avesse fatto realizzare i lavori da un’altra impresa, sarebbe stato tenuto ad ulteriori versamenti. Su questo punto, infatti, il Pipitone concordava pienamente con il Di Napoli. Contestualmente, il Pipitone garantiva al suo interlocutore che il Billeci poteva “campare tranquillamente”, invitandolo comunque a rivolgersi a lui nel caso in cui l’imprenditore avesse deciso di fare eseguire i lavori a una ditta del posto, in quanto egli aveva la disponibilità di tutti i mezzi necessari alla realizzazione dell’opera. Come è stato correttamente osservato dai primi Giudici, il compendio istruttorio è stato ulteriormente arricchito dalle dichiarazioni del “collaborante” Pulizzi, che hanno in pratica convalidato le risultanze delle intercettazioni. Quest’ultimo, infatti, si è soffermato sulla vicenda relativa al costruttore Billeci, assumendo che lo stesso doveva realizzare cinquanta villette bifamiliari in un terreno sito nei pressi dello svincolo autostradale dell’aeroporto di Punta Raisi. Ha altresì affermato di avere partecipato ad una riunione volta a stabilire i termini della “messa a posto” del Billeci, alla quale erano presenti Pipitone Vincenzo, l’odierno imputato Conigliaro Angelo, Di Maggio Nino e Pierino Di Napoli, “uomo d’onore” della “famiglia” della Noce, vicino al Di Maggio, intervenuto su richiesta dello stesso Billeci, per trattare la riduzione della somma richiesta a titolo 90 estorsivo; e che alla fine l’accordo venne raggiunto sull’importo di 250.000 euro, che il Billeci avrebbe dovuto versare alla “famiglia” di Carini. Ha aggiunto, infine, che il Billeci pagò una prima tranche di tale somma, pari a 100.000 euro, e che i lavori furono poi eseguiti da un’impresa carinese, di cui era titolare tale Cutietta. Alla stregua di tali risultanze, dalle quali emerge come il Conigliaro abbia partecipato, con la sinistra autorevolezza che gli derivava dalla sua qualità di “consigliere”, a pressoché tutte le discussioni inerenti la “messa a posto” del Billeci, vale a dire al grave fatto estorsivo posta in essere dalla “famiglia” di Carini nei confronti di questo imprenditore, pretendendo da lui il pagamento sine titulo di una ingente somma di denaro – tale rimasta anche dopo il ridimensionamento di essa ottenuto mercè la mediazione del Di Napoli – non può che condividersi il giudizio espresso dai primi Giudici sul coinvolgimento dell’imputato anche nell’anzidetta impresa criminosa, che, peraltro, è stata contestata – e quindi ritenuta in sentenza – sotto il profilo del delitto tentato, ancorché, come è dato desumere dalle dichiarazioni del Pulizzi, si sia trattato in pratica di una estorsione consumata, avendo il Billeci, come si è detto, versato alla consorteria criminale una prima tranche di centomila euro. E sarà d’uopo rammentare che, come si è già avuto modo di dire, la presenza, nella perpetrazione di un’impresa criminosa da parte di una consorteria di stampo mafioso, di un membro che rivesta nell’ambito di essa una posizione di particolare prestigio, quale è, appunto, quella del “consigliere”, risulta particolarmente incisiva in forza dell'apparato strutturale, della regolamentazione interna e delle caratteristiche essenziali della stessa organizzazione mafiosa. La sentenza impugnata va, quindi, confermata anche nella parte in cui è stata riconosciuta la responsabilità dell’appellante in ordine alla tentata estorsione in pregiudizio del Billeci. L’appellante si duole, ancora, della condanna per la tentata estorsione in danno dei Badalamenti, di cui al capo 15 dell’epigrafe. 91 Rileva che nella ricostruzione della vicenda operata dai primi Giudici, l’imputazione riguarderebbe l’ennesima richiesta estorsiva, avanzata dalla “famiglia” mafìosa di Carini, sin dalla fase delle trattative tra i proprietari del fondo - tali Badalamenti, in una prima fase non meglio identificati - e il costruttore Lo Buglio Antonino. L'operazione prevedeva l'acquisizione del terreno mediante permuta e la successiva edificazione di un complesso di cinquanta appartamenti; mentre la richiesta estorsiva aveva ad oggetto il pagamento della somma di cinquanta milioni di lire da parte dei Badalamenti. Dalle conversazioni captate era emerso che, a seguito di un contrasto insorto tra il Lo Buglio ed i Badalamenti in ordine alla ripartizione degli appartamenti da realizzare, Pipitone Vincenzo era intervenuto personalmente per dirimere la questione. Veniva quindi rammentata la conversazione del 2.10.2003, nel corso della quale il Pipitone chiariva con il Conigliaro che i suddetti Badalamenti avrebbero dovuto versare alla “famiglia” mafiosa una somma pari a cinquanta milioni di lire in relazione alla programmata costruzione di varie unità immobiliari, specificando peraltro che di tale provento illecito non avrebbe dovuto beneficiare in alcun modo il cugino Vallelunga Vincenzo, colpevole di non avere saputo gestire la questione in modo adeguato; la conversazione del 6.10.2003, che vedeva il Pipitone approfondire con il Conigliaro le ragioni della controversia insorta tra i Badalamenti e il costruttore Lo Buglio circa le condizioni della permuta; e quella del 9.10.2003 - avente particolare valenza dimostrativa - durante la quale il Conigliaro, all'arrivo del Lo Buglio nel luogo fissato per l'appuntamento, aveva espresso al Pipitone l'auspicio di riuscire finalmente ad ottenere “quei dieci milioni”. La sentenza impugnata, tuttavia, secondo l’appellante, non avrebbe chiarito alcunché in ordine ai termini di tale presunta estorsione ai danni dei suddetti Badalamenti, soggetti peraltro mai compiutamente identificati e quindi mai interrogati in merito allo svolgimento della vicenda. 92 Ne conseguirebbe che, in assenza di un concreto riscontro esterno, l'episodio potrebbe essere catalogato al più come tentativo, così come correttamente era stato fatto nel parallelo processo a carico del coimputato Pipitone. Aggiunge l’appellante che dalle conversazioni intercettate emergerebbe soltanto, in termini assolutamente impliciti, che l'imprenditore edile Lo Burgio era interessato a permutare un terreno di proprietà di tali Badalamenti per l'edificazione di appartamenti; e che questi ultimi avrebbero dovuto versare in contropartita alla consorteria mafiosa una somma di denaro. Nella conversazione del 2.10.2003, tuttavia, il debito in questione non sarebbe risultato collegato ad alcuna causale illecita, poiché, come lo stesso Pipitone aveva affermato nella conversazione del 9.10.03 a proposito dei Badalamenti, essa costituiva frutto di una operazione economicamente redditizia per il Lo Burgio, al quale veniva richiesto di riconoscere soltanto una mediazione; in secondo luogo il Conigliaro Angelo, non avrebbe svolto alcun ruolo attivo o di comprimario, come sarebbe stato dato evincere dal tenore della conversazione, alla quale egli non avrebbe partecipato. Nel procedimento definito a carico di Pipitone Vincenzo, Di Maggio Antonino e Vallelunga Vincenzo, il giudice aveva dato atto che non vi era la prova della dazione, non essendo stata accertata neppure l'avvenuta edificazione delle villette, e che il delitto era stato, pertanto, correttamente contestato nella forma tentata. La sentenza impugnata avrebbe fatto risalire, invece, desunto la responsabilità del Conigliaro, per la tentata estorsione in danno dei Badalamenti, dal sillogismo secondo il quale egli doveva essere necessariamente coinvolto, quale concorrente nel reato, perché inserito nella “famiglia” mafiosa e quindi legato da un rapporto preferenziale o di “consigliere” con il capomafia Pipitone Vincenzo. Tale deduzione non sarebbe, però, condivisibile laddove si consideri che in relazione a tale contestazione non vi sarebbe alcun elemento significativo di 93 coinvolgimento, diretto o indiretto del Conigliaro, in fatti che non presenterebbero alcun rilievo penale. Significativa sarebbe, infine, anche l'intercettazione del 06.10.03, nella quale si parlerebbe di una divisione della cifra percepita a titolo di mediazione tra alcuni soggetti, ma tale somma non sarebbe stata conferita all'associazione mafiosa. In forza delle cennate considerazioni è stata chiesta pertanto l’assoluzione del Conigliaro dall’anzidetto reato perché il fatto non sussiste, ovvero per non averlo commesso. Le censure sono prive di fondamento. L’appellante, infatti, trascura di rilevare che nella prima delle conversazioni intercettate, all’interno dell’autovettura in uso al Conigliaro (2.10.2003), il Pipitone, dopo avere esposto al Conigliaro le diverse rivendicazioni dei contendenti, ha indicato con chiarezza in cinquanta milioni di lire la somma che i Badalamenti avrebbero dovuto versare a fronte della permuta stipulata con il costruttore Lo Buglio; che nella successiva conversazione intercettata il 6 ottobre 2003, alle ore 10.00, sempre all’interno dell’autovettura in uso al Conigliaro, quest’ultimo ed il Pipitone approfondiscono le ragioni della controversia sorta tra il Lo Buglio e i Badalamenti, riguardante la ripartizione degli appartamenti da costruire facendo menzione di un precedente accordo che prevedeva, quale contropartita per la cessione del terreno edificabile di cui erano proprietari i Badalamenti, la cessione a questi ultimi di undici appartamenti e mezzo di quelli che il Lo Buglio doveva costruire, mentre ora i Badalamenti ne pretendevano dodici. E poiché a fronte di questa nuova richiesta, il Lo Buglio pretendeva l’ulteriore versamento di cento milioni di lire, il Pipitone stava cercando di mediare tra le due posizioni, proponendo di dividere la somma richiesta in parti uguali. Quindi il Pipitone incaricava il nipote del Conigliaro (che faceva da autista al nonno già colpito dall’ictus) di dire a tale Cacocciola di venirlo a trovare, per parlare “del fatto di Lo Buglio”: 94 Il Cacocciola, che aveva avuto numerosi contatti telefonici con le utenze in uso a Pipitone Vincenzo e a Pulizzi Gaspare, veniva identificato in Cacocciola Carmelo, titolare di un deposito di materiale edile, sito a Carini. Gli accertamenti svolti dagli organi di p.g. consentivano, inoltre, di verificare che l’imprenditore Lo Buglio Antonino aveva realizzato un complesso edilizio in località S. Anna, nel Comune di Carini, che in un terreno adiacente era stato apposto un cartello che menzionava una concessione per lavori di urbanizzazione primaria relativi alla costruzione di quarantotto appartamenti, e che tra i committenti vi erano Badalamenti Vito e il figlio Giuseppe. Tale compendio probatorio a carico del Conigliaro, dal quale già traspare con ogni evidenza l’interesse di questi, nella sua qualità di “consigliere”, ad approfondire e a preordinare i dettagli dell’operazione che avrebbe dovuto procurare alla “famiglia” di Carini un buon compenso per l’intermediazione parassitaria di tipo mafioso che il Pipitone, il Conigliaro ed altri si apprestata a compiere, e quindi la compartecipazione dell’odeirno appellante quanto meno nella fase dell’ideazione dell’impresa criminosa, risulta arricchito da un passaggio della conversazione intercettata il 9 ottobre 2003, alle ore 15.03. Rilevano, a tal proposito, i primi Giudici che la discussione si svolgeva tra lo stesso Conigliaro, il nipote omonimo di costui ed il Pipitone, e mentre quest’ultimo forniva al Conigliaro una sorta di resoconto dei guadagni realizzati, sopraggiungevano Cacocciola Carmelo e Lo Buglio Antonino, i quali iniziavano a parlare della vicenda relativa ai Badalamenti. Nel corso della conversazione, a conferma del fatto che i proventi dell’estorsione sarebbero stati divisi tra gli esponenti mafiosi di Carini interessati alla vicenda, tra i quali l’odierno appellante, lo stesso Conigliaro si rivolgeva al nipote dicendogli che dall’affare sarebbero stati ricavati complessivamente cinquanta milioni, e che a lui ne sarebbero spettati dieci. 95 Nel prosieguo, il Pipitone ribadiva al Lo Buglio che i Badalamenti avevano assunto con lui un preciso impegno e che, “per amore o per timore”, vi avrebbero mantenuto fede. Non risulta, per vero, che i Badalamenti abbiano sborsato la somma richiesta dall’appellante e dai suoi sodali, sicché correttamente il reato, come riconosce lo stesso appellante, è stato contestato correttamente nella forma del delitto tentato. Appare comunque accertato, alla stregua di quanto si è detto, e delle condivisibili argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, che la responsabilità dell’appellante, contrariamente a quanto è stato dallo stesso affermato, non appare desunta automaticamente dall’appartenenza dello stesso alla “famiglia” mafiosa di Carini, bensì dal compendio probatorio anzidetto, dal quale emerge, senza tèma di equivoci, la sua attiva compartecipazione nelle fasi dell’ideazione e dell’esecuzione dell’impresa criminosa, sicché correttamente è stata affermata la di lui penale responsabilità anche in ordine a tale ultimo reato. L’appellante si duole pure, in linea subordinata, della ritenuta applicabilità a suo carico dell'aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203/91. Assume, infatti, che nella sentenza impugnata non si rinverrebbe alcuna motivazione circa la possibilità o meno di ritenere giuridicamente compatibile l'aggravante di cui all'art. 7 Legge n. 203/91, il reato associativo ed anche l'aggravante di cui all'art. 628 comma 3° n. 3 c.p. Aggiunge che, come è stato evidenziato dalla giurisprudenza e dalla dottrina più accreditata, il legislatore ha inteso delineare un sistema di lotta alla criminalità organizzata nel quale le varie previsioni, che si atteggiano quali aggravanti o nuove figure criminose, sono state introdotte al fine di non lasciare impunite o debolmente punite attività di sostegno alla organizzazione mafiosa che, non potendo configurare la partecipazione all'associazione, ma denotando comunque aree di contiguità a tale 96 associazione, sarebbero sfuggite alla applicazione di una adeguata sanzione penale. Tale sistema, la cui ratio legis può essere individuata anche nella disciplina delle misure cautelari che, ai fini della presunzione ex art. 275 co.3° c.p., equipara il delitto di cui all'art. 416/bis c.p., a quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero allo scopo di agevolare quelle associazioni di stampo mafioso, risulterebbe incoerente, secondo la Difesa, ove si ritenesse applicabile anche agli associati mafiosi l'aggravante ex art. 7 comma 1° della legge n. 203/91. Sul piano strettamente ermeneutico, pur non volendo superare l'illogicità in relazione allo scopo che la norma si pone, sarebbe incoerente ritenere, infatti, quale aggravante la medesima condotta già considerata di per sé nella partecipazione ex art. 416/bis c.p. Una interpretazione corretta e costituzionalmente orientata della disciplina citata, non potrebbe prescindere dai canoni ermeneutici posti anche all’art. 84 c.p. che, escludendo ogni indebita duplicazione di sanzione per un unico addebito, imporrebbero di ritenere giuridicamente incompatibili il reato associativo e le citate aggravanti. In conclusione, l'area operativa dell'aggravante in questione non potrebbe che riguardare gli estranei, o al più i sodali che consumino un delitto non rientrante nel programma associativo avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416/bis comma 3 c.p.. Tale ipotesi, tuttavia, non potrebbe riguardare il caso in esame, dove il fatto obiettivo della partecipazione all’associazione ex art. 416/bis cod. pen., è assunto dall'art. 629 stesso codice, come aggravante più specifica rispetto a quella ex art. 7 Legge n. 203 del 1991. Le censure sono palesemente infondate. Ed invero, secondo il consolidato orientamento della S.C., la circostanza aggravante, prevista dall'art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella l. 12 luglio 1991, n. 203, nelle due differenti forme dell'impiego del metodo 97 mafioso nella commissione dei singoli reati e della finalità di agevolare, con il delitto posto in essere, l'attività dell'associazione per delinquere di stampo mafioso, è configurabile anche con riferimento ai reati-fine commessi dagli appartenenti al sodalizio criminoso (Cass. Pen. Sez. Un., 28 marzo 2001, n. 10). Più specificamente, con riguardo all’ipotesi in esame, è stato affermato che “L’aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (prevista per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p., relativo all'associazione per delinquere di tipo mafioso) è compatibile con l’aggravante di cui all'art. 629, comma 2, c.p. (consistente, in virtù del rinvio all'art. 628 c.p., nella violenza o minaccia posta in essere da soggetto appartenente ad associazione mafiosa), giacché, per l'applicazione di quest'ultima aggravante , è sufficiente l'uso della violenza o minaccia e la provenienza di questa da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio della suddetta violenza o minaccia, né, in particolare, che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza dell'agente al sodalizio mafioso, mentre, nel caso della prima aggravante, pur non essendo necessario che l'agente appartenga al predetto sodalizio, occorre tuttavia accertare in concreto che l'attività criminosa sia stata posta in essere con modalità di tipo mafioso” (Cass. Pen. Sez. I, 18 ottobre 2007, n. 43663). Ed ancora: “Ricorre la circostanza di cui all'art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. in L. n. 203 del 1991 nel delitto di estorsione se si riscontra che la condotta minacciosa, oltre ad essere obiettivamente idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, sia espressione di capacità persuasiva in ragione del vincolo dell'associazione mafiosa e sia, pertanto, idonea a determinare una condizione d'assoggettamento e d'omertà” (Cass. Pen. Sez. V, 17.4.2009, n. 28442); “La circostanza aggravante prevista dall'art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, conv. nella l. 12 luglio 1991 n. 203, è configurabile anche con riferimento ai reati - fine commessi dagli appartenenti al 98 sodalizio criminoso ed è altresì compatibile con la circostanza aggravante di cui all'art. 629, comma 2, c.p.” (Cass. Pen. Sez. VI, 26 febbraio 2009). E poiché nel caso in specie non può revocarsi in dubbio che l’imputato abbia agito avvalendosi della particolare forza di intimidazione derivante dalla sua appartenenza all’associazione di stampo mafioso denominata “cosa nostra”, ritiene questa Corte correttamente contestate al prevenuto le aggravanti di cui all’art. 628 comma 3° n. 3 c.p. e 7 comma 1° legge n. 203/1991. La sentenza appellata pertanto va confermata anche su questo punto. L’appellante, infine, si duole della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e della entità della pena inflittagli, della quale invoca, in linea di maggiore subordine, una più mite rideterminazione. Neanche queste ultime censure appaiono suscettibili di accoglimento. Rileva, infatti, la Corte che i fatti relativi all’odierno procedimento rivestono, anche con riferimento all’elevato numero ed alla rilevante gravità dei reati contestati (associazione per delinquere di stampo mafioso pluriaggravata, una estorsione consumata e due tentate estorsioni), carattere recisamente ostativo alla concessione delle invocate attenuanti innominate. Né va sottaciuto il rilevante spessore criminale dell’imputato, dipendente dalla lunga militanza in seno al sodalizio criminoso, dal suo prestigio derivante dalla notevole caratura criminale, avendo egli acquisito la qualifica di “consigliere”, dalla accertata disponibilità a partecipare a gravi progetti delittuosi e dalla sua “apertura” nei confronti della realizzazione di qualsiasi impresa criminosa. Le considerazioni che precedono inducono a ritenere legittimo il rifiuto in ordine alla concessione delle circostanze attenuanti generiche opposto dai Giudici di prime cure, e a ritenere equa ed adeguata ex art. 133 c.p. alla gravità del reato ed alla personalità dell’autore, la pena complessivamente irrogatagli (che va ridotta di un anno in dipendenza dell’assoluzione dal reato di estorsione consumata di cui al capo n. 13, per il quale gli era stata inflitto, appunto, ex art. 81 c.p., l’aumento di un anno sulla pena base di 99 anni dodici inflittagli per il più grave reato di cui all’art. 416 bis c.p.), osservandosi al riguardo che detta pena risulta essere stata determinata in una misura che garantisce al tempo stesso il diritto dell’imputato ad un trattamento sanzionatorio equo, nell’ambito segnato dalla Carta costituzionale, e l’esigenza statuale che i crimini di rilevante entità vengano sanzionati con pene adeguate. 2-2. L’APPELLO NELL’INTERESSE DI ALTADONNA LORENZO. L’imputato, come si è detto, è stato assolto, per non avere commesso il fatto, dal delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita (art. 81 cpv, 110, 648 bis, 648 ter c.p. ed art.7 DL 13 maggio 1991 n. 152 convertito con modif. nella legge 12 luglio 18991 n. 303) per avere, in concorso con Pipitone Vincenzo, Conigliaro Angelo, Vallelunga Vincenzo, Gallina Angelo e Pipitone Giovambattista, tutti esponenti della famiglia mafiosa di Carini, impiegato in attività economiche, fra cui l’acquisto di vari appezzamenti di terreno, denaro, beni ed altre utilità provenienti da delitti connessi alle illecite attività dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”. E’ stato invece ritenuto responsabile, in concorso ab externo con Lo Piccolo Salvatore e Sandro, Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo Antonino, Pipitone Giovan Battista, Di Maggio Antonino e Vallelunga Vincenzo, tutti esponenti delle famiglie mafiose di San Lorenzo, Tommaso Natale e Carini, del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, per avere posto in essere, così recita il capo di imputazione, “una serie di condotte continuate, che consentivano alla associazione stessa il controllo di attività economiche ed il reimpiego di denaro di provenienza illecita”, venendo di conseguenza condannato alla pena di anni dodici di reclusione. 100 Con specifico riguardo alla prima fattispecie criminosa il giudice di prime cure ha osservato come l’accusa di riciclaggio aggravato in concorso ed impiego di capitali di provenienza illecita di cui al capo 16 della rubrica, si fosse rivelata, all’esito della compiuta istruttoria dibattimentale, il frutto di una errata interpretazione da parte dell’Ufficio del PM del contenuto delle conversazioni intercettate dalle quali poteva evincersi, semmai, con riguardo alla vicenda inerente un terreno ubicato in località Predicatore di Carini, che non di illecito investimento di capitali di provenienza mafiosa nell’acquisto di un esteso fondo, solo formalmente riconducibile alla titolarità esclusiva dell’Altadonna, si fosse trattato, quanto piuttosto, come correttamente sostenuto dall’imputato, di un acquisto che ebbe a compiere lecitamente utilizzando risorse proprie (derivanti dai profitti ricavati da precedenti operazioni immobiliari) in relazione al quale dovette subire una vera e propria estorsione. Ed invero, le somme di denaro di cui si discute nelle conversazioni captate altro non erano, in realtà, hanno convenuto i primi giudici, che una sorta di “buonuscita”illecitamente reclamata nei confronti di Altadonna da Vallelunga, Gallina e Conigliaro, adducendo a giustificazione della loro pretesa la circostanza di avere, nella loro comune qualità di mezzadri, coltivato da circa quaranta anni diverse porzioni dell’area in questione. Al riguardo, il giudice di prime cure ha osservato come non fosse revocabile in dubbio, alla stregua di un approfondito esame delle risultanze processuali, il fatto che i summenzionati soggetti, tutti appartenenti alla “famiglia” mafiosa di Carini, fossero effettivamente titolari di un rapporto di mezzadria sul fondo già appartenuto agli eredi Chiarelli - La Lumia, poi acquistato da Altadonna, ed avessero abusivamente protratto la propria presenza nell’area, pretendendo poidall’acquirente, per lasciarla libera, la dazione di una ingente somma di denaro non dovuta e quindi di natura sostanzialmente estorsiva. D’altra parte, tale ricostruzione, fondata su una più approfondita analisi del contenuto delle intercettazioni, oltre che sul tenore inconfutabile di ulteriori 101 prove documentali e testimoniali nel frattempo acquisite, aveva ricevuto ulteriore conferma nelle dichiarazioni del collaboratore Pulizzi, sicuro conoscitore delle dinamiche interne alla cosca di Carini di cui da ultimo era divenuto reggente, il quale aveva riferito come l’Altadonna avesse consegnato a Vincenzo Pipitone la somma di denaro necessaria per “liquidare” i mezzadri presenti sul fondo da molti anni, cioè i vari Conigliaro, Gallina e Vallelunga, tutti appartenenti alla “famiglia” mafiosa di Carini, i quali si erano rivolti allo stesso Pipitone per risolvere la questione. Nelle propalazioni del Pulizzi, peraltro, non vi era alcun cenno a un presunto investimento immobiliare operato dall’odierno imputato per conto della “famiglia” di Carini, ma anzi il chiaro riferimento alla riconducibilità a quest’ultimo delle somme di denaro di cui veniva fatta menzione nelle conversazioni intercettate. Del pari, neppure le somme di cui si faceva menzione nella conversazione intercettata il 9 giugno 2003 fra Pipitone Vincenzo e Conigliaro Angelo (vds. pagg. 346 e ss della impugnata sentenza) potevano reputarsi dimostrative della responsabilità del prevenuto in ordine al contestato reato di cui al capo 16) della rubrica. Vero è che da tale conversazione emergeva una “generica disponibilità” dell’imputato a riciclare capitali di origine illecita messigli a disposizione dell’associazione criminale perché lo stesso partecipasse a un’asta giudiziaria per l’acquisto di un capannone. Tuttavia, tale operazione non era andata a buon fine, in quanto il prezzo era lievitato fino a seicento milioni di lire e il capannone era stato acquistato da tale Ruffino. Vero è, altresì, che analoga iniziativa era stata successivamente intrapresa per l’acquisto, sempre a mezzo di asta giudiziaria, del magazzino di tale Buzzetta, ma anche in questo circostanza la somma stanziata si era rivelata insufficiente. 102 Ed invero, in entrambi i casi, se tali emergenze confermavano la disponibilità di Altadonna ad operare per conto della organizzazione mafiosa sul terreno degli investimenti immobiliari, per altro verso non assumevano di per sé rilevanza penale in relazione al paradigma normativo di cui agli artt. 648 bis e ter c.p., poiché dalle stesse parole del Pipitone risultava che tali operazioni non furono portate a compimento e non superarono nemmeno la fase meramente preparatoria, sia pure per l’intervento di fattori indipendenti dalla volontà dei protagonisti. Di contro, tali ultime vicende apparivano idonee a dimostrare, secondo i giudici di prime cure, una disponibilità dell’odierno imputato ad effettuare rilevanti investimenti immobiliari per conto della “famiglia” mafiosa di Carini, frutto quantomeno di uno stretto rapporto di amicizia che legava l’Altadonna a Pipitone Vincenzo, reggente della cosca. L’esistenza di tale consolidato rapporto emergeva, al di là del contenuto delle conversazioni intercettate fra il Pipitone ed il Conigliaro, dalla circostanza confermata dallo stesso imputato secondo cui il Pipitone era stato padrino di cresima di Salvatore Altadonna, figlio dell’imputato. Vero è che le indagini avevano comprovato solo sporadici incontri tra l’Altadonna e il Pipitone di cui non era stato possibile accertare lo scopo ma significativo appariva che il Pipitone avesse convocato l’imprenditore Trapani per chiedergli di affidare proprio all’Altadonna l’esecuzione dei lavori di costruzione di un capannone industriale. Il fatto che l’odierno imputato, avendo dovuto tenere conto della deposizione del Trapani, abbia sostenuto che la sua presenza, in quella circostanza, fosse del tutto casuale, appariva pertanto del tutto inverosimile. Le convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia confermavano, peraltro, l’esistenza di consolidati rapporti del prevenuto con esponenti dell’associazione mafiosa. Ed invero, il Pulizzi aveva riferito di un rapporto amicale da tempo esistente fra l’Altadonna (soprannominato u‟ pacchione) e Vincenzo Pipitone rievocando, altresì, come in una circostanza esponenti di altra 103 famiglia mafiosa quali Franco Inzerillo e Sandro Mannino si fossero rivolti allo stesso Pipitone affinché li aiutasse ad ottenere dall’odierno imputato una riduzione del prezzo di acquisto di due lotti di terreno. Vero è che il collaborante Franzese non aveva riferito significativi elementi in ordine ad attività di sostegno alla associazione poste in essere dall’Altadonna, ma era stato comunque in grado di riferire di avere sentito parlare dell’odierno imputato da Sandro Lo Piccolo e Gaspare Pulizzi come di un imprenditore da loro conosciuto, attivo nel settore edilizio. Quanto al collaboratore Spataro, lo stesso era stato invece in grado di indicare esplicitamente l’Altadonna come un soggetto “vicino” agli esponenti mafiosi di Carini e di Torretta. Al riguardo, il collaborante aveva rammentato la significativa circostanza che nel 1998 l’Altadonna gli era stato presentato da Calogero Mannino, cugino di Salvatore Lo Piccolo e di Lorenzino Di Maggio, come una persona “vicina” ai Pipitone ed in particolare a Giovanni Pipitone – reggente, in quel periodo, della famiglia di Carini – il quale teneva tantissimo all’odierno imputato. Ha rilevato, peraltro, il primo giudice che il riferimento operato dallo Spataro al Mannino, affiliato alla famiglia mafiosa di Torretta, rivestiva particolare pregnanza probatoria, trovando un riscontro diretto negli esiti dei servizi di osservazione effettuati dalla polizia giudiziaria, che avevano documentato un incontro avvenuto in data 31.10.2003 nel negozio “Stock House” di Carini tra l’Altadonna, il predetto Mannino e Inzerillo Matteo, quest’ultimo esponente della famiglia mafiosa di Passo di Rigano. Lo Spataro aveva riferito, peraltro, un ulteriore significativo episodio allorchè aveva rammentato che il Mannino era intervenuto in altra occasione per stabilire i termini di un appuntamento che l’Altadonna aveva a lui richiesto per perorare la causa del summenzionato Giovanni Pipitone il quale avrebbe voluto compensare un credito che vantava nei confronti di Aiello Epifanio con la cessione di calcestruzzo prodotto dall’impresa di cui 104 era titolare lo stesso Aiello; operazione questa che non era stata perfezionata in quanto l’azienda dell’Aiello era stata sottoposta a sequestro. Ha osservato inoltre il primo giudice che la contiguità dell’odierno imputato ad ambienti mafiosi era ulteriormente documentata dalla conversazione intercorsa tra Vincenzo Brusca (reggente della famiglia di Torretta) e il genero Di Maggio Antonino. Ed invero detto colloquio, riscontrando le dichiarazioni rese dallo Spataro in ordine ai rapporti tra l’Altadonna e la famiglia mafiosa di Torretta, dimostrava la disponibilità offerta dall’odierno imputato ad assecondare gli interessi di “cosa nostra”, spendendosi personalmente per il perseguimento degli interessi dell’associazione criminale. Nel corso della conversazione, infatti, il Brusca riferiva al Di Maggio che aveva chiesto all’odierno imputato, indicato come “un amico vero”, di parlare con il Caruso (consigliere comunale di Torretta) e con il Puccio (già sindaco di Capaci) per agevolare l’approvazione di un certo progetto edilizio che interessava la “famiglia” mafiosa di Torretta. Si evinceva dalla conversazione che l’Altadonna aveva parlato con i due soggetti in questione - pur senza ottenere alcuna risposta concreta – ed aveva saputo mantenere con costoro il riserbo (giudicato assai opportuno dal capomafia di Torretta) circa la reale paternità dell’iniziativa. Ancor più significativa del diretto coinvolgimento dell’Altadonna nelle dinamiche dell’associazione criminale è apparso però al primo giudice il contenuto della conversazione intercorsa il 25 settembre 2003 tra Vincenzo Pipitone e l’odierno imputato Angelo Conigliaro. Ed invero, nel corso della conversazione il Pipitone, soffermandosi ancora una volta sulle reiterate richieste di denaro che il Vallelunga aveva fatto all’Altadonna per ottenere una congrua “buonuscita”, commentava come il primo non avesse considerato che quest’ultimo (“Lorenzo”) godeva della protezione di “Roberto” che aveva particolarmente a cuore l’odierno imputato perché questi “era capace di farici sapire i cose…”e “picchì cià fattu favura”. 105 Orbene, la persona indicata con il nome “Roberto” - che assicurava la sua speciale protezione all’Altadonna, in quanto questi gli faceva “favori” avrebbe potuto reagire assai negativamente se l’odierno imputato gli avesse fatto giungere le sue rimostranze - essendo evidentemente un esponente mafioso di primissimo piano, di cui lo stesso Pipitone parlava con deferenza mista a timore, altro non era – ha osservato il primo giudice - che Lo Piccolo Salvatore. Ed infatti, circa l’identità di “Roberto”, assai significativo appariva il contributo informativo del collaborante Pulizzi. Costui aveva dichiarato, infatti, che, con tale pseudonimo, veniva appellato Salvatore Lo Piccolo, capomandamento di San Lorenzo, all’epoca latitante. Risultava, pertanto, smentito l’assunto dell’imputato di non avere mai conosciuto i Lo Piccolo. L’esistenza di strettissimi legami esistenti tra l’Altadonna e Salvatore Lo Piccolo appariva emergere con nettezza, secondo i primi giudici, anche dalla vicenda relativa alle forniture di abbigliamento effettuate dall’odierno imputato a Cardinale Maria, all’epoca dei fatti sentimentalmente legata a Sandro Lo Piccolo. La circostanza che in due occasioni la Cardinale si fosse recata nel negozio Stock House per prelevare dei capi di abbigliamento oltre a risultare chiaramente dal contenuto di una lettera trovata nella disponibilità di Sandro Lo Piccolo all’atto del suo arresto, era stata peraltro ammessa dallo stesso imputato. Altadonna aveva riferito, infatti, di essere stato in tali occasioni informato da Vincenzo Pipitone del fatto che la donna sarebbe venuta a trovarlo, ammettendo peraltro che sarebbe stata sua intenzione farle omaggio dei capi di abbigliamento prelevati ma che il Pipitone aveva voluto pagare il relativo prezzo. Il giudice di prime cure ha osservato, infine, come prova certa dell’esistenza di rapporti fra l’Altadonna ed i Lo Piccolo emergesse, da ultimo, dal 106 contenuto di due “pizzini”, attribuibili alla mano di Lo Piccolo Salvatore, sequestrati in occasione dell’arresto di questi ultimi. I due documenti in questione, che riportavano entrambi il nominativo “Altadonna”( il primo per esteso ed il secondo in forma abbreviata) riguardavano essenzialmente un unico argomento, ovvero la richiesta inoltrata a Lo Piccolo Salvatore di sollecitare l’Altadonna affinché restituisse 140.000 euro in favore dell’impresa Leonardi, debito che sarebbe scaturito da pregressi rapporti tra la predetta impresa e quella dell’odierno imputato aventi ad oggetto la realizzazione di alcune villette nel territorio di Torretta; lavori che erano stati interrotti, poi, a seguito delle vicissitudini giudiziarie nelle quali era incorso l’Altadonna, tratto in arresto nel gennaio del 2007 (vds. pagg. 368 e ss della impugnata sentenza). Nel primo “pizzino” il Lo Piccolo chiedeva agli esponenti della famiglia mafiosa di Carini (verosimilmente destinatari del messaggio di cui, secondo prassi consolidata, tratteneva copia) di trasmettergli informazioni circa la vicenda che coinvolgeva l’odierno imputato, il quale doveva restituire una consistente somma di denaro all’impresa Leonardi, subentratagli nei lavori di costruzione di villette nella zona di Torretta come riferito nel corso del dibattimento dal sostituto commissario Vincenzo Lo Bue. La stessa questione veniva chiaramente richiamata anche nella missiva catalogata come reperto “ZE 15” ( FF. altad…per i 140 mila euro che deve a Leona. Agganciare a Gasp.). Ha osservato il primo giudice che, in considerazione della identità dell’argomento trattato con quello che aveva formato oggetto della precedente missiva, poteva affermarsi con certezza che la dicitura “altad….” costituiva una formula sintetica indicativa del nome Altadonna, e che il contenuto del documento dimostrava la rinnovata iniziativa di Lo Piccolo Salvatore nei confronti dell’odierno imputato derivante da un “sollecito” ricevuto presumibilmente da altro esponente mafioso, che 107 perorava la causa del Leonardi circa la reclamata restituzione della somma di 140.000 euro. Quanto alla dicitura “agganciare a Gasp.”, apposta sul “pizzino” in correlazione alla questione del credito vantato da “Leonardi”, appariva verosimile che il Lo Piccolo intendesse affidare a Gaspare Pulizzi l’incarico di contattare l’Altadonna per risolvere la questione. Hanno rilevato i primi giudici come, in fase di indagini, gli organi inquirenti non fossero stati in grado di identificare l’impresa Leonardi a causa dell’elevato numero di ditte registrate nell’archivio informatico della Camera di Commercio aventi tale denominazione, ma che tale identificazione si era resa possibile nel corso del dibattimento grazie all’escussione di Leonardi Gaetano, citato dalla difesa dell’Altadonna. Orbene, il Leonardi aveva dichiarato di avere conosciuto l’ Altadonna nel 2006, in occasione delle trattative inerenti alla vendita di un appezzamento di terreno edificabile sito nel territorio del comune di Torretta. Il Leonardi, cui l’Altadonna era stato presentato da un comune fornitore, aveva messo in contatto quest’ultimo con un imprenditore romano di nome Fabio Ghirelli, interessato all’acquisto. Era seguita fra i due la stipula di un preliminare di vendita subordinato all’approvazione della lottizzazione, con il versamento di una caparra che, secondo il ricordo del Leonardi, ammontava a 120.000 euro. Il contratto definitivo non era mai stato stipulato a causa dell’arresto dell’Altadonna ed anche perché la lottizzazione non era stata approvata. Ciò posto, ha conclusivamente affermato il primo giudice come dal tenore dei due manoscritti potesse evincersi chiaramente che l’Altadonna era un soggetto ben conosciuto negli ambienti mafiosi, come del resto poteva rilevarsi alla stregua dei suoi documentati contatti con Mannino Alessandro e, in termini ancora più evidenti, alla stregua delle illuminanti parole del sensale mafioso Gottuso, il quale lo definiva suo “fratello” e ne rappresentava il ruolo rappresentativo degli interessi economici della “famiglia” mafiosa di Carini (Altadonna non è che è Altadonna…), 108 circostanza quest’ultima che risultava dal contenuto della conversazione intercettata il 12 febbraio 2004 fra il predetto Gottuso e Panci Pietro (vds. pagg. 332 e ss della impugnata sentenza). Alla luce di tali elementi, secondo il primo giudice, non occorreva ulteriormente dilungarsi sulla straordinaria consistenza delle prove raccolte a carico dell’Altadonna, quale soggetto pienamente consapevole del ruolo e dello spessore mafioso dei suoi interlocutori, vicinissimo a Vincenzo Pipitone e sponsorizzato da un capo del calibro di Salvatore Lo Piccolo. Poteva affermarsi, pertanto, che l’imputato, seppure non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo dell‟affectio societatis”, si adoperava volontariamente in favore dell‟organizzazione mafiosa, fornendo spontaneamente la propria disponibilità a mettere al servizio degli interessi di “cosa nostra” la sua rete di conoscenze, le sue attività commerciali e le sue qualità imprenditoriali, da tale atteggiamento ricavando la protezione incondizionata di Salvatore Lo Piccolo, al quale aveva “fatto favori”, come affermava Vincenzo Pipitone nel corso di una conversazione intercettata il 25 settembre a bordo della autovettura in uso a Conigliaro Angelo. Le convergenti risultanze processuali apparivano chiaramente indicative dell’esistenza di un rapporto interattivo istaurato dall’imputato con l’organizzazione mafiosa, in vista del conseguimento di propri personali interessi imprenditoriali (emblematica, a tale riguardo, era la vicenda narrata dall’imprenditore Trapani), pienamente funzionali alle esigenze egemoniche dell’associazione criminale. Nel caso di specie, veniva dunque in rilievo la condotta di un imprenditore colluso, che non era succube dell’organizzazione mafiosa e non ne subiva passivamente le imposizioni, ma era legato da un rapporto di stabile collaborazione con il sodalizio criminale, in vista del conseguimento di reciproche utilità per entrambe le parti. 109 Tanto premesso, va ora osservato come la difesa dell’appellante si dolga dell’affermazione di responsabilità a suo carico ritenuta dai primi Giudici, assumendo essere insussistenti, nei fatti a lui ascritti, gli elementi costitutivi del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. E’ stato osservato, in proposito, che l’Altadonna, alla stregua della originaria ipotesi accusatoria, sarebbe stato concorrente esterno nella associazione mafiosa per avere, fra l’altro, ricevuto dal sodalizio criminale denaro per impiegarlo nell’acquisto di un fondo di mq. 160.000, e che, per tale ragione, sarebbe stato chiamato a rispondere anche del delitto di riciclaggio. Orbene, non vi è dubbio che, se si fosse rivelata fondata tale ipotesi investigativa, l’Altadonna avrebbe effettivamente fornito alla associazione mafiosa apporti specifici, aventi effettiva rilevanza causale quantomeno ai fini del rafforzamento del sodalizio, valutabili alla stregua del paradigma normativo del concorso esterno in associazione mafiosa sulla base dei principi elaborati dalla giurisprudenza della Suprema Corte. In realtà, la compiuta istruzione dibattimentale avrebbe chiarito che l’Altadonna era imprenditore che aveva esclusivamente contato sulle proprie risorse economiche, senza alcun apporto esterno. Ed invero, il ragioniere La Porta Girolamo, coinvolto nelle indagini sulle attività economiche della famiglia mafiosa di Carini, avendo deciso di collaborare con la giustizia, sentito ai sensi dell’art. 210 c.p.p., aveva escluso che nelle attività economiche dell’Altadonna fossero stati investiti capitali di illecita provenienza. Il La Porta, che ha fornito informazioni di prima mano sul conto dell’odierno imputato, se non altro per avere seguito per conto e nell’interesse di quest’ultimo la pratica per le autorizzazioni comunali e regionali necessarie per l’apertura del centro commerciale Stock House, ha in più occasioni ribadito, nel corso del suo esame, che l’odierno prevenuto faceva conto esclusivamente su proprie risorse finanziarie (“I soldi, per quello che io so, i soldi ce li ha lui, li ha sempre avuti e se li è fatti da solo. 110 Cioè, li ha fatti lui i soldi. Non poteva avere soci perché non si può avere Altadonna come socio. Perché io lo chiamo “lo squalo”…”). Orbene, ha soggiunto la Difesa, il riscontro alle dichiarazioni del La Porta possono rinvenirsi non solo nella gran mole di documentazione contabile e bancaria prodotta da cui può evincersi agevolmente che il prevenuto ha acquistato il terreno di c.da Predicatore –fondo Chiarelli – La Lumia con proprie risorse ma anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pulizzi. Quanto alla provvista utilizzata per l’acquisto del terreno summenzionato di mq 160.000, Altadonna è riuscito a dimostrare, infatti, di avere ricavato dalla vendita di nr. 8 appartamenti siti in Villagrazia di Carini la somma di £ 1.300.000, senza contare le ingenti somme di denaro (euro 413.580, l’anno) che ricavava da svariati contratti di locazione, ed il contratto di mutuo fondiario di euro 750.000,00 stipulato con la Banca Popolare di Lodi. Quanto al Pulizzi, persona che era subentrata al Pipitone nella carica di reggente della famiglia di Carini, lo stesso, nel frattempo divenuto collaboratore di giustizia, ha riferito che Altadonna “è un imprenditore di Carini ed è compare di Enzo Pipitone, perché gli ha cresimato un figlio e poi ha fatto dei lavori a Carini”. Incalzato dal P.M. che gli chiedeva quali fossero i rapporti fra Altadonna e Pipitone, il Pulizzi si è limitato a rispondere “rapporti di amicizia”, ulteriormente e lapidariamente esclamando “l’ho detto rapporti di amicizia”; ciò a fronte di nuova e precisa domanda del P.M. che gli aveva chiesto “Era vicino a Pipitone in che senso ?”. Quindi, uno dei più importanti esponenti della cosca di Carini, della quale dopo l’arresto di Pipitone Vincenzo era divenuto il reggente e che, quindi, in ragione della sua carica, doveva essere a conoscenza delle cointeressenze del suo sodalizio di appartenenza, si era limitato a parlare dell’esistenza di un mero rapporto di amicizia fra Altadonna ed il suo predecessore, senza nemmeno adombrare che Altadonna possa essere stato in rapporti di affari 111 con Pipitone, tantomeno che ne fosse socio di fatto o che fosse comunque disponibile nei confronti della consorteria. Orbene, il giudice di prime cure, pur esprimendo un positivo giudizio sul conto del Pulizzi, nel menzionare le dichiarazioni di quest’ultimo relative ad Altadonna, non ha operato alcuna valutazione sulle medesime, al punto di ignorarle allorchè apoditticamente ha affermato che l’ipotesi accusatoria a carico del prevenuto avrebbe trovato conforto nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ma soprattutto il grave difetto di motivazione rinvenibile nella sentenza impugnata appare davvero manifesto se si considera che i primi giudici non hanno fornito risposta alcuna al principale quesito che avrebbero dovuto risolvere e che concerne l’identità dei soggetti che avrebbero trasferito ad Altadonna denaro ed altre utilità, facendone un prestanome di beni in realtà appartenenti alla cosca di Carini, al punto che sarebbe davvero apodittico il passaggio della impugnata sentenza in cui i primi giudici giungono ad affermare che sarebbe stata dimostrata la disponibilità del prevenuto ad effettuare rilevanti investimenti immobiliari per conto della “famiglia” di Carini. Se poi si considera che i soggetti attivi che avrebbero fatto degli investimenti, tramite Altadonna, secondo il capo di imputazione, sarebbero stati Pipitone Vincenzo, Conigliaro Angelo, Vallelunga Vincenzo, Gallina Angelo e Pipitone Giovan Battista, non vi è chi non veda – osserva la Difesa - come gli stessi altri non sono che coloro i quali hanno ottenuto dall’Altadonna, tramite l’intervento da loro richiesto di Pipitone Vincenzo, la somma di quattrocento milioni di lire per uscire dal terreno di c.da Predicatore da essi abusivamente occupato. Ma vi è di più. Osserva la Difesa come in nessuna delle intercettazioni telefoniche o ambientali in atti sia stata accertata la presenza di Lorenzo Altadonna e come, nell’arco di circa due anni di indagini (periodo durante il quale l’abitazione del Pipitone era monitorata ventiquattro ore su ventiquattro) 112 solo in un paio di occasioni Altadonna venne visto entrare nella anbitazione del Pipitone. Se poi si considera che, sempre nel medesimo periodo di indagini, solo in altri due casi Altadonna è stato visto incontrarsi con esponenti della associazione mafiosa (il 31 ottobre 2003, all’interno del suo negozio di abbigliamento Stock House con Inzerillo Matteo e Mannino Calogero ed il 6 ottobre 2004, nello stesso luogo, con Mannino Alessandro), davvero incomprensibile sarebbe il passaggio della impugnata sentenza in cui l’estensore addirittura afferma che “l’intensità e la frequenza dei rapporti fra l’Altadonna ed il Pipitone sono, quindi, chiaramente documentate dal complesso delle conversazioni di cui è protagonista lo stesso reggente della famiglia di Carini e sono inoltre confermate dalle risultanze dell’attività di polizia giudiziaria”. L’erroneità di tale ragionamento è però palese se si considera che proprio dalle conversazioni intercettate, come riconosce lo stesso Tribunale, emergono più che fondati elementi per affermare che Altadonna è stato vittima di una estorsione avendo dovuto cedere alla pretesa del suo stesso presunto referente mafioso, Pipitone Vincenzo, resosi garante del pagamento ad alcuni mezzadri, tutti appartenenti alla locale famiglia mafiosa, di ingenti somme di denaro non dovute (sul punto è stata fatta estrema chiarezza, oltre che sulla base di un più accorto esame delle intercettazioni, grazie anche alle dichiarazioni dei testi Greco e Parrino, del collaboratore di giustizia Pulizzi Gaspare e dell’imputato di reato connesso Privitera il quale ha confermato come il Vallelunga al fine di ottenere la “buonuscita” relativa al suo rapporto di mezzadria avesse addirittura delimitato i confini del terreno da lui abusivamente occupato). La linearità del comportamento processuale di Altadonna appare ancora più evidente – soggiunge la Difesa - allorchè lo stesso fornisce le proprie giustificazioni in ordine al motivo per cui si era recato due volte a casa del Pipitone. 113 Ed invero, in assenza di intercettazioni ambientali, Altadonna avrebbe potuto fornire qualsiasi plausibile spiegazione: ad esempio avrebbe potuto far riferimento al fidanzamento del figlio di Pipitone con sua figlia, oppure avrebbe potuto dire che si era recato a casa del Pipitone per fargli qualche gentile omaggio di merce del suo negozio di abbigliamento. Aveva però preferito raccontare la verità, riferendo che il Pipitone, di propria iniziativa e senza avere ricevuto alcun incarico, voleva fargli vendere il terreno di mq. 160.000 che egli aveva acquistato, al fine di potere beneficiare della mediazione che avrebbe dovuto ammontare, secondo le pretese del Pipitone, ad ottocento milioni di lire. A tal riguardo, il Pipitone aveva presentato all’odierno imputato l’imprenditore Bordonaro Pippo. Costui era stato citato dalla Difesa perché riferisse in merito, ma essendo persona imputata a sua volta del delitto p. e p. dall’art. 416 bis c.p. aveva preferito avvalersi della facoltà di non rispondere. La Difesa è riuscita però a provare, comunque, la circostanza summenmzionata, ottenendo l’esame del teste Drago Antonino. Il Drago, sentito all’udienza del 12 novembre 2008, ha infatti riferito che, essendo venuto a sapere, grazie ad una comune conoscenza, Bordonaro Pippo, che Altadonna era proprietario di un terreno con destinazione urbanistica turistico-alberghiera, aveva chiesto a quest’ultimo se aveva interesse a vendere. Avendo ottenuto risposta affermativa aveva messo in contatto Altadonna con tale ing. Gallo di Padova; le trattative non si erano però concluse positivamente. Altro soggetto che, probabilmente su input del Pipitone, si sarebbe dovuto occupare della vendita è Gottuso Salvatore. Costui era stato presentato ad Altadonna da tale Vernaci Pietro, al quale l’odierno imputato aveva venduto un terreno. L’interesse del “sensale” Gottuso alla vendita del terreno in questione – osserva la Difesa – può peraltro ricavarsi dalla conversazione intercettata 114 del 12 febbraio 2004, all’interno del deposito dello stesso Gottuso, fra quest’ultimo e Panci Pietro, anch’esso “sensale”, specie nel punto in cui il Gottuso, riferendo il contenuto di un colloquio da lui intrattenuto con Altadonna, afferma “Si…, si io ci ho detto ad Altadonna…ti porto l’acquirente…ed iddu mi rissi a ia…fammillu veniri ca”. Ma vi è di più. La circostanza secondo cui il Pipitone intendeva favorire la vendita a terzi del terreno, per conseguire una ingente somma a titolo di intermediazione avente una sostanziale natura estorsiva, poteva trarsi dal contenuto della conversazione del 6 giugno 2003 fra Pipitone e Conigliaro, nel punto in cui il primo dice al secondo “chiddu Lorenzo chi vuoli fare ri cose r’iddu è patruni…ma duoco cu nuatri…avi a pigghiari ottocento miliuna me l’avi a dare” e soprattutto nel punto in cui soggiunge “Quannu Lorenzo venderà…venderà duoco…ci penserà! Un ti sacciu riri se ni vuoli mille lire o rumila lire o niente..un sapi Lorenzo”. I primi giudici avrebbero pertanto dovuto pervenire alla conclusione con riguardo ai fantomatici rapporti preferenziali di Altadonna con il Pipitone, che da questi il prevenuto, lungi dall’avere posto in essere apporti di rilevanza causale al rafforzamento del sodalizio carinese, non aveva ricavato vantaggio alcuno, avendo subito al contrario uan vera e propria attività estorsiva. Quanto ai pretesi rapporti con i Lo Piccolo, l’unico vero rapporto intrattenuto con un esponente della famiglia Lo Piccolo aveva riguardato, come spontaneamente l’imputato aveva dichiarato, Lo Piccolo Claudio, figlio di Lo Piccolo Salvatore e fratello minore di Lo Piccolo Sandro. Al Lo Piccolo Claudio, la sig.ra Fiorello, moglie di Altadonna, aveva venduto, infatti, in data 6 novembre, con contratto stipulato presso il notaio La Pira, un lotto di terreno in c.da Miliotti del Comune di Carini per euro 38.734,00. Il prezzo era stato pagato dal Lo Piccolo con assegno di c/c bancario versato sul conto bancario della Fiorello. 115 Per tale vendita non vi era stato l’interessamento di nessuno della “famiglia” mafiosa di Carini. Era poi stato dimostrato con memoria contabile la liceità dei redditi dell’imputato e della moglie e la loro escalation dal 1982 al 2006, anno in cui si era verificato un saldo attivo di euro 3.999.5.590,28. La Difesa nel corso del giudizio di primo grado aveva pure dimostrato come Altadonna, lungi dal ricavare vantaggi dalla pretesa amicizia con il Pipitone, aveva subito dei danni. Emblematica appariva, infatti, l’apertura, proprio di fronte a Stoch House di Altadonna del centro commerciale Ferdico, fatto questo che, se solo si riflette sulla presenza immanente di “cosa nostra”, avrebbe dovuto indurre i primi giudici a domandarsi il motivo per cui, se realmente Altadonna fosse stato soggetto sponsorizzato dal sodalizio mafioso di Carini ed addirittura un protetto di Salvatore Lo Piccolo, l’organizzazione mafiosa non avesse ostacolato l’iniziativa imprenditoriale del Ferdico, che ictu oculi appariva foriera di una ingente riduzione del volume di affari del negozio Stoch House. Del tutto inconsistenti e palesemente contraddittori si erano rivelati, peraltro, i fatti dal primo giudice valorizzati al fine di dimostrare il contributo da Altadonna offerto per l’esistenza o il rafforzamento della associazione. Ed invero, pur precisando i primi giudici che i riferimenti dal Pipitone compiuti nel corso della conversazione intercettata il 9 giugno 2003 ad una presunta messa a disposizione di capitali provenienti dal sodalizio mafioso in vista della partecipazione dell’odierno imputato ad aste giudiziarie non consentivano di valutare tali vicende sotto il paradigma normativo di cui agli artt. 648 bis e ter c.p. perché tali operazioni si erano fermate alla fase preparatoria, i medesimi fatti erano stati valorizzati poi al fine di dimostrare la presunta stabilità del legame fra Altadonna e la famiglia mafiosa di Carini e la disponibilità del prevenuto ad occuparsi delle iniziative economiche e specultative del sodalizio mafioso, fungendo da prestanome. 116 In realtà, una attenta lettura del passo della conversazione contenente i riferimenti agli episodi in questione avrebbe dovuto indurre i primi giudici ad affermare tout court che non risultava dimostrata alcuna disponibilità del prevenuto ad assumere tali iniziative per conto della organizzazione, apparendo sufficiente al riguardo rammentare che Altadonna non aveva mai partecipato ad alcuna asta. Quanto agli incontri di Altadonna con Inzerillo e Mannino, censurabile appare la scelta del primo giudice di non evidenziare a chiare lettere che il contatto del prevenuto con i due summenzionati personaggi aveva avuto contenuto più che lecito avendo avuto a fondamento l’acquisto di due villette, come chiarito anche dal collaborante Pulizzi che ha precisato, altresì, che Inzerillo e Mannino, conoscendo il Pipitone, si erano rivolti a quest’ultimo perché volevano fatto uno sconto da Altadonna. Ed invero, si era verificato che Altadonna aveva venduto, sulla parola, due lotti di terreno: uno al sig. Tesi e l’altro ad una signora di Partinico, per la somma di 40.000 euro; il giorno successivo si era presentato però all’odierno imputato Vincenzo Pipitone, insieme a Franco Inzerillo e Mannino Alessandro, chiedendogli di vendere il terreno a questi ultimi e di fare loro uno sconto. Altadonna aveva accettato di vendere ad Inzerillo e Mannino e di praticare loro uno sconto di duemila-tremila euro, stesso sconto, peraltro, che aveva fatto a Lo Piccolo Claudio. Ciò era avvenuto alla presenza anche di Gaspare Pulizzi ed era stato quest’ultimo a riferire tale fatto nel corso del suo esame. Né avrebbero dovuto essere valorizzati dal primo giudice come elementi indiziari a carico di Altadonna le lettere inviate a Sandro Lo Piccolo da Maria Cardinale, sequestrate in occasione degli arresti dei Lo Piccolo. Dal contenuto di queste lettere, che confermava in pratica l’assunto del prevenuto, era, infatti, possibile evincere che Lo Piccolo Sandro non aveva alcun rapporto con Altadonna; che ad invitare la donna a recarsi presso lo Stoch House era stato Pipitone Vincenzo; che Altadonna non sapeva chi 117 fosse la Cardinale, in altri termini che la stessa intrattenesse una relazione sentimentale con il Lo Piccolo Sandro. L’unica cosa che Altadonna sapeva era che la donna gli era stata raccomandata dal Pipitone e che la merce dalla Cardinale prelevata gli era stata pagata dallo stesso Pipitone; per chiarire tale circostanza la Difesa aveva citato, peraltro, lo stesso Pipitone ma quest’ultimo si era avvalso della facoltà di non rispondere. Quel che avrebbe dovuto indurre, però, i primi giudici ad escludere che Altadonna fosse soggetto che intratteneva rapporti illeciti con l’organizzazione mafiosa, formendo un contributo casualmente efficiente alla vita o al rafforzamento di questa, è peraltro proprio il contenuto dei due pizzini trovati in possesso dei Lo Piccolo al momento del loro arresto. Premesso, peraltro, che fra le centinaia e centinaia di “pizzini” trovati ai due boss non ve ne è nemmeno uno in cui Altadonna sia destinatario o mittente, appare censurabile la pregnanza probatoria attribuita dal Tribunale a due biglietti, entrambi vergati da Sandro Lo Piccolo, in cui veniva affrontato l’argomento di un debito che l’Altadonna aveva nei confronti della impresa Leonardi. Orbene, l’imputato non aveva mancato di spiegare esaurientemente il contenuto ed il significato di questo appunto, produdendo documentazione e chiedendo ed ottenendo l’escussione testimoniale di Leonardi Graziano. Ha chiarito, invero, il prevenuto, producendo ampia documentazione, che il Leonardi, titolare di una impresa che si occupa di costruzioni, gli aveva proposto di fargli vendere il terreno di mq. 160.000 oppure altro terreno sito in Torretta, all’uopo presentandogli tale Fabio Ghirelli, titolare di una impresa di costruzioni a Roma. Il Ghirelli aveva consegnato all’Altadonna, all’atto del preliminare, come cauzione per l’acquisto del fondo Rizzuti di Torretta, un assegno di euro 100.000, a fronte di un prezzo che si prevedeva aggirarsi fra gli 11 e i 12 milioni di euro. Altadonna aveva versato l’assegno sul suo conto corrente. 118 L’affare non si era poi realizzato in quanto Altadonna non aveva ottenuto la necessaria lottizzazione. Era pertanto ovvio che dovesse restituire i 100.000 euro al Ghirelli, cosa che avrebbe fatto se non fosse stato arrestato. La versione dei fatti emergente dalla documentazione prodotta era stata cofermata dal Leonardi. Ne consegue che il pizzino trovato in possesso di Lo Piccolo Salvatore conteneva almeno tre errori: il lavoro asseritamente commesso al Leonardi non era stato appaltato in quanto la lottizzazione non era mai stata approvata dal Comune; non dipendeva, pertanto, dai problemi giudiziari di Altadonna la mancata realizzazione del lavoro; Altadonna non doveva 140.000,00 euro a Leonardi, ma 100.000,00 euro al Ghirelli. Il contenuto della lettera è chiaro: la missiva è diretta ad un soggetto che avrebbe dovuto invitare Altadonna, debitore della somma, a restituire l’acconto per l’affare non andato a buon fine. E’ palese, pertanto, che Altadonna non è il destinatario della missiva, ma soltanto colui che avrebbe dovuto essere “invitato” ad ottemperare alla restituzione. Quanto all’episodio riguardante l’imprenditore Marcello Trapani, che si occupa di imballaggio alimentare e ha due aziende a Carini, il primo giudice ne avrebbe dovuto rilevare l’assoluta irrilevanza sotto il profilo penale. Lo stesso Trapani, nel corso della sua deposizione testimoniale, ha riferito di un incontro che, tramite tale Di Blasi di Pallavicino, aveva avuto con il Pipitone presso la villa di quest’ultimo, alla presenza di Lorenzo Altadonna. Ha precisato il Trapani che, nel corso dell’incontro, il Pipitone, dopo avere premesso di essere venuto a conoscenza di un lavoro edile che egli doveva svolgere a Carini, lo aveva invitato a cedere questo lavoro ad Altadonna. Quando il Trapani aveva osservato che per tali lavori aveva chiuso il contratto con la C.P.C. e che il costo del capannone da realizzare era di 800.000 euro, l’interesse del Pipitone era però svanito. 119 Tanto premesso, non appare revocabile in dubbio, secondo la Difesa, che, nella vicenda in esame non vi era stata coartazione alcuna: Pipitone non aveva esercitato alcuna pressione perché il Trapani cedesse i lavori ad Altadonna, il quale non aveva nessuna intenzione di assumerli, non avendo mai fatto lavori per conto terzi. Ha osservato la Difesa che un passaggio della deposizione del Trapani aveva semmai colpito ed era quello in cui il teste aveva detto “francamente, un po’ di preoccupazione ce l’ho con queste persone, infatti io ero raggelato dal fatto che essendo in quella villa mi potessero fotografare e così via..”. Ne consegue, pertanto, che il Trapani non era preoccupato per quelle persone che andava ad incontrare, era preoccupato del fatto che potesse essere fotografato dalla Polizia o dai Carabinieri, cui poi avrebbe dovuto dare spiegazioni rispetto a quella visita: ecco perché era preoccupato. Ed allora appare difficile comprendere – ha ulteriormente osservato la Difesa – il motivo per cui se Trapani Marcello va da Pipitone è una vittima, mentre se Altadonna va da Pipitone è un colluso. Ed invero, il punto nodale del processo sta davvero solo ed esclusivamente nei “rapporti di amicizia e comparatico” fra Altadonna e Pipitone Vincenzo, il quale, a differenza dei suoi fratelli, era persona comunque incensurata. Da ultimo, nessun serio elemento era stato apportato dai diversi collaboratori di giustizia sentiti nel corso del dibattimento. Premesso che nulla avevano saputo riferire sul conto di Altadonna collaboratori storici provenienti dal mandamento mafioso di San Lorenzo, in cui è compreso il territorio di Carini, gli unici collaboratori di giustizia, più recenti, che avevano, quantomeno, sentito parlare dell’odierno imputato erano stati Franzese Francesco, Pulizzi Gaspare, Spataro Maurizio. Il primo era stato in grado soltanto di dire di avere sentito parlare dell’odierno imputato, nel corso di una conversazione fra Lo Piccolo Sandro e Pulizzi, come di un costruttore di Carini che aveva in corso una lottizzazione. 120 Il secondo era stato in grado soltanto di menzionare un episodio in cui Altadonna era vittima di una estorsione. Il terzo ha parlato di Altadonna come persona “vicina” alla famiglia mafiosa di Carini, ma richiesto di maggiori ragguagli era stato soltanto in grado di riferire di avere conosciuto l’imprenditore di Carini a seguito di presentazione fattagli da Calogero Mannino. In tale occasione, verificatasi nell’estate del 2001, essendo stato arrestato “suo compare” Aiello Epifanio, debitore di una determinata somma di denaro nei confronti di Giovanni Pipitone, era stato contattato da Altadonna il quale lo aveva invitato a rammentare all’Aiello di saldare il proprio debito. Nel corso dell’incontro, che aveva avuto luogo grazie alla intermediazione di Calogero Mannino, lo Spataro aveva replicato proponendo ad Altadonna, che sapeva essere soggetto a disposizione dei Pipitone, di comprare il calcestruzzo da Aiello e di versare il relativo corrispettivo a Giovanni Pipitone per saldare il debito. Il confuso racconto dello Spataro sarebbe però inverosimile sia perché all’epoca la impresa di Aiello era già sequestrata, sia perché incomprensibile appare il motivo per cui lo Spataro, che assume di essere vicino a Giovanni Pipitone, avrebbe dovuto essere contattato da un terzo (l’Altadonna) e non dallo stesso Giovanni Pipitone. Lo stesso Spataro, cui il PM aveva chiesto spiegazioni in merito (“perché lei non è stato contattato direttamente dai Pipitone, dato che conosceva tutti?”), non aveva saputo fornire una spiegazione logica, limitandosi a rispondere nel seguente modo “questa cosa in realtà non l’ho capita nemmeno io, perchè in quel periodo io ho tra l’altro incontrato Giovanni Pipitone a Carini al John Walker e non mi ha accennato niente”. In merito, infine, alla conversazione intercettata l’11 giugno 2004 fra Brusca Vincenzo ed il genero Di Maggio avente ad oggetto l’approvazione di un progetto edilizio, nel corso del quale il primo riferiva al secondo di avere chiesto ad Altadonna di parlare con Caruso e Puccio, non vi è chi non 121 veda, secondo la Difesa, l’irrilevanza penale di tale episodio, bastando al riguardo considerare che lo stesso Brusca aveva dato atto che l’odierno imputato non aveva avuto dai suddetti interlocutori alcuna risposta e che, in verità, non vi era alcun elemento in atti per affermare che l’intervento di Altadonna si fosse effettivamente verificato. Conclusivamente, richiamati i principi giurisprudenziali in materia di concorso esterno in associazione mafiosa, la Difesa dell’Altadonna ha osservato come l’istruttoria dibattimentale abbia dimostrato che Altadonna Lorenzo non ha fornito alcun apporto specifico avente effettiva rilevanza causale ai fini della conversazione e del rafforzamento dell’associazione; che, pertanto, in alcun modo può affermarsi che lo stesso sia stato un imprenditore “colluso”, perché tale è solo colui che è entrato in rapporto sinallagmatico con l’associazione, tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminale nell’ottenere risorse, servizi o utilità. Al contrario, l’istruzione dibattimentale ha dimostrato che Altadonna: - ha subito, per quieto vivere, le richieste dei mezzadri abusivi (Conigliaro, Gallina, Vallelunga); - non ha preso parte all’acquisto del capannone, né ha partecipato ad alcuna asta immobiliare; - non ha acquisito nel territorio di Carini posizione dominante; - non ha assicurato al sodalizio mafioso risorse, servizi o utilità. In definitiva, nessun dato sarebbe stato acquisito al processo dal quale possa ricavarsi che Altadonna, alla stregua di un rapporto sinallgmatico con l’associazione mafiosa, abbia ottenuto un qualsiasi vantaggio, e che, nel contempo, abbia apportato a questa un contributo di qualsivoglia genere. Ne consegue che, in riforma della impugnata sentenza, Altadonna dovrebbe essere assolto con formula ampia dalla imputazione ascrittagli. In subordine, è stato chiesto che il prevenuto venga assolto dal reato ascrittogli, ai sensi del 2° comma dell’art. 530 c.p.p., essendo comunque 122 insufficiente o contraddittoria la prova del concorso dell’appellante nella associazione mafiosa. In ulteriore subordine, è stata chiesta l’esclusione delle aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell’art. 416 bis c.p., mancando in atti qualsivoglia riferimento a fatti o situazioni che ne avrebbero potuto far ritenere l’esistenza. In linea ancora più subordinata è stata chiesta la concessione delle attenuanti generiche da dichiarare prevalenti sulle contestate aggravanti, quantomeno per essere emersa dalla compiuta istruttoria dibattimentale una condotta di vita lavorativa e familiare dell’Altadonna del tutto apprezzabile. Da ultimo, è stato osservato che il primo giudice, in applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p., avrebbe dovuto irrogare il minimo assoluto edittale. L’impugnazione è fondata. Osserva la Corte che, prima ancora di prendere partitamente in esame, le condotte ascritte all’imputato, occorre preliminarmente delineare, sia pure sinteticamente, alla luce del più recente insegnamento della Giurisprudenza di legittimità, la figura del concorrente esterno in associazione mafiosa e successivamente applicare specificamente tale principio di diritto all’imprenditore che entra in rapporti con il sodalizio mafioso. Orbene, è noto che assume il ruolo di “concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e provo dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o per quelle operanti su larga scala come “cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione) e sia diretto alla realizzazione anche parziale del programma criminoso della medesima (Cass. S.U. 12 luglio 2005-20 settembre 2005, n. 33748). 123 In motivazione le S.U. rilevano come la efficienza causale in merito alla cocreta realizzazione del fatto criminoso collettivo costituisca elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale, specificando che non è sufficiente una valutazione ex ante del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un apprezzamento ex post, in esito al quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canonici di certezza processuale, l’elevata credibilità razionale dell’ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente. Alla stregua di tale insegnamento giurisprudenziale è importante altresì sottilineare come non sia rilevante la semplice “disponibilità” o “vicinanza” dell’agente a singoli esponenti mafiosi senza un concreto contributo per la vita o il rafforzamento dell’associazione, dovendosi accertare, sotto il profilo causale, l’efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente esterno, correndosi altrimenti il rischio di ampliare in modo eccessivo la soglia di punibilità del concorso esterno. Ciò posto, appare opportuno a questo punto, stante la decisiva rilevanza della questione nella fattispecie in esame, rammentare i canoni ermeneutici cui il primo giudice ha sostenuto di essersi adeguato al fine di valutare se nella condotta di Lorenzo Altadonna si sia concretato o meno quel contributo casualmente efficiente alle finalità della organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra”. Per far ciò il primo giudice ha dapprima preso in esame la nozione di impresa criminale, pervenendo quindi alla catagolazione delle varie figure di imprenditore, da quella di imprenditore – mafioso tout court, a quella di imprenditore colluso, a quella di imprenditore vittima. Orbene, è stato preliminarmente osservato che l’impresa criminale si snoda attraverso varie fasi stricto sensu caratterizzate dalla mafiosità del titolare e dalla formazione del capitale, ottenuto attraverso attività illecite. Viene distinta, in linea di principio, l’impresa di proprietà del mafioso, il cui titolare (di solito una parsona “pulita”) è un semplice prestanome del 124 mafioso, mentre il capitale resta di origine mafiosa; dalla impresa a partecipazione mafiosa, che si configura quando una impresa, inizialmente legittima, entra progressivamente in rapporti di cointeressenza e di compartecipazione con l’organizzazione criminale. Si afferma che la rappresentazione del fenomeno nel suo insieme può costituire un ulteriore strumento – purché prudentemente e criticamente utilizzato – che, insieme ad altri, permette di raggiungere una maggiore cognizione delle innumerevoli sfaccettature che il rapporto mafia-impresa assume nella realtà e che può consentire di cogliere e valorizzare dati probatori solo apparentemente poco significativi. Ed è proprio la consapevolezza della complessità del fenomeno, al contrario, che dovrebbe indurre la massima cautela nella valutazione del fatto concreto. Particolare attenzione viene dedicata al problema della configurazione giuridica dei rapporti mafia-impresa dai primi Giudici, i quali fanno riferimento, sotto tale profilo, alla più accreditata giurisprudenza di legittimità. Si rileva, a tale proposito, che la S.C. ha tentato di individuare un criterio di carattere generale, idoneo a consentire una netta distinzione delle posizioni di complice e di vittima della associazione criminale, che il più delle volte, nella realtà appaiono assai confuse. Nella valutazione dei rapporti tra mafia e imprenditori – si legge nella sentenza n. 84/1999 della S.C. – non può mai prescindersi da un effettivo e serio vaglio delle variabili contingenti peculiarità della singola fattispecie, poiché al giudice è affidato il compito di individuare la fluida linea di confine tra lecito e illecito, distinguendo le situazioni nelle quali l’imprenditore è complice delle organizzazioni criminali da quelle in cui ne è vittima, ovvero il soggetto passivo delle attività delinquenziali. I primi Giudici richiamano, quindi, i principi che la Corte di legittimità ha avuto modo di stabilire - proprio con riferimento al delicato tema dei 125 rapporti tra imprenditoria e associazioni di tipo mafioso - circa il problema della utilizzabilità in sede giudiziaria dei risultati di indagini storicosociologiche e criminologiche quali massime di esperienza che, nella tecnica di argomentazione probatoria, siano applicabili con il ruolo di criteri di valutazione delle risultanze processuali; ed in particolare alla sentenza n. 84/1999, nella quale è stata individuata la chiave per la soluzione di tale problema “nella piena esplicazione del principio del prudente apprezzamento e nella rigida osservanza del dovere di motivazione, integranti il nucleo essenziale del precetto enunciato dall'art. 192 c.p.p., dall'applicazione dei quali deriva che la valutazione del giudice non deve uniformarsi a teoremi e ad astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio dell'effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-criminologiche e deve, soprattutto, stabilire la piena rispondenza alle specifiche e peculiari risultanze probatorie, che, sul piano giudiziario, rappresentano l'imprescindibile e determinante strumento per la ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata dedotti nel singolo processo”. In altri termini, secondo questo principio giurisprudenziale, il giudice non può prescindere, ai fini di un’adeguata comprensione dei fenomeni associativi di stampo mafioso, dai risultati di serie ed accreditate indagini di ordine socio-criminale, ma le massime di esperienza che egli può ricavare da tali risultati non possono esimerlo dall’osservanza del dovere di ricerca delle prove indispensabili per l’accertamento della fattispecie concreta che forma oggetto della singola vicenda processuale al suo esame. I giudici di legittimità hanno dunque censurato l’applicazione di astratti stereotipi socio-criminologici in luogo di un attento vaglio delle prove raccolte (ad esempio, le riunioni fra l’imprenditore e un capomafia, il vantaggio lucrato dal primo grazie all’intermediazione dell’associazione, etc.), ritenendo che è la sussistenza o meno di una condizione di “ineluttabile coartazione” che imprime all’imprenditore che entra in contatto con la mafia i connotati di vera e propria vittima dell’estorsione. 126 La Suprema Corte ha quindi escluso – è stato osservato - la condizione di vittima nell’imprenditore che assume preventivamente l’iniziativa nei confronti dell’organizzazione criminale al fine di ottenere una “protezione a pagamento” e instaura trattative in tale direzione, pur in assenza di una minaccia diretta ed esplicita da parte dell’associazione criminale. Il Tribunale ha, quindi, osservato che effettivamente, sembra difficile sostenere l’esistenza di uno stato psicologico del tipo indicato, nel soggetto che pianifica le attività della propria azienda in un determinato territorio, negoziando con l’associazione mafiosa il “prezzo della propria tranquillità” da includere fra i costi dell’impresa. Ha poi rilevato che la soluzione adottata - che evoca, a ben vedere, una sorta di stato di necessità, o di non esigibilità, delle condotte non conformi alle prescrizioni di legge - non sembra del tutto soddisfacente, poiché probabilmente semplifica troppo un fenomeno che appare assai più complesso. Persiste, infatti, una innegabile piattaforma di diffusa intimidazione derivante dalla stessa esistenza dell’associazione mafiosa, che produce soggezione ed omertà nel contesto territoriale in cui l’organizzazione opera e che costituisce, in ogni caso, lo sfondo con il quale il mondo imprenditoriale deve confrontarsi quotidianamente. Appare, quindi, più opportuno, oltre che in sintonia con il principio del carattere personale della responsabilità penale, volgere lo sguardo alle singole condotte dei soggetti che, nell’esercizio della loro attività imprenditoriale, entrano in contatto con la consorteria criminale e di conseguenza modulano diversamente il loro atteggiamento. Ci si trova così di fronte ad un panorama assai variegato, che è compito del giudice qualificare di volta in volta sul piano giuridico; un attento vaglio del materiale probatorio implica, infatti, un’analisi approfondita del rapporto di dare ed avere, o di costi-benefici, fra l’impresa e “cosa nostra”, che può integrare tutti i requisiti previsti dalla norma che descrive la condotta associativa. 127 E ad avviso del Tribunale, l’esperienza processuale dimostra effettivamente che in molti casi si annidano profili di sicura illiceità penale, proprio nelle pieghe di quelli che potrebbero apparentemente sembrare comportamenti neutri, o magari semplicemente equivoci. Ed in questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chiamato, se si vuole individuare un possibile criterio selettivo tra imprenditori collusi ed imprenditori vittime, che rifugga da classificazioni di carattere generale – lo si può rintracciare proprio nel “reciproco vantaggio”, ovvero nel rapporto reciprocamente utile che si instaura fra l’impresa e “cosa nostra”. “È infatti ragionevole individuare il criterio distintivo tra imprenditore ‘colluso’ e imprenditore ‘vittima’ nel fatto che il primo, a differenza del secondo, ha consapevolmente e volontariamente rivolto a proprio profitto l'essere venuto in relazione con il sodalizio mafioso, entrando consapevolmente e volontariamente in un sistema illecito di esercizio dell'impresa contraddistinto da appalti e commesse ottenuti grazie all'intermediazione mafiosa, ed ha in tal modo trasformato l'originario danno ingiusto subito (il costo insito nel dover sottostare all'imposizione del pizzo o di altre costrizioni mafiose onde evitare danni maggiori) in una sorta di risvolto negativo di un ben più consistente ingiusto vantaggio (il beneficio insito nella possibilità di assicurarsi illegalmente una posizione dominante a scapito della concorrenza, nonché risorse e/o linee di credito a prezzi di favore, sino a godere di un sostanziale monopolio su un dato territorio). In altri termini, è ragionevole considerare imprenditore ‘colluso’ quello che è entrato in un rapporto sinallagmatico di cointeressenza con la cosca mafiosa, tale da produrre vantaggi (ingiusti in quanto garantiti dall'apparato strumentale mafioso) per entrambi i contraenti e tale da consentire, in particolare, all'imprenditore di imporsi sul territorio in posizione dominante grazie all'ausilio del sodalizio, il cui apparato intimidatorio si è reso disponibile a sostenere l'espansione dei suoi affari in cambio della sua disponibilità a fornire risorse, servizi o comunque utilità al sodalizio 128 medesimo (quando non risulti addirittura la prova di una relazione trilaterale, tale da coinvolgere anche qualche esponente del ceto politicoamministrativo in una gestione spartitoria dei pubblici appalti). Una volta provato il suddetto sinallagma criminoso, la condotta dell'imprenditore ‘colluso’ sarà configurabile come partecipazione ovvero come concorso eventuale nel reato associativo, a seconda dei casi e conformemente ai parametri stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità: si avrà partecipazione qualora il soggetto risulti inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e risulti avervi consapevolmente assunto un ruolo specifico, funzionale al perseguimento dei fini criminosi o di un settore di essi; si avrà invece concorso eventuale qualora il soggetto privo dell'affectio societatis e non essendo inserito nella struttura organizzativa dell'ente - agisca dall'esterno con la consapevolezza e volontà di fornire un contributo causale alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione nonché alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso. Al contrario, si dovrà considerare imprenditore ‘vittima’ quello che, soggiogato dalla forza di intimidazione del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, non tenta di venire a patti con la mafia per rivolgere a proprio vantaggio il relativo apparato strutturale-strumentale basato sull'intimidazione, ma cede all'imposizione mafiosa (versando tangenti alla cosca o piegandosi a prestazioni di altro tipo) e subisce il relativo danno ingiusto limitandosi a perseguire - se mai - un'intesa con il sodalizio criminale al solo fine di tentare di limitare tale danno” (Cass. Pen., Sez. I, 11.10.2005, D’Orio). Orbene, non ritiene questa Corte che, nel caso riguardante l’imprenditore Altadonna, sia stata raggiunta la prova che fra lo stesso, dall’accusa ritenuto soggetto estraneo alla associazione mafiosa, e tale sodalizio sia stato in concreto stipulato uno specifico accordo in base al quale al primo fosse consentito di imporsi nel territorio in posizione dominante o comunque di ricavare utilità (si pensi ad esempio all’imprenditore che sfruttando l’appoggio della organizzazione mafiosa acquisisca appalti pubblici o 129 privati in cambio di una prestabilita quota di ricavi, oppure all’imprenditore che consenta alla organizzazione mafiosa di investire in modo continuativo nella propria azienda capitali di illecita provenienza riservandosi, come prezzo del riciclaggio, una quota dei capitali investiti oppure una quota degli utili, etc), non essendo stato provato che l’odierno imputato, al di là di taluni acclarati rapporti intrattenuti con singoli esponenti della associazione mafiosa e di alcuni modesti vantaggi dallo stesso procurati a singoli esponenti della consorteria (sconto nella vendita di immobili, regalie di merci varie etc) abbia fornito alla vita o al rafforzamento di quest’ultima un contributo casualmente efficace, tanto più se si considera che secondo il più recente insegnamento della Suprema Corte, la efficienza causale del contributo deve essere valutata ex post, solo in questo modo potendosi apprezzare la reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente. Nella fattispecie in esame questa Corte osserva come, anche alla stregua di un superficiale esame delle contestazioni, appaia evidente che dall’Ufficio di Procura fosse stata mossa all’odierno imputato, al capo 16 di imputazione, una contestazione per così dire principale (o comunque ritenuta tale sulla base del materiale probatorio a disposizione) e che, al capo 2, fosse stata formulata una contestazione, sotto il profilo probatorio, per così dire concorrente (ma sarebbe forse il caso di definire “servente”), davvero poche essendo, infatti, rispetto a quella fondamentale di reimpiego di capitali illeciti in attività economiche, le ulteriori presunte condotte in cui si sarebbe concretato ab externo il contributo dell’Altadonna alla associazione mafiosa denominata “cosa nostra”. La fondatezza del citato assunto risulta plasticamente rappresentata se solo si rileva che, mentre con l’imputazione sub 16) si dava carico al prevenuto del delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita aggravato ai sensi dell’ art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152 per avere, in concorso con Pipitone Vincenzo, Conigliaro Angelo, Vallelunga Vincenzo, Gallina Angelo e Pipitone Giovan Battista, tutti 130 esponenti della famiglia mafiosa di Carini, impiegato in attività economiche, tra cui l’acquisto di vari appezzamenti di terreno, denaro di provenienza delittuosa in quanto proveniente dalle attività della associazione mafiosa, con l’imputazione di cui al capo 2 si dava carico al prevenuto di avere concorso ab externo con l’associazione mafiosa “cosa nostra”, in particolare con gli esponenti di questa Lo Piccolo Salvatore e Sandro, Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo, Pipitone Antonino, Pipitone Giovan Battista, Di Maggio Antonino e Vallelunga Vincenzo, “ponendo in essere una serie di condotte continuate, che consentivano alla associazione stessa il controllo di attività economiche ed il reimpiego di danaro di provenienza illecita, in ciò agevolati dalla forza di intimidazione del vincolo associativo, e dalla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”. Ciò posto, non appare davvero revocabile in dubbio la fondatezza del rilievo difensivo secondo cui, nella vicenda in esame, se è vero che l’unica condotta precisa e concreta contestata all’odierno appellante nel capo 2 di imputazione e cioè il reimpiego di denaro proveniente dall’associazione mafiosa coincide pressocchè interamente con la condotta di cui al capo sub 16 in ordine alla quale il Tribunale aveva ritenuto di assolvere Altadonna con la formula “perchè il fatto non sussiste”, appare incomprensibile il motivo per cui lo stesso Giudice fosse pervenuto a conclusioni diverse in ordine al reato associativo, tanto più che non vi erano altre condotte meritevoli di rilevanza penale. Al riguardo, ritiene la Corte che correttamente il primo giudice, all’esito di un’ampia disamina delle risultanze processuali cui si rimanda, è pervenuta all’assoluzione dell’Altadonna dall’imputazione di riciclaggio aggravato in concorso ed impiego di capitali di provenienza illecita, osservando come l’Ufficio del PM fosse pervenuto alla formulazione di detta imputazione sulla base di un’interpretazione del contenuto delle conversazioni intercettate ampiamente smentita da taluni specifici passaggi testuali di tali conversazioni, suffragati peraltro da altre concordanti risultanze probatorie. 131 Al riguardo basta considerare – ha osservato il primo giudice – che secondo la ricostruzione accusatoria, dal complesso delle conversazioni intercorse tra il Conigliaro e il Pipitone Vincenzo riguardanti il terreno ubicato in località Predicatore, si desumerebbe che gli appartenenti alla famiglia mafiosa di Carini – in particolare, oltre agli stessi interlocutori, anche Angelo Gallina e Vincenzo Vallelunga - avevano collettivamente effettuato un cospicuo investimento immobiliare mediante l’acquisizione occulta del fondo, solo formalmente riconducibile alla titolarità esclusiva dell’Altadonna, utilizzando denaro prelevato, in tutto o in parte, da una sorta di “cassa comune”, gestita dal Pipitone. Secondo tale impostazione le continue richieste di denaro che, come risultava dalle conversazioni intercettate, il Vallelunga aveva rivolto ad Altadonna (e di cui il Pipitone si doleva, stigmatizzando il comportamento del suo sodale) avrebbero trovato fondamento in un impellente bisogno di liquidità in cui versava lo stesso Vallelunga che lo avrebbe indotto ad abbandonare la cordata al fine di ottenere la restituzione delle somme personalmente investite nell’acquisto del terreno di 160.000 metri quadri sul quale era prevista la realizzazione di un complesso turistico- alberghiero. Sempre secondo l’ipotesi accusatoria, tutti i componenti della famiglia di Carini coinvolti nell’investimento avrebbero fatto affidamento su un consistente “ritorno” economico dalla vendita del fondo, che nel periodo interessato dalle intercettazioni era al centro di numerose trattative. Ed invero, una volta perfezionata la vendita dell’area, Altadonna avrebbe dovuto consegnare al Pipitone ed alla famiglia mafiosa di Carini l’ingente profitto ricavato da tale operazione speculativa. Il giudice di prime cure, all’esito di una più attenta valutazione delle risultanze processuali, ha però ritenuto del tutto infondata la prospettazione accusatoria. Al riguardo, è stato osservato come, alla stregua della documentazione prodotta, si fosse manifestata tutt’altro che peregrina la tesi difensiva. 132 L’Altadonna aveva sostenuto, infatti, che l’interpretazione delle conversazioni intercettate operata dall’Ufficio del PM costituiva il frutto di un palese equivoco. Egli, infatti, aveva acquistato il terreno in questione utilizzando risorse proprie, derivanti dai profitti ricavati da precedenti operazioni immobiliari, e stipulando un mutuo di 750.000 euro. Inoltre, le somme di denaro di cui si discute nelle conversazioni captate altro non erano, in realtà, che una sorta di “buonuscita” reclamata dal Vallelunga, dal Gallina e dal Conigliaro i quali, nella loro comune qualità di mezzadri, avevano coltivato da quaranta anni diverse porzioni dell’area in questione. Secondo l’imputato , in sostanza, i summenzionati soggetti, tutti esponenti del locale sodalizio, avevano chiesto ed alla fine ottenuto, in cambio della liberazione del fondo, che fosse loro corrisposta una somma complessiva pari a quattrocento milioni di lire, avente in concreto natura estorsiva, poi effettivamente versata da lui nelle mani del Pipitone e del Conigliaro in piccole tranches, fino al raggiungimento dell’importo pattuito. Fatta questa premessa, il Tribunale ha osservato come, in effetti, la circostanza che Conigliaro, Gallina e Vallelunga fossero titolari di un rapporto di mezzadria sul fondo già appartenuto agli eredi Chiarelli La Lumia e avessero abusivamente protratto la loro presenza nell’area, nonostante l’avvenuta cessione del terreno, costituisse un dato oggettivo, dall’accusa pretermesso nella ricostruzione accusatoria e comunque provato, oltre che dai documenti acquisiti agli atti, dalle deposizioni del teste Sciarrino, dante causa dell’imputato, e dal teste Greco, legale che aveva curato in sede giudiziaria gli interessi degli eredi Chiarelli La Lumia. Orbene, i giudici di prime cure avevano rilevato come l’assunto difensivo, peraltro già sorretto da prove testimoniali e documentali, fosse ulteriormente suffragato dal contenuto delle conversazioni intercettate in quanto, da un esame più approfondito di queste, era possibile cogliere numerosi riferimenti testuali in grado di avvalorare l’assunto difensivo. 133 Ed invero, l’ascolto delle conversazioni evidenziava innanzitutto che il Pipitone criticava aspramente il comportamento del Vallelunga , che pretendeva l’immediata dazione di una somma di denaro dall’Altadonna, circostanza questa che rendeva già di per sé poco verosimile che si trattasse di un comune investimento effettuato dagli esponenti della famiglia mafiosa di Carini dietro lo schermo dell’Altadonna, non comprendendosi il motivo per cui tale richiesta fosse stata rivolta al solo odierno imputato se effettivamente si fosse trattato di una operazione immobiliare per così dire cumulativa. Inoltre, la tesi accusatoria si poneva in netto contrasto logico con il passaggio di una conversazione nel corso della quale lo stesso Pipitone riferisce di avere detto al Vallelunga di non sapere se “Lorenzo” (cioè l’odierno imputato) aveva concesso qualche pezzo di terreno ad “Angelo” (cioè a Conigliaro), frase questa che lasciava presupporre che Altadonna fosse l’esclusivo dominus del fondo. Tale interpretazione appariva peraltro ulteriormente avvalorata da una frase del Pipitone del seguente tenore: “quello Lorenzo.. quello che vuole fare delle sue cose.. è padrone di farlo”immediatamente dopo seguita “ Ma lì con noi è tutto un altro, deve prendere ottocento milioni e me li deve dare! Lui, Angelo!” (in un altro punto della conversazione afferma che si tratta in realtà di quattrocento milioni), dovendosi evidenziare anche il passaggio seguente del seguente tenore “come li dovete dividere è un problema tra te ed Angelo gli ho detto, basta!”, frase quest’ultima dalla quale è agevole desumere che il reggente della famiglia di Carini non era personalmente interessato alla ripartizione della somma. Ed ancora più chiaro era il brano successivo, nel quale il Pipitone, dopo avere ribadito la propria estraneità al problema della suddivisione della somma di denaro, affermava “ti dico una cosa.. se il terreno era mio.. ..(inc.).. tu con sessanta milioni eri pagato!”, pronunciando parole oggettivamente incompatibili con la tesi accusatoria che presupponeva la 134 sua posizione di comproprietario occulto del terreno e di regista dell’investimento immobiliare. Ma vi è di più. La versione dei fatti fornita da Altadonna circa un diverbio avvenuto con il Vallelunga, colto mentre stava facendo eseguire lavori di recinzione di una porzione di terreno che affermava essere di sua pertinenza e non aveva intenzione di abbandonare, risultava confermata dalle dichiarazioni di Privitera Saverio, testimone oculare dell’episodio, che aveva infatti riferito che il Vallelunga gli chiese un giorno di effettuare la misurazione della porzione di fondo nella sua disponibilità, in quanto aveva intenzione di delimitare i confini e “chiudere” il podere. Mentre erano in corso le operazioni di misurazione e di delimitazione dei confini (queste ultime eseguite a mezzo di un escavatore), era sopraggiunto però l’Altadonna che aveva minacciato di richiedere l’intervento dei Carabinieri. Da ultimo, i primi giudici osservavano come la ricostruzione accusatoria non avesse trovato la benché minima conferma neppure nelle dichiarazioni del collaborante Pulizzi, immediato successore di Vincenzo Pipitone nel ruolo di reggente della famiglia mafiosa di Carini, che sulla specifica vicenda in esame riferiva come l’Altadonna avesse consegnato al Pipitone la somma di denaro necessaria per “liquidare” i mezzadri presenti sul fondo da molti anni, cioè il Conigliaro, il Gallina e il Vallelunga, tutti appartenenti alla famiglia mafiosa di Carini, i quali si erano rivolti allo stesso Pipitone per risolvere la questione. Nelle dichiarazioni del Pulizzi, dunque, non vi è alcun cenno a un presunto investimento immobiliare operato dall’Altadonna, quale prestanome di una ipotetica cordata di mafiosi carinesi, secondo la ricostruzione dei fatti manifestamente errata sostenuta dall’Ufficio del PM sulla base di una non corretta interpretazione delle conversazioni intercettate. Riconosciuto che nella vicenda riguardante il fondo già appartenuto agli eredi Chiarelli La Lumia fosse da escludere qualsiasi responsabilità 135 dell’Altadonna in ordine al contestato reato di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p., i primi giudici hanno tuttavia osservato come, avuto riguardo al contenuto della conversazione intercettata il 9 giugno 2003 nella villa di Pipitone fra quest’ultimo ed il Conigliaro (vds. pagg. 346 e ss della impugnata sentenza) vi fossero dei riferimenti ad una ventilata partecipazione dell’Altadonna ad un’asta giudiziaria per l’acquisto di beni immobili con somme di denaro messe a disposizione dalla famiglia mafiosa di Carini e altra operazione riguardante l’acquisto del magazzino di tale Buzzetta. In entrambi i casi non si era andati oltre la fase progettuale (nel primo caso, che riguardava l’acquisto di un capannone, in quanto lo stesso era stato acquistato da tale Ruffino ad un prezzo superiore all’entità della somma messa a disposizione dell’Altadonna; nel secondo caso perché la somma stanziata non era stata sufficiente) e pertanto non ricorrevano i presupposti per la configurabilità delle fattispecie criminose di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p., ma da essi poteva quantomeno desumersi “una generica disponibilità (dell’Altadonna) a riciclare capitali di origine illecita, in quanto derivanti dalle attività dell’associazione criminale”, condotta questa di cui bene si sarebbe potuto tenere conto in ordine al contestato reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Orbene, non appare sussistere il benché minimo margine di dubbio che, ove provata, una eventuale partecipazione dell’Altadonna ad un’asta giudiziaria avendo la disponibilità di ingenti somme di denaro messegli a disposizione da esponenti di spicco dell’associazione mafiosa, bene avrebbe potuto concretare, ancorché il bene fosse stato per mera ipotesi aggiudicato ad altro partecipante, quel contributo atipico di rilevante efficacia causale richiesto in tema di concorso esterno in associazione mafiosa. In realtà, come riconosce lo stesso Tribunale, nessun elemento risulta acquisito agli atti dal quale possa concretamente evincersi sia che all’Altadonna siano state effettivamente consegnate delle ingenti somme di denaro (dalle frasi pronunziate dal Pipitone, in alcuni passaggi assai poco 136 comprensibili si comprende che vi erano state delle “trattative” relative al capannone poi acquistato dal Ruffino con un “curatore”, che pretendeva un “regalo” di cinquanta milioni di lire, ma che poi, quando vi era stata l’asta, l’Altadonna, al quale era stato chiesto di attivarsi, non si era presentato) sia il ruolo dall’odierno imputato effettivamente svolto nella vicenda. Ma se così è, i riferimenti, peraltro confusi, all’Altadonna con riferimento alle due vicende in discussione non consentono, a giudizio di questa Corte, in mancanza di qualsivoglia altra acquisizione probatoria ancorché semplicemente riguardante l’effettivo compimento delle operazioni immobiliari in questione, di ritenere sussistente la condotta attribuita ad Altadonna. Non stupisce pertanto che il Tribunale abbia parlato di “generica disponbilità” dell’Altadonna a venire incontro, quale prestanome, alle esigenze della consorteria mafiosa in operazioni tendenti alla acquisizione di immobili con capitali illeciti. Quel che è certo però è che non è sufficiente, com’è noto, una “generica disponibilità” a riciclare capitali di provenienza illecita compiere per integrare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa se della condotta in questione non risulta acquisito al processo alcun elemento in grado di delineare l’oggetto dell’operazione in cui sarebbe stato coinvolto l’imputato, tanto più se nel caso in esame assai poco intelligibile appaia il contenuto della intercettazione non consentendo in alcun modo di comprendere se effettivamente l’Altadonna abbia ricevuto in consegna le somme in questione ed il motivo per cui non ebbe a partecipare all’asta. Né può ritenersi condivisibile l’assunto del Tribunale che, in modo davvero contraddittorio, dopo avere ritenuto non dimostrata l’accusa di riciclaggio, per integrare quella di concorso esterno in associazione mafiosa fondata su “una generica disponibilità a riciclare capitali di provenienza illecita” evidenzia il contenuto di una conversazione intercettata del 12 aprile 2004 (successiva, pertanto, a quelle fra Pipitone e Conigliaro) nel corso della quale il “sensale” mafioso Gottuso parlando con il suo collega Panci della 137 vicenda del terreno di località Predicatore ad un certo punto afferma: “Altadonna non è che è Altadonna..”. Tale frase viene dal primo giudice interpretata non già come un’informazione di cui il Gottuso dispone in merito alla specifica vicenda del terreno di 160.000 m.q. più volte menzionato , ma ad una generica disponibilità dell’Altadonna a fare da prestanome per conto degli esponenti mafiosi di Carini. Ritiene la Corte che, lungi dal dimostrare alcunché nel senso indicato dal Tribunale, la frase in questione (che sembra invece riferirsi proprio al terreno ubicato in contrada Predicatore) rivela soltanto che da parte di soggetti, peraltro estranei al contesto ambientale di Carini, venuti a conoscenza del fatto che Altadonna ha posto in vendita l’immobile in questione o comunque che esiste questa possibilità, esprimono il convincimento che dietro la figura dell’imprenditore carinese vi fossero esponenti di “cosa nostra” in grado di pilotare o comunque condizionare tale operazione immobiliare. I primi giudici, alla stregua soprattutto del contenuto delle conversazioni intercettate ma anche di altre risultanze processuali di cui si è detto in precedenza (vicenda Di Trapani, “pizzini”trovati nella disponibilità dei Lo Piccolo, etc), hanno affermato che l’istruzione dibattimentale avrebbe fatto registrare una indubbia concordanza delle acquisizioni istruttorie circa l’esistenza di stabili rapporti tra Altadonna Lorenzo e l’organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra”, dimostrati, per l’appunto, dalla “accertata disponibilità” dell’odierno imputato ad effettuare rilevanti investimenti immobiliari per conto della famiglia mafiosa di Carini. Orbene, ritiene la Corte che la compiuta istruttoria dibattimentale ha solo dimostrato in modo inequivocabile l’esistenza di rapporti fra l’odierno imputato e taluni esponenti mafiosi, ma che nulla sia emerso, invece, in modo certo ed inconfutabile in ordine a specifici “favori” che l’Altadonna avrebbe fatto alla consorteria, essendo solo queste (ove ovviamente si tratti di “favori” aventi rilevanza causale per la vita o il rafforzamento del 138 sodalizio mafioso) le condotte in grado di integrare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Le variegate vicende emerse nel corso delle indagini che hanno dato luogo al presente procedimento, fondato come già si è avuto modo di rilevare su una serie di intercettazioni ambientali eseguite nell’ambito di diversi procedimenti, pur con l’evidente lacuna costituita da un mancato approfondimento investigativo che andasse oltre il mero contenuto delle conversazioni intercettate e l’interpretazione fallace di alcune di esse, come lo stesso primo giudice ha evidenziato, hanno fornito comunque uno “spaccato” davvero desolante di una parte dell’imprenditoria siciliana, di quella almeno che opera nel settore immobiliare. Ed invero, le intercettazioni in questione forniscono senza ombra di dubbio l’immagine di una imprenditoria le cui più importanti operazioni debbono necessariamente passare attraverso il filtro mafioso. In altri termini, se è vero che la riscossione del pizzo è la principale vessazione che subiscono gli esercizi commerciali, gli imprenditori operanti nel settore edile (non importa se si tratta di opere pubbliche o private) debbono necessariamente sottostare a regole sicuramente più ferree, essendo di ogni evidenza che ciascun imprenditore se vuole operare “sul mercato”, deve avere un proprio punto di riferimento mafioso. Se infatti un determinato imprenditore deve operare un determinato investimento immobiliare (la costruzione di un edificio, pubblico o privato che sia) o eseguire una determinata operazione immobiliare (ad esempio la vendita o l’acquisto di un’area) in territorio diverso da quello in cui opera il suo referente mafioso dovrà rivolgersi a quest’ultimo affinché si occupi della cd. “messa a posto”, pattuendo con i mafiosi della zona competente la somma di denaro che dovrà essere corrisposta e spesso anche l’individuazione dei fornitori (ad esempio del calcestruzzo e del materiale edile necessario per la relalizzazione dell’opera). Ne consegue, come paradossalmente è normale che avvenga, che si crei ad un certo punto un rapporto di “amicizia” fra l’imprenditore ed il suo 139 referente mafioso, come nella vicenda processuale in esame appare esistere, ad esempio, fra l’imprenditore Priano ed il suo referente mafioso Di Blasi della “famiglia” di Pallavicino, che lo “mette a posto” con la “famiglia” di Carini, oppure fra l’imprenditore Billeci ed il suo referente mafioso Di Napoli del sodalizio mafioso Noce-Cruillas, che lo “mette a posto “ con la famiglia di Carini. Ciò si evince chiaramente dalle intercettazioni ambientali cui prendono parte gli imprenditori in questione che davvero con un certo sforzo, quantomeno sotto un profilo etico, possono definirsi vessati, se è vero com’è vero che sono detti personaggi a sollecitare l’intervento dei loro referenti mafiosi e, talora, a suggerire ai loro referenti i comportamenti da seguire, per ridurre al minimo i costi della “messa a posto”. Quel che emerge è, come si è detto, un quadro davvero desolante perché mostra l’immagine di una imprenditoria fortemente inquinata dalla presenza mafiosa, una imprenditoria peraltro che non agisce secondo le regole del libero mercato ma si affida quasi sempre ad intermediari mafiosi (i vari Gottuso, Panci, etc) che puntualmente intervengono per la vendita o l’acquisto di un’area edificabile. Orbene, nel processo in esame correttamente il PM ha ritenuto gli imprenditori Billeci, Priano, Cutietta etc. vittime di fatti estorsivi, pur essendo emerso con ogni evidenza l’esistenza di rapporti “amicali” fra costoro ed i loro referenti mafiosi. E non vi è dubbio, come il primo giudice in definitiva riconosce, che anche Altadonna Lorenzo avrebbe dovuto essere reputato vittima di una estorsione, peraltro assai consistente, se l’Ufficio del PM avesse correttamente interpretato le intercettazioni ambientali concernenti la vicenda del fondo Predicatore ed avesse compiuto quegli approfondimenti di indagine che gli avrebbero consentito di accertare che il Vallelunga (al pari dei vari Conigliaro, Gallina etc) pretendeva, senza averne titolo alcuno in quanto mezzadro abusivo, una “buonuscita” per lasciare libero una 140 porzione del fondo Predicatore dall’odierno imputato regolarmente acquistata, senza il contributo economico della locale “famiglia” mafiosa. Tanto premesso, non può davvero mettersi in dubbio, nella vicenda che ci occupa, l’esistenza di un consolidato rapporto “amicale” fra l’odierno imputato ed il reggente della “famiglia” mafiosa di Carini, Vincenzo Pipitone, tanto più che lo stesso Altadonna non lo mai negato, affermando anzi di non avere nulla di cui pentirsi per averlo coltivato, come da ultimo ha affermato all’udienza del 23 dicembre 2010 nel corso delle sue dichiarazioni spontanee. Ed invero, appare appena il caso di ricordare il modo in cui il Pipitone parla del suo amico “Lorenzo” per rendersi conto del fatto che fra i due esiste davvero un rapporto amicale, non trascurando però di evidenziare come, a conferma di quanto si sostiene nei motivi di impugnazione, dalle intercettazioni emerga uno specifico interesse del boss di Carini e della locale famiglia alla vendita del terreno di fondo Predicatore, da tale operazione immobiliare ritenendo di potere ricavare una consistente tangente. Al riguardo, basta leggere il passaggio della conversazione del 4 luglio 2003 fra Pipitone e Conigliaro trascritto alle pagine 308 e ss della impugnata sentenza per rendersi conto di ciò e per evidenziare il forte fastidio con cui il Pipitone commenta le reiterate “sollecitazioni” rivolte dal cugino Vallelunga all’odierno imputato per conseguire l’immediata corresponsione della “buonuscita”, rilevando come tale insistenza potesse nuocere all’Altadonna, il quale peraltro aveva pagato soltanto la metà del corrispettivo dovuto per l’acquisto. D’altra parte, appare sufficiente leggere con attenzione il contenuto delle conversazioni intercettate per rendersi conto che il Pipitone, che dell’odierno imputato è il referente mafioso, è perfettamente a conoscenza dei movimenti del suo “compare” Altadonna tesi alla vendita dell’immobile e lo tutela, facendo di tutto per stemperare le pretese dei “mezzadri”, attirandosi anche qualche critica da parte di chi, come Enzino Vallelunga, 141 sospetta addirittura che il suo interesse sia dovuto ad un rapporto di società di fatto (“Rice ma tu chi cià docu rintra ? Che si sociu i Lorienzu mi fa ? …Ci rissi…sociu no…ma a diriti a verità mi risse…rice..compà quannu reci mila metri i terreno tu stacchi e tu pigghi”). E non vi è dubbio che si tratta di una giustificazione beffarda che il Pipitone fornisce al Vallelunga, come si ricava dal successivo scambio di battute fra lo stesso Pipitone e il Conigliaro che commentano come la risposta data dal primo al Vallelunga fosse soltanto una boutade (Vincenzo: “Mica è biuru”; Angelo “U sacciu ca unn’è bieru”). Premesso, pertanto, che questa Corte non dubita affatto dell’esistenza di rapporti più o meno amicali fra l’odierno imputato ed il Pipitone, al punto che il primo diventa padrino di cresima del figlio del secondo, e che anzi ritiene, avuto riguardo al chiaro tenore delle conversazioni intercettate, che fra i due sia esistito un rapporto di frequentazione o comunque di comunicazione ben superiore ai soli due incontri documentati dagli inquirenti in un considerevole lasso di tempo, appare necessario a questo punto chiedersi quali siano stati i reciproci vantaggi che i predetti (il Pipitone ovviamente in nome e per conto del sodalizio di Carini) si sono scambiati e soprattutto se i “favori” fatti dall’Altadonna alla “famiglia” locale possano ritenersi, con valutazione ex post, aventi rilevanza causale per la vita o il rafforzamento del sodalizio. Orbene, se appena si fa mente locale alla natura dei favori, nel presente processo accertati, che l’odierno imputato, su sollecitazione del Pipitone, ha fatto a esponenti mafiosi come Franco Inzerillo e Sandro Mannino, concedendo a costoro una riduzione del prezzo di acquisto di due lotti di terreno, oppure alla fornitura di vestiti alla fidanzata di Sandro Lo Piccolo, appare subito evidente la palese irrilevanza causale dei medesimi nei termini richiesti dalla nota sentenza Mannino del 12.7.2005, irrilevanza che rimane tale anche qualora si annoveri fra tali favori anche la riduzione del prezzo di acquisto di un lotto di terreno fatta a Claudio Lo Piccolo, di cui ha 142 riferito, producendo documentazione, la difesa del prevenuto senza che tale vicenda fosse stata precedentemente acclarata. Né ritiene la Corte che, a dimostrazione dell’esistenza fra la famiglia mafiosa di Carini e l’Altadonna di un “sinallagma criminoso” secondo cui l’odierno imputato avrebbe operato sistematicamente in favore del Pipitone e dei suoi sodali, ricevendo da questi ultimi aiuti che gli avrebbero consentito l’acquisizione di una posizione dominante sul territorio di Carini, possa essere menzionata la vicenda relativa all’imprenditore Trapani. Ha rilevato il primo giudice che nell’estate del 2003, l’Altadonna, come accertato dai servizi di videoripresa, ebbe a recarsi almeno in due occasioni nella villa del Pipitone e che in una di queste occasioni la sua presenza nello stesso luogo è comprovata anche dalla deposizione dell’imprenditore Trapani. Costui ha infatti dichiarato di essere stato contattato da Ciccio Di Blasi, “sensale” di Pallavicino, il quale lo aveva invitato a recarsi insieme a lui nella villa di Vincenzo Pipitone sita in Villagrazia di Carini, in quanto quest’ultimo, persona “importante” del luogo, voleva parlargli. All’interno della villa gli furono presentati il Pipitone ed il costruttore Altadonna. Dopo i convenevoli del caso il Pipitone gli disse di avere saputo che proprio in Carini avrebbe dovuto costruire lo stabilimento della sua seconda azienda, denominata Medilgab srl, e che avrebbe gradito che fosse l’Altadonna ad eseguire i lavori. Il Trapani cercò di sottrarsi a tale richiesta, replicando che aveva già concluso il contratto di appalto con altra ditta denominata CPC. In un primo momento il Pipitone aveva controreplicato assumendo di avere la possibilità di intervenire sulla CPC per farla recedere, ma che l’interesse del Pipitone era improvvisamente svanito allorchè aveva saputo che si trattava di un appalto del valore di circa ottocentomila euro e non già di tre o quattro milioni di euro come ritenuto. Durante la conversazione l’Altadonna non intervenne, ma dopo pochi giorni si presentò negli uffici del Trapani per discutere di alcuni aspetti tecnici; 143 anche in questa occasione il Trapani prese tempo e, non avendo l’odierno prevenuto presentato alcun preventivo né dato notizie di sé, i lavori di costruzione furono realizzati dalla CPC. Orbene, la vicenda appare senz’altro indicativa della esistenza di un rapporto amicale del capo mafia di Carini nei confronti di Altadonna. La circostanza però che l’intervento in favore di Altadonna per assicurargli un appalto sia stato l’unico documentato dalle indagini e che nei confronti del Trapani non vi sia stato alcun condizionamento, al di là della circostanza che il valore dell’appalto sia stato ritenuto poco appetibile dal Pipitone ed ovviamente dallo stesso Altadonna, inconfutabilmente dimostra che l’odierno imputato non godeva affatto di una posizione dominante nel territorio di Carini, come peraltro sarebbe emerso dalle compiute intercettazioni che in quel lasso di tempo monitorarono le attività della cosca di Carini. La presenza in Carini di vari imprenditori non originari del luogo ma “messi a posto” da esponenti di famiglie appartenenti a diversi contesti territoriali (Billeci, Priano, lo stesso Trapani Marcello, etc) svaluta comunque fortemente la valenza indiziaria dell’episodio narrato. D’altra parte, le precise e puntuali dichiarazioni di Pulizzi Gaspare, che a dire dello stesso Tribunale rappresenta nel presente processo “una fonte accusatoria particolarmente qualificata”, ha escluso l’esistenza fra la famiglia di Carini e l’Altadonna di un rapporto di affari e, a specifica domanda del PM , riferisce soltanto di un rapporto di amicizia esistente tra l’Altadonna (soprannominato u‟ pacchione) e il Pipitone, rievocando semplicemente l’episodio che vede gli esponenti mafiosi Franco Inzerillo e Sandro Mannino rivolgersi allo stesso Pipitone per ottenere dall’odierno imputato una riduzione del prezzo di acquisto di due lotti di terreno. Dunque, se il Pulizzi che, per il ruolo svolto in seno alla “famiglia” di Carini di cui, dopo l’arresto del Pipitone sarebbe divenuto reggente, ben avrebbe dovuto essere a conoscenza di eventuali cointeressenze del suo sodalizio di appartenenza nel 144 patrimonio dell’Altadonna esclude recisamente tale circostanza, e se nulla di significativo è in grado di riferire il Franzese, reggente della “famiglia” di Partanna Mondello, sul conto di Altadonna che sa soltanto essere un imprenditore edile, assai poco significative si rivelano le dichiarazioni del collaborante Spataro. Questi è solo in grado di riferire che Altadonna era soggetto “vicino” agli esponenti mafiosi di Carini, in particolare a Giovanni Pipitone, e di Torretta, in particolare a Calogero Mannino, senza tuttavia esplicitare in quali termini si sia esplicitata tale “vicinanza”. Ed invero, non appare ultroneo sottolineare che il riferimento al Mannino, affiliato alla famiglia mafiosa di Torretta, riveste scarsa rilevanza probatoria, apparendo ormai acquisita agli atti la circostanza che il documentato incontro di Altadonna presso il suo negozio “Stock House” di Carini con il predetto Mannino e Inzerillo Matteo, quest’ultimo esponente della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, appare giustificato dalla vendita di due lotti di terreno che l’odierno imputato operò ai medesimi, praticando peraltro a costoro, su richiesta di Vincenzo Pipitone, uno sconto sul prezzo. Quanto all’intervento che Altadonna avrebbe effettuato nei confronti dello Spataro per perorare la causa di Giovanni Pipitone, al fine di fare recuperare a quest’ultimo un credito vantato nei confronti di Aiello Epifanio, non è dato comprendere, ai fini che in questa sede rilevano, quale sia stata la rilevanza del “contributo” fornito dall’imputato, che sembrerebbe nella vicenda avere svolto il ruolo di semplice nuncius del Pipitone. Non può pertanto in alcun modo condividersi l’assunto dei primi giudici secondo cui l’episodio narrato rivestirebbe una particolare valenza accusatoria, rappresentativa della disponibilità offerta dall’odierno imputato ad assecondare gli interessi di “cosa nostra” spendendosi personalmente per il perseguimento degli interessi dell’associazione criminale. Ed invero, è davvero manifesta la inconsistenza ai fini che in questa sede rilevano dell’asserito intervento dell’Altadonna che, riguardando la definizione di un credito personale vantato dal Pipitone nei confronti di altro soggetto, non è dato davvero comprendere quale rilevanza abbia 145 potuto avere ai fini del rafforzamento del sodalizio di cui il Pipitone faceva parte. Va, a questo punto preso in esame, il contenuto della conversazione intercorsa tra Vincenzo Brusca (reggente della “famiglia” di Torretta) e il genero Di Maggio Antonino in data 11 giugno 2004, altro episodio da cui il primo giudice sembra desumere ulteriori, significativi elementi in ordine alla contiguità dell’odierno imputato ad ambienti mafiosi. Nella circostanza i due dapprima si intrattengono a parlare di un progettato attentato incendiario ai danni di tale Mimmo Caruso di Capaci (trattasi di soggetto che dagli inquirenti viene identificato in Caruso Domenico, consigliere comunale del comune di Torretta) e, ad un certo punto, il Brusca riferisce al Di Maggio che aveva chiesto a Lorenzo Altadonna, indicato come “un amico vero”, di parlare con il Caruso (consigliere comunale di Torretta) e con il Puccio (già sindaco di Capaci ed amico intimo del Caruso) per agevolare l’approvazione di un certo progetto edilizio che interessa la locale famiglia mafiosa. L’Altadonna aveva ottemperato alla richiesta del Brusca, parlando con i due soggetti in questione, pur senza ottenere alcuna risposta concreta, e successivamente gli aveva raccontato che i due gli avevano domandato chi lo avesse mandato a parlare con loro. Altadonna aveva risposto che si era trattato di una sua iniziativa personale, atteggiamento questo che il Brusca nel corso della conversazione si sofferma a lodare, avendo l’odierno imputato saputo mantenere il riserbo sulla reale paternità dell‟iniziativa. La difesa di Altadonna ha evidenziato la irrilevanza dell’intera vicenda sia perché l’Altadonna, comunque, non aveva ottenuto alcuna risposta, sia perché non risulterebbe provato se l’intervento vi sia effettivamente stato, come il Brusca vorrebbe far credere al Di Maggio, posto che l’odierno imputato non aveva alcun rapporto con il Puccio (quest’ultimo, infatti, lavorava presso la Coop e non presso lo Stock House, come assume il Brusca nel corso della conversazione intercettata). 146 Ciò posto, nel presente giudizio risulta acquisita copia della sentenza resa in data 23 dicembre 2008 dal GUP del Tribunale di Palermo nei confronti di Bordonaro Rosario + 11, irrevocabile nei confronti del citato Di Maggio Antonino che è stato assolto dal reato di cui all’art. 416 bis c.p. perché il fatto non sussiste. Orbene, la sentenza in questione in cui la vicenda edilizia di cui si parla nel corso della conversazione dell’11 giugno 2004 fra il Brusca ed il Di Maggio viene diffusamente trattata, costituendo peraltro il nucleo principale dell’accusa nei confronti del Di Maggio, consente di far completa chiarezza sui fatti, evidenziando come in realtà l’intervento effettuato da Altadonna nei confronti degli amministratori Caruso e Puccio (ammesso che effettivamente vi sia stato) ha riguardato una questione edilizia per così dire privata, totalmente estranea agli interessi del sodalizio mafioso di Torretta. Orbene, i fatti accertati nella citata sentenza resa dal GUP del Tribunale di Palermo sono i seguenti. Di Maggio Antonino, genero di Brusca Vincenzo ma del tutto estraneo alla consorteria mafiosa, come concordemente riferito dai collaboratori di giustizia Pulizzi, Nuccio e Franzese, era fortemente interessato alla approvazione di un progetto edilizio relativo alla costruzione di un fabbricato che riguardava la sorella ed il cognato, Scalici Antonino. Ed invero, i coniugi Scalici erano comittenti della edificazione di un immobile in corso in via Trento, agro di Torretta, i cui lavori erano stati sospesi, con provvedimento comunale emesso in data 26.5.2004, a seguito di segnalazione di costruzione abusiva. Il Di Maggio aveva appreso che ad ostacolare la pratica edilizia della sorella era un consigliere comunale di Torretta, a nome appunto di Caruso Domenico, ed era andato su tutte le furie al punto di ripromettersi di realizzare un attentato incendiario nei confronti di quest’ultimo non appena fosse apparso certo che il Caruso stava effettivamente ostacolando la pratica in questione. 147 Tale proposito veniva per l’appunto esternato dal Di Maggio al suocero, dopo che questi gli aveva riferito che non aveva sortito alcun risultato concreto la raccomandazione che al Caruso era stata fatta dall’Altadonna che aveva contattato il citato consigliere comunale per il tramite di tale Puccio. Ne era seguito uno sfogo del Di Maggio che, consultando l’elenco telefonico per accertare l’ubicazione della abitazione del Caruso, aveva esternato la propria volontà di incendiargli l’autovettura. Nel corso della conversazione intercettata fra il Di Maggio ed il suocero, quest’ultimo, pur non ostacolando i propositi del genero, gli suggeriva però, con atteggiamento risoluto (“Qua al paese no !”) di non compiere questa eventuale azione criminale nel territorio di Torretta. E questa espressione – ha osservato in proposito il GUP – “se può manifestare l’esigenza di preservare il territorio di Torretta “gestito” dal Brusca dall’attività di investigazione prevedibilmente conseguente alla commissione del grave atto intimidatorio programmato in quella sede, può, altrettanto legittimamente, essere letta come una volontà di segnare una demarcazione netta tra questa “vendetta personale” del Di Maggio e gli affari mafiosi riferibili al Brusca e al suo gruppo locale”. In tal senso – ha proseguito il GUP - “depone il fatto che l’imputato non abbia fatto neppure cenno a possibili complici, un dato che avvalora l’ipotesi che si trattava di un’idea strutturata per soddisfare quel sentimento di odio coltivato in quel momento a livello personale dall’imputato stesso. Senza trascurare che questo progetto minatorio è rimasto puramente teorico, dal momento che (fortunatamente) nessun danneggiamento è stato compiuto contro il Caruso, tanto meno in danno della sua autovettura”. Né – ha pure osservato il GUP – può attribuirsi alla vicenda in esame una valenza particolare, tale da inquadrarla entro la previsione normativa dell’art. 416 bis c.p., la circostanza che sempre nel colloquio in esame si facesse cenno ad un pregresso tentativo inutilmente esperito da tale Altadonna Lorenzo, volto ad indurre il Caruso ad essere “più malleabile”, 148 posto che non risulta che questo Altadonna avesse “credenziali”criminose o fosse, comunque, vicino al gruppo mafioso del Brusca, “sempre dando per buono che un simile interessamento ci sia davvero stato”. Ciò posto, ritiene la Corte che non siano necessari ulteriori commenti per evidenziare come l’eventuale intervento dell’Altadonna, ancorché pilotato dal Brusca, che (ammesso vi sia stato) non ha comunque prodotto alcun effetto, come rivela il Brusca medesimo nel corso della conversazione intercettata, riguardando una raccomandazione afferente una questione privata del tutto estranea agli interessi della consorteria mafiosa possa in alcun modo valutarsi a carico dell’odierno imputato. Resta da trattare il contenuto della conversazione intercorsa il 25 settembre 2003 tra il Pipitone e il Conigliaro, nella parte in cui il primo sottolinea l’imprudenza del Vallelunga che, reiterando le proprie richieste di denaro all’Altadonna, non aveva considerato che lo stesso “Lorenzo” godeva della protezione di “Roberto” (“…Dacci i suoldi e ci rici: Enzino…Lorenzo è capace di farici sapiri i cose a Roberto..e Roberto un lu buole toccato a Lorenzo…..Picchì cià fattu favura…però riccillu…Roberto un lu vuole tuccatu ci rici Lorienzo…Un tu scordare chissà..se ancora un l’hai caputu un ti permettere mai più..”), posto che questa costituirebbe, secondo il giudice di prime cure, “la più evidente dimostrazione del diretto coinvolgimento dell’Altadonna nelle dinamiche dell’associazione criminale”. Orbene, non vi è il benché minimo dubbio che, ove fosse stata effettivamente accertata nel processo l’identità della persona indicata con il nome “Roberto”, che assicura la sua speciale protezione all’Altadonna e soprattutto se fossero stati accertati i “favura”, cioè i favori, che l’odierno farebbe o avrebbe fatto a tale esponente mafioso di primissimo piano, di cui lo stesso Pipitone parla nel corso della conversazione con deferenza mista a timore, il giudizio espresso dal primo giudice sul conto dell’odierno imputato sarebbe interamente condivisibile. 149 Assume il Tribunale, infatti, che “ogni residuo dubbio circa l’identità di “Roberto” sarebbe stato fugato dallo specifico contributo informativo del Pulizzi, il quale ha dichiarato che con tale pseudonimo veniva appellato Salvatore Lo Piccolo, capomandamento di San Lorenzo, all’epoca latitante. Osserva in proposito la Corte che il riferimento operato dal Pipitone,che è senza ombra di dubbio il referente mafioso dell’imprenditore Altadonna nei termini in precedenza esposti, ad una entità mafiosa per così dire “superiore” che proteggerebbe l’Altadonna perché da questi avrebbe ricevuto favori ha senza dubbio alcuno una certa valenza indiziaria. Si tratta, in altri, di un riferimento senz’altro inquietante che grava sulla posizione dell’odierno imputato, ma che non ha trovato, a giudizio della Corte, una sufficiente integrazione probatoria, non risultando in alcun modo provato, a esempio, che il cospicuo patrimonio del prevenuto sia in tutto o in parte riconducibile ad una importante entità mafiosa che ne tutela le iniziative imprenditoriali o anche soltanto quali siano i “favori” che questa riceve dall’odierno imputato. Si è già detto che questa “entità” non è il Pipitone, per i motivi anzidetti, ma va aggiunto anche che, contrariamente all’assunto del primo giudice, non può nemmeno essere identificata in Lo Piccolo Salvatore, capo indiscusso all’epoca dei fatti del mandamento in cui era compresa anche la famiglia di Carini. Secondo il giudice di prime cure il mendacio dell’Altadonna, il quale ha sostenuto di non avere mai conosciuto i Lo Piccolo, sarebbe dimostrato, innanzitutto, dalla vicenda relativa alle forniture di abbigliamento effettuate dall’odierno imputato a Cardinale Maria, in quel periodo sentimentalmente legata a Sandro Lo Piccolo. In particolare, le due visite della Cardinale nel negozio Stock House, documentate dal carteggio intercorso tra la donna e Sandro Lo Piccolo, sono state ammesse dallo stesso imputato, il quale ha peraltro dichiarato di essere stato preavvisato, al riguardo, da Vincenzo Pipitone il quale aveva, poi, provveduto al pagamento della merce scelta dalla donna e ciò sebbene 150 l’Altadonna avesse manifestato l’intenzione di fare omaggio allo stesso Pipitone dei capi di abbigliamento in questione. Nello stesso contesto andrebbe collocata l’esplicita menzione dell’Altadonna nei due “pizzini”, sottoposti a sequestro in occasione dell’arresto dei Lo Piccolo, dai quali emerge l’interessamento di costoro in una questione relativa a pregressi rapporti di affari tra l’odierno imputato e l’imprenditore Leonardo, che reclamava la restituzione di una consistente somma di denaro. Ciò posto, non appare revocabile in dubbio che gli elementi valorizzati dal primo giudice al fine di inferirne una presunta vicinanza dell’Altadonna a Salvatore Lo Piccolo indicato come il “Roberto”, sorta di nume tutelare dell’odierno imputato dal quale avrebbe ricevuto “favura” sono palesemente inconsistenti. Ed invero, è proprio il contenuto della documentazione sequestrata ai Lo Piccolo che avrebbe dovuto far comprendere che fra questi e l’Altadonna non vi era mai stato alcun rapporto diretto. Dalla missiva inviata dalla Cardinale a Sandro Lo Piccolo emerge, infatti, che ad invitare la donna a recarsi presso lo Stoch House era stato Pipitone Vincenzo, circostanza questa che si pone in evidente contrasto con la tesi accusatoria, recepita dal primo giudice, secondo cui l’odierno sarrebbe stato un protetto dei Lo Piccolo. Quel che avrebbe dovuto indurre, però, i primi giudici ad escludere che Altadonna fosse in stretti rapporti con Salvatore Lo Piccolo, è però, soprattutto, il contenuto dei due “pizzini” trovati in possesso dei Lo Piccolo al momento del loro arresto. Premesso, infatti, che fra le centinaia e centinaia di “pizzini” trovati ai due boss non ve ne è nemmeno uno in cui Altadonna sia destinatario o mittente, come correttamente osserva la Difesa, non può condividersi la valenza probatoria attribuita dal Tribunale in ottica accusatoria a due biglietti, per il cui preciso contenuto si rimanda alla sentenza impugnata, entrambi vergati da Sandro Lo Piccolo e costituenti con ogni evidenza copia di altri “pizzini” 151 inviati a terzi soggetti (probabilmente operanti in seno al sodalizio di Carini), in cui veniva affrontato l’argomento di un debito che l’Altadonna aveva nei confronti della impresa Leonardi. Al riguardo, osserva la Corte come dal primo giudice assai poca rilevanza sia stata attribuita alla documentazione prodotta dalla Difesa ed a quanto riferito dal teste Leonardi Graziano nel corso della sua deposizione. Ed invero, dalla documentazione acquisita agli atti può desumersi che il Leonardi, titolare di una impresa che si occupa di costruzioni, aveva proposto all’Altadonna di fargli vendere il terreno di mq. 160.000 oppure altro terreno sito in Torretta, all’uopo presentandogli tale Fabio Ghirelli, titolare di una impresa di costruzioni a Roma. Il Ghirelli aveva consegnato all’Altadonna, all’atto del preliminare, come cauzione per l’acquisto del fondo Rizzuti di Torretta, un assegno di euro 100.000, a fronte di un prezzo che si prevedeva dovesse aggirarsi fra gli 11 e i 12 milioni di euro. Altadonna aveva versato l’assegno sul suo conto corrente. L’affare non si era poi realizzato in quanto Altadonna non aveva ottenuto la necessaria lottizzazione e l’assegno non era stato restituito essendo stato il prevenuto, a seguito dell’arresto in ordine ai fatti del presente processo, in tutt’altre faccende affaccendato La versione dei fatti emergente dalla documentazione prodotta era stata confermata dal Leonardi. La difesa del prevenuto ha fatto notare che i due pizzini aventi in pratica lo stesso oggetto (costituendo il secondo una sorta di sollecito del primo) conteneva degli errori. Ed invero, in primo luogo, il lavoro asseritamente commesso al Leonardi non era stato appaltato, non essendo mai stata approvata dal Comune competente la lottizzazione; in secondo luogo, Altadonna non doveva 140.000,00 euro a Leonardi, ma 100.000,00 euro al Ghirelli. 152 Il contenuto della lettera, in ogni caso, era chiaro: la missiva era diretta ad un soggetto che avrebbe dovuto invitare Altadonna, debitore della somma, a restituire l’acconto per l’affare non andato a buon fine. Ma se così è deve, innanzitutto, rilevarsi un evidente contrasto logico fra il contenuto di tali missive, che dimostrano da parte del loro estensore una superficiale conoscenza delle questioni, e l’asserita esistenza di rapporti privilegiati dei Lo Piccolo con l’Altadonna. Quel che dal contenuto dei due biglietti può logicamente desumersi (che né l’odierno imputato né il Leonardi hanno ritenuto di dovere meglio esplicitare) è, infatti, che il Leonardi, probabilmente a ciò invitato dal Ghirelli che voleva indietro la somma anticipata, aveva inoltrato al referente mafioso, che aveva a suo tempo mediato il contatto con l’Altadonna, e verosimilmente con Pipitone Vincenzo, la richiesta volta ad ottenere la restituzione della somma anticipata. Tale richiesta era stata successivamente inoltrata dal referente mafioso del Leonardi ai Lo Piccolo, responsabili del mandamento in cui era compresa la “famiglia” di Carini probabilmente perché, a seguito dell’arresto dei Pipitone e del Conigliaro, non erano ancora noti, al di fuori del mandamento di Tommaso Natale-San Lorenzo, chi fossero i nuovi referenti mafiosi di Carini; non appare casuale al riguardo, infatti, che nella seconda missiva il Lo Piccolo avesse inserito l’ordine di “agganciare Gasp”, cioè Gaspare Pulizzi, da lui incaricato di occuparsi della questione). Quanto alla non corrispondenza della somma è verosimile ritenere, avuto riguardo alle note modalità operative dell’organizzazione mafiosa, che gli autori della richiesta inoltrata ai Lo Piccolo si ripromettevano di ricavare una somma di denaro quale prezzo della intermediazione mafiosa. Tale ricostruzione dei fatti è però grandemente illuminante ai fini che qui interessano. I Lo Piccolo, come peraltro dimostra il contenuto delle due missive, non erano a conoscenza dei termini della questione, circostanza davvero 153 singolare se si dovesse accedere alla tesi accusatoria del rapporto priviliegiato dei citati boss mafiosi con l’odierno imputato. Vuole dirsi, in ogni caso, che a prescindere dalla esattezza o meno dell’indicazione proveniente dal Pulizzi, secondo cui in qualche occasione Lo Piccolo Salvatore si sarebbe avvalso dello pseudonimo “Roberto” (in verità, dal contenuto della conversazione intercettata il 9 giugno 2003 fra Pipitone e Conigliaro, nel corso della quale i due commentano un “pizzino” appena arrivato proveniente da Salvatore Lo Piccolo, quest’ultimo viene menzionato “Zio Totò”) è assolutamente inverosimile che il Roberto di cui parla il Pipitone nella conversazione intercettata il 25 settembre 2003 sia Salvatore Lo Piccolo. Più verosimile, secondo la Corte, è che il Roberto in questione altro non sia che Vito Roberto Palazzolo (noto uomo d’onore della famiglia di Cinisi oramai da decenni trasferitosi in Sud-Africa e grande riciclatore di ingentissime somme di denaro che l’organizzazione mafiosa ricavava dal traffico degli stupefacenti) di cui con ogni probabilità Angelo Conigliaro parla nel corso della conversazione intercettata il 6 ottobre 2003 fra i soliti Conigliaro e Pipitone in cui, sempre a proposito di una operazione immobiliare che Altadonna ha in mente di compere, si fa menzione dell’africano (vds. pagg. 326- 331 della sentenza impugnata). Ma, è chiaro, trattandosi di una semplice deduzione, sia pur ancorata ad argomenti obiettivi, che l’odierno processo non offre alcun elemento certo per affermare che, effettivamente, Vito Palazzolo Roberto sia il protettore occulto dell’odierno imputato e quest’ultimo il gestore di taluni beni al primo in effetti riconducibili, né è dato sapere quali siano i favori che avrebbe ricevuto da Altadonna. Il che induce a ritenere, al di là di quelle che possono essere i sospetti che questa Corte indubbiamente nutre sul conto del prevenuto, che alla stregua degli elementi probatori acquisiti al presente processo ed alla loro palese insufficienza e contraddittorietà, si impone, in parziale riforma della sentenza impugnata, l’assoluzione dello stesso dal reato ascrittogli al capo 154 2 della rubrica, per non avere commesso il fatto, ai sensi del 2° comma dell’art. 530 c.p. 2-3– L’APPELLO NELL’INTERESSE DI CUSIMANO ANTONIO – Sostiene preliminarmente l’appellante che il Giudice di prime cure sarebbe pervenuto erroneamente ad una sentenza di condanna, ipervalorizzando le risultanze istruttorie ed in parte utilizzando il medesimo materiale probatorio acquisito contro il Cusimano a sostegno di altra sentenza di condanna, già in grado di appello. Premette a tal fine che il Cusimano era stato tratto in arresto nell'ambito della indagine denominata “Piana dei Colli” con la contestazione di piena partecipazione alla consorteria mafiosa “cosa nostra” e per due episodi di estorsioni, e che per quei reati era già stato giudicato da altra Autorità e condannato anche in fase di appello nell'ambito del procedimento penale n. 13666/07 R.G.N.C. Successivamente, nel contesto della medesima indagine “Piana dei Colli”, ma in diverso procedimento, era stato tratto nuovamente in arresto per il reato per cui è oggi giudicato. In ragione di ciò, il Tribunale del Riesame aveva dichiarato inefficace la misura della custodia cautelare in carcere, poiché emessa in successione ad altra misura a fronte del medesimo materiale probatorio già acquisito in sede di indagini, e già noto al momento dell’emissione della prima misura cautelare. Sostiene, quindi, l’appellante, con il primo motivo del proposto gravame. che risulterebbe evidente, dalla semplice lettura della sentenza impugnata, l’esistenza di una duplicazione di accuse a fronte delle medesime risultanze istruttorie. Nella specie, in particolare, il Cusimano sarebbe stato nuovamente condannato per un ulteriore reato alla pena di anni otto di reclusione con il medesimo materiale probatorio che aveva già fatto da sostegno ad altra 155 sentenza di condanna per altri delitti. Sarebbe facile, infatti, formulare un giudizio di tale genere, esaminando la sentenza oggetto del presente gravame che al capo 11 reca a carico del Conigliaro la contestazione del delitto di estorsione all'imprenditore Priano per il quale il Cusimano era stato condannato in altro procedimento. Nella sentenza, oggetto del presente gravame, emergerebbe, invece, con evidenza che il Cusimano sarebbe stato, nell'ambito di questo procedimento, condannato a fronte di alcune intercettazioni ambientali che contestualmente sono state già utilizzate a sostegno di altra sentenza di condanna, e più precisamente per la contestazione relativa alla estorsione in danno dell'imprenditore Priano. Queste stesse intercettazioni ambientali sarebbero state utilizzate nell’odierno procedimento, per sostenere un verdetto di condanna a carico del Cusimano per il delitto di cui al capo 10 della rubrica della sentenza. Le medesime intercettazioni ambientali sarebbero state utilizzate, in buona sostanza, nell'ambito del processo definito con la sentenza oggi impugnata, sia per sostenere la condanna a carico dell'imputato Conigliaro, sia, con diversa lettura, per motivare la condanna a carico del Cusimano. La duplicazione nell'utilizzazione delle medesime fonti si apprezzerebbe leggendo la parte motiva a carico degli imputati Cusimano e Conigliaro, anche senza la necessità di particolari approfondimenti. L'assunto della pubblica accusa sarebbe che Cusimano Antonino, con la complicità di Francesco Di Blasi e Cataldo, ma soprattutto con la regia occulta di Lo Piccolo Salvatore, avrebbe costretto l'imprenditore Scalici, legale rappresentante della Simba S.r.l., a subire la imposizione di fornitura alla Edilpomice. Le prove di tale condotta sarebbero emerse dalle intercettazioni ambientali effettuate presso la Edilpomice, dei fratelli Cusimano, nel periodo maggio agosto 2002. 156 Con il secondo motivo l’appellante contesta le risultanze delle propalazioni dei vari “collaboratori di giustizia”, che, ad avviso dei primi Giudici, avrebbero fornito adeguati riscontri all'attività criminale svolta dal Cusimano. Rileva, a tal proposito, l’appellante che i “collaboratori di giustizia” Franzese, Nuccio, Spataro e Pulizzi non avrebbero offerto contenuti di natura accusatoria utilizzabili nell’odierno procedimento. Alcuni di essi, infatti, mostrano di conoscere genericamente la figura di Cusimano Antonino, che associano ad altri soggetti, poi accusati di essere sodali, ma non farebbero riferimento ad alcun elemento che possa adeguatamente supportare l'accusa di estorsione a carico del medesimo Cusimano nel presente procedimento. Questi, infatti, sarebbe già stato condannato, anche in fase di appello, per il delitto di piena partecipazione alla associazione criminale “cosa nostra”, delitto contestato in altro procedimento penale e oggetto di altra sentenza. Con il terzo motivo l’appellante afferma che a diversa conclusione si dovrebbe pervenire per quanto concerne le risultanze delle intercettazioni ambientali, potendo essere utilizzabili, ai fini della prova del delitto di estorsione contestato al Cusimano nel presente procedimento, solo quelle prove che sono strettamente afferenti il delitto contestato e non finire per fraintendere il contenuto delle registrazioni, utilizzandole così per finalità diverse a cui le stesse non sarebbero destinate. Ciò risulterebbe dall'esame delle trascrizioni delle intercettazioni ambientali del 04.05.2002, h. 1 1,27 e del 06.05.2002 h. 9.31. Il contenuto di queste due intercettazioni è stato indicato, infatti, in sentenza come primo elemento di sospetto dell'attività di Cusimano Antonio finalizzata alla imposizione di fornitura alla società Simba S.r.l. e quindi all'imprenditore Scalici. Dall'esame del contenuto delle captazioni predette emergerebbe semmai che i contatti tra il Di Blasi ed il Pipitone avvenivano sempre per il tramite del Cataldo, nella ditta del quale il Pipitone era socio di fatto; le anzidette 157 intercettazioni non avrebbero offerto elementi di carattere diverso e soprattutto non costituirebbero prova della estorsione in danno di Scalici. Nulla si evincerebbe, infatti, dall'esame delle predette conversazioni circa la l'esistenza anche di un solo progetto di estorsione a carico di Scalici. In queste conversazioni si farebbe riferimento, invece, al cantiere del Priano e gli interlocutori si occuperebbero soltanto delle problematiche afferenti il predetto lavoro, che però aveva già formato oggetto di contestazione a carico del Cusimano in altro procedimento. Il teste Castrogiovanni, che aveva coordinato le indagini, curato i riscontri ed effettuato i servizi di osservazione in seguito agli ascolti delle intercettazione, aveva testualmente dichiarato che le conversazioni del maggio 2002 erano riferibili ad “una frizione tra l'imprenditore ed i fratelli Cusimano in quanto l'imprenditore, Priano Alfonso, dapprima si era recato dai Cusimano ed in qualche misura ne aveva chiesto, diciamo, l'interessamento in relazione ai contatti appunto con gli esponenti della “famiglia” mafiosa di Carini per lavorare, diciamo, in tranquillità, salvo poi però recedere dal fatto di potere fare le forniture in via esclusiva presso i Cusimano. Nel corso della conversazione infatti vi è stato un acceso scontro tra i Priano e i Cusimano proprio in relazione a questa cosa che lui disse testualmente: se è una strada di passaggio, vengono tutti”. Sarebbe stato perciò evidente che le conversazioni nelle quali si faceva riferimento al Cataldo ed al cantiere di Priano erano riferibili a questo momento di contrasto tra imprenditori in cui al Priano, peraltro, sarebbe stato rimproverato il mancato rispetto di un patto di reciprocità. Infatti, dalla lettura delle registrazioni e dal confronto di queste con la deposizione del teste Castrogiovanni, non si sarebbe potuto comunque giungere ad alcun elemento certo che consentisse di ritenere che la imposizione di fornitura alla società “Simba S.r.l.” dell'imprenditore Scalici fosse mai stata effettuata. Nelle conversazioni degli indagati si sarebbe fatto sempre riferimento ad una cooperativa come committente dei lavori ed ai problemi che nascevano 158 proprio dalla necessità di utilizzare materiali di qualità diversa da quelli offerti dalla ditta Edilpomice, e mentre era stato accertato che i lavori presso il cantiere di Priano erano stati commissionati dalla società cooperativa “La Vela”, nessun accertamento analogo sarebbe stato fatto per il cantiere dello Scalici. Considerato però che la diatriba circa la fornitura del materiale era sempre connessa a problematiche nascenti dalla natura di società cooperativa della ditta committente dei lavori non è possibile sostenere, così come invece è stato fatto per la estorsione in danno di Priano, che gli interlocutori stiano parlando del cantiere della ditta di Scalici. In definitiva, a dire dell’appellante, i riferimenti allo Scalici, effettuati dagli interlocutori nel corso di qualche intercettazione, in assenza di altri elementi che consentissero di affermare con certezza che i fratelli Cusimano stessero programmando un’estorsione in danno del predetto imprenditore, non avrebbero consentito di supportare una pronunzia di condanna a carico dell'odierno appellante per il delitto di estorsione, così come era stato contestato. Con il quarto motivo, infine, l’appellante evidenzia che dalla lettura della motivazione afferente la posizione personale di Conigliaro che, nell’odierno procedimento risponde da solo, della estorsione in danno del Priano, le medesime intercettazioni utilizzate contro il Cusimano per raggiungere la prova della avvenuta estorsione allo Scalici, si ritrovano invece a sostegno della condanna del Conigliaro per l’estorsione in pregiudizio di Priano. Su questo punto, quindi, la sentenza sarebbe contraddittoria e priva di una motivazione che spieghi le ragioni della duplice utilizzazione del medesimo materiale probatorio a sostegno della condanna per due diverse ipotesi di delitto. Conclude chiedendo di essere assolto, in riforma della sentenza impugnata dal reato a lui ascritto, perché il fatto non sussiste. Le censure sono prive di fondamento. 159 Ed invero, nella specie, la sostanziale connessione tra i due procedimenti appare più che evidente, ove si consideri che essi scaturiscono in pratica dalla medesima indagine di p.g., sicché, alla stregua degli enunciati principi della S.C., che questa Corte ritiene di dovere pienamente condividere, le intercettazioni di conversazioni telefoniche ed ambientali disposte nell’ambito del primo procedimento, cui fa riferimento l’appellante, bene potevano essere utilizzate in quello odierno, e non appare perciò ravvisabile la lamentata “duplicazione delle fonti di prova” in pregiudizio dello stesso. D’altra parte, non appare palesemente condivisibile la tesi sostenuta dall’ap- pellante, il quale, almeno a quanto sembrerebbe desumersi dal contenuto dell’atto di impugnazione, pretenderebbe che una data fonte probatoria possa essere utilizzata esclusivamente ai fini dell’accertamento di un dato reato, e non già per l’accertamento di un diverso reato a carico della medesima persona. Detta tesi, infatti, non tiene conto del fatto che per medesimo fatto deve intendersi l’identità degli elementi costitutivi del reato e cioè condotta, evento e nesso di causalità, considerati non solo nella loro dimensione storico-naturalistica, ma anche in quella giuridica, potendo una medesima condotta violare contemporaneamente diverse disposizioni di legge, sicché non può seriamente dubitarsi del fatto che, ad esempio, la medesima intercettazione telefonica venga posta a fondamento di una condanna per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso e, successivamente, di una condanna per una estorsione che costituisca uno dei reati – fine in cui estrinseca l’attività degli associati. Analogamente - e sempre che l’appellante intenda sostenere la tesi che le intercettazioni de quibus integrino comunque una identica fonte di prova, non utilizzabile nei confronti dell’imputato – non potrà che sostenersi che da una medesima intercettazione ben possono trarsi elementi di prova in ordine a più reati, ed a carico di diverse persone, ancorché non legate tra loro da vincoli di amicizia o conoscenza. 160 Ne consegue che non ha pregio l’osservazione secondo cui non si sarebbe potuto utilizzare l’attività captatoria in contestazione, sia per sostenere la condanna a carico del Conigliaro, che quella a carico del Cusimano, essendo, con ogni evidenza, il contenuto dell’attività medesima frazionabile a seconda che essa riguardi l’una o l’altra delle persone coinvolte, ed essendo in ogni caso possibile, a seconda dei casi, una valutazione congiunta delle medesime risultanze. Nella specie, peraltro, le intercettazioni sono eminentemente frazionabili, apparendo riferibili i segmenti di esse che qui vengono in considerazione, in maniera del tutto autonoma, a ciascuno degli imputati (Conigliaro e Cusimano). Né, ancora, appare ravvisabile – e comunque non risulta essere stato provato - il bis in idem ventilato dall’appellante, laddove lo stesso afferma che nella specie sarebbe ravvisabile una duplicazione di accuse a fronte delle medesime risultanze istruttorie. E’ jus receptum, infatti, che il divieto del bis in idem stabilito dall'art. 649 cod. proc. pen. postula una preclusione derivante dal giudicato formatosi per lo stesso fatto e per la stessa persona o anche dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona (anche se pendenti in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M.. Il divieto presuppone la produzione innanzi al giudice di merito della sentenza definitiva o degli atti necessari per l'accertamento della identità del fatto” (Cass. Pen. Sez. V, 29 gennaio 2007, n. 9180). Rileva, quindi, la Corte che, contrariamente a quanto è stato sostenuto dallo appellante, gli elementi probatori evidenziati dai primi Giudici a carico del Cusimano consentono di pervenire ad un positivo giudizio sulla responsabilità di quest’ultimo (salvo quanto si dirà in ordine alla configurabilità del delitto di estorsione). 161 La contestazione in esame riguarda, in vero, una condotta estorsiva perpetrata ai danni dell’imprenditore Damiano Scalici, impegnato nella realizzazione di un complesso edilizio nella contrada Ciachea di Carini, al quale, secondo la tesi accusatoria, sarebbe stato imposto di rivolgersi ai titolari della ditta Edilpomice (i fratelli Cusimano, ed in particolare Antonio) per la fornitura di materiali edili. L’imposizione della commessa sarebbe stata portata a compimento mediante le pressioni esercitate da affiliati alla cosca locale, - i quali avrebbero agito su sollecitazione dei vertici mandamentali - e con l’intervento di esponenti mafiosi inquadrati in altre famiglie del mandamento di San Lorenzo. L’imputazione era stata elevata a titolo di concorso nei confronti di Cusimano Antonio, uno dei titolari della ditta “Edilpomice”, che si sarebbe assicurata la fornitura, e nei confronti di Lo Piccolo Salvatore, indicato quale regista occulto dell’operazione. Scalici Damiano era il presidente del consiglio di amministrazione della società denominata “Simba S.r.l.” con sede a Palermo, operante nel settore dell’edilizia. Numerose conversazioni telefoniche ed ambientali intercettate nel maggio del 2002, avrebbero consentito di accertare come il Cusimano avesse imposto all’anzidetto imprenditore, con il decisivo intervento del Di Blasi, le forniture dei materiali destinati alla costruzione delle unità immobiliari che lo stesso Scalici stava edificando nel territorio del comune di Carini. La prima conversazione di interesse investigativo era stata intercettata alle ore 11.27 del 4.5.2002, all’interno dei locali della Edilpomice. Nel corso di essa, il Di Blasi chiedeva ai fratelli Antonio e Andrea Cusimano il numero di tale “Cataldo”: Quindi il Cusimano auspicava che all’incontro fosse presente anche il Di Blasi, il quale gli aveva consigliato di parlare con il Cataldo per farsi procurare un appuntamento con tale “Nino”. Quest’ultimo, infatti, avrebbe 162 potuto risolvere il problema prospettato al Di Blasi dallo stesso Cusimano, che invocava un intervento drastico di qualcuno che imponesse il peso della propria autorità per risolvere la questione. Alle ore 8.47 del 6 maggio 2002, Cusimano Antonio telefonava al “Cataldo”, chiedendogli un incontro in relazione a un “lavoretto” che avrebbe dovuto eseguire. Il Cataldo e il Cusimano concordavano di vedersi alle ore 10,00 presso il cantiere del Priano. Alle ore 8.53 del 6.5.2002, pochi minuti dopo aver concluso la telefonata con il Cusimano, il Cataldo contattava “Nino” e lo invitava a farsi trovare per le ore dieci al cantiere del Priano, perché il “geometra” avrebbe dovuto dargli alcune spiegazioni. Dopo un primo momento di esitazione, “Nino”, avendo evidentemente intuito che Cataldo non voleva aggiungere altri dettagli, si asteneva dal chiedere maggiori chiarimenti. Quanto ai rapporti esistenti tra il Cataldo e Pipitone Antonino, dalle attività di indagine svolte in ordine alla “famiglia” mafiosa di Carin, era emerso che i due, nel periodo al quale risalgono le intercettazioni effettuate presso l’Edilpomice, erano soci di fatto nell’impresa edile del Cataldo. Il Cusimano aveva parlato poi con Pipitone Antonino, concordando con quest’ultimo un incontro al cantiere del Priano per il giorno successivo, al quale avrebbe partecipato anche lo Scalici; e tale riunione sarebbe stata, con ogni evidenza, inerente alla richiesta che il Cusimano aveva rivolto al Pipitone; significativa, in tal senso, sarebbe apparsa la circostanza che il Di Blasi avesse pensato immediatamente a Vincenzo Pipitone, zio di Antonino, come possibile partecipante all’appuntamento del giorno successivo. Alle ore 8.33 del 9 maggio 2002, all’interno della “Edilpomice”, veniva intercettata una significativa conversazione tra il Di Blasi e i fratelli Andrea e Antonio Cusimano, il cui ascolto forniva elementi utili a chiarire le ragioni dell’incontro del 7 maggio nel cantiere del Priano. 163 Dal contenuto della conversazione si evinceva che il Cusimano e il Di Blasi avevano richiesto l’intervento del Pipitone per aggiudicarsi “almeno la metà” di qualcosa, che non veniva specificato, ma che poteva ragionevolmente presumersi consistesse nella fornitura di materiali per l’edilizia. Quindi gli interlocutori si soffermavano sulla prevedibile reazione negativa dello Scalici all’imposizione della fornitura di materiali presso l’Edilpomice; il Di Blasi, tuttavia, rassicurava i fratelli Cusimano - che non erano ancora stati contattati dallo Scalici per la richiesta di fornitura garantendo che gli sviluppi della vicenda sarebbero stati conformi alla sua volontà e dunque, favorevoli agli interessi degli stessi Cusimano. Infine, dopo avere affermato con forza che pretendeva comunque una risposta dal Pipitone, positiva o negativa, si congedava raccomandando al Cusimano di tornare al cantiere del Priano per rintracciare Pipitone Antonino e suggerirgli, nel caso in cui non avesse trovato nessuno, di contattare il Cataldo. Proseguiva il Tribunale, affermando che il Cusimano seguiva pedissequamente le indicazioni del Di Blasi, e che la perentoria affermazione di costui che non si trattava di una “questione di prezzo”, avrebbe fornito la conferma del fatto che le forniture erano imposte allo Scalici, cui sarebbe stata, pertanto, sottratta ogni possibilità di scegliere liberamente il contraente sulla base di una valutazione improntata alla convenienza economica. Infine, la conversazione intercettata all’interno della Edilpomice il 30 maggio 2002, alle ore 13,16, consentiva di pervenire all’identificazione dello Scalici e di localizzare il complesso di villette in costruzione. Cusimano Andrea raccontava a tale “Tanino”, non meglio identificato, la vicenda relativa allo Scalici, indicandogli l’ubicazione del complesso immobiliare e precisando che la sua impresa “stava facendo tutti i tramezzi all’interno”: 164 L’imprenditore che stava realizzando le villette era figlio di un compagno di scuola di Cusimano Andrea e rispondeva proprio al nome di Scalici. Lo stesso Cusimano Andrea precisava che, nonostante il legame con il vecchio compagno di scuola, per ottenere quel lavoro a Carini aveva dovuto lamentarsi con i “cristiani” di là, che gli avevano fatto gli scavi. Si trattava di una chiara allusione alla “famiglia” mafiosa di Carini e ai lavori di scavo che costituivano una delle principali attività della ditta gestita dal Cataldo e da Nino Pipitone. Sulla base delle indicazioni emergenti dal contenuto della conversazione, il complesso edilizio veniva individuato nella Contrada Ciachea di Carini, a sinistra della carreggiata dell’autostrada, in prossimità dell’impianto di depurazione delle acque. Il riferimento di Cusimano Andrea, nel primo tratto di conversazione, al recente contatto telefonico con l’imprenditore interessato consentiva di identificare con certezza Scalici Damiano. La commessa relativa al cantiere dello Scalici, pertanto, non era stata attribuita secondo il sistema del libero mercato, ma solo a seguito di una specifica imposizione dei “cristiani” di là, secondo le regole di “cosa nostra”, che attribuiscono alle “famiglie” mafiose la “competenza” per i lavori realizzati nel loro territorio e la prerogativa di imporre il “pizzo”, ovvero le imprese subappaltatrici e fornitrici di proprio gradimento. Questo lungo excursus, connotato, come si è visto, da una lunga serie di fatti – tutti puntualmente evidenziati dal Tribunale - che si riscontrano reciprocamente, e che appaiono sorretti da un adeguato concatenamento logico e da rigorosa coerenza con le risultanze processuali, consente senza tèma di dubbio, di ritenere provata l’esistenza di un’attività, posta in essere dall’imputato Cusimano Antonio, finalizzata comunque a coartare la volontà dello Scalici nella libera scelta di un contraente presso cui acquistare i materiali che allo stesso erano necessari per l’espletamento della sua attività edilizia. 165 Incidentalmente, per rispondere ad analoga obiezione dell’appellante, è appena il caso di rilevare che il nominativo del Priano compare nella cennata serie di intercettazioni soltanto un paio di volte, ed al limitato fine di fungere da luogo di ritrovo per imprenditori, collusi con l’associazione mafiosa e non, e “uomini di onore”. D’altra parte, i rapporti di carattere economico con lo Scalici, sono stati ammessi dallo stesso imputato, il quale dopo avere premesso di essere titolare, unitamente ai suoi fratelli, di un’impresa che produceva manufatti in pomicecemento, sita nella via Vergine Maria, attualmente inattiva, alle dipendenze della quale lavoravano circa quaranta operai, ha affermato che l’acquisizione della commessa dell’imprenditore Antonino Scalici per la fornitura di materiale edile, aveva rappresentato per lui la certezza di impegnare la struttura produttiva dell’azienda per i successivi due anni, in quanto si trattava di un lavoro di rilevante entità. Condivisibile appare, infine, il richiamo operato dal Tribunale alle propalazione dei “collaboranti” Nuccio Antonino, Spataro Maurizio, Francese Francesco e Onorato Francesco, i quali, ancorché non siano stati in grado di riferire alcunché in relazione allo specifico thema probandum (estorsione ai danni dello Scalici), tuttavia hanno fornito indicazioni di notevole interesse, utili a delineare lo spessore criminale dell’imputato ed a costituire elementi di valutazione ex art. 133 c.p. Ritiene la Corte, in definitiva, di dovere condividere l’assunto del Tribunale, secondo cui dalla organica disamina del contenuto delle registrazioni ambientali e telefoniche riversate nel compendio istruttorio, risulterebbe evidente che il Cusimano cercò insistentemente il contatto con Nino Pipitone, nel tentativo di ottenere dal nipote del reggente della “famiglia” mafiosa di Carini, con il decisivo appoggio di Di Blasi Francesco, il via libera per la fornitura di materiale edile all’impresa dello Scalici, e che l’intervento richiesto ai Pipitone, diretto a difendere le ragioni del Cusimano nell’attribuzione della fornitura, raggiunse l’effetto desiderato, in quanto l’imputato ottenne una parte della commessa. 166 Parimenti va condivisa l’affermazione secondo cui la condizione di assoggettamento dello Scalici non può essere revocata in dubbio, in quanto la pressione esercitata sull’imprenditore dal Cusimano, mediante l’interposi- zione di esponenti mafiosi appartenenti a varie “famiglie” del “mandamento” di San Lorenzo (il Di Blasi di Pallavicino e i “cristiani” di Carini), ebbe a privarlo di ogni autonomia nella scelta dei fornitori e lo costrinse a subire decisioni alle quali egli rimase totalmente estraneo. Ritiene, tuttavia, la Corte che nella specie, ancorché la questione non abbia costituito oggetto di specifico motivo di gravame, che pur risultando provata la materiale condotta del Cusimano, il reato allo stesso ascrivibile, più correttamente configurabile nella specie è quello di violenza privata aggravata, e non già di estorsione. Invero, i poteri di cognizione e di decisione del giudice di appello (art. 597 c.p.p.) comprendono, oltre ai capi della sentenza esplicitamente impugnati, quelli che, sebbene non investiti in via diretta con i motivi di gravame, risultino tuttavia ad essi legati con un vincolo di connessione essenziale logico-giuridica (Cass. Pen. Sez. VI, 4.11.1993, Teti). Ne consegue che, una volta richiesta l’assoluzione da un dato reato, ben può il giudice, qualora ritenga di dovere respingere detta richiesta, pronunziare condanna per un reato meno grave, qualora di esso sussistano gli elementi costitutivi, e pertanto, per effetto dell’anzidetta derubricazione, applicare una pena più mite. Tanto premesso, osserva la Corte che, secondo il consolidato orientamento della S.C., il reato di estorsione e quello di violenza privata, pur avendo in comune l'uso della violenza e della minaccia per costringere il soggetto passivo a un comportamento commissivo od omissivo, si differenziano per l'elemento materiale, qualificato nell'estorsione dall'ingiustizia del profitto con altrui danno, e per l'elemento psicologico, caratterizzato nell' estorsione dalla consapevolezza di usare violenza e/o minaccia, dirette a costringere il soggetto passivo a fare od omettere qualcosa, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (Cass. Pen. Sez. I, 25 settembre 2007, n. 40494). 167 Vedasi pure Cass. Pen. Sez. II, 27 febbraio 2007, n. 15077: “L' estorsione , la quale è un tipico delitto contro il patrimonio, costituisce un titolo specifico di violenza privata, che è un delitto contro la libertà morale, differenziandosi da questa, di cui presenta tutti i requisiti, per l'elemento dell'ingiusto profitto con danno altrui che nell'estorsione costituisce il dato caratteristico dell'azione e il momento consumativo del reato”. Ed ancora: “Il delitto di estorsione costituisce ipotesi speciale rispetto al delitto di violenza privata, fungendo da elementi specializzanti, oltre al conseguimento di un ingiusto profitto, il correlativo danno per la persona offesa” (Cass. Pen. Sez. I, 10 giugno 1997, n. 7856). Ora, nella specie, pur essendo pacifico che il Cusimano ha ottenuto la commessa (o meglio parte di essa) dallo Scalici, mercé le condotte intimidatorie spiegate dai suoi amici, tutti “uomini d’onore” appartenenti ad importanti “famiglie” del Palermitano, e pur essendo altrettanto pacifico che egli ha ricavato dall’anzidetta attribuzione un vantaggio valutabile sicuramente in termini patrimoniali, posto che ha potuto continuare la sua attività per altri due anni, e così retribuire i quaranta operai che vi lavoravano; non altrettanto pacifica è l’esistenza del danno che allo Scalici sarebbe derivato da tale illecita condotta. E’ jus receptum, infatti, che il danno che contraddistingue il delitto di estorsione debba rivestire una connotazione di carattere patrimoniale e, pertanto, consistere in una effettiva deminutio patrimonii (cfr. Cass. Pen. Sez. I, 27 ottobre 1997, n. 9958). E nel caso in esame non è dato rilevare, alla stregua degli atti acquisiti al procedimento, alcun elemento che induca a ritenere che lo Scalici, in dipendenza della scelta forzata dell’imputato quale contraente nel rapporto di fornitura in contestazione, abbia subito un danno valutato in termini di patrimonialità, come si sarebbe verificato, ad esempio, nel caso in cui egli avesse dovuto pagare i materiali acquistati dall’impresa di cui era titolare l’imputato ad un prezzo superiore rispetto a quello comunemente praticato da imprese esercitanti analoga attività, o comunque, a prescindere dai 168 prezzi di mercato, anche di poco superiore a quello che avrebbe potuto ottenere da una ditta diversa. E’ innegabile, ovviamente, in capo allo Scalici, l’esistenza del pregiudizio morale, consistente nel non potere operare liberamente la scelta dell’altro contraente. D’altra parte, il reato di violenza privata, che tutela la libertà morale, costituisce titolo generico e sussidiario rispetto al reato di estorsione e rispetto ad altre ipotesi delittuose che contengono come elemento essenziale la violenza o la minaccia alle persone. Esso si risolve nell'uso della violenza - fisica o morale - per costringere taluno ad un comportamento commissivo od omissivo ed, atteso il suo carattere generico e sussidiario, resta escluso, in base al principio di specialità, allorché la violenza sia stata usata per uno dei fini particolari previsti da altre figure criminose che presentino la violenza o la minaccia come loro elemento costitutivo (cfr. Cass. Pen. Sez. I, 22.3.1988, n. 10534). Alla stregua delle anzidette considerazioni, il fatto ascritto a Cusimano al capo 10 della rubrica deve essere riqualificato nel delitto di cui all’art. 610 c.p., aggravato ai sensi dell’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 151, essendo ravvisabile nella specie, anziché il delitto di estorsione aggravata contestato, quello di violenza privata aggravato ai sensi della cennata disposizione, essendo stato pur sempre commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis. Va, pertanto, rideterminata la pena a carico dell’imputato in quella che si ritiene equa ex art. 133 c.p. di anni quattro di reclusione (pena base ex art. 610 c.p. anni due e mesi otto, aumentata ex art. 7 D.L. 151/1991 di un anno e mesi quattro). 2-4 – L’APPELLO NELL’INTERESSE DI CURULLI VINCENZO E DI IAQUINOTO GIORGIO. 169 Con il primo motivo del proposto gravame l’appellante Curulli Vincenzo assume che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere la di lui responsabilità, dal momento che dalla compiuta istuttoria nessun elemento sarebbe emerso a suo carico per i fatti per cui è processo. Secondo l'originaria accusa, il Curulli era stato chiamato a rispondere dei reati di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. “per avere concorso ab externo all'associazione criminale denominata “cosa nostra” (capo 2 della rubrica), nonché degli artt. 81 cpv, 110, 648 bis, 648 ter c.p. ed art. 7 D.L. 13.05.1991 n° 152, conv. con modif. nella legge 12.07.1991 n° 203, per il delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita. Il Tribunale, in sentenza ha dichiarato la responsabilità del Curulli solo per il reato di “impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita”, assolvendolo dalle rimanenti originarie imputazioni. Il Curulli, invece, andava assolto da tutte le imputazioni contestategli con la più ampia formula, atteso che le intercettazioni ambientali nel deposito di tale Gottuso Salvatore avrebbero creato non pochi dubbi circa l’esatta individuazione del soggetto di nome Enzo citato nella conversazione intercorsa tra il Gottuso stesso ed altri soggetti. Gli interlocutori, nel corso della conversazione dell’8 ottobre 2002, alle ore 9.58, parlavano, infatti, di un tale Enzo la cui figlia era fidanzata con il figlio di Pipitone Antonino, e che viveva in un’abitazione locata da potere del medesimo Pipitone. E nel corso del dibattimento si sarebbe avuto modo di dimostrare che nessuna delle figlie dell'appellante aveva mai intrattenuto rapporti con i figli di Pipitone Antonino e che mai il Curulli aveva abitato in immobili a tale soggetto intestati e/o riconducibili. Ciò avrebbe dimostrato che il soggetto di nome Enzo citato nella conversazione dagli intercettati era persona diversa dall’appellante. Inoltre, nessuna valenza probatoria avrebbe potuto assumere l’intercettazione telefonica del 9.5.2003, alle ore 14.13, intercorsa tra Vitale Fortunato, 170 detto Roberto, impiegato della “Giellei Electrotrading s.r.l., e la di lui moglie Sivana. Secondo il Tribunale, detta intercettazione avrebbe permesso di confermare che il vero “padrone” della Socetà “Giellei” sarebbe stato Di Maggio Antonino, detto “Zio Nino”. Tale deduzione, però, sarebbe stata frutto di una errata lettura della trascrizione integrale dell’intercettazione. Infatti, una lettura attenta della stessa avrebbe fatto comprendere come ci si trovasse in presenza di una animata discussione tra coniugi, e quando si parlava del mancato pagamento della retribuzione mensile spettante a Vitale For- tunato, questi avrebbe negato qualunque coinvolgimento del Di Maggio nel pagamento degli emolumenti ai dipendenti. Anche l’intercettazione ambientale nell'autovettura del Pipitone Vincenzo del 24.11.2003 ad ore 17.13 avrebbe meritato una lettura diversa da quella data dai Giudici di primo grado, anche perché sarebbe stata ampiamente e logicamente spiegata, oltre che dallo stesso appellante nel corso del proprio esame, anche da documentazione prodotta dai difensori nel corso del dibattimento. Durante tale intercettazione, il Pipitone Vincenzo, dialogando con il di lui cognato Di Maggio Antonino, affermava di avere dato soldi al Curulli per aiutarlo a superare una grave situazione debitoria della società. Tale episodio sarebbe stato ampiamente spiegato dall'appellante. Infatti, la Società “Giellei”, nel corso del 2003, avrebbe ricevuto due istanze di fallimento da parte della Società Merloni S.p.a., e poiché versava in difficoltà economiche, il Curulli aveva pensato di chiedere un prestito a titolo personale al Pipitone Vincenzo, al fine di estinguere il proprio debito nei confronti della Società Merloni S.p.a. A dimostrazione di tale realtà, la difesa dell'appellante aveva prodotto sia le istanze di fallimento sopra citate, sia il decreto reso dal Tribunale di Palermo - Sez. Fallimentare - di rigetto di dette istanze. 171 Come avrebbe chiarito il Curulli durante il proprio esame, egli avrebbe chiesto tale prestito al Pipitone Vincenzo perché quest'ultimo in paese ostentava una certa ricchezza, ed in quel periodo, per quanto a conoscenza del Curulli, non risultava coinvolto in inchieste di mafia. Detto prestito, tuttavia, non sarebbe stato mai interamente restituito al Pipitone a causa del precipitare del dissesto economico della Società Giellei. Per tale motivo il Di Maggio Antonino, dipendente della Giellei, avrebbe seguito attentamente le sorti economiche della società, sia per tutelare le proprie retribuzioni, sia per tutelare il credito vantato dal di lui cognato, Pipitone Vincenzo. Tra l'altro, i rapporti tra il Di Maggio, il Pipitone ed il Curulli sarebbero già stati ampiamente approfonditi e valutati positivamente dal Tribunale di Palermo - Sezione Misure di Prevenzione - che, nel 2004, come da documentazione prodotta in sede di istruttoria dibattimentale, aveva rigettato la proposta di applicazione di misure patrimoniali e personali, ritenendo del tutto legittimi i rapporti tra detti soggetti, riconducibili a meri rapporti di lavoro dipendente, e perciò privi di profili illeciti. Anche il rag. La Porta Girolamo, consulente esterno della Società Giellei, aveva confermato che il credito vantato dal Di Maggio nei confronti della Società derivava da retribuzioni maturate e non percepite. Tutte le altre propalazioni formulate dal La Porta durante il suo esame testimoniale altro non sarebbero state, come era stato affermato dallo stesso teste, che mere supposizioni personali, prive di qualunque riscontro fattuale o documentale. Tali ipotesi e deduzioni sarebbero state, tuttavia, ampiamente smentite dall'appellante durante il proprio esame, attraverso spiegazioni logiche e coerenti, Anche le numerose operazioni bancarie sarebbero state giustificate dall'appellante, con motivazioni e argomenti che avrebbero trovato riscontro anche nelle dichiarazioni del teste La Porta. 172 Il Curulli al riguardo aveva dichiarato che giornalmente per creare la copertura a fronte di assegni bancari emessi dalla Soc. Giellei, venivano versati in banca assegni di cortesia emessi da terzi soggetti, ai quali veniva consegnato un assegno di pari importo. Oppure, si monetizzavano assegni circolari di altri Istituti di credito, e con la valuta si emettevano altri assegni a favore di altri soggetti. Dette operazioni, tuttavia, non avrebbero costituito nulla di illecito. Con il secondo motivo l’appellante assume che, in ogni caso, se l'imputazione era quella di avere utilizzato denaro, beni o utilità di provenienza illecita, si poteva concludere, senza tema di smentita, che la Procura della Repubblica, all'esito della compiuta istruttoria, non avrebbe fornito alcuna prova a sostegno di tale accusa. Infatti, l'estrema genericità del capo di imputazione così come formulato nel rinvio a giudizio, sarebbe rimasta tale, non essendo emerso quale denaro, quale bene, o quale altra utilità il Curulli avrebbe utilizzato nella Società Giellei. L'unica somma di denaro richiesta dal Curulli al Pipitone Vincenzo, sarebbe stata motivata da una urgente necessità, ossia quella di estinguere due istanze di fallimento. Con il terzo motivo rileva che, se il Pipitone avesse elargito denaro proprio o di altri, di provenienza lecita o illecita, di ciò il Curulli non avrebbe potuto avere consapevolezza alcuna. Per tale motivo doveva essere esclusa l'aggravante di cui all'art. 7 D.L. 13.5.1991 n° 152, conv. con modif. nella legge 12.07.1991 n° 203, attesa la mancata consapevolezza circa la provenienza del denaro ricevuto dal Pipitone. L’appellante Iaquinoto Giorgio, la cui posizione è stata esaminata nella sentenza impugnata congiuntamente a quella di Curulli Vincenzo, assume, con il primo complesso motivo del proposto gravame, che il Tribunale avrebbe dovuto assolverlo dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste. 173 Rileva preliminarmente che nel capo d’imputazione erano stati contestati in origine, congiuntamente, i delitti di cui all'art. 648 bis e 648 ter, e che nella sentenza impugnata era stato ritenuto configurabile, in concreto, il delitto di reimpiego di denaro di provenienza illecita in attività economica finanziaria (648 ter cp), sostenendosi che l’appellante, nella qualità di apparente socio unico ed amministratore della G.L.I. Electro Trading S.r.l., avrebbe concorso in tale reato. Rileva poi che la sentenza aveva evidenziato come nel maggio 2001 fosse stato accertato che un’utenza cellulare intestata a Iaquinoto era in uso a tale Sirchia Giovanni, esponente della “famiglia” mafiosa di “Passo di Rigano”, ma che, tuttavia, l’imputato aveva reso dichiarazioni spontanee, precisando che in quel periodo acquistava all'ingrosso telefoni cellulari della Telecom, le cui schede erano già attivate a suo nome e restavano tali fino al momento della prima ricarica; e che anche nel 2002 era stato convocato dalla Questura di Ragusa per una scheda a lui intestata, che era stata utilizzata su un telefono rubato ed anche in quel caso era stata esclusa ogni sua responsabilità. Per quel che concerne il giro di assegni fra le banche di Carini e di Acireale, accertato dalla Guardia di Finanza, vale a dire tra banche situate a centinaia di chilometri di distanza, assune che la produzione difensiva avrebbe comprovato la puntuale coincidenza tra gli importi provenienti dagli assegni di conto corrente emessi sulla Banca di Acireale e gli importi degli assegni circolari emessi a distanza di poche ore o tutt’al più il giorno dopo dalla Banca di Carini. Peraltro, la prassi dello scambio di assegni di pari importo tra i due conti correnti, avrebbe avuto il solo scopo di creare liquidità temporanea, ed era stata confermata dai testi della difesa Meli Illuminato, Candela Edoardo, Leto Fabio, a parte che anche il “collaborante” Pulizzi aveva confermato di avere operato attraverso il proprio conto corrente personale, uno scambio di assegni alla pari con la G.L.I. S.r.l. effettuato allo scopo di creare liquidità immediata per la suddetta società. 174 Inoltre, considerato che il Pulizzi aveva ricoperto la carica di reggente della “famiglia” di Carini, sarebbe stato possibile affermare che se la G.L.I. s.r.l. fosse stata utilizzata per riciclare o reimpiegare sostanze provento di estorsioni o traffici illeciti, certamente il collaboratore ne sarebbe stato a conoscienza, non si sarebbe fatto ricorso allo scambio di cortesia di assegni bancari, e la società non avrebbe versato in situazioni di precarietà economica e non sarebbe stata dichiarata fallita nel 2005. Il teste La Porta Girolamo, escusso ai sensi dell'art. 210 c.p.p., aveva riferito in maniera dettagliata le modalità con le quali avveniva lo scambio di assegni alla pari per far fronte alle esigenze di liquidità della società, consentendo di guadagnare 4/5 giorni di tempo necessari per la compensazione tra la Banca di Villagrazia di Carini e quella di Acireale. Il Tribunale avrebbe riconosciuto che la produzione documentale difensiva, le deposizioni testimoniali (prima fra tutte quella del Brigadiere Muscia) e le dichiarazioni degli imputati di reato connesso avrebbero accreditato la tesi difensiva secondo la quale le movimentazioni anomale effettuate da Iaquinoto in un ristretto arco temporale (tra il 16 marzo 2000 e il 23 giugno 2000) corrispondessero ad una mera partita di giro tra i conti corrente interessati, tuttavia aveva affermato che tale circostanza non escludeva la configurabilità del delitto di cui all'art. 648 ter c.p., considerando che Di Maggio e Pipitone avrebbero conferito ingenti risorse finanziarie di origine illecita (senza indicare quando, in che misura e con quali modalità) nel capitale della G.L.I. S.r.l.. Tale conclusione, a parere della difesa, sarebbe in contrasto con le risultanze acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale e con la configurazione giurìdica del reato de quo. Infatti, con la previsione dell'art.648 ter c.p. il legislatore ha voluto sanzionare una fase ulteriore e successiva a quella vera e propria del riciclaggio e cioè l'anello terminale sfociante nell'investimento produttivo dei proventi di origine illecita; tale condotta di impiego presupporrebbe che la fase di ripulitura del denaro sia già avvenuta e che l'agente impieghi in attività economico-finanziarie il 175 capitale, consapevole della sua provenienza delittuosa e dell'avvenuta ripulitura da parte di altri. Nel corso dell'istruttoria dibattimentale, a carico dello Iaquinoto sarebbe emerso un ruolo del tutto differente da quello sopra descritto. Infatti, all'udienza del 7.5.2008 l'Ispettore Castrogiovanni Rosario della Squadra Mobile di Palermo aveva affermato che le indagini espletate avevano indotto a ritenere che lo Iaquinoto fosse formale intestatario della G.L.I. S.r.l. e che il potere decisionale risiedesse nelle mani di Di Maggio Antonino e Pipitone Vincenzo; all'udienza del 9.5.08 il “collaborante” Pulizzi Gaspare aveva riferito che Iaquinoto Giorgio era formalmente titolare della società e che soci occulti della medesima erano il Curulli, il Di Maggio ed il Pipitone; ed all'udienza del 21.5.08 il “collaborante” La Manna Angelo aveva riferito che Iaquinoto Giorgio era un prestanome del Di Maggio e del Pipitone, i quali avevano interessi economici nella società. All'udienza del 28.5.08 l'indagato di reato connesso La Porta Girolamo, consulente della società dalla data di costituzione in poi, aveva riferito che all'interno della G.L.I. s..r.l il Curulli e il Di Maggio avevano una quota di fatto, circostanza che non gli era stata comunicata da nessuno, ma da lui compresa perché vedeva l’andamento della situazione. All'udienza del 2.7.08 il capitano Ape aveva riferito che Iaquinoto Giorgio risultava solo cartolarmente rappresentante legale della G.L.I. Srl. Da ciò sarebbe conseguito che la condotta dell'appellante non concretizzava gli estremi del reimpiego di risorse finanziarie già riciclate, e lo Iaquinoto sarebbe dovuto essere mandato assolto dalla contestazione di cui all'art.648 ter cp. In linea subordinata, ha osservato che il Tribunale avrebbe dovuto qualificare diversamente il delitto contestato, considerando integrata la diversa fattispecie di cui all'art. 12 quinquies L.356/92 e cioè la condotta del soggetto cui viene attribuita la titolarità di un bene altrui, in una situazione di apparenza giuridica e formale. 176 D'altra parte, se l'istruttoria dibattimentale aveva confermato l'esistenza di un interesse concreto del Di Maggio e del Pipitone all'andamento della società, nel contempo ha consentito di accertare che la stessa versava in una grave crisi di liquidità (che la portò al fallimento). Tale dato si sarebbe posto in oggettivo contrasto con la tesi accusatoria dell'utilizzo della G.L.I. come canale di reimpiego o di riciclaggio di ingenti somme di denaro di provenienza illecita. I giudici di primo grado avrebbero dato per scontata la circostanza (non dimostrata) che se il Di Maggio ed il Pipitone erano interessati all'andamento della società, essi avevano investito nella stessa somme di sicura provenienza illecita; viceversa, il dato processuale che emergeva sarebbe stato quello della possibile qualità di soci occulti della GLI srl., di cui risultava, formalmente titolare soltanto lo Iaquinoto. Nel contempo, i sintomatici movimenti bancari ritenuti sospetti o comunque di riciclaggio o reimpiego avrebbero costituito oggetto di chiarimento documentale e testimoniale, grazie anche al contributo dei testi dell'accusa. Pertanto sarebbero rimasti indimostrati tempi, entità e modalità dell'investimento illecito ipoteticamente riconducibile al Di Maggio e al Pipitone. Con il secondo motivo, anche lo Iaquinoto assume, in via subordinata, che iI Tribunale avrebbe dovuto escludere, in ordine al reato alui contestato, l'aggravante di cui all'art.7 D.L. 152/91, ovvero applicarla nella misura minima, concedendogli in ogni caso le circostanze attenuanti generiche. Infatti, alla pagina 444 della sentenza impugnata, il Tribunale aveva motivato la configurabilità dell'aggravante ad effetto speciale di cui all'art.7 del D.L. 152/91 con un lapidario riferimento alla finalità di avvantaggiare esponenti di vertice della “famiglia” mafiosa di Carini. In tal modo i primi giudici avrebbero aderito a quel minoritario e meno recente orientamento di legittimità secondo cui, allorché la condotta di agevolazione sia posta in essere a vantaggio di un esponente di spicco della 177 struttura di tipo mafioso, essa avrebbe, per ciò solo, una diretta influenza sull'esistenza dell'organismo criminale. Al contrario, l'orientamento assolutamente prevalente della Corte di legittimità ha chiarito che la condotta agevolatrice posta in essere a favore di un personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non determina automaticamente, in ragione esclusivamente dell'importanza di questo soggetto all'interno dell'associazione e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, la sussistenza dell'aggravante. Quest'ultima, infatti, è ravvisabile soltanto nel caso in cui si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all'agevolazione dell'attività posta in essere dall'organizzazione criminale. E' quindi necessario distinguere l'aiuto prestato alla persona da quello prestato all'associazione, potendosi ravvisare l'aggravante solo quando si accerti (e si motivi) la oggettiva funzionalità della condotta all'agevolazione dell'attività posta in essere dall'organizzazione criminale. Ai fini della corretta applicazione dell'aggravante sarebbe stato quindi indispensabile verificare se ed in quale misura il soggetto agente avesse inteso fornire un reale aiuto o vantaggio al sodalizio criminale o, per esso, ad uno dei suoi esponenti apicali. A tal fine sarebbe stato “indispensabile accertare i concreti tratti esteriori del comportamento criminoso che ne connotano l'ascrizione alla dinamica mafioso (nella duplice valenza metodologica o agevolatrice) e che - quanto alla modalità di agevolazione (aggravante ed. soggettiva) - deve necessariamente radicarsi nella dimostrazione, in chiave di evidenziazione di idonei tratti indiziari o sintomatici di una univoca cosciente finalizzazione agevolatrice della condotta antigiuridica del soggetto agente” (Cass. VI, 3 novembre 2008, D'Andrea). Di tanto non vi sarebbe traccia nella impugnata sentenza, che si sarebbe limitata a dare assiomaticamente per coincidente e sovrapponibile la 178 condotta agevolatrice del singolo esponente criminale con quella in ipotesi prestata in favore dell'associazione. Del resto, una diversa interpretazione della norma -quale quella fatta propria dai giudici di merito- finirebbe per configurare l'aggravante di cui all'art. 7 L. 203/91 come una sorta di circostanza “ambientale o locale”, impossibile da eludere in realtà territoriali ad elevata infiltrazione mafìosa. In ogni caso, l'aumento di pena previsto dall'aggravante ad effetto speciale poteva essere applicato dal Tribunale nella misura minima di un terzo della pena base. Avuto infine riguardo ai parametri di cui all'art. 133 cp, alla ridotta operatività della G.L.I. Electrotrading srl , al ruolo del tutto secondario attribuito in sentenza all'odierno appellante, il Tribunale avrebbe dovuto concedere le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis cp. Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, rivestendo gli imputati sostanzialmente la medesima posizione processuale, ove si eccettui la formale qualifica di amministratore della G.L.I. rivestita dallo Iaquinoto, mentre il Curuli aveva veste, almeno all’apparenza, di semplice dipendente, non appaiono - salvo per quanto si dirà in ordine all’aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 152/1991 - accoglibili. Come è stato evidenziato dai primi Giudici, nell’odierno giudizio la vicenda della “Giellei Electro Trading” rileva per le posizioni degli imputati Curulli e Iaquinoto, accusati di avere contribuito a vario titolo, unitamente a Cardinale Michele e Vitale (separatamente giudicati con il rito abbreviato), a convertire denaro di provenienza illecita utilizzandolo nell’ambito della predetta attività d’impresa, in tal modo agevolando gli investimenti occulti del Pipitone e del Di Maggio. Al fine di evidenziare i ruoli e le responsabilità degli odierni imputati, gli stessi hanno ritenuto necessario fare riferimento a quanto è emerso dalle indagini svolte dalla Squadra Mobile della Questura e dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo sulle attività dello Iaquinoto 179 e del Curulli, nonché sui loro collegamenti con esponenti mafiosi di Carini e di altre zone. Hanno così acclarato che Iaquinoto Giorgio, amministratore unico della società - che operava nel settore del commercio all’ingrosso e al dettaglio di articoli elettronici ed elettrodomestici - era un personaggio noto agli inquirenti, già prima che nel 2003 si sviluppassero le indagini sugli appartenenti alla cosca di Carini; nel maggio del 2001 era stata infatti richiesta l’intercettazione di comunicazioni su una utenza radiomobile intestata allo Iaquinoto, ma in uso a Sirchia Giovanni, esponente della “famiglia” mafiosa di “Passo di Rigano” ritenuto vicino a Lo Piccolo Salvatore, capomandamento di San Lorenzo, all’epoca latitante. Nel corso di una conversazione intercettata all’interno del deposito di Gottuso Salvatore alle ore 9,58 del giorno 8 ottobre 2002, lo stesso Gottuso, dialogando con un interlocutore non identificato, diceva che avrebbe dovuto recarsi a Carini per parlare con tale “Enzo”, ancorché avesse poi rimandato la trasferta, allarmato dalla notizia dell’arresto di Maltese Umberto. La conversazione offriva preziosi elementi conoscitivi, che avrebbero consentito di giungere all’identificazione di “Enzo” e, nello stesso tempo, di documentarne la contiguità ai Pipitone di Carini; in primo luogo, la notizia che la figlia di “Enzo” era fidanzata con il figlio di “Nino” Pipitone, indicato come il vero “padrone” della società. Gli organi inquirenti accertavano in realtà, a parte il lapsus in cui il Gottuso era ioncorso, nell’attribuire a Pipitone Vincenzo il nome del figlio Antonino, e viceversa, che effettivamente Pipitone Antonino era stato fidanzato con Curulli Ida, figlia dell’imputato; e si appurava, inoltre, che il Curulli aveva quattro figli, di cui due di sesso femminile, come era stato precisato dal Gottuso. Nel corso di un colloquio avvenuto il 21 dicembre 2001 all’interno dell’autovettura di Landolina Pietro (tratto in arresto all’esito dell’operazione “Piana dei Colli”, il Gottuso riferiva al predetto Landolina 180 di vantare un credito di trenta milioni di lire nei confronti di Enzo Curulli, indicato come un commerciante di elettrodomestici. Alla stregua della successiva attività di indagine svolta dalla Polizia di Stato e dalla Guardia di Finanza, si accertava che nel maggio del 2003 l’elenco del personale impiegato presso la sede di Carini della “Giellei Electro Trading” comprendeva Candela Edoardo, con mansioni di autista; Pipitone Antonino, con mansione di magazziniere; Di Maggio Giovanni (figlio di Antonino), con mansioni di generico; Di Maggio Antonino, con mansioni di responsabile commerciale; Pipitone Francesca e Curulli Vincenzo. La presenza di Di Maggio Antonino, di un suo familiare e dei figli di Pipitone Vincenzo configurava un primo dato di rilevante interesse investigativo, rafforzato dal contenuto di una conversazione telefonica avvenuta il 9 maggio 2003, alle ore 14,13, tra un impiegato di nome “Roberto” - identificato in Vitale Fortunato, ragioniere addetto alla tenuta della contabilità - e sua moglie Silvana, dalla quale risultava che era in realtà lo “Zù Nino” Di Maggio - e non l’amministratore unico Iaquinoto - a prendere le decisioni inerenti il pagamento delle retribuzioni. Due successive conversazioni, captate all’interno dell’autovettura “Jaguar” in uso a Pipitone Vincenzo ed intercorse tra lo stesso Pipitone e il Di Maggio, contribuivano a rendere più chiaro il quadro della vicenda e la cointeressenza nella società dei due esponenti di vertice della cosca mafiosa di Carini. Nel corso della prima il Pipitone, alla presenza di un altro soggetto non identificato, prospettava al Di Maggio l’opportunità di chiudere l’attività commerciale; il Di Maggio, dal canto suo, ipotizzava la possibilità di effettuare, prima della chiusura, ordinativi di merce per importi elevati con pagamenti dilazionati nel tempo, in frode ai fornitori. Nel corso della seconda, il Pipitone e il Di Maggio, nel discutere dell’andamento della società, accusavano apertamente il Curulli e lo Iaquinoto di avere sottratto dalla cassa sociale ingenti somme di denaro, ed il Pipitone suggeriva, quindi, al Di Maggio di chiedere la dichiarazione di fallimento, 181 per cercare di recuperare almeno una parte delle somme investite nella società stessa, così rivelando un loro interesse personale e diretto alla situazione finanziaria della società, incompatibile sia con il ruolo formale di magazziniere del Di Maggio, sia con la posizione del Pipitone che, almeno in apparenza, era del tutto estraneo all’assetto di essa. Ulteriore conferma del fatto che nella Giellei Electro Trading era stato investito denaro del Pipitone e del Di Maggio era stata fornita da una ulteriore intercettazione intercorsa all’interno del deposito di ceramiche del Gottuso, tra quest’ultimmo e tale Musso Giuseppe. I due menzionavano tale Gelsomino, Di Maggio Antonino, Curulli Vincenzo e tale Masucci, in relazione ai guadagni legati all’acquisto di grosse partite di telefoni cellulari e ai gravi danni economici arrecati dal Curulli ai mafiosi di Carini, danni consistiti in un “buco” di dieci miliardi di lire. Altri elementi valorizzati dal Tribunale sono costituiti dalle indagini svolte dal Capitano della Guardia di Finanza Antonio Ape, in servizio, all’epoca degli accertamenti di p.g., al Nucleo Speciale di Polizia Valutaria di Palermo, il quale aveva riferito di operazioni bancarie sospette, intercorse tra una banca di Carini ed una banca di Acireale, relative ad una cospicua movimentazione di capitali, formalmente riconducibili allo Iaquinoto, effettuata da quest’ultimo nel breve periodo di tempo intercorso tra il marzo e il giugno del 2000. In tale periodo, la filiale di Carini della Banca Mercantile (che in seguito assunse la denominazione di Banca Popolare di Lodi) aveva emesso vari assegni circolari richiesti, a fronte di versamento di denaro contante, dallo stesso Iaquinoto, da Curulli Vincenzo e dal figlio Pietro, per un importo complessivo di 328.418 euro. Gli assegni circolari erano stati versati sul conto corrente intrattenuto dallo Iaquinoto presso la filiale di Acireale della Banca Popolare di Santa Venera, e sullo stesso conto erano stati poi versati assegni bancari per un importo di 163.503 euro e denaro contante per un importo complessivo di 178.384 182 euro. Era stato poi accertato che lo Iaquinoto, una volta raccolta la provvista con le modalità anzidette, aveva emesso assegni bancari in favore di dipendenti della Giellei Electro Trading, ovvero di soggetti che gravitavano attorno alla figura del Curulli; si trattava, in particolare, di Leto Fabio, Candela Edoardo Vincenzo, Cocuzza Gabriella, Vitale Fortunato, Tarantino Salvatore, Riggio Antonino, Pipitone Antonino, Pipitone Francesca, Lunetta Antonia, Curulli Pietro e lo stesso Curulli Vincenzo. Altri assegni bancari erano stati emessi in favore di due società, cioè la Ellei Trasporti s.a.s. di Curulli Pietro, e la stessa Giellei Electro Trading (nata a seguito della cessazione della Ellei Trasporti), di cui lo Iaquinoto era amministratore unico. Di Maggio Antonino e Di Maggio Giovanni erano statti entrambi assunti successivamente a tali movimentazioni bancarie, il 16.4.2002. Erano state poi approfondite le indagini sui rapporti commerciali esistenti tra la Giellei Electro Trading e due società operanti a Catania, denominate Keletron s.r.l. e CMA Trading s.r.l., già oggetto di indagini da parte della Procura della Repubblica di Catania, essendo stati gli amministratori denunciati per emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. Si era accertato, in particolare, che dopo il versamento nella banca di Acireale degli assegni circolari, lo Iaquinoto aveva emesso assegni in favore delle due società per un importo complessivo di circa 100.000 euro; tuttavia, dall’esame della documentazione bancaria era emerso che la prima girata di tali assegni era stata effettuata in bianco; il nominativo del soggetto che aveva posto gli assegni all’incasso era sempre quello di Iaquinoto Giorgio, che così rientrava nella disponibilità delle somme fittiziamente erogate alle due società in questione; e che il meccanismo descritto rivelava chiaramente che si trattava di due cd. “cartiere”. L’analisi delle scritture contabili della società, poi, aveva rilevato anomali prelevamenti dal conto cassa e dal conto banca in favore dell’amministratore e socio unico Iaquinoto Giorgio, per un importo 183 complessivo di oltre 860 milioni di lire, di cui non risultava la successiva restituzione. Ed altrettanto anomalo risultava l’importo degli interessi passivi corrisposti alle banche, esposto nel bilancio relativo all’anno 2000, importo pari a circa 12.000 euro, irrisorio rispetto al consistente volume di affari della società, pari a circa due milioni di euro. Tale modesto valore, a giudizio del Capitano Ape, avrebbe fatto apparire la Giellei Electro Trading come una società molto solida, che non aveva la necessità di ricorrere al finanziamento bancario per sviluppare l’attività e riusciva a fronteggiare gli impegni finanziari con mezzi propri, contrariamente a quanto si verifica nella comune esperienza commerciale. I primi Giudici hanno poi rilevato che in data 8.2.2001 era stato registrato un atto di compravendita tra la Giellei Electro Trading e Saladino Benedetto, la cui azienda, con sede in Castelvetrano, fu acquisita per un valore dichiarato di circa 38.000 euro e quindi ceduta in data 4.11.2002 per un valore dichiarato di 60.000 euro a Curulli Pietro (figlio di Vincenzo). In data 5.7.2001 era stato registrato un atto di compravendita tra la Giellei Electro Trading e la A.C. Company s.p.a., avente sede in Ragusa, acquistata per un valore dichiarato di oltre 10.000 euro e ceduta in data 4.11.2002 (lo steso giorno in cui fu ceduta la sede di Castelvetrano) per un valore dichiarato di 37.500 euro a Vitale Fortunato, dipendente della stessa Giellei Electro Trading. Esaminando la situazione economica e reddituale dello Iaquinoto e del Curulli negli anni di imposta compresi tra il 1998 e il 2003, gli organi investigativi avevano rilevato un’enorme sproporzione tra il volume delle movimentazioni finanziarie e i redditi dichiarati; in alcuni casi, nello stesso arco temporale, i due odierni imputati non avevano neppure presentato le dichiarazioni dei redditi. Sull’accordo delle parti era stato poi acquisito, ai sensi dell’art. 493 c.p.p., il verbale delle dichiarazioni rese dallo Iaquinoto in data 7.10.2002 (ex art 29 184 del D.P.R. n. 148/1988) circa le operazioni finanziarie della Giellei Electro Trading e i rapporti con le s.r.l. CMA Trading e Keletron. In tale circostanza, questi aveva riferito che nella sua qualità di rappresentante legale della Giellei Electro Trading aveva acquistato un’attività commerciale sita in Ragusa dalla “A.C. Company s.p.a.” di Acireale per 25 milioni di lire, nonché un’ulteriore attività commerciale in Castelvetrano da Saladino Benedetto, per un importo pari a 70 milioni di lire; per un periodo di circa 5 o 6 mesi, tra la fine del 2000 e l’estate del 2001 aveva effettuato una serie di anomale operazioni finanziarie con. tale Rinallo Angelo, titolare di una ditta individuale nell’Agrigentino, fallita nel 2001; in particolare il Rinallo, che versava in una situazione di difficoltà finanziaria, non era in grado di onorare gli impegni assunti alle scadenze prestabilite, sicché sovente lo Iaquinoto gli consegnava un proprio assegno (bancario o circolare) di importo pari o inferiore all’importo del quale il Rinallo era debitore; in tal modo quest’ultimo versava l’assegno ricevuto ed evitava il protesto; contestualmente il Rinallo emetteva altri assegni nei confronti dello Iaquinoto con una data successiva e per un importo corrispondente; il Rinallo talvolta corrispondeva merce in pagamento, il cui valore veniva quindi scomputato dall’importo dovuto. In altre occasioni, per favorire il Rinallo, lo Iaquinoto forniva denaro contante o assegni circolari appositamente emessi sul conto della società o sul suo conto corrente personale (a seconda della momentanea disponibilità) della Banca Mercantile di Carini; ed analoghe operazioni finanziarie lo stesso aveva effettuato con i rappresentanti di varie società. Notevole rilevanza è stata attribuita dal Tribunale alle dichiarazioni di La Porta Girolamo, escusso ai sensi dell’art. 210 c.p.p. Questi, dopo avere premesso di essere stato il consulente contabile della Giellei Electro Trading fin dal 1999, anno della sua costituzione, ha affermato che alla compagine sociale partecipavano come soci di fatto sia il Curulli, sia il Di Maggio, i quali formalmente figuravano come impiegati: il pri- mo, essendo stato protestato, non poteva accedere alle linee di credito; 185 il secondo era sicuramente un socio di fatto, alla stregua delle dinamiche aziendali, e, in ogni caso, partecipava alle riunioni con il Curulli e lo Iaquinoto, discutendo con loro tutte le questioni relative alla gestione della società. Quando il Curulli e lo Iaquinoto decisero di abbandonare i trasporti e di dedicarsi al commercio di articoli di elettronica, aprirono un negozio di ingrosso a Carini, nella via dei Limoni; il primo si occupava della vendita, attività in cui era molto capace; il secondo curava prevalentemente la parte amministrativa; a quel tempo la ditta era denominata Ellei ed aveva la forma di una società di persone; fu lo stesso La Porta a consigliare ai due odierni imputati di porre in liquidazione la società e di costituire una nuova società a responsabilità limitata, denominata Giellei Electro Trading. Successivamente furono aperti altri punti vendita a Castelvetrano, a Ragusa e a Mazara del Vallo. Il La Porta ha affermato che, prescindendo dal valore delle giacenze di magazzino – peraltro soggette a una rapida svalutazione per obsolescenza, essendo articoli di elettronica - la società era sostanzialmente in perdita; inoltre, il Di Maggio aveva anticipato circa 30.000/40.000 euro alla società; quest’ultima, durante il periodo di detenzione del Di Maggio, aveva a sua volta corrisposto ai familiari la retribuzione mensile di pertinenza dello stesso Di Maggio, sicché vi era un conto di dare-avere che doveva essere regolato; d’altra parte, anche la moglie e il figlio del Di Maggio erano stati formalmente assunti dalla società. I versamenti periodici al Di Maggio erano stati tutti registrati in una ricevuta; poiché il Di Maggio aveva smarrito tale ricevuta, i suoi soci ne esibirono una copia; ma quando il Di Maggio ritrovò la sua ricevuta e la confrontò con quella esibita dai soci, si rese conto che la copia era stata contraffatta ai suoi danni, e pensò che gli fosse stata sottratta una consistente somma di denaro, di cui richiese la restituzione in quattro rate mensili. 186 Il contrasto venne composto mercé l’intevento di Vincenzo Pipitone, il cui figlio, come si è detto, era fidanzato con la figlia del Curuli, ma la vicenda aggravò la crisi finanziaria della società, e da quel momento fu il Di Maggio a gestire personalmente gli incassi, non fidandosi più degli altri soci. Vincenzo Pipitone, ha soggiunto il La Porta, entrò successivamente nella compagine sociale per rimpinguare le casse della società e fare assumere il figlio Nino, versando a titolo di acconto una somma tra i 25.000 e i 40.000 euro e riservandosi di versare il saldo, non appena avesse venduto un terreno di sua proprietà; anche il figlio del Curulli era stato assunto dalla società e percepiva lo stipendio. Formalmente l’unico socio era lo Iaquinoto, ma in realtà la società era di fatto suddivisa in quattro quote, i cui titolari erano dunque, oltre allo stesso Iaquinoto, il Curulli, il Di Maggio e il Pipitone; in seguito, anche il Pipitone manifestò il suo risentimento, accusando gli altri di avergli venduto solo debiti, ed uscì dalla compagine sociale, forse senza nemmeno recuperare il denaro che vi aveva investito. Alla fine la società fu dichiarata fallita; i punti vendita di Castelvetrano e Ragusa vennero chiusi, mentre il negozio di Mazara del Vallo fu ceduto a terzi. Il Tribunale ha, quindi, esaminato le dichiarazioni dei “collaboranti” Pulizzi Gaspare e La Manna Angelo. Il primo ha riconosciuto l’effigie fotografica dello Iaquinoto, riferendo che era l’amministratore della società Giellei Electro Trading, alla cui compagine partecipavano Enzo Curulli, Nino Di Maggio e, successivamente, anche Enzo Pipitone. Ha ammesso di avere costituito, su richiesta di Pipitone Vincenzo, verso la fine del 2002, un’impresa denominata “Elettronica”, tramite il ragioniere La Porta, all’unico scopo di emettere fatture false in favore della Giellei Electro Trading; in particolare, la “Elettronica” avrebbe acquistato 187 fittiziamente da una ditta di Forlì telefoni cellulari che poi rivendeva alla Giellei Electro Trading. Ha rammentato, poi, di avere messo a disposizione della Giellei Electro Trading il proprio conto corrente personale e quello che aveva aperto come titolare della “Elettronica” per un giro di assegni, effettuato a titolo di cortesia su richiesta del Curulli e dello Iaquinoto. Il collaborante ha mostrato di non avere conservato un ricordo preciso degli esatti termini della vicenda, che era gestita all’interno della Giellei Electro Trading, ma ha dichiarato che si trattava sostanzialmente di uno scambio di assegni alla pari, allo scopo di creare liquidità immediatamente disponibile per la società. Il secondo ha rammentato, per quello che interessa nell’odierna sede processuale, di avere effettuato, tra il 2004 e il 2005, attraverso l’impresa edile di cui era titolare, una fornitura di climatizzatori in favore della Giellei Electro Trading al prezzo concordato di 180.000 euro; che il Curulli, che gli aveva commissionato l’acquisto, tuttavia, gli aveva detto che il denaro sarebbe stato versato da due mafiosi, ai quali lo stesso La Manna avrebbe dovuto offrire una riduzione del prezzo originario: si trattava di Pipitone Vincenzo e di Di Maggio Antonino, i quali si qualificarono come esponenti mafiosi e gli dissero in termini perentori che avrebbero pagato per l’acquisto dei climatizzatori la somma di 60.000 euro, e che, se non avesse accettato, non avrebbe potuto vendere la merce a nessun’altro. Elementi probatori in ordine al reato di che trattasi sono emersi pure dalle dichiarazioni degli imputati. Il Curulli, infatti, ha ammesso esplicitamente la sua partecipazione alla società, affermando di avere dapprima fondato con lo Iaquinoto, negli anni ’90, una società denominata “Risas” di Lunetta Antonina, operante nel settore del trasporto merci; la Lunetta era sua sua moglie, ed era entrata solo formalmente nella compagine sociale, in quanto egli era in attesa di espiare una pena inflittagli nel 1992 in relazione ad una vicenda di natura estorsiva. Nel marzo del 2000, decise con lo Iaquinoto di dare vita alla società Giellei Electro Trading, con sede a Villagrazia di Carini, operante nel settore della 188 vendita all’ingrosso di elettrodomestici; inserendo im luogo della Lunetta, nella compagine sociale il figlio Pietro, nel frattempo divenuto maggiorenne. Ha sostenuto poi che assumeva personalmente, assieme allo Iaquinoto, le decisioni gestionali, di avere successivamente conosciuto Pipitone Vincenzo, cognato del Di Maggio, e che in seguito, nel 2001, sua figlia si era fidanzata con il figlio del Pipitone, a nome Nino, che fu assunto nel punto vendita di Castelvetrano. Ha negato, tuttavia, di avere ricevuto denaro, beni o altre utilità dal Di Maggio, ed ha affermato, quanto al Pipitone, che questi gli prestò a titolo personale quaranta milioni di lire nell’aprile del 2002, in una fase di grave dissesto della società, ancorché tale apporto di liquidità non valse ad evitare la dichiarazione di fallimento. Sull’accordo delle parti è stato acquisito il verbale di interrogatorio del 29.1.2007, di Iaquinoto Giorgio, nel corso del quale l’imputato aveva sostanzialmente negato che il Pipitone e il Di Maggio avessero una compartecipazione nella Giellei Electro Trading. In sede dibattimentale, l’imputato ha precisato che sotto il profilo formale egli era socio del figlio del Curulli (di nome Pietro), ma che in realtà lo stesso Vincenzo Curulli era socio di fatto. Ha aggiunto che alla fine dell’anno 2000, Curulli Pietro era uscito dalla compagine sociale e le quote erano state interamente da lui rilevate. Con riferimento alla intercettazione telefonica della conversazione avvenuta il 9.5.2003 tra “Roberto” e “Silvana”, interpellato specificamente sulla figura dello zio Nino, richiamata nel corpo di tale conversazione, lo Iaquinoto ha precisato che si trattava di Di Maggio Antonino, un altro dipendente della società che svolgeva le mansioni di magazziniere; ed ha quindi affermato che, nella qualità di socio unico e amministratore unico della società, egli stesso assumeva in prima persona tutte le decisioni gestionali e operative. 189 Con riguardo alla conversazione telefonica tra il Di Maggio e il La Porta, intercettata il 6.6.2003, l’imputato non è stato in grado di fornire una spiegazione in ordine a quei passaggi nei quali il Di Maggio interloquiva con il consulente contabile, in modo interessato e partecipe, sulla precaria situazione finanziaria dell’azienda. Soffermandosi sulle modalità di gestione della società, lo Iaquinoto ha sostenuto di non avere mai versato denaro contante alla Banca Popolare di Lodi (filiale di Carini), ma soltanto assegni tratti sul suo conto corrente della Banca Santa Venera di Acireale, che aveva precedentemente aperto poiché in quella zona vi era un suo fornitore; tali assegni, in particolare, erano versati sul suo conto o sui conti dei dipendenti intrattenuti presso la Banca Popolare di Lodi, che emetteva assegni circolari per importi corrispondenti, con i quali venivano coperti gli assegni della Banca Santa Venera; in sostanza il giro di assegni serviva ad acquistare valuta, per tamponare una mancanza temporanea di liquidità. Nel gennaio del 2001 egli, sulla base del consistente fatturato realizzato nell’anno precedente, aveva pensato di aumentare il capitale sociale; e l’aumento era stato regolarmente deliberato, ma poi non venne effettuato alcun versamento di capitale. Fate tali premesse, ritiene la Corte che il convincimento dei primi Giudici sulla colpevolezza di entrambi gli anzidetti imputati in ordine al reato di cuii all’art. 648.ter c.p. debba esse condiviso. Gli stessi hanno osservato che costituisce ormai patrimonio acquisito, sotto il profilo storico e giudiziario, il fatto che la pericolosità dell’organizzazione mafiosa si manifesta in modo particolarmente insidioso nel settore delle attività imprenditoriali. Effettivamente, infatti, l’associazione mafiosa trova più rispondente alle proprie finalità illecite divenire essa stessa imprenditrice, anche per interposta persona, acquisendo aziende già esistenti o costituendone di nuove; ciò non soltanto per investire una ricchezza ab origine inquinata in quanto di provenienza illecita, ma anche allo scopo di accrescere la capacità 190 di penetrazione nel tessuto economico e consolidare così la propria affermazione egemonica sul territorio. Nella specie, alla stregua della compiuta istruttoria, è emerso che l’acquisizione della gestione e del controllo di attività economiche è stata realizzata mediante l’immissione di capitali di derivazione illecita nel circuito finanziario delle attività d’impresa, nonché mediante il ricorso alla interposizione di terzi nella titolarità di tali attività, in realtà riconducibili alla sfera degli interessi patrimoniali di esponenti dell’organizzazione mafiosa. Va condiviso, infatti, il rilievo secondo cui le univoche risultanze dei servizi di intercettazione, valutate unitamente ai concordanti apporti dichiarativi di Pulizzi Gaspare, La Porta Girolamo e di La Manna Angelo, nonché agli esiti delle attività di verifica poste in essere dagli organi investigativi, hanno consentito di accertare che il Curulli e lo Iaquinoto, pienamente consapevoli della specifica finalità dei rispettivi apporti, hanno creato la fittizia apparenza di una società interamente riconducibile allo stesso Iaquinoto, ma in realtà partecipata con quote rilevanti da singoli esponenti della “famiglia” mafiosa di Carini. In tal modo, gli imputati hanno consentito il reimpiego - nell’esercizio dell’attività di impresa - di risorse finanziarie di provenienza delittuosa loro direttamente conferite dagli appartenenti al citato sodalizio mafioso, mentre, alla stregua di quanto si è venuti fin qui esponendo, risulta all’evidenza come la derivazione di tali risorse fosse di natura pressoché esclusivamente illecita, costituendo esse il frutto dell’attività estorsiva esercitata dagli imputati sulle imprese operanti nel territorio di loro “competenza”. Del resto, come è stato esattamente rilevato dal Tribunale, dalle risultanze investigative acquisite, è emersa l’effettiva natura dell’inserimento del Di Maggio e del Pipitone nella società, che era formalmente amministrata dal solo Iaquinoto e che vedeva anche la partecipazione occulta del Curulli. Appare sufficiente, a tal fine, fare riferimento ai collegamenti di natura 191 familiare tra il Curulli e Vincenzo Pipitone ed alla significativa presenza, fra i dipendenti della Giellei Electrotrading, di congiunti dello stesso Pipitone e del Di Maggio (quest’ultimo formalmente assunto con la qualifica di magazziniere). Inoltre, dalle conversazioni intercettate all’interno del deposito del Gottuso è stato possibile trarre la conferma degli accordi esistenti fra i predetti esponenti mafiosi ed il Curulli, ed è stata acquisita l’esplicita indicazione del Pipitone, nelle affermazioni dello stesso Gottuso, come il vero “padrone” della società nella quale operava il Curuli. La conversazione telefonica intercorsa tra Vitale Fortunato (Roberto) e la moglie Silvana, ha offerto un quadro evidente della reale attribuzione dei poteri di gestione nell’ambito della società, indicando il Di Maggio come la persona competente ad assumere le decisioni in materia di pagamento degli stipendi. Ed ancora, dai colloqui tra il Di Maggio e il Pipitone è emersa con assoluta chiarezza la cointeressenza dei due interlocutori nella Giellei Electro Tra- ding, resa palese dal riferimento alla opportunità di chiedere il fallimento della società e dall’auspicio di recuperare almeno in parte le somme che vi erano state investite, Significative appaiono pure le convergenti deposizioni del Pulizzi e del La Porta, i quali hanno descritto, in sostanza negli stessi termini, il reale assetto societario, affermando che, se formalmente lo Iaquinoto era l’amministratore unico, partecipavano in modo occulto alla compagine sociale, oltre al Curulli, anche il Di Maggio e il Pipitone. In particolare, come era stato riferito dal La Porta, i due esponenti della “famiglia” mafiosa di Carini avevano conferito ingenti somme di denaro nel capitale della società, ed il il Di Maggio partecipava, unitamente al Curuli ed allo Iaquinoto, alle riunioni nelle quali si discuteva della gestione della società e, quando si aggravò la situazione di dissesto finanziario, assunse un ruolo di controllo ancora più marcato. A fronte di siffatto cospicuo compendio probatorio, va condiviso il convincimento espresso dai primi Giudici, secondo cui poco rilievo 192 rivestirebbe il giro di assegni fra le banche di Carini e di Acireale accertato dalla Guardia di Finanza e descritto, oltre che da taluni dei soggetti direttamente coinvolti (come il La Porta, il Candela, il Leto e il Pulizzi), anche dallo stesso Iaquinoto, ancorché esso ben potesse costituire uno strumento precipuamente diretto al riciclaggio di capitali di origine illecita riconducibili all’associazione mafiosa. Secondo la tesi accusatoria, l’interposizione di società “cartiere”, gli ingenti e ricorrenti versamenti di denaro contante, l’utilizzo di assegni circolari e l’emissione di assegni bancari per gli stessi importi, incassati da soggetti vicini al Curulli Vincenzo o comunque inseriti nell’elenco dei dipendenti, la circostanza che tali movimentazioni oggettivamente anomale avvenissero tra istituti bancari situati a centinaia di chilometri di distanza e che esse non fossero giustificabili in relazione all’attività commerciale svolta dalla società, sarebbero tutti elementi indicativi di una serie di condotte volte alla “ripulitura” e al “ritorno” di cospicue somme di denaro di provenienza illecita, secondo lo schema normativo tipico del riciclaggio. Le difese degli imputati hanno continuato a sostenere, anche nei loro rispettivi atti di appello, che in realtà tali operazioni sarebbero state determinate dalla necessità di fronteggiare la mancanza di liquidità nella quale la Giellei Electro Trading si dibatteva nel periodo considerato dalla contestazione. Tale complesso meccanismo sarebbe stato articolato nel senso che i versamenti di assegni circolari emessi dalla banca di Carini erano preceduti dall’emissione di assegni della banca di Acireale di pari importo, sicché gli importi in entrata e in uscita dei due conti correnti erano sostanzialmente corrispondenti; gli assegni bancari dell’istituto di credito di Acireale erano cambiati presso la banca di Carini con il ritiro del denaro contante, che veniva utilizzato lo stesso giorno per emettere gli assegni circolari; tali assegni circolari erano destinati alla copertura degli assegni bancari dell’istituto di credito di Acireale; ed in definitiva, la provvista per emettere gli assegni circolari della banca di Carini proveniva da denaro contante 193 derivante dall’in- casso, immediatamente precedente, degli assegni della banca di Acireale. E se non può effettivamente escludersi che tali anomale movimentazioni corrispondessero ad una mera partita di giro tra i conti correnti interessati, posta in essere allo scopo precipuo di creare una liquidità meramente fittizia e fronteggiare, in tal modo, le impellenti esigenze di pagamento dei fornitori; ciò non sarebbe stato di ostacolo a sostenere che, in ogni caso, dietro l’attività commerciale apparentemente riconducibile allo Iaquinoto e, indirettamente, al Curulli (quest’ultimo nella qualità socio di fatto della Giellei Electro Trading), si celavano in realtà specifici interessi patrimoniali del Pipitone e del Di Maggio. È stato pur sempre accertato, infatti, come si è visto, che i due esponenti di vertice della cosca mafiosa di Carini avevano conferito ingenti risorse finanziarie di origine illecita nel capitale sociale ed erano, unitamente al Curulli, i reali gestori occulti della società, dietro lo schermo della titolarità formale attribuita al solo Iaquinoto. Né può, d’altra parte, attribuirsi particolare rilievo al dissesto finanziario della società (dissesto effettivo, tant’è che era culminato nella dichiarazione di fallimento), come sostiene in particolare lo Iaquinoto nel suo atto dei appello, poiché, se è vero che gli investimenti di carattere economico – finanziario operati dagli adepti di “cosa nostra” o da soggetti ad essa vicini, sono di regola assai vantaggiosi, non può certamente escludersi che a volte tali investimenti, per incapacità dei soggetti che li pongono in essere, o per sfavorevoli congiunture econimniche, o per altri motivi contingenti, riescano del tutto improduttivi e, anzi, dannosi, come si è verificato nel caso in specie, per la stessa associazione criminosa. Non è seriamente sostenibile, infatti, che la perdita del denaro, o dei beni o delle altre utilità investite in attività apparentemente lecite tolga agli stessi il carattere di illiceità derivante dalla loro provenienza. Si è visto che, con riguardo al profilo della qualificazione giuridica delle condotte in contestazione, premesso che nei confronti degli imputati era 194 stata elevata un’imputazione di natura cumulativa, ai sensi degli artt. 648 bis e 648 ter c.p., il Tribunale ha ritenuto che tra le fattispecie in esame sussiste un rapporto di specialità, dal momento che, secondo l’insegnamento della S.C., esse hanno come presupposto comune la provenienza da delitto del denaro e dell’altra utilità di cui l’agente dispone e, sotto il profilo soggettivo, richiedono la specifica finalità di far perdere le tracce dell’origine illecita; con l’ulteriore peculiarità, quanto al reato di cui all’art. 648 ter c.p., che detta finalità deve essere perseguita mediante l’impiego delle risorse in attività economiche o finanziarie. Ha, pertanto, ritenuto, avuto riguardo alle concrete modalità realizzative della condotta, attuata mediante l’immissione nel circuito economico di risorse finanziarie di derivazione illecita, di dovere ricondurre i fatti contestati al Curulli e allo Iaquinoto unicamente nell’alveo di operatività dell’art. 648 ter c.p. Tale affermazione va, ad avviso della Corte, condivisa. Si ritiene, tuttavia, di dover aggiungere, avuto riguardo, altresì, alla richiesta, formulata dallo Iaquinoto in via subordinata, di riconduzione della fattispecie concreta in esame nell’ambito di applicabilità dell’art. 12 quinques della legge n. 356/1992, alcune precisazioni. Secondo l’orientamento espresso in alcune recenti sentenze dalla S.C., integra il solo delitto di impiego di beni di provenienza illecita, nel quale rimangono assorbiti quelli di ricettazione e di riciclaggio, colui che realizza, in un contesto unitario caratterizzato sin dall'origine dal fine di reimpiego dei beni in attività economiche o finanziarie, le condotte tipiche di tutte e tre le fattispecie menzionate. La Corte ha altresì precisato che, per converso, qualora, dopo la loro ricezione o la loro sostituzione, i beni di provenienza illecita siano oggetto, sulla base di una autonoma e successiva determinazione volitiva, di reimpiego, tale condotta deve ritenersi un mero 195 post factum non punibile dei reati di ricettazione o di riciclaggio in forza della clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 648 ter cod. pen. Invero, chi impiega denaro “sporco”, ossia di provenienza delittuosa, direttamente in un'attività economica o finanziaria, così ripulendolo, risponde non del reato di riciclaggio, ma di quello punito dall'art. 648 ter c.p. (Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita). In quest'ultimo, infatti, risulta assorbita la precedente attività di sostituzione o di ricezione. Invece, se taluno sostituisce denaro di provenienza illecita con altro denaro od altre unità e, poi, impieghi i proventi derivanti da tale opera di ripulitura in attività economiche o finanziarie, risponde del solo reato di riciclaggio (art. 648 bis c.p.) con esclusione del 648 ter c.p. I reati di cui agli art. 648 e 648 bis c.p. prevalgano solo nel caso di successive azioni distinte, le prime di ricettazione o riciclaggio, le seconde di impiego, mentre si applica solo il delitto di cui all'art. 648 ter nel caso di una serie di condotte realizzate in un contesto univoco, sin dall'inizio finalizzato all'impiego. In conclusione, ai fini della distinzione tra l'ipotesi di reato di cui all'art. 648 ter c.p. (impiego di danaro, beni o utilità di provenienza illecita) e quella di cui all'art. 648 bis c.p.(riciclaggio), assume decisivo rilievo l'elemento costituito dalla necessaria contestualità tra la sostituzione dei beni e la destinazione degli stessi (anche a livello di determinazione volitiva) non solo alla specifica finalità (propria del reato di riciclaggio) di far perdere le tracce della loro origine illecita, ma anche a quella di realizzare tale obiettivo proprio mediante l'impiego in attività economiche o finanziarie, dovendosi invece ritenere che, in difetto di detta contestualità, siffatto impiego, successivamente intervenuto, costituisca un post factum non punibile, rispetto alla già avvenuta commissione dell'altro reato (Cass. Pen. Sez. II, 11 novembre 2009, n. 4800). In conclusione, con la previsione dell'art. 648 ter c.p., il legislatore ha voluto sanzionare una fase ulteriore e successiva a quella vera e propria del riciclaggio e cioè l'anello terminale sfociante nell'investimento produttivo 196 dei proventi di origine illecita; tale condotta di impiego presuppone che la fase di ripulitura del denaro illecito sia già avvenuta e che l'agente impieghi in attività economico - finanziarie il capitale, consapevole della sua provenienza delittuosa e dell'avvenuta ripulitura da parte di altri. (Cass. Pen. Sez. VI, 21 settembre 2000, Villecco). Ancora più marcata appare la differenziazione del suddetto reato di cui all’art. 648 iter c.p. da quello di cui all’art. 12- quinquies, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356/1992, che si realizza con la commissione di atti finalizzati ad eludere le misure di prevenzione patrimoniali o anticontrabbando, ovvero ad agevolare la commissione di reati di ricettazione e di riciclaggio Cass. Pen. Sez. II, 9 luglio 2009, n. 39303. Il delitto di trasferimento fraudolento di valori, infatti, è una fattispecie a forma libera che si concretizza nell'attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro o altra utilità realizzata in qualsiasi forma. Il fatto-reato consiste nella dolosa determinazione di una situazione di apparenza giuridica e formale della titolarità o disponibilità del bene, difforme dalla realtà, al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando ovvero al fine di agevolare la commissione di reati relativi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza. Ha specificato la Corte che se, da un lato, i termini titolarità e disponibilità impongono di comprendere nella previsione normativa non solo le situazioni del proprietario o del possessore ma anche quelle nelle quali il soggetto venga comunque a trovarsi in un rapporto di signoria con il bene; dall'altro lato, impongono altresì di considerare ogni meccanismo che realizzi la fittizia attribuzione consentendo al soggetto incriminato di mantenere il proprio rapporto con il bene (Cass. Pen. Sez. 1, 26/04/2007, n. 30165). E seppure le disposizioni di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p., pur configurando reati a forma libera, richiedono che le condotte di riciclaggio o di reimpiego siano caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio, 197 risultando dirette in ogni caso ad ostacolare l'accertamento sull'origine delittuosa di denaro, beni o altre utilità (Cass. Pen. Sez. I, 11 dicembre 2007, n. 1470), nel delitto di cui all’art. 648 ter c.p. non si vuole affatto sanzionare una situazione di apparenza, per la intuitiva ragione che non è dato rilevare alcuna attribuzione fittizia di beni, bensì una situazione concreta e reale in cui l’agente non si limita a figurare quale apparente titolare, ma impiega effettivamente beni o altre utilità provenienti da delitto - appartenenti ad altri, altrimenti si configurerebbe un post factum non punibile - in attività econoniche di cui egli è effettivamente il dominus. Nella specie, invero, lo Iaquinoto era effettivamente amministratore della società, e non già un mero prestanome del Pipitone ed il Curulli un effettivo socio occulto di essa, sicché i predetti imputati si erano resi responsabili di impiego – effettivo – di capitali forniti dal Pipitone e dal Di Maggio, nel che è configurabile il delitto di cui all’art. 648 iter c.p., e non già quello di fittizia interposizione di cui all’art. 12 quinquies D.L.n. 152/1991. Si contesta dagli appellanti, come si è visto, anche l’esistenza di elementi probatori che depongano per l’origine illecita delle somme di denaro e, in genere, delle utilità impiegate nell’attività in parola, non essendo stata fornita dalla pubblica accusa alcuna prova in tal senso. Anche questa censura è prova di fondamento. Invero, secondo il consolidato orientamento della S.C., ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio non si richiede l'accertamento giudiziale del delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell'esatta tipologia di esso, sufficiente essendo che sia raggiunta la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute (v. e plurimis Cass. Pen. Sez. 5, 21.5.2008, n. 36940). La stessa Corte aveva già osservato, con rifeimento all’art. 416 bis c.p., che il delitto di riciclaggio di cui all'art. 648 bis c.p., riformulato dalla L. 9 agosto 1993, n. 328, art. 4, che ha provveduto a riscriverne la condotta in conformità alla Convenzione del Consiglio d'Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, nonché della 198 Direttiva n. 166 del 10 giugno 1991 del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea con cui gli stati membri venivano invitati ad evitare il riciclaggio dei proventi di reato, è oggi svincolato dalla pregressa tassativa indicazione dei reati che potevano costituirne il presupposto, esteso attualmente a tutti i delitti non colposi previsti dal codice penale (per cui il delitto di riciclaggio può presupporre come reato principale non solo delitti funzionalmente orientati alla creazione di capitali illeciti quali la corruzione, la concussione, i reati societari, i reati fallimentari, ma anche delitti che, secondo la visione più rigorosa e tradizionalmente ricevuta del fenomeno, vi erano estranei, come ad esempio i delitti fiscali e qualsiasi altro) e consiste in qualsiasi condotta tendente a “ripulire” il c.d. denaro sporco, facendo perdere le tracce della sua provenienza delittuosa nelle diverse forme della sostituzione o del trasferimento del denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita ovvero del compimento di altre operazioni in modo da dissimularne la origine illecita e da ostacolarne l'identificazione della provenienza illecita. La eliminazione della indicazione normativa dei reati - presupposto si è resa necessaria in conseguenza della straordinaria mutabilità delle forme usate dal mercato finanziario ed economico in genere nella formazione di capitali illeciti suscettibili di essere successivamente “lavati” e per la altrettanto straordinaria capacità delle menti finanziarie della grande criminalità organizzata nell'escogitare metodi e sistemi di pulitura dei capitali illeciti. Da ciò deriva necessariamente anche la inclusione della associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416 bis c.p. fra i reati da cui provengono capitali illeciti, che, in quanto tali ed onde potere essere rimessi in circolazione come capitali ormai depurati e perciò investibili anche in attività economiche produttive legali, devono essere riciclati. La tesi per cui solo i reati fine dell'associazione mafiosa potrebbero costituire presupposto del riciclaggio, mentre la associazione mafiosa, quale reato di puro pericolo, non potrebbe ex se produrre proventi illeciti, non appare in alcun modo condivisibile poiché il delitto di cui all'art. 416 bis 199 c.p. sussiste anche allorché lo scopo dell'associazione è quello di trarre vantaggi o profitti da attività di per sè lecite (ad esempio gestione di attività economiche, acquisizione di appalti pubblici), purché lo stesso sia perseguito con metodo mafioso, quale l'uso della forza intimidatrice della associazione, l'assoggettamento delle persone con tale timore, l'imposizione di atteggiamento omertoso (v. Cass. sez. 1 n. 4714 del 1996). Ed ha affermato che è ben possibile, ed anzi usuale, che l’associazione mafiosa abbia fra i suoi scopi anche il perseguimento di attività di per sè formalmente lecite, conseguite attraverso il metodo mafioso che imponga, ad esempio, il monopolio di soggetti mafiosi in un certo settore attraverso la desistenza di eventuali concorrenti (Cass. Pen. Sez. 6 n. 1793 del 1994); il che determina che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di altri diversi reati da qualificare come fine della associazione. Costituisce infatti un principio giurisprudenziale ormai consolidato quello per cui l'associazione di tipo mafioso si distingue dalla comune associazione per delinquere, come può rilevarsi dal semplice raffronto testuale fra le due norme incriminatrici (a cominciare dalla rispettiva rubrica, la prima delle quali è priva, non a caso, a differenza della seconda, dell'inciso "per delinquere"), anche per il fatto che essa non è necessariamente diretta alla commissione di delitti - pur potendo, questi, ovviamente, rappresentare lo strumento attraverso il quale gli associati perseguono i loro scopi - ma può anche essere diretta a realizzare, sempre con l'avvalersi della particolare forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, taluno degli altri obiettivi indicati dall'art. 416 bis c.p., fra i quali anche quello, assai generico, costituito dalla realizzazione di "profitti e vantaggi ingiusti per sè o per altri"; per cui, mentre non può parlarsi di associazione per delinquere ordinaria quando gli associati abbiano come scopo esclusivo la commissione non di un numero indeterminato di delitti, ma solo di uno o più delitti previamente individuati, nulla vieta la configurabilità, invece, del 200 reato di associazione di tipo mafioso quando gli associati, pur essendosi dati un programma che, quanto a fini specificamente delittuosi, presenti le stesse limitazioni dianzi indicate, siano tuttavia mossi da altre concorrenti finalità comprese fra quelle previste dalla norma incriminatrice e comunque adottino, per la realizzazione di quel programma e delle altre eventuali finalità, i particolari metodi descritti dalla stessa norma (v., per tutte, Cass. sez. 1 n. 5405 del 2000, rv. 218089). E di ciò si ha riprova anche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, art. 12 ter (c.d. pacchetto sicurezza), che ha introdotto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4 bis (per cui per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli art. 416 bis c.p., nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli fini del presente decreto, il reddito si presume superiore ai limiti previsti), che esclude dal patrocinio a spese dello stato il condannato anche soltanto per associazione mafiosa, sul chiaro presupposto che tale reato possa produrre ex se lucrosi proventi, indipendentemente dai reati fine della associazione. In conclusione, dunque, in tema di riciclaggio, l'associazione per delinquere di stampo mafioso costituisce delitto da cui provengono il denaro o i beni sostituiti o trasferiti, posto che è l'associazione mafiosa in quanto tale, anche indipendentemente dalle attività cui si dedica, a rendere tali attività illegali, poiché esse sono perseguite e realizzate con lo strumento dell'omertà, dell'intimidazione o della violenza, senza neppure la necessità di una preventiva individuazione, da parte dell'associazione medesima, di un programma criminoso di reati-fine (Cass. Pen. Sez. 1, 27.11.2008, n. 2451). Avuto riguardo, pertanto, all’accertata elevata caratura mafiosa dei soggetti che hanno investito capitali nella società Giellei (Pipitone, Di Maggio) non sussisteva a carico dell’accusa alcuno specifico onere di fornire la prova dell’origine illecita di tali capitali. 201 Entrambi gli appelli sono, tuttavia, fondati nella parte in cui si sostiene che debba essere esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13.5.1991, n. 152, convertito con modifiche nella legge 12.7.1991, n. 203. La giurisprudenza della S.C., infatti, è pressoché costante nel sostenere che, in tema di reati di criminalità organizzata, la circostanza aggravante di cui all'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un'associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (v. e plurimis Cass. Pen. Sez. 6, 13.11.2008. n. 2696). E’ stato, così, ritenuto che, in tema di reati di criminalità organizzata, la circostanza aggravante di cui all'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un'associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale. La S.C., pertanto, in una fattispecie relativa ad una indebita locupletazione derivante da una serie di frodi informatiche commesse attraverso abusive ricariche di credito telefonico su elenchi di "sim cards", ha escluso la configurabilità dell'aggravante dell'agevolazione di un'associazione di stampo camorristico (Cass. Pen. Sez. 6 , 13/11/2008, D’Andrea). Vedasi anche Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 19300 del 11/02/2008: “In tema di procurata inosservanza di pena aggravata dalla circostanza di cui all'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non determina la sussistenza dell'aggravante, in ragione esclusivamente dell'importanza rivestita all'interno dell'associazione 202 e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, dovendosi distinguere l'aiuto prestato alla persona da quello prestato all'associazione e potendosi ravvisare l'aggravante soltanto nel secondo caso, quando cioè si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all'agevolazione dell'attività posta in essere dall'organizzazione criminale”. Ed ancora: “In tema di procurata inosservanza di pena aggravata dalla circostanza di cui all'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non determina la sussistenza dell'aggravante, in ragione esclusivamente dell'importanza rivestita all'interno dell'associazione e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, dovendosi distinguere l'aiuto prestato alla persona da quello prestato all'associazione e potendosi ravvisare l'aggravante soltanto nel secondo caso, quando cioè si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all'agevolazione dell'attività posta in essere dall'organizzazione criminale” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 19300 del 11/02/2008). E nel caso in esame, non sembra che l’attività posta in essere dal Curulli e dallo Iaquinoto, consistente, come si è visto, nell’impiegare nell’azienda di cui erano rispettivamente socio occulto ed amministratore, capitali di proprietà del Pipitone e del Di Maggio, possa essere ritenuta, in maniera inequivoca, finalizzata a fornire un consistente appoggio di carattere economico alla societas sceleris (“famiglia” mafiosa di Carini) della quale il Pipitone ed il Di Maggio facevano parte, nel suo complesso, quanto piuttosto a favorire singole e determinate persone con le quali sussistevano rapporti di amicizia e/o di probabile futura affinità (si è detto più volte che una delle figlie del Curuli era fidanzata con il figlia del Pipitone a nome Antonino, e che il Di Maggio era cognato del Pipitone). Non è stato nemmeno provato del resto che le somme investite dal Pipitone e dal Di Maggio nella Giellei fossero “ingenti”, sì da indurre ad ipotizzare che gli investimenti potessero riguardare un numero più elevato di persone, ovvero operare il coinvolgimento del complessivo assetto patrimoniale 203 della “famiglia” (non sembra che le somme corrisposte o anticipate a qualsiasi titolo dal Pipitone e dal Di Maggio superassero i quaranta o cinquantamila euro). Ritiene, conseguentemente, la Corte, in assenza di più pregnanti elementi dai quali possano emergere il coinvolgimento, nell’attività della Giellei, dell’intera associazione criminosa, ovvero la presenza di investimenti di più rilevante entità finalizzati all’uncremento ed a una maggiore espansione, anche sotto il profilo economico-imprenditoriale, della stessa associazione, di dovere, riformando sul punto la sentenza impugnata, escludere la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 7 citato, contestata al Curulli ed allo Iaquinoto. Ritiene, pertanto, di dovere eliminare l’aumento operato dai primi Giudici, per tale aggravante, sulla pena base stabilita per il reato di cui all’art. 648 ter c.p. ritenuto a carico dei predetti due imputati, e conseguentemente, di ridurre la pena da infliggere agli imputati ad anni quattro e mesi sei di reclusione ed euro 6.000,00 di multa per il Curulli e ad anni quattro ed euro 5.000,00 di multa per lo Iaquinoto. 2-5. – L’APPELLO NELL’INTERESSE DI BIONDO FRANCESCO – Premette l’appellante che gli è stata contestata la partecipazione all'associazione mafiosa, per essere intervenuto nella vicenda relativa ad una disputa intercorsa tra Bruno Giuseppe e vari appartenenti alla “famiglia” Liga in relazione ad una attività commerciale nella quale il fratello del Bruno, di nome Andrea, era socio occulto del genero del noto esponente mafioso Liga Salvatore, detto “Tatunieddu”. Assume di avere reso, sul punto, al Giudice di primo grado spontanee dichiarazioni fornendo le giustificazioni della citata conversazione, e riconducendo il senso delle frasi riportate alla pregressa vicenda processuale, che lo aveva visto protagonista, tra l'altro, di un iniziale contestato presunto episodio di estorsione, del quale si sarebbe reso 204 responsabile ai danni di tale Bruno, in concorso con tale Lo Piccolo. Infatti, allorquando era stato tratto in arresto nell'ambito del procedimento penale denominato “San Lorenzo Due”, una delle accuse specifiche mossegli era quella di avere partecipato ad una estorsione in danno di tale Bruno, titolare di un esercizio commerciale. Dalle intercettazioni effettuate in quella sede, infatti, gli agenti di p.g. operanti avrebbero tratto il convincimento che Biondo Francesco, chiamato dal Bruno (il quale riferiva di avere trovato dell'attack nei lucchetti del proprio negozio, addebitando detto atto criminoso al Lo Piccolo), si fosse intromesso al fine di “concordare” fra le parti la somma da consegnare agli estortori. In realtà, nella predetta intercettazione, così come era stato accertato nel conseguente giudizio, il Biondo avrebbe invitato l'interlocutore a denunciare ai CC. l'accaduto e, soprattutto, il Lo Piccolo in questione sarebbe stato il proprietario dell'immobile condotto in affitto dal Bruno. In realtà, così come era stato giudizialmente accertato, fra le parti vi sarebbe stata una controversia giudiziaria, definita successivamente con la stipula, in data 10.01.2000, di un nuovo contratto di locazione per la durata di anni sei, con scadenza 10.1.2006. Assume l’appellante che dette circostanze sarebbero state del tutto trascurate in sentenza, e che non poteva affatto affermarsi, con ragionevole certezza, che l'unico episodio contestato a Biondo Francesco fosse da ascrivere ad un contesto malavitoso. Invero, nel corpo della intera intercettazione e, soprattutto, poco prima dell'inciso incriminato, Biondo Francesco si sarebbe lamentato con il Gottuso delle traversie giudiziarie da cui era reduce. Inoltre, nel corso dell'intera indagine condotta dai Pubblici Ministeri non sarebbe stata fatta menzione del Biondo Francesco in nessun atto di indagine, antecedente o successivo, ove si eccettui l’unica intercettazione del 27.10. 2004, nella trascrizione della quale sarebbero state presenti oltre 400 interlocuzioni definite “incomprensibili”. 205 Da tale dato discenderebbe, inevitabilmente, che il senso compiuto dell'intero discorso non può farsi derivare da congetture, che per loro stessa natura non possono condurre ad una affermazione di penale responsabilità, se non supportate da ulteriori elementi che, nel caso in questione, risulterebbero del tutto assenti. Inoltre, l’anzidetta unica fonte di prova apparirebbe poco chiara nel suo significato, prestandosi a diverse interpretazioni. Tanto più che le trascrizioni sono intervallate da continue interruzioni, imputabili alla difficoltà di dare veste verbale ad espressioni confuse, poco comprensibili e comunque, anche quando riportate, dal significato non necessariamente compatibile con quanto asserito dalla Pubblica Accusa. Preso atto di quanto sopra, in assenza di ulteriori elementi portati dalla Pubblica Accusa dinanzi al Tribunale, anche aderendo alla prospettazione dell'Accusa di un “tentativo” di intervento di Biondo Francesco per dirimere una controversia sorta tra soggetti dallo stesso conosciuti in occasione della sua permanenza in regime di detenzione, non potrebbe ritenersi comunque integrata la partecipazione al sodalizio di cui all'art. 416 bis C.P. Infatti, posto che il Biondo Francesco non è apparso in nessuna indagine di Polizia Giudiziaria dal 29 luglio 1998 al 27 ottobre 2004 e successivamente, da quest'ultima data e sino al suo arresto avvenuto circa tre anni dopo, nell'ambito dell'odierno procedimento, sarebbe incomprensibile, alla luce dell'insegnamento della S.C. menzionato, come possa affermarsi che lo stesso sia “stabilmente” inserito in un sodalizio mafioso. Inoltre, non si comprenderebbe quale contributo l'appellante possa avere apportato al mantenimento od al rafforzamento del vincolo associativo, nei termini prospettati dalla Pubblica Accusa. In altri termini, il fatto ascritto all’imputato sarebbe sprovvisto dì qualsivoglia disvalore penale, non essendo significativo di una partecipazione, caratterizzata da apprezzabilità temporale, suscettibile di essere sussunta sotto la previsione dell'art. 416 bis c.p. In ordine alla 206 configurabilità, in astratto, del delitto di cui all'art. 416 bis c.p., la S.C. ha statuito che “l’elemento materiale del reato è costituito dalla condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, intendendosi per partecipazione la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori almeno in numero di tre — del reato allo scopo di realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell'associazione e per tipo mafioso la sussistenza degli elementi elencati nel terzo comma dell'art. 416 bis c.p., qualificanti tale genere di organizzazione criminosa. L’elemento soggettivo è, invece, rappresentato dal dolo specifico caratterizzato dalla cosciente volontà di partecipare a detta associazione con il fine di realizzare il particolare programma e con la permanente consapevolezza dì ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l'attuazione del comune programma delinquenziale con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa” (Cass. Pen., Sez. I, n. 198328/94). La consorteria è di tipo mafioso “quando il vincolo associativo ha una particolare intensità e stabilità, di guisa che essa avvalendosi dalla forza di intimidazione del medesimo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, esista ed operi permanentemente fuori della legge ed abbia a presidio un'organizzazione stabilmente rivolta al conseguimento dei suoi scopi” (Cass. Pen. Sez. I, n. 88/179313). Per di più, “non basta l'uso della violenza o della minaccia previste come elementi costitutivi dei delitti programmati - altrimenti tutte le associazioni criminose aventi nel programma tali delitti diventerebbero automaticamente di tipo mafioso — ma è necessario, invece, che la forza ìntimìdatrice sia non solo componente strumentale del programma criminoso, ma anche che promani dallo stesso vincolo associativo e diretto a creare nel territorio condizioni dì assoggettamento tali da rendere diffìcile l'intervento, preventivo o repressivo, dei poteri dello Stato e da creare una diffusa omertà” (Cass.Pen., Sez. I, n. 176677/87). 207 In diritto, e senza recesso alcuno dalle superiori argomentazioni, l’appellante contesta, altresì, l'inosservanza delle disposizioni in tema di valutazione delle prove “indiziarie”, attesa la netta preponderanza di tali elementi nell'ambito dell'intera vicenda processuale.Richiama, a questo proposito, i principi, oramai consolidati, che regolano la complessa questione, considerato che, nel corso della lunga istruttoria dibattimentale, non sarebbe emersa alcuna prova a riscontro dell'originaria ipotesi accusatoria, risolvendosi il tutto nella unilaterale interpretazione di un solo elemento indiziario: il contenuto di una intercettazione ambientale. Ed invero, nessun elemento di prova a carico potrebbe essere desunto dalle dichiarazioni dei “collaboranti”, che nulla di rilevante in ordine alla verifica dei fatti oggetto di imputazione hanno riferito sul Biondo Francesco, di talché con riferimento ad esse non sussisterebbe neanche un problema di controllo circa l’esistenza, o meno, dei necessari riscontri. Quand'anche, tuttavia, si volesse tributare valenza indiziaria alle dichiarazioni acquisite, anche se non si comprenderebbe in relazione a quali circostanze rilevanti per il processo ed a quali fatti costituenti reato, si dovrebbero comunque individuare i richiesti riscontri. Sul punto, secondo l'insegnamento della S. C.: “In tema di prova, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto dell'ari. 192, comma terzo, e.p.p., il Giudice deve, in primo luogo, sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confidente ed accusatore) in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e compiici; in secondo luogo, deve verificare l'intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce dei criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della spontaneità; infine, egli deve esaminare i riscontri cd. "esterni". L'esame del Giudice deve essere compiuto seguendo l'indicato ordine logico, perché non si può procedere ad una valutazione ordinaria della chiamata in correità e degli “altri elementi di 208 prova che ne confermano l'attendibilità”, se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa” (Cass., Sez. I, 13 luglio 1999, n. 8844). “Una volta verifìcata l'attendibilità intrinseca del chiamante in correità, il procedimento logico non può pervenire, omisso medio, all’esame dei riscontri esterni della chiamata, occorrendo che in ogni caso il Giudice verifìchi se quella singola dichiarazione, resa da soggetto attendibile, sia, a sua volta, attendibile. Si tratta di un procedimento non superabile, perché se l'attendibilità della dichiarazione venisse riferita al solo riscontro, senza il passaggio ad una verifica di attendibilità intrinseca, si finirebbe per fare del riscontro la vera prova da riscontrare, così da indebolire consistentemente la valenza dimostrativa delle dichiarazioni rese a norma dell'ari. 192 comma terzo e.p.p. (Cass., Sez. VI, 13 giugno 1997, n. 5649). Inoltre, “le chiamate in correità possono assumere valore probatorio quando siano dotate del requisito della attendibilità, sia sotto l'aspetto soggettivo che oggettivo; esse cioè devono: provenire da soggetti che conoscano il vero, perché certamente concorsero alla commissione dell'illecito che si attribuisce all'incolpato; essere spontanee, costanti, disinteressate (non provocate da motivi di odio o inimicizia), dettagliate e coerenti; essere il contenuto altamente verosimile per elementi oggettivi di riscontro; è, quindi, da escludere che tale ultimo requisito possa essere sostituito dalla cosiddetta “attendibilità generale” del chiamante, da desumersi dall'autoincolpazione, la quale comporterebbe per il chiamato in correità l'obbligo di fornire la prova della innocenza. Il cosiddetto riscontro, pur non dovendo presentare il valore di prova autonoma, deve, infatti, offrire ampie garanzie in ordine alla veridicità; esso può essere costituito anche da altra chiamata in correità, che alla prima sì aggiunga purché anche di essa se ne valuti rigorosamente l'attendibilità e la si apprezzi in senso positivo, escludendosi la sussistenza di collusioni o condizionamenti di qualsiasi genere tra i soggetti che la rendano, o da dichiarazioni de relato, 209 intrinsecamente attendibili, di origine autonoma, individuata la fonte di provenienza della notizia e controllata l'affidabilità, né è sufficiente che la chiamata abbia fornito una ricostruzione del fatto esattamente corrispondente alle modalità del suo verifìcarsi, essendo necessaria la esistenza di elementi che si riferiscono alla posizione dei singoli incolpati” (in Cass. Pen., sez. I, 24/02/1992, Mass. Cass. Pen., 1992 fase. 10,17). Considerazioni analoghe valgono con riferimento alla valutazione della prova critica, ed. indiziaria, ossia quella prova avente ad oggetto non già il fatto da provare, bensì circostanze dalle quali desumere il fatto stesso. Nel caso di specie, infatti, la partecipazione dell'imputato Biondo Francesco al sodalizio criminale verrebe ad essere, non già provata, bensì desunta unicamente dalla circostanza riportata nella sola intercettazione del 27.10.2004, che viene utilizzata a sostegno della condanna, ed il cui valore risulterebbe ingiustificabilmente amplificato nell’impugnata sentenza in termini di raggiungimento della prova che “anche dopo la condanna e l'espiazione della pena infintagli, egli non ha mai reciso i propri legami con l'organizzazione criminale, ma anzi li ha ulteriormente coltivati e alimentati, intervenendo attivamente in una spinosa vicenda, oggetto di discussione tra gli esponenti di varie famiglie mafìose appartenenti al mandamento San Lorenzo”. E se nel processo penale l'esistenza di un fatto può essere provata in via indiziaria, è altrettanto vero che l’assenza dei requisiti di cui all’art. 192 comma 2° c.p.p. (gravità, precisione e concordanza), osta alla possibilità di valutare come accertato il fatto considerato. Alla luce del menzionato disposto normativo, non si comprenderebbe, allora, a giudizio dell’appellante, attraverso quale meccanismo istnittorio il Tribunale abbia potuto ritenere comprovata l'attualità dell'appartenenza dell'imputato all’associazione prevista dall'art. 416 bis c.p. Sicuramente nessuna prova piena sulla partecipazione al reato associativo sarebbe mai stata fornita dalla Pubblica Accusa, dal momento che 210 l’episodio attorno al quale gravita la contestazione sarebbe di per sé penalmente neutro. Ancora, nessun rilievo potrebbe essere tributato alla “risalente appartenenza del Biondo all’organizzazione”, ritenuta non suscettibile di “'essere posta in discussion”, atteso che detti fatti hanno formato oggetto di ben altro e già definito procedimento. L’episodio contestato è unico, pertanto quale indizio sarebbe comunque sprovvisto dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza e, conseguentemente, inutilizzabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 191 e 192 comma 2 c.p.p. In ogni caso, tanto le chiamate in correità, che nel presente procedimento non avrebbero in realtà apportato alcun contributo a sostegno dell'accertamento di quanto indicato nel capo di imputazione, quanto la prova critica o indiretta (intercettazione del 27.10.2004), che per meglio dire costituisce un mero indizio, non costituirebbero elementi idonei a giustificare l'affermazione della responsabilità penale del Biondo. L’appellante, quindi, dopo avere fatto riferimento ai principi espressi dalla giurisprudenza della S.C. in materia di intercettazioni, assume che gli scarsi elementi addotti a carico del Biondo non appaiono tali da assurgere a prova della di lui colpevolezza. Infine, con riferimento alla chiamata dei cd. collaboranti, rileva come i difensori abbiano acconsentito alla acquisizione dei relativi verbali, per la parte di interesse, consapevoli del fatto che dalle dichiarazioni dei soggetti in questione nulla di penalmente rilevante veniva riferito sul conto di Biondo Francesco. Del tutto inconferenti risulterebbero, infatti, tanto le propalazioni del Franzese, che quelle del Nuccio. Entrambi gli anzidetti collaboratori, infatti, hanno negato di essere stati presentati ritualmente all’imputato, e di avere con lo stesso una conoscenza meramente occasionale, sicché le loro dichiarazioni non rivestirebbero alcun interesse per la tesi dell’accusa, e, soprattutto, non potrebbero 211 costituire elementi di riscontro o indiziari da valutare congiuntamente ai risultati dell’intercettazione. In via subordinata l’appellante si duole della mancata esclusione delle aggravanti di cui ai commi quarto e quinto dell'art.416 bis c.p., fondandosi l'imputazione relativa alle stesse unicamente sulla “notorietà” della disponibilità di armi da parte di una associazione di tipo mafioso e dell’altrettanto notorio reimpiego di capitali di provenienza illecita. Le censure sono fondate. Come è stato esattamente rilevato dall’appellante, infatti, nell’odierno procedimento gli elementi acquisiti a carico dell’imputato non appaiono subiscettibili di tradursi in consistenti elementi probatori, rimanendo confinati a livello di meri indizi. Lo stesso ha fatto riferimento ad un arresto giurisprudenziale della S.C., secondo cui “Nel delitto di cui all'art. 416 bis cod. pen. l'elemento materiale del reato è costituito dalla condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, intendendosi per partecipazione la stabile permanenza di vincolo associativo tra gli autori - almeno in numero di tre - del reato allo scopo di realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell'associazione e per “tipo mafioso” la sussistenza degli elementi elencati nel terzo comma del citato articolo, qualificanti tal genere di organizzazione criminosa, mentre quello soggettivo è rappresentato dal dolo specifico caratterizzato dalla cosciente volontà di partecipare a detta associazione con il fine di realizzarne il particolare programma e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad adoperare per l'attuazione del comune programma delinquenziale con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione, ovvero al rafforzamento della struttura associativa” (Cass. Pen. Sez. 1, 18,5,1994, n. 2348). L’anzidetta sentenza, peraltro, risulta confermata da pronunzie successive, che ribadiscono l’essenzialità della partecipazione al comune programma di 212 delinquenza, circa la consapevolezza di rafforzare la struttura e l’operatività del sodalizio criminoso. Vedasi ad esempio Cass. Pen. Sez. VI, 8.10.2008, n. 40966: “Il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa si distingue da quello di favoreggiamento, in quanto nel primo il soggetto interagisce organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l'attività dell'associazione o a perseguirne i partecipi, mentre nel secondo egli aiuta in maniera episodica un associato, resosi autore di reati rientranti o meno nell'attività prevista dal vincolo associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa. (Fattispecie relativa all'aiuto prestato in modo generale e sistematico da un associato in favore di un altro partecipe latitante, in cui la S.C. ha individuato il reato di associazione mafiosa ed ha escluso la configurabilità del concorso tra le suddette figure criminose, precisando che la loro sovrapposizione può sussistere solo quando il favoreggiamento venga posto in essere per la copertura di un singolo reato-fine, ovvero per un reato totalmente estraneo alle finalità dell'associazione)”. Sussiste, pertanto, la necessità di accertare se l’appellante possa avere apportato all’associazione criminosa denominata “cosa nostra” un contributo utile al mantenimento od al rafforzamento del vincolo associativo, fermo restandeo che nessuna valenza probatoria in tal senso può essere riconsiociuta alla pregressa condanna dallo stesso riportata per il medesimo delitto. Come si è detto, infatti, Biondo Francesco era già stato riconosciuto responsabile del reato previsto dall’art. 416 bis c.p. (nonché del delitto di riciclaggio continuato in concorso) e condannato alla pena di nove anni di reclusione per il suo coinvolgimento nelle attività criminali della “famiglia” mafiosa di San Lorenzo, con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 5.7.2002 (divenuta irrevocabile il 14.2.2007), in relazione a condotte commesse fino al 19.7.2000. 213 L’anzidetta condanna, tuttavia, che correttamente i primi Giudici hanno qualificato cone dimostrativa di una “risalente appartenenza all’organizzazione”, e tale non potere essere posta in discussione (factum infectum fieri nequit), non può costituire per sé sola un indizio di appartenenza all’associazione criminosa, sussistendo la necessità che l’ipotesi, formulata dall’accusa, della permanenza, in capo all’imputato, della adfectio societatis sceleris, venga corroborata da elementi suscettibili, in una lettura corrdinata di essi, in elementi di prova. Invero, soltanto nel procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione, la pericolosità sociale non deve essere necessariamente formulata sulla base di prove occorrenti per la condanna penale, trattandosi di valutazione di carattere sintomatico, che, nell'ipotesi di sospetta appartenenza ad associazione mafiosa , può basarsi su qualsiasi elemento indiziario, purché di per sè certo, ossia rappresentato da circostanze oggettive, ed idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità di tale appartenenza (Cass. Pen. Sez. VI, 19 marzo 1997, n. 1171). In conclusione, la condanna riportata dal Biondo con sentenza irrevocabile, attestante la sua partecipazione alla associazione criminosa almeno sino all’anno 2000, pur costituendo oggetto di definitivo accertamento giurisdizionale, e ben potendo costituire astrattamente il presupposto per l’eventuale applicabilità di una misura di prevenzione, non può essere posta da sola a fondamento di una condanna relativa alla partecipazione dell’appellante all’associazione anzidetta per il periodo successivo all’anno 2000, se non in presenza di elementi, anche di carattere indiziario, suscettibili, però, in una valutazione globale ed unitaria, di costituire elementi sufficienti alla dimostrazione del thema probandum (continuità dell’adesione di un soggetto già condannato per associazione mafiosa alla consorteria criminosa, e condivisione della comune progettualità illecita). Corretta, dunque, appare la prospettazione del Tribunale, laddove pretende che, ai fini dell’affermazione della colpevolezza dell’imputato, si ravvisa la necessità di dimostrare che lo stesso, anche dopo la condanna e l’espiazione 214 della pena inflittagli, non solo non abbia mai reciso i propri legami con l’organizzazione criminale, ma anzi li abbia ulteriormente coltivati e alimentati, attraverso acconci elementi probatori. Tali elementi sarebbero costituiti, come si è visto, dalle dichiarazioni dei “collaboranti” e dal contenuto dell’intercettazione effettuata il 27 ottobre 2004 alle ore 11,00 all’interno del magazzino di pertinenza del Gottuso, in cui questi avrebbe perorato, presso lo stesso Gottuso, la causa di Garofano Francesco, genero dell’ergastolano Liga Salvatore, intesto “Tatunieddu”, titolare di un esercizio commerciale, del quale si sarebbe illegittimamente impossessato tale Bruno Giuseppe, inteso “Castagna”, tranciando e sostituendo i lucchetti posti all’ingresso del suddetto esercizio. In buona sostanza, il “contributo” che, a dire dei primi Giudici, l’odierno appellante avrebbe dato all’associazione criminosa sarebbe consistito nella richiesta di “intervento” formulata nei confronti del Guttuso, per una composizione bonaria della questione, seguito dalla richiesta di restituzione delle chiavi dei lucchetti che il Bruno aveva apposto al magazzino in contestazione. Osserva, però, la Corte, in primo luogo, che il contributo offerto dai due “collaboranti” interpellati, Francese Francesco e Nuccio Antonino, è in realtà insussistente, dal momento che costoro, come è dato desumere dall’analisi delle loro dichiarazioni effettuata dai primi Giudici, non sono stati in grado di fornire alcun elemento utile ai fini dell’indagine sul conto del Biondo Francesco, ove si eccettui la mera conoscenza di costui, conoscienza che, però, non si traduce in “presentazioni” rituali, né sottende ulteriori elementi di importanza investigativa e che, in ogni caso, appare pienamente giustificabile alla luce delle vicende dello stesso appellante, il quale, come si è detto più volte, aveva riportato una pregressa condanna anche per il delitto di associazione mafiosa. Residua, dunque, lo “intervento” in favore del genero del Liga Salvatore inteso “Tatunieddu”, Garofalo Francesco, di cui alla più volte menzionata intercettazione del nel magazzino di pertinenza del Gottuso. 215 Tuttavia, a ben vedere, non è dato trarre alcun significativo elemento in favore dell’ipotesi accusatoria nemmeno da detto comportamento. Dal testuale contenuto della conversazione intercettata, riportata pressoché interamente nella sentenza impugnata, ma in larga parte incomprensibile, in specie per quanto riguarda il Biondo, sembrerebbe desumersi che un soggetto imprecisato si sia recato da Cusimano Giovanni e da Di Blasi Francesco, per denunciare l’operato del “picciotto” soprannominato “Castagna”, vale a dire Bruno Giuseppe. Al che il Gottuso, mostrandosi meravigliato e rivelando stretti vincoli di amicizia e di affetto con il Bruno (chistu è me frati), chiedeal Biondo cosa è successo, e qiest’ultimo gli riferisce che il Bruno ha reciso i lucchetti [del magazzino in contestazione] uno per uno. Dal contenuto della conversazione, buona parte della quale è, come si è detto, inconotensibile, sembra desumersi che sia il Gottuso quello dei due interlocutori ad essere maggiormente preoccupato. Chiede innanzitutto al Biondo se la notizia della lite insorta tra il Bruno ed il Garofano era pervenuta a Lo Piccolo salvatore, e, ricevutane risposta positiva, narra al Biondo che in passato Liga Federico, figlio di “Tatunieddu”, si era comportato male mei suoi confronti. Ad un certro punto sembra doversi supporre (il discorso è pressoché incomprensibile) che il Biondo voglia incontrarsi con il Cusimano Giovanni; al che il Gottuso gli chiede: “Pi stu riscursu?”, riferendosi ovviamente alla diatriba tra il “Castagna” ed il Garofano; ma il Biondo risponde: “No, pu fattu ra…” mostrando a chiare lettere che si tratta di una diversa questione. La conversazione prosegue, ed i due (Biondo e Gottuso) toccano svariati argomenti, in particolare gli inadempoimenti di cui il figlio del Liga, Federico, si sarebbe reso responsabile nei confronti del Gottuso. Successivamente, nel medesimo locale, il Gottuso intrattiene una lunga conversazione con Collesano Rosario, in cui viene affrontato il problema cui ha dato origine l’atto di forza compiuto dal Bruno, ma nessun accenno viene fatto al Biondo, né tantomemno al preteso incarico che allo stesso 216 sarebbe stato conferito da Liga Salvatore di ritirare le chiavi del locale di cui il Bruno si è impossessato. Come è stato evidenziato dai primi Giudici, sulla base delle indicazioni fornite dai protagonisti delle conversazioni intercettate, gli organi inquirenti avevano individuato una prima attività commerciale, oggetto del contendere, denominata Bar Marinella - sita in Palermo, nella via Caduti sul Lavoro - ed un secondo esercizio adiacente, denominato Salumeria DOC. Il proprietario della salumeria era Pedalino Davide, il quale alla fine del 2004 aveva rilevato l’attività da Garofalo Francesco, genero di Liga Salvatore; in precedenza, l’esercizio commerciale era appartenuto a tale Spitaleri Gaetano, come era risultato dalle visure camerali e dall’esistenza di un’insegna, all’interno del negozio, che riportava sul retro la dicitura “Sigma di Spitaleri Gaetano, Premiata Salumeria”. Il Pedalino era cognato di Andrea e Giuseppe Bruno. Il Bar Marinella aveva costituito oggetto di un attentato incendiario, avvenuto il 10.5.2005. Sarebbe stato evidente, dunque, che l’azione di forza del Bruno in danno del Garofalo, genero del Liga, si era conclusa con l’estromissione dello stesso Garofalo e con l’intestazione dell’esercizio commerciale al Pedalino, cognato del Bruno. Alla stregua di tali considerazioni, sembra che l’attività dell’odierno appellante, consistente, si può dire, in un mero “tentativo” di risolvere la questione vertente tra il Bruno ed il genero di “Tatunieddu” Liga, si sia in pratica esaurita in una richiesta di intervento di Gottuso Salvatore, “uomo d’onore” tenuto in molta considerazione nell’ambito di “cosa nostra”, anche per la sua abilità diplomatica e per la capacità di comporre eventuali dissidi tra gli adepti della consorteria criminosa. E per di più, siffatta attività non avrebbe sortito l’esito sperato se, come si è visto, il locale in contestazione era rimasto nella disponibilità del cognato del Bruno. D’altra parte, tenuto conto della scarsa qualità delle captazioni (si è già detto che larga parte di esse è inintelligibile, in specie per quanto concerne l’appellante, del quale vengono spesso riportate brevi frasi prive di senso 217 compiuto e difficilmente rapportabili ad altri brani di conversazione al fine di ricavarne un significato plausibile), non è dato rilevare con certezza il compimento, da parte dello stesso, di attività particolarmente significative, quali quello del – preteso – incarico della consegna delle chiavi, presumibilmente ipoitizzato in sentenza in via presuntiva, ovvero di un interessamento più assiduo che rivelasse un particolare interesse dello stesso al componimento della diatriba in via bonaria. D’altra parte, non è dato, ancora, rilevare l’esistenza di ulteriori elementi da cui sia possibile ricavare il compimento, da parte dell’imputato, di successivi significativi interventi nella vicenda in esame, ove si eccettui l’inziale conversazione con il Gottuso, che ha offerto a quest’ultimo l’input per intervenire, a sua volta, nel cercare un adeguato componimento di essa. Non sembra, infine, anche a volere ammettere l’espletamento, da parte del Biondo, di una più penetrante attività e di una più assidua partecipazione alle vicende de quibus, che le stesse, ancorché svoltesi fra soggetti di elevata caratura mafiosa, potessero investire profili di vitale interesse per l’associa- zione mafiosa, e perciò tali da ritenere che l’intervento spiegato dal Biondo apparisse, nell’ottica di una prospettazione ex ante, di decisiva importanza per l’esistenza o per gli assetti dell’intera associazione, apparendo piuttosto come il tentativo di risolvere bonariamente una questione in favore di un soggetto, ancorché mafioso, con il quale lo stesso imputato intratteneva rapporti di amicizia. Alla stregua di tali considerazioni, ed in presenza di elementi insufficienti sotto il profilo probatorio, per l’affermazione della responsabilità dell’imputato, ritiene la Corte che lo stesso, in riforma della sentenza impugnata, debba essere mandato assolto dal reato contestatogli ai sensi dell’art. 530 cpv. c.p.p. perché il fatto non sussiste. 218 2-6. L’APPELLO NELL’INTERESSE DI COLLESANO VINCENZOCon il primo articolato motivo del proposto gravame l’appellante sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto assolvere l’imputato dal reato ascrittogli per non avere commesso il fatto. Il Collegio, infatti, non avrebbe tenuto conto, pur avendole riportate nella parte motiva della sentenza, delle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento dai “collaboratori di giustizia” addotti dalle parti, i quali avrebbero concordemente escluso che il Collesano Vincenzo fosse partecipe qualificato al sodalizio criminoso. Ed infatti gli storici collaboratori di giustizia Avitabile Antonino, Cracolici Isidoro e Onorato Francesco, tutti gravitanti per anni nella “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, sentiti all'udienza del 21 maggio 2008, avevano dichiarato di non avere mai conosciuto il Collesano Vincenzo ed, implicitamente, escluso che lo stesso facesse parte di tale articolazione territoriale. La circostanza non era di poco momento atteso il grado di attendibilità che ai predetti collaboratori conseguiva dalle positive verifiche svolte, sulle loro dichiarazioni, in numerosi procedimenti penali. Ma anche i più recenti collaboratori di giustizia, parimenti sentiti al dibattimento, avrebbero escluso che il Collesano Vincenzo rivestisse la qualità di “uomo d'onore” della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello. Franzese Franco, pur dichiarandosi reggente di tale “famiglia” ed attribuendo al Collesano Vincenzo la riscossione del pizzo presso alcuni commercianti per conto di Di Blasi Francesco, cui era vicino, aveva tuttavia affermato che il Collesano Vincenzo non gli era stato presentato come “uomo d'onore” e che non era ritualmente affiliato. Precisava ancora che “soltanto lui (Franzese) e Nino Mancuso erano affiliati alla “famiglia”” e che, in precedenza, lo era Totuccio Davì. 219 E tali affermazioni del Franzese, atteso il ruolo di reggente allo stesso riconosciuto, avrebbero costituito un dato rilevante, escludente la ritenuta intraneità del Collesano a detta “famiglia” mafiosa, del tutto ignorato dal Collegio. Pulizzi Gaspare, sentito all'udienza del 9 maggio 2008, dopo avere premesso che Franzese Franco era il reggente della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello e di avere intrattenuto rapporti con lo stesso per tale qualità, riferiva di avere saputo da questi che Collesano Vincenzo non era “uomo d'onore” e ricevuto l'esortazione a “trattarlo male”. Nuccio Antonino, sentito all'udienza del 9 maggio 2008, riferiva, tra le altre cose, di avere saputo dal Franzese che il Collesano era affiliato alla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, ma tale circostanza sarebbe stata smentita proprio dalla stessa fonte Franzese Franco e da Pulizzi Gaspare. Ne conseguiva, pertanto, che agli atti processuali sarebbe stata acquisita la prova che il Collesano Vincenzo non fosse partecipe qualificato al sodalizio criminoso non essendo “uomo d'onore” ritualmente combinato. Alla stregua di tale dato, quindi, il Tribunale avrebbe dovuto valutare se, nei comportamenti (facta concludentia) processualmente accertati e posti in essere dal Collesano, ricorressero elementi dai quali desumerne aliunde la sua partecipazione al sodalizio medesimo. Soggiunge la Difesa che la condotta del Collesano, desumibile dalle dichiarazioni rese da Pulizzi Gaspare, sarebbe consistita nell’intercedere presso lo stesso Pulizzi, nell'ottobre 2006, affinchè “facesse una carezza”, vale a dire riducesse l'importo di diecimila euro che il medesimo aveva richiesto al costruttore Massimo Caravello quale “messa a posto” per dei lavori edili che il predetto stava eseguendo in territorio di Carini. Tale richiesta, però, sarebbe stata respinta dal Pulizzi, previa consultazione con il Francese. Precisava ancora il Pulizzi che il denaro richiesto al Caravello gli era stato consegnato (nell'importo richiesto) da Nino Mancuso. 220 Tali fatti venivano confermati dal medesimo Franzese, il quale precisava di avere detto al Pulizzi ed al Nuccio Antonino, che il Collesano era malvisto da Sandro Lo Piccolo in quanto non voleva rinunciare a dei lavori idrici in delle costruzioni a favore di certo Vitamia sponsorizzato dal Lo Piccolo. Tali fatti, pertanto, non avrebbero rilevato ai fini della partecipazione del Collesano al sodalizio criminoso, apparendo evidente come la condotta del predetto fosse finalizzata ad evitare o limitare un ingiusto danno al costruttore Caravello e non ad arrecare un vantaggio al suddetto sodalizio. Tale condotta avrebbe evidenziato, altresì, come il Collesano fosse inviso al Lo Piccolo Sandro e, di converso, allo stesso Franzese Franco (cui aveva fatto fare una brutta figura, come riferito dal Nuccio, perché non aveva ottemperato alle richieste del predetto), cosa questa non possibile ove fosse stato partecipe al sodalizio criminoso nel quale il Lo Piccolo ricopriva un ruolo apicale ed il Franzese reggente di una “famiglia”. Le dichiarazioni di Nuccio Antonino (professatosi non “uomo d'onore”), sarebbero apparse del tutto generiche e prive di ogni riscontro. Ed infatti, sulle presunte estorsioni che il Collesano, alle dipendenze di Ciccio Di Blasi avrebbe consumato nella zona di Partanna Mondello, il Nuccio non era stato in condizione di riferire alcunché di preciso. Il predetto, sentito all'udienza del 9 maggio 2008, aveva affermato, per averlo appreso de relato da Nino Mancuso, Caviglia Domenico, Ciaramitaro Domenico e Lavardera Roberto, che il Collesano si era occupato di una estorsione consumata ai danni di un soggetto, del quale non sapeva indicare il nome, che “stava ristrutturando una casa” nel territorio di Mondello. Precisava ancora il Nuccio di non essere a conoscenza di altre estorsioni consumate dal Collesano, ma di essere stato informato dal Franzese che lo stesso gli aveva fatto fare una brutta figura con i Lo Piccolo in quanto non aveva voluto cedere dei lavori di idraulica su degli immobili a persona da quest'ultimi designata. 221 Le propalazioni del Nuccio, pertanto, non soltanto non avevano trovato riscontro negli accertamenti di p.g. e nella istruzione dibattimentale (non essendo stato individuato l'immobile e l'estorto, né confermato da altri l'episodio) ma, altresì, per la loro genericità, non avrebbero presentato alcuna valenza probatoria. Franzese Franco, sentito alle udienze dell’11 e del 18 giugno 2008, qualificava il Collesano come persona vicina a Ciccio Di Blasi, con cui faceva riunioni presso la "Edilpomice", e per conto del quale riscuoteva il pizzo presso l'esercizio commerciale "Testaverde" e la fabbrica di mobili "Adile". Aggiungeva che, dopo l'arresto del Di Blasi, il Collesano si era allontanato da tale attività e che Totuccio Davì era rimasto il solo ad occuparsi delle estorsioni. Nell'illustrare un biglietto allo stesso sequestrato e contenente dei conteggi, il Franzese aveva precisato che lo aveva ricopiato da altro ricevuto da Sandro Lo Piccolo nel 2007 e spiegava che le somme costituivano la divisione di una “mediazione immobiliare curata da Totuccio Davi” e della quale non sapeva nulla in quanto il Sandro Lo Piccolo non gli aveva rivelato a quale immobile si riferisse. Aveva altresì precisato di non conoscere il soggetto indicato nel biglietto come “zio Pinuzzu” e che le due diciture "COLL" si riferivano ai fratelli Collesano Vincenzo e Rosario, aggiungendo che, tuttavia, le relative cifre non erano state corrisposte agli interessati. Aggiunge l’appellante che l’attività processuale di riscontro alle anzidette propalazioni accusatorie del Franzese, sarebbe negativa. Ed infatti Testaverde Giovanni e Rosario, titolari dell'omonimo esercizio, escussi, quali testi, dopo avere precisato di ben conoscere il Collesano Vincenzo in quanto idraulico, avevano escluso categoricamente di avere avuto richiesto o consegnato allo stesso denaro quale compendio di estorsione consumata ai loro danni. 222 Analogamente, Adile Carlo e Roberto, titolari dell'omonima fabbrica, dopo aver precisato (il Carlo) di conoscere il Collesano Vincenzo, avendone usufruito quale idraulico, avevano escluso categoricamente di avere avuto richiesto o consegnato allo stesso denaro frutto di estorsione. Il Tribunale, nell'intento di attribuire, comunque, credibilità al Franzese, aveva ritenuto dette dichiarazioni inattendibili estendendo immotivatamente le riserve conseguenti la qualità di indagati di reato connesso degli Adile (poiché avevano negato di essere stati estorti) anche ai Testaverde, che tale qualità non rivestivano non essendo mai stato loro contestato il reato di favoreggiamento personale, mentre non non vi sarebbero state ragioni per dubitare della veridicità delle dichiarazioni dei predetti Testaverde e Adile, i quali in altre occasioni non avrebbero esitato a rivolgersi all’A.G. Relativamente al biglietto sequestrato al Franzese, la valenza dello stesso (quale prova di una estorsione consumata in danno dell'ignoto venditore di un non identificato terreno con la “mediazione immobiliare curata da Totuccio Davi”) nei confronti del Collesano Vincenzo, conseguente alla doppia annotazione "Coll", sarebbe stata del tutto inconsistente sulla base delle medesime affermazioni del Franzese. Questi, infatti, dopo avere illustrato i contrasti insorti tra Francesco (Ciccio) Di Blasi e Salvatore (Totuccio) Davì, aveva affermato che, arrestato Ciccio Di Blasi, il Totuccio Davì era rimasto il solo ad occuparsi delle estorsioni, e che Enzo Collesano si era allontanato dopo l'arresto di Ciccio Di Blasi. E tali circostanze, da sole, sarebbero valse ad escludere che il Davì potesse beneficiare un soggetto (Collesano Vincenzo) che era vicino al suo concorrente Di Blasi e che si era allontanato allorquando questi era stato arrestato. A ciò andava aggiunto che, come era stato riferito dal medesimo Franzese, il Collesano Vincenzo era “mal visto” da Sandro Lo Piccolo, cui il Davì, secondo la prospettazione accusatoria, sarebbe stato legato e che avrebbe spiegato al Franzese il contenuto del biglietto. 223 Ne conseguiva, pertanto, che nel 2007 (epoca in cui il Franzese ebbe a ricevere il biglietto dal Sandro Lo Piccolo), la scritta "Coll." non avrebbe potuto identificare il Collesano Vincenzo. Pertanto, le propalazioni dei collaboranti non avrebbero offerto al Tribunale facta concludentìa dai quali desumere lo stabile inserimento del Collesano nel sodalizio criminoso. Ed infatti, le indicazioni del Nuccio su una presunta attività estorsiva del Collesano sarebbero rimaste generiche e non riscontrate, mentre quelle del Franzese sarebbero state smentite dai diretti interessati. Né la vicinanza dell'appellante a Francesco (Ciccio) Di Blasi, ritenuto partecipe al sodalizio criminoso, avrebbe costituito elemento per estendere al Collesano tale partecipazione. Rammenta a tal fine l’appellante che del concetto di “vicinanza” come di quelli di “contiguità compiacente” o “disponibilità”, la S.C. a Sezioni Unite ha fatto da tempo giustizia, affermando come tali atteggiamenti non siano penalmente rilevanti “ove non si accompagnino a positive attività che abbiano fornito uno o più contributi suscettibili di produrre un oggettivo apporto di rafforzamento o di consolidamento all'associazione”. Il contributo che il Collesano avrebbe offerto al sodalizio riscuotendo, su incarico e per conto di Francesco Di Blasi, il pizzo, sarebbe rimasto, all'esito dell'istruzione dibattimentale, del tutto indimostrato, non essendo seguito alle labiali affermazioni del Nuccio Antonino e del Franzese Franco alcun autonomo elemento confermativo. Di contro, nel corso dell'esame reso all'udienza del 16 ottobre 2008, il Collesano Vincenzo, oltre a protestare la propria estraneità ad ogni condotta estorsiva, aveva precisato come anche in altre occasioni (rispetto quella riferita dal Nuccio e confermata dal Franzese) aveva dovuto subire l'espropriazione del proprio lavoro da parte del sodalizio mafioso (lavori del costruttore Tagliareni in viale Aiace, lavori del costruttore Ferrante a Punta Raisi, intermediazione vendita terreno Vernaci). 224 Certamente, ove partecipe al sodalizio, il Collesano non avrebbe subito tali vessazioni e, anzi, sarebbe stato favorito nell'acquisizione di nuove commesse. Alla stregua delle medesime dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pulizzi Gaspare e Franzese Franco, ritenute dal Tribunale attendibili, sarebbe stata, infine, distorta la lettura delle intercettazioni tra presenti dallo stesso Tribunale effettuata. Ed infatti, posto che il Collesano Vincenzo non era “uomo d'onore” della “famiglia” di Partanna Mondello, e posto che altri ricoprivano un ruolo apicale in tale “famiglia”, come riferito dai collaboratori di giustizia sentiti nel corso del dibattimento, le conversazioni tra Gottuso Salvatore e Cinà Filippo (20 gennaio 2004); tra Gottuso Salvatore e Davì Salvatore (28 gennaio 2004); tra Davì Salvatore e Collesano Rosario (2 e 15 aprile 2004); tra Gottuso Salvatore, Davì Salvatore, Collesano Rosario e Cinà Filippo (16 aprile 2004); tra Collesano Rosario e Mancuso Rosalia (13 maggio 2004); tra Collesano Rosario e Bruno Giuseppe (19 aprile 2004); tra Davì Salvatore e Collesano Rosario (19 aprile 2004); costituenti un prius rispetto alle anzidette dichiarazioni dei collaboratori, non concernevano i contrasti tra Collesano Rosario ed il fratello Vincenzo per l'assunzione del comando della “famiglia” mafiosa di Partanna, bensì, unicamente, la conduzione della mediazione per la vendita del terreno dei Vernaci. Ed infatti, come era stato dichiarato dal Franzese Franco, relativamente a tale mediazione Di Blasi aveva interessato il Collesano Vincenzo e, arrestato il Di Blasi, il Davì, subentratogli, aveva incaricato il Collesano Rosario e il Vincenzo era stato estromesso. Conseguentemente, i contrasti tra i due fratelli non avrebbero riguardato il "comando" della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, al quale non potevano essere interessati in quanto entrambi non "uomini d'onore" ed al quale altri erano deputati, bensì su chi dovesse svolgere tale mediazione. Tale corretta lettura, peraltro, sarebbe stata offerta, all’udienza del maggio 2008, dal verbalizzante Tomasino Baldassarre. 225 14 Il Tribunale, anteponendo la lettura di tali intercettazioni alle propalazioni dei citati collaboratori di giustizia e non tenendo conto delle stesse, sarebbe incorso, pertanto, in un grave errore di analisi. Peraltro, Vernaci Francesco, sentito all'udienza del 29 ottobre 2008, aveva riferito sulla sua intenzione di vendere l'omonimo fondo e sulle trattative intercorse, escludendo di avere subito imposizioni o vessazioni. Relativamente poi all'interessamento del Collesano Vincenzo per tale vendita, alla medesima udienza, aveva riferito il teste Bonomo Mauro, titolare di una agenzia immobiliare. Anche il Collesano Rosario, sentito ex art. 210 c.p.p. all'udienza predetta, aveva confermato le superiori circostanze. In definitiva, quindi, l'iniziale ipotesi investigativa che, sulla base di tali intercettazioni, aveva determinato, nel gennaio 2007, l'applicazione della misura custodiale in carcere nei confronti del Collesano Vincenzo (come del fratello Rosario) per il delitto di cui ali'art. 416 bis c.p., in quanto ritenuti in contrasto per assumere il comando della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, sarebbe stata smentita dalle successive dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (Pulizzi Gaspare e sopratutto Franzese Franco) che avevano chiarito le dinamiche interne a tale “famiglia”. Conseguentemente, a carico del Collesano non sarebbero residuati elementi sui quali fondare la responsabilità dello stesso in ordine al delitto contestatogli. Le censure sono prive di fondamento. Invero, come è stato esattamente rilevato dai primi Giudici con riferimento alla posizione del Collesano, va evidenziata, in primo luogo, la conversazione del 20 gennaio 2004, intercorsa alle ore 10.54 tra il Gottuso e l’imprenditore edile Cinà Filippo, successivamente tratto in arresto nel marzo del 2005, all’esito dell’operazione poi sfociata nel procedimento cd. “San Lorenzo 5”. 226 Nel corso di tale conversazione, dalla quale emergeva l’approfondita conoscenza del Gottuso in ordine alle vicende della cosca di Partanna Mondello, gli interlocutori parlavano di un forte contrasto esistente tra l’odierno imputato e il fratello Rosario in seno alla “famiglia” mafiosa. Il tenore della conversazione era di tale chiarezza da non richiedere particolari commenti; il Gottuso esprimeva la propria viva preoccupazione per la situazione di tensione determinatasi a Partanna a causa della rivalità esistente fra i fratelli Collesano e delle contestuali aspirazioni egemoniche di Totò Davì, scarcerato nel 2003. L’identificazione dei soggetti citati dal Gottuso appariva certa, non solo con riguardo al Davì, attesa la menzione integrale del suo nome ed il riferimento alla sua recente scarcerazione (avvenuta il 20.10.2003), ma anche in relazione ai fratelli Collesano, i quali comandavano “uno da una parte… e uno dall’altra” e “cercavano di ammazzarsi l’uno con l’altro”. Sulla base delle notizie emerse dallo stesso colloquio, come esattamente hanno osservato i primi Giudici, i fratelli schierati su fronti differenti sono stati identificati, senza tèma di equivoci, in Collesano Rosario e Collesano Vincenzo, entrambi idraulici; il primo dei quali, ritenuto il “migliore” fra i due, genero di Mancuso Mariano, esponente di spicco della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, ucciso in un agguato di mafia. Gottuso, per vero, aveva riferito al Cinà di avere parlato della questione con il Davì e di averlo invitato a risolvere il problema, la cui soluzione definitiva però sarebbe spettata al vertice del mandamento, esplicitamente evocato dal Cinà con il riferimento al “figlio di Totuccio” (cioè Sandro Lo Piccolo), ancorché, ad avviso dello stesso Gottuso, la scelta sarebbe dovuta ricadere sul Davì, il quale, dopo venticinque anni di detenzione, aspirava legittimamente a vedersi riconosciuto il ruolo di guida della cosca di Partanna Mondello. Il chiarimento definitivo e la conseguente attribuzione del ruolo di reggente apparivano necessari per la soluzione di una questione attinente alla 227 compravendita di un terreno, al quale erano interessate le due diverse “cordate”. Dalla successiva conversazione del 28 gennaio 2004, intercorsa alle ore 16,40 tra il Gottuso e il Davì, si ricavava che quest’ultimo aveva dato conferma della contrapposizione esistente in seno alla “famiglia” di Partanna. Nella prima parte della conversazione, il Davì diceva al Gottuso che si era interessato personalmente per cercare di assicurargli un compenso in relazione all’attività idi mediazione svolta per la compravendita dell’immobile. Esaurito il primo argomento, il Davì introduceva un altro tema, che si collegava direttamente alla conversazione intercorsa il 20 gennaio 2004 tra il Gottuso ed il Cinà. Dal tenore del colloquio si comprendeva che il Gottuso aveva contattato le “persone interessate” alla compravendita di un terreno e che ora manifestava il timore di continuare a gestire l’affare senza un’adeguata copertura, chiedendo chiarimenti al Davì in merito a quanto stava accadendo a Partanna. Infatti, come si è detto, per continuare ad occuparsi della questione, il Gottuso riteneva essenziale risolvere preliminarmente la questione che riguardava i “fratelli” (vi era un chiaro riferimento ai fratelli Collesano); aggiungendo vi era stato il tentativo, da parte di un soggetto non meglio identificato, di accreditarsi presso i vertici mafiosi come soggetto legittimato a gestire la “sensaleria” e che Salvatore Lo Piccolo aveva autorizzato costui ad interessarsi al medesimo affare; riferiva inoltre al Davì che era stato contattato da tale Michele Acquisto (“quello dello ZEN”), indicato come compare del fontaniere “Enzo” – cioè Collesano Vincenzo il quale gli aveva chiesto conto del suo interessamento all'affare. Il Davì rassicurava il Gottuso, ribadendo la propria piena investitura “mafiosa”, invitandolo ad occuparsi della questione ed esortandolo a proseguire nella sua attività senza curarsi di quanti si erano indebitamente 228 intromessi; quindi, lo autorizzava espressamente a rappresentare a chiunque avesse manifestato interesse per la vicenda che egli era legittimato ad “andare avanti” e che non era tenuto a fornire ulteriori spiegazioni. Nelle successive conversazioni del 2 e del 15 aprile 2004 tornava in primo piano la figura di Collesano Vincenzo. La prima intercettazione, che riguardava un colloquio intercorso tra il Davì e Collesano Rosario alle ore 18,11 del 2.4.2004 all’interno dell’autovettura in uso allo stesso Collesano, appariva confermativa del quadro sopra delineato e forniva la prova del collegamento diretto tra il Davì e Lo Piccolo Salvatore (e ciò spiega la sicurezza ostentata dal Davì nell’affermare la propria legittimazione a gestire la questione della compravendita del terreno). Alla richiesta di Collesano Rosario, volta a conoscere il livello dei rapporti esistenti tra il fratello Vincenzo e Totuccio Lo Piccolo, il Davì rispondeva dicendo che tra i due non vi era alcun collegamento diretto e lasciando intendere che egli era l’unico ad essere accreditato presso il “parrinu”. Durante la successiva conversazione tra il Gottuso e Collesano Rosario, intercettata alle ore 19.07 del 15 aprile 2004 all’interno dei locali della S.B.S., si riaffermava l’esistenza di uno stretto legame tra il Davì ed il capo mandamento Salvatore Lo Piccolo; i due interlocutori, inoltre, menzionavano “quello di Pallavicino”, verosimilmente Di Blasi Francesco, quale ulteriore protagonista delle diatribe in corso tra gli esponenti della “famiglia” mafiosa di Partanna. Il Gottuso riferiva che un suo “amico” aveva parlato con Lo Piccolo Salvatore, il quale lo aveva indirizzato da una persona di Pallavicino che, a sua volta, aveva chiamato Collesano Vincenzo per risolvere il “problema” tanto dibattuto. Collesano Rosario, a sua volta, ricordava gli stretti rapporti esistenti tra il Davì e Lo Piccolo Salvatore, cui egli stesso – su impulso del Davì - aveva fatto pervenire una torta in occasione delle festività pasquali; quindi, in base alle notizie di cui disponeva, smentiva il personale coinvolgimento nella 229 vicenda di “quello di Pallavicino”, il quale aveva sostenuto con il Davì che non si era “immischiato in questo discorso”. Il Gottuso fissava quindi un nuovo appuntamento per il giorno successivo, allo scopo di discutere della questione, convocando telefonicamente tale “Filippo” (che risulterà essere il Cinà). In effetti, il 16 aprile 2004, alle ore 17,12, all’interno dei locali della S.B.S. veniva registrata una ulteriore conversazione sul tema, che consentiva di chiarire i termini dell’affare e di comprendere i ruoli dei diversi protagonisti della vicenda. La prima parte della conversazione intercorre tra il Gottuso, il Davì e Collesano Rosario; il Gottuso diceva al Davì che sarebbe sopraggiunto Filippo Cinà; quindi, per il timore che la discussione venisse captata, i tre avevano adottato preliminarmente la precauzione di spegnere i telefoni cellulari, ovvero di riporli a distanza di sicurezza dal luogo della riunione. La conversazione poi proseguiva tra il Gottuso e il Davì. Da un successivo passaggio della conversazione, si poteva desumere che il proprietario del terreno era tale Vernaci. Questo passaggio della conversazione consentiva, in primo luogo, di identificare l’amico menzionato dal Gottuso nella conversazione del 15 aprile 2004, intercorsa con Collesano Rosario; si trattava dell’imprenditore Cinà Filippo, che Lo Piccolo Salvatore aveva indirizzato da un esponente mafioso di Pallavicino per la vicenda della compravendita del terreno; questi, a sua volta, aveva chiamato Collesano Vincenzo per risolvere il “problema”. Il Cinà, come precisato dal Gottuso su richiesta del Davì, agiva per conto di tale Cusimano, interessato all’acquisto del terreno. Il Gottuso, riferendo ai suoi interlocutori il racconto del Cinà, spiegava inoltre che lo stesso Cinà e Vincenzo Collesano, incontratisi grazie alla mediazione di “quello di Pallavicino”, si erano recati assieme dal Vernaci. Nel mezzo della conversazione interveniva il Cinà, il quale – dopo avere anch’egli disattivato il telefono cellulare, su invito del Davì – raccontava la 230 sua versione della vicenda, confermando quanto riferito poco prima dal Gottuso e precisando, con un linguaggio criptico, di aver contattato il latitante Lo Piccolo Salvatore attraverso l’ormai consolidato sistema dei “pizzini”, recapitati grazie all’interposizione di terzi: Quindi, dopo il racconto delle trattative intercorse tra il Cusimano e il Vernaci, la discussione si chiudeva con l’invito, rivolto dal Davì al Cinà, di informare il Lo Piccolo della riunione appena avvenuta. Nella parte finale della registrazione - successiva all’allontanamento del Davì e di Collesano Rosario dai locali della S.B.S. - il Gottuso e il Cinà offrivano ulteriori elementi per pervenire all’identificazione di “quello di Pallavicino”: Il riferimento a “Ciccio”, diminutivo di Francesco, nonché l’associazione del nome alla zona di Pallavicino, consentiva di pervenire con certezza all’identificazione di Di Blasi Francesco. La conversazione avvenuta all’interno dell’autovettura KIA Sportage di Collesano Rosario tra quest’ultimo e la moglie Mancuso Rosalia (sorella di Bartolomeo) alle ore 10.53 del 13.5.2004, offriva un efficace spaccato dei contrasti esistenti in seno alla “famiglia” mafiosa di Partanna, delineando possibili futuri scenari, che non escludevano, a giudizio degli interlocutori, anche l’eliminazione fisica di Collesano Vincenzo. I due coniugi, infatti, biasimavano concordemente il comportamento di Collesano Vincenzo, il quale aveva la pericolosa abitudine di “parlare assai”; Collesano Rosario, a questo punto, ipotizzava l’imminente soppressione di Vincenzo che, secondo la Mancuso, avrebbe plagiato suo fratello Bartolomeo. Quindi Collesano Rosario aveva rievocato con la moglie l’omicidio del suocero ed il comportamento tenuto in quella circostanza dal cognato Bartolomeo, che aveva assistito al fatto di sangue; poi, tornando a parlare del fratello Vincenzo, lo aveva definito “un soldato che si sente generale”, esprimendo la convinzione che, nel caso di una sua fine cruenta, nessuno sarebbe intervenuto per punire i suoi assassini. 231 Alle ore 14,29 del 19.4.2004, veniva captata una conversazione di rilevante interesse tra Collesano Rosario e Bruno Giuseppe, affiliato alla “famiglia” di Partanna Mondello, già condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. con sentenza definitiva. L’identificazione del Bruno era avvenuta grazie alla intercettazione di una conversazione telefonica, intercorsa alle ore 14,19 con Collesano Rosario (chiamante), nel corso della quale i due avevano concordato di vedersi di lì a poco. La conversazione appariva di estremo interesse, perché dalla viva voce dei due interlocutori si traeva la conferma del loro inserimento nel gruppo capeggiato dal Davì, contrapposto a quello nel quale si era schierato Collesano Vincenzo. Nel corso del dialogo, il Bruno affermava, inoltre, di essersi interessato alla questione della vendita del terreno e di volere partecipare all’incontro che il Davì avrebbe avuto con gli altri protagonisti della vicenda presso l’azienda avicola dei Vernaci. Il servizio di osservazione predisposto dagli agenti operanti consentiva di appurare che l’annunciato incontro “da quello delle uova” (l’azienda avicola dei Vernaci) aveva effettivamente avuto luogo. Alle ore 17,00 del 19 aprile 2004, subito dopo la nuova riunione svoltasi nell’azienda dei Vernaci, il Davì raccontava a Collesano Rosario l’epilogo della vicenda discussa con il Cinà il precedente 16 aprile, alla presenza del Gottuso. I due biasimavano il comportamento del gruppo avverso e di Vincenzo Collesano, che ne era uno dei principali esponenti; dal colloquio si evinceva, in particolare, che il Di Blasi ricopriva una posizione di spicco nel gruppo cui apparteneva lo stesso Vincenzo Collesano, ma, al contenpo, che anche il Collesano vi rivestiva una posizione di importanza certamente non secondaria. Alla stregua della suddetta articolata esposizione di quanto emerge dalle intercettazioni, non può revocarsi in dubbio, contrariamente a quanto è stato 232 osservato in proposito dall’appellante, dell’inserimento del Collesano a pieno titolo nel milieu delinquenziale della “famiglia” di Partanna Mondello, a prescindere dalla esistenza o meno di una sua rituale affiliazione. Invero, come è ormai jus receptum, la compartecipazione alla consorteria criminosa denominata “cosa nostra” può essere assunta tanto attraverso l’acquisizione della qualifica di “uomo d’onore”, che consegue, appunto, al compimento di un particolare cerimoniale, quanto attraverso la messa in atto di comportamenti univocamente significativi della volontà di perseguire le medesime finalità illecite che l’organizzazione criminosa si prefigge, ponendo, quindi, senz’altro in essere detti comportamenti, ossia per facta concludentia. E ad avviso di questa Corte, i comportamenti dell’imputato debbono essere senz’altro ritenuti particolarmente indicativi di una sua compenetrazione nel tessuto connettivo dell’associazione mafiosa. certa Del tutto irrilevanti appaiono, infatti, i contrasti sorti all’interno della stessa, di cui vi è indiscutibile traccia nelle intercettazioni esaminate, determinati principalmente dalla rivalità esistente tra l’odierno imputato ed il fratello Collesano Rosario e dalla preferenza che, a quanto sembra, è stata concessa dal reggente della cosca Davì a quest’ultimo, dal momento che tali contrasti non impediscono ovviamente la configurabilità del contestato delitto di associazione mafiosa. Invero, secondo l’orientamento assolutamente consolidato della S.C., risponde di partecipazione ad associazione mafiosa colui che risulta in rapporto di stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare l'assunzione di un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato “prende parte” al fenomeno associativo rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Cass. Pen. Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748). E tali caratteristiche, come agevole rilevare, ricorrono tutte nella condotta attribuibile all’odierno imputato. 233 D’altra parte, come esattamente è stato osservato dai primi Giudici, anche con riguardo alla posizione del Collesano, le risultanze dei servizi di intercettazione hanno assunto una assai rilevante capacità rappresentativa del suo inserimento nell’organizzazione criminale denominata “cosa nostra”. Le acquisizioni probatorie derivanti dalle numerose conversazioni captate hanno consentito, infatti, di delineare chiaramente gli assetti della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, che in quella fase storica è caratterizzata dallo scontro intestino tra due gruppi contrapposti e dalla grave situazione di conflitto determinatasi tra i fratelli Collesano, schierati su fronti diversi. La contrapposizione esistente tra i Collesano era ben nota negli ambienti di “cosa nostra” e costituiva motivo di gravi preoccupazioni per il Gottuso, l’uomo che - come risulta pacificamente dalle emergenze processuali svolgeva attività di mediazione immobiliare muovendosi con estrema disinvoltura tanto negli ambienti dell’imprenditoria, quanto tra gli uomini di “cosa nostra”, garantendo gli interessi delle famiglie mafiose di volta in volta interessate. Il Gottuso si è adoperato personalmente per comporre le tensioni createsi all’interno della “famiglia” di Partanna Mondello, ulteriormente esarcebate dal fatto che Salvatore Davì, scarcerato dopo un lungo periodo di detenzione, aspirava ad assumere il ruolo di vertice della cosca, forte del suo stretto rapporto con Salvatore Lo Piccolo. Dalla menzionata conversazione intercorsa tra Collesano Rosario e la moglie, è stata tratta l’ulteriore conferma del fatto che il dissidio tra i fratelli non riguardava soltanto questioni personali (come sostenuto dall’imputato in sede di esame dibattimentale), ma anche e soprattutto, il rispettivo posizionamento nei due schieramenti contrapposti. Le dichiarazioni del Franzese, la cui attendibilità è stata ben illustrata dai primi giudici, hanno pienamente confermato le risultanze dell’attività di intercettazione, conferamando la circostanza che all’interno della famiglia mafiosa di Partanna Mondello convivevano due opposte fazioni: da un lato, 234 quella riconducibile al Davì, appoggiato da Collesano Rosario e da Bruno Giuseppe, detto “castagna”, dall’altro, quella riconducibile a Di Blasi Francesco, appoggiato da Collesano Vincenzo e De Luca Antonino. Parimenti, appare evidente l’inconsistenza della tesi difensiva che vorrebbe ricondurre ad una banale querelle familiare e a meri interessi privati un conflitto che, dal contenuto delle intercettazioni, appariva prossimo a scoppiare fra due gruppi di mafia contrapposti interessati a lucrosissimi affari nel settore immobiliare. Dalle anzidette risultanze emerge, infatti, che l’odierno imputato era personalmente coinvolto nelle trattative inerenti la cd. “sensaleria” per la vendita del fondo Vernaci e cercava di accreditarsi presso Lo Piccolo Salvatore, al fine di prevalere sul Davì. Ed a tale riguardo appariva significativa del grado di inserimento dell’imputato nell’associazione mafiosa anche la circostanza che il Cinà, indirizzato dal Lo Piccolo a parlare con il Di Blasi per risolvere la questione, fosse stato da quest‟ultimo dirottato proprio verso il Collesano Vincenzo, che doveva perciò considerarsi il referente del gruppo facente capo al Di Blasi. Ma, vi è di più. Accanto alle anzidette circostanze di inequivoco valore probatorio, si colloca altra incontrovertibile prova documentale. Si intende far riferimento al chiaro contenuto del documento sequestrato al Franzese in occasione del suo arresto, laddove i fratelli Collesano compaiono (indicati con l’abbreviazione “coll”) vengono menzionati fra i soggetti destinatari di somme di denaro derivanti dalle estorsioni. Ed al riguardo pienamente credibile appare la cd “interpretazione autentica” dello scritto fornita dallo stesso Francese, il quale ha, per l’appunto, chiarito che le cifre indicate nel manoscritto si riferivano alla suddivisione di una ingente somma di denaro ricavata da un’estorsione fra i vari appartenenti alla “famiglia” di Partanna Mondello, fra cui anche i fratelli Collesano. 235 Ed è perfino evidente come il contenuto di tale documento consenta di riscontrare esternamente l’assunto del Franzese secondo cui Vincenzo Collesano era soggetto particolarmente attivo nel settore delle estorsioni, essendo stato delegato dal Di Blasi a riscuotere il “pizzo” presso vari esercizi commerciali. Al riguardo le dichiarazioni del Franzese riscontrano pienamente anche quelle del Nuccio il quale ha confermato il rapporto di sovraordinazione gerarchica esistente tra il Di Blasi e l’odierno imputato ed il ruolo di quest’ultimo di soggetto deputato alla raccolta del pizzo. Le lineari dichiarazioni del Nuccio hanno confermato sostanzialmente anche le propalazioni del Franzese nella parte in cui questi ha riferito della mancata adesione del Collesano ad una richiesta, indirettamente proveniente da Sandro Lo Piccolo e trasmessa dallo stesso Franzese, di cedere un lavoro di idraulica in favore di un altro soggetto gradito al capomandamento di San Lorenzo. L’appellante, per vero, come si è detto, ha cercato di sminuire l’efficacia probatoria del documento summenzionato, sostenendo che i soggetti menzionati con l’indicazione “Coll” non sarebbero i fratelli Collesano, sostenendo che dovrebbe escludersi che il Davì (ispiratore del documento rinvenuto nella disponibilità del suo successore Francesco Franzese) potesse beneficiare un soggetto, quale era Collesano Vincenzo, vicino al suo concorrente Di Blasi. Tale assunto è, però, palesemente infondato. Sarà sufficiente rammentare, a tacer d’altro, che le “assegnazioni” di quote del ricavato delle estorsioni veniva effettuata direttamente non dal Davì ma dai Lo Piccolo, con criteri prestabiliti. Seguendo l’ordune di idee prospettato dall’appellante, poi, non si riuscirebbe a comprendere le ragioni per le quali il Lo Piccolo avrebbe assegnato una parte del bottino anche al Di Blasi, che del Collesano era, nella gerarchia mafiosa, il diretto superiore. 236 A smentire l’assuno difensivo soccorrono peraltro le ulteriori risultanze inerenti l’effettiva esistenza di uno stretto legame tra l’odierno imputato e il Franzese costituite dalle dichiarazioni del collaboratore Spataro che ha rammentato come il capomandamento di Resuttana Bonanno, allorchè aveva la necessità di incontrare lo stesso Franzese per fatti inerenti l’organizzazione mafiosa si rivolgesse proprio al Collesano per stabilire il contatto. Parimenti inconsistenti appaiono i rilievi difensivi con cui si è messa in dubbio la valenza probatoria delle indicazioni fornite dal collaboratore Pulizzi sul conto del prevenuto. Anche il Pulizzi, infine, aveva dichiarato di conoscere il Collesano, ricordando il suo intervento infruttuoso nella vicenda relativa all’estorsione ai danni dell’imprenditore Caravello, volto ad ottenere una riduzione dell’importo coattivamente richiesto dalla “famiglia” mafiosa di Carini, in quel periodo capeggiata dallo stesso Pulizzi; in relazione a tale vicenda, il Collesano si era peraltro già rivolto a Nino Pipitone e non aveva mancato di precisare al Pulizzi che conosceva anche Nino Di Maggio. A conferma della piena attendibilità del Pulizzi, la vicenda è stata narrata in termini speculari dal Franzese, anch’egli destinatario della richiesta, avanzatagli dal Collesano, di intercedere con gli esponenti mafiosi di Carini nell’interesse del Caravello, per ottenere la riduzione di una somma di denaro che invece fu poi interamente ritirata dal Mancuso e consegnata a Ferdinando Gallina. I contatti con il Pulizzi nell’ambito della vicenda relativa al Caravello sono stati ammessi, infine, anche dallo stesso Collesano. Per quel che concerne il riferimento, quale ulteriore indizio di responsabilità del Collesano, alla presunta non veridicità delle dichiarazioni rese dai fratelli Testaverde, e dai fratelli Adile - indicati dal Franzese tra i commercianti taglieggiati dalla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello mediante l’intervento diretto del Collesano – i quali hanno negato di avere ricevuto richieste estorsive da parte dell’imputato, sarà sufficiente osservare 237 che l’attendibilità del Franzese su questo punto, risulta confermata dal rinvio a giudizio degli Adile, e che tale circostanza non vale ad estendere la qualità di indagati nel reato di favoreggiamento personale attribuita agli Adile, come ritiene erroneamente l’appellante, amche ai Testaverde; bensì refluisce sulla complessiva attendibilità del collaborante, che viene a trovare, così, una sostanziale conferma alle sue asserzioni. Va rilevato, in conclusione, che, benché non sia emerso dalle fonti dichiarative che l’odierno imputato fosse stato ritualmente affiliato a “cosa nostra”, l’imponente materiale probatorio raccolto a carico del Collesano dimostra comunque, in termini inoppugnabili, il suo organico inserimento nella “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, il ruolo dinamico svolto al servizio della cosca, ed il consapevole contributo arrecato al perseguimento delle finalità illecite proprie dell’organizzazione, sicché lo stesso è stato correttamente ritenuto responsabile del reato contestatogli. Con il secondo motivo, in via subordinata, l’appellante invoca la concessione delle attenuanti generiche e la determinazione della pena nel minimo edittale. Sarebbe emerso, infatti, che egli era trattato male, in quanto inviso al Franzese Franco e al Sandro Lo Piccolo, ai quali avrebbe fatto fare “cattiva figura”. Inoltre, dopo l'arresto di Ciccio Di Blasi si sarebbe allontanato, e tale circostanza sarebbe rilevante per la valutazione dell'intensità della condotta antigiuridica che lo stesso avrebbe posto in essere. Conclusivamente, quindi, il trattamento sanzionatorio adottato dal Collegio non sarebbe apparso adeguato alla effettiva gravità della condotta attribuibile all'appellante. Le censure sono prive di fondamento. L’appellante, infine, si duole della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e della entità della pena inflittagli, della quale invoca, in linea di maggiore subordine, una più mite rideterminazione. Neanche queste ultime censure appaiono suscettibili di accoglimento. 238 Rileva, infatti, la Corte che i fatti relativi all’odierno procedimento rivestono particolare gravità, tenuto conto in particolare del rilevante spessore criminale dell’imputato, dipendente dalla lunga militanza in seno al sodalizio criminoso, dal suo prestigio derivante dalla notevole caratura criminale ed alla rilevante gravità dei reati da lui commessi (estorsioni), sicché deve essere ritenuto legittimo il rifiuto opposto dai primi Giudici alla concessione delle attenuanti innominate. Parimenti equa ed adeguata ex art. 133 c.p. alla gravità del reato ed alla personalità dell’autore, appare la pena complessivamente irrogata all’imputasto (anni dodici di reclusione)., osservandosi al riguardo che detta pena risulta essere stata determinata in una misura che garantisce al tempo stesso il diritto dell’imputato ad un trattamento sanzionatorio equo, nell’ambito segnato dalla Carta costituzionale, e l’esigenza statuale che i crimini di rilevante entità vengano sanzionati con pene adeguate. Con il terzo motivo, infimne, in ulteriore subordine, l’appellante assume che il Tribunale avrebbe dovuto ritenere insussistenti le aggravanti di cui ai commi quarto e quinto dell'art. 416 bis c.p. e di converso applicare una pena minore. Ed invero l'istruzione dibattimentale non avrebbe offerto la prova né che la “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello disponesse di armi, né che le estorsioni di cui il Nuccio Antonino e il Franzese Franco avevano riferito fossero state in realtà consumate. Ed infatti nessuna arma era stata sequestrata ai predetti e nessun soggetto aveva confermato di essere stato estorto. Le censure sono prive di fondamento. Invero, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della S.C. “In tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l’aggravante prevista dall’art. 416 bis comma 4° c.p., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi della 239 organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra” può ritenersi che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile” (Cass. pen., sez. I, 18 aprile 1995, Farinella). E tale indirizzo è stato più recentemente ribadito dalla stessa S.C.: “In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso la circostanza aggravante della disponibilità delle armi - di cui all’art. 416 bis, commi quarto e quinto cod. pen. - non richiede la diretta detenzione, nè il porto di esse, e, una volta provato l’apparato strutturale mafioso, l’eventuale disponibilità di armi o esplosivi da parte di alcuni degli associati, ben può ritenersi finalizzata, in linea di principio, al conseguimento degli scopi propri dell’associazione di tipo mafioso. E’ dunque sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti abbiano la disponibilità di armi, per il conseguimento dei fini del sodalizio, perchè detta aggravante, di natura oggettiva, sia configurabile a carico di ogni partecipe il quale sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati, o lo ignori per colpa, non sussistendo - attesa l’ampia formulazione dell’art. 59, comma secondo cod. pen., introdotto dalla legge 7 febbraio 1990 n.19 - logica incompatibilità tra l’imputazione a titolo di dolo della fattispecie criminosa base e quella, a titolo di colpa, di un elemento accidentale come la circostanza in questione” (Cass. Pen., sez. I, 27 ottobre 1997, n. 9958, Carelli ed altri). Nè, peraltro, possono condividersi le preoccupazioni, talora manifestate con riferimento all’anzidetta aggravante, in elemento strutturale del reato, dal momento che la stessa sarebbe sempre in concreto ravvisabile in qualsivoglia ipotesi di associazione per delinquere di stampo mafioso. E’ agevole, infatti, osservare che l’art. 416 bis disciplina la figura dell’associazione di stampo mafioso in generale, e non già la consorteria delinquenziale denominata “cosa nostra”, la quale, unitamente ad organizzazioni similari quali, ad esempio, la camorra napoletana o la “sacra corona unita” pugliese, o la “‘ndrangheta” costituisce una species nell’ambito del genus costituito dalla categoria generale dell’organizzazione criminale caratterizzata dal modo di agire denominato “mafioso”, e che, a 240 differenza delle organizzazioni menzionate, ben può non avere la disponibilità di armi. Tale tesi, dunque, sarebbe condivisibile soltanto ove l’art. 416 bis disciplinasse esclusivamente la consorteria criminosa denominata “cosa nostra”, e non già l’associazione di stampo mafioso in genere. Ne consegue che l’aggravante de qua potrà considerarsi sempre ricorrente nel caso in cui la consorteria criminosa rientrante nell’ambito di applicabilità dell’art. 416 bis sia “cosa nostra”, ma che, ovviamente, non potrà essere considerata elemento costitutivo di una fattispecie legislativa autonomamente disciplinata (associazione mafiosa denominata “cosa nostra”) che non trova allocazione nell’attuale ordinamento penale. In proposito la giurisprudenza della S.C. si è espressa affermando che “Allorché risulta che l’associazione per delinquere di stampo mafioso faccia uso di armi, la mancanza della disponibilità di esse da parte del singolo partecipe non esclude, a carico dello stesso, l’esistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis quarto comma cod. pen., essendo sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti ne abbiano la disponibilità, allo stesso modo che non è necessario, per la sussistenza dell’aggravante di cui al successivo sesto comma, che il singolo associato personalmente si interessi a finanziare con i proventi da delitti, le attività economiche di cui i partecipi dell’associazione criminale intendono assumere e mantenere il controllo” (Cass. Pen. Sez. I, 6.8.1996, Trupiano). Ne consegue che dovrà trovare applicazione nella specie l’aggravante contestata, ancorché effettivamente non risulti provato che l’imputato abbia realmente avuto il possesso di armi. 2-7. - L’APPELLO NELL’INTERESSE DI DE LUCA ANTONINO – L’appellante premette alla esposizione dei motivi, che la S.C. ha sancito il principio secondo cui la partecipazione ad una associazione criminosa ex art. 416 bis c.p. può essere desunta da indicatori fattuali fondati su 241 attendibili regole di esperienza attinenti specificamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, purché si tratti di indizi gravi e precisi, tra i quali, esemplificando i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, si annoverano l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di “uomo d'onore”, la commissione di delitti - scopo idonei, senza alcun automatismo probatorio, a fornire la dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento allo specifico periodo temporale considerato dall'imputazione. E si è affermato che non è necessario un atto formale di affiliazione ai fini dell'ingresso nell’associazione criminosa, dal momento che questo potrebbe avvenire anche in virtù di tacito assenso. Nel caso dell'associazione di stampo mafioso, differenziandosi questa dalla comune associazione per delinquere, per la sua peculiare forza di intimidazione, derivante dei metodi usati e dalla capacità di sopraffazione, a sua volta scaturente dal legame che unisce gli associati, ai quali si richiede di prestare, quando necessario, concreta attività diretta a piegare la volontà dei terzi che vengano a trovarsi contatto con l'associazione e che ad essa eventualmente resistano, detto contributo può essere costituito anche dalla dichiarata adesione all'associazione da parte del singolo, il quale presti la sua disponibilità ad agire quale “uomo d’onore” per gli anzidetti fini. Il partecipe, pertanto, dovrebbe identificarsi con un soggetto la cui volontà di operare a favore dell’associazione trovi riscontro in una altrettanto univoca e concorde decisione di inserirlo nel tessuto organizzativo, risoltasi con l'affidare a tale soggetto un ruolo permanente all’interno dell’associazione medesima. Fatte tali premesse, l'appellante assume, con il primo motivo, di essere soggetto sicuramente estraneo alle dinamiche di “cosa nostra” e di non essere alla stessa affiliato. Infatti, gli elementi di prova acquisiti non consentirebbero di affermare che il De Luca Antonino abbia mai manifestato la volontà di operare a favore dell'associazione, e in tal senso sarebbe assente un’altrettanto univoca e concorde decisione di inserirlo nel 242 tessuto criminale, e difetterebbe l'individuazione di un suo ruolo stabile e permanente all'interno dell'organizzazione denominata “cosa nostra”, anche come mero concorrente esterno. Evidenzia, quindi, in primo luogo che gli elementi indiziari emersi nel corso dell'indagine svolta dalla Squadra Mobile di Palermo, si fondano sull'esito di servizi di osservazione sul territorio, svolti anche nel deposito di ceramiche di Gottuso Salvatore e presso il luogo di lavoro residenza di Pipitone Vincenzo, nonché sul contenuto di numerose conversazioni telefoniche ed ambientali intercettate, che provano l'esistenza e l'operatiità del sodalizio criminoso “cosa nostra” nelle articolazioni riconducibili alle “famiglie” mafiose di Carini, Partanna Mondello e S. Lorenzo ricomprese nel “mandamento” mafioso di San Lorenzo - Tommaso Natale. Osserva che dalle risultanze dell'attività investigativa sono stati tratti rilevanti contributi conoscitivi in ordine al conflitto esistente in seno alla “famiglia” di Partanna Mondello e, in particolare, ai contrasti insorti all'interno di essa, ma che mai verrebbe fatto il nome di De Luca Antonino. Dal contenuto delle intercettazioni si evince che si erano venuti a creare in seno alla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello due schieramenti che rappresentavano i diversi interessi economici sottesi alla realizzazione dell'affare ed al contempo all'affermazione di due distinte sfere di potere sull'area territoriale in questione. Ed il primo giudice avrebbe correttamente valutato il positivo valore probatorio delle intercettazioni, ma non avrebbe tenuto in considerazione, con riferimento al De Luca, che dall'analisi del contenuto delle stesse emergerebbe la pressoché totale assenza di qualsiasi contatto di quest’ultimo, sia con i coimputati, che con qualunque altro soggetto gravitante all'interno di “cosa nostra”. E tale circostanza sarebbe dovuta essere valutata favorevolmente per un soggetto imputato di un reato così grave come quello costituente oggetto di gravame. Osserva ancora che l’accusa a suo carico si reggerebbe esclusivamente sulle chiamate in correità, costituenti l’unico elemento probatorio in tal senso. Detta accusa, infatti, sarebbe costituita unicamente dalle dichiarazioni dei 243 collaboratori di giustizia escussi nella veste di imputati di reato connesso ex art. 210 c.p., ovvero in qualità di testimoni assistiti, ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p. Rileva, quindi, che la maggior parte dei collaboratori non è stata in grado di fornire alcuna notizia sul conto di esso appellante: Abitabile Antonino, sentito nelle forme di cui all’art. 197 bis c.p.p., ha dichiarato non conoscere De Luca Antonino, e la medesima considerazoone vale per Onorato Francesco e Cracolici Isidoro, avendo anche costoro dichiarato di non conoscere il De Luca. Identica risposta hanno fornito i collaboranti Mazzola Giovanni e Pulizzi Gaspare. La tesi accusatoria, pertanto, verrebbe a fondarsi esclusivamente sulle dichiarazioni rese dai collaboratori Franzese Francesco e Nuccio Antonino, ma le testimonianze di costoro sarebbero contraddette da elementi fattuali e, soprattutto, sarebbero assolutamente disancorate tra di loro. Il Franzese, una volta diventato reggente della “famiglia” di Partanna Mondello, aveva avuto da Lo Piccolo Sandro l'elenco degli operatori economici che già pagavano stabilmente il pizzo al Davì, nonché l'elenco degli associati che ricevevano un sussidio dall'organizzazione mafiosa, ossia la c.d. “mesata”, ma tra questi non era dato rinvenire il nome del De Luca Antonino. Lo stesso, a differenza di tutti i precedenti collaboratori, aveva reso delle dichiarazioni a carico del De Luca, ma da una attenta analisi di esse, si potrebbe agevolmente verificare come egli nutrisse motivi di rancore nei confronti di quest’ultimo, che lo avrebbero indotto a rendere affermazioni mendaci sul suo conto. Il Franzese aveva precisato che si era avvalso soprattutto della collaborazione di Nino Nuccio, uomo di cui si fidava ciecamente, tanto è vero che questi era l'unico soggetto che curava la sua latitanza, quando egli si era reso irreperibile a seguito della sentenza denominata mare nostrum, con la quale era stato condannato all'ergastolo Il Franzese avrebbe curato in perfetta autonomia ogni forma di estorsione e di danneggiamento, e delegava il Nuccio per recuperare la manovalanza, 244 dandogli precise istruzioni. E sul conto del De Luca non avrebbe indicato alcuna azione delinquenziale, fatta eccezione di quella per cui lo stesso venne tratto in arresto, e la cui notizia venne pubblicata in tutti i quotidiani locali. Assume, quindi, che il Tribunale avrebbe errato nella parte in cui aveva ritenuto che la contiguità del De Luca agli ambienti mafiosi di Partanna Mondello emergerebbe dalle attività investigative seguite al danneggiamento mediante incendio di due autovetture, avvenuto il 22 aprile 2004. In ordine a tale fatto, infatti, potrebbero essere formite diverse chiavi di lettura rispetto a quella effettuata dal Tribunale e di pari valore probatorio: l’auto sarebbe stata danneggiata per intimidire esso appellante al fine di sottoporlo al pagamento del pizzo, in quanto gestore di un vivaio e perciò di un’attività commerciale; l’auto era parcheggiata vicina a quella del cognato di Collesano Rosario, diretto antagonista del Franzese, per cui l'attentato incendiario sarebbe stato diretto esclusivamente all'auto del Mancuso e per mera coincidenza l’incendio aveva interessato anche l'auto del De Luca; il Franzese aveva danneggiato l'auto del De Luca in quanto creditore di una cospicua somma di denaro a fronte di lavori di ristrutturazione effettuati nell'appartamento del De Luca, sicché l'incendio costituiva un ultimo avvertimento al fine di indurre quest’ultimo a corrispondere la somma dovuta. Il Tribunale, poi, non avrebbe valutato che all'inserimento organico del De Luca nell'organizzazione criminosa si opponeva logicamente una duplice circostanza, costituita dal fatto che il De Luca era rimasto vittima della condotta di danneggiamento posta in essere dalla stessa associazione mafiosa di cui faceva parte, e che lo stesso, a sua volta, compiva un'azione totalmente contrastante con la mentalità mafiosa, consistente nello sporgere denunzia dinanzi agli organi di polizia giudiziaria competenti. Inoltre, subito dopo l’incendio, il De Luca non avrebbe effettuato alcuna telefonata, né in entrata né in uscita. 245 Dalle intercettazioni captate si poteva ritenere sufficientemente provato il rapporto di stretta amicizia intercorso tra il medesimo De Luca ed il Collesano Vincenzo, ma null’altro. Inoltre, non sarebbero sussistiti elementi dai quali desumere che il vivaio nella disponibilità dell'appellante fosse stato adibito a luogo di incontri tra gli esponenti dell'associazione mafiosa. L’unico elemento in proposito, infatti, proverrebbe dal Franzese, il quale, come si è detto, avrebbe avuto motivi di rancore nei confronti del De Luca, il quale non gli aveva pagato l’importo dei lavori di muratura eseguiti sulla sua abitazione. Rileva, quindi, l'appellante che l’imputazione a suo carico consiste esclusivamente nella sua partecipazione all'associazione mafiosa “cosa nostra” attinente al quartiere di Partanna Mondello, e che egli non risponde di alcun reato fine e ancor meno di reati in materia di stupefacenti. L’unica estorsione che viene riferita come elemento di riscontro alle propalazioni dei collaboranti è quella da lui commessa in Via Marinai Alliata, fatto di cronaca notorio per la pubblicità che ebbe su tutte le testate giornalistiche siciliane. Il Franzese, per converso, sfuggirebbe alle domande e parlerebbe di fatti assolutamente inconcludenti rispetto al thema probandum. Dal suo esame sarebbe dato evincere una totale contraddizione: prima aveva affermato che dall'inizio del 2005, subito dopo la sua scarcerazione, non aveva più frequentato il vivaio del De Luca; successivamente, per aggravare la posizione del De Luca, aveva affermato di avere assistito ad una riunione del 2005, ma a domanda della difesa in merito agli argomenti trattati nel corso della discussione, aveva risposto di non ricordarsene. Il Tribunale, inoltre, non avrebbe tenuto conto del provvedimento del Tribunale della libertà, che aveva ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese dai collaboratori, annullando l'ordinanza custodiale, mentre la produzione documentale della difesa in riferimento al processo “mare nostrum”, celebrato a Messina avrebbe cristallizzato la data in cui il Franzese si era 246 reso latitante, allontanandosi dalla borgata di Partanna Mondello. Tale produzione proverebbe l'assoluta inattendibilità del Franzese, e ne conseguirebbe la mancanza di riscontro alle dichiarazioni dello stesso, che entrerebbero in piena collisione con la tesi accusatoria, che vede il De Luca come vicino al Collesano Vincenzo e al Di Blasi Framcesco, frazione contrapposta a quella del Davì e del Collesano Rosario, mentre dalla intercettazione prima evidenziata si evincerebbe come lo stesso Davì avrebbe individuato De Luca come “il fioraio”, in maniera distaccata e dispregiativa, mentre stando alle parole del Franzese lo stesso sarebbe dovuto essere un adepto del Davì. Secondo l'appellante, quando il Franzese uscì dal carcere nel gennaio 2005, chiese subito al De Luca di pagare il debito residuo relativo agli anzidetti lavori di muratura, ma l'imputato prese tempo, ed il collaborante parlò allora della questione con il Collesano Vincenzo, in quanto l'imputato non si recava più al vivaio, luogo in cui veniva svolta l'illecita attività di vendita degli stupefacenti. Orbene, l’assunto del Franzese è tale da collidere logicamente con l'impianto accusatorio a carico del De Luca. Sarebbe, infatti, contrario ad ogni logica che venissero effettuate delle riunioni mafiose nello stesso luogo ove il titolare svolgeva attività illecita di spaccio di stupefacenti. In definitiva, l’unico elemento fornito dal Franzese a carico del De Luca sarebbe costituito da un fatto notorio riguardante l'estorsione che il De Luca stesso pose personalmente in essere ai danni di un cantiere edile sito nella Via Marinai Alliata. Non vi sarebbe alcun elemento indicativo di una reale fattuale partecipazione del De Luca alla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, e nessun riscontro alle pretese riunioni a cui forse partecipò solo il Franzese, ma che certamente non avvennero all'interno del vivaio del De Luca e ancor meno in sua presenza. Contraddittorie sarebbero le dichiarazioni rese dal collaboratore in merito alla partecipazione del De Luca all'associazione mafiosa, anzi, per meglio dire, prive di ogni contenuto in riferimento al capo di accusa, in quanto lo 247 stesso collaboratore maldestramente avrebbe tentato solo di accreditare a sè un’attendibilità sino ad oggi non riconosciuta, Infatti, ha tentato di incolpare il De Luca di reati estorsivi, mai contestati a quest’ultimo ma non ha mai riferito in merito alla partecipazione dello stesso De Luca alla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello. Al contrario, con talune sue affermazioni avrebbe avallato la tesi difensiva, come nel caso in cui a domanda del difensore se il De Luca avesse mai percepito somme di denaro dallo stesso dichiarante o da altro soggetto mafioso, ha riferito di non avergli mai corrisposto somme di denaro. Il De Luca, infatti, era l'unico soggetto non inserito nel “pizzino” sequestrato al Franzese, in cui erano appuntate le mensilità date agli uomini della borgata appartenente alla “famiglia” che, per l’appunto, percepivano un reddito mensile per le azioni delinquenziali poste in essere nell'interesse di “cosa nostra”. L’altro collaborante, Nuccio Antonino, non parla di una posizione del De Luca all'interno dell'associazione denominata “cosa nostra”, ma esclusivamente di una estorsione di cui l’odierno imputato si sarebbe occupato, senza fornire il nome del costruttore che sarebbe stato vittima del fatto estorsivo, privando così la difesa di una verifica sull'attendibilità del collaboratore. Inoltre, non sarebbe stato presente né all’asserito colloquio intercorso tra tale Di Maio ed il De Luca, né quando il primo ebbe a consegnare al secondo la somma di mille euro, costituente il provento dell’estorsione, che doveva essere consegnata al Davì. Successivamente, in sede di controesame, aveva modificato la versione dei fatti, affermando cosa totalmente diversa rispetto al precedente assunto, sostenendo, in particolare, che per intermediare l’estorsione si sarebbe rivolto prima al Collesano, e che sarebbe stato quest’ultimo ad indirizzarlo dal De Luca. Prima, infatti, aveva dichiarato di essersi recato direttamente dal Di Maio, stante l'assenza da Palermo del Franzese, resosi latitante per l’approssimarsi della pubblicazione della sentenza “mare nostrum”. 248 Tale ultimo punto, a detta dell’appellante, farebbe comprendere l’inattendibilità del Nuccio, ed il suo tentativo di addebitare al De Luca un fatto assolutamente non riscontrato. Dalla produzione difensiva si potrebbe agevolmente verificare che nella data riferita dal Nuccio per l’intermediazione estorsiva, il De Luca era già detenuto (era stato arrestato nell’aprile 2006 a seguito del fermo per la tentata estorsione) ed il Franzese era in stato di libertà, per cui, se il fatto narrato dal Nuccio fosse avvenuto quando il De Luca era libero, anche il Franzese lo sarebbe stato, per cui il Nuccio si sarebbe rivolto a quest’ultimo e non certamente al Di Maio. La circostanza eccezionale di rivolgersi ad un affiliato mafioso appartenente ad una diversa “famiglia” presuppone che in quel momento storico vi sia un vuoto di potere, che poteva coincidere esclusivamente con la latitanza del Franzese. Pertanto, il Tribunale avrebbe errato, in quanto il Franzese, sino all’emissione della sentenza mare nostrum, non si trovava fuori Palermo. Soggiunge l’appellante che sarebbero ipotizzabili tre soluzioni: la prima era che il Nuccio abbia parlato di una estorsione mai avvenuta addebitandola ingiustamente al De Luca; la seconda che l’estorsione sia stata commessa in un periodo in cui il Franzese era già latitante, e quindi in data successiva al luglio del 2006, ma, in tal caso, l’accusa sarebbe infondata in quanto il De Luca risultava detenuto dall’aprile del 2006; la terza che l’estorsione sia stata commessa in una data in cui il Franzese era a Palermo in attesa della sentenza “mare nostrum” in data compatibile con lo stato di libertà del De Luca, ma anche in questo caso la tesi del Nuccio sarebbe risultata non veritiera, in quanto, essendo il Franzese libero ed ancora responsabile mafioso del territorio, il Nuccio si sarebbe dovuto rivolgere al proprio referente e certamente non a Di Maio Salvatore inteso “Africa”, appartenente alla “famiglia” di Tommaso Natale, e dunque referente di altra zona, che lo avrebbe inviato dal De Luca. Avrebbe, pertanto, errato il Tribunale nella parte in cui aveva ritenuto attendibile il Nuccio, il quale avrebbe intenzionalmente collocato il fatto 249 estorsivo tra il gennaio e il febbraio del 2006, con il chiaro intento di danneggiare il De Luca, evidentemente sapendo che quest’ultimo era detenuto dall’aprile del 2006, nonché nella parte in cui aveva ritenuto che le dichiarazioni rese dal Franzese e dal Nuccio si riscontravano reciprocamente, non essendo, in realtà, concordemente individuato il ruolo del De Luca e l’effettivo apparto dallo stesso dato all'associazione. Mancherebbe anche un minimo riscontro alle dichiarazioni del Franzese nella parte in cui aveva indicato il vivaio di pertinenza del De Luca come un luogo più volte utilizzato per riunioni mafiose, alle quali egli stesso aveva dovuto partecipare. Dall’esame del De Luca era emerso soltanto che lo stesso conosceva Collesano Vincenzo, che aveva eseguito lavori nella sua nuova casa e che era solito frequentare il suo esercizio commerciale negli anni 2003/2004. In ogni caso, la partecipazione del De Luca all’associazione mafiosa, doveva esserre circoscritta alla disponibilità che lo stesso dava del suo vivaio agli associati, al fine di consentire che vi avvenissero delle riunioni, non essendo stata data la prova del coinvolgimento dello stesso in affari illeciti mafiosi. Le censure sono prive di fondamento. E’ opportuno, peraltro, pemettere che, come è stato esattamente osservato dai Giudici di prime cure, la contiguità del De Luca agli ambienti mafiosi di Partanna Mondello era emersa chiaramente dalle attività investigative seguite al danneggiamento seguito da incendio di due autovetture, avvenuto il 22 aprile 2004; tali indagini consentivano di acquisire ulteriori informazioni in ordine alla contrapposizione esistente tra il gruppo facente capo al Davì e quello coagulatosi attorno a Collesano Vincenzo. In quella data veniva appiccato il fuoco a due autovetture, una “Renault Clio” ed una “Opel frontiera”; la prima intestata a Lucchese Carmela Ilaria Rita, titolare del vivaio denominato “La Venere dei fiori” (sito a Palermo, nel Viale Venere), moglie del De Luca; il proprietario del secondo veicolo dato alle fiamme era Mancuso Bartolomeo, cognato di Collesano Rosario. 250 I vigili del fuoco intervenuti sul posto accertavano la natura dolosa degli incendi. L’evento del 22 aprile formava oggetto della conversazione intercettata nel deposito di ceramiche di cui era titolare Gottuso Salvatore, presso il quale era stato installato un sistema permanente di captazione, il successivo 27 aprile, alle ore 8.58. Protagonisti della conversazione erano lo stesso Gottuso e tale Collesano Rosario, fratello di Collesano Vincenzo, entrambi bene inseriti negli ambienti mafiosi di Partanna Mondello e profondi conoscitori delle dinamiche interne al sodalizio criminale Nella prima parte della conversazione, i due interlocutori si soffermavano ancora una volta sulla questione della compravendita del fondo Vernaci, parlando della posizione del Davì, dei suoi rapporti con Di Blasi e della tensione esistente tra i due gruppi contrapposti. Dalla medesima conversazione emergeva che il De Luca era un uomo di fiducia di Collesano Vincenzo, il quale era solito frequentare la sua rivendita di fiori. Nel prosieguo, Collesano Rosario introduceva l’argomento relativo all’incendio delle due autovetture, che collegava alla situazione di conflittualità determinatasi all’interno della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, e, anzi, la collocazione del De Luca nello stesso schieramento di Collesano Vincenzo, facente capo al Di Blasi, veniva ritenuto dai due interlocutori all’origine dell’incendio appiccato alla sua autovettura, sicché l’episodio veniva dagli stessi considerato di rilevante gravità, essendo inquadrabile nel contesto delle gravi tensioni sorte tra i due gruppi in competizione per la conquista del potere mafioso nella zona di Partanna Mondello. Il Gottuso, in particolare, ipotizzava una propria spiegazione dell’accaduto, biasimando un recente comportamento del De Luca. In particolare, il Gottuso riferiva di avere appreso (dalle sue parole sembra potersi evincere che la sua fonte fosse il Cinà) che un soggetto non meglio identificato si era rivolto all’odierno imputato per incontrare Bruno Giuseppe, schierato invece con il Davì, per questioni di rilievo mafioso. 251 In quella circostanza, l’odierno imputato avrebbe sminuito il ruolo del Bruno nell’ambito dell’organizzazione mafiosa - indicandolo come “uomo d’onore” posato - ed aveva indirizzato il suo interlocutore da Collesano Vincenzo, accreditando dunque quest’ultimo come nuovo referente di “cosa nostra” nella zona di Partanna Mondello. Rammentano i primi Giudici che nel gergo mafioso, il termine “posato” indica la posizione di chi viene allontanato dall’organizzazione criminale, per avere violato una regola di “cosa nostra”, ovvero perché ritenuto non più idoneo a ricoprire il ruolo assegnatogli; in tal caso, non perde per ciò solo la qualità di “uomo d’onore”, ma rimane per un certo periodo – in alcuni casi anche a vita – in uno stato di quiescienza; a volte, dopo un periodo di osservazione, può anche essere riammesso a fare parte integrante dell’associazione criminale. Le pesanti osservazioni del De Luca sulla persona del Bruno, l’implicita sconfessione del ruolo del Davì e dei suoi alleati, venivano, pertanto, individuate come la plausibile causale del gesto intimidatorio compiuto ai suoi danni. L’attentato aveva, pertanto, una matrice mafiosa ed appariva riconducibile all’esigenza del Davì di riaffermare il proprio controllo sul territorio a discapito della fazione contrapposta, cui appartiene a pieno titolo il De Luca. Secondo entrambi gli interlocutori, dunque, l’attentato incendiario si inquadrava nell’ambito del confronto in atto a Partanna Mondello tra i due opposti schieramenti, di cui veniva chiarita la rispettiva composizione: da una parte Collesano Rosario e il Bruno con il Davì, dall’altra Collesano Vincenzo e il De Luca, nel gruppo facente capo al Di Blasi. Il fatto che il De Luca fosse un uomo di fiducia di Collesano Vincenzo, d’altra parte, appariva incontrovertibilmente dimostrato dalle risultanze di altre intercettazioni. Lo stretto rapporto esistente tra i due odierni imputati, infatti, emergeva a chiare lettere anche dalla conversazione del 2 aprile 2004 (ore 18.11), 252 intercorsa tra il Davì e Collesano Rosario all’interno dell’autovettura di quest’ultimo. Per quanto qui interessa, va rilevato che i due interlocutori, dopo avere parlato della inesistenza di contatti diretti tra Lo Piccolo Salvatore e Collesano Vincenzo, facevano espressamente riferimento al “fioraio di Via Venere”, per indicare il luogo abitualmente frequentato dallo stesso Collesano Vincenzo. L’appellante, come si è detto, contesta siffatta ricostruzione ed indica altri plausibili moventi dell’attentato incendiario. Osserva, tuttavia, la Corte che, a parte la considerazione che la tesi sopra riportata è stata espressa da un profondo conoscitore degli ambienti e della mentalità mafiosa quale è il Gottuso Salvatore, l’odierno procedimento non ha ad oggetto il più volte menzionato attentato incendiario e, quindi, l’individuazione dei suoi responsabili, bensì l’appartenenza o meno dell’imputato De Luca Antonino alla consorteria criminosa denominata “cosa nostra”. E sotto questo profilo ciò che più rileva sono le risultanze emerse dalle intercettazioni ambientali de quibus, alle quali ben può essere attribuito valore di prova. Invero, secondo l’orientamento assolutamente consolidato della S.C., il contenuto di una intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di aver partecipato, non è in alcun senso equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se va anch'esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all'art 192 comma terzo cod. proc. pen. (Cass. Pen. Sez. 5, 14.10.2003, n. 603; id. Sez. 4, 28.9.2006, n. 35860; Sez. 5, 26 marzo 2010, n. 21878; Sez. 1, 23.9.2010, n. 36218). L’ipotesi riguarda i c.d. conversanti. In questo caso, infatti, a differenza dei “collaboranti”, si tratta di persone che non scelgono deliberatamente di accusare qualcuno all'Autorità Giudiziaria, ma di persone, che, non sapendo che le loro conversazioni sono intercettate, parlano liberamente di vari 253 argomenti, spesso anche irrilevanti ai fini del processo per il quale è stata disposta la intercettazione. Tra le tante questioni discusse capita, quando vengano intercettate conversazioni di persone appartenenti ad organizzazioni criminali, che i soggetti intercettati discutano di problemi di lavoro, ovvero di imprese criminali già realizzate o da porre in essere e dei soggetti che hanno compiuto reati e con i quali loro siano in contatto. La differenza tra le due categorie di persone - collaboratori di giustizia e conversanti - appare del tutto evidente, perché nel caso dei conversanti non vi è alcuna consapevolezza di accusare qualcuno e l'intento di chi parla non è quello di accusare, ma essenzialmente quello di scambiare libere opinioni con un sodale. È allora evidente che tutte le riserve e tutte le prudenze necessarie per valutare la genuinità delle dichiarazioni del collaboranti non sussistono quando si tratta di conversazioni intercettate, perché in siffatte situazioni la spontaneità e la genuinità sono più semplici da accertare. Una volta accertato che i conversanti non sanno di essere intercettati, infatti, i criteri da utilizzare per la valutazione della prova sono quelli ordinari e non può farsi riferimento ai criteri indicati dall'articolo 192 comma 3^ c.p.p. Del resto la Suprema Corte ha già chiarito che il contenuto di una intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di una terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di avere partecipato, non è in alcun modo equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se va anche esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non va però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all'articolo 192 comma 3° c.p.p. Nella specie tanto il Gottuso che il Collesano Rosario danno per scontata, come è agevole rilevare dal contesto del discorso, l’appartenenza del De Luca all’associazione mafiosa, ed è perciò impensabile, dati anche la gravità del momento ed il preoccupante quadro che si è venuto a delineare 254 dopo l’attentato incendiario in parola, che le loro dichiarazioni sul punto possano essere dettate da intenti di rivalsa od inimicizia nei confronti dell’imputato, o possano essere comunque non veritiere. Ne consegue che gli elementi ricavabili dalle inercvettazioni anzidette appaiono, per sé soli, idonei ad integrare un sufficiente costrutto probatorio a carico del De Luca in ordine al reasto di partecipazione ad associazione di stampo mafioso contestatogli. Militano, tuttavia, a carico del prevenuto le dichiarazioni dei collaboranti, in specie di Franzese Francesco e Nuccio Antonino, nonché un inoppugnabile elemento di riscontro di carattere puramente estrinseco, costituito dalla sentenza di condanna per l’estorsione della Via Marinai Alliata, dallo stesso ammessa, che attesta a chiare lettere la capacità dell’imputato di compiere gravi reati di tipologia e marca puramente mafiose. Quanto alle dichiarazioni del Franzese, si rileva che, come hanno osservato i primi Giudici, il collaboratore ha riconosciuto l’effigie fotografica del De Luca, dichiarando di conoscerlo da molti anni in quanto si tratta di un soggetto di Partanna Mondello, e di avere eseguito per lui anche lavori di muratura, aggiungendo che mentre egli era detenuto, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2005, il De Luca si era avvicinato al Davì, occupandosi di danneggiamenti, di estorsioni e di traffico di droga per conto dell’associazione mafiosa e prendendo ordini dallo stesso Davì. Quando il Franzese uscì dal carcere, aveva chiesto al De Luca di pagare il debito residuo relativo ai predetti lavori di muratura, che ammontava a poco meno di 20.000 euro, ma avendo l’imputato preso tempo, aveva parlato della questione con Collesano Vincenzo, che sapeva essere molto amico del De Luca; in quella circostanza, il Collesano gli aveva raccontato che egli si era allontanato dal Davì e, di conseguenza, anche dal De Luca, essendo più vicino a Ciccio Di Blasi, che con il Davì non andava d’accordo. In sostanza, il Di Blasi e il Collesano non avrebbero condiviso i metodi arroganti e violenti utilizzati dal Davì e dal De Luca ai danni dei commercianti nella commissione delle estorsioni; il De Luca, in particolare, 255 era uno dei componenti di una “squadra” agli ordini del Davì, di cui facevano parte anche il fratello di Michele Catalano e Sandro Dieli; ed era stato il Collesano a dirgli che costoro avevano danneggiato l’autovettura di Andrea Marino al rione Marinella e quella di Bartolo Mancuso, parente del fratello dello stesso Collesano; inoltre, avevano compiuto pesanti atti intimidatori, apponendo delle croci sui siti di cantieri edili; il collaborante aveva ricevuto informazioni dello stesso tenore anche da Michele Catalano e da Giovanni Botta, che aveva pure subito il danneggiamento del suo autoveicolo. Un’altra ragione di attrito tra il Davì e il Di Blasi era costituita dal fatto che il primo, non appena uscito dal carcere, pretendeva di assumere un ruolo sovraordinato rispetto al secondo, ma ciò non gli era stato concesso fino all’arresto dello stesso Di Blasi, per quanto godesse di un potere rilevante, forte anche del suo rapporto personale con Salvatore Lo Piccolo, di cui era compare. Inoltre, il Davì intendeva gestire in prima persona lo spaccio di droga allo ZEN, sempre con la collaborazione del De Luca (definito dal collaborante un esperto di sostanze stupefacenti), ma avrebbe incontrato l’opposizione di Michele Catalano, referente mafioso della zona; il Catalano godeva dell’appoggio di Sandro Lo Piccolo, il quale riteneva che il traffico di droga dovesse essere gestito da soggetti di quella stessa zona; la questione fu oggetto di una riunione, avvenuta allo ZEN nel 2005, cui parteciparono il Franzese, il Davì, il Catalano e Salvo Genova; l’esito fu conforme ai desiderata di Sandro Lo Piccolo, in quanto si stabilì che il Catalano fosse coinvolto nel traffico illecito. Il contrasto tra il Di Blasi e il Davì non durò comunque a lungo, perché il Di Blasi venne poi arrestato e il Davì assunse i pieni poteri. In precedenza, prima che si costituisse nel 2003, il Franzese aveva già chiesto al Collesano di intervenire presso il De Luca perché saldasse il suo debito e di fare eventualmente pervenire il denaro ai suoi familiari. 256 Nell’anno 2005, dopo che il Franzese era stato rimesso in libertà, andò a trovarlo tale Fabio Cucina, del quartiere Sperone, chiedendogli se conoscesse il De Luca, che gli doveva ancora pagare una somma residua per una fornitura di droga; il dichiarante rispose che non poteva intervenire nella questione, in quanto anch’egli era creditore del De Luca per i lavori in muratura eseguiti a casa sua; una vicenda sostanzialmente identica si verificò con Salvino Sorrentino, un mafioso della “famiglia” del Villaggio Santa Rosalia. Quando uscì dal carcere, il Franzese preferì non frequentare il negozio del De Luca, avendo notato che vi era un notevole andirivieni di spacciatori e temendo quindi che fosse oggetto di indagini delle forze dell’ordine; in epoca antecedente alla sua detenzione, aveva avuto modo di partecipare a tre o quattro riunioni mafiose avvenute nello stesso negozio, cui avevano partecipato il Di Blasi, Vincenzo Collesano e Tonino Lo Brano, referente dello ZEN prima di Michele Catalano; nel 2005, ebbe modo di vedere anche il Davì nell’esercizio commerciale del De Luca, come pure il Mancuso. Il Franzese aveva poi riferito dell’estorsione posta in essere personalmente dal De Luca, tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, ai danni di un cantiere edile sito nella via Marinai Alliata, che il De Luca non aveva un ruolo direttivo nella “famiglia” di Partanna, essendo utilizzato come manovalanza, in quanto veniva talvolta mandato a compiere atti di danneggiamento. Nuccio Antonino ha dichiarato di avere personalmente conosciuto anche De Luca Antonino, che in una prima fase fu vicino a Collesano Vincenzo, e in seguito transitò nell’orbita di Salvatore Davì. Il De Luca, un fioraio che il collaborante aveva avuto modo di vedere due o tre volte, richiedeva il pagamento del “pizzo” in tutti i cantieri presenti nella zona di Partanna Mondello. Il Nuccio riferiva, in particolare, che tale Geraci Giuseppe si era rivolto a lui, dicendogli che un suo amico, il quale stava eseguendo piccoli lavori di 257 ristrutturazione edilizia a Valdesi, per un importo di 15.000 euro, aveva ricevuto una richiesta estorsiva di 1.500 euro. E poiché in quel periodo, collocato tra il gennaio e il febbraio del 2006, il Franzese si trovava fuori Palermo, in attesa della sentenza che avrebbe definito il processo cd. “mare nostrum”, il Nuccio si era rivolto a Di Maio Salvatore detto “Africa”, appartenente alla “famiglia” di Tommaso Natale. Il Di Maio aveva rilevato che quella zona era di competenza di Davì Salvatore, soggetto scorbutico e autoritario, con il quale non era facile avere a che fare. Si era allora rivolto al fratello Rosolino, chiedendogli di recarsi dal De Luca presso il suo negozio denominato “la Venere dei Fiori”, sito nella via Venere, e di condurlo da lui. All’incontro era presente il Nuccio; Di Maio Salvatore chiamò in disparte il De Luca, il quale gli confermò che aveva avanzato una richiesta estorsiva in relazione a quel cantiere edile; il Di Maio gli promise che gli avrebbe fatto avere 1.000 euro; il Nuccio diede tale indicazione al Geraci, il quale fece poi avere la somma pattuita allo stesso Nuccio il quale, a sua volta, la consegnò a Di Maio Salvatore, e quest’ultimo versò il compendio dell’estorsione al De Luca, anche se il terminale dell’operazione fu Salvatore Davì, in quel momento reggente della “famiglia” di Partanna Mondello. In sede di controesame, il Nuccio aveva precisato che in relazione a tale vicenda, prima di rivolgersi al De Luca, unitamente a Di Maio Rosolino egli aveva cercato Collesano Vincenzo, per chiedergli se sapesse qualcosa circa la richiesta estorsiva in questione; ciò in quanto era a loro ben noto che anche il Collesano, oltre al Davì e al De Luca, chiedeva il pizzo nella zona di Partanna Mondello. I due avevano avuto un incontro con il Collesano in un’officina sita nei pressi dell’ufficio postale di Partanna Mondello; in quella occasione, il Collesano aveva loro suggerito di rivolgersi al De Luca, che conosceva bene la situazione ed aveva un contatto diretto con Salvatore Davì; era stato 258 infatti personalmente il De Luca, ha ribadito il collaborante, a recarsi in quel cantiere e ad ingiungere l’interruzione dei lavori. Il De Luca, ha soggiunto il collaborante, si occupava anche del traffico di cocaina e di hashish; in particolare, il Nuccio ha ricordato che il De Luca aveva fornito una partita di marijuana a Michele Catalano, indicato come il reggente della “famiglia” mafiosa dello Zen tra il 2005 e il 2007. In sede di confronto, disposto dal Tribunale dopo che il De Luca ha dichiarato di non avere mai visto il Nuccio, quest’ultimo ha confermato le sue dichiarazioni accusatorie, aggiungendo che nel 2005 il De Luca, in compagnia di Francesco Bonanni, venne a trovarlo a Cardillo, mentre si trovava nel locale di un barbiere. Il Bonanni, che lavorava con il De Luca sia nel commercio di fiori, sia nel traffico di sostanze stupefacenti, gli aveva chiesto se avesse disponibilità di cocaina; il Nuccio rispose negativamente, in quanto sapeva che il De Luca era considerato inaffidabile nei pagamenti; quindi scese anche il De Luca e i tre si diressero verso un vicino bar, ove il Nuccio offrì il caffè a tutti, ribadendo di non disporre in quel momento di cocaina. Il Nuccio aveva inoltre ricordato che – per come riferitogli dal Franzese – quest’ultimo aveva avvisato il De Luca che era stata installata una telecamera in un edificio sito nei pressi del suo negozio di fiori, invitandolo a fare attenzione. Spataro Maurizio, infine, aveva riconosciuto in effigie fotografica Antonino De Luca, al quale aveva venduto più volte autovetture nel periodo in cui era titolare di un autosalone sito a Pallavicino. Un giorno lo Spataro aveva accompagnato Bonanno Giovanni presso il vivaio del De Luca per acquistare delle piante; sopraggiunse il cugino Bonanno Francesco, con il quale Giovanni ebbe un colloquio in un vicino bar; dopo avere parlato con il cugino, il Bonanno disse allo Spataro che il De Luca e lo stesso Francesco Bonanno gestivano insieme un traffico di cocaina, sicché non era opportuno frequentare quel vivaio che poteva essere oggetto di attenzione da parte delle forze dell’ordine. 259 L’imputato De Luca, poi, aveva dichiarato di conoscere Collesano Vincenzo, che aveva eseguito lavori nella sua nuova casa ed era solito frequentare il suo esercizio commerciale, negli anni 2003/2004. Aveva aggiunto che la sua casa era stata costruita dal Franzese, con il quale egli aveva, a suo dire, un rapporto di amicizia; di avergli versato come corrispettivo dei lavori di costruzione 77.000 euro, rimanendo debitore per altri 20.000 euro; e che il Franzese non aveva esercitato mai particolari pressioni per ottenere il pagamento del debito residuo. Aveva pure ricordato di essere stato vittima di un incendio, per il quale sporse denuncia ai Carabinieri; ed al riguardo aveva dichiarato di non essere in grado di indicare le un movente plausibile. Aveva sostenuto di non avere mai commesso reati né con il Franzese, né con il Nuccio, ed aveva negato, infine, di avere commesso altre estorsioni ove si eccettui quella relativa allo stabile di Via Marinai Alliata, per il quale aveva riportato una sentenza di condanna all’esito del giudizio di primo grado. Come hanno correttamente sostenuto i primi Giudici, le dichiarazioni dei principali collaboratori di giustizia completavano il quadro probatorio coagulatosi attorno alla figura del De Luca in ordine alla sua ritenuta partecipazione all’associazione mafiosa. Tanto il Franzese, quanto il Nuccio, come si è visto, avevano descritto, riscontrandosi reciprocamente, il ruolo svolto dall’odierno imputato nell’am- bito delle attività criminose della “famiglia” di Partanna Mondello, indicandolo come un soggetto dapprima molto vicino a Vincenzo Collesano e quindi (in una fase evidentemente successiva a quella documentata dalle intercettazioni), transitato nell’orbita di Salvatore Davì. Il Franzese, inoltre, ha indicato il vivaio di pertinenza del De Luca come un luogo più volte utilizzato per riunioni mafiose, alle quali egli stesso aveva avuto modo di partecipare. 260 Entrambi i collaboranti avevano affermato che il De Luca era attivo nel settore delle estorsioni, dei danneggiamenti e del traffico di droga per conto dell’associazione mafiosa. L’appellante ha cercato, come si è visto, reiterando in sede di gravame l’eccezione formulata in primo grado, di sostenere la tesi dell’inattendibilità del Nuccio, sostenendo che, poiché il collaborante aveva precisato che in quell’occasione aveva dovuto rivolgersi al Di Maio, in quanto il Franzese attendeva il verdetto del processo cd. mare nostrum e per tale ragione era fuori Palermo, il fatto che la relativa sentenza fosse stata emessa in data 26.7.2006 avrebbe portato logicamente a collocare l’episodio in un periodo successivo alla data indicata, posto che fino a quel momento il Franzese era libero, come da lui stesso dichiarato; ciò, tuttavia, sarebbe stato logicamente incompatibile con la circostanza che il De Luca era stato tratto in arresto nell’aprile del 2006. La tesi giustamente non ha trovato accoglimento in prime cure, e non merita sorte migliore nell’odierno grado del giudizio. Sarà sufficiente, infatti, rilevare – come hanno già fatto i primi Giudici – che il Nuccio aveva collocato l’episodio estorsivo tra il gennaio e il febbraio del 2006, cioè in un periodo nel quale il De Luca era ancora libero ed il Franzese, in attesa della sentenza del processo mare nostrum, si era preventivamente trasferito fuori Palermo. Né può assumere particolare valore la “stranezza” segnalata dall’appellante, che l’imputato, pur essendo un affiliato a “cosa nostra”, fosse rimasto vittima di un danneggiamento posto in essere dalla stessa associazione criminosa di cui faceva parte, ovvero che, pur essendo tale comportamento radicalmente incompatibile con lo “status” di mafioso, avesse denunciato l’attentato alla p.g. Quanto alla prima circostanza si rileva, infatti, che, come insegnano esperienze anche recenti, nelle “guerre” di mafia, e, in genere laddove sussistano contrasti interni all’organizzazione criminosa, non è infrequente il ricorso anche alla eliminazione fisica degli avversari, sicché, tenuto conto 261 delle congiunture in cui era maturata l’azione di rappresaglia, non può apparire strano o del tutto inatteso il verificarsi di un attentato nei confronti dell’automobile della vittima. Quanto alla denuncia, è intuitivo osservare che, essendo stato l’attentato incendiario un fatto eclatante, come tale percepito da tutti, l’imputato non avrebbe potuto fare a meno, anche se ciò fosse stato contrario si suoi “principi”, di presentare denuncia all’autorità di p., formalità peraltro indispensabile, nel caso in esame, per la riscossione di eventuali indennizzi assicurativi. Il De Luca, dal canto suo, ha ammesso la propria responsabilità in ordine all’estorsione commessa ai danni di un’impresa avente il cantiere nella Via Marinai Alliata, reato per il quale ha già riportato una condanna all’esito del giudizio di primo grado (si tratta dell’episodio riferito dal Franzese). Ritiene la Corte che le propalazioni dei collaboranti di cui si è detto, siano attendibili, ancorché in qualche caso difettino di riscontri estrinseci. Ad esempio, l’episodio rievocato dal Nuccio con riguardo all’estorsione commessa dal De Luca ai danni del titolare di un cantiere edile sito a Valdesi per conto del Davì, destinatario finale del provento estorsivo pagato mediante l’interposizione del Di Maio, come hanno correttamente osservato i primi Giudici, appare del tutto verosimile, ancorché non assistito da riscontri specifici, in quanto la narrazione è apparsa lineare e circostanziata, inscrivendosi in modo coerente nel quadro della personalità criminale dell’odierno imputato tracciato dalle altre risultanze processuali. Né va sottaciuta la concordanza – pure segnalata dai primi Giudici - delle fonti accusatorie laddove fanno menzione dell’attività di spaccio di stupefacenti posta in essere dal De Luca, fatto assai importante sotto il profilo probatorio ai fini della dimostrazione dell’inserimento nella consorteria criminosa e, quindi, della configurabilità del reato di cuu all’art. 416 bis, dal momento che il traffico di sostanze stupefacenti è un’attività traduzionalmente connessa agli interessi criminali di “cosa nostra”. Funge da riscontro, in proposito, la circostanza che sia il Nuccio, sia lo Spataro, narrando episodi diversi, hanno collegato la figura del De Luca a quella di 262 Bonanno Francesco, cugino del più noto Giovanni, proprio in relazione alla detenzione e al traffico di cocaina. Non può, dunque, che condividersi il giudizio espresso nella sentenza impugnata, secondo cui le condotte accertate a carico del De Luca concretano uno stabile e consapevole contributo apportato agli interessi del sodalizio mafioso e al rafforzamento delle sue potenzialità offensive, denotando l’inserimento a pieno titolo dell’imputato nell’organizzazione criminale, e pertanto, integrano il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, aggravato dalla disponibilità di armi e dal riciclaggio dei proventi delittuosi (commi 4° e 6° dell’art. 416 c.p.). In subordine l'appellante chiede che il fatto venga riqualificato nella diversa figura delittuosa del favoreggiamento aggravato, in quanto l’attività posta in essere dal De Luca sarebbe stata svolta esclusivamente in favore del Collesano Vincenzo e non già della intera organizzazione, a cui egli sarebbe rimasto estraneo. La censura è priva di fondamento. Secondo il consolidato orientamento della S.C., infatti, in tema di rapporti tra partecipazione ad associazione per delinquere e favoreggiamento personale, premesso che non può escludersi, in linea di principio, la possibilità di concorso fra le due fattispecie criminose, deve ritenersi che le stesse si differenzino tra loro in quanto nella partecipazione ad associazione per delinquere il soggetto opera organicamente e sistematicamente con gli associati, come elemento strutturale del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l'attività dello stesso o a perseguire coloro che vi partecipano, mentre nel favoreggiamento il soggetto aiuta in maniera episodica un associato, resosi responsabile di un reato (rientrante o meno che questo sia nel programma criminoso dell' associazione ), ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa (Cass. Pen. Sez. VI, 15 novembre 2004, n. 112). E come è agevole rilevare dalla esposizione che precede, l’attività del De Luca appariva finalizzata al perseguimento degli obiettivi propri dell’asso263 ciazione criminosa (estorsioni, spaccio di stupefacenti, etc.), e non già a favorire, in relazione a singoli episodi, nel modo sopracitato il solo Collesano, sicché correttamente è stato contestato allo stesso il delitto di associazione pr delinquere di stampo mafioso e non quello di favoreggiamento personale. In ulteriore subordine l’appellante ha chiesto che venga esclusa l'aggravante dell'associazione armata di cui all'art. 416 bis comma quarto cod. pen., posto che, ancorché per il riconoscimento della circostanza aggravante della disponibilità delle armi non sia richiesta l'esatta individuazione delle armi stesse, ma è sufficiente l'accertamento in fatto della disponibilità di un armamento, tale disponibilità deve essere in concreto individuata, non essendo sufficiente ritenerla astrattamente sufficiente, in quanto detta aggravante è riferita all'associazione criminale denominata “cosa mostra”, che abitualmente detiene delle armi, ma necessita di volta in volta che detto munizionamento venga rinvenuto. Vero è che la norma richiede la semplice disponibilità di armi da parte dell'associazione e non l'effettiva utilizzazione delle stesse, ma la locuzione “disponibilità di armi” presuppone inevitabilmente la prova non dell'uso. Infatti la detenzione non coincide con i fatti di illegale detenzione e porto di armi, non solo perché la disponibilità non corrisponde necessariamente all'attuale l'effettiva detenzione o porto, ma perché essa può riguardare anche armi legalmente detenute, sicché l'armamento viene in rilievo come semplice ed oggettiva situazione di fatto ma deve sempre implicare una effettiva materiale disponibilità. E nella specie va evidenziato che nessun fatto di sangue è stato commesso e nessuna azione violenta è stata posta in essere,per cui sarebbe logico affermare che l’uso di armi potrebbe essere ritenuto implicito se fosse stato commesso un delitto che necessita dell'uso delle armi, quale ad esempio un conflitto a fuoco, mentrer l’associazione cui si fa riferimento in sentenza realizzava i suoi peculiari obiettivi tramite intimidazioni minacciose, ma semza fare uso di armi. 264 Anche l’anzidetta censura è priva di fondamento, dovendosi porre a base della relativa statuizione, per evitare inutili ripetizioni, gli stessi motivi per i quali è stato respinto l’identito motivo di gravame formulato in via subordinata da Collesano Vincenzo. In ulteriore subordine viene dedotta l'insussistenza dell'aggravante di quell'articolo 416 bis comma sesto cod. pen., sul rilievo che perché essa possa considerarsi ricorrente, è necessaria l’esistenza, non già di singole operazioni commerciali o dell’attività di gestione di singoli esercizi, bensì l’intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o seevizi. Anche l’anzidetta censura è infondata.(Cass. Pen. Sez. I, 16 luglio 1993, Acciarino). La S.C., ancorché in materia di confiscabilità deu beni, invero, si è espressa nel senso che l’attività di amministratore, svolta da soggetto indagato del delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso, non è sufficiente di per sè a far ritenere che i beni oggetto dell'amministrazione siano stati provento di delitti ovvero finanziati con provento di delitti, ben potendo l’attività delittuosa attribuita all'indagato essere separata da quella lecitamente svolta. Ai fini della confiscabilità dei beni in questione occorre che sia positivamente dimostrata una qualsivoglia correlazione (come, ad esempio, la contitolarità delle quote societarie, la comproprietà dei beni, l'assunzione da parte di terzi delle indicate qualità per conto dell'indagato) tra i beni medesimi e l’attività illecita attribuita all'indagato del diritto di cui all'art. 416 bis c.p. Analogamente si può ritenere che il possesso di determinati beni o attività, quando non risulti positivamente provato, da parte dell’imputato di associazione mafiosa, che l’acquisto di essi è del tutto estraneo all’attività criminosa in parola, e non risulti aliunde il possesso di redditività di carattere lecito che possa giustificare la disponibilità di detti beni, sia costituito dal reimpiego del denaro o delle dall’esercizio dell’attività illecita. 265 altre utilità derivanti E nella specie, non risultando che il De Luca sia in possesso di beni di derivazione lecita che gli consentano di esercitare l’attività di fioraio – che egli effettivamente esercita – è da ritenere che egli abbia investito i proventi derivantigli dalla attività illecita posta in essere nell’ambito della “famiglia” mafiosa di appartenenza, nella suddetta attività, e che, pertanto, ricorra nella specie l’attenuante di cui all’art. 416 bis comma 6° c.p. contestatagli. L’appellante chiede, infine, allegando la marginalità della sua condotta, la concessione delle attenuanti generiche, da ritenere equivalenti alle contestate aggravanti, e la corrispondente mitigazione del trattamento sanzionatorio. Anche quest’ultima censura deve esse disattesa. Invero, benché il De Luca non sia sicuramente una figura di primissimo piano del milieu delinquenziale mafioso, tuttavia lo stesso ha mostrato una cospicua capacità criminale, in dipendenza della sua accertata “disponibilità” al compimento di attività illecite di indiscussa gravità, quali le estorsioni ed il traffico di droga, che non lo rende sicuramente meritevole del chiesto beneficio. Le medesime considerazioni inducono a ritenere equa ed adeguata ex art. 133 c.p. alla gravità del reato ed alla personalità dell’autore, la pena inflittagli dai primi Giudici. In conclusione, il gravame proposto dal De Luca deve essere respinto e, per l’effetto, nei suoi confronti va confermata la sentenza impugnata. 266 STATUIZIONI FINALI Avuto riguardo alla riduzione delle pene principali in favore degli imputati Curulli Vincenzo, Iaquinoto Giorgio e Cusimano Antonio, va sostituita alla pena accessoria dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici agli stessi applicata con la sentenza impugnata, quella dell’intrerdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque, e va altresì eliminata, nei confronti dei medesimi imputati, la pena accessoria della interdizione legale durante l'espiazione della pena. La sentenza impugnata va confermata nel resto, ed i soli imputati Collesano Vincenzo e De Luca Antonino, nei cui confronti la sentenza impugnata è stata integralmente confermata, debbono essere condannati al pagamento delle spese processuali del giudizio di appello. Tutti gli imputati debbono essere condannati, infine al pagamento delle spese di costituzione e difesa sostenute nell’odierno grado dalle parti civili rispettivamente costituitesi nei loro confronti, che si liquidano in loro favore nel modo seguente: Conigliaro, Curulli e De Luca al pagamento, in solido, in favore della "Associazione ONLUS - Comitato "Addio Pizzo" di complessivi euro 2.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge; Conigliaro, Cusimano, Curulli e Iaquinoto, al pagamento in solido, in favore del Comune di Carini, di complessivi euro 1.800,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge; Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento in favore della Provincia Regionale di Palermo, di complessivi euro 3.000,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge; 267 Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento in favore della F.A.I., Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane, di euro 2.100,00, oltre I.V.A e C.P.A. come per legge; Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento in favore della Associazione degli Industriali della Provincia di Palermo - Confindustria di Palermo, di euro 2.800,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge; Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento in favore della S.O.S. Impresa Palermo, di complessivi euro 3.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge; Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento in favore della Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, delle Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo - Confcommercio Federazione Provinciale di Palermo, di euro 3.200,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge. Va pure ordinata, ai sensi dell’art. 300 c.p.p., l’immediata scarcerazione dell’imputato Altadonna Lorenzo, ove lo stesso non risulti detenuto per altro. Ritiene, infine, la Corte di dovere fissare, per la stesura della motivazione, avuto riguardo al numero degli imputati ed alla complessità delle questioni, il termine di giorni novanta, ai sensi dell’art. 544, comma 3 c.p.p., sospendendo, durante la pendenza di detto termine, ai sensi dell’art. 304 1° comma lett. e) c.p.p., quello di custodia cautelare. 268 P. Q. M. La Corte, visti gli artt. 605, 592, 530 cpv. c.p.p.; in riforma della sentenza resa in data 3 luglio 2009 dal Tribunale di Palermo nei confronti di Conigliaro Angelo, Altadonna Lorenzo, Biondo Francesco, Collesano Vincenzo, Curulli Vincenzo, Cusimano Antonio, De Luca Antonino, Iaquinoto Giorgio, ed appellata dai medesimi, assolve: Altadonna Lorenzo e Biondo Francesco dai reati loro rispettivamente ascritti perché il fatto non sussiste. Assolve Conigliaro Angelo dal reato a lui ascritto al capo 13) della rubrica per non avere commesso il fatto, e, per l'effetto, riduce la pena allo stesso irrogata ad anni quattordici di reclusione. Riqualificato il fatto ascritto a Cusimano Antonio al capo 10) della rubrica nel delitto di cui agli artt. 610 c.p. e 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, ridetermina la pena allo stesso inflitta in anni quattro di reclusione. Esclusa l'aggravante di cui all'art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, riduce la pena irrogata a Curulli Vincenzo e ad Iaquinoto Giorgio per il reato di cui al capo 22) della rubrica, rispettivamente ad anni quattro e mesi sei di reclusione ed euro 6.000,00 di multa, e ad anni quattro ed euro 5.000,00 di multa. Sostituisce alla pena dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici applicata nei confronti di Curulli Vincenzo, Iaquinoto Giorgio e Cusimano Antonio quella della interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. Elimina nei confronti dei predetti la pena accessoria della interdizione legale durante l'espiazione della pena. Conferma nel resto l'impugnata sentenza. Condanna Collesano Vincenzo e De Luca Antonino al pagamento delle spese processuali del presente grado del giudizio. Condanna Conigliaro, Curulli e De Luca al pagamento, in solido, in favore delle parte civile "Associazione ONLUS - Comitato "Addio Pizzo" delle spese processuali sostenute nell'odierno grado, che liquida complessivamente in euro 2.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge. Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli e Iaquinoto, in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore della parte civile Comune di Carini, che liquida nella misura complessiva di euro 1.800,00. Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore della parte civile Provincia Regionale di Palermo, che liquida in complessivi euro 3.000,00. 269 Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore della parte civile F.A.I., Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane, che liquida in euro 2.100,00, oltre I.V.A e C.P.A. come per legge. Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore della parte civile Associazione degli Industriali della Provincia di Palermo Confindustria di Palermo, che liquida in euro 2.800,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge. Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore della parte civile S.O.S. Impresa Palermo, che liquida in complessivi euro oltre 3.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge. Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore della parte civile Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, delle Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo - Confcommercio Federazione Provinciale di Palermo, che liquida in euro 3.200,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge. Visto l'art. 300 e.p.p., ordina l'immediata liberazione di Altadonna Lorenzo, se non detenuto per altra causa. Visto l'art. 544, comma 3, e 304 1° comma lett. e) e.p.p., indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione e sospende durante la pendenza dello stesso quelli di custodia cautelare. Palermo, lì 23 dicembre 2010. Il Consigliere Il Presidente 270 271