CORTE DI APPELLO DI PALERMO SEZIONE SESTA PENALE

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CORTE DI APPELLO DI PALERMO SEZIONE SESTA PENALE
CORTE DI APPELLO DI PALERMO
SEZIONE SESTA PENALE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
L’anno duemiladieci il giorno VENTITRE’ del mese di dicembre
N° 4034/2010 Sent.
N° 2094/2010 R.G.
LA CORTE DI APPELLO DI PALERMO
N° 11498/2007 N.R.
SEZIONE SESTA PENALE
composta dai Sigg.ri :
1. Dott.
2. Dott.
3. Dott.
Biagio
INSACCO
Presidente
Carmelo
Roberto
LOMBARDO
MURGIA
Consigliere
Consigliere
Art. _________________
Camp. Penale
Compilata scheda
per il Casellario e per
l’elettorato Addì
con l’intervento del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa Anna
_____________________
Maria LEONE, e con l’assistenza del Cancelliere Antonella
FOTI, ha pronunziato la seguente
Depositata in
Cancelleria
Addì
SENTENZA
_____________________
nei confronti di:
1) CONIGLIARO Angelo, nato a Carini il 27/10/1935 agli arr.
dom. in Villagrazia di Carini Via Lampedusa n.36;
dal 13.12.2010 det. x altro Casa Circ.le Palermo Pagliarelli. Irrevocabile il
DETENUTO - PRESENTE ____________________
Difensore: Avv. Giuseppe Giambanco
Foro di Palermo 1 2) ALTADONNA Lorenzo, nato a Carini il 04/10/1962 ivi elett.te dom. Via
Provinciale n.56 ; detenuto dal 9/7/2009 al 23/12/2010
DETENUTO X ALTRO – PRESENTE
Difensori: Avv. Carlo Ventimiglia
Avv. Antonino Mormino
del Foro di Palermo
del Foro di Palermo
3) BIONDO Francesco, nato a Palermo il 26/03/1960
detenuto per altro c/o la Casa Circondariale di Torino “Lorusso-Cotugno”;
DET. X ALTRO ASSENTE PER RINUNZIA
Difensori: Avv. Antonino Zanghì
del Foro di Palermo
Avv. Raffaele Bonsignore del Foro di Palermo
4) COLLESANO Vincenzo, nato a Palermo il 30/01/1953, in atto detenuto c/o
la Casa Circondariale di Palermo Pagliarelli
DETENUTO - PRESENTE
Difensore: Avv. Sergio Monaco
del Foro di Palermo
5) CURULLI Vincenzo, nato a Palermo il 28/04/1956,
detenuto c/o la Casa Circondariale di Palermo-Pagliarelli;
DETENUTO - PRESENTE
Difensori: Avv. Aldo Spatafora
Avv. Maurizio Savarese
del Foro di Palermo
“
“
6) CUSIMANO Antonio, nato a Palermo il 07/06/1945 ivi residente in Via
Castelforte n.98/A;
LIBERO – PRESENTE
Difensori: Avv. Velio Sprio
Avv. Riccardo Russo
del Foro di Palermo
“
“
7) DE LUCA Antonino, nato a Palermo il 12/01/1970 ivi res.te Cortile dei
Bovari n.47 in atto detenuto per altro c/o la Casa Circondariale di Palermo
Pagliarelli;
DET. X ALTRO – PRESENTE
Difensori: Avv. Tommaso De Lisi
Avv. Fabio Federico
del Foro di Palermo
“
Roma
8) IAQUINOTO Giorgio, nato a Vittoria 08/03/1955 in atto detenuto c/o la
Casa Circondariale di Palermo-Pagliarelli;
DETENUTO – PRESENTE
Difensori: Avv. Vincenzo Lo Re
Avv. Aldo Spatafora,
del Foro di Palermo
del Foro di Palermo
2 PARTI CIVILI
1. F.A.I.[FED.AS.ANTIRACKET] in persona Leg. Rappr. pro-tempore
domiciliato c/o Avv. Salvatore Caradonna –.
Difensore: Avv. Salvatore CARADONNA del Foro di Palermo
ASSENTE
2. ASSOCIAZIONE COMITATO ADDIOPIZZO in persona Leg. Rappr.
Perrotta R. domiciliato c/o Avv. Salvatore Forello –
Difensore: Avv. Salvatore FORELLO del Foro di Palermo
ASSENTE
3. CONFINDUSTRIA PALERMO in persona Pres. pro-tempore Salerno A.
domiciliato in Palermo c/o Avv. Ettore BARCELLONA
Difensore: Avv. Ettore BARCELLONA del Foro di Palermo
ASSENTE
4. PROV. REG.LE PALERMO in persona Pres. pro-tempore domiciliato c/o
Avv. Concetta Pillitteri –
Difensore Avv. Concetta PILLITTERI del Foro di Palermo
ASSENTE
5. CONFCOMMERCIO PALERMO in pers. Dr. Roberto HELG
domiciliato c/o Avv. Gaetano Fabio Lanfranca Difensore: Avv. Gaetano Fabio LANFRANCA del Foro di Palermo
Sostituto processuale avv. D. Martorana
PRESENTE
6. S.O.S. IMPRESA PALERMO Leg. Rappr.
Costantino Garaffa
domiciliato in Palermo c/o Avv. Fausto Maria Amato.
Difensore: Avv. Fausto Maria AMATO del Foro di Palermo
ASSENTE
7. COMUNE DI CARINI in persona del Sindaco pro-tempore La Fata
Gaetano
domiciliato in Carini –c/o Avv. Marina Fonti.
Difensore: Avv. Marina FONTI del Foro di Palermo
ASSENTE
3 APPELLANTI
Avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 03.07.2009
con la quale sono stati dichiarati colpevoli:
- CONIGLIARO Angelo, dei reati di cui ai capi 1, 11, 13, 14, 15, unificati tali
reati sotto il vincolo della continuazione;
- COLLESANO Vincenzo e DE LUCA Antonino, del reato di cui al capo 22);
- ALTADONNA Lorenzo, del reato di cui al capo 2);
- BIONDO Francesco, del reato di cui al capo 26, unificato sotto il vincolo
della continuazione con il reato di associazione di tipo mafioso giudicato
con sentenza della Corte di Appello di Palermo in data 24 gennaio 2006,
irrevocabile il 14 febbraio 2007;
- CUSIMANO Antonio, del reato di cui al capo 10;
- CURULLI Vincenzo e IAQUINOTO Giorgio, del reato di cui all‟art. 648 ter
C.P. di cui al capo 17;
eCONDANNATI
- CONIGLIARO, alla pena di anni quindici di reclusione;
- ALTADONNA e il DE LUCA, alla pena di anni dodici di reclusione
ciascuno;
- COLLESANO, alla pena di anni tredici di reclusione;
- BIONDO Francesco, alla pena di anni due e mesi cinque di reclusione in
aggiunta a quella inflitta con la sentenza della Corte di Appello di Palermo
in data 24 gennaio 2006, sopra citata, pena che, per l‟effetto, diviene pari ad
anni undici e mesi cinque di reclusione;
- CUSIMANO, alla pena di anni otto di reclusione ed euro 3.000,00 di multa;
- CURULLI, alla pena di anni sei di reclusione ed euro 8.000,00 di multa;
- IAQUINOTO, alla pena di anni cinque, mesi sei di reclusione ed euro
7.000,00 di multa.
nonché in solido, al pagamento delle spese processuali e, singolarmente al
pagamento di quelle della rispettiva custodia cautelare;
SONO STATI DICHIARATI
i predetti colpevoli, interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di
interdizione legale durante l‟espiazione della pena ed applicata ai nominati
CONIGLIARO, ALTADONNA, DE LUCA e COLLESANO la misura di
sicurezza della libertà vigilata per anni tre ciascuno, a pena espiata.
SONO STATI, INOLTRE, CONDANNATI:
CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO e ALTADONNA,
in solido, al risarcimento in favore della parte civile Comune di Carini, in
4 persona del Sindaco pro-tempore, dei danni morali e materiali liquidati in
euro 30.000,00 (trentamila/00) nonché al pagamento delle spese
processuali, in favore della medesima parte civile, che liquida nella misura
complessiva di euro 15,742,00;
l’ALTADONNA, il CONIGLIARO, il CURULLI ed il DE LUCA, in
solido, al risarcimento in favore della parte civile Associazione ONLUS
Comitato Addiopizzo, in persona del legale rappresentante pro tempore, dei
danni morali e materiali liquidati in euro 15.000,00, nonché al pagamento
delle spese processuali in favore della medesima parte civile che liquida in
euro 9.052,00 oltre IVA e CPA come per legge;
CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA,
BIONDO Francesco, COLLESANO, DE LUCA, in solido, al risarcimento
in favore della parte civile Provincia regionale di Palermo, in persona del
Presidente pro tempore, dei danni morali e materiali liquidati in euro
30.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della
medesima parte civile che liquida in euro 16.326,00;
CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA,
BIONDO Francesco, COLLESANO, DE LUCA, in solido, al risarcimento
in favore della parte civile FAI, Federazione delle Associazioni Antiracket
ed Antiusura italiane, in persona del legale rappresentante pro tempore, dei
danni morali e materiali che liquida in euro 15.000,00, nonché al
pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile
liquidati in euro 9.052,00 oltre IVA e CPA come per legge;
CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA,
BIONDO Francesco, COLLESANO, DE LUCA, in solido, al risarcimento
in favore della parte civile Associazione degli Industriali della Provincia di
Palermo - Confindustria di Palermo in persona del legale rappresentante pro
tempore, dei danni morali e materiali che liquida in euro 15.000,00, nonché
al pagamento delle spese processuali in favore della medesima parte civile
liquidati in euro 10.000,00 oltre IVA e CPA come per legge;
CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA,
BIONDO Francesco, COLLESANO e DE LUCA, in solido, al risarcimento
in favore della parte civile SOS Impresa Palermo, in persona del legale
rappresentante pro tempore, dei danni morali e materiali che liquida in euro
15.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore della
medesima parte civile liquidati in euro 10.000,00 oltre IVA e CPA come
per legge;
CONIGLIARO, CUSIMANO, CURULLI, IAQUINOTO, ALTADONNA,
BIONDO Francesco, COLLESANO e DE LUCA, in solido, al risarcimento
in favore della parte civile Federazione Provinciale del Commercio, del
Turismo, dei Servizi, delle Professioni e delle piccole e medie imprese di
Palermo - Confcommercio federazione provinciale di Palermo, in persona
5 del legale rappresentante pro tempore, dei danni morali e materiali liquidati
in euro 15.000,00, nonché al pagamento delle spese processuali in favore
della medesima parte civile che liquida in euro 10.000,00 oltre IVA e CPA
come per legge.
Sono stati assolti:
- ALTADONNA Lorenzo e CONIGLIARO Angelo dalla imputazione di
cui al capo 16) perché i fatti non sussistono;
- CURULLI Vincenzo, dalla imputazione di cui al capo 2) per non aver
commesso il fatto;
Ed ordinata l’immediata liberazione di BIONDO Francesco se non detenuto
per altra causa.
CAPI DI IMPUTAZIONE
CONIGLIARO Angelo
1) per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa aggravato (art. 416 bis
c.p., aggravato dai commi 4 e 5 ) per avere, fatto parte dell’associazione
mafiosa denominata “Cosa Nostra”, avvalendosi della forza di intimidazione
del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che
ne deriva per commettere reati contro la vita, l‟incolumità individuale, contro
la libertà personale e contro il patrimonio, tra i quali quelli di cui ai capi che
seguono, nonché per acquisire il controllo di attività economiche e appalti
pubblici, comunque per realizzare profitti o vantaggi ingiusti.
Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quarto c.p., trattandosi di
associazione armata.
Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quinto c.p., trattandosi di
attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto
di delitti;
In Palermo sino alla data del 25.01.2007
ALTADONNA Lorenzo (in concorso con Sapienza Gioacchino, Privitera
Saverio, Privitera Antonio, Cataldo Giovanni, Gelsomino Giuseppe,
separatamente giudicati)
2) per il delitto concorso esterno in associazione mafiosa (articoli 110, 416 –bis
comma 1°, 3°, 4°, 6° c.p.) per avere concorso ab externo associazione
criminale denominata Cosa Nostra, tra l‟altro con gli uomini d‟onore LO
PICCOLO Salvatore e Sandro, PIPITONE Vincenzo, PIPITONE Angelo
Antonino, PIPITONE Antonino, PIPITONE Giovan Battista, DI MAGGIO
Antonino e VALLELUNGA Vincenzo, delle famiglie di San Lorenzo,
Tommaso Natale e Carini – ponendo in essere una serie di condotte
continuate, che consentivano alla associazione stessa il controllo di attività
economiche ed il reimpiego di danaro di provenienza illecita, in ciò agevolati
6 dalla forza di intimidazione del vincolo associativo, e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva.
Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 – bis comma 4° c.p., trattandosi di
associazione armata;
Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 – bis comma 6° c.p., trattandosi di
attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto
di reati.
Reato commesso in Carini e Palermo, sino alla data del 25.01.2007.
CUSIMANO Antonio e LO PICCOLO Salvatore (in concorso con Di Blasi
Francesco, Pipitone Antonino, separatamente giudicati)
10) per il delitto di estorsione aggravata e continuata in concorso ( p. e p. dagli
artt. 110, 629 comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art.
7 D.L. 13 maggio 1991 nr.152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 203) per
avere in concorso tra loro, mediante minacce, consistite nel manifestare i
propri rapporti con l‟organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed in
virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo
alla predetta organizzazione, costretto l‟imprenditore SCALICI Damiano,
nato a Palermo il 09.12.1962, a fornirsi di materiale edile presso la ditta
EDILPOMICE nel corso dei lavori eseguiti in Carini, C.da Ciachea, della
società “SIMBA”, e ciò al fine di procurare a se stessi ed all’associazione
mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto.
A Carini nel mese di maggio 2002
CONIGLIARO Angelo (in concorso con Pipitone Vincenzo separatamente
giudicato)
11) per il delitto di estorsione aggravata in concorso (p. e p. dagli artt. 110, 629
comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13
maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 2039), per avere in
concorso tra loro, mediante minacce, consistite nel manifestare la propria
appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed in virtù
della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla
predetta organizzazione, costretto l‟imprenditore PRIANO Alfonso a
consegnare loro somme di denaro allo stato imprecisate, la cui ultima trance
è quantificabile in dieci milioni di lire, al fine di procurare a se stessi ed
all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto.
A Carini fino al mese di ottobre 2003
13) per il delitto di estorsione aggravata in concorso (p. e p. dagli artt. 110, 629
comma 2° in relazione al nr.3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13
maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 203) per avere, in
concorso tra loro, mediante minacce, consistite nel manifestare la propria
appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed in virtù
della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla
predetta organizzazione, costretto l‟imprenditore CUTIETTA Carlo, a
7 consegnargli la somma di lire cinque milioni, al fine di procurare a se stesso
ed all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto.
A Carini nel mese di settembre 2003
CONIGLIARO Angelo, LO PICCOLO Salvatore (in concorso con Di
Napoli Pietro, Di Maggio Antonino, Pipitone Vincenzo, Pipitone Giovan
Battista e Vallelunga Vincenzo separatamente giudicati)
14) per il delitto di estorsione aggravata e continuata in concorso (p. e p. dagli
artt. 110, 56, 629 comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2° dell’art. 628 c.p. e
art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 203),
per avere, in concorso tra loro, posto in essere atti idonei, consistiti nel
manifestare la propria appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata
Cosa Nostra e nella utilizzazione della forza di intimidazione derivante dal
vincolo associativo relativo alla predetta organizzazione, diretti in modo non
equivoco a costringere l‟imprenditore BILLECI Giovanni, in qualità di
amministratore unico della “Falconara s.r.l.” , a consegnare loro quantomeno
cinquecento milioni di lire, al fine di procurare a se stessi ed all’associazione
mafiosa denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto, e ciò in relazione alla
realizzazione di un complesso residenziale da sorgere nella C.da Piraineto,
località “Marinalonga” di Carini.
A Carini nel mese di settembre 2003
CONIGLIARO Angelo (in concorso con Di Maggio Antonino e Pipitone
Vincenzo separatamente giudicati)
15) per il delitto di estorsione aggravata in concorso (p. e p. dagli artt. 110, 629
comma 2° in relazione al nr. 3 comma 2 dell’art. 628 c.p. e art. 7 D.L. 13
maggio 1991 nr. 152, conv. nella legge 12 luglio 1991 nr. 2039), per avere in
concorso tra loro, posto in essere atti idonei, consistiti nel manifestare la
propria appartenenza all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ed
in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo
alla predetta organizzazione, diretti in modo non equivoco a costringere tali
“BADALAMENTI”, proprietari terrieri, a consegnare loro cinquanta milioni
di lire per la vendita e la successiva edificazione in alcuni terreni di alcune
villette, e ciò al fine di procurare a se stessi ed all’associazione mafiosa
denominata Cosa Nostra un ingiusto profitto.
A Carini fino al mese di ottobre 2003
ALTADONNA Lorenzo e CONIGLIARO Angelo (in concorso con
Gallina Angelo, Pipitone Vincenzo, Vallelunga Vincenzo, Pipitone Giovan
Battista e Palazzolo Vito Roberto separatamente giudicati)
16) per il delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di
provenienza illecita (art. 81 cpv., 110, 648 bis e 648 ter c.p. e art. 7 D.L. 13
maggio 1991 nr. 152 conv. con modif. nella L. 12 luglio 1991 nr. 203) per
avere PIPITONE Vincenzo, CONIGLIARO Angelo, VALLELUNGA
Vincenzo, GALLINA Angelo e PIPITONE Giovan Battista, tutti esponenti
8 della famiglia mafiosa di Carini, con più azioni esecutive di un medesimo
disegno criminoso ed in concorso tra loro, trasferito ad ALTADONNA
Lorenzo, anch’egli concorrente nel reato, denaro, beni ed altre utilità
proveniente da delitti connessi alle illecite attività dell’associazione mafiosa
denominata “Cosa Nostra”, denaro ed utilità poi impiegati da ALTADONNA
Lorenzo in attività economiche, tra cui l‟acquisto di vari appezzamenti di
terreno. Tutto ciò in modo da ostacolare l‟identificazione della provenienza
delittuosa del denaro e delle utilità medesime ed al fine di agevolare
l‟associazione per delinquere di stampo mafioso denominata “Cosa Nostra”.
In Carini, sino al mese di dicembre 2003
CURULLI Vincenzo e IAQUINOTO Giorgio (in concorso con Vitale
Fortunato, Cardinale Michele, Pipitone Vincenzo e Di Maggio Antonino
separatamente giudicati)
17) per il delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di
provenienza illecita (art. 81 cpv, 110, 648 bis, 648 ter c.p. e art.7 D.L. 13
maggio 1991 nr. 152 conv. con modif. nella L. 12 luglio 1991 nr. 203) per
avere CURULLI Vincenzo, PIPITONE Vincenzo e DI MAGGIO Antonino,
con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso tra
loro, trasferito alla ditta “GIELLEI ELECTRO TRADING S.R.L.” di cui
IAQUINOTO Giorgio, anch’egli concorrente nel reato, era apparente socio
unico ed Amministratore, denaro, beni ed altre utilità proveniente da delitti
connessi alle illecite attività dell’associazione mafiosa denominata “Cosa
Nostra”, denaro, beni ed altre utilità che IAQUINOTO investiva nella detta
società “GIELLEI”, con il concorso di VITALE Fortunato e CARDINALE
Michele. Tutto ciò in modo da ostacolare l‟identificazione della provenienza
delittuosa di denaro, dei beni e delle altre utilità, ed al fine di agevolare
l’associazione per delinquere di stampo mafioso denominata “Cosa Nostra”.
In Carini, sino al mese di marzo 2004.
COLLESANO Vincenzo e DE LUCA Antonino
22) per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.), per
avere, in concorso con numerose altre persone – fatto parte dell’associazione
mafiosa denominata “Cosa Nostra”, ed in particolare della famiglia mafiosa
di Partanna Mondello o per risultare, comunque, stabilmente inseriti nella
detta associazione, composta da un numero superiore a 5 persone,
avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, per commettere
reati contro la vita, l‟incolumità individuale, contro la libertà personale e
contro il patrimonio, tra i quali quelli di cui ai capi che seguono e,
comunque, per realizzare profitti o vantaggi ingiusti, nonché per intervenire
sulle istituzioni e sulla pubblica amministrazione;
Con l’aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quarto c.p., trattandosi di
associazione armata;
9 Con l’aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quinto c.p., trattandosi di
attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto
di delitti,
In Palermo ed altre parti del territorio nazionale sino al 25 ed il 30.01.2007.
BIONDO Francesco
26) per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.), per
avere, in concorso con numerose altre persone – fatto parte dell’associazione
mafiosa denominata “Cosa Nostra”, ed in particolare della famiglia mafiosa
di S. Lorenzo o per risultare, comunque, stabilmente inseriti nella detta
associazione, composta da un numero superiore a 5 persone, avvalendosi
della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva, per commettere reati contro la
vita, l‟incolumità individuale, contro la libertà personale e contro il
patrimonio, tra i quali quelli di cui ai capi che seguono e, comunque, per
realizzare profitti o vantaggi ingiusti, nonché per intervenire sulle istituzioni
e sulla pubblica amministrazione.
Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quarto c.p., trattandosi di
associazione armata.
Con l‟aggravante di cui all’articolo 416 bis comma quinto c.p., trattandosi di
attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto
di delitti;
In Palermo ed altre parti del territorio nazionale a decorrere dal 5 luglio 2002
, data della precedente sentenza di condanna per il delitto di cui all’art. 416
bis c.p. e sino alla data odierna.
BIONDO Salvatore (in concorso con Biondino Salvatore separatamente
giudicato)
28) per il delitto di trasferimento fraudolento di valori aggravato (artt. 12 –
quinquies legge n° 356/1992, 7 d.l. 13 maggio 1991, n° 152, conv. con
modif. nella legge 12 luglio 1991, n° 203), per avere - pendendo a loro carico
vari procedimenti penali e di prevenzione – fittiziamente attribuito la
titolarità dei magazzini ubicati a Palermo, V.le regione Siciliana ai civici
4714, e 4658 e nr. 4698 a CUCCIA Giorgio, CUCCIA Antonietta, CUCCIA
Giuseppe, CUCCIA Fabio, e ciò al fine di eludere le disposizioni di legge in
materia di misure di prevenzione patrimoniali.
Con la circostanza aggravante di avere commesso il fatto avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416 – bis c.p. ed al fine di agevolare l‟attività
dell’associazione denominata Cosa Nostra.
Accertato in Palermo il 25 novembre 2005
10 CONCLUSIONI DELLE PARTI
Il Procuratore Generale conclude chiedendo la conferma in toto della
sentenza impugnata riservandosi di replicare a seguito delle conclusioni dei
difensori.
L’avv. M. Fonti, nell’interesse della P.C. Comune di Carini;
L’avv. S. Forello, anche quale sostituto processuale dell’avv. Caradonna
nell’interesse delle PP.CC. dagli stessi rappresentate;
L’avv. D’Antoni, quale sostituto processuale dell’avv. E. Barcellona
nell’interesse della P.C. Confindustria Palermo;
L’avv. C. Pillitteri, nell’interesse della P.C. Provincia Regionale di
Palermo;
L’avv. D. Martorana, quale sostituto processuale degli Avv.ti Lanfranca
ed Amato - nell’interesse delle PP.CC. dagli stessi rappresentate;
concludono tutti come da comparsa che depositano unitamente alla nota
spese.
L’avv. Gaudesi, quale sostituto processuale dell’Avv. Zanghì nell’interesse di Biondo Francesco, conclude chiedendo l’accoglimento dei
motivi di impugnazione.
L’avv. S. Monaco, nell’interesse di Collesano Vincenzo, conclude
insistendo nell’accoglimento dei motivi di appello.
L’avv. R. Russo, nell’interesse di Cusimano Antonio, conclude chiedendo
l’assoluzione del suo assistito perché il fatto non sussiste; in subordine
chiede l’applicazione della continuazione con i reati di cui alla sentenza
prodotta.
L’avv. R. Bonsignore, nell’interesse di Biondo Francesco, conclude
chiedendo la riforma della sentenza di primo grado e quindi una pronunzia
assolutoria nei confronti del suo assistito.
L’avv. A. Spatafora, nell’interesse di Curulli ed Iaquinoto, conclude
insistendo nei motivi di appello.
11 L’avv. M. Savarese, nell’interesse di Curulli Vincenzo, conclude
chiedendo che il suo assistito venga assolto con la formula perché il fatto non
sussiste.
L’avv. S. Monaco, nell’interesse di Collesano Vincenzo, conclude
chiedendo l’assoluzione del suo assistito così come meglio specificato nei
motivi aggiunti nei quali insiste.
L’avv. V. Lo Re, nell’interesse di Iaquinoto Giorgio, conclude chiedendo
l’accoglimento dei motivi di appello; deposita, altresì, memoria difensiva.
L’avv. A. Mormino, nell’interesse di Altadonna Lorenzo, conclude
chiedendo l’accoglimento dei motivi di appello.
L’avv. T. De Lisi, nell’interesse di De Luca Antonino, conclude
riportandosi ai motivi di appello di cui chiede l’accoglimento.
L’avv. F. Federico, nell’interesse di De Luca Antonino, conclude
riportandosi alle conclusioni adottate dal co-difensore ed alla memoria
difensiva oggi depositata.
L’avv. V. Sprio, nell’interesse di Cusimano Antonino, conclude
riportandosi ai motivi di appello.
L’avv. Giambanco, nell’interesse di Conigliaro Angelo, conclude
chiedendo l’accoglimento dei motivi di appello.
12 IN FATTO E IN DIRITTO
1 - IL PRIMO GRADO DEL GIUDIZIO ‐ 1-1 PREMESSA
Conigliaro Angelo, Altadonna Lorenzo, Biondo Francesco, Collesano
Vincenzo, Curulli Vincenzo, Cusimano Antonio, De Luca Antonino e
Iaquinoto Giorgio, venivano tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di
Palermo in composizione collegiale, per rispondere:
1) il Conigliaro, del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa
aggravato, per avere, fatto parte dell’associazione mafiosa denominata
“cosa nostra”, in particolare della articolazione di questa operante nel
territorio di Carini;
2) l’Altadonna ed il Curulli, del delitto di concorso esterno in associazione
mafiosa, per avere concorso ab externo nell’associazione criminale
denominata “cosa nostra”, supportando in particolare le attività criminali di
Lo Piccolo Salvatore e Sandro, Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo
Antonino, Pipitone Antonino, Pipitone Giovan Battista, Di Maggio
Antonino e Vallelunga Vincenzo, soggetti intranei alle famiglie mafiose
operanti nel territori di San Lorenzo, Tommaso Natale e Carini;
3) il Cusimano, in concorso con Di Blasi Francesco, Pipitone Antonino,
separatamente giudicati, del delitto di estorsione aggravata e continuata, per
avere, in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo
relativo alla predetta organizzazione, costretto l’imprenditore Scalici
Damiano a fornirsi di materiale edile presso la ditta Edilpomice nel corso
dei lavori eseguiti in Carini, C.da Ciachea, della società “Simba”;
4) il Conigliaro, altresì, in concorso con Pipitone Vincenzo separatamente
giudicato, del delitto di estorsione aggravata, per avere, in virtù della forza
di intimidazione derivante dal vincolo associativo relativo alla predetta
13 organizzazione mafiosa, costretto l’imprenditore Priano Alfonso a
consegnare somme di denaro imprecisate, la cui ultima tranche era
comunque quantificabile in dieci milioni di lire; del delitto di estorsione
aggravata, in concorso con Pipitone Vincenzo separatamente giudicato, per
avere, in virtù della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo
relativo al predetto sodalizio, costretto l’imprenditore Cutietta Carlo, a
consegnargli la somma di lire cinque milioni; del delitto di tentata
estorsione aggravata e continuata, per avere, in concorso con Di Napoli
Pietro, Di Maggio Antonino, Pipitone Vincenzo, Pipitone Giovan Battista e
Vallelunga Vincenzo separatamente giudicati, posto in essere atti idonei
diretti in modo non equivoco a costringere l’imprenditore Billeci Giovanni,
in qualità di amministratore unico della “Falconara s.r.l.”, a consegnare
loro, in relazione alla realizzazione di un complesso residenziale da sorgere
nella C.da Piraineto, località “Marinalonga” di Carini, la somma di almeno
cinquecento milioni di lire; del delitto di tentata estorsione aggravata, per
avere, in concorso con Di Maggio Antonino e Pipitone Vincenzo
separatamente giudicati, posto in essere atti idonei diretti in modo non
equivoco a costringere tali “Badalamenti”, proprietari terrieri, a consegnare
la somma di cinquanta milioni di lire in relazione alla vendita e alla
successiva edificazione in alcuni terreni di alcune villette in territorio di
Carini;
5) l’Altadonna ed il Conigliaro, altresì, in concorso con Gallina Angelo,
Pipitone Vincenzo, Vallelunga Vincenzo, Pipitone Giovan Battista e
Palazzolo Vito Roberto separatamente giudicati, del delitto di riciclaggio
aggravato in concorso e impiego di denaro di provenienza illecita, per avere i
citati Pipitone Vincenzo, Conigliaro, Vallelunga, Gallina e Pipitone Giovan
Battista, tutti esponenti della “famiglia” mafiosa di Carini trasferito ad
Altadonna Lorenzo, anch’egli concorrente nel reato, denaro, beni ed altre
utilità provenienti da delitti connessi alle illecite attività dell’associazione
mafiosa denominata “cosa nostra”, poi impiegati dallo stesso Altadonna in
attività economiche, tra cui l’acquisto di vari appezzamenti di terreno;
14 6) il Curulli e lo Iaquinoto, in concorso con Vitale Fortunato, Cardinale
Michele, Pipitone Vincenzo e Di Maggio Antonino separatamente giudicati,
del delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di
provenienza illecita, per avere Curulli Vincenzo, Pipitone Vincenzo e Di
Maggio Antonino, con più azioni esecutive del medesimo disegno
criminoso ed in concorso tra loro, trasferito alla ditta “Giellei Electro
Trading S.r.l.” di cui Iaquinoto Giorgio era apparente socio unico ed
amministratore, denaro, beni ed altre utilità provenienti da delitti connessi
alle illecite attività dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”,
denaro, beni ed altre utilità che Iaquinoto investiva nella detta società
“Giellei”;
7) il Collesano ed il De Luca, del delitto di partecipazione ad associazione
mafiosa, per avere, in concorso con numerose altre persone, fatto parte
dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, ed in particolare della
“famiglia” mafiosa di Partanna Mondello;
8) il Biondo, infine, del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa,
per avere, in concorso con numerose altre persone, fatto parte
dell‟associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, ed in particolare della
“famiglia” mafiosa di S. Lorenzo
Con sentenza in data 3 luglio 2009 la sezione 3^ penale del Tribunale di
Palermo dichiarava gli imputati sopra menzionati colpevoli di tutti i reati
loro rispettivamente ascritti - fatta eccezione per quelli ascritti
all’Altadonna ed al Conigliaro al capo 16) della rubrica (riciclaggio), al
Curulli al capo 2) della rubrica (concorso esterno in associazione mafiosa),
essendo stati assolti i primi due perché il fatto non sussiste ed il terzo per
non avere commesso il fatto - e condannava il Conigliaro alla pena di anni
quindici di reclusione, l’Altadonna e il De Luca a quella di anni dodici di
reclusione ciascuno, il Collesano a quella di anni tredici di reclusione, il
Biondo Francesco a quella di anni due e mesi cinque di reclusione in
15 aggiunta alla pena inflittagli con la sentenza di questa Corte di Appello in
data 24 gennaio 2006, pena che, per l’effetto, diveniva pari ad anni undici e
mesi cinque di reclusione, il Cusimano alla pena di anni otto di reclusione
ed euro 3.000,00 di multa, il Curulli, a quella di anni sei di reclusione ed
euro 8.000,00 di multa, e lo Iaquinoto, infine, a quella di anni cinque e mesi
sei di reclusione ed euro 7.000,00 di multa.
Tutti gli imputati, poi, venivano dichiarati interdetti in perpetuo dai pubblici
uffici e in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena.
Al Conigliaro, all’Altadonna, al De Luca ed al Collesano veniva altresì
applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre ciascuno,
da eseguirsi dopo l’espiazione della pena.
I suddetti imputati, infine, venivano condannati al pagamento delle spese
processuali, ed al risarcimento dei danni materiali e morali in favore in
favore delle parti civili costituite.
Avverso la suddetta sentenza proponevano appello gli imputati Altadonna,
Biondo, Collesano, Conigliaro, Curulli, Cusimano, De Luca, Iaquinoto, per
i motivi che verranno in seguito esposti.
1-2. OGGETTO DEL PROCESSO.
La sentenza impugnata rileva innanzitutto che il procedimento ha costituito
l’epilogo di una intensa ed articolata attività investigativa, traente origine
da indagini iniziate nel 2003 aventi ad oggetto le attività criminali di “cosa
nostra” nel mandamento mafioso di San Lorenzo-Tommaso Natale, che
costituisce
storicamente
una
delle
più
rilevanti
articolazioni
del
summenzionato sodalizio, anche sotto il profilo dell’estensione territoriale,
comprendendo, oltre alla parte nord-occidentale del territorio metropolitano
di Palermo, anche i territori di Capaci, Isola delle Femmine, Carini,
Villagrazia di Carini, Sferracavallo-Tommaso Natale e Partanna-Mondello.
16 Nel corso delle indagini finalizzate alla ricerca ed alla cattura di Lo Piccolo
Salvatore e di Lo Piccolo Sandro (esponenti di vertice del mandamento
mafioso summenzionato e, dopo l’arresto di Bernardo Provenzano,
dell’intera organizzazione mafiosa nel territorio di Palermo e provincia)
l’attenzione degli inquirenti si accentrava, in particolare, sulle attività
criminali riconducibili prevalentemente alla “famiglia” mafiosa di Carini.
Venivano pertanto acquisite utili cognizioni in ordine alla identità dei
membri di tale consorteria, ai suoi interessi economici sul territorio, ai suoi
collegamenti con altre “famiglie” mafiose, al rapporto privilegiato da questa
intrattenuto con i già menzionati Lo Piccolo Salvatore ed il figlio di questi,
Sandro, all’epoca dei fatti ancora latitanti.
Ed invero, le indagini citate avevano evidenziato l’importanza dei legami
esistenti fra i Lo Piccolo ed i mafiosi di Carini, facendo emergere
l’esistenza di un consolidato rapporto che aveva collocato la “famiglia” di
Carini al centro delle dinamiche associative del mandamento di San
Lorenzo-Tommaso Natale.
Nella citata sentenza è stato evidenziato, altresì, come le fonti di prova
raccolte fossero costituite prevalentemente da intercettazioni telefoniche e
ambientali, da servizi di osservazione dinamica sul territorio, riprese video
e riprese fotografiche, alle quali si erano aggiunte le dichiarazioni rese dai
collaboratori di giustizia che più di recente avevano reciso i loro legami con
l’associazione mafiosa, quali Pulizzi Gaspare, Nuccio Antonio e Franzese
Francesco.
Il contributo dichiarativo fornito da detti soggetti aveva consentito, infatti,
di delineare il quadro delle attività criminali svolte dalla “famiglia” di
Carini, di disegnarne la composizione e di fare luce sulla figura del reggente
Pipitone Vincenzo, sui suoi rapporti con Brusca Vincenzo, reggente della
vicina “famiglia” mafiosa di Torretta, nonché sui rapporti intrattenuti con
Di Napoli Pietro, reggente del mandamento mafioso della “Noce-Cruillas”,
rendendo possibile fare luce sull'attività criminale riguardante il settore
17 delle estorsioni e la multiforme opera di condizionamento delle iniziative
economiche nel territorio interessato.
E’ stato pure evidenziato come tra coloro che avevano caratterizzato
l’attività di “cosa nostra” nel territorio di Carini dovessero essere
annoverati, in primo luogo, i componenti del gruppo familiare Pipitone, che
comprendeva i fratelli Giovan Battista e Vincenzo Pipitone, già condannati
per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., nella qualità di reggenti, in tempi
successivi, della “famiglia” di Carini, Di Maggio Antonino, loro cognato,
Pipitone Angelo Antonino, fratello dei suddetti Giovan Battista e Vincenzo,
già condannato nel processo c.d. maxi-uno per il delitto di associazione
mafiosa; gli appartenenti al gruppo familiare Gallina, composto da Gallina
Salvatore, predecessore dei Pipitone, e dal figlio Ferdinando; i componenti
dei gruppi familiari Passalacqua, Lo Duca e Vallelunga, tutti a vario titolo
coinvolti, con ruoli e compiti differenti, nella gestione mafiosa di quel
territorio.
E’ stato poi osservato che parte rilevante dell’attività investigativa era
costituita da servizi di intercettazione attivati all’interno dei locali della
società S.B.S. di Gottuso Salvatore grazie ai quali erano stati acquisiti
importanti contributi conoscitivi in ordine al conflitto esistente in seno alla
“famiglia” di Partanna Mondello e, in particolare, tra i fratelli Collesano
Vincenzo, appoggiato da Francesco Di Blasi, e Collesano Rosario,
particolarmente vicino al “reggente” Davì Salvatore, quest’ultimo
scarcerato dopo una lungo periodo di detenzione.
Ed è stato sottolineato, ancora, come il quadro offerto dalle risultanze dei
servizi di intercettazione, avesse evidenziato la posizione di rilievo assunta
dal mandamento di San Lorenzo all’interno dell’intera organizzazione
“cosa nostra”, al punto che Lo Piccolo Salvatore era divenuto - dopo oltre
venti anni di latitanza - il più autorevole esponente mafioso presente nel
territorio metropolitano di Palermo.
Per quel che concerne le figure dei collaboratori di giustizia, nella sentenza
impugnata sono state poste in particolare evidenza le dichiarazioni rese da
18 collaboratori “datati”, quali Avitabile Antonino, Onorato Francesco,
Cracolici Isidoro, Mazzola Giovanni, La Manna Angelo e Neri Marco,
significando però come pregnante rilevanza avessero avuto, per la loro
attualità, soprattutto le collaborazioni di Pulizzi Gaspare, Nuccio Antonino,
Franzese Francesco e Spataro Maurizio, la cui credibilità intrinseca era
apparsa immediatamente di notevole spessore avendo trovato riscontro
nelle risultanze di autonome indagini.
La sentenza impugnata ha preso preliminarmente in esame alcune
problematiche di carattere generale inerenti la struttura e l’organizzazione
dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, divenuta realtà
incontrovertibile dopo il passaggio in giudicato della sentenza emessa dalla
Corte di Assise di Palermo nel procedimento a carico di Abbate Giovanni
ed altri, comunemente noto come primo “maxiprocesso”.
Con questa fondamentale pronuncia, infatti, era stata definitivamente
accertata la struttura unitaria e verticistica del citato sodalizio criminale, il
cui funzionamento appare disciplinato da regole comportamentali
rigidamente vincolanti per i suoi aderenti i quali, avvalendosi della forza di
intimidazione del vincolo associativo, operano al fine di porre sotto il
controllo dell’organizzazione criminale ogni attività economica che assicuri
ingenti profitti, con una capacità di infiltrazione in tutti i livelli della società
che ne accresce le potenzialità operative e, quindi, la pericolosità.
Si tratta, in buona sostanza, di un sodalizio criminale capillarmente
organizzato sul territorio, dotato di ben oleati modelli operativi, con rigide
gerarchie e ferree regole comportamentali, la cui osservanza è assicurata
mediante sanzioni gravissime, che giungono fino alla eliminazione fisica
del trasgressore.
Le conclusioni che si traggono dal riconoscimento di una siffatta realtà
portano a ritenere – osservano i primi Giudici – che non sussiste la necessità
di provare, di volta in volta, gli elementi costitutivi dell’associazione,
essendo stata dimostrata l’esistenza dell’organizzazione criminosa di che
19 trattasi dall’esito, dopo il citato maxi –uno, di centinaia e centinaia di altri
processi.
La sentenza impugnata si è soffermata, quindi, brevemente sulle modalità
con cui gli adepti entrano a far parte dell’associazione, per così dire
ritualmente, a seguito di una formale cerimonia di iniziazione, con
l’avvertenza che può essere dimostrata l’appartenenza alla consorteria
delinquenziale anche sulla base di facta concludentia, e quindi a
prescindere da particolari formalità, come è stato riconosciuto anche dalla
consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione.
E’ stato osservato, infatti, che l’associazione criminosa si è modificata nel
tempo, e che il rito della “presentazione” fra adepti, in concomitanza con il
massiccio dilagare del fenomeno del cd. pentitismo, si è affievolito fino
quasi a scomparire, rendendo necessario il ricorso ad una ancora più
accentuata segretezza.
È stata, poi, presa in esame la figura del cd. “concorrente esterno”, che è
colui che, senza far parte dell’associazione mafiosa, tuttavia concorre ad
accrescere le potenzialità di tale sodalizio , come ormai affermato dalla
Giusprudenza di legittimità a S.U. in tempi recenti dapprima con la nota
sentenza Demitry del 1994, successivamente con la sentenza Carnevale del
30.12.2002 e, da ultimo, con la sentenza Mannino del 12.7.2005.
Dopo essersi soffermati, in modo particolare, per la rilevanza che assume
nel presente processo, sulle relazioni esistenti tra associazione mafiosa ed
attività di impresa al fine di evidenziare le caratteristiche che debbono
assumere le condotte dell’imprenditore colluso affinché le stesse possano
essere inquadrate entro i canoni del concorso esterno in associazione
mafiosa o addirittura di quelli della partecipazione piena alla stessa, i
giudici di primo grado hanno preso in esame il tema della valutazione della
prova, con specifico riguardo al valore probatorio delle intercettazioni ed a
quello della cd. chiamata in (cor)reità.
Con specifico riguardo al contributo dichiarativo reso dal collaboratore di
giustizia Pulizzi Gaspare, il cui ruolo in seno all’associazione, quale uomo
20 di fiducia di Pipitone Vincenzo e poi di reggente della cosca di Carini, era
già emerso dalle indagini che, nel novembre del 2007, avevano condotto
all’arresto dello stesso, unitamente ai latitanti Lo Piccolo Salvatore e Lo
Piccolo Sandro e ad Adamo Andrea, boss del mandamento di Brancaccio, è
stato osservato come i fatti narrati da detto dichiarante si fossero
immediatamente appalesati in linea con le risultanze investigative aliunde
acquisite in ordine all’acclarato livello della sua compenetrazione nella
cosca di Carini.
In particolare, è stato rilevato come il Pulizzi avesse confessato di avere
partecipato all’esecuzione di omicidi e alla soppressione di cadaveri (reati
dei quali fino a quel momento non era stato sospettato), fornendo agli
inquirenti dati obiettivi, che avrebbero potuto essere conosciuti solo
all’interno dell’associazione criminale e da chi aveva effettivamente
commesso quei gravi delitti.
Le spontanee e complete ammissioni del Pulizzi, certamente non motivate
da intenti calunniatori o da altri scopi strumentali, avevano contribuito,
secondo i primi giudici, a fare chiarezza sulle dinamiche della sua cosca di
appartenenza e dell’intera consorteria mafiosa sino quasi allo scadere
dell’anno 2007.
In ragione del ruolo ricoperto dal Pulizzi in seno alla “famiglia” mafiosa di
Carini e degli stretti, costanti rapporti intrattenuti con esponenti di punta
dell’associazione, le rivelazioni di detto collaborante si erano rivelate,
infatti, particolarmente qualificate, dal momento che il suo radicato
inserimento nel contesto mafioso, in posizione apicale, rendeva
assolutamente credibile che egli fosse informato sulle dinamiche interne del
sodalizio e sui soggetti orbitanti in tale realtà criminale.
Considerazioni analoghe dovevano essere svolte, secondo i primi giudici,
per il Franzese, esponente di spicco della cosca di Partanna (di cui era poi
divenuto il reggente), tratto in arresto nell’agosto 2007 dopo un lungo
periodo di latitanza.
21 Avviata la sua collaborazione con la giustizia, il Franzese aveva ammesso il
suo ruolo di affiliato ed i contributi forniti alla realizzazione dei delitti,
anche quelli più gravi, di cui era stato accusato, ricostruendo con dovizia di
particolari il percorso criminale all’interno dell’organizzazione e la sua
particolare vicinanza ai Lo Piccolo, in particolare a Sandro, il quale lo
aveva formalmente combinato in “cosa nostra” nel luglio 2006.
Il Franzese, peraltro, aveva contribuito alla decodificazione del contenuto
dei “pizzini” sequestrati nel suo covo, ed aveva tracciato un quadro
generale delle attività illecite svolte nella zona di sua competenza, fornendo
preziose indicazioni anche sulla identità dei soggetti addetti alla capillare
riscossione del pizzo.
Il patrimonio di conoscenze del Franzese riguardava soprattutto la zona di
competenza della “famiglia” di Partanna Mondello, ma concerneva altresì
altre articolazioni territoriali, fra cui la “famiglia” di Carini, anch’essa
ricompresa nel medesimo mandamento di San Lorenzo - Tommaso Natale.
Quanto a Nuccio Antonino, la collaborazione di detto collaborante con la
giustizia aveva consentito la puntuale ricostruzione di molteplici vicende
delittuose consumate soprattutto nella zona di Partanna Mondello, nel
periodo della reggenza del Franzese, allorchè questi si era dovuto dare alla
latitanza. Il Nuccio, infatti, era stato introdotto di fatto fra i ranghi di “cosa
nostra” e di quella “famiglia” mafiosa proprio grazie all’intervento del
Franzese.
Negli ultimi anni, dopo la cattura di numerosi esponenti locali e l’emissione
di ordinanze di custodia cautelare che avevano indotto altri uomini d’onore
a darsi alla latitanza, la circostanza che egli fosse a piede libero e dunque in
grado di spostarsi senza limitazioni sul territorio, aveva consentito al
Nuccio, oltre che di curare la latitanza del Franzese, di fare da tramite fra
quest’ultimo ed altri associati, di eseguire e coordinare insieme ad un
piccolo gruppo di sodali le istruzioni dei vertici locali che riguardavano il
22 settore delle estorsioni, il controllo della zona e, in qualche caso, i rapporti
con altre famiglie.
Tali incombenze avrebbero consentito pertanto al Nuccio di acquisire un
apprezzabile bagaglio di informazioni, poi riferite agli organi inquirenti, ed
il complesso delle sue propalazioni, che aveva trovato ampia rispondenza
anche in altre risultanze investigative, sarebbe risultato in larga parte
convergente con le dichiarazioni del Franzese, senza peraltro che fossero
emerse circostanze dalle quali potere dedurre l’esistenza di intenti
strumentali o motivi di rivalsa nei confronti dei soggetti chiamati in
correità.
Il Nuccio, in definitiva, aveva reso, secondo i giudici di prime cure,
dichiarazioni precise, lucide, intimamente coerenti e ricche di dettagli
narrativi, e l’indicazione da parte sua dei fatti e dei relativi protagonisti,
derivante da una esperienza personale e diretta delle circostanze narrate, si
era rilevata sorretta da un rilevante indice di attendibilità intrinseca.
Per quanto concerne la valutazione delle dichiarazioni dello Spataro, questi
aveva descritto il suo graduale inserimento nella cosca di Resuttana,
favorito dal suo rapporto di parentela con il capomandamento Bonanno
Giovanni, spiegando che la sua attività al servizio del sodalizio mafioso era
consistita soprattutto nella riscossione dei proventi estorsivi dai
commercianti della zona.
Le mansioni di autista svolte per il Bonanno gli avevano consentito,
peraltro, di estendere la sua rete di conoscenze nell’ambito di diverse
“famiglie” mafiose e di acquisire un rilevante patrimonio di informazioni
riguardanti altre articolazioni territoriali di “cosa nostra”.
Le propalazioni di detto collaborante erano state ritenute dettagliate e
coerenti, ed inoltre risultavano esplicitate, con riferimento ai fatti appresi
per via indiretta, le relative fonti di conoscenza, sicché esse dovevano
essere giudicate intrinsecamente attendibili, anche in considerazione della
spontaneità che le caratterizzava, tenuto conto della specificità dei dettagli
che arricchivano la compiuta ricostruzione dei fatti.
23 Per quanto concerne, infine, il contributo fornito dai più “datati”
collaboranti Avitabile, Onorato, Cracolici e Mazzola, le loro dichiarazioni
concernevano periodi largamente antecedenti a quello interessato dalle
attività investigative, ma avevano comunque arricchito e completato il
compendio probatorio, fornendo soprattutto informazioni di carattere
generale sulla pregressa composizione delle “famiglie” mafiose e sulle
figure di taluni protagonisti coinvolti nelle vicende sottoposte al vaglio del
Tribunale.
E si trattava, anche in questo caso, di propalazioni sempre lineari, coerenti e
immuni da contraddizioni, corredate dall’indicazione di nomi e circostanze,
non animate da sentimenti di astio o di risentimento nei confronti dei
soggetti raggiunti da tali accuse, sicché apparivano sussistenti tutte le
condizioni per formulare un giudizio di piena attendibilità intrinseca.
1-3. Procedendo quindi all’esame delle posizioni dei singoli imputati, il
primo giudice ha ritenuto provato, in primo luogo, il coinvolgimento diretto
di Conigliaro Angelo, quale braccio destro di Pipitone Vincenzo, nelle
attività criminali del sodalizio mafioso di Carini ed, in particolare, nelle
attività estorsive poste in essere ai danni degli imprenditori Priano, Cutietta
e Billeci, nonché ai danni di tali Badalamenti, principalmente alla stregua
del chiaro contenuto di svariate intercettazioni ambientali.
Per quanto riguarda la vicenda relativa al Priano dal primo giudice è stato
evidenziato il contenuto della conversazione del 6.10.2003, dalla quale si
desumerebbe che l'imprenditore summenzionato era stato costretto al
pagamento del “pizzo”, ma che gli era residuato, ad un certo punto, un
debito di dieci milioni di lire di cui l'organizzazione criminale pretendeva il
versamento.
Lo stesso Conigliaro, parlando con il Pipitone, evidenziava nel corso del
citato colloquio intercettato la difficoltà di recuperare proventi estorsivi
dagli imprenditori vittime della pressione di “cosa nostra”, ed aveva ad un
certo punto introdotto il tema della somma ancora dovuta dal Priano,
24 sottolineando con evidente disappunto che l’inadempienza dello stesso
perdurava ormai da due anni.
Un valido riscontro a tale già chiara ricostruzione dei fatti proveniva,
secondo i primi giudici, dalle dichiarazioni del “collaborante” Pulizzi
Gaspare, il quale aveva dichiarato di avere partecipato alle trattative per la
“messa a posto” di Priano Alfonso, imprenditore che doveva avviare
un’attività edilizia nei pressi dello svincolo autostradale di Carini.
Quanto alla condotta estorsiva in danno dell’imprenditore Cutietta Carlo, la
diretta partecipazione del Conigliaro al delitto in questione veniva dal
giudice di prime cure desunta da una conversazione intercettata alle ore
11.37 del 27.12.2003, svoltasi all'interno dell'autovettura Peugeout 206 in
uso allo stesso Conigliaro, fra quest’ultimo e la stessa vittima del reato.
Ed invero, nel corso della conversazione il Conigliaro riferiva al Cutietta di
avere ricevuto la visita di “cristiani”, che gli avevano chiesto conto del
comportamento tenuto da esso Cutietta, che non si sarebbe ancora
presentato per “mettersi a posto” con il pagamento del “pizzo”, in relazione
ad un'attività edilizia in itinere.
Il Cutietta, dal canto suo, aveva rappresentato al Conigliaro le sue difficoltà
contingenti, evidenziando di non avere nemmeno comunicato al
committente dei lavori la richiesta di pagamento del “pizzo”, di cui egli si
era, pertanto, fatto interamente carico.
Il Conigliaro replicava che egli personalmente non aveva alcun potere
decisionale e che sebbene avesse chiarito ai suoi interlocutori
(subdolamente rappresentati come i veri mandanti dell'estorsione) che il
Cutietta era un povero “lavoratore”, gli era stato risposto “dobbiamo
campare tutti”.
Nel corso della conversazione il Conigliaro aveva precisato i termini della
richiesta estorsiva, nel senso che il Cutietta doveva sborsare l’equivalente di
cinque milioni delle vecchie lire per ciascuna delle villette che avrebbe
dovuto realizzare, da consegnare agli esponenti dell'organizzazione
criminale tramite tale “Giovanni”.
25 Trattandosi della costruzione di due villette, il Conigliaro suggeriva al suo
interlocutore di versare almeno cinque dei dieci milioni di lire richiesti per
evitare che accadessero “male cose”, fingendo un personale disinteresse per
il risvolto economico della vicenda e, di contro, una sincera preoccupazione
per le sorti del Cutietta.
Quest’ultimo gli ricordava, allora, che aveva già pagato cinque milioni delle
vecchie lire per i due fabbricati in questione e il Conigliaro, dopo avere
effettivamente verificato che si trattava delle stesse villette per le quali
aveva i ricevuto il sollecito dei "cristiani", lo dispensava immediatamente
da
ulteriori
pagamenti,
dimostrando,
così,
contrariamente
alla
rappresentazione dei fatti propinata fino a pochi istanti prima alla vittima
dell'estorsione, di esercitare un autonomo potere decisionale, che
presupponeva una posizione di primo piano nell'ambito della “famiglia”
mafiosa di Carini.
Quindi, il Conigliaro e il Cutietta avevano concordato il pagamento
dell’equivalente di altri cinque milioni delle vecchie lire in relazione ai
lavori
edilizi
che
sarebbero
stati
successivamente
intrapresi
dall'imprenditore, non appena ultimati i lavori di costruzione delle due
villette nella via del Girasole.
Con riguardo all'estorsione tentata nei confronti del Billeci, gli elementi
probatori a carico del Conigliaro si desumevano, secondo i primi giudici,
dalla partecipazione di detto imputato alla riunione verificatasi il giorno
27.9.2003 presso l’abitazione del Pipitone tra i principali esponenti della
“famiglia” mafiosa di Carini e Pierino Napoli, già reggente della “famiglia”
palermitana della Noce-Cruillas, che era venuto a mediare nell'interesse
dello stesso Billeci, per ottenere una significativa riduzione della somma
originariamente richiesta quale “messa a posto” (da settecento a
cinquecento milioni delle vecchie lire) in ordine alla costruzione di un
complesso residenziale da realizzare in territorio di Carini.
Il primo giudice ha evidenziato, poi, il contenuto di una conversazione
svoltasi il 9 giugno 2003, alle ore 21.11, all'interno dell'abitazione di
26 Pipitone Vincenzo, nelle immediate adiacenze del ciclomotore Honda di
proprietà dell’imputato Conigliaro Angelo.
Nel corso della conversazione svoltasi fra il Pipitone e Conigliaro veniva ad
un certo punto affrontato il tema di un “chiarimento” avvenuto tra lo stesso
Pipitone Vincenzo ed il cugino di questi, Vallelunga Vincenzo, appellato
“Enzino” (soggetto già condannato per il reato di associazione mafiosa), al
quale il Pipitone rammentava di avere contestato il comportamento tenuto
nei confronti di alcuni imprenditori operanti nella zona di Carini.
Subito dopo il Pipitone e il Conigliaro, dopo avere interrotto
temporaneamente il loro colloquio per leggere un “pizzino” contenente un
messaggio inviato dal latitante Lo Piccolo Salvatore ed avere quindi
distrutto tale compromettente documento, prendendo spunto dalla vicenda
relativa al Vallelunga, si soffermavano sulla questione riguardante il Billeci.
Hanno osservato i primi giudici come alle ore 15.35 del 27 settembre 2003,
all’interno dell’abitazione di Pipitone Vincenzo, fosse stata registrata una
ulteriore importante conversazione che vedeva come protagonisti lo stesso
Pipitone Vincenzo, il Di Maggio, il Conigliaro e il Pulizzi.
Nella prima parte della conversazione, intercorsa tra il Pipitone e il
Conigliaro, il capomafia di Carini riepilogava la vicenda di un progetto
edilizio concernente la costruzione di un complesso residenziale che
avrebbe dovuto sorgere in territorio di Carini, chiarendo al suo interlocutore
che la questione si protraeva ormai da cinque anni.
Quando, poi, il Billeci aveva chiesto di realizzare in prima persona il
complesso edilizio, senza interventi di altre imprese, veniva rammentato dal
Pipitone come lui stesso e il di lui fratello Angelo Antonino (“Nino”)
avessero contattato l’imprenditore ed anche tale Davì, uomo d’onore di
Partanna Mondello, ed in quella circostanza fosse stato pattuito il
pagamento di settecento milioni di lire a fronte della realizzazione di
settanta villette.
Il Pipitone aggiungeva che il Billeci, tuttavia, non aveva mantenuto gli
impegni assunti.
27 Da questo primo stralcio della conversazione, quindi, appariva chiaro,
secondo i primi giudici, che il Billeci si trovava al centro di una complessa
vicenda estorsiva che aveva visto l’intervento di Pipitone Vincenzo,
Pipitone Angelo Antonino e Vallelunga Vincenzo, oltre che del Conigliaro.
Nel corso della conversazione intercettata, dopo pochi minuti, al Pipitone
ed al Conigliaro si aggregavano Di Maggio Antonino e Pulizzi Gaspare,
intrattenendosi a discutere di altri argomenti.
Allorchè veniva ripreso l’argomento Billeci, il Pipitone accettava con
riserva la proposta di definire la vicenda con il pagamento di cinquecento
milioni di lire, dicendo al Di Napoli che sarebbe stato necessario, però,
risentirsi dopo avere opportunamente consultato “lui”, Totuccio, vale a dire
Lo Piccolo Salvatore, all’epoca ancora latitante, con il quale lo stesso
Pipitone continuava a mantenere rapporti assai saldi.
Ha osservato il primo giudice che il contenuto della conversazione appariva
estremamente chiaro: nel caso in cui il Billeci avesse eseguito i lavori
direttamente, non gli sarebbero stati richiesti altri esborsi di denaro; se
invece avesse fatto realizzare i lavori da un’altra impresa, sarebbe stato
tenuto ad ulteriori versamenti.
Contestualmente, il Pipitone garantiva al suo interlocutore che il Billeci
poteva “campare tranquillamente”, invitandolo comunque a rivolgersi a lui
nel caso in cui l’imprenditore avesse deciso di fare eseguire i lavori a una
ditta del posto, in quanto egli aveva la disponibilità di tutti i mezzi necessari
alla realizzazione dell’opera.
Hanno osservato poi i primi giudici come il compendio istruttorio fosse
stato ulteriormente arricchito dalle dichiarazioni del Pulizzi, che avevano
convalidato le risultanze delle intercettazioni.
Il “collaborante” dopo avere menzionato la vicenda relativa al costruttore
Billeci, che doveva realizzare cinquanta villette bifamiliari in un terreno sito
nei pressi dello svincolo autostradale dell’aeroporto di Punta Raisi, si era
quindi soffermato su una riunione cui anch’egli aveva partecipato.
28 Nel corso di detta riunione, cui avevano partecipato Pipitone Vincenzo,
Conigliaro Angelo, Nino Di Maggio e Pierino Di Napoli, uomo d’onore
della “famiglia” della Noce, vicino al Di Maggio, erano stati infatti
concordati i termini della cd. “messa a posto” del Billeci, cioè della somma
di denaro che l’imprenditore estorto avrebbe dovuto corrispondere per
tacitare le pretese della cosca nel cui territorio i lavori dovevano essere
compiuti.
Quanto all'estorsione tentata nei confronti dei Badalamenti, proprietari di un
fondo con destinazione edilizia, i primi Giudici rammentano la
conversazione del 2.10.2003, nel corso della quale il Pipitone aveva chiarito
con il Conigliaro che i suddetti Badalamenti avrebbero dovuto versare alla
“famiglia” mafiosa una somma pari a cinquanta milioni di lire in relazione
alla programmata costruzione di varie unità immobiliari, specificando
peraltro che di tale provento illecito non avrebbe dovuto beneficiare il
cugino Vallelunga.
Rilevante al riguardo era stata ritenuta, poi, la conversazione del 9.10.2003,
durante la quale il Conigliaro, all'arrivo di tale Lo Buglio nel luogo fissato
per l'appuntamento, aveva espresso al Pipitone l'auspicio di riuscire
finalmente ad ottenere “quei dieci milioni”, precisando immediatamente
dopo, rivolto al nipote Angelo, l'importo complessivo del provento
dell'estorsione e la sua destinazione finale in favore degli esponenti della
locale “famiglia” mafiosa.
Conclusivamente i primi giudici hanno osservato che l’importante potere
decisionale del Conigliaro in ordine alle attività estorsive della “famiglia”
di Carini, risultava ampiamente dimostrato dalla già citata conversazione
intercorsa il 27.12.2003 con l'imprenditore Cutietta.
L’imputato, già informato in ordine alla entità dei lavori che il Cutietta
stava realizzando nel territorio di Carini, aveva avanzato la richiesta di
pagamento del“pizzo”, correlandola esplicitamente all'attività edilizia
dell’imprenditore.
Nel corso del colloquio, evocando secondo una
sperimentata strategia intimidatoria l'incombente presenza di “cristiani” in
29 grado di cagionare “male cose” e “camurrie” in caso di inottemperanza, si
era proposto quale fautore di una mediazione finalizzata a preservare il
Cutietta da possibili “maltrattamenti” e da un potenziale “massacro”.
Infine, quando si era reso conto, recependo le rimostranze del Cutietta, che
gli aveva rappresentato di avere già pagato in relazione ai due fabbricati in
questione, lo aveva dispensato seduta stante da ulteriori pagamenti,
mostrando così di avere una piena autonomia operativa e, quindi, di essere
investito, alla stregua di direttive interne impartite dal Pipitone, di una
responsabilità decisionale che poteva trovare il suo fondamento logico
soltanto in una posizione di primo piano nell'ambito della “famiglia”
mafiosa di Carini.
Dette risultanze avevano trovato riscontro, peraltro, nelle propalazioni del
Pulizzi, il quale aveva indicato nel Conigliaro l’uomo che insieme al Di
Maggio affiancava il Pipitone nella gestione degli interessi della “famiglia”
mafiosa, con particolare riguardo al settore delle estorsioni.
1-4. Per quanto concerne la posizione di Cusimano Antonio, hanno
affermato i primi Giudici che numerose intercettazioni telefoniche ed
ambientali eseguite nel maggio del 2002 avrebbero consentito di verificare
come il predetto imputato avesse imposto all’imprenditore Scalici Damiano
le forniture dei materiali destinati alla costruzione delle unità immobiliari
che detto Scalici stava realizzando nel territorio di Carini.
Sarebbe emerso, infatti, dalla organica disamina del contenuto delle
registrazioni che il Cusimano aveva cercato insistentemente il contatto con
Nino Pipitone, nel tentativo di ottenere dal nipote del reggente della
“famiglia” mafiosa di Carini, nonché con l'appoggio decisivo di Di Blasi
Francesco, il via libera per la fornitura di materiale edile all’impresa Scalici.
L'intervento richiesto ai Pipitone, diretto ad ottenere l'attribuzione della
fornitura, avrebbe raggiunto l'effetto desiderato, in quanto il Cusimano
aveva ottenuto una parte della commessa.
30 La condizione di assoggettamento dello Scalici non poteva essere revocata
in dubbio, in quanto la pressione esercitata sull'imprenditore dal Cusimano,
mediante l'interposizione di esponenti mafiosi appartenenti a varie famiglie
del mandamento di San Lorenzo (il Di Blasi di Pallavicino ed i cd.
“cristiani” di Carini), aveva privato quest’ultimo di ogni autonomia nella
scelta dei fornitori costringendolo a subire decisioni alle quali era rimasto
totalmente estraneo.
Le risultanze delle anzidette intercettazioni erano state convalidate dalle
convergenti dichiarazioni dei “collaboratori di giustizia”, che avevano
indicato le frequentazioni mafiose del Cusimano e la sua particolare
contiguità a Di Blasi Francesco ed, in genere, agli affiliati alla famiglia di
Partanna Mondello.
In particolare, Nuccio Antonino, dopo avere riconosciuto in effigie
fotografica il Cusimano, riferiva di averne sentito parlare negli anni
2002/2003 nel corso di colloqui con Mimmo Serio, “uomo d’onore” di
Tommaso Natale. Spataro Maurizio, dopo avere riconosciuto in effigie
fotografica il Cusimano, sosteneva di avere avuto modo di conoscerlo nel
1995, presso gli impianti della “Edilpomice”, siti a Vergine Maria, in
quanto gli sarebbe stato presentato da Mimmo Cancelliere, in quel periodo
reggente della “famiglia” di Borgo Nuovo, pur non essendo in grado di
precisare se il Cusimano fosse organicamente inserito nell’associazione
mafiosa.
Anche Franzese Francesco, dopo avere operato un positivo riconoscimento
fotografico del Cusimano, aveva indicato quest’ultimo come persona vicina
a Ciccio Di Blasi, che lo chiamava “figlioccio”, rammentando come
l’odierno imputato fosse titolare della ditta Edilpomice, sita all’Addaura,
nei pressi del cimitero.
Soggiungeva il collaborante di avere conosciuto per ragioni di lavoro il
Cusimano, essendo solito recarsi spesso alla Edilpomice per effettuare
carichi di materiale, e di avere notato in tali occasioni che nei locali della
31 ditta si trovava sovente il Di Blasi, che utilizzava quel luogo per i suoi
appuntamenti con sodali mafiosi.
Onorato Francesco, infine, aveva dichiarato di avere avuto modo di
conoscere Antonio Cusimano, detto Tony, che aveva un deposito di
materiale edile a Vergine Maria, e che lo stesso ed il fratello erano assai
vicini al noto mafioso di Tommaso Natale, Lino Spatola, ed anche a
Salvatore Lo Piccolo, e che l’imputato, in particolare, era figlioccio dello
Spatola.
Il “collaborante” aveva ricordato, infine, che il Cusimano ritirava la somma
pagata a titolo di pizzo dal circolo Lauria e la consegnava allo Spatola, il
quale poi gliela girava “per competenza”, trattandosi del territorio di
Mondello.
Ha osservato il primo giudice, dopo avere preso atto delle dichiarazioni
spontanee di Cusimano Antonio (il quale aveva dichiarato che l’acquisizione
della commessa dell’imprenditore Antonino Scalici per la fornitura di
materiale edile era stata il frutto di una normale trattativa e non di
coartazione mafiosa), che, alla stregua degli elementi probatori raccolti,
poteva affermarsi che l’intervento richiesto ai Pipitone, diretto a difendere
“le ragioni” del Cusimano nell’attribuzione della fornitura, aveva raggiunto
l’effetto desiderato, in quanto l’imputato aveva ottenuto una parte della
commessa.
Doveva, pertanto, ritenersi provata la responsabilità del Cusimano in ordine
al delitto di concorso in estorsione, perpetrato ai danni dello Scalici.
Risultavano pacificamente sussistenti le aggravanti di cui agli 629 comma
2° c.p. e 7 del D.L. n. 152/1991, trattandosi di condotta posta in essere da
esponenti mafiosi, con i metodi intimidatori tipicamente utilizzati
dall’associazione criminale
1-5. Quanto ad Altadonna Lorenzo, imprenditore originario di Carini, il
Tribunale, dopo avere riconosciuto che non sussistevano i presupposti di
legge per affermare la responsabilità dello stesso in ordine al delitto di
32 riciclaggio aggravato e impiego di denaro di provenienza illecita in
concorso, affermava che l’attività istruttoria avrebbe consentito, tuttavia, di
accertare l’esistenza di stabili rapporti tra l’anzidetto imputato e
l’associazione criminosa denominata “cosa nostra”, rapporti che avrebbero
dimostrato, in particolare, la disponibilità dell’Altadonna ad effettuare
rilevanti investimenti immobiliari per conto della “famiglia” mafiosa di
Carini.
Tale disponibilità trovava fondamento soprattuto nell’ambito di uno stretto
rapporto di amicizia che legava l’Altadonna a Pipitone Vincenzo, reggente
del sodalizio criminale di Carini.
Ha osservato il primo giudice come, in sede di esame, l’imputato avesse
tentato di negare l’esistenza di un consolidato rapporto con il Pipitone
sostenendo di avere sì in qualche occasione frequentato detto soggetto
anche perché lo stesso era stato padrino di cresima del figlio Salvatore, ma
di non avere mai con il Pipitone posto in essere alcuna attività illecita.
Il mendacio dell'Altadonna, tuttavia, sarebbe stato evidenziato, secondo i
primi giudici, dal contenuto delle conversazioni intercettate, nelle quali il
Pipitone, a dimostrazione del rapporto confidenziale esistente tra i due, si
sarebbe riferito ripetutamente allo stesso, indicandolo come suo “compare
Lorenzo”.
L'intensità e la frequenza dei rapporti tra l'Altadonna e il Pipitone sarebbero
state, quindi, chiaramente documentate dal complesso delle conversazioni
di cui era protagonista lo stesso reggente della “famiglia” di Carini, e
sarebbero state, inoltre, confermate dalle risultanze dell'attività di polizia
giudiziaria.
Soltanto nell'estate del 2003, l'Altadonna, infatti, come era stato
documentato da servizi di osservazione, si era recato almeno in due
occasioni nella villa del Pipitone.
Le convergenti dichiarazioni dei “collaboranti” Pulizzi e Franzese, poi,
avrebbero asseverano tali risultanze.
33 Il Franzese non aveva riferito significativi elementi circa il ruolo
dell’Altadonna, pur ricordando di averne sentito parlare da Sandro Lo
Piccolo, e lo Spataro lo aveva indicato esplicitamente come “vicino” agli
esponenti mafiosi di Carini e di Torretta.
Significativa sarebbe stata la circostanza che nel 1998 l'Altadonna era stato
presentato allo stesso Spataro da Mannino Calogero - cugino di Salvatore
Lo Piccolo e di Lorenzino Di Maggio - come una persona “vicina” ai
Pipitone e, in particolare, a Pipitone Giovanni - reggente, in quel periodo,
della “famiglia” di Carini - il quale “teneva tantissimo” all'Altadonna.
La contiguità dell'imputato ad ambienti mafiosi sarebbe stata, inoltre,
documentata dalla conversazione intercorsa tra Brusca Vincenzo (reggente
della “famiglia” di Torretta) e il genero Di Maggio Antonino.
Il colloquio avrebbe rivestito una particolare valenza accusatoria,
rappresentativa della disponibilità offerta dall’imputato ad assecondare gli
interessi di “cosa nostra”, spendendosi personalmente per il perseguimento
degli interessi dell'associazione criminale.
Il Brusca, infatti, aveva riferito al Di Maggio di avere chiesto all'imputato,
indicato come “un amico vero”, di parlare con tali Caruso (consigliere
comunale di Torretta) e Puccio (già sindaco di Capaci), per agevolare
l'approvazione di un certo progetto edilizio che interessava la locale
“famiglia” mafiosa.
E l’Altadonna avrebbe ottemperato alla richiesta del Brusca, parlando con i
due soggetti in questione, ancorché non avesse ottenuto alcuna risposta
concreta, e mantenendo con loro il riserbo (giudicato assai opportuno dal
capomafia di Torretta) circa la reale paternità dell'iniziativa.
Ma la più evidente dimostrazione del diretto coinvolgimento dell'Altadonna
nelle dinamiche dell'associazione criminale sarebbe scaturita da una
conversazione intercorsa il 25 settembre 2003 tra il
Pipitone ed il
Conigliaro.
La persona indicata con il nome “Roberto”, che avrebbe assicurato la sua
protezione all'Altadonna e avrebbe potuto reagire assai negativamente se
34 questi avesse dovuto fargli giungere le sue rimostranze, sarebbe stato un
esponente mafioso di primissimo piano, di cui lo stesso Pipitone parlava
con deferenza mista a timore, e si sarebbe identificato, stando alle
dichiarazioni
del
Pulizzi,
nello
stesso
Lo
Piccolo
Salvatore,
“capomandamento” di San Lorenzo, all'epoca latitante.
Nello stesso contesto andava collocata l'esplicita menzione dell'Altadonna
in due “pizzini”, sottoposti a sequestro in occasione dell'arresto dei Lo
Piccolo, dai quali sarebbe emerso l'interessamento dei due esponenti di
vertice di “cosa nostra” in una questione relativa a pregressi rapporti di
affari tra l’Altadonna e l'imprenditore Leonardo, che reclamava la
restituzione di una consistente somma di denaro.
L’imputato,
in
conclusione,
seppure
non
inserito
nella
struttura
organizzativa del sodalizio criminale e privo dell’affectio societatis, si
sarebbe adoperato volontariamente in favore dell’organizzazione mafiosa,
fornendo spontaneamente la propria disponibilità al servizio degli interessi
di “cosa nostra”, nonché la sua rete di conoscenze, le sue attività
commerciali e le sue qualità imprenditoriali.
In definitiva, le convergenti risultanze processuali sarebbero state
chiaramente indicative dell'esistenza di un rapporto interattivo istaurato
dall'Altadonna con l'organizzazione mafiosa, in vista del conseguimento di
propri interessi imprenditoriali.
Nel caso di specie, sarebbe perciò venuta in rilievo la condotta di un
imprenditore colluso, che non era succube dell'organizzazione mafiosa e
non ne subiva passivamente le imposizioni, ma era legato da un rapporto di
stabile collaborazione con il sodalizio criminale, in vista del conseguimento
di reciproche utilità per entrambe le parti; si sarebbe trattato, quindi, di un
consapevole, volontario contributo alla conservazione di “cosa nostra” e al
rafforzamento delle sue capacità operative.
35 Il materiale probatorio raccolto a carico dell’Altadonna sarebbe stato
ulteriormente integrato, ad avviso del Tribunale, dalle dichiarazioni rese dai
“collaboratori di giustizia” sentiti nel corso del dibattimento.
Il “collaborante” Pulizzi Gaspare aveva riconosciuto in effigie fotografica
l’imputato, indicato come compare di Enzo Pipitone, essendo stato il
padrino di cresima del di lui figlio.
Aveva affermato il Pulizzi che l’Altadonna, il quale aveva acquistato un
terreno a Carini, aveva consegnato a Pipitone Vincenzo la somma di denaro
necessaria per liquidare i mezzadri presenti sul fondo da molti anni; si
sarebbe trattato, in particolare, di Conigliaro Angelo, Gallina Angelo e
Vallelunga Enzo, tutti appartenenti alla “famiglia” mafiosa di Carini, che si
erano rivolti al Pipitone Vincenzo, nella sua qualità di reggente, per
risolvere la questione.
Aveva
confermato
che
tra
Pipitone
Vincenzo
e
l’Altadonna,
soprannominato “u’ pacchione”, vi era un rapporto di amicizia.
In un’altra circostanza, il Pulizzi sarebbe stato presente a un incontro
svoltosi in un fondo limitrofo, anch’esso di proprietà dell’Altadonna, cui
avevano partecipato Pipitone Vincenzo, Inzerillo Franco e Mannino Sandro.
Questi ultimi due avrebbero avuto l’intento di acquistare due lotti di terreno
dall’Altadonna, e si sarebbero rivolti al Pipitone per ottenere uno sconto da
quest’ultimo.
Il “collaboratore” Franzese Francesco aveva correttamente indicato
l’immagine fotografica dell’Altadonna, pur ricordandone il nome soltanto
all’esito della contestazione delle sue precedenti dichiarazioni; si trattava di
una persona di Carini, di cui aveva sentito parlare incidentalmente da Lo
Piccolo Sandro e da Gaspare Pulizzi in relazione a rilevanti lavori edilizi.
Costoro, infatti, ne parlavano come di una persona conosciuta, ma non vi
sarebbe stato alcun riferimento a condotte estorsive perpetrate ai suoi danni.
Spataro Maurizio aveva operato un positivo riconoscimento fotografico
dell’Altadonna, ricordando che gli era stato presentato nel 1998 da Mannino
36 Calogero – cugino di Lo Piccolo Totuccio e di Di Maggio Lorenzino - come
una persona “vicina” ai Pipitone.
Sul conto dell’Altadonna aveva reso dichiarazioni dibattimentali anche il
ragioniere La Porta Girolamo, consulente contabile della “Giellei Electro
Trading s.r.l.”, dichiarando di averlo conosciuto per avere seguito per suo
conto la fase prodromica all’apertura del negozio “Stock House”.
Ed aveva altresì affermato che lo stesso operava nel mercato
esclusivamente con risorse finanziarie proprie, avendo una particolare
capacità di realizzare profitti e non avrebbe potuto tollerare eventuali
compartecipazioni ai suoi affari, tant’è che egli lo aveva soprannominato
“lo squalo”.
Pertanto, alla luce dei principi giurisprudenziali illustrati nella parte
introduttiva della sentenza, sarebbero emersi, secondo i primi giudici, tutti
gli elementi integrativi del reato di concorso esterno nell'associazione
mafiosa, aggravato dalla disponibilità e dal riciclaggio dei proventi
delittuosi (commi 4 e 6 dell'art. 416 bis c.p.), ancorché non fosse stato
accertato alcuna attività di riciclaggio posta in essere dall’imputato in
favore dell’associazione.
Vero è nel corso del menzionato colloquio con il Conigliaro, il Pipitone
aveva accennato apertamente al fatto che era stata destinata all’Altadonna la
somma di trecentocinquanta milioni di lire, raccolta tra soggetti
appartenenti o comunque “vicini” alla “famiglia” mafiosa, perché lo stesso
imputato partecipasse a un’asta giudiziaria per l’acquisto di un capannone.
Tuttavia, l’operazione non era andata a buon fine, in quanto il prezzo era
lievitato fino a seicento milioni di lire e il capannone era stato acquistato da
tale Ruffino.
Analoga iniziativa sarebbe stata successivamente intrapresa per l’acquisto
del magazzino di tale Buzzetta, ma anche in questa circostanza la somma
stanziata si era rivelata insufficiente.
37 Si trattava, dunque, in entrambi i casi, di vicende che, se da un lato
confermavano la disponibilità dell’Altadonna ad operare per conto
dell’organizzazione mafiosa sul terreno degli investimenti immobiliari, per
altro verso non avrebbero assunto di per sé rilevanza penale in relazione al
paradigma normativo di cui agli artt. 648 bis e ter c.p., poiché dalle stesse
parole del Pipitone risultava che tali operazioni non erano state portate a
compimento e non avevano superato la fase meramente preparatoria, sia
pure per l’intervento di fattori indipendenti dalla volontà dei protagonisti.
Ha ritenuto, pertanto, il Tribunale che, di là dai comprovati rapporti di
contiguità tra l’Altadonna e l’organizzazione criminale, non fossero emersi
dal compendio istruttorio episodi specifici, idonei a dimostrare in concreto
che il denaro di provenienza delittuosa, riconducibile alle attività illecite
degli esponenti mafiosi di Carini, fosse stato effettivamente riciclato ovvero
immesso nel circuito economico grazie all’intervento del predetto imputato,
la cui posizione, con riferimento all’imputazione di cui al capo 16 della
rubrica, andava definita con formula assolutoria.
1-6 Per quanto concerne la posizione degli imputati Curulli e Iaquinoto, il
Tribunale ha osservato che le univoche risultanze dei servizi di
intercettazione, valutate unitamente ai concordanti apporti dichiarativi di
Pulizzi Gaspare, La Porta Girolamo e di La Manna Angelo, nonché agli
esiti della puntuale attività di verifica eseguita dagli organi investigativi,
avrebbero consentito di accertare che il Curulli e lo Iaquinoto, pienamente
consapevoli della specifica finalità dei rispettivi apporti, avevano creato la
fittizia apparenza di una società interamente riconducibile allo stesso
Iaquinoto, ma in realtà partecipata con quote rilevanti da esponenti della
“famiglia” mafiosa di Carini.
In tal modo, gli imputati avrebbero consentito, mediante l’esercizio
dell'attività di impresa, il reimpiego di risorse finanziarie di provenienza
delittuosa, loro direttamente conferite dagli appartenenti al citato sodalizio
mafioso. Quali fossero le fonti illecite di raccolta della provvista cui
38 attingevano il Pipitone e il Di Maggio sarebbe risultato evidente, alla
stregua degli univoci elementi di prova raccolti in ordine all'asfissiante
pressione estorsiva esercitata dalla “famiglia” mafiosa di Carini sulle
attività economiche intraprese nel territorio.
L’attiva natura dell'inserimento del Di Maggio e del Pipitone nella società
formalmente amministrata dallo Iaquinoto, e con la partecipazione occulta
del Curuli, si sarebbe ricavata, in particolare:
- dai collegamenti di natura familiare tra il Curulli e Pipitone Vincenzo e
dalla significativa presenza, fra i dipendenti della “Giellei Electrotrading”, di
congiunti dello stesso Pipitone e del Di Maggio (egli stesso formalmente
assunto con la qualifica di magazziniere);
- dalle conversazioni intercettate all'interno del deposito del Gottuso, dalle
quali si traeva la conferma del connubio esistente fra i predetti esponenti
mafiosi e il Curulli, di cui veniva tratteggiato il ruolo di “curatore” di
interessi economici facenti capo alla “famiglia” di Carini;
- dall’esplicita indicazione del Pipitone - nelle esternazioni dello stesso
Gottuso - come il vero “padrone” della società nella quale operava il
Curulli;
- dalla conversazione telefonica intercorsa tra Fortunato Vitale (Roberto) e
la moglie Silvana, che offriva un quadro chiarissimo della reale attribuzione
dei poteri di gestione della società, indicando il Di Maggio come la persona
competente ad assumere le decisioni in materia di pagamento degli stipendi;
- dai colloqui tra il Di Maggio e il Pipitone, dai quali emergeva altrettanto
chiaramente la cointeressenza dei due interlocutori nella “Giellei
Electrotrading”.
Tali elementi avrebbero costituito la prova certa del fatto che gli odierni
imputati erano i soggetti ai quali essi avevano affidato la cura dei loro
interessi.
E le anzidette circostanze, di per sé ampiamente sufficienti per ritenere
fondato l'assunto accusatorio, sarebbero state asseverate dalle convergenti
39 deposizioni del Pulizzi e del La Porta, i quali - dai propri rispettivi angoli
visuali - avrebbero descritto in termini convergenti il reale assetto
societario, affermando che se formalmente lo Iaquinoto era l'amministratore
unico, partecipavano in modo occulto alla compagine sociale oltre al
Curulli, anche il Di Maggio e il Pipitone.
Inoltre, il giro di assegni fra le banche di Carini e di Acireale, accertato
dalla Guardia di Finanza, vale a dire tra banche situate a centinaia di
chilometri di distanza, non giustificabili in relazione all'attività commerciale
svolta dalla società, sarebbero stati tutti elementi indicativi di una serie di
condotte volte alla “ripulitura” e al “ritorno” di cospicue somme di denaro
di provenienza illecita, secondo lo schema normativo tipico del riciclaggio
(sostituzione o trasferimento di denaro, ovvero compimento di operazioni
tali da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa).
Le difese degli imputati avevano cercato di dimostrare, in qualche modo
riuscendovi, che in realtà tali operazioni erano determinate dalla necessità
di fronteggiare la mancanza di liquidità nella quale la “Giellei
Electrotrading” si dibatteva nel periodo in contestazione.
Ciò, tuttavia, non avrebbe escluso che, in ogni caso, dietro l'attività
commerciale apparentemente riconducibile allo Iaquinoto e, indirettamente,
al Curulli (anch'egli, come si è visto, socio di fatto della “Giellei
Electrotrading”), si celassero in realtà specifici interessi patrimoniali del
Pipitone e del Di Maggio.
Sarebbe stato accertato, infatti, alla stregua di convergenti acquisizioni
istruttorie dotate di inoppugnabile valenza dimostrativa, che i due esponenti
di vertice della cosca mafiosa di Carini avevano conferito ingenti risorse
finanziarie di origine illecita nel capitale sociale ed erano, unitamente al
Curulli, i reali gestori occulti della società, dietro lo schermo della titolarità
formale attribuita al solo Iaquinoto.
Con riguardo al profilo della qualificazione giuridica delle condotte in
contestazione, premesso che nei confronti degli odierni imputati era stata
40 elevata un'imputazione di natura cumulativa ai sensi degli artt. 648 bis e
648 ter c.p. (capo 17 della rubrica), e che tra le due fattispecie sussiste
certamente un rapporto di specialità, i primi Giudici hanno ritenuto che,
avuto riguardo alle concrete modalità realizzative della condotta, attuata
mediante l'immissione nel circuito economico di risorse finanziarie di
derivazione illecita, apparisse più corretto ricondurre i fatti contestati al
Curulli e allo Iaquinoto unicamente entro l'alveo di operatività dell’art. 648
ter cod. pen.
Hanno ritenuto, invece, di dovere assolvere il Curulli dall’imputazione di
concorso esterno in associazione mafiosa elevata a suo carico al capo 2
della rubrica.
Hanno rilevato infatti con riguardo alla configurabilità del concorso tra il
delitto di cui all’art. 648 ter c.p. e il reato associativo, che in passato la
giurisprudenza di legittimità non aveva ravvisato alcun rapporto di
“presupposizione” tra le fattispecie in esame e, pertanto, ritenendo non
operante la clausola di esclusione prevista dall’inciso iniziale dell’art. 648
bis c.p. (e, analogamente, quella dell’art. 648 ter c.p.), aveva affermato che
il partecipe al sodalizio criminoso risponde altresì dell’imputazione per
riciclaggio dei beni acquisiti attraverso la realizzazione dei reati fine
dell’associazione.
In particolare, è stato osservato come la S.C., in un primo tempo, abbia
statuito che “tra fattispecie associativa e delitto di riciclaggio non sussiste,
in astratto, alcun rapporto di “presupposizione” giacché la partecipazione al
sodalizio non equivale affatto a realizzare la fattispecie delittuosa dalla
quale origina la successiva condotta prevista dal- l’art. 648 bis c.p., a
prescindere da quelli che possono essere i reati programma del sodalizio
stesso. Non potendosi quindi configurare una ontologica derivazione dei
beni oggetto di riciclaggio dalla condotta associativa, non può
evidentemente operare la clausola di esclusione con la quale esordisce l’art.
648 bis c.p.” (Cass., sez. II, 14.2.2003, n. 10582).
41 Hanno rilevato, però, come recentemente la stessa Cassazione abbia mutato
indirizzo, affermando che “il delitto di associazione di tipo mafioso può
costituire il presupposto di quello di riciclaggio, in quanto è di per sé idoneo
a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche
quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo
del metodo mafioso”, quale l’uso della forza intimidatrice della
associazione,
l’assoggettamento
delle
persone
con
tale
timore,
l’imposizione di atteggiamento omertoso” (Cass., sez. I, 27.11.2008, P.M.
in proc. Ceccherini).
È dunque possibile che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi
caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di
altri diversi delitti da qualificare come reati-fine della associazione.
Di ciò si avrebbe riprova, ad avviso della Suprema Corte, anche nella
norma di cui all’art. 76 comma 4 bis del D.P.R. n. 115/2002 (introdotta
dall’art. 12 ter della L. n. 125/2008), che prevede che in materia di
patrocinio a spese dello Stato, per i soggetti già condannati con sentenza
definitiva per i reati di cui all’art. 416 bis c.p., nonché per i reati commessi
avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis c.p. ovvero al
fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, il
reddito si presume superiore ai limiti previsti; la nuova disposizione, quindi,
esclude dal gratuito patrocinio il soggetto condannato anche soltanto per
associazione mafiosa, sul chiaro presupposto che tale reato possa produrre
ex se lucrosi proventi, indipendentemente dai reati-fine della associazione.
Nel caso di specie non era possibile affermare, però, che il Curulli, al di là
dell’utilizzo di somme di denaro provenienti dal Pipitone e dal Di Maggio
nella società Giellei, abbia inteso fornire un contributo alle finalità
dell’associazione mafiosa “cosa nostra”.
Hanno rammentato, infatti , come, secondo la più recente elaborazione
giurisprudenziale della figura del concorrente “esterno”, assume tale veste il
soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa della
consorteria criminale e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “fa
42 parte”), “fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario
contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini
della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative
dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala come "cosa nostra",
di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e
sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma
criminoso della medesima” (Cass., S.U., 12.7.2005, Mannino).
E nella specie, di là dai comprovati rapporti di contiguità tra il Curulli ed il
gruppo mafioso facente capo a Pipitone Vincenzo, compiutamente esplicati
dalla partecipazione occulta alla “Giellei Electrotrading”, non risultavano
acquisiti, a carico del predetto imputato, elementi dimostrativi di un diverso
ed ulteriore contributo specifico, dotato di effettiva rilevanza causale ai fini
del mantenimento e del rafforzamento dell’associazione mafiosa, sicché lo
stesso doveva essere mandato assolto dall’imputazione di cui al capo 2 con
la formula di rito.
1-7.
Esaminando, poi, le posizioni di Collesano Vincenzo e De Luca
Antonino, i primi giudici, dopo avere analizzato il contenuto delle
conversazioni intercettate alle quali i predetti avevano partecipato, ovvero
quelle in cui gli in cui i nominativi degli stessi erano stati menzionati da
terzi, nonché le convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che
avevano riferito sul conto dei due indagati, hanno osservato, quanto al
Collesano, che le risultanze dei servizi di intercettazione avevano assunto
una
straordinaria
capacità
rappresentativa
del
suo
inserimento
nell’organizzazione criminale denominata “cosa nostra”.
I risultati dalle numerose registrazioni avevano consentito, infatti, di
delineare chiaramente gli assetti della “famiglia” mafiosa di Partanna
Mondello, che in quella fase storica era caratterizzata dallo scontro intestino
tra due gruppi contrapposti e dalla grave situazione di conflitto
determinatasi tra i fratelli Collesano, schierati su fronti diversi ed entrambi
43 interessati a conseguire il maggior vantaggio possibile da una grossa
operazione immobiliare in quel momento in fase progettuale.
La contrapposizione esistente tra i fratelli Collesano era nota negli ambienti
di “cosa nostra” e costituiva motivo di forte preoccupazione per il Gottuso,
l’uomo che - come risultava dalle emergenze processuali - svolgeva attività
di mediazione immobiliare, muovendosi con estrema disinvoltura tanto
negli ambienti dell’imprenditoria, quanto tra gli uomini di “cosa nostra”,
garantendo gli interessi delle “famiglie” mafiose di volta in volta
interessate.
Il Gottuso si era adoperato personalmente per comporre le tensioni createsi
all’interno della “famiglia” di Partanna Mondello, ulteriormente esacerbate
dal fatto che Davì Salvatore, scarcerato dopo un lungo periodo di
detenzione, aspirava ad assumere il ruolo di vertice della cosca, forte del
suo stretto rapporto con il capo mandamento Lo Piccolo Salvatore.
Da una conversazione tra Collesano Rosario e la moglie era peraltro
possibile trarre ulteriore conferma del fatto che il dissidio tra i fratelli non
riguardava soltanto questioni personali (come si era sostenuto da parte
dell’imputato in sede di esame dibattimentale), quanto, piuttosto, il loro
rispettivo posizionamento nei due schieramenti contrapposti.
Le dichiarazioni del collaborante Franzese confermavano pienamente le
risultanze dell’attività di intercettazione, avendo detto collaborante
efficacemente tracciato il quadro delle opposte fazioni formatesi in seno al
sodalizio criminale, che vedevano da un lato il Davì, appoggiato da
Collesano Rosario e da Bruno Giuseppe, detto “castagna”; dall’altro,
Collesano Vincenzo e De Luca Antonino, nel gruppo sostenuto da Di Blasi
Francesco, esponente mafioso di Pallavicino, divenuto reggente della
“famiglia” di Partanna Mondello.
Le indicazioni del Franzese erano ampiamente credibili in quanto detto
collaborante era legato da un rapporto di amicizia al Collesano, ed aveva
rivestito il ruolo di reggente della “famiglia” di Partanna Mondello dal
44 periodo immediatamente successivo alla operazione c.d. “Gotha” (nel corso
della quale era stato arrestato, tra gli altri, il suo predecessore Davì
Salvatore) fino al momento del suo arresto (avvenuto il 2 agosto 2007).
La contrapposizione tra i due gruppi appariva peraltro plasticamente
riproposta nella vicenda delle trattative per la compravendita del fondo
Vernaci, illustrata dal Franzese in termini sostanzialmente coincidenti con il
contenuto delle conversazioni intercettate.
Il calibro dei soggetti coinvolti e l’estrema importanza che tutti i
protagonisti della vicenda avevano attribuito alla questione, al punto da
renderne partecipe lo stesso Lo Piccolo Salvatore, avrebbero reso vieppiù
evidente che le
ragioni dello scontro non attenevano soltanto a meri interessi privati
inerenti ad una sia pure rilevante operazione immobiliare, ma involgevano
direttamente gli equilibri interni alla cosca di Partanna Mondello e
l’esercizio del potere di condizionamento mafioso sulle attività economiche
presenti nel territorio.
Il Collesano sarebbe stato personalmente coinvolto nelle trattative della
sensaleria per la vendita del fondo Vernaci ed avrebbe cercato di
accreditarsi presso Lo Piccolo Salvatore, al fine di prevalere sul Davì; ed a
tale riguardo, sarebbe significativa del grado di inserimento dell’imputato
nell’associazio- ne mafiosa anche la circostanza che l’imprenditore Filippo
Cinà, incaricato dal Lo Piccolo di parlare con il Di Blasi per risolvere la
questione, fosse stato da quest’ultimo dirottato proprio verso il Collesano,
che doveva dunque considerarsi il referente del gruppo facente capo allo
stesso Di Blasi, in relazione ad una vicenda nella quale erano coinvolti i
principali esponenti mafiosi della zona e il vertice mandamentale di “cosa
nostra”.
Nella stessa prospettiva, assunìmeva una straordinaria valenza dimostrativa
dell’assunto accusatorio il contenuto del “pizzino” sequestrato al Franzese
in occasione del suo arresto.
45 Al
riguardo
era
sufficiente
ricordare
che,
secondo
la
coerente
interpretazione autentica fornitane dallo stesso Franzese (il quale aveva
scritto di suo pugno il documento in questione), le voci indicate nel
manoscritto si riferivano alla suddivisione di una ingente somma di denaro
ricavata da un’estorsione fra i vari appartenenti alla “famiglia” di Partanna
Mondello, secondo i criteri stabiliti dai vertici del mandamento, in persona
di Lo Piccolo Sandro.
Ed invero, tra i soggetti destinatari dei proventi estorsivi, accanto agli stessi
Lo Piccolo, al Davì e al Di Blasi – solo per citarne alcuni – figuravano
anche i fratelli Vincenzo e Rosario Collesano (indicati con l’abbreviazione
“coll”).
Il Franzese, inoltre, aveva indicato Collesano Vincenzo come un soggetto
particolarmente attivo nel settore delle estorsioni, essendo stato delegato a
riscuotere il “pizzo” presso vari esercizi commerciali per conto di
Francesco Di Blasi.
Le dichiarazioni del Franzese avevano trovato adeguato riscontro, peraltro,
in quelle del Nuccio, il quale aveva in primo luogo confermato il rapporto
di sovraordinazione gerarchica esistente tra il Di Blasi e il Collesano,
nonché i problemi di coesistenza verificatisi tra lo stesso Di Blasi e il Davì
quando quest’ultimo era tornato in libertà dopo un lungo periodo di
detenzione.
Il Nuccio aveva inoltre ricordato, riscontrando sul punto le affermazioni del
Franzese, che il Collesano si occupava della gestione delle attività estorsive
nella zona di Partanna Mondello, rievocando un episodio che aveva visto
l’odierno imputato anticipare il Mancuso nella richiesta estorsiva ai danni
della vittima e nella conseguente riscossione di una parte del “pizzo”; per
tale ragione lo stesso Mancuso aveva disposto che il Collesano non dovesse
ricevere per un certo periodo il contributo in denaro erogato dalla
“famiglia” mafiosa, della quale l’odierno imputato faceva parte.
Le dichiarazioni del Nuccio coincidevano con quelle del Francese anche
con riguardo alla mancata adesione del Collesano alla richiesta,
46 indirettamente proveniente da Lo Piccolo Sandro e veicolata dallo stesso
Franzese, di cedere un lavoro di idraulica in favore di un altro soggetto
gradito al capomandamento di San Lorenzo.
L’indisponibilità del Collesano non avrebbe, tuttavia, compromesso i buoni
rapporti intercorrenti con il Franzese.
Lo stesso Collesano, del resto, aveva rievocato la vicenda nel corso del suo
esame, sostenendo – con una affermazione davvero inverosimile - di avere
intuito che il Franzese era coinvolto in affari illeciti solo nel momento in cui
il suo compare gli aveva detto che la richiesta di affidare il lavoro ad un
altro idraulico proveniva appunto da Lo Piccolo Sandro.
L’esistenza dello stretto legame tra il Collesano e il Franzese era stata
confermata anche dal collaborante Spataro, che aveva ricordato come il
Bonanno, avendo la necessità di incontrare lo stesso Franzese in relazione
ad una vicenda strettamente pertinente agli interessi dell’organizzazione
mafiosa, si fosse rivolto proprio all’odierno imputato per stabilire il contatto
con l’allora reggente della “famiglia” di Partanna Mondello.
Anche il Pulizzi, infine, aveva dichiarato di conoscere il Collesano,
ricordando il suo intervento infruttuoso nella vicenda relativa all’estorsione
ai danni dell’imprenditore Caravello, volto ad ottenere una riduzione
dell’im- porto coattivamente richiesto dalla “famiglia” mafiosa di Carini, in
quel periodo capeggiata dallo stesso Pulizzi; in relazione a tale vicenda, il
Collesano si era peraltro già rivolto a Nino Pipitone e non aveva mancato di
precisare al Pulizzi che conosceva anche Nino Di Maggio.
I contatti con il Pulizzi nell’ambito della vicenda relativa al Caravello
sarebbero stati ammessi, infine, anche dallo stesso Collesano.
Vero era che tanto i fratelli Testaverde, quanto i fratelli Adile - indicati dal
Franzese tra i commercianti taglieggiati dalla “famiglia” mafiosa di
Partanna Mondello mediante l’intervento diretto del Collesano - avevano
negato di avere ricevuto richieste estorsive da parte dell’imputato, tuttavia
siffatte deposizioni testimoniali dovevano ritenersi del tutto inidonee a
scalfire l’attendibilità dei collaboratori di giustizia.
47 Era significativa, al riguardo, la circostanza che i fratelli Testaverde, in
linea con quanto riferito dallo stesso Franzese, avessero dichiarato di essere
legati all’imputato da un rapporto di amicizia, essendo ben noto il diffuso
atteggiamento di reticenza delle vittime del racket delle estorsioni, che
soltanto sporadicamente si liberano dal giogo mafioso e collaborano con gli
organi inquirenti; ed a tale riguardo era stato evidenziato come i fratelli
Adile fossero stati rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento.
Pertanto, le difese spiegate dal Collesano, volte ad affermare la sua assoluta
estraneità ai fatti illeciti che gli venivano contestati, avrebbero dimostrato
tutta la loro inconsistenza a fronte degli evidenti elementi di prova acquisiti
nel corso procedimento, attestanti i suoi costanti e documentati rapporti con
noti esponenti mafiosi dai quali poteva ricavarsi per tabulas (come si
desumeva dal manoscritto sequestrato al Franzese) la sua intraneità
all’organizzazione criminale.
In conclusione, benché non fosse emersa dalle fonti dichiarative la rituale
affiliazione dell’imputato a “cosa nostra”, tuttavia l’imponente materiale probatorio raccolto a carico del Collesano avrebbe dimostrato, in termini
inoppugnabili, il suo organico inserimento nella “famiglia” mafiosa di
Partanna Mondello, il ruolo dinamico svolto al servizio della cosca, ed il
consapevole contributo arrecato al perseguimento delle finalità illecite
proprie dell’organizzazione criminale.
Ha ritenuto, infine, il Tribunale di dovere pervenire alle medesime
conclusioni per quanto concerne la posizione del De Luca.
Dalle conversazioni intercorse tra il Gottuso e Collesano Rosario - entrambi
bene inseriti negli ambienti mafiosi di Partanna Mondello e profondi
conoscitori delle dinamiche interne al sodalizio criminale - sarebbe emerso
che il De Luca era un uomo di fiducia di Collesano Vincenzo.
La collocazione del De Luca nello stesso schieramento di Collesano
Vincenzo, facente capo al Di Blasi, era stata ritenuta dai due interlocutori
all’origine dell’incendio appiccato alla autovettura dello stesso De Luca,
48 che doveva, quindi, essere inquadrato nel contesto delle gravi tensioni sorte
tra i due gruppi in competizione per la conquista del potere mafioso nella
zona di Partanna Mondello.
Secondo la qualificata ricostruzione del Gottuso, il De Luca sarebbe stato
interpellato da un soggetto che voleva incontrare il Bruno – schierato invece
con il Davì - per questioni di rilievo mafioso.
Il De Luca lo avrebbe dissuaso, sostenendo che il Bruno era stato “posato”
e dirottando il suo interlocutore verso Collesano Vincenzo.
Le pesanti osservazioni del De Luca sulla persona del Bruno, l’implicita
sconfessione del ruolo del Davì e dei suoi alleati, erano state perciò
individuate come la plausibile causale del gesto intimidatorio compiuto ai
suoi danni.
L’attentato avrebbe avuto, dunque, una matrice mafiosa e sarebbe stato
riconducibile all’esigenza del Davì di riaffermare il proprio controllo sul
territorio a discapito della fazione contrapposta, cui apparteneva a pieno
titolo il De Luca.
Le dichiarazioni dei principali collaboratori di giustizia avrebbero
completato il quadro probatorio relativo alla ritenuta appartenenza del De
Luca all’associazione mafiosa.
Tanto il Franzese, quanto il Nuccio avevano descritto - riscontrandosi
reciprocamente - il ruolo svolto dall’imputato nell’ambito delle attività
criminali della cosca di Partanna Mondello, indicandolo come un soggetto
dapprima molto vicino a Collesano Vincenzo e quindi (in una fase
evidentemente successiva a quella documentata dalle intercettazioni),
transitato nell’orbita di Davì Salvatore.
Il Franzese, inoltre, aveva indicato il vivaio del De Luca come un luogo più
volte utilizzato per riunioni mafiose, alle quali egli stesso aveva avuto modo
di partecipare, ed entrambi i collaboranti avevano affermato che il De Luca
era attivo nel settore delle estorsioni, dei danneggiamenti e del traffico di
droga per conto dell’associazione mafiosa; il Franzese, in particolare, si era
49 soffermato sui metodi particolarmente odiosi utilizzati dal Davì e dal De
Luca nella gestione delle estorsioni, ciò che avrebbe determinato l’allontanamento dell’imputato da Collesano Vincenzo, il quale non condivideva
quei metodi.
Il De Luca, dal canto suo, aveva ammesso la propria responsabilità in
ordine all’estorsione commessa ai danni di un’impresa avente il cantiere
nella via Marinai Alliata, reato per il quale aveva già riportato una
condanna.
L’episodio rievocato dal Nuccio con riguardo all’estorsione commessa dal
De Luca ai danni del titolare di un cantiere edile sito a Valdesi per conto del
Davì,
destinatario
finale
del
provento
estorsivo
pagato
mediante
l’interposizione del Di Maio, era da ritenere assolutamente verosimile, per
quanto non assistito da riscontri specifici, in quanto la narrazione era
apparsa lineare e circostanziata, inscrivendosi in modo coerente nel quadro
della personalità criminale dell’odierno imputato, tracciato dalle altre
risultanze processuali.
Per quanto concerne, infine, la concordanza delle fonti accusatorie sulla
particolare “competenza” del De Luca in materia di traffico di sostanze
stupefacenti, attività connaturata agli interessi criminali di “cosa nostra” ha
ritenuto il Tribunale che, a tale riguardo, assumeva particolare rilievo la
circostanza che sia il Nuccio, sia lo Spataro, narrando episodi diversi,
avevano collegato la figura del De Luca a quella di Francesco Bonanno,
cugino del più noto Giovanni, proprio in relazione alla detenzione e al
traffico di cocaina.
Il De Luca, dal canto suo, aveva sostenuto di non conoscere il Nuccio, ma
la sua affermazione sarebbe stata di fatto smentita, sia dalla precisione e
dalla costanza delle dichiarazioni accusatorie del collaborante, sia dal sicuro
riconoscimento dell’imputato effettuato dallo stesso Nuccio nell’aula
dibattimentale, all’esito di un confronto fino a quel momento svoltosi senza
che i due potessero reciprocamente vedersi.
50 In definitiva, le condotte accertate a carico del De Luca avrebbero
concretato uno stabile e consapevole contributo apportato agli interessi del
sodalizio mafioso e al rafforzamento delle sue potenzialità offensive,
denotando
l’inserimento
a
pieno
titolo
dell’imputato
nei
ranghi
dell’organizzazione criminale.
Sulla base dei condivisibili principi giurisprudenziali in precedenza
esaminati, dunque, nei confronti del Collesano e del De Luca doveva essere
formulato un giudizio di colpevolezza in ordine al reato di partecipazione
all’associazione mafiosa, aggravato dalla disponibilità di armi e dal
riciclaggio dei proventi delittuosi (commi 4 e 6 dell’art. 416 c.p.).
1- 8.
Quanto alla posizione di Biondo Francesco ha premesso il
Tribunale che detto imputato era stato chiamato a rispondere del delitto di
partecipazione all’associazione di tipo mafioso denominata “cosa nostra”,
ascrittogli al capo 26 dell’epigrafe, segnatamente per avere fatto parte della
“famiglia” di San Lorenzo; e che lo stesso era già stato riconosciuto
responsabile del reato di cui all’art. 416 bis c.p. (nonché del delitto di
riciclaggio continuato in concorso) e condannato alla pena di nove anni di
reclusione per il suo coinvolgimento nelle attività criminali della “famiglia”
mafiosa di San Lorenzo, con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in
data 5.7.2002 (divenuta irrevocabile il 14.2.2007), in relazione a condotte
commesse fino al 19.7.2000.
Dunque, la risalente appartenenza del Biondo all’organizzazione mafiosa
non poteva essere posta in discussione, in quanto tale circostanza costituiva
oggetto di definitivo accertamento giurisdizionale.
Ha osservato, quindi, il primo giudice che nell’odierno procedimento erano
stati acquisiti, nei confronti del Biondo, inconfutabili elementi di prova,
derivanti dai servizi di intercettazione ambientale, idonei a dimostrare che,
anche dopo la condanna e l’espiazione della pena inflittagli, egli non aveva
mai reciso i propri legami con l’organizzazione criminale, ma anzi li aveva
ulteriormente coltivati e alimentati, intervenendo attivamente in una spinosa
51 vicenda, oggetto di discussione tra gli esponenti di varie “famiglie” mafiose
appartenenti al mandamento di San Lorenzo.
In particolare, la vicenda riguardava una disputa in corso tra Bruno
Giuseppe (detto “castagna”) e vari appartenenti alla “famiglia” Liga, in
relazione ad una attività commerciale nella quale il fratello del Bruno, a
nome Andrea, era socio occulto del genero del noto esponente mafioso Liga
Salvatore, detto “Tatunieddu”.
Gli elementi di reità a carico del Biondo si sarebbero tratti, in particolare,
dalla conversazione intercorsa con il Gottuso, alle ore 11,00 del 27 ottobre
2004, all’interno del deposito della S.B.S., di pertinenza dello stesso
Gottuso.
L’identificazione del Biondo sarebbe apparsa certa, sia per i riferimenti
soggettivi contenuti nella conversazione – che si saldava a quella avvenuta
il giorno successivo tra il Gottuso ed altri interlocutori – sia per il fatto che
l’arrivo dello stesso Biondo a bordo di un motociclo era stato registrato dal
sistema di videoripresa installato in prossimità dell’ingresso della SBS.
Il messaggio era espresso in modo criptico, in quanto il Gottuso si guardava
bene dal menzionare esplicitamente il nome del Davì, indicandolo al
Collesano come “quello della scuola”, dal momento che in quel periodo il
Davì lavorava presso un istituto scolastico privato di Palermo, con mansioni
di addetto alla segreteria.
Dalla parole del Gottuso si sarebbe rilevata la ragione dell’intervento del
Biondo, il quale si sarebbe interessato in prima persona per tutelare gli
interessi del noto esponente mafioso Liga Salvatore, detto “Tatunieddu”,
già condannato all’ergastolo per omicidio, associazione mafiosa ed altri
reati, e lontano parente di Lo Piccolo Salvatore, mentre il Liga Federico,
citato nel corpo della stessa conversazione, era il figlio del predetto Liga
Salvatore.
Nel successivo tratto di conversazione il Gottuso, sempre più allarmato
dalle possibili conseguenze della vicenda, chiedeva al Biondo se Lo Piccolo
52 Salvatore fosse stato messo a conoscenza della delicata questione; il Biondo
rispondeva in senso affermativo, quindi il Gottuso, dopo avere affermato
che era necessario verificare e valutare in modo oggettivo le ragioni dei
contendenti, aveva raccontato al Biondo che in passato il Liga Federico si
era comportato male nei suoi confronti.
Il riferimento del Gottuso a tale “Leonardo”, indicato come il fratello del
suo interlocutore, avrebbe offerto un ulteriore elemento che rendeva certa
l’identificazione di Biondo Francesco, essendo stato accertato che quest’ultimo aveva un fratello a nome Leonardo.
Nel descrivere in sintesi la vicenda dalla quale era scaturita l’imputazione a
carico del Biondo, il Tribunale aveva rilevato che Liga Salvatore, detenuto
in espiazione di pena, essendo stato condannato a ben quattro ergastoli,
parente di Lo Piccolo Totuccio, aveva chiesto conto del comportamento
tenuto da Bruno Giuseppe nei confronti di suo genero Garofalo Francesco;
il Bruno, infatti, avrebbe materialmente impedito al Garofalo l’accesso nel
suo esercizio commerciale (un supermercato), tranciando e sostituendo i
lucchetti agli ingressi del locale. L’uomo che, su incarico del Liga
Salvatore, aveva richiesto la consegna delle chiavi era Biondo Salvatore,
inteso “Varvazza”, fratello dell’imputato, da poco scarcerato. Parlando con
il Biondo, il Gottuso aveva preso le difese del Bruno, ritenendo improbabile
che, conoscendo le regole di comportamento vigenti all’interno di “cosa
nostra”, egli avesse potuto agire con leggerezza; per tale ragione, il Gottuso
aveva obiettato al Biondo, il quale gli chiedeva di farsi consegnare le chiavi
dal Bruno, che occorreva prima valutare oggettivamente i termini della
contesa.
Il Bruno peraltro sarebbe intervenuto a tutela del fratello Andrea, all’epoca
detenuto, che a dire di Collesano Rosario aveva aperto il locale. Infatti il
suo socio, vale a dire il Garofalo, non gli avrebbe fatto pervenire la sua
quota di utili, che ammontava a circa trecento milioni di lire.
Nel corso della conversazione, lo stesso Collesano Rosario assicurava al
Gottuso che il Davì era già a conoscenza della questione; e quindi si era
53 attivato per contattare telefonicamente quest’ultimo, ma senza successo,
manifestando poi l’intenzione di andare a trovarlo a casa; riusciva, invece, a
rintracciare Bruno Giuseppe, invitandolo a presentarsi nel deposito del
Gottuso.
Quest’ultimo ribadiva che il Bruno non avrebbe mai preso una simile
iniziativa senza essere stato “autorizzato”.
Fatte tali premesse, il Tribunale ha osservato che la lunga conversazione
intercorsa tra i personaggi anzidetti, avrebbe fornito tutti gli elementi
necessari per comprendere l’accaduto e, in particolare, le motivazioni del
gesto compiuto da Bruno Giuseppe.
Secondo la versione di quest’ultimo, l’effettivo titolare dell’esercizio
commerciale era il fratello Bruno Andrea, detenuto, che l’aveva
fittiziamente intestato a Garofalo Francesco, genero di Liga Salvatore, il
quale ora si comportava da “padrone” e da lungo tempo non faceva
pervenire allo stesso Bruno Andrea i proventi dell’attività.
Il Gottuso, su esplicita richiesta del Bruno, aveva riferito che ambasciatore
delle lagnanze del Liga sarebbe stato Biondo Francesco, così dissipando
definitivamente ogni eventuale dubbio sulla corretta identificazione del suo
interlocutore nella conversazione del 27 ottobre.
Il Bruno, allora, si era espresso in termini fortemente critici nei confronti
del Biondo, affermando che “aveva parlato assai” e doveva “farsi i fatti
suoi”.
Inoltre, sollecitato dal Gottuso, il Bruno lasciava chiaramente intendere che
era stato informato anche il latitante Lo Piccolo Salvatore, il quale lo aveva
autorizzato a reagire con le modalità lamentate dal Liga; egli non sarebbe
stato perciò tenuto a dare alcuna spiegazione del suo comportamento, ed
esprimeva, comunque, tutta la sua stima nei confronti del Liga, con il quale
aveva condiviso una esperienza carceraria, e sosteneva che il Garofalo non
era degno di appartenere alla sua “famiglia”.
Sulla base delle indicazioni fornite dai protagonisti della conversazione, gli
organi inquirenti individuavano una prima attività commerciale, oggetto del
54 contendere, denominata Bar Marinella - sita in Palermo, nella via Caduti sul
Lavoro - ed un secondo esercizio adiacente, denominato Salumeria DOC.
Il proprietario della salumeria era Pedalino Davide, che alla fine del 2004
aveva rilevato l’attività da Garofalo Francesco, genero di Liga Salvatore; in
precedenza, l’esercizio commerciale era appartenuto a tale Spitaleri
Gaetano, come era risultato dalle visure camerali e dall’esistenza di
un’insegna, all’interno del negozio, che riportava sul retro la dicitura
“Sigma di Spitaleri Gaetano, Premiata Salumeria”; il Pedalino era cognato
di Andrea e Giuseppe Bruno; il Bar Marinella era stato oggetto di un
attentato incendiario, avvenuto il 10.5.2005.
Sarebbe apparso evidente, dunque, che l’azione di forza del Bruno in danno
del Garofalo, genero del Liga, si era conclusa con l’estromissione dello
stesso Garofalo e con l’intestazione dell’esercizio commerciale al Pedalino,
cognato del Bruno.
Ha aggiunto il Tribunale che, essendo stato acquisito, con il consenso delle
parti, il verbale dell’interrogatorio reso dal Franzese in data 24.1.2008, in
questa circostanza quest’ultimo aveva dichiarato al P.M. di conoscere
Biondo Francesco, che riconosceva in fotografia.
Il Biondo, a suo parere, sembrava un poco esaurito, e, per quanto era a sua
conoscenza, non sarebbe stato un “uomo d’onore”, anche se era “vicino”
all’organizzazione mafiosa.
A tale riguardo, Lo Piccolo Sandro gli avrebbe detto che conosceva Franco
Biondo, e, d’altra parte, i Lo Piccolo avevano ottimi rapporti con i Biondo,
in particolare con Carmelo e con Salvatore, detto “il lungo”.
Ha rilevato che Biondo Francesco aveva prodotto alcuni fogli manoscritti,
nei quali, pur ammettendo di essere l’interlocutore del Gottuso nella
conversazione intercettata all’interno della S.B.S., aveva affermato la
propria totale estraneità ai fatti che gli venivano contestati.
Le risultanze dei servizi di intercettazione ambientale avrebbero dimostrato
invece, con ogni evidenza, che il Biondo era intervenuto attivamente nella
55 contesa tra il Bruno e gli appartenenti alla “famiglia” Liga, portando la
questione a conoscenza del Gottuso e chiedendogli espressamente di farsi
consegnare dallo stesso Bruno le chiavi dei lucchetti, sostituiti con un atto
di forza, allo scopo di estromettere dal locale il Garofalo, genero del noto
ergastolano “Tatunieddu”.
La caratura mafiosa dei soggetti coinvolti – da un lato il Bruno, affiliato alla
“famiglia” di Partanna Mondello, dall’altro il nucleo familiare del più
anziano Liga, parente di Lo Piccolo Salvatore – avrebbe escluso in radice
che la vicenda potesse essere derubricata in una semplice controversia
personale, mediata da un disinteressato intervento del Biondo quale mero
nuncius delle rimostranze del Liga.
Al contrario, la questione avrebbe coinvolto ab imis le dinamiche interne di
“cosa nostra” e i suoi delicati equilibri, tant’è che venivano interessati oltre a personaggi di spicco delle famiglie di Tommaso Natale e Partanna
Mondello, quali Cusimano Giovanni e Di Blasi Francesco - anche Davì
Salvatore, reggente della “famiglia” di Partanna Mondello, nel cui territorio
si erano verificati i fatti de quibus, e, soprattutto, il vertice del mandamento,
Lo Piccolo Salvatore, all’epoca latitante.
Sotto questo profilo, particolarmente indicativo della estrema delicatezza
della questione sarebbe stato l’atteggiamento del Gottuso, allarmato dalle
potenziali conseguenze del gesto del Bruno e vivamente preoccupato per le
sue sorti.
Alla rilevanza della questione trattata si sarebbe aggiunto, poi, l’univoco
contegno manifestato dal Biondo, il quale - ad ulteriore riprova della sua
ininterrotta intraneità alla consorteria criminale – avrebbe comunicato al
Gottuso proprio la notizia del coinvolgimento diretto del Lo Piccolo e, per
altro verso, avrebbe mostrato un personale interesse alla vicenda nel
momento in cui aveva chiesto insistentemente al suo interlocutore di
fissargli un appuntamento con lo stesso Bruno, per discutere collegialmente
le possibili soluzioni della contesa.
56 E ad avviso del Tribunale, tali elementi di prova, oggettivamente desumibili
dalle conversazioni intercettate, avrebbero confermato la piena operatività
del Biondo in seno alla “famiglia” mafiosa di San Lorenzo e, in
conclusione, la sua persistente appartenenza all’associazione criminale,
sicché a carico di quest’ultimo doveva formularsi un giudizio di
responsabilità penale in ordine al reato di partecipazione all’associazione
mafiosa, aggravato dalla disponibilità di armi e dal riciclaggio dei proventi
delittuosi.
§ 2. IL PROCEDIMENTO IN GRADO DI APPELLO – QUESTIONI
PRELIMINARI - Avverso l’anzidetta sentenza tutti i suddetti imputati
hanno proposto appello, deducendo i motivi di cui si dirà infra, con
specifico riferimento alla posizione di ciascuno di essi.
All’esito dell’odierno grado del giudizio, udita la relazione della causa,
nonché la requisitoria del Procuratore Generale, le conclusioni dei difensori
delle parti civili costituite e le arringhe dei difensori degli imputati,
all’odierna udienza la causa è stata decisa come da dispositivo di cui è stata
data immediata lettura.
Tanto premesso, osserva la Corte che vanno esaminate anzitutto, per il loro
carattere di preliminarietà, le questioni sollevate in limine dai difensori.
Tali questioni sono costituite prevalentemente da contestazioni riguardanti
le disposte intercettazioni ambientali.
Al riguardo, va precisato che nel presente processo svoltosi nelle forme del
rito abbreviato grande rilevanza hanno, al pari delle dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia, numerose conversazioni ambientali e telefoniche
oggetto di attività di intercettazioni eseguite nell’ambito di diversi
procedimenti di cui il primo giudice ha disposto la trascrizione previo
espletamento di perizia.
Nessun rilievo in ordine alla utilizzabilità di tali intercettazioni è stato
mosso dagli imputati nel corso del giudizio abbreviato e, per quanto a
57 conoscenza di questa Corte, le stesse hanno superato, in sede di
procedimento incidentale concernente l’ordinanza custodiale, il vaglio del
Tribunale del Riesame e della Suprema Corte.
Trattandosi di intercettazioni eseguite nell’ambito di procedimenti diversi
da quello in esame risulta dagli atti che, ai fini della utilizzazione, il PM ha
ritualmente provveduto a depositare, ai sensi del 2° comma del.l’art. 270
c.p.p. i verbali e le registrazioni delle intercettazioni e non anche i relativi
decreti.
E’ pacifico, peraltro, che, ai fini dell’utilizzabilità degli esiti di
intercettazioni di conversazioni o comunicazioni nel procedimento diverso
da quello nel quale furono disposte, non occorre la produzione del decreto
relativo all’autorizzazione, essendo sufficiente il deposito presso l’A.G.
competente per il “diverso” procedimento dei verbali e delle registrazioni
(Cass. S.U. 17 novembre 2004- 23 novembre 2004, n. 45189, Esposito).
Né si verifica, per quanto dispone il 2° comma dell’art. 270 c.p.p. una
ingiusta compressione dei diritti della Difesa cui, in tal modo non sarebbe
consentito di verificare l’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni di
conversazioni o comunicazioni per violazione degli artt. 267 e 268 commi 1
e 3 c.p.p., perché questa può essere comunque rilevata dal giudice del
procedimento diverso da quello nel quale furono autorizzate, purchè risulti
dagli atti del procedimento, non essendo detto giudice tenuto a ricercarne
d’ufficio la prova. Grava, infatti, sulla parte interessata a farla valere l’onere
di allegare e provare il fatto dal quale dipende l’eccepita in utilizzabilità,
sulla base di copia degli atti rilevanti del procedimento originario che la
parte stessa ha diritto di ottenere, a tal fine, in applicazione dell’art. 116
c.p.p. D’altra parte – è stato fatto notare dalla Suprema Corte – anche nel
giudizio a quo, poiché l’inutilizzabilità discende dalla violazione delle
norme richiamate dall’art. 271 comma 1 c.p.p. e non dalla mera
indispoinibilità degli atti concernenti l’intercettazione e la sua legittimità,
incombe alla parte l’onere di dedurne la sussistenza (Cass. S.U. 17
novembre 2004- 23 novembre 2004, n. 45189, Esposito).
58 Nel presente processo, all’udienza del 27 settembre 2010 la Corte, su
richiesta del difensore dell’imputato Altadonna, avv. Mormino, che aveva
fatto rilevare che i decreti di intercettazione erano stati dati per acquisiti nel
processo di prumo grado, constatato che degli stessi non vi era traccia nel
processo, riteneva, tenuto conto di tale particolare circostanza, di doversi
fare carico della acquisizione presso la Procura della Repubblica di
Palermo.
Al’udienza del 15 ottobre 2010, essendo stati materialmente acquisiti i
decreti relativi alle intercettazioni trascritte, a seguito di eccezione
formulata dall’avvocato Mormino concernente l’asserita inutilizzabilità del
decreto urgente di intercettazione ambientale nr. 2401/03, la Corte emetteva
ordinanza, rilevando l’infondatezza della medesima, per i motivi in tale
provvedimento specificamente menzionati.
Nel prosieguo del giudizio, nel corso della discussione, l’avvocato Fabio
Federico, nel frattempo subentrato ad altro difensore in precedenza
revocato, intervenendo all’udienza del 13 dicembre 2010 nell’interesse
dell’imputato De Luca, formulava una articolata serie di eccezioni di
inutilizzabilità di taluni decreti di intercettazione, all’uopo depositando
memoria difensiva.
Del contenuto di tale memoria ritiene, pertanto, questa Corte di far specifica
menzione in questa sede, se non altro per la valenza generale che ha la
questione, essendo stata eccepita la inutilizzabilità di alcuni decreti
riguardanti conversazioni intercettate più volte prese in esame nel presente
processo con riguardo alle posizioni di più imputati.
Orbene, in detta memoria il difensore del De Luca ha osservato, in primo
luogo, che, da un accurato esame di tutte le conversazioni intercettate di cui
era stata disposta la trascrizione aveva rilevato l’assenza agli atti del
processo dei decreti contrassegnati con i numeri 1154/03, 1241/03 e 483/04.
Precisava che, avendo preso cognizione di ciò, si era attivato, in data 1
dicembre 2010, a richiederli alla Procura della Repubblica di Palermo a
mezzo fax e raccomandata, rappresentando che si doveva fare carico della
59 produzione dei decreti mancanti essendo altrimenti impossibilitato, oltre
che nel presente giudizio, anche nell’eventuale giudizio di legittimità, di
assolvere all’onere di indicare specificamente l’atto che deduce viziato.
Soggiungeva l’avv. Federico di avere ricevuto in data 6 dicembre 2010
risposta a mezzo fax dalla Procura di Palermo del seguente tenore “Visto si
autorizza la visione dei decreti in oggetto menzionati”, e rilevava come in
tal modo il PM avesse omesso di dare compiuta risposta alle richieste
difensive riguardanti, in particolare, i decreti nn. 1154/03, 1241/03 e
483/04.
Nel sollecitare, pertanto, questa Corte all’acquisizione di tali decreti
mancanti e della documentazione necessaria per verificare il corretto inoltro
dei summenzionati decreti emessi in via di urgenza per il seguito di
competenza della Sezione GIP, l’avvocato Federico perveniva eccepiva la
inutilizzabilità delle conversazioni ambientali relative, asseritamente, a tali
decreti di intercettazioni, dovendosi a questo punto nutrire il dubbio, se non
la certezza, che a base della decisione di primo grado siano state poste
alcune intercettazioni non corredate dai dovuti ecreti autorizzativi ex art.
267 e seg. c.p.p.
Fatta salva questa eccezione, l’avv. Federico osservava inoltre che per
quelli presenti agli atti emergevano, comunque, a suo giudizio, evidenti vizi
soprattutto per la carenza di motivazione degli stessi circa l’effettiva
sussistenza delle ragioni di urgenza ex art. 267 comma 2 c.p.p. e l’uso di
impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica ex art.
268 comma 3 c.p.p.. In particolare, l’attenzione dell’avv. Federico si
appuntava sul decreto n. 2401/03, di cui eccepiva l’inutlizzabilità rilevando
come, al di là di una motivazione di stile, in esso non fosse stata data
assolutamente contezza circa il “fondato motivo” che aveva fatto ritenere al
PM che il “ritardo” nell’esecuzione delle intercettazioni avrebbe
comportato gravi pregiudizi alle indagini. In altri termini, il PM si sarebbe
limitato a riprodurre la disposizione normativa senza dare nessuna contezza
delle ragioni per le quali ha ritenuto che l’eventuale posticipazione delle
60 intercettazioni avrebbe pregiudicato le indagini in corso. Nel caso in esame,
il PM aveva così omesso di motivare in ordine ai motivi che lo avevano
portato a derogare alla procedura ordinaria prevista dal comma 1 dell’art.
267 c.p.p. Ed invero, nella motivazione del decreto di urgenza non basta
dimostrare il pericolo di modificazione della realtà concreta da cui
deriverebbe il rischio di dispersione della prova, ma è necessario dimostrare
l’incompatibilità della procedura ordinaria con la salvaguardia della
situazione che si intende tutelare.
A dire dell’avv. Federico, il decreto n. 2401/03 sarebbe, però,
non
adeguatamente motivato circa i requisiti di cui all’art. 268 comma 3 c.p.p.,
essendosi il PM, circa il presupposto dell’insufficienza degli impianti in
dotazione alla Procura della Repubblica, limitato a “rilevare, colme attestato
da certicicazione allegata al presente decreto, che tutte le postazioni in
dotazione alla Procura della Repubblica sono già impegnate nell’ascolto e
registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini tutt’ora in
pieno svolgimento” e più oltre, nel medesimo decreto, avedo delegato però
“per l’esecuzione del presente provvedimento Ufficiali ed Agenti di P,G.
appartenenti alla Questura di Palermo…con l’asilio delle apparecchiature
della ditta GEA servizi tecnologici Srl che si autorizza a nominare ausiliare
di p.g. stante l’iidoneità ed indisponibilità degli apparati”, evidenziando
così un problema di inidoneità per il quale non sussiste motivazione alcuna.
Identico difetto era rilevabile, secondo l’avv. Federico, anche nel decreto n.
1012/03.
In merito al vizio eccepito, osservava il difensore del De Luca, l’evoluzione
giurisprudenziale di legittimità aveva definito l’obbligo di motivazione
pendente a carico dell’Autorità procedente, quando si rende necessario
l’utilizzo di apparecchiature non appartenenti alla Procura o fuori della sede
della stessa.
Nel caso in esame, il PM, avendo disposto il compimento delle operazioni
di intercettazione mediante impianti in dotazione e/o a noleggio alla polizia
giudiziaria, avre bbe dovuto adeguatamente motivare sulla insufficienza
61 e/o inidoneità degli impianti installati presso la Procura della Repubblica;
sulla esistenza di eccezionali ragioni di urgenza.
Ebbene, il decreto di intercettazione di conversazione in questione sarebbe
totalmente privo di riscontri motivazionali circa l’esigenza di utilizzare
apparecchature esterne al fine di effettuare le operazioni summenzionate. Se
è vero infatti che il concetto di insufficienza può, quasi sempre, ricondursi
ad un mero rapporto tra la disponibilità numerica degli impianti e le
richieste di attività captative, quello relativo all’idoneità (tecnica) degli
impianti presuppone un quid pluris motvazionale, richiedendosi anche una
più completa motivazione, estesa anche alle valutazioni afferenti alla
tipologia delle indagini.
Nel caso di specie, si sarebbe in presenza di assenza assoluta di
motoivazione in ordine alla idoneità degli impianti della Procura.
In proposito l’avv Federico notava altresì come, nel caso si proceda al
noleggio di impianti, solo in un caso non sarebbe ravvisabile la violazione
dell’art. 268 comma 3 c.p.p. e cioè quando gli impianti noleggiati vengano
installati presso il locali della Procura. A sostegno di tale tesi citava la pro
nunzia della Suprema Corte sezione 1^, sentenza n. 45103 del 7 ottobre
2005 secondo cui 2non sussiste violazione dell’art. 268 comma 3 c.p.p. nel
cado in cui le operazioni di intercettazione vengono eseguite su impianti
presi a noleggio ma installati nei locali della Procura”. Nel caso in esame,
viste le gravi carenze motivazionali dei decreti atorizzativi, non sarebbe
dato sapere dove effettivamente questi impianti noleggiati dalla ditta GEA
siano stai allocati, se presso le sale di ascolto della Procura o presso la
Questura di Palermo., circostanza questa da non sottovalutare in quanto una
eventuale allocazione dei suddetti impianti in luogo diverso dai locali della
Procura comporterebbe violazione dell’art. 268 comma 3 con conseguente
declaratoria di inutilizzabilità delle capazioni intercettate.
Ed invero, una siffatta operazione di captazione non sarebbe nemmeno
riconsìducibile alla tecnica della cd. remotizzazione delle intercettazioni che
è lecita quando l’attività di registrazione avvenga all’interno dei locali della
62 Procura della Repubblica, essendo irrilevante che ivi avvengano anche le
ulteriori attività di vebalizzazione e di riproduzione dei dati oggetto della
registrazione “ (Cass. SS.UU. Sentenza n. 36359 del 26.6.2008).
Sulla base di tali argomentazioni, l’avv. Federico chiedeva pertanto
dichiararsi la inutilizzabilità di tutte le intercettazioni eseguite nel presente
procedimento ricollegabili al decreto 2401/03 per violazione del combinato
disposto degli art. 268 commi 1 e 3 271 c.p.p., ed in particolare delle
seguenti intercettazioni indicate in sentenza: conversazione ore 12,30 del 12
feb braio 2004, all’interno del deposito Gottuso, fra quest’ultimo e
Collesano; conversazione del 27 aprile 2004 fra Gottuso e Collegano;
conversazione del 5 gennaio 2005 ore 16,06 fra Gottuso e soggetto non
identificato.
Ciò posto, rilevato come la Corte, per fugare qualsivoglia dubbio in ordine
alla effettiva esistenza dei decreti nn. 1154/03, 1241/03 e 483/04,
adombrata dall’avv. Federico, in realtà non trasmessi per mera
dimenticanza dal’Ufficio del PM , ha proceduto alla loro materiale
acquisizione agli atti, dandone comunicazione all’udienza del 23 dicembre
2010 al suddetto legale, che, presone atto, si è limitato a riportarsi alla
memoria difensiva a suo tempo depositata, vale la pena a questo punto,
quanto alla eccepita inutilizzabilità del decreto n. 2401/03, osservare quanto
segue.
Con decreto del 26 novembre 2003 emesso in via urgenza il Procuratore
Distrettuale di Palermo, vista la allegata nota cat. T .2/2003 della Squadra
Mobile di Palermo del 24 novembre 2003 al cui contenuto si rinviava (nella
quale si dava atto che, alla stregua di conversazioni intercettate presso
l’abitazione di Pipitone Vincenzo boss della famiglia mafiosa di Carini e di
osservazioni sul territorio, era emerso che i locali della ditta SBS srl in uso
a Gottuso Salvatore erano frequentati da personaggi di spicco della
associazione mafiosa, fra cui Piero Di Napoli, boss della famiglia Cruillas –
Malaspina, appena scarcerato, e che da intercettazioni in corso presso altro
locale nella disponibilità del Gottuso, emergeva che vi erano in corso
63 trattative per “chiudere” una grossa attività estorsiva cui era interessato
anche Salvatore Lo Piccolo e che la richiesta intercettazione ambientale nei
locali della SBS srl si appalesava urgente per acquisire ulteriori e decisivi
elementi probatori in ordinre alla summenzionata attività delinquenziali),
ritenuto che
vi fosse fondato motivo di ritenere che in tali luohi si stesse svolgendo
attività criminosa e ricorressero gravi indizi in ordine ai reati di
associazione mafiosa ed estorsione aggravata e che, ritenuta la natura dei
reati per cui si procedeva si aveva ragione di ritenere che dal ritardo potesse
derivare
pregiudizio
alle
indagini,
disponeva
in
via
d’urgeìnza
l’intercettazione. Rilevato poi che, alla stregua di quanto certificato dal
funzionario di segreteria, tutte le postazioni in dotazione alla Procura erano
già impegnate nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive
nell’ambito di indagini in pieno svolgimento e che non poteva attendersi la
prossima disponibilità di postazioni, stante la sussistenza di obiettive
ragioni d’urgenza, di carattere eccezionale in considerazione della natura
dei reati e del fatto che l’attività criminosa fosse in corso di svolgimento,
ricorrendo i presupposti dell’art. 268 comma 3 c.p.p. che consente al P.M.
di disporre il compimento delle operazioni di ascolto mediante impianti in
dotazione alla polizia giudiziaria autorizzando la stessa ad avvalersi delle
apparecchiature della GEA servizi tecnologici srl, stante l’inidoneità ed
indisponibilità di detti apparati presso l’Ufficio di Procura.
Orbene, ritiene la Corte che la motivazione sopra citata adeguatamente
giustifica la decisione del P.M. di emettere decreto di intercettazione fra
presenti in via di urgenza ex art. 267 c.p.p. ravvisandosi ictu oculi sia
l’urgenza di procedere tempestivamente al compimento delle indagini,
potendo derivare dal ritardo grave pregiudizio per le stesse, sia le
eccezionali ragioni di urgenza che legittimano a norma dell’art. 268 comma
3 c.,p.p. l’esecuzione delle operazioni mediante impianti in dotazione della
p.g. qualora quelli installati nella Procura della Repubblica risultassero,
64 come dava correttamente atto il sostituto procuratore insufficienti e/o
inidonei quelli installati presso la Procura.
In particolare, è noto che la motivazione dei decreti con i quali il PM
autorizza ex art. 268 3° comma c.p.p. il compimento delle operazioni di
intercettazione “medianti impianti di pubblico servizio o in dotazione alla
p.g. (essendo in questo caso, stante l’urgenza, legittima l’utilizzazione di
apparecchiature appartenenti a privati, agenti come ausiliari della p.g.), ha
costituito oggetto di numerose pronunce dei giudi di legittimità.
In una relativamente recente pronunzia le SS.UU. della Cassazione
(sentenza
12.7.2007,
Aguneche)
richiamando
precdenti
arresti
giurisprudenziali, ha ribadito: 1) come a suo tempo precisato da SS.UU.
21.6.2000. Primavera, che è legittima la motivazione costruita, come nel
caso in esame, per relationem , allorchè risulti evidente che il decidente ha
preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento
di riferimento e l’atto di riferimento risulti allegato o trascritto in modo da
potere divenire almeno ostensibile; 2) come a suo tempo precisato da
SS.UU. 31.10.2001, Policastro, che l’obbligo di congrua motivazione in
ordine al requisito della insufficienza o inidoneità degli impianti di Procura
e delle eccezionali ragioni di urgeza si concretano allorchè vengano
rispettati i principi affermati nella sentenza Primavera; 3) come a suo tempo
affermato da SS.UU. 26.11.2003, Gatto, “in tema di intercettazioni di
comunicazioni o conversazioni ai fini della legittimità del decreto del P.M.
che dispone a norma dell’art. 268 clomma 3 c.p.p. il compimento delle
operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla P.G.,
la motivazione relativa alla insufficienza o alla inidoneità degli impianti
della Procura della Repubblica non può limitarsi a dare atto dell’essstenza
di tale situazione ma deve anche soecificare la ragione della insufficienza o
della inidoneità sia pure medianter una indicazione sintetica, purchè questa
non si traduca nella mera riproduzione del testo di legge, ma dia conto del
65 fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del P.M. che ha
dato causa ad essa”.
E non vi è dubbio che correttamente il P.M. ha usato, nel caso in esame, la
frase, “tutte le postazioni in dotazione alla Procura sono già impegnate
nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini
tutt’ora in pieno svolgimento” soggiungendo poi che, stante l’inidoneità ed
indisponibilità degli apparati della Procura, occorreva l’ausilio della ditta
GEA. Risulta, invero, adeguato un decreto che, non ripetendo
pedissequamente la formula legislativa, consentiva di identificare il fatto
che aveva determinato l’insufficienza degli impianti ed offriva quindi al
giudice ed alle parti uno strumento di controllo della correttezza
dell’operato del P.M.
E’ noto, peraltro, l’orientamento giurisprudenziale che consente una “ampia
lettura” del significato di insufficienza ed inidoneità degli impianti in uso
alla Procura, elaborando una nozione di “inidoneità di tipo funzionale” di
detti impianti comprendente “non solo una obiettiva situazione di fatto che
renda necessario il ricorso ad impianti esterni, come la indisponibilità di
linee o di apparecchiature presso l’ufficio o il non funzionamento materiale
delle stesse, ma anche la concreta inadeguatezza al raggiungimento dello
scopo in relazione al reato per cui si procede ed alla tipologia di indagine
necessaria all’accertamento dei fatti in relazione cioè alle caratteristiche
concrete delle operazioni captative ed alle finalità investigative perseguite.
E non vi è dubbio, nel caso in esame, che i presupposti della insufficienza
ed idoneità abbiano avuto anche sotto questo aspetto ampio risalto in
motivazione con il richiamo alla specifica tipologia di indagine da esperire
in relazione ad un fatto estorsivo di grosse dimensioni che vedeva coinvolti
più esponenti mafiosi di svariate famiglie mafiose.
Tanto premesso, reputa la Corte che non sussistono – contrariamente a
quanto dedotto dalla difesa del De Luca – motivi per giudicare inutilizzabili
ai sensi dell’art. 271 c.p.p. i risultati delle intercettazioni disposte decreto
autorizzativo n. 2401/03.
66 Appare appena il caso di segnalare, da ultimo, la non rilevanza ai fini che in
questa sede rilevano del riferimento alla cd. tecnica di remotizzazione che,
com’è noto, attiene non alle intercettazioni ambientali, come nel caso in
esame, ma esclusivamente a quelle telefoniche.
Quanto ai decreti decreti di intercettazione ambientale nn. 1154/03, 1241/03
e 483/04, della cui stessa esistenza l’avv. Federico ha inverosimilmente
dubitato, il contenuto degli stessi (che riguarda: il primo, l’esecuzione
urgente di intercettazione nelle immediate vicinanze di un ciclomotore in
uso a Conigliaro Angelo (luogo spesso scelto dal predetto Conigliaro e da
Pipitone Vincenzo per parlare delle questioni riguardanti la famiglia di
Carini e le sue illecite attività: cfr. nota di p.g. allegata); il secondo,
l’esecuzione urgente di intercettazione all’interno di auto in uso a
Conigliaro Angelo utilizzata da questi per parlare con Pipitone Vincenzo
dei fatti summenzionati: cfr. nota di p.g. allegata); il terzo, l’esecuzione
urgente di intercettazione all’interno di auto in uso a Collesano Rosario
utilizzata da questi per parlare con sodali della cosca di Partanna Mondello
di fatti riguardanti l’attività estorsiva in quel territorio: cfr. nota di p.g.
allegata) conferma la correttezza anche nel caso in esame dell’iter
autorizzativo seguito.
2-1 – L’APPELLO NELL’INTERESSE DI CONIGLIARO ANGELO L’imputato, come si detto, è stato ritenuto, in primo luogo, responsabile del
delitto di cui all’art. 416 bis c.p., per avere, fatto parte dell’associazione
mafiosa denominata “cosa nostra”, in particolare dell’articolazione di tale
sodalizio operante in territorio di Carini, paese ubicato in prossimità di
Palermo.
L’appellante si duole dell’affermazione di responsabilità a suo carico
ritenuta dai primi Giudici, assumendo essere insussistenti, nei fatti a lui
ascritti, gli elementi costitutivi del reato associativo.
67 Premette la Difesa del Conigliaro che la S.C. ha delineato la figura
dell’uomo d'onore” stabilendo che questa non è significativa di una
semplice adesione morale, ma consegue alla formale affiliazione alla cosca,
attraverso il particolare rito previsto dalle regole dell’organizzazione,
comportando la contestuale assoluta accettazione delle regole dell’agire
mafioso e conseguentemente la messa a disposizione del sodalizio di ogni
energia e risorsa personale per qualsiasi impiego criminale che venga
richiesto.
Sul punto, infatti, ha affermato che, secondo l’insegnamento della
giurisprudenza di legittimità, “nella assunzione della qualifica di “uomo
d'onore” va ravvisata non soltanto l’accertata “appartenenza” alla mafia, nel
senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo,
specificamente contraddistinto, cui l'associato viene ad appartenere sotto il
profilo della totale soggezione alle sue regole ed ai suoi comandi, ma altresì
la prova del contributo causale che, seppur mancante nel caso della
semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece nell’obbligo
solenne di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca
accrescendo così la potenzialità operativa e la capacità di inserimento
subdolo e violento nel tessuto sociale anche mercè l'aumento numerico dei
suoi membri” (Cass. Pen. Sez. IV, n. 2040/1996, Brusca).
E dall’esposto principio di diritto risulterebbe palese, pertanto, la estraneità
del Conigliaro al ruolo contestatogli.
Il complesso delle intercettazioni costituente parte significativa del
compendio probatorio a carico di detto imputato, infatti, non varrebbe ad
evidenziare in modo certo e determinante in capo al Conigliaro la qualità di
“elemento di spicco” del sodalizio di Carini, posto che i suoi pur accertati
rapporti con soggetti intranei alla organizzazione potrebbero al più
qualificare, essendo stati meramente occasionali e limitati ad alcuni episodi,
la figura del concorrente esterno.
68 L’imputato, inoltre, prima dei fatti da ultimo accertati, non avrebbe mai
dato luogo a comportamenti denotanti una sua partecipazione alla
associazione criminale, nè avrebbe riportato condanne per reati scopo, non
potendosi pertanto seriamente sostenere che egli, nel breve arco di pochi
anni, possa essere asceso ai ranghi di vertice dell'associazione criminale
“cosa nostra”.
In ogni caso, la figura del Conigliaro desumibile dagli atti sarebbe priva di
poteri di iniziativa, di autonomia e di qualsiasi potere decisionale, tanto più
che nessun ruolo specifico in fatti delittuosi gli sarebbe stato addebitato dai
“collaboratori di giustizia” e dai testimoni escussi in sede dibattimentale.
I primi Giudici avrebbero ritenuto, invece, che la centralità del Conigliaro
in seno alla “famiglia” mafiosa di Carini ed il suo strettissimo rapporto con
il reggente Pipitone Vincenzo, nonché il ruolo di “consigliere” di
quest’ultimo, sarebbero emersi principalmente da una prima conversazione
intercettata alle ore 21:11 del 9 giugno 2003, in prossimità dello scooter
dello stesso imputato, che in quel momento si trovava all'interno della villa
del Pipitone, nonché da una serie di conversazioni nel corso delle quali i
due avevano discusso degli assetti interni alla cosca e, in particolare, dei
problemi scaturiti dal comportamento di Pipitone Angelo Antonino, fratello
di Vincenzo, “uomo d'onore” della “famiglia” di Torretta.
Tale ricostruzione viene però contrastata dalla Difesa secondo la quale da
tutti gli atti raccolti nel corso delle lunghe e accurate indagini preliminari, in
gran parte versati nel giudizio di primo grado, non sarebbero emersi, in
realtà, elementi né probanti né significativi.
La sentenza impugnata, nel trattare la posizione del Conigliaro in ordine al
reato associativo, si sarebbe limitata, infatti, a riportare una serie di
intercettazioni nelle quali l’imputato risultava interlocutore diretto del
Pipitone e di altri soggetti, senza però che da tali conversazioni emergesse
alcun riferimento a specifici fatti delittuosi imputabili al prevenuto.
69 Tali
intercettazioni
non
avrebbero
indicato,
comunque,
alcun
comportamento dimostrativo di quella “affectio societatis” che costituisce,
insieme al contributo apprezzabile e concreto fornito per l'esistenza ed il
rafforzamento della “societas sceleris”, l’essenza della condotta di
partecipazione ad associazione di tipo mafioso.
E se è vero che la commissione di delitti non è essenziale ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 416/bis c.p., non potrebbe trascurarsi
di considerare come il compimento di attività illecite si presenti come
normale, sia nella fisiologia del vincolo associativo, ai fini del sostentamento della stessa associazione, sia nel momento patologico in cui possono
verificarsi, addirittura con più frequenza, ritorsioni, omicidi, faide interne,
danneggiamenti.
E nella specie ai giudici di prime cure sarebbe dovuto risultare chiaro come,
a fronte di una complessa indagine, non fossero stati acquisiti agli atti né
elementi probatori, né elementi di riscontro esterno in ordine sia alle
vicende oggetto delle conversazioni intercettate, sia alle propalazioni
accusatorie del Pulizzi Gaspare.
Il tenore delle conversazioni intercettate non proverebbe di per sé
l’intraneità del Conigliaro alla associazione mafiosa né la pur accertata
frequentazione di appartenenti alla organizzazione potrebbe dirsi dotata di
una qualche valenza ai fini della dimostrazione di quella “affectio
societatis” che dovrebbe legare l’imputato alla consorteria.
L’appellante si sofferma, quindi, sui principi espressi dalla S.C. nella nota
sentenza delle Sezioni Unite Penali 12 luglio 2005, n. 33748, secondo cui
“In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di "partecipe"
colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura
organizzativa dell'associazione, non solo "è" ma "fa parte" o, meglio
ancora, "prende parte" alla stessa. A tal fine, sul piano probatorio, rilevano
tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di
esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo
mafioso, possa logicamente inferirsi la stabile compenetrazione del soggetto
70 nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve trattarsi di indizi gravi e
precisi, tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato,
esemplificando,
i
comportamenti
tenuti
nelle
pregresse
fasi
di
"osservazione" e "prova", l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di
"uomo d'onore", la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici,
variegati e però significativi "facta concludentia", dai quali sia lecito
dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della
costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre
utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del
sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico
periodo temporale considerato dall'imputazione”.
E con riferimento a tale arresto giurisprudenziale, dovrebbe ritenersi, è stato
detto,
non
provata
la
partecipazione
alla
consorteria
mafiosa
dell'imputato,essendosi la sentenza impugnata limitata a riportare interi
brani delle trascrizioni delle intercettazioni ambientali, senza fornire alcun
serio argomento idoneo a dimostrare la penale responsabilità del
Conigliaro.
Non sarebbe stata dimostrata, infatti, l'attività da parte del prevenuto in
favore del gruppo e della consapevolezza della sua esistenza, e, in
definitiva, difetterebbe la prova dell'intervenuta adesione al sodalizio
criminoso, prova da valutare, alla stregua della costante giurisprudenza, non
secondo le regole della mafia ma sulla base della obiettiva condotta del
soggetto, da esaminare alla stregua della logica e della comune esperienza.
La condotta posta in essere dal Conigliaro, sulla base dei fatti emersi nel
corso del processo, non potrebbe considerarsi dimostrativa di adesione alla
mafia, nè l’imputato potrebbe essere qualificato "intraneo" dell'associazione
stante la carenza, di "facta concludentia" in grado di provare tale
circostanza.
Invero, seppure la condotta di partecipazione all'associazione per delinquere
di cui all'art. 416 bis c.p., sia “a forma libera”, è pur necessario che la stessa
71 si traduca in un contributo non marginale, ma apprezzabile, alla
realizzazione degli scopi dell'organismo criminoso.
E la sentenza impugnata non sarebbe riuscita in alcun modo ad indicare
quale contributo apprezzabile e concreto il Conigliaro abbia dato
all'esistenza ed al rafforzamento della mafia.
Egli avrebbe intrattenuto, infatti, contatti con associati considerati “uti
singuli”, e tali contatti non si sarebbero certo tradotti in una condotta di
partecipazione, la quale dovrebbe indispensabilmente avvantaggiare la
"societas sceleris" nel suo insieme e non già singoli suoi appartenenti.
L’esame delle conversazioni ambientali intercettate, nella parte in cui terze
persone indicano dati riferibili al Conigliaro, nessun elemento dimostrativo
avrebbe apportato circa la "qualità" o il "ruolo" di quest’ultimo in seno
all'associazione mafiosa.
Ed invero, le dichiarazioni di tutti i “collaboratori di giustizia” escussi
nessun elemento di conoscenza avrebbero apportato circa il rituale
inserimento del Conigliaro nella consorteria mafiosa; ed anzi dette
propalazioni, ove si volesse attribuire loro una qualunque credibilità,
semmai avvalorerebbero la tesi che non basta, per essere ritenuto intraneo
all'associazione, la frequentazione di un determinato appartenente a detto
sodalizio.
Dovrebbe perciò concludersi che, dati questi elementi, non sarebbe
possibile rinvenire in atti la prova piena della colpevolezza del delitto di
partecipazione all'associazione mafiosa ed attribuire al Conigliaro lo status
di “uomo d'onore”, sicché lo stesso avrebbe dovuto essere assolto dal reato
di cui all'art. 416/bis c.p. contestatogli.
Osserva la Corte che le censure sono prive di fondamento.
Va rilevato, innanzitutto, che non può condividersi la tesi per così dire
“atomistica” sostenuta dall’appellante, secondo cui per la configurabilità di
un rapporto associativo del tipo di quelli cui fa riferimento l’art. 416 bis
72 c.p., il rapporto stesso debba essere intrattenuto con l’associazione
criminosa nel suo complesso, e non già con singoli adepti di essa.
Invero, secondo le pronunzie della S.C. cui l’appellante fa riferimento, un
dato assolutamente pacifico ed indiscutibile è che risponde di
partecipazione ad associazione mafiosa colui che risulta in rapporto di
stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio,
tale da implicare l'assunzione di un ruolo dinamico e funzionale, in
esplicazione del quale l'interessato “prende parte” al fenomeno associativo
rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini
criminosi.
La Corte ha precisato, a tal proposito, che sul piano probatorio rilevano tutti
gli “indicatori fattuali” dai quali, sulla base di attendibili regole di
esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo
mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta
partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto
organizzativo del sodalizio, purché si tratti di indizi gravi e precisi, come,
ad esempio, l'affiliazione rituale, la commissione di delitti-scopo, i
comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, oltre a
molteplici, variegati e però significativi facta concludentia. (cfr. Cass. Pen.
Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748).
Ciò posto, del tutto irrilevante sarebbe, ovviamente, il fatto che un soggetto
intrattenga rapporti con uno o più appartenenti alla consorteria criminosa, ove
tali rapporti siano solo di mera amicizia, frequentazione e/o di collaborazione
in attività lecite.
Nella specie si osserva, in primo luogo, che i rapporti di cui si discute
vengono assiduamente intrattenuti dall’imputato, non già con uno qualsiasi
dei membri della consorteria criminosa, bensì con il reggente della cosca
mafiosa di Carini, e, come chiaramente può desumersi dal contenuto delle
intercettazioni ambientali, attengono concretamente alle dinamiche interne
della “famiglia” di Carini.
73 Ed assai significativo appare inoltre il fatto, bene posto in evidenza dai primi
Giudici, che il Conigliaro non è un “uomo d’onore” qualsiasi, ma riveste
l’importantissimo ruolo di “consigliere” della cosca, oltre che di confidente
del Pipitone, di cui è l’abituale interlocutore, come chiaramente emerge dal
contenuto delle citate intercettazioni.
Riuscirebbe altrimenti difficile spiegare, peraltro, come il Pipitone,
conclamato capo della cosca mafiosa di Carini, abbia potuto mettere
l’odierno imputato a conoscenza dei più riposti segreti dell’associazione,
leggendo ad alta voce, in sua presenza, un “pizzino” appena pervenutogli
dal noto boss Lo Piccolo Salvatore, all’epoca ancora latitante, e come lo
stesso imputato abbia potuto suggerire allo stesso Pipitone di distruggerlo al
fine di cancellare ogni traccia dei suoi contatti diretti con la suddetta
persona posta al vertice del mandamento nel quale ricade anche la
“famiglia” mafiosa di Carini, trattandosi con ogni evidenza di fatti che
implicano la sussistenza di un rapporto più che fiduciario.
In virtù di tale rapporto di particolare contiguità, che emerge palesemente
dall’insieme delle conversazioni captate, il Pipitone, come hanno rilevato i
primi Giudici, porta a conoscenza del Conigliaro, in tempo reale e senza
alcun filtro, le direttive provenienti da uno dei massimi esponenti di “cosa
nostra”, i cui messaggi non possono non riguardare le più rilevanti
dinamiche interne alla vita dell’organizzazione criminale.
Parimenti significativo appare un successivo passaggio della medesima
conversazione, nel quale il Pipitone impartisce al Conigliaro le direttive
necessarie a garantire la continuità nella gestione delle attività criminali
della “famiglia” per il caso dell’eventuale emissione di un provvedimento
restrittivo nei suoi riguardi, mostrando in tal modo di avere piena fiducia
nelle capacità del Conigliaro di operare una proficua gestione degli affari
illeciti del sodalizio criminoso, ed al contempo indica nel nipote Pipitone
Antonino e in Pulizzi Gaspare i soggetti del cui apporto l’odierno imputato
avrebbe potuto avvalersi.
74 Non vi è chi non veda, peraltro, come il contenuto di questa intercettazione,
oltre a costituire prova autonoma di colpevolezza a carico del prevenuto,
offra un prezioso riscontro alle propalazioni del Pulizzi che, avendo deciso
di collaborare con la giustizia, sosterrà di avere partecipato alle trattative
per la “messa a posto” di Priano Alfonso, imprenditore che avrebbe dovuto
avviare un’attività edilizia nei pressi dello svincolo autostradale di Carini,
ossia di una estorsione, precisando che di tale fatto illecito si era occupato,
in primo luogo, proprio il Conigliaro.
Vanno, d’altra parte, pienamente condivise, in quanto rispondenti a criteri
di logica e di ragionevolezza, le osservazioni del Tribunale, laddove
afferma che il complessivo tenore del dialogo consente di affermare come il
reggente della “famiglia” di Carini riconosca implicitamente al Conigliaro
una approfondita conoscenza delle logiche che presiedono alle relazioni
interpersonali nell’ambito di “cosa nostra”, nonché la correlata capacità di
analisi e valutazione delle questioni problematiche che il cugino Vallelunga
Vincenzo, a giudizio dello stesso Pipitone, avrebbe invece reiteratamente
dimostrato di non possedere.
Parimenti deve essere ritenersi assai significativa del ruolo ricoperto
dall’imputato in seno alla consorteria la determinazione con la quale si
dichiara intenzionato ad incontrare il latitante Lo Piccolo Salvatore.
Ancora, condivisibile è il giudizio espresso dai primi Giudici in ordine alla
continua presenza del Conigliaro al fianco del Pipitone nelle varie vicende
che ineriscono alla vita ed al funzionamento dell’associazione criminosa,
raccogliendo le confidenze di quest’ultimo e
fornendogli consigli con
l’autorevolezza che gli deriva dalla lunga militanza nella anzidetta
associazione e dalla consuetudine di rapporti con i più importanti esponenti
della “famiglia”.
Ma, nel caso in esame, la prova della partecipazione del prevenuto alla
associazione mafiosa può desumersi anche dalla partecipazione dello stesso
a vere e proprie riunioni di mafia, in occasioni delle quali intrattiene
rapporti con esponenti di svariate famiglie mafiose del palermitano.
75 Vanno rammentate, in proposito, la partecipazione dell’imputato al
“summit” mafioso tenutosi in data 11.8.2003 presso il ristorante “Vecchio
Mulino” di Torretta, nel quale, come esaurientemente esposto nella
sentenza impugnata alla stregua delle risultanze di servizi di osservazioni e
delle dichiarazioni di Gaspare Pulizzi, venne sancita la definitiva
pacificazione tra le “famiglie” di Carini e Torretta, sotto l’“alto patronato”
di Lo Piccolo Salvatore, in relazione ad una vicenda relativa a furti di
bestiame perpetrati ai danni di Saverio Palazzolo, cognato del capo di “cosa
nostra” Bernardo Provenzano; e le ulteriori vicende, pure dettagliatamente
descritte nella sentenza impugnata, che qui si richiamano, confermative
dell’esistenza di un costante rapporto di presenza e collaborazione del
Conigliaro nell’impartire le direttive agli adepti dell’associazione criminosa,
nonché nell’ideazione e nell’esecuzione di svariate imprese delittuose, che
denotano l’ininterrotta partecipazione dell’imputato a pressoché tutte le
vicende che connotano la vita e l’attività della societas sceleris.
In conclusione, vanno pienamente condivise le argomentazioni dei primi
Giudici, laddove sostengono che la continua presenza dell’ imputato
accanto agli altri appartenenti all’articolazione carinese di “cosa nostra”, i
rapporti intrattenuti anche con esponenti di altre famiglie mafiose,
l’assunzione di decisioni di estrema rilevanza per l’assetto della “famiglia”
mafiosa, la partecipazione a numerosi incontri nel corso dei quali vengono
trattate le questioni inerenti alle situazioni conflittuali interne al sodalizio,
ricercate e deliberate le strategie da adottare, pianificate le azioni delittuose
finalizzate al perseguimento degli obiettivi del gruppo criminale,
testimoniano, in termini di assoluta certezza, il livello di inserimento
dell’imputato nella struttura della organizzazione criminale e l’impegno
costante nel quale ha trovato concreta espressione l’affectio societatis.
E si tratta, in verità, per confutare una specifica osservazione sul punto
dell’appellante, di fatti che - al di là dall’esistenza o meno, nel caso di
specie, della prova di una cerimonia rituale di affiliazione a seguito della
quale il Conigliaro sia stato ritualmente affiliato, peraltro logicamente
76 desumibile dal ruolo di “consigliere” dal prevenuto svolto - non possono
non rendere evidente la esistenza, per facta concludentia, della cd. affectio
societatis sceleris.
Né va sottaciuta, infine, oltre a quelli già menzionati, l’esistenza di facta
concludentia di particolare spessore quali la dimostrata partecipazione
dell’imputato a fatti di estorsione aggravata tentata e consumata
sicuramente rientranti nelle dinamiche della “famiglia” di Carini dei quali il
Conigliaro, unitamente al reato associativo, è stato chiamato a rispondere.
Al riguardo, è vero che l’affermazione di responsabilità per il reato di
associazione a delinquere non presuppone la commissione dei reati - fine ,
essendo sufficienti l'esistenza della struttura organizzativa ed il carattere
criminoso
del
programma,
sicché
la
prova
della
partecipazione
all’associazione, stante l'autonomia del reato associativo rispetto ai reati
fine, può essere data con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla
commissione dei predetti, di talché non rileva, a tal fine, il fatto che
l'imputato di reato associativo non sia stato condannato per i reati fine dell'
associazione (v. da ultimo Cass. Pen. Sez. II, 16 marzo 2010, n. 24194).
Di contro, è altrettanto vero, però, che la ripetuta commissione, in concorso
con i partecipi al sodalizio criminoso, di reati - fine integra, per ciò stesso,
gravi, precisi e concordanti elementi di colpevolezza in ordine alla
partecipazione al reato associativo, superabili solo con la prova contraria
che il contributo fornito non è dovuto ad alcun vincolo preesistente con i
correi e fermo restando che detta prova, stante la natura permanente del
reato de quo, non può consistere nell'allegazione della limitata durata dei
rapporti intercorsi (Cass. Pen. Sez. II, 22 gennaio 2010, n. 5424).
Ne consegue che i già menzionati elementi di colpevolezza acquisiti a
carico dell’imputato in ordine al delitto di associazione per delinquere di
stampo mafioso ricevono ulteriore conferma, se ancora ve ne fosse bisogno,
negli altrettanto chiari elementi di colpevolezza in ordine ad alcuni fatti
estorsivi posti in essere con chiaro metodo mafioso, sicuramente
riconducibili al sodalizio mafioso di Carini.
77 Ed invero, gli elementi probatori acquisiti agli atti consentono pienamente
di confermare anche in relazione a tali fatti di reato la statuizione di
condanna del primo giudice, con l’eccezione del delitto di estorsione
consumata in danno dell’imprenditore Cutietta Carlo di cui al capo n. 13
della rubrica, per cui, come si dirà, gli indizi di reità si appalesano
insufficienti.
Procedendo, in primo luogo, all’esame dell’estorsione in danni di Priano
Alfonso, l’appellante contesta la compiuta ricostruzione operata dai primi
giudici secondo cui l’anzidetto imprenditore avrebbe subito richieste
estorsive anche ad opera dei vertici della “famiglia” di Carini, tra i quali
Pipitone Vincenzo, il quale avrebbe utilizzato all’uopo l'apporto personale
del Conigliaro Angelo.
Osserva la difesa del prevenuto che, a tal fine, il primo giudice aveva preso
in esame una conversazione, intercettata il 5. 7.2002 nei locali della
“Edilpomice” dei fratelli Cusimano, tra la vittima e tali Di Blasi e
Cusimano nel corso della quale Priano avrebbe comunicato a costoro il
prossimo avvio di lavori di ristrutturazioni nella zona di Cardillo,
avvertendo che per il momento egli si sarebbe limitato ad effettuare una
semplice pulizia della zona interessata, e chiedendo pertanto ai suoi interlocutori di avvertire i “cristiani competenti”, cioè i mafiosi competenti per
territorio, perché attendessero l'effettivo avvio dei lavori prima di avanzare
richieste estorsive.
Successivamente uguale intermediazione sarebbe stata posta in essere da
Cusimano e Di Blasi fra i vertici della “famiglia” di Carini ed il citato
Priano, che aveva, infatti, anche un cantiere in attività in contrada
“Giummari” in territorio di Carini, dove aveva sede la cooperativa edilizia
“La Vela”.
Nel corso della medesima conversazione, il Di Blasi ed il Cusimano si
erano informati, infatti, con l’imprenditore dello stato di tali lavori su
incarico degli “amici”, chiedendogli se avesse ricevuto una richiesta di
78 denaro dai vertici della locale “famiglia” ed in particolare da Conigliaro
Angelo e Pipitone Vincenzo.
Orbene, non vi è dubbio che questione di cui parlano i citati personaggi sia
la stessa di cui, a distanza di circa un anno, parlano Conigliaro e Pipitone
nel corso di una conversazione del 6 ottobre 2003.
Nel corso della conversazione i due parlano esplicitamente delle somme di
denaro da recuperare da alcuni imprenditori, citando tra gli altri il Priano, e
dicendo altrettanto espressamente che questi ancora non aveva corrisposto
la somma dovuta, pari a dieci milioni delle vecchie lire, nonostante il tempo
trascorso pari a circa due anni, adducendo a mò di giustificazione di essere
ancora in attesa di alcune autorizzazioni.
Assume la difesa che il giudice del separato procedimento penale a carico
del Pipitone, evidenziando la circostanza del ritardo nel pagamento sarebbe
pervenuto alla conclusione che, nel caso di specie, l’ipotesi contestata non
avrebbe superato la soglia del tentativo punibile ed avrebbe perciò
commisurato la pena alla ipotesi del delitto tentato.
Nel caso del Conigliaro, però, non sarebbe neppure possibile, secondo la
difesa, ravvisare l'ipotesi del tentativo punibile, mancando del tutto la
prova certa della idoneità degli atti posti in essere dal predetto imputato.
Ed invero, nel corso dell'intera conversazione del 9 maggio 2002 fra i
fratelli Cusimano nessuno degli interlocutori avrebbe fatto alcun
riferimento alla persona del Conigliaro, né ad un suo ruolo diretto od
indiretto nella vicenda.
Ed ancora, per dimostrare tale assunto hanno
richiamato il contenuto di altra conversazione intercettata alle ore 10,50 del
5 luglio 2002 avente ad oggetto i rapporti instaurati fra il Cusimano e gli
esponenti della famiglia mafiosa di Carini in relazione ai lavori edili che in
tale luogo doveva eseguire il Priano, per inferirne che anche in questo caso
non solo non era presente il Conigliaro ma nessuno degli interlocutori
avrebbe fatto riferimento a lui quale esponente di vertice della “famiglia” di
Carini, ovvero quale membro da contattare per interloquire con i capi.
79 In ogni caso neanche dalla intercettazione del 6.10.2003, tra Conigliaro Angelo e Pipitone Vincenzo, la sola tra quelle riportate in motivazione in cui
compare l’odierno imputato, sarebbe possibile desumere quale sarebbe stato
il contributo causale fornito da quest’ultimo alla determinazione dell'evento
- sia pure sotto il profilo del tentativo - sicché lo stesso dovrebbe essere
assolto dal reato in pregiudizio del Priano, contestatogli al capo 11 della
rubrica, per non avere commesso il fatto.
Le censure sono prive di fondamento.
L’azione estorsiva per cui è processo, per vero, vede il coinvolgimento, a
vario titolo, di diverse persone, appartenenti alla “famiglia” mafiosa di
Carini (Pipitone Vincenzo, Conigliaro) ed a quella di Pallavicino (Cataldo
Giovanni, Cusimano Antonio, Di Blasi Francesco) alla quale si appoggia
ilPriano per ottenere l’aiuto di questi ultimi nella cd. “messa a posto” presso
famiglia mafiosa di Carini, diversa da quella di suo abituale riferimento,
ove dovrà svolgere determinati lavori edili.
E se risponde effettivamente a verità quanto è stato affermato dalla Difesa
dell’appellante in ordine alla mancata partecipazione del Conigliaro sia alla
conversazione intercettata il 5.7.2002 nei locali della “Edilpomice” dei
fratelli Cusimano, tra la vittima, da una parte, ed il Di Blasi ed il Cusimano
dall’altra, non può in alcun modo condividersi quanto è stato sostenuto in
ordine all’intercettazione del 6.10.2003, secondo cui non sarebbe stato
possibile rilevare il contributo causale fornito della condotta di esso
appellante alla determinazione dell'evento, sia pure sotto il profilo del
tentativo.
Orbene, trascura la difesa di ben esaminare il contenuto di tale ultima
conversazione nel corso della quale era il Conigliaro a introdurre il tema dei
dieci milioni di lire ancora dovuti da Priano ed a sollecitare il Pipitone ad
intervenire con tutta l’autorevolezza del caso (“dobbiamo spicciare questa
cosa”, indiucendo quest’ultimo ad esclamare di rimando che i soldi
dovevano essere al più presto corrisposti.
80 E dallo scambio di battute tra il capomafia di Carini e il suo “consigliere” si
evince chiaramente che la persona tenuta a pagare i dieci milioni di lire era
proprio il Priano, sebbene il rapporto con la “famiglia” mafiosa venisse
mediato da un terzo soggetto, il cui nome restava incomprensibile.
Il Conigliaro, infatti, precisa nel corso della conversazione che la somma di
denaro in questione doveva essere versata dal Priano, lamentando il fatto
che il sostanziale “inadempimento” dell’imprenditore perdurava ormai da
due anni.
Quanto al tipo di lavori svolti dal Priano in territorio di Carini, sulla base
delle indicazioni contenute nelle conversazioni intercettate all’interno della
Edilpomice, il cantiere del Priano era stato localizzato nella Contrada
Giummari di Carini, ove erano in corso lavori edilizi per la cooperativa “La
Vela”, ed in data 7 maggio 2002, Di Blasi Francesco e Cusimano Antonio si
erano recati presso il predetto cantiere, come era stato documentato da un
servizio di osservazione eseguito da personale della Squadra Mobile.
Da accertamenti eseguiti presso gli archivi informatici della Camera di
Commercio, era risultat, inoltre, che l’amministratore unico della “Giubileo
Costruzioni S.r.l.”, indicata come ditta che eseguiva i lavori, era proprio
Priano Alfonso.
Un ulteriore riscontro in ordine al fatto che l’estorsione di cui parlavano il
Conigliaro ed il Pipitone in data 6 ottobre 2003 era tutt’altro che in itinere e
che la conversazione verteva piuttosto su un’ultima tranche ancora non
versata può desumersi d’altra parte dalle dichiarazioni del “collaborante”
Gaspare Pulizzi, il quale ha affermato di avere partecipato alle trattative per
la “messa a posto” di Priano Alfonso, un imprenditore che avrebbe dovuto
avviare un’attività edilizia nei pressi dello svincolo autostradale di Carini.
Da un lato, quindi, risulta provato che un’attività estorsiva venne posta in
essere nei confronti del Priano in epoca di gran lunga antecedente la
conversazione del 6 ottobre 2003, dall’altro, che detta attività venne posta
in essere, tra gli altri, da Pipitone Vincenzo, nella sua qualità di capomafia
81 di Carini, e che il Conigliaro, a sua volta, nella sua qualità di “consigliere”
del Pipitone, ne fu, se non il determinatore, l’istigatore morale.
Corretta appare, dunque, la statuizione di condanna adottata dai primi
Giudici nei confronti del Conigliaro in ordine all’anzidetto reato.
Per quel che concerne l’estorsione in danno dell’imprenditore Cutietta
Carlo, contestata al Conigliaro al capo 13 della rubrica, l’appellante si duole
della condanna in ordine all’anzidetto delitto, rilevando che la sentenza
avrebbe individuato la di lui diretta partecipazione alla condotta estorsiva
posta in essere dalla “famiglia” mafiosa di Carini nei confronti
dell’anzidetto imprenditore esclusivamente alla stregua di una conversazione intercettata alle ore 17:37 del 27.12.2003 all'interno di una autovettura in uso allo stesso.
Nel corso di tale conversazione il Conigliaro aveva riportato al suo
interlocutore le richieste di denaro avanzate da alcuni soggetti in relazione
ai lavori che lo stesso stava eseguendo in quel periodo nella zona di Carini.
Il Cutietta aveva replicato, però, affermando di avere già corrisposto,
proprio a quei soggetti, cinque milioni di vecchie lire e che il cantiere al
quale si riferivano le nuove richieste era sempre il medesimo.
A questo punto il Conigliaro avrebbe affermato che nulla doveva essere
corrisposto a tali soggetti.
Ne consegue che, dall’analisi della conversazione in questione, non sarebbe
dato evincere che il Conigliaro abbia intimorito l'imprenditore per farsi
consegnare del denaro; ed anzi, al contrario, quando si era avveduto che per
quel lavoro era già stato corrisposto del denaro ad altri soggetti ed in altri
tempi, avrebbe concluso che nulla doveva essere corrisposto dal Cutietta.
In altri termini, l’imputato avrebbe desistito volontariamente dal portare
avanti la richiesta estorsiva, e, d’altra parte, non sarebbe sussistita prova
alcuna dell'avvenuto pagamento di somme di denaro in suo favore da parte
del Cutietta.
Ancora, non emergerebbe che il Cutietta si sia sentito in qualche modo
minacciato o intimorito; avrebbe, infatti, al contrario, in maniera del tutto
82 naturale, glissato la richiesta, dicendo di avere già pagato ad altre persone
non meglio specificate; rinviando una eventuale corresponsione di ulteriori
somme di denaro ad una futura ed ipotetica apertura di un prossimo cantiere
edile.
L’appellante rammenta, quindi, che la desistenza, secondo il consolidato
orientamento della S.C., si ha quando l'agente si arresta prima di avere
posto in essere l'intera condotta tipica, mentre l'ipotesi del recesso attivo
(detto anche, impropriamente, pentimento operoso) ricorre quando il
soggetto, avendo esaurito la condotta tipica, agisce per impedire l'evento e
riesce, effettivamente, a impedirlo. Ne deriva che la desistenza può aversi
solo nella fase del “tentativo incompiuto”, postulando che l'agente
abbandoni l'azione criminosa prima che questa sia portata a compimento.
Aggiunge la difesa che correttamente il Giudice del correo Pipitone
Vincenzo non ha escluso la possibilità, altrettanto sussistente, che il
mandato al compimento dell’estorsione potesse essere individuato in altri
soggetti, quali Di Maggio Antonino, esponente della “famiglia” di Carini,
nell'ambito della quale rivestiva una posizione che risulta comunque di
assoluto rilievo e che, pertanto, sarebbe del tutto incompatibile con l'ipotesi
del conferimento di un incarico al Conigliaro, perché proprio le intercettazioni ambientali avrebbero evidenziato l'assenza di qualunque rapporto tra i
due.
E dovrebbe essere parimenti esclusa l'ipotesi che il Conigliaro possa avere
assunto una posizione autonoma e prendere la decisione di posticipare la
riscossione dell’ulteriore somma chiesta all'imprenditore all'apertura del
nuovo cantiere.
Nessun elemento condurrebbe, quindi, a ritenere che l’imputato abbia agito
di propria iniziativa, sia pure nell'ambito di generiche direttive conferitagli
dal Pipitone Vincenzo (che è stato assolto da tale reato) in relazione alle
estorsioni da compiere nella zona.
Restando, pertanto, l'identità dei presunti esecutori e mandanti della
estorsione intentata ai danni di Cutietta Carlo, si dovrebbe pervenire, a dire
83 dell’appellante, così come si era verificato per il Pipitone Vincenzo, in
riforma della sentenza appellata, ad una statuizione assolutoria nei di lui
confronti, per non avere commesso il fatto.
Le censure sono, in questo caso, fondate.
Effettivamente, infatti, dal contenuto della conversazione del 27.12.2003 si
rileva che il Conigliaro, contrariamente a quanto è stato sostenuto dai primi
Giudici, ha desistito dal proprio proponimento criminoso, manifestato al
Cutietta nella parte iniziale della conversazione, quando aveva fatto
riferimento ad una pretesa visita di “cristiani” foriera di conseguenze
spiacevoli per l’imprenditore, ove questi non si fosse affrettato a “mettersi a
posto”, pagando quanto era ancora da lui dovuto, ossia la somma di lire
cinque milioni a fronte della realizzazione di due villette in via del Girasole.
L’imputato, infatti, dopo avere ascoltato le giustificazioni del Cutietta, il
quale affermava di avere saldato il suo “debito” nei confronti della
consorteria criminosa, lo aveva dispensato immediatamente dal suddetto
pagamento.
Vero è che siffatto comportamento, come è stato esattamente rilevato dal
Tribunale, avrebbe denotato, in capo allo stesso imputato, l’esistenza di un
potere decisionale che presupponeva una posizione di prim’ordine
nell’ambito della “famiglia” mafiosa di appartenenza (e tale elemento
appare senz’altro valutabile, sia ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 416 bis c.p. pure contestato al Conigliaro, sia ai fini della
determinazione della gravità di esso per gli effetti di cui all’art. 133 c.p.);
ma è altrettanto vero che con il medesimo comportamento l’imputato aveva
assunto una chiara posizione di rinunzia a far valere la sua pretesa estorsiva,
sicché, non ravvisandosi nell’attività da lui posta in essere alcun reato
perseguibile d’ufficio (per la
minaccia astrattamente ravvisabile nel
pregresso comportamento tenuto dal Conigliaro non risulta essere stata
sporta querela dal Cutietta), non può revocarsi in dubbio che nella specie il
84 delitto di estorsione contestato non può ritenersi sussistente ai sensi dell’art.
56 c.p., per avere lo stesso volontariamente desistito dall’azione.
D’altra parte, non è dato ricavare da alcun’altra acquisizione processuale
elementi che consentano di configurare una pregressa attività posta in
essere dall’imputato per costringere il Cutietta al pagamento della somma
in questione, ed è significativo il fatto che il Pipitone Vincenzo, come
rammenta l’appellante, ancorché non risulti che la relativa decisione sia
divenuta irrevocabile, sia stato assolto da tale reato.
Non può, infine, ravvisarsi il reato in questione nel comportamento
descritto nella sentenza impugnata, laddove il Conigliaro ed il Cutietta
avevano concordato il versamento della ulteriore somma di lire
cinquemilioni, da parte dello stesso Cutietta, all’associazione criminosa, a
fronte degli eventuali lavori che quest’ultimo avrebbe potuto intraprendere,
una volta ultimati i lavori relativi alle due villette di via del Girasole, e per
le quali, come si è visto, aveva già corrisposto il “pizzo”.
Invero, a prescindere da ogni altra considerazione, in materia di estorsione,
la minaccia di un male ingiusto diretta al conseguimento di un ingiusto
profitto intanto sussiste in quanto il destinatario di essa ne risulti coartato
nella libera determinazione della volontà, sia cioè soggetto all'alternativa di
sobbarcarsi il danno patrimoniale prospettato o di subire il male minacciato.
Allorquando, invece, un soggetto, al fine di conseguire una qualsiasi utilità
che gli può derivare dalla conclusione di un negozio giuridico, si induca ad
aderire alle condizioni, quale che sia la loro natura, richieste e imposte dalla
controparte per la conclusione del negozio, che ben avrebbe potuto rifiutare
senza alcun danno giuridicamente rilevante, nessun costringimento morale è
ravvisabile, proprio perché il sottostare a tali condizioni, anche se
vessatorie, è frutto di una libera determinazione di volontà, effettuata in
base ad una scelta autonoma, condizionata sì, ma non coartata (Cass. Pen.
Sez. II, 26 settembre 1996, n. 3576).
85 Dal reato in questione, dunque, il Conigliaro, in riforma della sentenza
impugnata sul punto, deve essere mandato assolto per non avere commesso
il fatto.
Quanto al delitto di estorsione in danno di Billeci Giovanni, contestato al
capo 14 al Conigliaro, l’appellante osserva che la sentenza impugnata si
dilunga per parecchie pagine nell’esame di una vicenda che si svolge tra
Priano, Gottuso, Cusimano, Di Napoli, Di Blasi, riportando pressocchè
nella loo interezza talune conversazioni intercettate, alle quali il Conigliaro
è del tutto assente e senza che alcuno degli interlocutori sopra indicati
faccia a lui riferimento.
Rileva, quindi, che sul suo conto viene segnalata soltanto una
conversazione intercettata il 9 giugno 2003, alle ore 21:11, all'interno
dell'abitazione di Pipitone Vincenzo, nelle immediate adiacenze del
ciclomotore “Honda Bali 50” in uso ad esso Conigliaro, in cui gli
interlocutori sono gli stessi Pipitone e Conigliaro.
Oggetto della conversazione era, tra l'altro, il racconto di un chiarimento
avvenuto tra Pipitone Vincenzo ed il cugino di questi, Vallelunga Vincenzo,
appellato con il diminutivo "Enzino".
Pipitone contestava al Vallelunga di non avere saputo gestire la questione
relativa a tale Billeci, pur essendosi impegnato in prima persona.
Rileva, quindi, l’appellante che, secondo l’ipotesi accusatoria, altro
imprenditore che risulterebbe aver subito una richiesta di natura estorsiva
ad opera degli esponenti di punta della “famiglia” di Carini è, per l’appunto,
Billeci Giovanni, il quale aveva chiesto il rilascio della concessione edilizia
per la realizzazione di un progetto relativo all'edificazione di 73 villette nel
territorio del comune di Carini in località “Piraineto”, dopo avere acquistato
il terreno sul quale il predetto complesso sarebbe dovuto sorgere.
Secondo la sentenza appellata, che pedissequamente ricalca la ricostruzione
accusatoria,
l'interesse
della
“famiglia”
di
Carini
nei
confronti
dell’imprenditore Billeci, emergerebbe da una conversazione intercettata il
09.06.03 tra Conigliaro e Pipitone Vincenzo, nel corso della quale il
86 predetto Pipitone aveva raccontato di una discussione avuta con il cugino
Vallelunga Vincenzo, a causa del comportamento scorretto da questi tenuto
nei confronti di Altadonna Lorenzo, nonché per essersi accordato con il
Billeci, senza che questi avesse poi mantenuto l’impegno assunto.
Successivamente, la vicenda sarebbe stata definitivamente chiarita dalla
conversazione intercettata il 27.09.03 presso l'abitazione di Pipitone
Vincenzo tra costui, Conigliaro, Di Maggio Antonino, Pulizzi e Di Napoli,
che vi si era recato proprio per definire i termini della questione.
In quella occasione, secondo la ricostruzione operata dall'accusa, in virtù
della mediazione di Di Napoli, esponente del sodalizio mafioso di Cruillas
– Noce, il Billeci avrebbe consegnato alla “famiglia” di Carini una somma
pari ad almeno cinquecento milioni, avrebbe assicurato altresì agli
esponenti di tale articolazione mafiosa l'affidamento di subappalti,
delegando loro pure la gestione dei rapporti con il Comune presso il quale
proprio Di Maggio, che peraltro partecipava attivamente alla discussione, si
sarebbe attivato per sbloccare la situazione, e tuttavia un ostacolo più
difficile da superare era costituito dalla Sopraintendenza ai Beni Culturali
ed Ambientali.
Assume l’appellante che, secondo la sentenza emessa nel separato
procedimento nei confronti di Pipitone, Di Maggio e Vallelunga, non
sarebbe stato provato che la somma sia stata effettivamente pagata,
emergendo
per
converso
che,
a
causa
dei
ritardi
verificatisi
nell'approvazione del progetto da parte della sopraintendenza ai BB.
CC.AA., Billeci aveva provato a vendere il terreno tramite Di Napoli e
Gottuso Salvatore. Anche in questo caso, pertanto, quel giudice aveva
ritenuto che dovessero ritenersi integrati solo gli estremi del solo tentativo.
Nel caso in esame, a dire dell’appellante, non vi sarebbe stato nessun
contributo alla realizzazione della condotta criminosa in questione da parte
del Conigliaro, non emergendo dagli atti alcun ruolo attivo ascrivibile a
questi, sia in ordine all'avanzamento che alla accettazione della richiesta.
87 Non sarebbe stato rinvenuto, infatti, negli atti processuali un solo elemento
che possa consentire di ricollegare la richiesta estorsiva posta in essere in
danno all'imprenditore Billeci, ad un fatto o ad un'azione o ad una
discussione, fatta o voluta dal Conigliaro o a lui riferibile, sicché lo stesso
dovrebbe esser assolto anche da tale reato per non aver commesso il fatto.
Le censure sono prive di fondamento.
Come è stato esattamente rilevato dai primi Giudici nel ricostruire la
complessa vicenda, il Pipitone, per come aveva raccontato al Conigliaro,
aveva vanamente cercato di inserire Cataldo Giovanni, Altadonna Lorenzo
e Privitera - tutti imprenditori operanti nel comprensorio di Carini e vicini
alla locale “famiglia” mafiosa - nella realizzazione del complesso di villette
progettato dal Billeci.
Quando, poi, il Billeci aveva chiesto di realizzare in prima persona il
complesso edilizio, senza interventi di altre imprese, lo stesso Vincenzo
Pipitone e il fratello Angelo Antonino (“Nino”) avevano contattato
l’imprenditore ed anche tale Davì Salvatore, “uomo d’onore” di Partanna
Mondello, ed in quella circostanza era stato pattuito il pagamento di
settecento milioni di lire a fronte della realizzazione di settanta villette.
Il Pipitone aggiungeva che il Billeci, tuttavia, non aveva mantenuto gli
impegni assunti.
Da questo primo stralcio della conversazione, quindi, appare chiaro che il
Billeci si trovava al centro di una complessa questione che aveva visto
l’intervento di Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo Antonino, Di Napoli
Pierino e Vallelunga Vincenzo; e tale era la situazione che lo stesso
Pipitone Vincenzo aveva riferito, come era solito fare, al fidato Conigliaro.
Dopo pochi minuti, al Pipitone e al Conigliaro si aggiungevano Di Maggio
Antonino e Pulizzi Gaspare, che si intrattenevano a discutere di altri
argomenti.
Il Di Napoli e il Pipitone si erano già incontrati poco tempo prima; in quella
occasione, non appena il Di Napoli si era allontanato, era sopraggiunto il
88 Vallelunga, al quale il Pipitone aveva riferito il motivo della visita del Di
Napoli, venuto “per il fatto delle vacche”; il Vallelunga gli aveva riferito
che, secondo l’accordo raggiunto, il Billeci avrebbe dovuto versare
“centocinquanta” per il “fatto delle vacche” e “duecento” per altre causali
non meglio specificate.
Il Di Napoli puntualizzava che, prima di esaminare la vicenda del terreno,
per quanto riguarda “il fatto delle vacche” aveva già “chiuso il discorso”
con il Billeci, richiamandolo alle sue responsabilità; e secondo le
assicurazioni dello stesso Di Napoli, l’imprenditore, dal canto suo, avrebbe
rispettato gli impegni assunti, senza frapporre ostacoli.
Quindi il Di Napoli era passato ad affrontare i problemi relativi alla
realizzazione del complesso residenziale di Marina Longa, ponendo
all’attenzione del Pipitone le seguenti questioni:
- occorreva in primo luogo ottenere, da parte del Comune di Carini,
un’approvazione che era necessaria al Billeci per la realizzazione dell’opera
(nella conversazione si fa cenno anche ad un eventuale “silenzio-assenso”);
- sarebbe stato necessario ridurre la somma di dieci milioni di lire richiesta
dalla “famiglia” mafiosa di Carini per ciascuna villetta realizzata,
abbattendo l’importo complessivamente dovuto da settecento a cinquecento
milioni di lire;
- infine, sarebbe stato opportuno raggiungere un accordo per espletare i
lavori con la garanzia della “tranquillità” e per stabilire i mezzi da utilizzare
nella realizzazione dell’opera.
Il Pipitone aveva accettato con riserva la proposta di definire la vicenda con
il pagamento di cinquecento milioni di lire, dicendo al Di Napoli che
sarebbe stato necessario risentirsi dopo avere opportunamente consultato
“Totuccio”. Ed in considerazione della caratura del Pipitone - divenuto il
reggente della cosca di Carini dopo l’arresto del fratello Giovan Battista - e
tenuto conto dell’analogo spessore criminale del Di Napoli, già reggente
della “famiglia” mafiosa della Noce-Cruillas, appariva evidente che il
“Totuccio” cui entrambi gli esponenti di spicco di “cosa nostra”
89 riconoscevano il potere di pronunciare una decisione definitiva, doveva
identificarsi in Lo Piccolo Salvatore, all’epoca ancora latitante, con il quale
(come dimostra la ridetta intercettazione del 9.6.2003) lo stesso Pipitone
continuava a mantenere rapporti assai saldi.
La terza ed ultima questione trattata nel corso dell’incontro tra il Di Napoli
e il gruppo facente capo al Pipitone riguardava la realizzazione dei lavori
edili per il complesso residenziale di Marina Longa.
Il contenuto della conversazione appare chiaro, dal momento che, nel caso
in cui il Billeci avesse eseguito i lavori direttamente, non gli sarebbero stati
richiesti altri esborsi di denaro; se invece avesse fatto realizzare i lavori da
un’altra impresa, sarebbe stato tenuto ad ulteriori versamenti. Su questo
punto, infatti, il Pipitone concordava pienamente con il Di Napoli.
Contestualmente, il Pipitone garantiva al suo interlocutore che il Billeci
poteva “campare tranquillamente”, invitandolo comunque a rivolgersi a lui
nel caso in cui l’imprenditore avesse deciso di fare eseguire i lavori a una
ditta del posto, in quanto egli aveva la disponibilità di tutti i mezzi necessari
alla realizzazione dell’opera.
Come è stato correttamente osservato dai primi Giudici, il compendio
istruttorio è stato ulteriormente arricchito dalle dichiarazioni del
“collaborante” Pulizzi, che hanno in pratica convalidato le risultanze delle
intercettazioni.
Quest’ultimo, infatti, si è soffermato sulla vicenda relativa al costruttore
Billeci, assumendo che lo stesso doveva realizzare cinquanta villette
bifamiliari in un terreno sito nei pressi dello svincolo autostradale
dell’aeroporto di Punta Raisi. Ha altresì affermato di avere partecipato ad
una riunione volta a stabilire i termini della “messa a posto” del Billeci, alla
quale erano presenti
Pipitone Vincenzo, l’odierno imputato Conigliaro
Angelo, Di Maggio Nino e Pierino Di Napoli, “uomo d’onore” della
“famiglia” della Noce, vicino al Di Maggio, intervenuto su richiesta dello
stesso Billeci, per trattare la riduzione della somma richiesta a titolo
90 estorsivo; e che alla fine l’accordo venne raggiunto sull’importo di 250.000
euro, che il Billeci avrebbe dovuto versare alla “famiglia” di Carini.
Ha aggiunto, infine, che il Billeci pagò una prima tranche di tale somma,
pari a 100.000 euro, e che i lavori furono poi eseguiti da un’impresa
carinese, di cui era titolare tale Cutietta.
Alla stregua di tali risultanze, dalle quali emerge come il Conigliaro abbia
partecipato, con la sinistra autorevolezza che gli derivava dalla sua qualità
di “consigliere”, a pressoché tutte le discussioni inerenti la “messa a posto”
del Billeci, vale a dire al grave fatto estorsivo posta in essere dalla
“famiglia” di Carini nei confronti di questo imprenditore, pretendendo da
lui il pagamento sine titulo di una ingente somma di denaro – tale rimasta
anche dopo il ridimensionamento di essa ottenuto mercè la mediazione del
Di Napoli – non può che condividersi il giudizio espresso dai primi Giudici
sul coinvolgimento dell’imputato anche nell’anzidetta impresa criminosa,
che, peraltro, è stata contestata – e quindi ritenuta in sentenza – sotto il
profilo del delitto tentato, ancorché, come è dato desumere dalle
dichiarazioni del Pulizzi, si sia trattato in pratica di una estorsione
consumata, avendo il Billeci, come si è detto, versato alla consorteria
criminale una prima tranche di centomila euro.
E sarà d’uopo rammentare che, come si è già avuto modo di dire, la
presenza, nella perpetrazione di un’impresa criminosa da parte di una
consorteria di stampo mafioso, di un membro che rivesta nell’ambito di
essa una posizione di particolare prestigio, quale è, appunto, quella del
“consigliere”, risulta particolarmente incisiva in forza dell'apparato
strutturale, della regolamentazione interna e delle caratteristiche essenziali
della stessa organizzazione mafiosa.
La sentenza impugnata va, quindi, confermata anche nella parte in cui è
stata riconosciuta la responsabilità dell’appellante in ordine alla tentata
estorsione in pregiudizio del Billeci.
L’appellante si duole, ancora, della condanna per la tentata estorsione in
danno dei Badalamenti, di cui al capo 15 dell’epigrafe.
91 Rileva che nella ricostruzione della vicenda operata dai primi Giudici,
l’imputazione riguarderebbe l’ennesima richiesta estorsiva, avanzata dalla
“famiglia” mafìosa di Carini, sin dalla fase delle trattative tra i proprietari
del fondo - tali Badalamenti, in una prima fase non meglio identificati - e il
costruttore Lo Buglio Antonino.
L'operazione prevedeva l'acquisizione del terreno mediante permuta e la
successiva edificazione di un complesso di cinquanta appartamenti; mentre
la richiesta estorsiva aveva ad oggetto il pagamento della somma di
cinquanta milioni di lire da parte dei Badalamenti.
Dalle conversazioni captate era emerso che, a seguito di un contrasto
insorto tra il Lo Buglio ed i Badalamenti in ordine alla ripartizione degli
appartamenti
da
realizzare,
Pipitone
Vincenzo
era
intervenuto
personalmente per dirimere la questione.
Veniva quindi rammentata la conversazione del 2.10.2003, nel corso della
quale il Pipitone chiariva con il Conigliaro che i suddetti Badalamenti
avrebbero dovuto versare alla “famiglia” mafiosa una somma pari a
cinquanta milioni di lire in relazione alla programmata costruzione di varie
unità immobiliari, specificando peraltro che di tale provento illecito non
avrebbe dovuto beneficiare in alcun modo il cugino Vallelunga Vincenzo,
colpevole di non avere saputo gestire la questione in modo adeguato; la
conversazione del 6.10.2003, che vedeva il Pipitone approfondire con il
Conigliaro le ragioni della controversia insorta tra i Badalamenti e il
costruttore Lo Buglio circa le condizioni della permuta; e quella del
9.10.2003 - avente particolare valenza dimostrativa - durante la quale il
Conigliaro, all'arrivo del Lo Buglio nel luogo fissato per l'appuntamento,
aveva espresso al Pipitone l'auspicio di riuscire finalmente ad ottenere “quei
dieci milioni”.
La sentenza impugnata, tuttavia, secondo l’appellante, non avrebbe chiarito
alcunché in ordine ai termini di tale presunta estorsione ai danni dei suddetti
Badalamenti, soggetti peraltro mai compiutamente identificati e quindi mai
interrogati in merito allo svolgimento della vicenda.
92 Ne conseguirebbe che, in assenza di un concreto riscontro esterno,
l'episodio potrebbe essere catalogato al più come tentativo, così come
correttamente era stato fatto nel parallelo processo a carico del coimputato
Pipitone.
Aggiunge l’appellante che dalle conversazioni intercettate emergerebbe
soltanto, in termini assolutamente impliciti, che l'imprenditore edile Lo
Burgio era interessato a permutare un terreno di proprietà di tali
Badalamenti per l'edificazione di appartamenti; e che questi ultimi
avrebbero dovuto versare in contropartita alla consorteria mafiosa una
somma di denaro.
Nella conversazione del 2.10.2003, tuttavia, il debito in questione non
sarebbe risultato collegato ad alcuna causale illecita, poiché, come lo stesso
Pipitone aveva affermato nella conversazione del 9.10.03 a proposito dei
Badalamenti, essa costituiva frutto di una operazione economicamente
redditizia per il Lo Burgio, al quale veniva richiesto di riconoscere soltanto
una mediazione; in secondo luogo il Conigliaro Angelo, non avrebbe svolto
alcun ruolo attivo o di comprimario, come sarebbe stato dato evincere dal
tenore della conversazione, alla quale egli non avrebbe partecipato.
Nel procedimento definito a carico di Pipitone Vincenzo, Di Maggio
Antonino e Vallelunga Vincenzo, il giudice aveva dato atto che non vi era
la prova della dazione, non essendo stata accertata neppure l'avvenuta
edificazione delle villette, e che il delitto era stato, pertanto, correttamente
contestato nella forma tentata.
La sentenza impugnata avrebbe fatto risalire, invece, desunto la
responsabilità del Conigliaro, per la tentata estorsione in danno dei
Badalamenti, dal sillogismo secondo il quale egli doveva essere
necessariamente coinvolto, quale concorrente nel reato, perché inserito
nella “famiglia” mafiosa e quindi legato da un rapporto preferenziale o di
“consigliere” con il capomafia Pipitone Vincenzo.
Tale deduzione non sarebbe, però, condivisibile laddove si consideri che in
relazione a tale contestazione non vi sarebbe alcun elemento significativo di
93 coinvolgimento, diretto o indiretto del Conigliaro, in fatti che non
presenterebbero alcun rilievo penale.
Significativa sarebbe, infine, anche l'intercettazione del 06.10.03, nella
quale si parlerebbe di una divisione della cifra percepita a titolo di
mediazione tra alcuni soggetti, ma tale somma non sarebbe stata conferita
all'associazione mafiosa.
In forza delle cennate considerazioni è stata chiesta pertanto l’assoluzione
del Conigliaro dall’anzidetto reato perché il fatto non sussiste, ovvero per
non averlo commesso.
Le censure sono prive di fondamento.
L’appellante, infatti, trascura di rilevare che nella prima delle conversazioni
intercettate, all’interno dell’autovettura in uso al Conigliaro (2.10.2003), il
Pipitone, dopo avere esposto al Conigliaro le diverse rivendicazioni dei
contendenti, ha indicato con chiarezza in cinquanta milioni di lire la somma
che i Badalamenti avrebbero dovuto versare a fronte della permuta stipulata
con il costruttore Lo Buglio; che nella successiva
conversazione
intercettata il 6 ottobre 2003, alle ore 10.00, sempre all’interno
dell’autovettura in uso al Conigliaro, quest’ultimo ed il Pipitone
approfondiscono le ragioni della controversia sorta tra il Lo Buglio e i
Badalamenti, riguardante la ripartizione degli appartamenti da costruire
facendo menzione di un precedente accordo che prevedeva, quale
contropartita per la cessione del terreno edificabile di cui erano proprietari i
Badalamenti, la cessione a questi ultimi di undici appartamenti e mezzo di
quelli che il Lo Buglio doveva costruire, mentre ora i Badalamenti ne
pretendevano dodici. E poiché a fronte di questa nuova richiesta, il Lo
Buglio pretendeva l’ulteriore versamento di cento milioni di lire, il Pipitone
stava cercando di mediare tra le due posizioni, proponendo di dividere la
somma richiesta in parti uguali.
Quindi il Pipitone incaricava il nipote del Conigliaro (che faceva da autista
al nonno già colpito dall’ictus) di dire a tale Cacocciola di venirlo a trovare,
per parlare “del fatto di Lo Buglio”:
94 Il Cacocciola, che aveva avuto numerosi contatti telefonici con le utenze in
uso a Pipitone Vincenzo e a Pulizzi Gaspare, veniva identificato in
Cacocciola Carmelo, titolare di un deposito di materiale edile, sito a Carini.
Gli accertamenti svolti dagli organi di p.g. consentivano, inoltre, di
verificare che l’imprenditore Lo Buglio Antonino aveva realizzato un
complesso edilizio in località S. Anna, nel Comune di Carini, che in un
terreno adiacente era stato apposto un cartello che menzionava una
concessione per lavori di urbanizzazione primaria relativi alla costruzione
di quarantotto appartamenti, e che tra i committenti vi erano Badalamenti
Vito e il figlio Giuseppe.
Tale compendio probatorio a carico del Conigliaro, dal quale già traspare
con ogni evidenza l’interesse di questi, nella sua qualità di “consigliere”, ad
approfondire e a preordinare i dettagli dell’operazione che avrebbe dovuto
procurare
alla
“famiglia”
di
Carini
un
buon
compenso
per
l’intermediazione parassitaria di tipo mafioso che il Pipitone, il Conigliaro
ed altri si apprestata a compiere, e quindi la compartecipazione dell’odeirno
appellante quanto meno nella fase dell’ideazione dell’impresa criminosa,
risulta arricchito da
un passaggio della conversazione intercettata il 9
ottobre 2003, alle ore 15.03.
Rilevano, a tal proposito, i primi Giudici che la discussione si svolgeva tra
lo stesso Conigliaro, il nipote omonimo di costui ed il Pipitone, e mentre
quest’ultimo forniva al Conigliaro una sorta di resoconto dei guadagni
realizzati, sopraggiungevano Cacocciola Carmelo e Lo Buglio Antonino, i
quali iniziavano a parlare della vicenda relativa ai Badalamenti.
Nel corso della conversazione, a conferma del fatto che i proventi
dell’estorsione sarebbero stati divisi tra gli esponenti mafiosi di Carini
interessati alla vicenda, tra i quali l’odierno appellante, lo stesso Conigliaro
si rivolgeva al nipote dicendogli che dall’affare sarebbero stati ricavati
complessivamente cinquanta milioni, e che a lui ne sarebbero spettati dieci.
95 Nel prosieguo, il Pipitone ribadiva al Lo Buglio che i Badalamenti avevano
assunto con lui un preciso impegno e che, “per amore o per timore”, vi
avrebbero mantenuto fede.
Non risulta, per vero, che i Badalamenti abbiano sborsato la somma
richiesta dall’appellante e dai suoi sodali, sicché correttamente il reato,
come riconosce lo stesso appellante, è stato contestato correttamente nella
forma del delitto tentato.
Appare comunque accertato, alla stregua di quanto si è detto, e delle
condivisibili argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, che la
responsabilità dell’appellante, contrariamente a quanto è stato dallo stesso
affermato, non appare desunta automaticamente dall’appartenenza dello
stesso alla “famiglia” mafiosa di Carini, bensì dal compendio probatorio
anzidetto, dal quale emerge, senza tèma di equivoci, la sua attiva
compartecipazione nelle fasi dell’ideazione e dell’esecuzione dell’impresa
criminosa, sicché correttamente è stata affermata la di lui penale
responsabilità anche in ordine a tale ultimo reato.
L’appellante si duole pure, in linea subordinata, della ritenuta applicabilità a
suo carico dell'aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203/91.
Assume, infatti, che nella sentenza impugnata non si rinverrebbe alcuna
motivazione circa la possibilità o meno di ritenere giuridicamente
compatibile l'aggravante di cui all'art. 7 Legge n. 203/91, il reato
associativo ed anche l'aggravante di cui all'art. 628 comma 3° n. 3 c.p.
Aggiunge che, come è stato evidenziato dalla giurisprudenza e dalla
dottrina più accreditata, il legislatore ha inteso delineare un sistema di lotta
alla criminalità organizzata nel quale le varie previsioni, che si atteggiano
quali aggravanti o nuove figure criminose, sono state introdotte al fine di
non lasciare impunite o debolmente punite attività di sostegno alla
organizzazione mafiosa che, non potendo configurare la partecipazione
all'associazione, ma denotando comunque aree di contiguità a tale
96 associazione, sarebbero sfuggite alla applicazione di una adeguata sanzione
penale.
Tale sistema, la cui ratio legis può essere individuata anche nella disciplina
delle misure cautelari che, ai fini della presunzione ex art. 275 co.3° c.p.,
equipara il delitto di cui all'art. 416/bis c.p., a quelli commessi avvalendosi
delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero allo scopo di
agevolare quelle associazioni di stampo mafioso, risulterebbe incoerente,
secondo la Difesa, ove si ritenesse applicabile anche agli associati mafiosi
l'aggravante ex art. 7 comma 1° della legge n. 203/91.
Sul piano strettamente ermeneutico, pur non volendo superare l'illogicità in
relazione allo scopo che la norma si pone, sarebbe incoerente ritenere,
infatti, quale aggravante la medesima condotta già considerata di per sé
nella partecipazione ex art. 416/bis c.p.
Una interpretazione corretta e costituzionalmente orientata della disciplina
citata, non potrebbe prescindere dai canoni ermeneutici posti anche all’art.
84 c.p. che, escludendo ogni indebita duplicazione di sanzione per un unico
addebito, imporrebbero di ritenere giuridicamente incompatibili il reato
associativo e le citate aggravanti.
In conclusione, l'area operativa dell'aggravante in questione non potrebbe
che riguardare gli estranei, o al più i sodali che consumino un delitto non
rientrante nel programma associativo avvalendosi delle condizioni previste
dall’art. 416/bis comma 3 c.p..
Tale ipotesi, tuttavia, non potrebbe riguardare il caso in esame, dove il fatto
obiettivo della partecipazione all’associazione ex art. 416/bis cod. pen., è
assunto dall'art. 629 stesso codice, come aggravante più specifica rispetto a
quella ex art. 7 Legge n. 203 del 1991.
Le censure sono palesemente infondate.
Ed invero, secondo il consolidato orientamento della S.C., la circostanza
aggravante, prevista dall'art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella
l. 12 luglio 1991, n. 203, nelle due differenti forme dell'impiego del metodo
97 mafioso nella commissione dei singoli reati e della finalità di agevolare, con
il delitto posto in essere, l'attività dell'associazione per delinquere di stampo
mafioso, è configurabile anche con riferimento ai reati-fine commessi dagli
appartenenti al sodalizio criminoso (Cass. Pen. Sez. Un., 28 marzo 2001, n.
10).
Più specificamente, con riguardo all’ipotesi in esame, è stato affermato che
“L’aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (prevista per i delitti
commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p., relativo
all'associazione per delinquere di tipo mafioso) è compatibile con
l’aggravante di cui all'art. 629, comma 2, c.p. (consistente, in virtù del
rinvio all'art. 628 c.p., nella violenza o minaccia posta in essere da soggetto
appartenente ad associazione mafiosa), giacché, per l'applicazione di
quest'ultima aggravante , è sufficiente l'uso della violenza o minaccia e la
provenienza di questa da soggetto appartenente ad associazione mafiosa,
senza necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio della
suddetta violenza o minaccia, né, in particolare, che esse siano attuate
utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza dell'agente al
sodalizio mafioso, mentre, nel caso della prima aggravante, pur non essendo
necessario che l'agente appartenga al predetto sodalizio, occorre tuttavia
accertare in concreto che l'attività criminosa sia stata posta in essere con
modalità di tipo mafioso” (Cass. Pen. Sez. I, 18 ottobre 2007, n. 43663).
Ed ancora: “Ricorre la circostanza di cui all'art. 7 D.L. n. 152 del 1991,
conv. in L. n. 203 del 1991 nel delitto di estorsione se si riscontra che la
condotta minacciosa, oltre ad essere obiettivamente idonea a coartare la
volontà del soggetto passivo, sia espressione di capacità persuasiva in
ragione del vincolo dell'associazione mafiosa e sia, pertanto, idonea a
determinare una condizione d'assoggettamento e d'omertà” (Cass. Pen. Sez.
V, 17.4.2009, n. 28442); “La circostanza aggravante prevista dall'art. 7 d.l.
13 maggio 1991 n. 152, conv. nella l. 12 luglio 1991 n. 203, è configurabile
anche con riferimento ai reati - fine commessi dagli appartenenti al
98 sodalizio criminoso ed è altresì compatibile con la circostanza aggravante di
cui all'art. 629, comma 2, c.p.” (Cass. Pen. Sez. VI, 26 febbraio 2009).
E poiché nel caso in specie non può revocarsi in dubbio che l’imputato
abbia agito avvalendosi della particolare forza di intimidazione derivante
dalla sua appartenenza all’associazione di stampo mafioso denominata
“cosa nostra”, ritiene questa Corte correttamente contestate al prevenuto le
aggravanti di cui all’art. 628 comma 3° n. 3 c.p. e 7 comma 1° legge n.
203/1991.
La sentenza appellata pertanto va confermata anche su questo punto.
L’appellante, infine, si duole della mancata concessione delle circostanze
attenuanti generiche e della entità della pena inflittagli, della quale invoca, in
linea di maggiore subordine, una più mite rideterminazione.
Neanche queste ultime censure appaiono suscettibili di accoglimento.
Rileva, infatti, la Corte che i fatti relativi all’odierno procedimento
rivestono, anche con riferimento all’elevato numero ed alla rilevante gravità
dei reati contestati (associazione per delinquere di stampo mafioso
pluriaggravata, una estorsione consumata e due tentate estorsioni), carattere
recisamente ostativo alla concessione delle invocate attenuanti innominate.
Né va sottaciuto il rilevante spessore criminale dell’imputato, dipendente
dalla lunga militanza in seno al sodalizio criminoso, dal suo prestigio
derivante dalla notevole caratura criminale, avendo egli acquisito la
qualifica di “consigliere”, dalla accertata disponibilità a partecipare a gravi
progetti delittuosi e dalla sua “apertura” nei confronti della realizzazione di
qualsiasi impresa criminosa.
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere legittimo il rifiuto in
ordine alla concessione delle circostanze attenuanti generiche opposto dai
Giudici di prime cure, e a ritenere equa ed adeguata ex art. 133 c.p. alla
gravità del reato ed alla personalità dell’autore, la pena complessivamente
irrogatagli (che va ridotta di un anno in dipendenza dell’assoluzione dal
reato di estorsione consumata di cui al capo n. 13, per il quale gli era stata
inflitto, appunto, ex art. 81 c.p., l’aumento di un anno sulla pena base di
99 anni dodici inflittagli per il più grave reato di cui all’art. 416 bis c.p.),
osservandosi al riguardo che detta pena risulta essere stata determinata in
una misura che garantisce al tempo stesso il diritto dell’imputato ad un
trattamento
sanzionatorio
equo,
nell’ambito
segnato
dalla
Carta
costituzionale, e l’esigenza statuale che i crimini di rilevante entità vengano
sanzionati con pene adeguate.
2-2. L’APPELLO NELL’INTERESSE DI ALTADONNA LORENZO.
L’imputato, come si è detto, è stato assolto, per non avere commesso il
fatto, dal delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di
provenienza illecita (art. 81 cpv, 110, 648 bis, 648 ter c.p. ed art.7 DL 13
maggio 1991 n. 152 convertito con modif. nella legge 12 luglio 18991 n.
303) per avere, in concorso con Pipitone Vincenzo, Conigliaro Angelo,
Vallelunga Vincenzo, Gallina Angelo e Pipitone Giovambattista, tutti
esponenti della famiglia mafiosa di Carini, impiegato in attività
economiche, fra cui l’acquisto di vari appezzamenti di terreno, denaro, beni
ed altre utilità provenienti da delitti connessi alle illecite attività
dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”.
E’ stato invece ritenuto responsabile, in concorso ab externo con Lo Piccolo
Salvatore e Sandro, Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo Antonino, Pipitone
Giovan Battista, Di Maggio Antonino e Vallelunga Vincenzo, tutti
esponenti delle famiglie mafiose di San Lorenzo, Tommaso Natale e Carini,
del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, per avere posto in
essere,
così recita il capo di imputazione, “una serie di condotte
continuate, che consentivano alla associazione stessa il controllo di attività
economiche ed il reimpiego di denaro di provenienza illecita”, venendo di
conseguenza condannato alla pena di anni dodici di reclusione.
100 Con specifico riguardo alla prima fattispecie criminosa il giudice di prime
cure ha osservato come l’accusa di riciclaggio aggravato in concorso ed
impiego di capitali di provenienza illecita di cui al capo 16 della rubrica, si
fosse rivelata, all’esito della compiuta istruttoria dibattimentale, il frutto di
una errata interpretazione da parte dell’Ufficio del PM del contenuto delle
conversazioni intercettate dalle quali poteva evincersi, semmai, con
riguardo alla vicenda inerente un terreno ubicato in località Predicatore di
Carini, che non di illecito investimento di capitali di provenienza mafiosa
nell’acquisto di un esteso fondo, solo formalmente riconducibile alla
titolarità esclusiva dell’Altadonna, si fosse trattato, quanto piuttosto, come
correttamente sostenuto dall’imputato, di un acquisto che ebbe a compiere
lecitamente utilizzando risorse proprie (derivanti dai profitti ricavati da
precedenti operazioni immobiliari)
in relazione al quale dovette subire una vera e propria estorsione.
Ed invero, le somme di denaro di cui si discute nelle conversazioni captate
altro non erano, in realtà, hanno convenuto i primi giudici, che una sorta di
“buonuscita”illecitamente reclamata nei confronti di Altadonna da
Vallelunga, Gallina e Conigliaro, adducendo a giustificazione della loro
pretesa la circostanza di avere, nella loro comune qualità di mezzadri,
coltivato da circa quaranta anni diverse porzioni dell’area in questione.
Al riguardo, il giudice di prime cure ha osservato come
non fosse
revocabile in dubbio, alla stregua di un approfondito esame delle risultanze
processuali, il fatto che i summenzionati soggetti, tutti appartenenti alla
“famiglia” mafiosa di Carini, fossero effettivamente titolari di un rapporto
di mezzadria sul fondo già appartenuto agli eredi Chiarelli - La Lumia, poi
acquistato da Altadonna, ed avessero abusivamente protratto la propria
presenza nell’area, pretendendo poidall’acquirente, per lasciarla libera, la
dazione di una ingente somma di denaro non dovuta e quindi di natura
sostanzialmente estorsiva.
D’altra parte, tale ricostruzione, fondata su una più approfondita analisi del
contenuto delle intercettazioni, oltre che sul tenore inconfutabile di ulteriori
101 prove documentali e testimoniali nel frattempo acquisite, aveva ricevuto
ulteriore conferma nelle dichiarazioni del collaboratore Pulizzi, sicuro
conoscitore delle dinamiche interne alla cosca di Carini di cui da ultimo era
divenuto reggente, il quale aveva riferito come l’Altadonna avesse
consegnato a Vincenzo Pipitone la somma di denaro necessaria per
“liquidare” i mezzadri presenti sul fondo da molti anni, cioè i vari
Conigliaro, Gallina e Vallelunga, tutti appartenenti alla “famiglia” mafiosa
di Carini, i quali si erano rivolti allo stesso Pipitone per risolvere la
questione.
Nelle propalazioni del Pulizzi, peraltro, non vi era alcun cenno a un
presunto investimento immobiliare operato dall’odierno imputato per conto
della “famiglia” di Carini, ma anzi il chiaro riferimento alla riconducibilità
a quest’ultimo delle somme di denaro di cui veniva fatta menzione nelle
conversazioni intercettate.
Del pari, neppure le somme di cui si faceva menzione nella conversazione
intercettata il 9 giugno 2003 fra Pipitone Vincenzo e Conigliaro Angelo
(vds. pagg. 346 e ss della impugnata sentenza) potevano reputarsi
dimostrative della responsabilità del prevenuto in ordine al contestato reato
di cui al capo 16) della rubrica.
Vero è che da tale conversazione emergeva una “generica disponibilità”
dell’imputato a riciclare capitali di origine illecita messigli a disposizione
dell’associazione criminale perché lo stesso partecipasse a un’asta
giudiziaria per l’acquisto di un capannone.
Tuttavia, tale operazione non era andata a buon fine, in quanto il prezzo era
lievitato fino a seicento milioni di lire e il capannone era stato acquistato da
tale Ruffino.
Vero è, altresì, che analoga iniziativa era stata successivamente intrapresa
per l’acquisto, sempre a mezzo di asta giudiziaria, del magazzino di tale
Buzzetta, ma anche in questo circostanza la somma stanziata si era rivelata
insufficiente.
102 Ed invero, in entrambi i casi, se tali emergenze confermavano la
disponibilità di Altadonna
ad operare per conto della organizzazione
mafiosa sul terreno degli investimenti immobiliari, per altro verso non
assumevano di per sé rilevanza penale in relazione al paradigma normativo
di cui agli artt. 648 bis e ter c.p., poiché dalle stesse parole del Pipitone
risultava che tali operazioni non furono portate a compimento e non
superarono nemmeno la fase meramente preparatoria, sia pure per
l’intervento di fattori indipendenti dalla volontà dei protagonisti.
Di contro, tali ultime vicende apparivano idonee a dimostrare, secondo i
giudici di prime cure, una disponibilità dell’odierno imputato ad effettuare
rilevanti investimenti immobiliari per conto della “famiglia” mafiosa di
Carini, frutto quantomeno di uno stretto rapporto di amicizia che legava
l’Altadonna a Pipitone Vincenzo, reggente della cosca.
L’esistenza di tale consolidato rapporto emergeva, al di là del contenuto
delle conversazioni intercettate fra il Pipitone ed il Conigliaro, dalla
circostanza confermata dallo stesso imputato secondo cui il Pipitone era
stato padrino di cresima di Salvatore Altadonna, figlio dell’imputato.
Vero è che le indagini avevano comprovato solo sporadici incontri tra
l’Altadonna e il Pipitone di cui non era stato possibile accertare lo scopo ma
significativo appariva che il Pipitone avesse convocato l’imprenditore
Trapani per chiedergli di affidare proprio all’Altadonna l’esecuzione dei
lavori di costruzione di un capannone industriale.
Il fatto che l’odierno imputato, avendo dovuto tenere conto della
deposizione del Trapani, abbia sostenuto che la sua presenza, in quella
circostanza, fosse del tutto casuale, appariva pertanto del tutto inverosimile.
Le convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia confermavano,
peraltro, l’esistenza di consolidati rapporti del prevenuto con esponenti
dell’associazione mafiosa.
Ed invero,
il Pulizzi aveva riferito di un rapporto amicale da tempo
esistente fra l’Altadonna (soprannominato u‟ pacchione) e Vincenzo
Pipitone rievocando, altresì, come in una circostanza esponenti di altra
103 famiglia mafiosa quali Franco Inzerillo e Sandro Mannino si fossero rivolti
allo stesso Pipitone affinché li aiutasse ad ottenere dall’odierno imputato
una riduzione del prezzo di acquisto di due lotti di terreno.
Vero è che il collaborante Franzese non aveva riferito significativi elementi
in ordine ad attività di sostegno alla associazione poste in essere
dall’Altadonna, ma era stato comunque in grado di riferire di avere sentito
parlare dell’odierno imputato da Sandro Lo Piccolo e Gaspare Pulizzi come
di un imprenditore da loro conosciuto, attivo nel settore edilizio.
Quanto al collaboratore Spataro, lo stesso era stato invece in grado di
indicare esplicitamente l’Altadonna come un soggetto “vicino” agli
esponenti mafiosi di Carini e di Torretta.
Al riguardo, il collaborante aveva rammentato la significativa circostanza
che nel 1998 l’Altadonna gli era stato presentato da Calogero Mannino,
cugino di Salvatore Lo Piccolo e di Lorenzino Di Maggio, come una
persona “vicina” ai Pipitone ed in particolare a Giovanni Pipitone
–
reggente, in quel periodo, della famiglia di Carini – il quale teneva
tantissimo all’odierno imputato.
Ha rilevato, peraltro, il primo giudice che il riferimento operato dallo
Spataro al Mannino, affiliato alla famiglia mafiosa di Torretta, rivestiva
particolare pregnanza probatoria, trovando un riscontro diretto negli esiti
dei servizi di osservazione effettuati dalla polizia giudiziaria, che avevano
documentato un incontro avvenuto in data 31.10.2003 nel negozio “Stock
House” di Carini tra l’Altadonna, il predetto Mannino e Inzerillo Matteo,
quest’ultimo esponente della famiglia mafiosa di Passo di Rigano.
Lo Spataro aveva riferito, peraltro, un ulteriore significativo episodio
allorchè aveva rammentato che il Mannino era intervenuto in altra
occasione per stabilire i termini di un appuntamento che l’Altadonna aveva
a lui richiesto per perorare la causa del summenzionato Giovanni Pipitone il
quale avrebbe voluto compensare un credito che vantava nei confronti di
Aiello Epifanio con la cessione di calcestruzzo prodotto dall’impresa di cui
104 era titolare lo stesso Aiello; operazione questa che non era stata
perfezionata in quanto l’azienda dell’Aiello era stata sottoposta a sequestro.
Ha osservato inoltre il primo giudice che la contiguità dell’odierno imputato
ad ambienti mafiosi era ulteriormente documentata dalla conversazione
intercorsa tra Vincenzo Brusca (reggente della famiglia di Torretta) e il
genero Di Maggio Antonino.
Ed invero detto colloquio, riscontrando le dichiarazioni rese dallo Spataro
in ordine ai rapporti tra l’Altadonna e la famiglia mafiosa di Torretta,
dimostrava la disponibilità offerta dall’odierno imputato ad assecondare gli
interessi di “cosa nostra”, spendendosi personalmente per il perseguimento
degli interessi dell’associazione criminale.
Nel corso della conversazione, infatti, il Brusca riferiva al Di Maggio che
aveva chiesto all’odierno imputato, indicato come “un amico vero”, di
parlare con il Caruso (consigliere comunale di Torretta) e con il Puccio (già
sindaco di Capaci) per agevolare l’approvazione di un certo progetto
edilizio che interessava la “famiglia” mafiosa di Torretta.
Si evinceva dalla conversazione che l’Altadonna aveva parlato con i due
soggetti in questione - pur senza ottenere alcuna risposta concreta – ed
aveva saputo mantenere con costoro il riserbo (giudicato assai opportuno
dal capomafia di Torretta) circa la reale paternità dell’iniziativa.
Ancor più significativa del diretto coinvolgimento dell’Altadonna nelle
dinamiche dell’associazione criminale è apparso però al primo giudice il
contenuto della conversazione intercorsa il 25 settembre 2003 tra Vincenzo
Pipitone e l’odierno imputato Angelo Conigliaro.
Ed invero, nel corso della conversazione il Pipitone, soffermandosi ancora
una volta sulle reiterate richieste di denaro che il Vallelunga aveva fatto
all’Altadonna per ottenere una congrua “buonuscita”, commentava come il
primo non avesse considerato che quest’ultimo (“Lorenzo”) godeva della
protezione di “Roberto” che aveva particolarmente a cuore l’odierno
imputato perché questi “era capace di farici sapire i cose…”e “picchì cià
fattu favura”.
105 Orbene, la persona indicata con il nome “Roberto” - che assicurava la sua
speciale protezione all’Altadonna, in quanto questi gli faceva “favori” avrebbe potuto reagire assai negativamente se l’odierno imputato gli avesse
fatto giungere le sue rimostranze - essendo evidentemente un esponente
mafioso di primissimo piano, di cui lo stesso Pipitone parlava con deferenza
mista a timore, altro non era – ha osservato il primo giudice - che Lo
Piccolo Salvatore.
Ed infatti, circa l’identità di “Roberto”, assai significativo appariva il
contributo informativo del collaborante Pulizzi.
Costui aveva dichiarato, infatti, che, con tale pseudonimo, veniva appellato
Salvatore Lo Piccolo, capomandamento di San Lorenzo, all’epoca latitante.
Risultava, pertanto, smentito l’assunto dell’imputato di non avere mai
conosciuto i Lo Piccolo.
L’esistenza di strettissimi legami esistenti tra l’Altadonna e Salvatore Lo
Piccolo appariva emergere con nettezza, secondo i primi giudici, anche
dalla vicenda relativa alle forniture di abbigliamento effettuate dall’odierno
imputato a Cardinale Maria, all’epoca dei fatti sentimentalmente legata a
Sandro Lo Piccolo.
La circostanza che in due occasioni la Cardinale si fosse recata nel negozio
Stock House per prelevare dei capi di abbigliamento oltre a risultare
chiaramente dal contenuto di una lettera trovata nella disponibilità di
Sandro Lo Piccolo all’atto del suo arresto, era stata peraltro ammessa dallo
stesso imputato.
Altadonna aveva riferito, infatti, di essere stato in tali occasioni informato
da Vincenzo Pipitone del fatto che la donna sarebbe venuta a trovarlo,
ammettendo peraltro che sarebbe stata sua intenzione farle omaggio dei
capi di abbigliamento prelevati ma che il Pipitone aveva voluto pagare il
relativo prezzo.
Il giudice di prime cure ha osservato, infine, come prova certa dell’esistenza
di rapporti fra l’Altadonna ed i Lo Piccolo emergesse, da ultimo, dal
106 contenuto di due “pizzini”, attribuibili alla mano di Lo Piccolo Salvatore,
sequestrati in occasione dell’arresto di questi ultimi.
I due documenti in questione, che riportavano entrambi il nominativo
“Altadonna”( il primo per esteso ed il secondo in forma abbreviata)
riguardavano essenzialmente un unico argomento, ovvero la richiesta
inoltrata a Lo Piccolo Salvatore di sollecitare l’Altadonna affinché
restituisse 140.000 euro in favore dell’impresa Leonardi, debito che sarebbe
scaturito da pregressi rapporti tra la predetta impresa e quella dell’odierno
imputato aventi ad oggetto la realizzazione di alcune villette nel territorio di
Torretta; lavori che erano stati interrotti, poi, a seguito delle vicissitudini
giudiziarie nelle quali era incorso l’Altadonna, tratto in arresto nel gennaio
del 2007 (vds. pagg. 368 e ss della impugnata sentenza).
Nel primo “pizzino” il Lo Piccolo chiedeva agli esponenti della famiglia
mafiosa di Carini (verosimilmente
destinatari del messaggio di cui,
secondo prassi consolidata, tratteneva copia) di trasmettergli informazioni
circa la vicenda che coinvolgeva
l’odierno imputato, il quale doveva
restituire una consistente somma di denaro all’impresa Leonardi,
subentratagli nei lavori di costruzione di villette nella zona di Torretta
come riferito nel corso del dibattimento dal sostituto commissario Vincenzo
Lo Bue.
La stessa questione veniva chiaramente richiamata anche nella missiva
catalogata come reperto “ZE 15” ( FF. altad…per i 140 mila euro che deve
a Leona. Agganciare a Gasp.).
Ha osservato il primo giudice che,
in considerazione della identità
dell’argomento trattato con quello che aveva formato oggetto della
precedente missiva, poteva affermarsi con certezza che la dicitura
“altad….” costituiva una formula sintetica indicativa del nome Altadonna, e
che il contenuto del documento dimostrava la rinnovata iniziativa di Lo
Piccolo Salvatore nei confronti dell’odierno imputato derivante da un
“sollecito” ricevuto presumibilmente da altro esponente mafioso, che
107 perorava la causa del Leonardi circa la reclamata restituzione della somma
di 140.000 euro.
Quanto alla dicitura “agganciare a Gasp.”, apposta sul “pizzino” in
correlazione alla questione del credito vantato da “Leonardi”, appariva
verosimile che il Lo Piccolo intendesse affidare a Gaspare Pulizzi l’incarico
di contattare l’Altadonna per risolvere la questione.
Hanno rilevato i primi giudici come, in fase di indagini, gli organi
inquirenti non fossero stati in grado di identificare l’impresa Leonardi a
causa dell’elevato numero di ditte registrate nell’archivio informatico della
Camera di Commercio aventi tale denominazione, ma che tale
identificazione si era resa possibile nel corso del dibattimento grazie
all’escussione di Leonardi Gaetano, citato dalla difesa dell’Altadonna.
Orbene, il Leonardi aveva dichiarato di avere conosciuto l’ Altadonna nel
2006, in occasione delle trattative inerenti alla vendita di un appezzamento
di terreno edificabile sito nel territorio del comune di Torretta.
Il Leonardi, cui l’Altadonna era stato presentato da un comune fornitore,
aveva messo in contatto quest’ultimo con un imprenditore romano di nome
Fabio Ghirelli, interessato all’acquisto.
Era seguita fra i due la stipula di un preliminare di vendita subordinato
all’approvazione della lottizzazione, con il versamento di una caparra che,
secondo il ricordo del Leonardi, ammontava a 120.000 euro.
Il contratto definitivo non era mai stato stipulato a causa dell’arresto
dell’Altadonna ed anche perché la lottizzazione non era stata approvata.
Ciò posto, ha conclusivamente affermato il primo giudice come dal tenore
dei due manoscritti potesse evincersi chiaramente che l’Altadonna era un
soggetto ben conosciuto negli ambienti mafiosi, come del resto poteva
rilevarsi alla stregua dei suoi documentati contatti con Mannino Alessandro
e, in termini ancora più evidenti, alla stregua delle illuminanti parole del
sensale mafioso Gottuso, il quale lo definiva suo “fratello” e ne
rappresentava il ruolo rappresentativo degli interessi economici della
“famiglia” mafiosa di Carini (Altadonna non è che è Altadonna…),
108 circostanza quest’ultima che risultava dal contenuto della conversazione
intercettata il 12 febbraio 2004 fra il predetto Gottuso e Panci Pietro (vds.
pagg. 332 e ss della impugnata sentenza).
Alla luce di tali elementi, secondo il primo giudice, non occorreva
ulteriormente dilungarsi sulla straordinaria consistenza delle prove raccolte
a carico dell’Altadonna, quale soggetto pienamente consapevole del ruolo e
dello spessore mafioso dei suoi interlocutori, vicinissimo a Vincenzo
Pipitone e sponsorizzato da un capo del calibro di Salvatore Lo Piccolo.
Poteva affermarsi, pertanto, che l’imputato, seppure non inserito nella
struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo dell‟affectio
societatis”, si adoperava volontariamente in favore dell‟organizzazione
mafiosa, fornendo spontaneamente la propria disponibilità a mettere al
servizio degli interessi di “cosa nostra” la sua rete di conoscenze, le sue
attività commerciali e le sue qualità imprenditoriali, da tale atteggiamento
ricavando la protezione incondizionata di Salvatore Lo Piccolo, al quale
aveva “fatto favori”, come affermava Vincenzo Pipitone nel corso di una
conversazione intercettata il 25 settembre a bordo della autovettura in uso a
Conigliaro Angelo.
Le convergenti risultanze processuali apparivano chiaramente indicative
dell’esistenza di un rapporto interattivo istaurato dall’imputato con
l’organizzazione mafiosa, in vista del conseguimento di propri personali
interessi imprenditoriali (emblematica, a tale riguardo, era la vicenda
narrata dall’imprenditore Trapani), pienamente funzionali alle esigenze
egemoniche dell’associazione criminale.
Nel caso di specie, veniva dunque in rilievo la condotta di un imprenditore
colluso, che non era succube dell’organizzazione mafiosa e non ne subiva
passivamente le imposizioni, ma era legato da un rapporto di stabile
collaborazione con il sodalizio criminale, in vista del conseguimento di
reciproche utilità per entrambe le parti.
109 Tanto premesso, va ora osservato come la difesa dell’appellante si dolga
dell’affermazione di responsabilità a suo carico ritenuta dai primi Giudici,
assumendo essere insussistenti, nei fatti a lui ascritti, gli elementi costitutivi
del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
E’ stato osservato, in proposito, che l’Altadonna, alla stregua della
originaria ipotesi accusatoria, sarebbe stato concorrente esterno nella
associazione mafiosa per avere, fra l’altro, ricevuto dal sodalizio criminale
denaro per impiegarlo nell’acquisto di un fondo di mq. 160.000, e che, per
tale ragione, sarebbe stato chiamato a rispondere anche del delitto di
riciclaggio.
Orbene, non vi è dubbio che, se si fosse rivelata fondata tale ipotesi
investigativa, l’Altadonna avrebbe effettivamente fornito alla associazione
mafiosa apporti specifici, aventi effettiva rilevanza causale quantomeno ai
fini del rafforzamento del sodalizio, valutabili alla stregua del paradigma
normativo del concorso esterno in associazione mafiosa sulla base dei
principi elaborati dalla giurisprudenza della Suprema Corte.
In realtà, la compiuta istruzione dibattimentale avrebbe chiarito che
l’Altadonna era imprenditore che aveva esclusivamente contato sulle
proprie risorse economiche, senza alcun apporto esterno.
Ed invero, il ragioniere La Porta Girolamo, coinvolto nelle indagini sulle
attività economiche della famiglia mafiosa di Carini, avendo deciso di
collaborare con la giustizia, sentito ai sensi dell’art. 210 c.p.p., aveva
escluso che nelle attività economiche dell’Altadonna fossero stati investiti
capitali di illecita provenienza.
Il La Porta, che ha fornito informazioni di prima mano sul conto
dell’odierno imputato, se non altro per avere seguito per conto e
nell’interesse di quest’ultimo la pratica per le autorizzazioni comunali e
regionali necessarie per l’apertura del centro commerciale Stock House, ha
in più occasioni ribadito, nel corso del suo esame, che l’odierno prevenuto
faceva conto esclusivamente su proprie risorse finanziarie (“I soldi, per
quello che io so, i soldi ce li ha lui, li ha sempre avuti e se li è fatti da solo.
110 Cioè, li ha fatti lui i soldi. Non poteva avere soci perché non si può avere
Altadonna come socio. Perché io lo chiamo “lo squalo”…”).
Orbene, ha soggiunto la Difesa, il riscontro alle dichiarazioni del La Porta
possono rinvenirsi non solo nella gran mole di documentazione contabile e
bancaria prodotta da cui può evincersi agevolmente che il prevenuto ha
acquistato il terreno di c.da Predicatore –fondo Chiarelli – La Lumia con
proprie risorse ma anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia
Pulizzi.
Quanto alla provvista utilizzata per l’acquisto del terreno summenzionato di
mq 160.000, Altadonna è riuscito a dimostrare, infatti, di avere ricavato
dalla vendita di nr. 8 appartamenti siti in Villagrazia di Carini la somma di
£ 1.300.000, senza contare le ingenti somme di denaro (euro 413.580,
l’anno) che ricavava da svariati contratti di locazione, ed il contratto di
mutuo fondiario di euro 750.000,00 stipulato con la Banca Popolare di
Lodi.
Quanto al Pulizzi, persona che era subentrata al Pipitone nella carica di
reggente della famiglia di Carini, lo stesso, nel frattempo divenuto
collaboratore di giustizia, ha riferito che Altadonna “è un imprenditore di
Carini ed è compare di Enzo Pipitone, perché gli ha cresimato un figlio e
poi ha fatto dei lavori a Carini”.
Incalzato dal P.M. che gli chiedeva quali fossero i rapporti fra Altadonna e
Pipitone, il Pulizzi si è limitato a rispondere “rapporti di amicizia”,
ulteriormente e lapidariamente esclamando “l’ho detto rapporti di
amicizia”; ciò a fronte di nuova e precisa domanda del P.M. che gli aveva
chiesto “Era vicino a Pipitone in che senso ?”.
Quindi, uno dei più importanti esponenti della cosca di Carini, della quale
dopo l’arresto di Pipitone Vincenzo era divenuto il reggente e che, quindi,
in ragione della sua carica, doveva essere a conoscenza delle cointeressenze
del suo sodalizio di appartenenza, si era limitato a parlare dell’esistenza di
un mero rapporto di amicizia fra Altadonna ed il suo predecessore, senza
nemmeno adombrare che Altadonna possa essere stato in rapporti di affari
111 con Pipitone, tantomeno che ne fosse socio di fatto o che fosse comunque
disponibile nei confronti della consorteria.
Orbene, il giudice di prime cure, pur esprimendo un positivo giudizio sul
conto del Pulizzi, nel menzionare le dichiarazioni di quest’ultimo relative
ad Altadonna, non ha operato alcuna valutazione sulle medesime, al punto
di ignorarle allorchè apoditticamente ha affermato che l’ipotesi accusatoria
a carico del prevenuto avrebbe trovato conforto nelle dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia.
Ma soprattutto il grave difetto di motivazione rinvenibile nella sentenza
impugnata appare davvero manifesto se si considera che i primi giudici non
hanno fornito risposta alcuna al principale quesito che avrebbero dovuto
risolvere e che concerne l’identità dei soggetti che avrebbero trasferito ad
Altadonna denaro ed altre utilità, facendone un prestanome di beni in realtà
appartenenti alla cosca di Carini, al punto che sarebbe davvero apodittico il
passaggio della impugnata sentenza in cui i primi giudici giungono ad
affermare che sarebbe stata dimostrata la disponibilità del prevenuto ad
effettuare rilevanti investimenti immobiliari per conto della “famiglia” di
Carini.
Se poi si considera che i soggetti attivi che avrebbero fatto degli
investimenti, tramite Altadonna, secondo il capo di imputazione, sarebbero
stati Pipitone Vincenzo, Conigliaro Angelo, Vallelunga Vincenzo, Gallina
Angelo e Pipitone Giovan Battista, non vi è chi non veda – osserva la
Difesa - come gli stessi altri non sono che coloro i quali hanno ottenuto
dall’Altadonna, tramite l’intervento da loro richiesto di Pipitone Vincenzo,
la somma di quattrocento milioni di lire per uscire dal terreno di c.da
Predicatore da essi abusivamente occupato.
Ma vi è di più.
Osserva la Difesa come in nessuna delle intercettazioni telefoniche o
ambientali in atti sia stata accertata la presenza di Lorenzo Altadonna e
come, nell’arco di circa due anni di indagini (periodo durante il quale
l’abitazione del Pipitone era monitorata ventiquattro ore su ventiquattro)
112 solo in un paio di occasioni Altadonna venne visto entrare nella anbitazione
del Pipitone.
Se poi si considera che, sempre nel medesimo periodo di indagini, solo in
altri due casi Altadonna è stato visto incontrarsi con esponenti della
associazione mafiosa (il 31 ottobre 2003, all’interno del suo negozio di
abbigliamento Stock House con Inzerillo Matteo e Mannino Calogero ed il
6 ottobre 2004, nello stesso luogo, con Mannino Alessandro), davvero
incomprensibile sarebbe il passaggio della impugnata sentenza in cui
l’estensore addirittura afferma che “l’intensità e la frequenza dei rapporti
fra l’Altadonna ed il Pipitone sono, quindi, chiaramente documentate dal
complesso delle conversazioni di cui è protagonista lo stesso reggente della
famiglia di Carini e sono inoltre confermate dalle risultanze dell’attività di
polizia giudiziaria”.
L’erroneità di tale ragionamento è però palese se si considera che proprio
dalle conversazioni intercettate, come riconosce lo stesso
Tribunale,
emergono più che fondati elementi per affermare che Altadonna è stato
vittima di una estorsione avendo dovuto cedere alla pretesa del suo stesso
presunto referente mafioso, Pipitone Vincenzo, resosi garante del
pagamento ad alcuni mezzadri, tutti appartenenti alla locale famiglia
mafiosa, di ingenti somme di denaro non dovute (sul punto è stata fatta
estrema chiarezza, oltre che sulla base di un più accorto esame delle
intercettazioni, grazie anche alle dichiarazioni dei testi Greco e Parrino, del
collaboratore di giustizia Pulizzi Gaspare e dell’imputato di reato connesso
Privitera il quale ha confermato come il Vallelunga al fine di ottenere la
“buonuscita” relativa al suo rapporto di mezzadria avesse addirittura
delimitato i confini del terreno da lui abusivamente occupato).
La linearità del comportamento processuale di Altadonna appare ancora più
evidente – soggiunge la Difesa - allorchè lo stesso fornisce le proprie
giustificazioni in ordine al motivo per cui si era recato due volte a casa del
Pipitone.
113 Ed invero, in assenza di intercettazioni ambientali, Altadonna avrebbe
potuto fornire qualsiasi plausibile spiegazione: ad esempio avrebbe potuto
far riferimento al fidanzamento del figlio di Pipitone con sua figlia, oppure
avrebbe potuto dire che si era recato a casa del Pipitone per fargli qualche
gentile omaggio di merce del suo negozio di abbigliamento.
Aveva però preferito raccontare la verità, riferendo che il Pipitone, di
propria iniziativa e senza avere ricevuto alcun incarico, voleva fargli
vendere il terreno di mq. 160.000 che egli aveva acquistato, al fine di potere
beneficiare della mediazione che avrebbe dovuto ammontare, secondo le
pretese del Pipitone, ad ottocento milioni di lire.
A tal riguardo, il Pipitone aveva presentato all’odierno imputato
l’imprenditore Bordonaro Pippo.
Costui era stato citato dalla Difesa perché riferisse in merito, ma essendo
persona imputata a sua volta del delitto p. e p. dall’art. 416 bis c.p. aveva
preferito avvalersi della facoltà di non rispondere.
La Difesa è riuscita però a provare, comunque, la circostanza
summenmzionata, ottenendo l’esame del teste Drago Antonino.
Il Drago, sentito all’udienza del 12 novembre 2008, ha infatti riferito che,
essendo venuto a sapere, grazie ad una comune conoscenza, Bordonaro
Pippo, che Altadonna era proprietario di un terreno con destinazione
urbanistica turistico-alberghiera, aveva chiesto a quest’ultimo se aveva
interesse a vendere.
Avendo ottenuto risposta affermativa aveva messo in contatto Altadonna
con tale ing. Gallo di Padova; le trattative non si erano però concluse
positivamente.
Altro soggetto che, probabilmente su input del Pipitone, si sarebbe dovuto
occupare della vendita è Gottuso Salvatore.
Costui era stato presentato ad Altadonna da tale Vernaci Pietro, al quale
l’odierno imputato aveva venduto un terreno.
L’interesse del “sensale” Gottuso alla vendita del terreno in questione –
osserva la Difesa – può peraltro ricavarsi dalla conversazione intercettata
114 del 12 febbraio 2004, all’interno del deposito dello stesso Gottuso, fra
quest’ultimo e Panci Pietro, anch’esso “sensale”, specie nel punto in cui il
Gottuso, riferendo il contenuto di un colloquio da lui intrattenuto con
Altadonna, afferma “Si…, si io ci ho detto ad Altadonna…ti porto
l’acquirente…ed iddu mi rissi a ia…fammillu veniri ca”.
Ma vi è di più.
La circostanza secondo cui il Pipitone intendeva favorire la vendita a terzi
del terreno, per conseguire una ingente somma a titolo di intermediazione
avente una sostanziale natura estorsiva, poteva trarsi dal contenuto della
conversazione del 6 giugno 2003 fra Pipitone e Conigliaro, nel punto in cui
il primo dice al secondo “chiddu Lorenzo chi vuoli fare ri cose r’iddu è
patruni…ma duoco cu nuatri…avi a pigghiari ottocento miliuna me l’avi a
dare” e soprattutto nel punto in cui soggiunge “Quannu Lorenzo
venderà…venderà duoco…ci penserà! Un ti sacciu riri se ni vuoli mille lire
o rumila lire o niente..un sapi Lorenzo”.
I primi giudici avrebbero pertanto dovuto pervenire alla conclusione con
riguardo ai fantomatici rapporti preferenziali di Altadonna con il Pipitone,
che da questi il prevenuto, lungi dall’avere posto in essere apporti di
rilevanza causale al rafforzamento del sodalizio carinese, non aveva
ricavato vantaggio alcuno, avendo subito al contrario uan vera e propria
attività estorsiva.
Quanto ai pretesi rapporti con i Lo Piccolo, l’unico vero rapporto
intrattenuto con un esponente della famiglia Lo Piccolo aveva riguardato,
come spontaneamente l’imputato aveva dichiarato, Lo Piccolo Claudio,
figlio di Lo Piccolo Salvatore e fratello minore di Lo Piccolo Sandro.
Al Lo Piccolo Claudio, la sig.ra Fiorello, moglie di Altadonna, aveva
venduto, infatti, in data 6 novembre, con contratto stipulato presso il notaio
La Pira, un lotto di terreno in c.da Miliotti del Comune di Carini per euro
38.734,00.
Il prezzo era stato pagato dal Lo Piccolo con assegno di c/c bancario versato
sul conto bancario della Fiorello.
115 Per tale vendita non vi era stato l’interessamento di nessuno della
“famiglia” mafiosa di Carini.
Era poi stato dimostrato con memoria contabile la liceità dei redditi
dell’imputato e della moglie e la loro escalation dal 1982 al 2006, anno in
cui si era verificato un saldo attivo di euro 3.999.5.590,28.
La Difesa nel corso del giudizio di primo grado aveva pure dimostrato
come Altadonna, lungi dal ricavare vantaggi dalla pretesa amicizia con il
Pipitone, aveva subito dei danni.
Emblematica appariva, infatti, l’apertura, proprio di fronte a Stoch House di
Altadonna del centro commerciale Ferdico, fatto questo che, se solo si
riflette sulla presenza immanente di “cosa nostra”, avrebbe dovuto indurre i
primi giudici a domandarsi il motivo per cui, se realmente Altadonna fosse
stato soggetto sponsorizzato dal sodalizio mafioso di Carini ed addirittura
un protetto di Salvatore Lo Piccolo, l’organizzazione mafiosa non avesse
ostacolato l’iniziativa imprenditoriale del Ferdico, che ictu oculi appariva
foriera di una ingente riduzione del volume di affari del negozio Stoch
House.
Del tutto inconsistenti e palesemente contraddittori si erano rivelati,
peraltro, i fatti dal primo giudice valorizzati al fine di dimostrare il
contributo da Altadonna offerto per l’esistenza o il rafforzamento della
associazione.
Ed invero, pur precisando i primi giudici che i riferimenti dal Pipitone
compiuti nel corso della conversazione intercettata il 9 giugno 2003 ad una
presunta messa a disposizione di capitali provenienti dal sodalizio mafioso
in vista della partecipazione dell’odierno imputato ad aste giudiziarie non
consentivano di valutare tali vicende sotto il paradigma normativo di cui
agli artt. 648 bis e ter c.p. perché tali operazioni si erano fermate alla fase
preparatoria, i medesimi fatti erano stati valorizzati poi al fine di dimostrare
la presunta stabilità del legame fra Altadonna e la famiglia mafiosa di
Carini e la disponibilità del prevenuto ad occuparsi delle iniziative
economiche e specultative del sodalizio mafioso, fungendo da prestanome.
116 In realtà, una attenta lettura del passo della conversazione contenente i
riferimenti agli episodi in questione avrebbe dovuto indurre i primi giudici
ad affermare tout court che non risultava dimostrata alcuna disponibilità del
prevenuto ad assumere tali iniziative per conto della organizzazione,
apparendo sufficiente al riguardo rammentare che Altadonna non aveva mai
partecipato ad alcuna asta.
Quanto agli incontri di Altadonna con Inzerillo e Mannino, censurabile
appare la scelta del primo giudice di non evidenziare a chiare lettere che il
contatto del prevenuto con i due summenzionati personaggi aveva avuto
contenuto più che lecito avendo avuto a fondamento l’acquisto di due
villette, come chiarito anche dal collaborante Pulizzi che ha precisato,
altresì, che Inzerillo e Mannino, conoscendo il Pipitone, si erano rivolti a
quest’ultimo perché volevano fatto uno sconto da Altadonna.
Ed invero, si era verificato che Altadonna aveva venduto, sulla parola, due
lotti di terreno: uno al sig. Tesi e l’altro ad una signora di Partinico, per la
somma di 40.000 euro; il giorno successivo si era presentato però
all’odierno imputato Vincenzo Pipitone, insieme a Franco Inzerillo e
Mannino Alessandro, chiedendogli di vendere il terreno a questi ultimi e di
fare loro uno sconto.
Altadonna aveva accettato di vendere ad Inzerillo e Mannino e di praticare
loro uno sconto di duemila-tremila euro, stesso sconto, peraltro, che aveva
fatto a Lo Piccolo Claudio.
Ciò era avvenuto alla presenza anche di Gaspare Pulizzi ed era stato
quest’ultimo a riferire tale fatto nel corso del suo esame.
Né avrebbero dovuto essere valorizzati dal primo giudice come elementi
indiziari a carico di Altadonna le lettere inviate a Sandro Lo Piccolo da
Maria Cardinale, sequestrate in occasione degli arresti dei Lo Piccolo.
Dal contenuto di queste lettere, che confermava in pratica l’assunto del
prevenuto, era, infatti, possibile evincere che Lo Piccolo Sandro non aveva
alcun rapporto con Altadonna; che ad invitare la donna a recarsi presso lo
Stoch House era stato Pipitone Vincenzo; che Altadonna non sapeva chi
117 fosse la Cardinale, in altri termini che la stessa intrattenesse una relazione
sentimentale con il Lo Piccolo Sandro.
L’unica cosa che Altadonna sapeva era che la donna gli era stata
raccomandata dal Pipitone e che la merce dalla Cardinale prelevata gli era
stata pagata dallo stesso Pipitone; per chiarire tale circostanza la Difesa
aveva citato, peraltro, lo stesso Pipitone ma quest’ultimo si era avvalso
della facoltà di non rispondere.
Quel che avrebbe dovuto indurre, però, i primi giudici ad escludere che
Altadonna
fosse
soggetto
che
intratteneva
rapporti
illeciti
con
l’organizzazione mafiosa, formendo un contributo casualmente efficiente
alla vita o al rafforzamento di questa, è peraltro proprio il contenuto dei due
pizzini trovati in possesso dei Lo Piccolo al momento del loro arresto.
Premesso, peraltro, che fra le centinaia e centinaia di “pizzini” trovati ai due
boss non ve ne è nemmeno uno in cui Altadonna sia destinatario o mittente,
appare censurabile la pregnanza probatoria attribuita dal Tribunale a due
biglietti, entrambi vergati da Sandro Lo Piccolo, in cui veniva affrontato
l’argomento di un debito che l’Altadonna aveva nei confronti della impresa
Leonardi.
Orbene, l’imputato non aveva mancato di spiegare esaurientemente il
contenuto ed il significato di questo appunto, produdendo documentazione
e chiedendo ed ottenendo l’escussione testimoniale di Leonardi Graziano.
Ha chiarito, invero, il prevenuto, producendo ampia documentazione, che il
Leonardi, titolare di una impresa che si occupa di costruzioni, gli aveva
proposto di fargli vendere il terreno di mq. 160.000 oppure altro terreno sito
in Torretta, all’uopo presentandogli tale Fabio Ghirelli, titolare di una
impresa di costruzioni a Roma.
Il Ghirelli aveva consegnato all’Altadonna, all’atto del preliminare, come
cauzione per l’acquisto del fondo Rizzuti di Torretta, un assegno di euro
100.000, a fronte di un prezzo che si prevedeva aggirarsi fra gli 11 e i 12
milioni di euro.
Altadonna aveva versato l’assegno sul suo conto corrente.
118 L’affare non si era poi realizzato in quanto Altadonna non aveva ottenuto la
necessaria lottizzazione.
Era pertanto ovvio che dovesse restituire i 100.000 euro al Ghirelli, cosa
che avrebbe fatto se non fosse stato arrestato.
La versione dei fatti emergente dalla documentazione prodotta era stata
cofermata dal Leonardi.
Ne consegue che il pizzino trovato in possesso di Lo Piccolo Salvatore
conteneva almeno tre errori: il lavoro asseritamente commesso al Leonardi
non era stato appaltato in quanto la lottizzazione non era mai stata
approvata dal Comune; non dipendeva, pertanto, dai problemi giudiziari di
Altadonna la mancata realizzazione del lavoro; Altadonna non doveva
140.000,00 euro a Leonardi, ma 100.000,00 euro al Ghirelli.
Il contenuto della lettera è chiaro: la missiva è diretta ad un soggetto che
avrebbe dovuto invitare Altadonna, debitore della somma, a restituire
l’acconto per l’affare non andato a buon fine.
E’ palese, pertanto, che Altadonna non è il destinatario della missiva, ma
soltanto colui che avrebbe dovuto essere “invitato” ad ottemperare alla
restituzione.
Quanto all’episodio riguardante l’imprenditore Marcello Trapani, che si
occupa di imballaggio alimentare e ha due aziende a Carini, il primo
giudice ne avrebbe dovuto rilevare l’assoluta irrilevanza sotto il profilo
penale.
Lo stesso Trapani, nel corso della sua deposizione testimoniale, ha riferito
di un incontro che, tramite tale Di Blasi di Pallavicino, aveva avuto con il
Pipitone presso la villa di quest’ultimo, alla presenza di Lorenzo Altadonna.
Ha precisato il Trapani che, nel corso dell’incontro, il Pipitone, dopo avere
premesso di essere venuto a conoscenza di un lavoro edile che egli doveva
svolgere a Carini, lo aveva invitato a cedere questo lavoro ad Altadonna.
Quando il Trapani aveva osservato che per tali lavori aveva chiuso il
contratto con la C.P.C. e che il costo del capannone da realizzare era di
800.000 euro, l’interesse del Pipitone era però svanito.
119 Tanto premesso, non appare revocabile in dubbio, secondo la Difesa, che,
nella vicenda in esame non vi era stata coartazione alcuna: Pipitone non
aveva esercitato alcuna pressione perché il Trapani cedesse i lavori ad
Altadonna, il quale non aveva nessuna intenzione di assumerli, non avendo
mai fatto lavori per conto terzi.
Ha osservato la Difesa che un passaggio della deposizione del Trapani
aveva semmai colpito ed era quello in cui il teste aveva detto “francamente,
un po’ di preoccupazione ce l’ho con queste persone, infatti io ero raggelato
dal fatto che essendo in quella villa mi potessero fotografare e così via..”.
Ne consegue, pertanto, che il Trapani non era preoccupato per quelle
persone che andava ad incontrare, era preoccupato del fatto che potesse
essere fotografato dalla Polizia o dai Carabinieri, cui poi avrebbe dovuto
dare spiegazioni rispetto a quella visita: ecco perché era preoccupato.
Ed allora appare difficile comprendere – ha ulteriormente osservato la
Difesa – il motivo per cui se Trapani Marcello va da Pipitone è una vittima,
mentre se Altadonna va da Pipitone è un colluso.
Ed invero, il punto nodale del processo sta davvero solo ed esclusivamente
nei “rapporti di amicizia e comparatico” fra Altadonna e Pipitone Vincenzo,
il quale, a differenza dei suoi fratelli, era persona comunque incensurata.
Da ultimo, nessun serio elemento era stato apportato dai diversi
collaboratori di giustizia sentiti nel corso del dibattimento.
Premesso che nulla avevano saputo riferire sul conto di Altadonna
collaboratori storici provenienti dal mandamento mafioso di San Lorenzo,
in cui è compreso il territorio di Carini, gli unici collaboratori di giustizia,
più recenti, che avevano, quantomeno, sentito parlare dell’odierno imputato
erano stati Franzese Francesco, Pulizzi Gaspare, Spataro Maurizio.
Il primo era stato in grado soltanto di dire di avere sentito parlare
dell’odierno imputato, nel corso di una conversazione fra Lo Piccolo
Sandro e Pulizzi, come di un costruttore di Carini che aveva in corso una
lottizzazione.
120 Il secondo era stato in grado soltanto di menzionare un episodio in cui
Altadonna era vittima di una estorsione.
Il terzo ha parlato di Altadonna come persona “vicina” alla famiglia
mafiosa di Carini, ma richiesto di maggiori ragguagli era stato soltanto in
grado di riferire di avere conosciuto l’imprenditore di Carini a seguito di
presentazione fattagli da Calogero Mannino.
In tale occasione, verificatasi nell’estate del 2001, essendo stato arrestato
“suo compare” Aiello Epifanio, debitore di una determinata somma di
denaro nei confronti di Giovanni Pipitone, era stato contattato da Altadonna
il quale lo aveva invitato a rammentare all’Aiello di saldare il proprio
debito.
Nel corso dell’incontro, che aveva avuto luogo grazie alla intermediazione
di Calogero Mannino, lo Spataro aveva replicato proponendo ad Altadonna,
che sapeva essere soggetto a disposizione dei Pipitone, di comprare il
calcestruzzo da Aiello e di versare il relativo corrispettivo a Giovanni
Pipitone per saldare il debito.
Il confuso racconto dello Spataro sarebbe però inverosimile sia perché
all’epoca la impresa di Aiello era già sequestrata, sia perché
incomprensibile appare il motivo per cui lo Spataro, che assume di essere
vicino a Giovanni Pipitone, avrebbe dovuto essere contattato da un terzo
(l’Altadonna) e non dallo stesso Giovanni Pipitone.
Lo stesso Spataro, cui il PM aveva chiesto spiegazioni in merito (“perché
lei non è stato contattato direttamente dai Pipitone, dato che conosceva
tutti?”), non aveva saputo fornire una spiegazione logica, limitandosi a
rispondere nel seguente modo “questa cosa in realtà non l’ho capita
nemmeno io, perchè in quel periodo io ho tra l’altro incontrato Giovanni
Pipitone a Carini al John Walker e non mi ha accennato niente”.
In merito, infine, alla conversazione intercettata l’11 giugno 2004 fra
Brusca Vincenzo ed il genero Di Maggio avente ad oggetto l’approvazione
di un progetto edilizio, nel corso del quale il primo riferiva al secondo di
avere chiesto ad Altadonna di parlare con Caruso e Puccio, non vi è chi non
121 veda, secondo la Difesa, l’irrilevanza penale di tale episodio, bastando al
riguardo considerare che lo stesso Brusca aveva dato atto che l’odierno
imputato non aveva avuto dai suddetti interlocutori alcuna risposta e che, in
verità, non vi era alcun elemento in atti per affermare che l’intervento di
Altadonna si fosse effettivamente verificato.
Conclusivamente, richiamati i principi giurisprudenziali in materia di
concorso esterno in associazione mafiosa, la Difesa dell’Altadonna ha
osservato come l’istruttoria dibattimentale abbia dimostrato che Altadonna
Lorenzo non ha fornito alcun apporto specifico avente effettiva rilevanza
causale ai fini della conversazione e del rafforzamento dell’associazione;
che, pertanto, in alcun modo può affermarsi che lo stesso sia stato un
imprenditore “colluso”, perché tale è solo colui che è entrato in rapporto
sinallagmatico con l’associazione, tale da produrre vantaggi per entrambi i
contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in
posizione dominante e per il sodalizio criminale nell’ottenere risorse,
servizi o utilità.
Al contrario, l’istruzione dibattimentale ha dimostrato che Altadonna:
-
ha subito, per quieto vivere, le richieste dei mezzadri abusivi (Conigliaro,
Gallina, Vallelunga);
-
non ha preso parte all’acquisto del capannone, né ha partecipato ad alcuna
asta immobiliare;
-
non ha acquisito nel territorio di Carini posizione dominante;
-
non ha assicurato al sodalizio mafioso risorse, servizi o utilità.
In definitiva, nessun dato sarebbe stato acquisito al processo dal quale possa
ricavarsi che Altadonna, alla stregua di un rapporto sinallgmatico con
l’associazione mafiosa, abbia ottenuto un qualsiasi vantaggio, e che, nel
contempo, abbia apportato a questa un contributo di qualsivoglia genere.
Ne consegue che, in riforma della impugnata sentenza, Altadonna dovrebbe
essere assolto con formula ampia dalla imputazione ascrittagli.
In subordine, è stato chiesto che il prevenuto venga assolto dal reato
ascrittogli, ai sensi del 2° comma dell’art. 530 c.p.p., essendo comunque
122 insufficiente o contraddittoria la prova del concorso dell’appellante nella
associazione mafiosa.
In ulteriore subordine, è stata chiesta l’esclusione delle aggravanti di cui ai
commi 4° e 6° dell’art. 416 bis c.p., mancando in atti qualsivoglia
riferimento a fatti o situazioni che ne avrebbero potuto far ritenere
l’esistenza.
In linea ancora più subordinata è stata chiesta la concessione delle
attenuanti generiche da dichiarare prevalenti sulle contestate aggravanti,
quantomeno per essere emersa dalla compiuta istruttoria dibattimentale una
condotta di vita lavorativa e familiare dell’Altadonna del tutto apprezzabile.
Da ultimo, è stato osservato che il primo giudice, in applicazione dei criteri
di cui all’art. 133 c.p., avrebbe dovuto irrogare il minimo assoluto edittale.
L’impugnazione è fondata.
Osserva la Corte che, prima ancora di prendere partitamente in esame, le
condotte ascritte all’imputato, occorre preliminarmente delineare, sia pure
sinteticamente, alla luce del più recente insegnamento della Giurisprudenza
di legittimità, la figura del concorrente esterno in associazione mafiosa e
successivamente applicare specificamente tale principio di diritto
all’imprenditore che entra in rapporti con il sodalizio mafioso.
Orbene, è noto che assume il ruolo di “concorrente esterno il soggetto che,
non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e
provo dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e
volontario, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e
quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il
rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o per quelle
operanti su larga scala come “cosa nostra”, di un suo particolare settore e
ramo di attività o articolazione) e sia diretto alla realizzazione anche
parziale del programma criminoso della medesima (Cass. S.U. 12 luglio
2005-20 settembre 2005, n. 33748).
123 In motivazione le S.U. rilevano come la efficienza causale in merito alla
cocreta realizzazione del fatto criminoso collettivo costituisca elemento
essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o
morale, specificando che non è sufficiente una valutazione ex ante del
contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene
giuridico protetto, ma è necessario un apprezzamento ex post, in esito al
quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canonici di certezza
processuale, l’elevata credibilità razionale dell’ipotesi formulata in ordine
alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente.
Alla stregua di tale insegnamento giurisprudenziale è importante altresì
sottilineare come non sia rilevante la semplice “disponibilità” o “vicinanza”
dell’agente a singoli esponenti mafiosi senza un concreto contributo per la
vita o il rafforzamento dell’associazione, dovendosi accertare, sotto il
profilo causale, l’efficacia condizionante della condotta atipica del
concorrente esterno, correndosi altrimenti il rischio di ampliare in modo
eccessivo la soglia di punibilità del concorso esterno.
Ciò posto, appare opportuno a questo punto, stante la decisiva rilevanza
della questione nella fattispecie in esame, rammentare i canoni ermeneutici
cui il primo giudice ha sostenuto di essersi adeguato al fine di valutare se
nella condotta di Lorenzo Altadonna si sia concretato o meno quel
contributo casualmente efficiente alle finalità della organizzazione mafiosa
denominata “cosa nostra”.
Per far ciò il primo giudice ha dapprima preso in esame la nozione di
impresa criminale, pervenendo quindi alla catagolazione delle varie figure
di imprenditore, da quella di imprenditore – mafioso tout court, a quella di
imprenditore colluso, a quella di imprenditore vittima.
Orbene, è stato preliminarmente osservato che l’impresa criminale si snoda
attraverso varie fasi stricto sensu caratterizzate dalla mafiosità del titolare e
dalla formazione del capitale, ottenuto attraverso attività illecite.
Viene distinta, in linea di principio, l’impresa di proprietà del mafioso, il
cui titolare (di solito una parsona “pulita”) è un semplice prestanome del
124 mafioso, mentre il capitale resta di origine mafiosa; dalla impresa a
partecipazione mafiosa, che si configura quando una impresa, inizialmente
legittima, entra progressivamente in rapporti di cointeressenza e di
compartecipazione con l’organizzazione criminale.
Si afferma che la rappresentazione del fenomeno nel suo insieme può
costituire un ulteriore strumento – purché prudentemente e criticamente
utilizzato – che, insieme ad altri, permette di raggiungere una maggiore
cognizione delle innumerevoli sfaccettature che il rapporto mafia-impresa
assume nella realtà e che può consentire di cogliere e valorizzare dati
probatori solo apparentemente poco significativi.
Ed è proprio la consapevolezza della complessità del fenomeno, al
contrario, che dovrebbe indurre la massima cautela nella valutazione del
fatto concreto.
Particolare attenzione viene dedicata al problema della configurazione
giuridica dei rapporti mafia-impresa dai primi Giudici, i quali fanno
riferimento, sotto tale profilo, alla più accreditata giurisprudenza di
legittimità.
Si rileva, a tale proposito, che la S.C. ha tentato di individuare un criterio di
carattere generale, idoneo a consentire una netta distinzione delle posizioni
di complice e di vittima della associazione criminale, che il più delle volte,
nella realtà appaiono assai confuse.
Nella valutazione dei rapporti tra mafia e imprenditori – si legge nella
sentenza n. 84/1999 della S.C. – non può mai prescindersi da un effettivo e
serio vaglio delle variabili contingenti peculiarità della singola fattispecie,
poiché al giudice è affidato il compito di individuare la fluida linea di
confine tra lecito e illecito, distinguendo le situazioni nelle quali
l’imprenditore è complice delle organizzazioni criminali da quelle in cui ne
è vittima, ovvero il soggetto passivo delle attività delinquenziali.
I primi Giudici richiamano, quindi, i principi che la Corte di legittimità ha
avuto modo di stabilire - proprio con riferimento al delicato tema dei
125 rapporti tra imprenditoria e associazioni di tipo mafioso - circa il problema
della utilizzabilità in sede giudiziaria dei risultati di indagini storicosociologiche e criminologiche quali massime di esperienza che, nella
tecnica di argomentazione probatoria, siano applicabili con il ruolo di criteri
di valutazione delle risultanze processuali; ed in particolare alla sentenza n.
84/1999, nella quale è stata individuata la chiave per la soluzione di tale
problema
“nella
piena
esplicazione
del
principio
del
prudente
apprezzamento e nella rigida osservanza del dovere di motivazione,
integranti il nucleo essenziale del precetto enunciato dall'art. 192 c.p.p.,
dall'applicazione dei quali deriva che la valutazione del giudice non deve
uniformarsi a teoremi e ad astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio
dell'effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza elaborate dalle
discipline socio-criminologiche e deve, soprattutto, stabilire la piena
rispondenza alle specifiche e peculiari risultanze probatorie, che, sul piano
giudiziario, rappresentano l'imprescindibile e determinante strumento per la
ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata dedotti nel singolo
processo”.
In altri termini, secondo questo principio giurisprudenziale, il giudice non
può prescindere, ai fini di un’adeguata comprensione dei fenomeni
associativi di stampo mafioso, dai risultati di serie ed accreditate indagini di
ordine socio-criminale, ma le massime di esperienza che egli può ricavare
da tali risultati non possono esimerlo dall’osservanza del dovere di ricerca
delle prove indispensabili per l’accertamento della fattispecie concreta che
forma oggetto della singola vicenda processuale al suo esame.
I giudici di legittimità hanno dunque censurato l’applicazione di astratti
stereotipi socio-criminologici in luogo di un attento vaglio delle prove
raccolte (ad esempio, le riunioni fra l’imprenditore e un capomafia, il
vantaggio lucrato dal primo grazie all’intermediazione dell’associazione,
etc.), ritenendo che è la sussistenza o meno di una condizione di
“ineluttabile coartazione” che imprime all’imprenditore che entra in
contatto con la mafia i connotati di vera e propria vittima dell’estorsione.
126 La Suprema Corte ha quindi escluso – è stato osservato - la condizione di
vittima nell’imprenditore che assume preventivamente l’iniziativa nei
confronti dell’organizzazione criminale al fine di ottenere una “protezione a
pagamento” e instaura trattative in tale direzione, pur in assenza di una
minaccia diretta ed esplicita da parte dell’associazione criminale.
Il Tribunale ha, quindi, osservato che effettivamente, sembra difficile
sostenere l’esistenza di uno stato psicologico del tipo indicato, nel soggetto
che pianifica le attività della propria azienda in un determinato territorio,
negoziando con l’associazione mafiosa il “prezzo della propria tranquillità”
da includere fra i costi dell’impresa. Ha poi rilevato che la soluzione
adottata - che evoca, a ben vedere, una sorta di stato di necessità, o di non
esigibilità, delle condotte non conformi alle prescrizioni di legge - non
sembra del tutto soddisfacente, poiché probabilmente semplifica troppo un
fenomeno che appare assai più complesso.
Persiste, infatti, una innegabile piattaforma di diffusa intimidazione
derivante dalla stessa esistenza dell’associazione mafiosa, che produce
soggezione ed omertà nel contesto territoriale in cui l’organizzazione opera
e che costituisce, in ogni caso, lo sfondo con il quale il mondo
imprenditoriale deve confrontarsi quotidianamente.
Appare, quindi, più opportuno, oltre che in sintonia con il principio del
carattere personale della responsabilità penale, volgere lo sguardo alle
singole condotte dei soggetti che, nell’esercizio della loro attività
imprenditoriale, entrano in contatto con la consorteria criminale e di
conseguenza modulano diversamente il loro atteggiamento.
Ci si trova così di fronte ad un panorama assai variegato, che è compito del
giudice qualificare di volta in volta sul piano giuridico; un attento vaglio del
materiale probatorio implica, infatti, un’analisi approfondita del rapporto di
dare ed avere, o di costi-benefici, fra l’impresa e “cosa nostra”, che può
integrare tutti i requisiti previsti dalla norma che descrive la condotta
associativa.
127 E ad avviso del Tribunale, l’esperienza processuale dimostra effettivamente
che in molti casi si annidano profili di sicura illiceità penale, proprio nelle
pieghe di quelli che potrebbero apparentemente sembrare comportamenti
neutri, o magari semplicemente equivoci.
Ed in questa ricostruzione non facile alla quale il giudice è chiamato, se si
vuole individuare un possibile criterio selettivo tra imprenditori collusi ed
imprenditori vittime, che rifugga da classificazioni di carattere generale – lo
si può rintracciare proprio nel “reciproco vantaggio”, ovvero nel rapporto
reciprocamente utile che si instaura fra l’impresa e “cosa nostra”.
“È infatti ragionevole individuare il criterio distintivo tra imprenditore
‘colluso’ e imprenditore ‘vittima’ nel fatto che il primo, a differenza del
secondo, ha consapevolmente e volontariamente rivolto a proprio profitto
l'essere venuto in relazione con il sodalizio mafioso, entrando
consapevolmente e volontariamente in un sistema illecito di esercizio
dell'impresa contraddistinto da appalti e commesse ottenuti grazie
all'intermediazione mafiosa, ed ha in tal modo trasformato l'originario
danno ingiusto subito (il costo insito nel dover sottostare all'imposizione del
pizzo o di altre costrizioni mafiose onde evitare danni maggiori) in una
sorta di risvolto negativo di un ben più consistente ingiusto vantaggio (il
beneficio insito nella possibilità di assicurarsi illegalmente una posizione
dominante a scapito della concorrenza, nonché risorse e/o linee di credito a
prezzi di favore, sino a godere di un sostanziale monopolio su un dato
territorio).
In altri termini, è ragionevole considerare imprenditore ‘colluso’ quello che
è entrato in un rapporto sinallagmatico di cointeressenza con la cosca
mafiosa, tale da produrre vantaggi (ingiusti in quanto garantiti dall'apparato
strumentale mafioso) per entrambi i contraenti e tale da consentire, in
particolare, all'imprenditore di imporsi sul territorio in posizione dominante
grazie all'ausilio del sodalizio, il cui apparato intimidatorio si è reso
disponibile a sostenere l'espansione dei suoi affari in cambio della sua
disponibilità a fornire risorse, servizi o comunque utilità al sodalizio
128 medesimo (quando non risulti addirittura la prova di una relazione
trilaterale, tale da coinvolgere anche qualche esponente del ceto politicoamministrativo in una gestione spartitoria dei pubblici appalti).
Una volta provato il suddetto sinallagma criminoso, la condotta
dell'imprenditore ‘colluso’ sarà configurabile come partecipazione ovvero
come concorso eventuale nel reato associativo, a seconda dei casi e
conformemente ai parametri stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità: si
avrà partecipazione qualora il soggetto risulti inserito stabilmente nella
struttura organizzativa dell'associazione e risulti avervi consapevolmente
assunto un ruolo specifico, funzionale al perseguimento dei fini criminosi o
di un settore di essi; si avrà invece concorso eventuale qualora il soggetto privo dell'affectio societatis e non essendo inserito nella struttura
organizzativa dell'ente - agisca dall'esterno con la consapevolezza e volontà
di fornire un contributo causale alla conservazione o al rafforzamento
dell'associazione nonché alla realizzazione, anche parziale, del suo
programma criminoso. Al contrario, si dovrà considerare imprenditore
‘vittima’ quello che, soggiogato dalla forza di intimidazione del vincolo
associativo e dalla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva,
non tenta di venire a patti con la mafia per rivolgere a proprio vantaggio il
relativo apparato strutturale-strumentale basato sull'intimidazione, ma cede
all'imposizione mafiosa (versando tangenti alla cosca o piegandosi a
prestazioni di altro tipo) e subisce il relativo danno ingiusto limitandosi a
perseguire - se mai - un'intesa con il sodalizio criminale al solo fine di
tentare di limitare tale danno” (Cass. Pen., Sez. I, 11.10.2005, D’Orio).
Orbene, non ritiene questa Corte che, nel caso riguardante l’imprenditore
Altadonna, sia stata raggiunta la prova che fra lo stesso, dall’accusa ritenuto
soggetto estraneo alla associazione mafiosa, e tale sodalizio sia stato in
concreto stipulato uno specifico accordo in base al quale al primo fosse
consentito di imporsi nel territorio in posizione dominante o comunque di
ricavare utilità (si pensi ad esempio all’imprenditore che sfruttando
l’appoggio della organizzazione mafiosa acquisisca appalti pubblici o
129 privati in cambio di una prestabilita quota di ricavi, oppure all’imprenditore
che consenta alla organizzazione mafiosa di investire in modo continuativo
nella propria azienda capitali di illecita provenienza riservandosi, come
prezzo del riciclaggio, una quota dei capitali investiti oppure una quota
degli utili, etc), non essendo stato provato che l’odierno imputato, al di là di
taluni acclarati rapporti intrattenuti con singoli esponenti della associazione
mafiosa e di alcuni modesti vantaggi dallo stesso procurati a singoli
esponenti della consorteria (sconto nella vendita di immobili, regalie di
merci varie etc) abbia fornito alla vita o al rafforzamento di quest’ultima un
contributo casualmente efficace, tanto più se si considera che secondo il più
recente insegnamento della Suprema Corte, la efficienza causale del
contributo deve essere valutata ex post, solo in questo modo potendosi
apprezzare la reale efficacia condizionante della condotta atipica del
concorrente.
Nella fattispecie in esame questa Corte osserva come, anche alla stregua di
un superficiale esame delle contestazioni, appaia evidente che dall’Ufficio
di Procura fosse stata mossa all’odierno imputato, al capo 16 di
imputazione, una contestazione per così dire principale (o comunque
ritenuta tale sulla base del materiale probatorio a disposizione) e che, al
capo 2, fosse stata formulata una contestazione, sotto il profilo probatorio,
per così dire concorrente (ma sarebbe forse il caso di definire “servente”),
davvero poche essendo, infatti, rispetto a quella fondamentale di reimpiego
di capitali illeciti in attività economiche, le ulteriori presunte condotte in cui
si sarebbe concretato ab externo il contributo dell’Altadonna alla
associazione mafiosa denominata “cosa nostra”.
La fondatezza del citato assunto risulta plasticamente rappresentata se solo
si rileva che, mentre con l’imputazione sub 16) si dava carico al prevenuto
del delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di
provenienza illecita aggravato ai sensi dell’ art. 7 D.L. 13 maggio 1991 nr.
152 per avere, in concorso con Pipitone Vincenzo, Conigliaro Angelo,
Vallelunga Vincenzo, Gallina Angelo e Pipitone Giovan Battista, tutti
130 esponenti della famiglia mafiosa di Carini, impiegato in attività
economiche, tra cui l’acquisto di vari appezzamenti di terreno, denaro di
provenienza delittuosa in quanto proveniente dalle attività della
associazione mafiosa, con l’imputazione di cui al capo 2 si dava carico al
prevenuto di avere concorso ab externo con l’associazione mafiosa “cosa
nostra”, in particolare con gli esponenti di questa Lo Piccolo Salvatore e
Sandro, Pipitone Vincenzo, Pipitone Angelo, Pipitone Antonino, Pipitone
Giovan Battista, Di Maggio Antonino e Vallelunga Vincenzo, “ponendo in
essere una serie di condotte continuate, che consentivano alla associazione
stessa il controllo di attività economiche ed il reimpiego di danaro di
provenienza illecita, in ciò agevolati dalla forza di intimidazione del vincolo
associativo, e dalla condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva”.
Ciò posto, non appare davvero revocabile in dubbio la fondatezza del
rilievo difensivo secondo cui, nella vicenda in esame, se è vero che l’unica
condotta precisa e concreta contestata all’odierno appellante nel capo 2 di
imputazione e cioè il reimpiego di denaro proveniente dall’associazione
mafiosa coincide pressocchè interamente con la condotta di cui al capo sub
16 in ordine alla quale il Tribunale aveva ritenuto di assolvere Altadonna
con la formula “perchè il fatto non sussiste”, appare incomprensibile il
motivo per cui lo stesso Giudice fosse pervenuto a conclusioni diverse in
ordine al reato associativo, tanto più che non vi erano altre condotte
meritevoli di rilevanza penale.
Al riguardo, ritiene la Corte che correttamente il primo giudice, all’esito di
un’ampia disamina delle risultanze processuali cui si rimanda, è pervenuta
all’assoluzione dell’Altadonna dall’imputazione di riciclaggio aggravato in
concorso ed impiego di capitali di provenienza illecita, osservando come
l’Ufficio del PM fosse pervenuto alla formulazione di detta imputazione
sulla base di un’interpretazione del contenuto delle conversazioni
intercettate ampiamente smentita da taluni specifici passaggi testuali di tali
conversazioni, suffragati peraltro da altre concordanti risultanze probatorie.
131 Al riguardo basta considerare – ha osservato il primo giudice – che secondo
la ricostruzione accusatoria, dal complesso delle conversazioni intercorse
tra il Conigliaro e il Pipitone Vincenzo riguardanti il terreno ubicato in
località Predicatore, si desumerebbe che gli appartenenti alla famiglia
mafiosa di Carini – in particolare, oltre agli stessi interlocutori, anche
Angelo Gallina e Vincenzo Vallelunga - avevano collettivamente effettuato
un cospicuo investimento immobiliare mediante l’acquisizione occulta del
fondo,
solo
formalmente
riconducibile
alla
titolarità
esclusiva
dell’Altadonna, utilizzando denaro prelevato, in tutto o in parte, da una
sorta di “cassa comune”, gestita dal Pipitone.
Secondo tale impostazione le continue richieste di denaro che, come
risultava dalle conversazioni intercettate, il Vallelunga aveva rivolto ad
Altadonna (e di cui il Pipitone si doleva, stigmatizzando il comportamento
del suo sodale) avrebbero trovato fondamento in un impellente bisogno di
liquidità in cui versava lo stesso Vallelunga che lo avrebbe indotto ad
abbandonare la cordata al fine di ottenere la restituzione delle somme
personalmente investite nell’acquisto del terreno di 160.000 metri quadri
sul quale
era prevista la realizzazione di un
complesso turistico-
alberghiero.
Sempre secondo l’ipotesi accusatoria, tutti i componenti della famiglia di
Carini coinvolti nell’investimento avrebbero fatto affidamento su un
consistente “ritorno” economico dalla vendita del fondo, che nel periodo
interessato dalle intercettazioni era al centro di numerose trattative.
Ed invero, una volta perfezionata la vendita dell’area, Altadonna avrebbe
dovuto consegnare al Pipitone ed alla famiglia mafiosa di Carini l’ingente
profitto ricavato da tale operazione speculativa.
Il giudice di prime cure, all’esito di una più attenta valutazione delle
risultanze processuali, ha però ritenuto del tutto infondata la prospettazione
accusatoria.
Al riguardo, è stato osservato come, alla stregua della documentazione
prodotta, si fosse manifestata tutt’altro che peregrina la tesi difensiva.
132 L’Altadonna
aveva
sostenuto,
infatti,
che
l’interpretazione
delle
conversazioni intercettate operata dall’Ufficio del PM costituiva il frutto di
un palese equivoco.
Egli, infatti, aveva acquistato il terreno in questione utilizzando risorse
proprie, derivanti dai profitti ricavati da precedenti operazioni immobiliari,
e stipulando un mutuo di 750.000 euro. Inoltre, le somme di denaro di cui
si discute nelle conversazioni captate altro non erano, in realtà, che una
sorta di “buonuscita” reclamata dal Vallelunga, dal Gallina e dal Conigliaro
i quali, nella loro comune qualità di mezzadri, avevano coltivato da
quaranta anni diverse porzioni dell’area in questione.
Secondo l’imputato , in sostanza, i summenzionati soggetti, tutti esponenti
del locale sodalizio, avevano chiesto ed alla fine ottenuto, in cambio della
liberazione del fondo, che fosse loro corrisposta una somma complessiva
pari a quattrocento milioni di lire, avente in concreto natura estorsiva, poi
effettivamente versata da lui nelle mani del Pipitone e del Conigliaro in
piccole tranches, fino al raggiungimento dell’importo pattuito.
Fatta questa premessa, il Tribunale ha osservato come, in effetti, la
circostanza che
Conigliaro, Gallina e Vallelunga fossero titolari di un
rapporto di mezzadria sul fondo già appartenuto agli eredi Chiarelli La
Lumia e avessero abusivamente protratto la loro presenza nell’area,
nonostante l’avvenuta cessione del terreno, costituisse un dato oggettivo,
dall’accusa pretermesso nella ricostruzione accusatoria e comunque
provato, oltre che dai documenti acquisiti agli atti, dalle deposizioni del
teste Sciarrino, dante causa dell’imputato, e dal teste Greco, legale che
aveva curato in sede giudiziaria gli interessi degli eredi Chiarelli La Lumia.
Orbene, i giudici di prime cure avevano rilevato come l’assunto difensivo,
peraltro già sorretto da prove testimoniali e documentali, fosse
ulteriormente suffragato dal contenuto delle conversazioni intercettate in
quanto, da un esame più approfondito di queste, era possibile cogliere
numerosi riferimenti testuali in grado di avvalorare l’assunto difensivo.
133 Ed invero, l’ascolto delle conversazioni evidenziava innanzitutto che il
Pipitone criticava aspramente il comportamento del Vallelunga , che
pretendeva l’immediata dazione di una somma di denaro dall’Altadonna,
circostanza questa che rendeva già di per sé poco verosimile che si trattasse
di un comune investimento effettuato dagli esponenti della famiglia mafiosa
di Carini dietro lo schermo dell’Altadonna, non comprendendosi il motivo
per cui tale richiesta fosse stata rivolta al solo odierno imputato se
effettivamente si fosse trattato di una operazione immobiliare per così dire
cumulativa.
Inoltre, la tesi accusatoria si poneva in netto contrasto logico con il
passaggio di una conversazione nel corso della quale lo stesso Pipitone
riferisce di avere detto al Vallelunga di non sapere se “Lorenzo” (cioè
l’odierno imputato) aveva concesso qualche pezzo di terreno ad “Angelo”
(cioè a Conigliaro), frase questa che lasciava presupporre che Altadonna
fosse l’esclusivo dominus del fondo.
Tale interpretazione appariva peraltro ulteriormente avvalorata da una frase
del Pipitone del seguente tenore: “quello Lorenzo.. quello che vuole fare
delle sue cose.. è padrone di farlo”immediatamente dopo seguita “ Ma lì
con noi è tutto un altro, deve prendere ottocento milioni e me li deve dare!
Lui, Angelo!” (in un altro punto della conversazione afferma che si tratta in
realtà di quattrocento milioni), dovendosi evidenziare anche il passaggio
seguente del seguente tenore “come li dovete dividere è un problema tra te
ed Angelo gli ho detto, basta!”, frase quest’ultima dalla quale è agevole
desumere che il reggente della famiglia di Carini non era personalmente
interessato alla ripartizione della somma.
Ed ancora più chiaro era il brano successivo, nel quale il Pipitone, dopo
avere ribadito la propria estraneità al problema della suddivisione della
somma di denaro, affermava “ti dico una cosa.. se il terreno era mio..
..(inc.).. tu con sessanta milioni eri pagato!”, pronunciando parole
oggettivamente incompatibili con la tesi accusatoria che presupponeva la
134 sua posizione di comproprietario occulto del terreno e di regista
dell’investimento immobiliare.
Ma vi è di più.
La versione dei fatti fornita da Altadonna circa un diverbio avvenuto con il
Vallelunga, colto mentre stava facendo eseguire lavori di recinzione di una
porzione di terreno che affermava essere di sua pertinenza e non aveva
intenzione di abbandonare, risultava confermata dalle dichiarazioni di
Privitera Saverio, testimone oculare dell’episodio, che aveva infatti riferito
che il Vallelunga gli chiese un giorno di effettuare la misurazione della
porzione di fondo nella sua disponibilità, in quanto aveva intenzione di
delimitare i confini e “chiudere” il podere.
Mentre erano in corso le operazioni di misurazione e di delimitazione dei
confini (queste ultime eseguite a mezzo di un escavatore), era sopraggiunto
però l’Altadonna che aveva minacciato di richiedere l’intervento dei
Carabinieri.
Da ultimo, i primi giudici osservavano come la ricostruzione accusatoria
non avesse trovato la benché minima conferma neppure nelle dichiarazioni
del collaborante Pulizzi, immediato successore di Vincenzo Pipitone nel
ruolo di reggente della famiglia mafiosa di Carini, che sulla specifica
vicenda in esame riferiva come l’Altadonna avesse consegnato al Pipitone
la somma di denaro necessaria per “liquidare” i mezzadri presenti sul fondo
da molti anni, cioè il Conigliaro, il Gallina
e il Vallelunga, tutti
appartenenti alla famiglia mafiosa di Carini, i quali si erano rivolti allo
stesso Pipitone per risolvere la questione.
Nelle dichiarazioni del Pulizzi, dunque, non vi è alcun cenno a un presunto
investimento immobiliare operato dall’Altadonna, quale prestanome di una
ipotetica cordata di mafiosi carinesi, secondo la ricostruzione dei fatti
manifestamente errata sostenuta dall’Ufficio del PM sulla base di una non
corretta interpretazione delle conversazioni intercettate.
Riconosciuto che nella vicenda riguardante il fondo già appartenuto agli
eredi Chiarelli La Lumia fosse da escludere qualsiasi responsabilità
135 dell’Altadonna in ordine al contestato reato di cui agli artt. 648 bis e 648 ter
c.p., i primi giudici hanno tuttavia osservato come, avuto riguardo al
contenuto della conversazione intercettata il 9 giugno 2003 nella villa di
Pipitone fra quest’ultimo ed il Conigliaro (vds. pagg. 346 e ss della
impugnata sentenza) vi fossero dei riferimenti ad una ventilata
partecipazione dell’Altadonna ad un’asta giudiziaria per l’acquisto di beni
immobili con somme di denaro messe a disposizione dalla famiglia mafiosa
di Carini e altra operazione riguardante l’acquisto del magazzino di tale
Buzzetta.
In entrambi i casi non si era andati oltre la fase progettuale (nel primo caso,
che riguardava l’acquisto di un capannone, in quanto lo stesso era stato
acquistato da tale Ruffino ad un prezzo superiore all’entità della somma
messa a disposizione dell’Altadonna; nel secondo caso perché la somma
stanziata non era stata sufficiente) e pertanto non ricorrevano i presupposti
per la configurabilità delle fattispecie criminose di cui agli artt. 648 bis e
648 ter c.p., ma da essi poteva quantomeno desumersi “una generica
disponibilità (dell’Altadonna) a riciclare capitali di origine illecita, in
quanto derivanti dalle attività dell’associazione criminale”, condotta questa
di cui bene si sarebbe potuto tenere conto in ordine al contestato reato di
concorso esterno in associazione mafiosa.
Orbene, non appare sussistere il benché minimo margine di dubbio che, ove
provata, una eventuale partecipazione dell’Altadonna ad un’asta giudiziaria
avendo la disponibilità di ingenti somme di denaro messegli a disposizione
da esponenti di spicco dell’associazione mafiosa, bene avrebbe potuto
concretare, ancorché il bene fosse stato per mera ipotesi aggiudicato ad
altro partecipante, quel contributo atipico di rilevante efficacia causale
richiesto in tema di concorso esterno in associazione mafiosa.
In realtà, come riconosce lo stesso Tribunale, nessun elemento risulta
acquisito agli atti dal quale possa concretamente evincersi sia che
all’Altadonna siano state effettivamente consegnate delle ingenti somme di
denaro (dalle frasi pronunziate dal Pipitone, in alcuni passaggi assai poco
136 comprensibili si comprende che vi erano state delle “trattative” relative al
capannone poi acquistato dal Ruffino con un “curatore”, che pretendeva un
“regalo” di cinquanta milioni di lire, ma che poi, quando vi era stata l’asta,
l’Altadonna, al quale era stato chiesto di attivarsi, non si era presentato) sia
il ruolo dall’odierno imputato effettivamente svolto nella vicenda.
Ma se così è, i riferimenti, peraltro confusi, all’Altadonna con riferimento
alle due vicende in discussione non consentono, a giudizio di questa Corte,
in mancanza di qualsivoglia altra acquisizione probatoria ancorché
semplicemente riguardante l’effettivo compimento delle operazioni
immobiliari in questione, di ritenere sussistente la condotta attribuita ad
Altadonna.
Non stupisce pertanto che il Tribunale abbia parlato di “generica
disponbilità” dell’Altadonna a venire incontro, quale prestanome, alle
esigenze della consorteria mafiosa in operazioni tendenti alla acquisizione
di immobili con capitali illeciti.
Quel che è certo però è che non è sufficiente, com’è noto, una “generica
disponibilità” a riciclare capitali di provenienza illecita compiere
per
integrare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa se della
condotta in questione non risulta acquisito al processo alcun elemento in
grado di delineare l’oggetto dell’operazione in cui sarebbe stato coinvolto
l’imputato, tanto più se nel caso in esame assai poco intelligibile appaia il
contenuto della intercettazione non consentendo in alcun modo di
comprendere se effettivamente l’Altadonna abbia ricevuto in consegna le
somme in questione ed il motivo per cui non ebbe a partecipare all’asta.
Né può ritenersi condivisibile l’assunto del Tribunale che, in modo davvero
contraddittorio, dopo avere ritenuto non dimostrata l’accusa di riciclaggio,
per integrare quella di concorso esterno in associazione mafiosa fondata su
“una generica disponibilità a riciclare capitali di provenienza illecita”
evidenzia il contenuto di una conversazione intercettata del 12 aprile 2004
(successiva, pertanto, a quelle fra Pipitone e Conigliaro) nel corso della
quale il “sensale” mafioso Gottuso parlando con il suo collega Panci della
137 vicenda del terreno di località Predicatore ad un certo punto afferma:
“Altadonna non è che è Altadonna..”.
Tale frase viene dal primo giudice interpretata
non già come
un’informazione di cui il Gottuso dispone in merito alla specifica vicenda
del terreno di 160.000 m.q. più volte menzionato , ma ad una generica
disponibilità dell’Altadonna a fare da prestanome per conto degli esponenti
mafiosi di Carini.
Ritiene la Corte che, lungi dal dimostrare alcunché nel senso indicato dal
Tribunale, la frase in questione (che sembra invece riferirsi proprio al
terreno ubicato in contrada Predicatore) rivela soltanto che da parte di
soggetti, peraltro estranei al contesto ambientale di Carini, venuti a
conoscenza del fatto che Altadonna ha posto in vendita l’immobile in
questione o comunque che esiste questa possibilità, esprimono il
convincimento che dietro la figura dell’imprenditore carinese vi fossero
esponenti di “cosa nostra” in grado di pilotare o comunque condizionare
tale operazione immobiliare.
I primi giudici, alla stregua soprattutto del contenuto delle conversazioni
intercettate ma anche di altre risultanze processuali di cui si è detto in
precedenza (vicenda Di Trapani, “pizzini”trovati nella disponibilità dei Lo
Piccolo, etc), hanno affermato che l’istruzione dibattimentale avrebbe fatto
registrare una indubbia concordanza delle acquisizioni istruttorie circa
l’esistenza di stabili rapporti tra Altadonna Lorenzo e l’organizzazione
mafiosa denominata “cosa nostra”, dimostrati, per l’appunto, dalla
“accertata disponibilità” dell’odierno imputato ad effettuare rilevanti
investimenti immobiliari per conto della famiglia mafiosa di Carini.
Orbene, ritiene la Corte che la compiuta istruttoria dibattimentale ha solo
dimostrato in modo inequivocabile l’esistenza di rapporti fra l’odierno
imputato e taluni esponenti mafiosi, ma che nulla sia emerso, invece, in
modo certo ed inconfutabile in ordine a specifici “favori” che l’Altadonna
avrebbe fatto alla consorteria, essendo solo queste (ove ovviamente si tratti
di “favori” aventi rilevanza causale per la vita o il rafforzamento del
138 sodalizio mafioso) le condotte in grado di integrare il reato di concorso
esterno in associazione mafiosa.
Le variegate vicende emerse nel corso delle indagini che hanno dato luogo
al presente procedimento, fondato come già si è avuto modo di rilevare su
una serie di intercettazioni ambientali eseguite nell’ambito di diversi
procedimenti, pur con l’evidente lacuna costituita da un mancato
approfondimento investigativo che andasse oltre il mero contenuto delle
conversazioni intercettate e l’interpretazione fallace di alcune di esse, come
lo stesso primo giudice ha evidenziato,
hanno fornito comunque uno
“spaccato” davvero desolante di una parte dell’imprenditoria siciliana, di
quella almeno che opera nel settore immobiliare.
Ed invero, le intercettazioni in questione forniscono senza ombra di dubbio
l’immagine di una imprenditoria le cui più importanti operazioni debbono
necessariamente passare attraverso il filtro mafioso.
In altri termini, se è vero che la riscossione del pizzo è la principale
vessazione che subiscono gli esercizi commerciali, gli imprenditori operanti
nel settore edile (non importa se si tratta di opere pubbliche o private)
debbono necessariamente sottostare a regole sicuramente più ferree,
essendo di ogni evidenza che ciascun imprenditore se vuole operare “sul
mercato”, deve avere un proprio punto di riferimento mafioso.
Se infatti un determinato imprenditore deve operare un determinato
investimento immobiliare (la costruzione di un edificio, pubblico o privato
che sia) o eseguire una determinata operazione immobiliare (ad esempio la
vendita o l’acquisto di un’area) in territorio diverso da quello in cui opera il
suo referente mafioso dovrà rivolgersi a quest’ultimo affinché si occupi
della cd. “messa a posto”, pattuendo con i mafiosi della zona competente la
somma di denaro che dovrà essere corrisposta e spesso anche
l’individuazione dei fornitori (ad esempio del calcestruzzo e del materiale
edile necessario per la relalizzazione dell’opera).
Ne consegue, come paradossalmente è normale che avvenga, che si crei ad
un certo punto un rapporto di “amicizia” fra l’imprenditore ed il suo
139 referente mafioso, come nella vicenda processuale in esame appare esistere,
ad esempio, fra l’imprenditore Priano ed il suo referente mafioso Di Blasi
della “famiglia” di Pallavicino, che lo “mette a posto” con la “famiglia” di
Carini, oppure fra l’imprenditore Billeci ed il suo referente mafioso Di
Napoli del sodalizio mafioso Noce-Cruillas, che lo “mette a posto “ con la
famiglia di Carini.
Ciò si evince chiaramente dalle intercettazioni ambientali cui prendono
parte gli imprenditori in questione che davvero con un certo sforzo,
quantomeno sotto un profilo etico, possono definirsi vessati, se è vero
com’è vero che sono detti personaggi a sollecitare l’intervento dei loro
referenti mafiosi e, talora, a suggerire ai loro referenti i comportamenti da
seguire, per ridurre al minimo i costi della “messa a posto”.
Quel che emerge è, come si è detto, un quadro davvero desolante perché
mostra l’immagine di una imprenditoria fortemente inquinata dalla presenza
mafiosa, una imprenditoria peraltro che non agisce secondo le regole del
libero mercato ma si affida quasi sempre ad intermediari mafiosi (i vari
Gottuso, Panci, etc) che puntualmente intervengono per la vendita o
l’acquisto di un’area edificabile.
Orbene, nel processo in esame correttamente
il PM ha ritenuto gli
imprenditori Billeci, Priano, Cutietta etc. vittime di fatti estorsivi, pur
essendo emerso con ogni evidenza l’esistenza di rapporti “amicali” fra
costoro ed i loro referenti mafiosi.
E non vi è dubbio, come il primo giudice in definitiva riconosce, che anche
Altadonna Lorenzo avrebbe dovuto essere reputato vittima di una
estorsione, peraltro assai consistente, se l’Ufficio del PM avesse
correttamente interpretato le intercettazioni ambientali concernenti la
vicenda del fondo Predicatore ed avesse compiuto quegli approfondimenti
di indagine che gli avrebbero consentito di accertare che il Vallelunga (al
pari dei vari Conigliaro, Gallina etc) pretendeva, senza averne titolo alcuno
in quanto mezzadro abusivo, una “buonuscita” per lasciare libero una
140 porzione del fondo Predicatore dall’odierno imputato regolarmente
acquistata, senza il contributo economico della locale “famiglia” mafiosa.
Tanto premesso, non può davvero mettersi in dubbio, nella vicenda che ci
occupa, l’esistenza di un consolidato rapporto “amicale” fra l’odierno
imputato ed il reggente della “famiglia” mafiosa di Carini, Vincenzo
Pipitone, tanto più che lo stesso Altadonna non lo mai negato, affermando
anzi di non avere nulla di cui pentirsi per averlo coltivato, come da ultimo
ha affermato all’udienza del 23 dicembre 2010 nel corso delle sue
dichiarazioni spontanee.
Ed invero, appare appena il caso di ricordare il modo in cui il Pipitone parla
del suo amico “Lorenzo” per rendersi conto del fatto che fra i due esiste
davvero un rapporto amicale, non trascurando però di evidenziare come, a
conferma di quanto si sostiene nei motivi di impugnazione,
dalle
intercettazioni emerga uno specifico interesse del boss di Carini e della
locale famiglia alla vendita del terreno di fondo Predicatore, da tale
operazione immobiliare ritenendo di potere ricavare una consistente
tangente.
Al riguardo, basta leggere il passaggio della conversazione del 4 luglio
2003 fra Pipitone e Conigliaro trascritto alle pagine 308 e ss della
impugnata sentenza per rendersi conto di ciò e per evidenziare il forte
fastidio con cui il Pipitone commenta le reiterate “sollecitazioni” rivolte dal
cugino Vallelunga all’odierno imputato per conseguire l’immediata
corresponsione della “buonuscita”, rilevando come tale insistenza potesse
nuocere all’Altadonna, il quale peraltro aveva pagato soltanto la metà del
corrispettivo dovuto per l’acquisto.
D’altra parte, appare sufficiente leggere con attenzione il contenuto delle
conversazioni intercettate per rendersi conto che il Pipitone, che
dell’odierno imputato è il referente mafioso, è perfettamente a conoscenza
dei movimenti del suo “compare” Altadonna tesi alla vendita dell’immobile
e lo tutela, facendo di tutto per stemperare le pretese dei “mezzadri”,
attirandosi anche qualche critica da parte di chi, come Enzino Vallelunga,
141 sospetta addirittura che il suo interesse sia dovuto ad un rapporto di società
di fatto (“Rice ma tu chi cià docu rintra ? Che si sociu i Lorienzu mi fa ?
…Ci rissi…sociu no…ma a diriti a verità mi risse…rice..compà quannu
reci mila metri i terreno tu stacchi e tu pigghi”).
E non vi è dubbio che si tratta di una giustificazione beffarda che il Pipitone
fornisce al Vallelunga, come si ricava dal successivo scambio di battute fra
lo stesso Pipitone e il Conigliaro che commentano come la risposta data dal
primo al Vallelunga fosse soltanto una boutade (Vincenzo: “Mica è biuru”;
Angelo “U sacciu ca unn’è bieru”).
Premesso, pertanto, che questa Corte non dubita affatto dell’esistenza di
rapporti più o meno amicali fra l’odierno imputato ed il Pipitone, al punto
che il primo diventa padrino di cresima del figlio del secondo, e che anzi
ritiene, avuto riguardo al chiaro tenore delle conversazioni intercettate, che
fra i due sia esistito un rapporto di frequentazione o comunque di
comunicazione ben superiore ai soli due incontri documentati dagli
inquirenti in un considerevole lasso di tempo, appare necessario a questo
punto chiedersi quali siano stati i reciproci vantaggi che i predetti (il
Pipitone ovviamente in nome e per conto del sodalizio di Carini) si sono
scambiati e soprattutto se i “favori” fatti dall’Altadonna alla “famiglia”
locale possano ritenersi, con valutazione ex post, aventi rilevanza causale
per la vita o il rafforzamento del sodalizio.
Orbene, se appena si fa mente locale alla natura dei favori, nel presente
processo accertati, che l’odierno imputato, su sollecitazione del Pipitone,
ha fatto a esponenti mafiosi come Franco Inzerillo e Sandro Mannino,
concedendo a costoro una riduzione del prezzo di acquisto di due lotti di
terreno, oppure alla fornitura di vestiti alla fidanzata di Sandro Lo Piccolo,
appare subito evidente la palese irrilevanza causale dei medesimi nei
termini richiesti dalla nota sentenza Mannino del 12.7.2005, irrilevanza che
rimane tale anche qualora si annoveri fra tali favori anche la riduzione del
prezzo di acquisto di un lotto di terreno fatta a Claudio Lo Piccolo, di cui ha
142 riferito, producendo documentazione, la difesa del prevenuto senza che tale
vicenda fosse stata precedentemente acclarata.
Né ritiene la Corte che, a dimostrazione dell’esistenza fra la famiglia
mafiosa di Carini e l’Altadonna di un “sinallagma criminoso” secondo cui
l’odierno imputato avrebbe operato sistematicamente in favore del Pipitone
e dei suoi sodali, ricevendo da questi ultimi aiuti che gli avrebbero
consentito l’acquisizione di una posizione dominante sul territorio di Carini,
possa essere menzionata la vicenda relativa all’imprenditore Trapani.
Ha rilevato il primo giudice che nell’estate del 2003, l’Altadonna, come
accertato dai servizi di videoripresa, ebbe a recarsi almeno in due occasioni
nella villa del Pipitone e che in una di queste occasioni la sua presenza nello
stesso luogo è comprovata anche dalla deposizione dell’imprenditore
Trapani.
Costui ha infatti dichiarato di essere stato contattato da Ciccio Di Blasi,
“sensale” di Pallavicino, il quale lo aveva invitato a recarsi insieme a lui
nella villa di Vincenzo Pipitone sita in Villagrazia di Carini, in quanto
quest’ultimo, persona “importante” del luogo, voleva parlargli.
All’interno della villa gli furono presentati il Pipitone ed il costruttore
Altadonna. Dopo i convenevoli del caso il Pipitone gli disse di avere saputo
che proprio in Carini avrebbe dovuto costruire lo stabilimento della sua
seconda azienda, denominata Medilgab srl, e che avrebbe gradito che fosse
l’Altadonna ad eseguire i lavori.
Il Trapani cercò di sottrarsi a tale richiesta, replicando che aveva già
concluso il contratto di appalto con altra ditta denominata CPC.
In un primo momento il Pipitone aveva controreplicato assumendo di avere
la possibilità di intervenire sulla CPC per farla recedere, ma che l’interesse
del Pipitone era improvvisamente svanito allorchè aveva saputo che si
trattava di un appalto del valore di circa ottocentomila euro e non già di tre
o quattro milioni di euro come ritenuto.
Durante la conversazione l’Altadonna non intervenne, ma dopo pochi giorni
si presentò negli uffici del Trapani per discutere di alcuni aspetti tecnici;
143 anche in questa occasione il Trapani prese tempo e, non avendo l’odierno
prevenuto presentato alcun preventivo né dato notizie di sé, i lavori di
costruzione furono realizzati dalla CPC.
Orbene, la vicenda appare senz’altro indicativa della esistenza di un
rapporto amicale del capo mafia di Carini nei confronti di Altadonna.
La circostanza però che l’intervento in favore di Altadonna per assicurargli
un appalto sia stato l’unico documentato dalle indagini e che nei confronti
del Trapani non vi sia stato alcun condizionamento, al di là della
circostanza che il valore dell’appalto sia stato ritenuto poco appetibile dal
Pipitone ed ovviamente dallo stesso Altadonna, inconfutabilmente dimostra
che l’odierno imputato non godeva affatto di una posizione dominante nel
territorio di Carini, come peraltro sarebbe emerso dalle compiute
intercettazioni che in quel lasso di tempo monitorarono le attività della
cosca di Carini.
La presenza in Carini di vari imprenditori non originari del luogo ma
“messi a posto” da esponenti di famiglie appartenenti a diversi contesti
territoriali (Billeci, Priano, lo stesso Trapani Marcello, etc) svaluta
comunque fortemente la valenza indiziaria dell’episodio narrato.
D’altra parte, le precise e puntuali dichiarazioni di Pulizzi Gaspare, che a
dire dello stesso Tribunale rappresenta nel presente processo “una fonte
accusatoria particolarmente qualificata”, ha escluso l’esistenza fra la
famiglia di Carini e l’Altadonna di un rapporto di affari e, a specifica
domanda del PM , riferisce soltanto di un rapporto di amicizia esistente tra
l’Altadonna (soprannominato u‟ pacchione) e il Pipitone, rievocando
semplicemente l’episodio che vede gli esponenti mafiosi Franco Inzerillo e
Sandro Mannino rivolgersi allo stesso Pipitone per ottenere dall’odierno
imputato una riduzione del prezzo di acquisto di due lotti di terreno.
Dunque, se il Pulizzi che, per il ruolo svolto in seno alla “famiglia” di
Carini di cui, dopo l’arresto del Pipitone sarebbe divenuto reggente, ben
avrebbe dovuto essere a conoscenza di eventuali cointeressenze del suo
sodalizio
di
appartenenza
nel
144 patrimonio
dell’Altadonna
esclude
recisamente tale circostanza, e se nulla di significativo è in grado di riferire
il Franzese, reggente della “famiglia” di Partanna Mondello, sul conto di
Altadonna che sa soltanto essere un imprenditore edile, assai poco
significative si rivelano le dichiarazioni del collaborante Spataro.
Questi è solo in grado di riferire che Altadonna era soggetto “vicino” agli
esponenti mafiosi di Carini, in particolare a Giovanni Pipitone, e di
Torretta, in particolare a Calogero Mannino, senza tuttavia esplicitare in
quali termini si sia esplicitata tale “vicinanza”.
Ed invero, non appare ultroneo sottolineare che il riferimento al Mannino,
affiliato alla famiglia mafiosa di Torretta, riveste scarsa rilevanza
probatoria, apparendo ormai acquisita agli atti la circostanza che il
documentato incontro di Altadonna presso il suo negozio “Stock House” di
Carini con il predetto Mannino e Inzerillo Matteo, quest’ultimo esponente
della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, appare giustificato dalla vendita
di due lotti di terreno che l’odierno imputato operò ai medesimi, praticando
peraltro a costoro, su richiesta di Vincenzo Pipitone, uno sconto sul prezzo.
Quanto all’intervento che Altadonna avrebbe effettuato nei confronti dello
Spataro per perorare la causa di Giovanni Pipitone, al fine di fare recuperare
a quest’ultimo un credito vantato nei confronti di Aiello Epifanio, non è
dato comprendere, ai fini che in questa sede rilevano, quale sia stata la
rilevanza del “contributo” fornito dall’imputato, che sembrerebbe nella
vicenda avere svolto il ruolo di semplice nuncius del Pipitone.
Non può pertanto in alcun modo condividersi l’assunto dei primi giudici
secondo cui l’episodio narrato rivestirebbe una particolare valenza
accusatoria, rappresentativa della disponibilità offerta dall’odierno imputato
ad assecondare gli interessi di “cosa nostra” spendendosi personalmente per
il perseguimento degli interessi dell’associazione criminale.
Ed invero, è davvero manifesta la inconsistenza ai fini che in questa sede
rilevano dell’asserito intervento dell’Altadonna che,
riguardando la
definizione di un credito personale vantato dal Pipitone nei confronti di
altro soggetto, non è dato davvero comprendere quale rilevanza abbia
145 potuto avere ai fini del rafforzamento del sodalizio di cui il Pipitone faceva
parte.
Va, a questo punto preso in esame,
il contenuto della conversazione
intercorsa tra Vincenzo Brusca (reggente della “famiglia” di Torretta) e il
genero Di Maggio Antonino in data 11 giugno 2004, altro episodio da cui il
primo giudice sembra desumere ulteriori, significativi elementi in ordine
alla contiguità dell’odierno imputato ad ambienti mafiosi.
Nella circostanza i due dapprima si intrattengono a parlare di un progettato
attentato incendiario ai danni di tale Mimmo Caruso di Capaci (trattasi di
soggetto che dagli inquirenti viene identificato in Caruso Domenico,
consigliere comunale del comune di Torretta) e, ad un certo punto, il Brusca
riferisce al Di Maggio che aveva chiesto a Lorenzo Altadonna, indicato
come “un amico vero”, di parlare con il Caruso (consigliere comunale di
Torretta) e con il Puccio (già sindaco di Capaci ed amico intimo del Caruso)
per agevolare l’approvazione di un certo progetto edilizio che interessa la
locale famiglia mafiosa.
L’Altadonna aveva ottemperato alla richiesta del Brusca, parlando con i due
soggetti in questione, pur senza ottenere alcuna risposta concreta, e
successivamente gli aveva raccontato che i due gli avevano domandato chi
lo avesse mandato a parlare con loro.
Altadonna aveva risposto che si era trattato di una sua iniziativa personale,
atteggiamento questo che il Brusca nel corso della conversazione si
sofferma a lodare, avendo l’odierno imputato saputo mantenere il riserbo
sulla reale paternità dell‟iniziativa.
La difesa di Altadonna ha evidenziato la irrilevanza dell’intera vicenda sia
perché l’Altadonna, comunque, non aveva ottenuto alcuna risposta, sia
perché non risulterebbe provato se l’intervento vi sia effettivamente stato,
come il Brusca vorrebbe far credere al Di Maggio, posto che l’odierno
imputato non aveva alcun rapporto con il Puccio (quest’ultimo, infatti,
lavorava presso la Coop e non presso lo Stock House, come assume il
Brusca nel corso della conversazione intercettata).
146 Ciò posto, nel presente giudizio risulta acquisita copia della sentenza resa in
data 23 dicembre 2008 dal GUP del Tribunale di Palermo nei confronti di
Bordonaro Rosario + 11, irrevocabile nei confronti del citato Di Maggio
Antonino che è stato assolto dal reato di cui all’art. 416 bis c.p. perché il
fatto non sussiste.
Orbene, la sentenza in questione in cui la vicenda edilizia di cui si parla nel
corso della conversazione dell’11 giugno 2004 fra il Brusca ed il Di
Maggio viene diffusamente trattata, costituendo peraltro il nucleo principale
dell’accusa nei confronti del Di Maggio, consente di far completa chiarezza
sui fatti, evidenziando come in realtà l’intervento effettuato da Altadonna
nei confronti degli amministratori Caruso e Puccio (ammesso che
effettivamente vi sia stato) ha riguardato una questione edilizia per così
dire privata, totalmente estranea agli interessi del sodalizio mafioso di
Torretta.
Orbene, i fatti accertati nella citata sentenza resa dal GUP del Tribunale di
Palermo sono i seguenti.
Di Maggio Antonino, genero di Brusca Vincenzo ma del tutto estraneo alla
consorteria mafiosa, come concordemente riferito dai collaboratori di
giustizia Pulizzi, Nuccio e Franzese, era fortemente interessato alla
approvazione di un progetto edilizio relativo alla costruzione di un
fabbricato che riguardava la sorella ed il cognato, Scalici Antonino.
Ed invero, i coniugi Scalici erano comittenti della edificazione di un
immobile in corso in via Trento, agro di Torretta, i cui lavori erano stati
sospesi, con provvedimento comunale emesso in data 26.5.2004, a seguito
di segnalazione di costruzione abusiva.
Il Di Maggio aveva appreso che ad ostacolare la pratica edilizia della
sorella era un consigliere comunale di Torretta, a nome appunto di Caruso
Domenico, ed era andato su tutte le furie al punto di ripromettersi di
realizzare un attentato incendiario nei confronti di quest’ultimo non appena
fosse apparso certo che il Caruso stava effettivamente ostacolando la pratica
in questione.
147 Tale proposito veniva per l’appunto esternato dal Di Maggio al suocero,
dopo che questi gli aveva riferito che non aveva sortito alcun risultato
concreto la raccomandazione che al Caruso era stata fatta dall’Altadonna
che aveva contattato il citato consigliere comunale per il tramite di tale
Puccio.
Ne era seguito uno sfogo del Di Maggio che, consultando l’elenco
telefonico per accertare l’ubicazione della abitazione del Caruso, aveva
esternato la propria volontà di incendiargli l’autovettura.
Nel corso della conversazione intercettata fra il Di Maggio ed il suocero,
quest’ultimo, pur non ostacolando i propositi del genero, gli suggeriva però,
con atteggiamento risoluto (“Qua al paese no !”) di non compiere questa
eventuale azione criminale nel territorio di Torretta.
E questa espressione – ha osservato in proposito il GUP – “se può
manifestare l’esigenza di preservare il territorio di Torretta “gestito” dal
Brusca dall’attività di investigazione prevedibilmente conseguente alla
commissione del grave atto intimidatorio programmato in quella sede, può,
altrettanto legittimamente, essere letta come una volontà di segnare una
demarcazione netta tra questa “vendetta personale” del Di Maggio e gli
affari mafiosi riferibili al Brusca e al suo gruppo locale”.
In tal senso – ha proseguito il GUP - “depone il fatto che l’imputato non
abbia fatto neppure cenno a possibili complici, un dato che avvalora
l’ipotesi che si trattava di un’idea strutturata per soddisfare quel sentimento
di odio coltivato in quel momento a livello personale dall’imputato stesso.
Senza trascurare che questo progetto minatorio è rimasto puramente teorico,
dal momento che (fortunatamente) nessun danneggiamento è stato
compiuto contro il Caruso, tanto meno in danno della sua autovettura”.
Né – ha pure osservato il GUP – può attribuirsi alla vicenda in esame una
valenza particolare, tale da inquadrarla entro la previsione normativa
dell’art. 416 bis c.p., la circostanza che sempre nel colloquio in esame si
facesse cenno ad un pregresso tentativo inutilmente esperito da tale
Altadonna Lorenzo, volto ad indurre il Caruso ad essere “più malleabile”,
148 posto che non risulta che questo Altadonna avesse “credenziali”criminose o
fosse, comunque, vicino al gruppo mafioso del Brusca, “sempre dando per
buono che un simile interessamento ci sia davvero stato”.
Ciò posto, ritiene la Corte che non siano necessari ulteriori commenti per
evidenziare come l’eventuale intervento dell’Altadonna, ancorché pilotato
dal Brusca, che (ammesso vi sia stato) non ha comunque prodotto alcun
effetto, come rivela il Brusca medesimo nel corso della conversazione
intercettata, riguardando una raccomandazione afferente una questione
privata del tutto estranea agli interessi della consorteria mafiosa possa in
alcun modo valutarsi a carico dell’odierno imputato.
Resta da trattare il contenuto della conversazione intercorsa il 25 settembre
2003 tra il Pipitone e il Conigliaro, nella parte in cui il primo sottolinea
l’imprudenza del Vallelunga che, reiterando le proprie richieste di denaro
all’Altadonna, non aveva considerato che lo stesso “Lorenzo” godeva della
protezione di “Roberto” (“…Dacci i suoldi e ci rici: Enzino…Lorenzo è
capace di farici sapiri i cose a Roberto..e Roberto un lu buole toccato a
Lorenzo…..Picchì cià fattu favura…però riccillu…Roberto un lu vuole
tuccatu ci rici Lorienzo…Un tu scordare chissà..se ancora un l’hai caputu
un ti permettere mai più..”), posto che questa costituirebbe, secondo il
giudice di prime cure, “la più evidente dimostrazione del diretto
coinvolgimento
dell’Altadonna
nelle
dinamiche
dell’associazione
criminale”.
Orbene, non
vi è il benché minimo dubbio che, ove fosse stata
effettivamente accertata nel processo l’identità della persona indicata con il
nome “Roberto”, che assicura la sua speciale protezione all’Altadonna e
soprattutto se fossero stati accertati i “favura”, cioè i favori, che l’odierno
farebbe o avrebbe fatto a tale esponente mafioso di primissimo piano, di cui
lo stesso Pipitone parla nel corso della conversazione con deferenza mista a
timore, il giudizio espresso dal primo giudice sul conto dell’odierno
imputato sarebbe interamente condivisibile.
149 Assume il Tribunale, infatti, che “ogni residuo dubbio circa l’identità di
“Roberto” sarebbe stato fugato dallo specifico contributo informativo del
Pulizzi, il quale ha dichiarato che con tale pseudonimo veniva appellato
Salvatore Lo Piccolo, capomandamento di San Lorenzo, all’epoca latitante.
Osserva in proposito la Corte che il riferimento operato dal Pipitone,che è
senza ombra di dubbio il referente mafioso dell’imprenditore Altadonna nei
termini in precedenza esposti, ad una entità mafiosa per così dire
“superiore” che proteggerebbe l’Altadonna perché da questi avrebbe
ricevuto favori ha senza dubbio alcuno una certa valenza indiziaria.
Si tratta, in altri, di un riferimento senz’altro inquietante che grava sulla
posizione dell’odierno imputato, ma che non ha trovato, a giudizio della
Corte, una sufficiente integrazione probatoria, non risultando in alcun modo
provato, a esempio, che il cospicuo patrimonio del prevenuto sia in tutto o
in parte riconducibile ad una importante entità mafiosa che ne tutela le
iniziative imprenditoriali o anche soltanto quali siano i “favori” che questa
riceve dall’odierno imputato.
Si è già detto che questa “entità” non è il Pipitone, per i motivi anzidetti, ma
va aggiunto anche che, contrariamente all’assunto del primo giudice, non
può nemmeno essere identificata in Lo Piccolo Salvatore, capo indiscusso
all’epoca dei fatti del mandamento in cui era compresa anche la famiglia di
Carini.
Secondo il giudice di prime cure il mendacio dell’Altadonna, il quale ha
sostenuto di non avere mai conosciuto i Lo Piccolo, sarebbe dimostrato,
innanzitutto, dalla vicenda relativa alle forniture di abbigliamento effettuate
dall’odierno imputato a Cardinale Maria, in quel periodo sentimentalmente
legata a Sandro Lo Piccolo.
In particolare, le due visite della Cardinale nel negozio Stock House,
documentate dal carteggio intercorso tra la donna e Sandro Lo Piccolo,
sono state ammesse dallo stesso imputato, il quale ha peraltro dichiarato di
essere stato preavvisato, al riguardo, da Vincenzo Pipitone il quale aveva,
poi, provveduto al pagamento della merce scelta dalla donna e ciò sebbene
150 l’Altadonna avesse manifestato l’intenzione di fare omaggio allo stesso
Pipitone dei capi di abbigliamento in questione.
Nello
stesso
contesto
andrebbe
collocata
l’esplicita
menzione
dell’Altadonna nei due “pizzini”, sottoposti a sequestro in occasione
dell’arresto dei Lo Piccolo, dai quali emerge l’interessamento di costoro in
una questione relativa a pregressi rapporti di affari tra l’odierno imputato e
l’imprenditore Leonardo, che reclamava la restituzione di una consistente
somma di denaro.
Ciò posto, non appare revocabile in dubbio che gli elementi valorizzati dal
primo giudice al fine di inferirne una presunta vicinanza dell’Altadonna a
Salvatore Lo Piccolo indicato come il “Roberto”, sorta di nume tutelare
dell’odierno imputato dal quale avrebbe ricevuto “favura” sono
palesemente inconsistenti.
Ed invero, è proprio il contenuto della documentazione sequestrata ai Lo
Piccolo che avrebbe dovuto far comprendere che fra questi e l’Altadonna
non vi era mai stato alcun rapporto diretto.
Dalla missiva inviata dalla Cardinale a Sandro Lo Piccolo emerge, infatti,
che ad invitare la donna a recarsi presso lo Stoch House era stato Pipitone
Vincenzo, circostanza questa che si pone in evidente contrasto con la tesi
accusatoria, recepita dal primo giudice, secondo cui l’odierno sarrebbe stato
un protetto dei Lo Piccolo.
Quel che avrebbe dovuto indurre, però, i primi giudici ad escludere che
Altadonna fosse in stretti rapporti con Salvatore Lo Piccolo, è però,
soprattutto, il contenuto dei due “pizzini” trovati in possesso dei Lo Piccolo
al momento del loro arresto.
Premesso, infatti, che fra le centinaia e centinaia di “pizzini” trovati ai due
boss non ve ne è nemmeno uno in cui Altadonna sia destinatario o mittente,
come correttamente osserva la Difesa, non può condividersi la valenza
probatoria attribuita dal Tribunale in ottica accusatoria a due biglietti, per il
cui preciso contenuto si rimanda alla sentenza impugnata, entrambi vergati
da Sandro Lo Piccolo e costituenti con ogni evidenza copia di altri “pizzini”
151 inviati a terzi soggetti (probabilmente operanti in seno al sodalizio di
Carini), in cui veniva affrontato l’argomento di un debito che l’Altadonna
aveva nei confronti della impresa Leonardi.
Al riguardo, osserva la Corte come dal primo giudice assai poca rilevanza
sia stata attribuita alla documentazione prodotta dalla Difesa ed a quanto
riferito dal teste Leonardi Graziano nel corso della sua deposizione.
Ed invero, dalla documentazione acquisita agli atti può desumersi che il
Leonardi, titolare di una impresa che si occupa di costruzioni, aveva
proposto all’Altadonna di fargli vendere il terreno di mq. 160.000 oppure
altro terreno sito in Torretta, all’uopo presentandogli tale Fabio Ghirelli,
titolare di una impresa di costruzioni a Roma.
Il Ghirelli aveva consegnato all’Altadonna, all’atto del preliminare, come
cauzione per l’acquisto del fondo Rizzuti di Torretta, un assegno di euro
100.000, a fronte di un prezzo che si prevedeva dovesse aggirarsi fra gli 11
e i 12 milioni di euro.
Altadonna aveva versato l’assegno sul suo conto corrente.
L’affare non si era poi realizzato in quanto Altadonna non aveva ottenuto la
necessaria lottizzazione e l’assegno non era stato restituito essendo stato il
prevenuto, a seguito dell’arresto in ordine ai fatti del presente processo, in
tutt’altre faccende affaccendato
La versione dei fatti emergente dalla documentazione prodotta era stata
confermata dal Leonardi.
La difesa del prevenuto ha fatto notare che i due pizzini aventi in pratica lo
stesso oggetto (costituendo il secondo una sorta di sollecito del primo)
conteneva degli errori.
Ed invero, in primo luogo, il lavoro asseritamente commesso al Leonardi
non era stato appaltato, non essendo mai stata approvata dal Comune
competente la lottizzazione; in secondo luogo, Altadonna non doveva
140.000,00 euro a Leonardi, ma 100.000,00 euro al Ghirelli.
152 Il contenuto della lettera, in ogni caso, era chiaro: la missiva era diretta ad
un soggetto che avrebbe dovuto invitare Altadonna, debitore della somma, a
restituire l’acconto per l’affare non andato a buon fine.
Ma se così è deve, innanzitutto, rilevarsi un evidente contrasto logico fra il
contenuto di tali missive, che dimostrano da parte del loro estensore una
superficiale conoscenza delle questioni, e l’asserita esistenza di rapporti
privilegiati dei Lo Piccolo con l’Altadonna.
Quel che dal contenuto dei due biglietti può logicamente desumersi (che né
l’odierno imputato né il Leonardi hanno ritenuto di dovere meglio
esplicitare) è, infatti, che il Leonardi, probabilmente a ciò invitato dal
Ghirelli che voleva indietro la somma anticipata, aveva inoltrato al referente
mafioso, che aveva a suo tempo mediato il contatto con l’Altadonna, e
verosimilmente con Pipitone Vincenzo, la richiesta volta ad ottenere la
restituzione della somma anticipata.
Tale richiesta era stata successivamente inoltrata dal referente mafioso del
Leonardi ai Lo Piccolo, responsabili del mandamento in cui era compresa la
“famiglia” di Carini probabilmente perché, a seguito dell’arresto dei
Pipitone e del Conigliaro, non erano ancora noti, al di fuori del
mandamento di Tommaso Natale-San Lorenzo, chi fossero i nuovi referenti
mafiosi di Carini; non appare casuale al riguardo, infatti, che nella seconda
missiva il Lo Piccolo avesse inserito l’ordine di “agganciare Gasp”, cioè
Gaspare Pulizzi, da lui incaricato di occuparsi della questione).
Quanto alla non corrispondenza della somma è verosimile ritenere, avuto
riguardo alle note modalità operative dell’organizzazione mafiosa, che gli
autori della richiesta inoltrata ai Lo Piccolo si ripromettevano di ricavare
una somma di denaro quale prezzo della intermediazione mafiosa.
Tale ricostruzione dei fatti è però grandemente illuminante ai fini che qui
interessano.
I Lo Piccolo, come peraltro dimostra il contenuto delle due missive, non
erano a conoscenza dei termini della questione, circostanza davvero
153 singolare se si dovesse accedere alla tesi accusatoria del rapporto
priviliegiato dei citati boss mafiosi con l’odierno imputato.
Vuole dirsi, in ogni caso, che a prescindere dalla esattezza o meno
dell’indicazione proveniente dal Pulizzi, secondo cui in qualche occasione
Lo Piccolo Salvatore si sarebbe avvalso dello pseudonimo “Roberto” (in
verità, dal contenuto della conversazione intercettata il 9 giugno 2003 fra
Pipitone e Conigliaro, nel corso della quale i due commentano un “pizzino”
appena arrivato proveniente da Salvatore Lo Piccolo, quest’ultimo viene
menzionato “Zio Totò”) è assolutamente inverosimile che il Roberto di cui
parla il Pipitone nella conversazione intercettata il 25 settembre 2003 sia
Salvatore Lo Piccolo.
Più verosimile, secondo la Corte, è che il Roberto in questione altro non sia
che Vito Roberto Palazzolo (noto uomo d’onore della famiglia di Cinisi
oramai da decenni trasferitosi in Sud-Africa e grande riciclatore di
ingentissime somme di denaro che l’organizzazione mafiosa ricavava dal
traffico degli stupefacenti) di cui con ogni probabilità Angelo Conigliaro
parla nel corso della conversazione intercettata il 6 ottobre 2003 fra i soliti
Conigliaro e Pipitone in cui, sempre a proposito di una operazione
immobiliare che Altadonna ha in mente di compere, si fa menzione
dell’africano (vds. pagg. 326- 331 della sentenza impugnata).
Ma, è chiaro, trattandosi di una semplice deduzione, sia pur ancorata ad
argomenti obiettivi, che l’odierno processo non offre alcun elemento certo
per affermare che, effettivamente, Vito Palazzolo Roberto sia il protettore
occulto dell’odierno imputato e quest’ultimo il gestore di taluni beni al
primo in effetti riconducibili, né è dato sapere quali siano i favori che
avrebbe ricevuto da Altadonna.
Il che induce a ritenere, al di là di quelle che possono essere i sospetti che
questa Corte indubbiamente nutre sul conto del prevenuto, che alla stregua
degli elementi probatori acquisiti al presente processo ed alla loro palese
insufficienza e contraddittorietà,
si impone, in parziale riforma della
sentenza impugnata, l’assoluzione dello stesso dal reato ascrittogli al capo
154 2 della rubrica, per non avere commesso il fatto, ai sensi del 2° comma
dell’art. 530 c.p.
2-3– L’APPELLO NELL’INTERESSE DI CUSIMANO ANTONIO –
Sostiene preliminarmente l’appellante che il Giudice di prime cure sarebbe
pervenuto erroneamente ad una sentenza di condanna, ipervalorizzando le
risultanze istruttorie ed in parte utilizzando il medesimo materiale
probatorio acquisito contro il Cusimano a sostegno di altra sentenza di
condanna, già in grado di appello.
Premette a tal fine che il Cusimano era stato tratto in arresto nell'ambito
della indagine denominata “Piana dei Colli” con la contestazione di piena
partecipazione alla consorteria mafiosa “cosa nostra” e per due episodi di
estorsioni, e che per quei reati era già stato giudicato da altra Autorità e
condannato anche in fase di appello nell'ambito del procedimento penale n.
13666/07 R.G.N.C.
Successivamente, nel contesto della medesima indagine “Piana dei Colli”,
ma in diverso procedimento, era stato tratto nuovamente in arresto per il
reato per cui è oggi giudicato.
In ragione di ciò, il Tribunale del Riesame aveva dichiarato inefficace la
misura della custodia cautelare in carcere, poiché emessa in successione ad
altra misura a fronte del medesimo materiale probatorio già acquisito in
sede di indagini, e già noto al momento dell’emissione della prima misura
cautelare.
Sostiene, quindi, l’appellante, con il primo motivo del proposto gravame.
che risulterebbe evidente, dalla semplice lettura della sentenza impugnata,
l’esistenza di una duplicazione di accuse a fronte delle medesime risultanze
istruttorie.
Nella specie, in particolare, il Cusimano sarebbe stato nuovamente condannato per un ulteriore reato alla pena di anni otto di reclusione con il
medesimo materiale probatorio che aveva già fatto da sostegno ad altra
155 sentenza di condanna per altri delitti. Sarebbe facile, infatti, formulare un
giudizio di tale genere, esaminando la sentenza oggetto del presente
gravame che al capo 11 reca a carico del Conigliaro la contestazione del
delitto di estorsione all'imprenditore Priano per il quale il Cusimano era
stato condannato in altro procedimento.
Nella sentenza, oggetto del presente gravame, emergerebbe, invece, con
evidenza che il Cusimano sarebbe stato, nell'ambito di questo
procedimento, condannato a fronte di alcune intercettazioni ambientali che
contestualmente sono state già utilizzate a sostegno di altra sentenza di
condanna, e più precisamente per la contestazione relativa alla estorsione in
danno dell'imprenditore Priano.
Queste stesse intercettazioni ambientali sarebbero state utilizzate nell’odierno procedimento, per sostenere un verdetto di condanna a carico del
Cusimano per il delitto di cui al capo 10 della rubrica della sentenza.
Le medesime intercettazioni ambientali sarebbero state utilizzate, in buona
sostanza, nell'ambito del processo definito con la sentenza oggi impugnata,
sia per sostenere la condanna a carico dell'imputato Conigliaro, sia, con
diversa lettura, per motivare la condanna a carico del Cusimano. La
duplicazione nell'utilizzazione delle medesime fonti si apprezzerebbe
leggendo la parte motiva a carico degli imputati Cusimano e Conigliaro,
anche senza la necessità di particolari approfondimenti.
L'assunto della pubblica accusa sarebbe che Cusimano Antonino, con la
complicità di Francesco Di Blasi e Cataldo, ma soprattutto con la regia
occulta di Lo Piccolo Salvatore, avrebbe costretto l'imprenditore Scalici,
legale rappresentante della Simba S.r.l., a subire la imposizione di fornitura
alla Edilpomice.
Le prove di tale condotta sarebbero emerse dalle intercettazioni ambientali
effettuate presso la Edilpomice, dei fratelli Cusimano, nel periodo maggio agosto 2002.
156 Con il secondo motivo l’appellante contesta le risultanze delle propalazioni
dei vari “collaboratori di giustizia”, che, ad avviso dei primi Giudici,
avrebbero fornito adeguati riscontri all'attività criminale svolta dal
Cusimano.
Rileva, a tal proposito, l’appellante che i “collaboratori di giustizia”
Franzese, Nuccio, Spataro e Pulizzi non avrebbero offerto contenuti di
natura accusatoria utilizzabili nell’odierno procedimento.
Alcuni di essi, infatti, mostrano di conoscere genericamente la figura di
Cusimano Antonino, che associano ad altri soggetti, poi accusati di essere
sodali, ma non farebbero riferimento ad alcun elemento che possa
adeguatamente supportare l'accusa di estorsione a carico del medesimo
Cusimano nel presente procedimento.
Questi, infatti, sarebbe già stato condannato, anche in fase di appello, per il
delitto di piena partecipazione alla associazione criminale “cosa nostra”,
delitto contestato in altro procedimento penale e oggetto di altra sentenza.
Con il terzo motivo l’appellante afferma che a diversa conclusione si
dovrebbe pervenire per quanto concerne le risultanze delle intercettazioni
ambientali, potendo essere utilizzabili, ai fini della prova del delitto di
estorsione contestato al Cusimano nel presente procedimento, solo quelle
prove che sono strettamente afferenti il delitto contestato e non finire per
fraintendere il contenuto delle registrazioni, utilizzandole così per finalità
diverse a cui le stesse non sarebbero destinate.
Ciò risulterebbe dall'esame delle trascrizioni delle intercettazioni ambientali
del 04.05.2002, h. 1 1,27 e del 06.05.2002 h. 9.31. Il contenuto di queste
due intercettazioni è stato indicato, infatti, in sentenza come primo
elemento di sospetto dell'attività di Cusimano Antonio finalizzata alla
imposizione di fornitura alla società Simba S.r.l. e quindi all'imprenditore
Scalici.
Dall'esame del contenuto delle captazioni predette emergerebbe semmai che
i contatti tra il Di Blasi ed il Pipitone avvenivano sempre per il tramite del
Cataldo, nella ditta del quale il Pipitone era socio di fatto; le anzidette
157 intercettazioni non avrebbero offerto elementi di carattere diverso e
soprattutto non costituirebbero prova della estorsione in danno di Scalici.
Nulla si evincerebbe, infatti, dall'esame delle predette conversazioni circa la
l'esistenza anche di un solo progetto di estorsione a carico di Scalici. In
queste conversazioni si farebbe riferimento, invece, al cantiere del Priano e
gli interlocutori si occuperebbero soltanto delle problematiche afferenti il
predetto lavoro, che però aveva già formato oggetto di contestazione a
carico del Cusimano in altro procedimento.
Il teste Castrogiovanni, che aveva coordinato le indagini, curato i riscontri
ed effettuato i servizi di osservazione in seguito agli ascolti delle
intercettazione, aveva testualmente dichiarato che le conversazioni del
maggio 2002 erano riferibili ad “una frizione tra l'imprenditore ed i fratelli
Cusimano in quanto l'imprenditore, Priano Alfonso, dapprima si era recato
dai Cusimano ed in qualche misura ne aveva chiesto, diciamo,
l'interessamento in relazione ai contatti appunto con gli esponenti della
“famiglia” mafiosa di Carini per lavorare, diciamo, in tranquillità, salvo
poi però recedere dal fatto di potere fare le forniture in via esclusiva presso
i Cusimano. Nel corso della conversazione infatti vi è stato un acceso
scontro tra i Priano e i Cusimano proprio in relazione a questa cosa che lui
disse testualmente: se è una strada di passaggio, vengono tutti”.
Sarebbe stato perciò evidente che le conversazioni nelle quali si faceva
riferimento al Cataldo ed al cantiere di Priano erano riferibili a questo
momento di contrasto tra imprenditori in cui al Priano, peraltro, sarebbe
stato rimproverato il mancato rispetto di un patto di reciprocità.
Infatti, dalla lettura delle registrazioni e dal confronto di queste con la
deposizione del teste Castrogiovanni, non si sarebbe potuto comunque
giungere
ad alcun elemento certo che consentisse di ritenere che la
imposizione di fornitura alla società “Simba S.r.l.” dell'imprenditore Scalici
fosse mai stata effettuata.
Nelle conversazioni degli indagati si sarebbe fatto sempre riferimento ad
una cooperativa come committente dei lavori ed ai problemi che nascevano
158 proprio dalla necessità di utilizzare materiali di qualità diversa da quelli
offerti dalla ditta Edilpomice, e mentre era stato accertato che i lavori
presso il cantiere di Priano erano stati commissionati dalla società
cooperativa “La Vela”, nessun accertamento analogo sarebbe stato fatto per
il cantiere dello Scalici.
Considerato però che la diatriba circa la fornitura del materiale era sempre
connessa a problematiche nascenti dalla natura di società cooperativa della
ditta committente dei lavori non è possibile sostenere, così come invece è
stato fatto per la estorsione in danno di Priano, che gli interlocutori stiano
parlando del cantiere della ditta di Scalici.
In definitiva, a dire dell’appellante, i riferimenti allo Scalici, effettuati dagli
interlocutori nel corso di qualche intercettazione, in assenza di altri elementi
che consentissero di affermare con certezza che i fratelli Cusimano stessero
programmando un’estorsione in danno del predetto imprenditore, non
avrebbero consentito di supportare una pronunzia di condanna a carico
dell'odierno appellante per il delitto di estorsione, così come era stato
contestato.
Con il quarto motivo, infine, l’appellante evidenzia che dalla lettura della
motivazione afferente la posizione personale di Conigliaro che, nell’odierno
procedimento risponde da solo, della estorsione in danno del Priano, le
medesime intercettazioni utilizzate contro il Cusimano per raggiungere la
prova della avvenuta estorsione allo Scalici, si ritrovano invece a sostegno
della condanna del Conigliaro per l’estorsione in pregiudizio di Priano. Su
questo punto, quindi, la sentenza sarebbe contraddittoria e priva di una
motivazione che spieghi le ragioni della duplice utilizzazione del medesimo
materiale probatorio a sostegno della condanna per due diverse ipotesi di
delitto.
Conclude chiedendo di essere assolto, in riforma della sentenza impugnata
dal reato a lui ascritto, perché il fatto non sussiste.
Le censure sono prive di fondamento.
159 Ed invero, nella specie, la sostanziale connessione tra i due procedimenti
appare più che evidente, ove si consideri che essi scaturiscono in pratica
dalla medesima indagine di p.g., sicché, alla stregua degli enunciati principi
della S.C., che questa Corte ritiene di dovere pienamente condividere, le
intercettazioni di conversazioni telefoniche ed ambientali disposte
nell’ambito del primo procedimento, cui fa riferimento l’appellante, bene
potevano essere utilizzate in quello odierno, e non appare perciò ravvisabile
la lamentata “duplicazione delle fonti di prova” in pregiudizio dello stesso.
D’altra parte, non appare palesemente condivisibile la tesi sostenuta
dall’ap- pellante, il quale, almeno a quanto sembrerebbe desumersi dal
contenuto dell’atto di impugnazione, pretenderebbe che una data fonte
probatoria possa essere utilizzata esclusivamente ai fini dell’accertamento
di un dato reato, e non già per l’accertamento di un diverso reato a carico
della medesima persona.
Detta tesi, infatti, non tiene conto del fatto che per medesimo fatto deve
intendersi l’identità degli elementi costitutivi del reato e cioè condotta,
evento e nesso di causalità, considerati non solo nella loro dimensione
storico-naturalistica, ma anche in quella giuridica, potendo una medesima
condotta violare contemporaneamente diverse disposizioni di legge, sicché
non può seriamente dubitarsi del fatto che, ad esempio, la medesima
intercettazione telefonica venga posta a fondamento di una condanna per il
delitto
di
associazione
per
delinquere
di
stampo
mafioso
e,
successivamente, di una condanna per una estorsione che costituisca uno
dei reati – fine in cui estrinseca l’attività degli associati.
Analogamente - e sempre che l’appellante intenda sostenere la tesi che le
intercettazioni de quibus integrino comunque una identica fonte di prova,
non utilizzabile nei confronti dell’imputato – non potrà che sostenersi che
da una medesima intercettazione ben possono trarsi elementi di prova in
ordine a più reati, ed a carico di diverse persone, ancorché non legate tra
loro da vincoli di amicizia o conoscenza.
160 Ne consegue che non ha pregio l’osservazione secondo cui non si sarebbe
potuto utilizzare l’attività captatoria in contestazione, sia per sostenere la
condanna a carico del Conigliaro, che quella
a carico del Cusimano,
essendo, con ogni evidenza, il contenuto dell’attività medesima frazionabile
a seconda che essa riguardi l’una o l’altra delle persone coinvolte, ed
essendo in ogni caso possibile, a seconda dei casi, una valutazione
congiunta delle medesime risultanze.
Nella specie, peraltro, le intercettazioni sono eminentemente frazionabili,
apparendo riferibili i segmenti di esse che qui vengono in considerazione, in
maniera del tutto autonoma, a ciascuno degli imputati (Conigliaro e
Cusimano).
Né, ancora, appare ravvisabile – e comunque non risulta essere stato
provato - il bis in idem ventilato dall’appellante, laddove lo stesso afferma
che nella specie sarebbe ravvisabile una duplicazione di accuse a fronte
delle medesime risultanze istruttorie.
E’ jus receptum, infatti, che il divieto del bis in idem stabilito dall'art. 649
cod. proc. pen. postula una preclusione derivante dal giudicato formatosi
per lo stesso fatto e per la stessa persona o anche dalla coesistenza di
procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona
(anche se pendenti in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su
iniziativa del medesimo ufficio del P.M.. Il divieto presuppone la
produzione innanzi al giudice di merito della sentenza definitiva o degli atti
necessari per l'accertamento della identità del fatto” (Cass. Pen. Sez. V, 29
gennaio 2007, n. 9180).
Rileva, quindi, la Corte che, contrariamente a quanto è stato sostenuto dallo
appellante, gli elementi probatori evidenziati dai primi Giudici a carico del
Cusimano consentono di pervenire ad un positivo giudizio sulla
responsabilità di quest’ultimo (salvo quanto si dirà in ordine alla
configurabilità del delitto di estorsione).
161 La contestazione in esame riguarda, in vero, una condotta estorsiva
perpetrata ai danni dell’imprenditore Damiano Scalici, impegnato nella
realizzazione di un complesso edilizio nella contrada Ciachea di Carini, al
quale, secondo la tesi accusatoria, sarebbe stato imposto di rivolgersi ai
titolari della ditta Edilpomice (i fratelli Cusimano, ed in particolare
Antonio) per la fornitura di materiali edili.
L’imposizione della commessa sarebbe stata portata a compimento
mediante le pressioni esercitate da affiliati alla cosca locale, - i quali
avrebbero agito su sollecitazione dei vertici mandamentali - e con
l’intervento di esponenti mafiosi inquadrati in altre famiglie del
mandamento di San Lorenzo.
L’imputazione era stata elevata a titolo di concorso nei confronti di
Cusimano Antonio, uno dei titolari della ditta “Edilpomice”, che si sarebbe
assicurata la fornitura, e nei confronti di Lo Piccolo Salvatore, indicato
quale regista occulto dell’operazione.
Scalici Damiano era il presidente del consiglio di amministrazione della
società denominata “Simba S.r.l.” con sede a Palermo, operante nel settore
dell’edilizia.
Numerose conversazioni telefoniche ed ambientali intercettate nel maggio
del 2002, avrebbero consentito di accertare come il Cusimano avesse
imposto all’anzidetto imprenditore, con il decisivo intervento del Di Blasi,
le forniture dei materiali destinati alla costruzione delle unità immobiliari
che lo stesso Scalici stava edificando nel territorio del comune di Carini.
La prima conversazione di interesse investigativo era stata intercettata alle
ore 11.27 del 4.5.2002, all’interno dei locali della Edilpomice.
Nel corso di essa, il Di Blasi chiedeva ai fratelli Antonio e Andrea
Cusimano il numero di tale “Cataldo”:
Quindi il Cusimano auspicava che all’incontro fosse presente anche il Di
Blasi, il quale gli aveva consigliato di parlare con il Cataldo per farsi
procurare un appuntamento con tale “Nino”. Quest’ultimo, infatti, avrebbe
162 potuto risolvere il problema prospettato al Di Blasi dallo stesso Cusimano,
che invocava un intervento drastico di qualcuno che imponesse il peso della
propria autorità per risolvere la questione.
Alle ore 8.47 del 6 maggio 2002, Cusimano Antonio telefonava al
“Cataldo”, chiedendogli un incontro in relazione a un “lavoretto” che
avrebbe dovuto eseguire.
Il Cataldo e il Cusimano concordavano di vedersi alle ore 10,00 presso il
cantiere del Priano.
Alle ore 8.53 del 6.5.2002, pochi minuti dopo aver concluso la telefonata
con il Cusimano, il Cataldo contattava “Nino” e lo invitava a farsi trovare
per le ore dieci al cantiere del Priano, perché il “geometra” avrebbe dovuto
dargli alcune spiegazioni.
Dopo un primo momento di esitazione, “Nino”, avendo evidentemente
intuito che Cataldo non voleva aggiungere altri dettagli, si asteneva dal
chiedere maggiori chiarimenti.
Quanto ai rapporti esistenti tra il Cataldo e Pipitone Antonino, dalle attività
di indagine svolte in ordine alla “famiglia” mafiosa di Carin, era emerso che
i due, nel periodo al quale risalgono le intercettazioni effettuate presso
l’Edilpomice, erano soci di fatto nell’impresa edile del Cataldo.
Il Cusimano aveva parlato poi con Pipitone Antonino, concordando con
quest’ultimo un incontro al cantiere del Priano per il giorno successivo, al
quale avrebbe partecipato anche lo Scalici; e tale riunione sarebbe stata, con
ogni evidenza, inerente alla richiesta che il Cusimano aveva rivolto al
Pipitone; significativa, in tal senso, sarebbe apparsa la circostanza che il Di
Blasi avesse pensato immediatamente a Vincenzo Pipitone, zio di Antonino,
come possibile partecipante all’appuntamento del giorno successivo.
Alle ore 8.33 del 9 maggio 2002, all’interno della “Edilpomice”, veniva
intercettata una significativa conversazione tra il Di Blasi e i fratelli Andrea
e Antonio Cusimano, il cui ascolto forniva elementi utili a chiarire le
ragioni dell’incontro del 7 maggio nel cantiere del Priano.
163 Dal contenuto della conversazione si evinceva che il Cusimano e il Di Blasi
avevano richiesto l’intervento del Pipitone per aggiudicarsi “almeno la
metà” di qualcosa, che non veniva specificato, ma che poteva
ragionevolmente presumersi consistesse nella fornitura di materiali per
l’edilizia.
Quindi gli interlocutori si soffermavano sulla prevedibile reazione negativa
dello
Scalici
all’imposizione
della
fornitura
di
materiali
presso
l’Edilpomice; il Di Blasi, tuttavia, rassicurava i fratelli Cusimano - che non
erano ancora stati contattati dallo Scalici per la richiesta di fornitura garantendo che gli sviluppi della vicenda sarebbero stati conformi alla sua
volontà e dunque, favorevoli agli interessi degli stessi Cusimano.
Infine, dopo avere affermato con forza che pretendeva comunque una
risposta dal Pipitone, positiva o negativa, si congedava raccomandando al
Cusimano di tornare al cantiere del Priano per rintracciare Pipitone
Antonino e suggerirgli, nel caso in cui non avesse trovato nessuno, di
contattare il Cataldo.
Proseguiva
il
Tribunale,
affermando
che
il
Cusimano
seguiva
pedissequamente le indicazioni del Di Blasi, e che la perentoria
affermazione di costui che non si trattava di una “questione di prezzo”,
avrebbe fornito la conferma del fatto che le forniture erano imposte allo
Scalici, cui sarebbe stata, pertanto, sottratta ogni possibilità di scegliere
liberamente il contraente sulla base di una valutazione improntata alla
convenienza economica.
Infine, la conversazione intercettata all’interno della Edilpomice il 30
maggio 2002, alle ore 13,16, consentiva di pervenire all’identificazione
dello Scalici e di localizzare il complesso di villette in costruzione.
Cusimano Andrea raccontava a tale “Tanino”, non meglio identificato, la
vicenda relativa allo Scalici, indicandogli l’ubicazione del complesso
immobiliare e precisando che la sua impresa “stava facendo tutti i tramezzi
all’interno”:
164 L’imprenditore che stava realizzando le villette era figlio di un compagno di
scuola di Cusimano Andrea e rispondeva proprio al nome di Scalici.
Lo stesso Cusimano Andrea precisava che, nonostante il legame con il
vecchio compagno di scuola, per ottenere quel lavoro a Carini aveva dovuto
lamentarsi con i “cristiani” di là, che gli avevano fatto gli scavi.
Si trattava di una chiara allusione alla “famiglia” mafiosa di Carini e ai
lavori di scavo che costituivano una delle principali attività della ditta
gestita dal Cataldo e da Nino Pipitone.
Sulla base delle indicazioni emergenti dal contenuto della conversazione, il
complesso edilizio veniva individuato nella Contrada Ciachea di Carini, a
sinistra della carreggiata dell’autostrada, in prossimità dell’impianto di
depurazione delle acque.
Il riferimento di Cusimano Andrea, nel primo tratto di conversazione, al
recente contatto telefonico con l’imprenditore interessato consentiva di
identificare con certezza Scalici Damiano.
La commessa relativa al cantiere dello Scalici, pertanto, non era stata
attribuita secondo il sistema del libero mercato, ma solo a seguito di una
specifica imposizione dei “cristiani” di là, secondo le regole di “cosa
nostra”, che attribuiscono alle “famiglie” mafiose la “competenza” per i
lavori realizzati nel loro territorio e la prerogativa di imporre il “pizzo”,
ovvero le imprese subappaltatrici e fornitrici di proprio gradimento.
Questo lungo excursus, connotato, come si è visto, da una lunga serie di
fatti – tutti puntualmente evidenziati dal Tribunale - che si riscontrano
reciprocamente, e che appaiono sorretti da un adeguato concatenamento
logico e da rigorosa coerenza con le risultanze processuali, consente senza
tèma di dubbio, di ritenere provata l’esistenza di un’attività, posta in essere
dall’imputato Cusimano Antonio, finalizzata comunque a coartare la
volontà dello Scalici nella libera scelta di un contraente presso cui
acquistare i materiali che allo stesso erano necessari per l’espletamento
della sua attività edilizia.
165 Incidentalmente, per rispondere ad analoga obiezione dell’appellante, è
appena il caso di rilevare che il nominativo del Priano compare nella
cennata serie di intercettazioni soltanto un paio di volte, ed al limitato fine
di fungere da luogo di ritrovo per imprenditori, collusi con l’associazione
mafiosa e non, e “uomini di onore”.
D’altra parte, i rapporti di carattere economico con lo Scalici, sono stati
ammessi dallo stesso imputato, il quale dopo avere premesso di essere
titolare, unitamente ai suoi fratelli, di un’impresa che produceva manufatti
in pomicecemento, sita nella via Vergine Maria, attualmente inattiva, alle
dipendenze della quale lavoravano circa quaranta operai, ha affermato che
l’acquisizione della commessa dell’imprenditore Antonino Scalici per la
fornitura di materiale edile, aveva rappresentato per lui la certezza di
impegnare la struttura produttiva dell’azienda per i successivi due anni, in
quanto si trattava di un lavoro di rilevante entità.
Condivisibile appare, infine, il richiamo operato dal Tribunale alle
propalazione dei “collaboranti” Nuccio Antonino, Spataro Maurizio,
Francese Francesco e Onorato Francesco, i quali, ancorché non siano stati
in grado di riferire alcunché in relazione allo specifico thema probandum
(estorsione ai danni dello Scalici), tuttavia hanno fornito indicazioni di
notevole interesse, utili a delineare lo spessore criminale dell’imputato ed a
costituire elementi di valutazione ex art. 133 c.p.
Ritiene la Corte, in definitiva, di dovere condividere l’assunto del
Tribunale, secondo cui dalla organica disamina del contenuto delle
registrazioni ambientali e telefoniche riversate nel compendio istruttorio,
risulterebbe evidente che il Cusimano cercò insistentemente il contatto con
Nino Pipitone, nel tentativo di ottenere dal nipote del reggente della
“famiglia” mafiosa di Carini, con il decisivo appoggio di Di Blasi
Francesco, il via libera per la fornitura di materiale edile all’impresa dello
Scalici, e che l’intervento richiesto ai Pipitone, diretto a difendere le ragioni
del Cusimano nell’attribuzione della fornitura, raggiunse l’effetto
desiderato, in quanto l’imputato ottenne una parte della commessa.
166 Parimenti va condivisa l’affermazione secondo cui la condizione di
assoggettamento dello Scalici non può essere revocata in dubbio, in quanto
la
pressione esercitata sull’imprenditore dal Cusimano, mediante
l’interposi- zione di esponenti mafiosi appartenenti a varie “famiglie” del
“mandamento” di San Lorenzo (il Di Blasi di Pallavicino e i “cristiani” di
Carini), ebbe a privarlo di ogni autonomia nella scelta dei fornitori e lo
costrinse a subire decisioni alle quali egli rimase totalmente estraneo.
Ritiene, tuttavia, la Corte che nella specie, ancorché la questione non abbia
costituito oggetto di specifico motivo di gravame, che pur risultando
provata la materiale condotta del Cusimano, il reato allo stesso ascrivibile,
più correttamente configurabile nella specie è quello di violenza privata
aggravata, e non già di estorsione.
Invero, i poteri di cognizione e di decisione del giudice di appello (art. 597
c.p.p.) comprendono, oltre ai capi della sentenza esplicitamente impugnati,
quelli che, sebbene non investiti in via diretta con i motivi di gravame,
risultino tuttavia ad essi legati con un vincolo di connessione essenziale
logico-giuridica (Cass. Pen. Sez. VI, 4.11.1993, Teti).
Ne consegue che, una volta richiesta l’assoluzione da un dato reato, ben può
il giudice, qualora ritenga di dovere respingere detta richiesta, pronunziare
condanna per un reato meno grave, qualora di esso sussistano gli elementi
costitutivi, e pertanto, per effetto dell’anzidetta derubricazione, applicare
una pena più mite.
Tanto premesso, osserva la Corte che, secondo il consolidato orientamento
della S.C., il reato di estorsione e quello di violenza privata, pur avendo in
comune l'uso della violenza e della minaccia per costringere il soggetto
passivo a un comportamento commissivo od omissivo, si differenziano per
l'elemento materiale, qualificato nell'estorsione dall'ingiustizia del profitto
con altrui danno, e per l'elemento psicologico, caratterizzato nell' estorsione
dalla consapevolezza di usare violenza e/o minaccia, dirette a costringere il
soggetto passivo a fare od omettere qualcosa, al fine di procurare a sé o ad
altri un ingiusto profitto (Cass. Pen. Sez. I, 25 settembre 2007, n. 40494).
167 Vedasi pure Cass. Pen. Sez. II, 27 febbraio 2007, n. 15077: “L' estorsione , la
quale è un tipico delitto contro il patrimonio, costituisce un titolo specifico di
violenza privata, che è un delitto contro la libertà morale, differenziandosi da
questa, di cui presenta tutti i requisiti, per l'elemento dell'ingiusto profitto con
danno altrui che nell'estorsione costituisce il dato caratteristico dell'azione e
il momento consumativo del reato”.
Ed ancora: “Il delitto di estorsione costituisce ipotesi speciale rispetto al
delitto di violenza privata, fungendo da elementi specializzanti, oltre al
conseguimento di un ingiusto profitto, il correlativo danno per la persona
offesa” (Cass. Pen. Sez. I, 10 giugno 1997, n. 7856).
Ora, nella specie, pur essendo pacifico che il Cusimano ha ottenuto la
commessa (o meglio parte di essa) dallo Scalici, mercé le condotte
intimidatorie spiegate dai suoi amici, tutti “uomini d’onore” appartenenti ad
importanti “famiglie” del Palermitano, e pur essendo altrettanto pacifico che
egli ha ricavato dall’anzidetta attribuzione un vantaggio valutabile
sicuramente in termini patrimoniali, posto che ha potuto continuare la sua
attività per altri due anni, e così retribuire i quaranta operai che vi
lavoravano; non altrettanto pacifica è l’esistenza del danno che allo Scalici
sarebbe derivato da tale illecita condotta.
E’ jus receptum, infatti, che il danno che contraddistingue il delitto di
estorsione debba rivestire una connotazione di carattere patrimoniale e,
pertanto, consistere in una effettiva deminutio patrimonii (cfr. Cass. Pen. Sez.
I, 27 ottobre 1997, n. 9958).
E nel caso in esame non è dato rilevare, alla stregua degli atti acquisiti al
procedimento, alcun elemento che induca a ritenere che lo Scalici, in
dipendenza della scelta forzata dell’imputato quale contraente nel rapporto
di fornitura in contestazione, abbia subito un danno valutato in termini di
patrimonialità, come si sarebbe verificato, ad esempio, nel caso in cui egli
avesse dovuto pagare i materiali acquistati dall’impresa di cui era titolare
l’imputato ad un prezzo superiore rispetto a quello comunemente praticato
da imprese esercitanti analoga attività, o comunque, a prescindere dai
168 prezzi di mercato, anche di poco superiore a quello che avrebbe potuto
ottenere da una ditta diversa.
E’ innegabile, ovviamente, in capo allo Scalici, l’esistenza del pregiudizio
morale, consistente nel non potere operare liberamente la scelta dell’altro
contraente.
D’altra parte, il reato di violenza privata, che tutela la libertà morale,
costituisce titolo generico e sussidiario rispetto al reato di estorsione e
rispetto ad altre ipotesi delittuose che contengono come elemento essenziale
la violenza o la minaccia alle persone. Esso si risolve nell'uso della violenza
- fisica o morale - per costringere taluno ad un comportamento commissivo
od omissivo ed, atteso il suo carattere generico e sussidiario, resta escluso,
in base al principio di specialità, allorché la violenza sia stata usata per uno
dei fini particolari previsti da altre figure criminose che presentino la
violenza o la minaccia come loro elemento costitutivo (cfr. Cass. Pen. Sez.
I, 22.3.1988, n. 10534).
Alla stregua delle anzidette considerazioni, il fatto ascritto a Cusimano al
capo 10 della rubrica deve essere riqualificato nel delitto di cui all’art. 610
c.p., aggravato ai sensi dell’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991 n. 151, essendo
ravvisabile nella specie, anziché il delitto di estorsione aggravata contestato,
quello di violenza privata aggravato ai sensi della cennata disposizione,
essendo stato pur sempre commesso avvalendosi delle condizioni previste
dall’art. 416 bis.
Va, pertanto, rideterminata la pena a carico dell’imputato in quella che si
ritiene equa ex art. 133 c.p. di anni quattro di reclusione (pena base ex art.
610 c.p. anni due e mesi otto, aumentata ex art. 7 D.L. 151/1991 di un anno
e mesi quattro).
2-4 – L’APPELLO NELL’INTERESSE DI CURULLI VINCENZO E
DI IAQUINOTO GIORGIO.
169 Con il primo motivo del proposto gravame l’appellante Curulli Vincenzo
assume che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere la di lui responsabilità,
dal momento che dalla compiuta istuttoria nessun elemento sarebbe emerso
a suo carico per i fatti per cui è processo.
Secondo l'originaria accusa, il Curulli era stato chiamato a rispondere dei
reati di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. “per avere concorso ab externo
all'associazione
criminale
denominata
“cosa nostra” (capo 2 della
rubrica), nonché degli artt. 81 cpv, 110, 648 bis, 648 ter c.p. ed art. 7 D.L.
13.05.1991 n° 152, conv. con modif. nella legge 12.07.1991 n° 203, per il
delitto di riciclaggio aggravato in concorso e impiego di denaro di
provenienza illecita.
Il Tribunale, in sentenza ha dichiarato la responsabilità del Curulli solo per
il reato di “impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita”,
assolvendolo dalle rimanenti originarie imputazioni. Il Curulli, invece,
andava assolto da tutte le imputazioni contestategli con la più ampia
formula, atteso che le intercettazioni ambientali nel deposito di tale Gottuso
Salvatore avrebbero creato non pochi dubbi circa l’esatta individuazione del
soggetto di nome Enzo citato nella conversazione intercorsa tra il Gottuso
stesso ed altri soggetti. Gli interlocutori, nel corso della conversazione
dell’8 ottobre 2002, alle ore 9.58, parlavano, infatti, di un tale Enzo la cui
figlia era fidanzata con il figlio di Pipitone Antonino, e che viveva in
un’abitazione locata da potere del medesimo Pipitone. E nel corso del
dibattimento si sarebbe avuto modo di dimostrare che nessuna delle figlie
dell'appellante aveva mai intrattenuto rapporti con i figli di Pipitone
Antonino e che mai il Curulli aveva abitato in immobili a tale soggetto
intestati e/o riconducibili.
Ciò avrebbe dimostrato che il soggetto di nome Enzo citato nella
conversazione dagli intercettati era persona diversa dall’appellante.
Inoltre, nessuna valenza probatoria avrebbe potuto assumere l’intercettazione telefonica del 9.5.2003, alle ore 14.13, intercorsa tra Vitale Fortunato,
170 detto Roberto, impiegato della “Giellei Electrotrading s.r.l., e la di lui
moglie Sivana.
Secondo il Tribunale, detta intercettazione avrebbe permesso di confermare
che il vero “padrone” della Socetà “Giellei” sarebbe stato Di Maggio
Antonino, detto “Zio Nino”.
Tale deduzione, però, sarebbe stata frutto di una errata lettura della
trascrizione integrale dell’intercettazione.
Infatti, una lettura attenta della stessa avrebbe fatto comprendere come ci si
trovasse in presenza di una animata discussione tra coniugi, e quando si
parlava del mancato pagamento della retribuzione mensile spettante a Vitale
For- tunato, questi avrebbe negato qualunque coinvolgimento del Di
Maggio nel pagamento degli emolumenti ai dipendenti.
Anche l’intercettazione ambientale nell'autovettura del Pipitone Vincenzo
del 24.11.2003 ad ore 17.13 avrebbe meritato una lettura diversa da quella
data dai Giudici di primo grado, anche perché sarebbe stata ampiamente e
logicamente spiegata, oltre che dallo stesso appellante nel corso del proprio
esame, anche da documentazione prodotta dai difensori nel corso del
dibattimento.
Durante tale intercettazione, il Pipitone Vincenzo, dialogando con il di lui
cognato Di Maggio Antonino, affermava di avere dato soldi al Curulli per
aiutarlo a superare una grave situazione debitoria della società.
Tale episodio sarebbe stato ampiamente spiegato dall'appellante.
Infatti, la Società “Giellei”, nel corso del 2003, avrebbe ricevuto due istanze
di fallimento da parte della Società Merloni S.p.a., e poiché versava in
difficoltà economiche, il Curulli aveva pensato di chiedere un prestito a
titolo personale al Pipitone Vincenzo, al fine di estinguere il proprio debito
nei confronti della Società Merloni S.p.a.
A dimostrazione di tale realtà, la difesa dell'appellante aveva prodotto sia le
istanze di fallimento sopra citate, sia il decreto reso dal Tribunale di
Palermo - Sez. Fallimentare - di rigetto di dette istanze.
171 Come avrebbe chiarito il Curulli durante il proprio esame, egli avrebbe
chiesto tale prestito al Pipitone Vincenzo perché quest'ultimo in paese
ostentava una certa ricchezza, ed in quel periodo, per quanto a conoscenza
del Curulli, non risultava coinvolto in inchieste di mafia.
Detto prestito, tuttavia, non sarebbe stato mai interamente restituito al
Pipitone a causa del precipitare del dissesto economico della Società
Giellei.
Per tale motivo il Di Maggio Antonino, dipendente della Giellei, avrebbe
seguito attentamente le sorti economiche della società, sia per tutelare le
proprie retribuzioni, sia per tutelare il credito vantato dal di lui cognato,
Pipitone Vincenzo.
Tra l'altro, i rapporti tra il Di Maggio, il Pipitone ed il Curulli sarebbero già
stati ampiamente approfonditi e valutati positivamente dal Tribunale di
Palermo - Sezione Misure di Prevenzione - che, nel 2004, come da
documentazione prodotta in sede di istruttoria dibattimentale, aveva
rigettato la proposta di applicazione di misure patrimoniali e personali,
ritenendo del tutto legittimi i rapporti tra detti soggetti, riconducibili a meri
rapporti di lavoro dipendente, e perciò privi di profili illeciti.
Anche il rag. La Porta Girolamo, consulente esterno della Società Giellei,
aveva confermato che il credito vantato dal Di Maggio nei confronti della
Società derivava da retribuzioni maturate e non percepite.
Tutte le altre propalazioni formulate dal La Porta durante il suo esame
testimoniale altro non sarebbero state, come era stato affermato dallo stesso
teste, che mere supposizioni personali, prive di qualunque riscontro fattuale
o documentale.
Tali ipotesi e deduzioni sarebbero state, tuttavia, ampiamente smentite
dall'appellante durante il proprio esame, attraverso spiegazioni logiche e
coerenti,
Anche le numerose operazioni bancarie sarebbero state giustificate
dall'appellante, con motivazioni e argomenti che avrebbero trovato riscontro
anche nelle dichiarazioni del teste La Porta.
172 Il Curulli al riguardo aveva dichiarato che giornalmente per creare la
copertura a fronte di assegni bancari emessi dalla Soc. Giellei, venivano
versati in banca assegni di cortesia emessi da terzi soggetti, ai quali veniva
consegnato un assegno di pari importo. Oppure, si monetizzavano assegni
circolari di altri Istituti di credito, e con la valuta si emettevano altri assegni
a favore di altri soggetti. Dette operazioni, tuttavia, non avrebbero costituito
nulla di illecito.
Con il secondo motivo l’appellante assume che, in ogni caso, se
l'imputazione era quella di avere utilizzato denaro, beni o utilità di
provenienza illecita, si poteva concludere, senza tema di smentita, che la
Procura della Repubblica, all'esito della compiuta istruttoria, non avrebbe
fornito alcuna prova a sostegno di tale accusa.
Infatti, l'estrema genericità del capo di imputazione così come formulato nel
rinvio a giudizio, sarebbe rimasta tale, non essendo emerso quale denaro,
quale bene, o quale altra utilità il Curulli avrebbe utilizzato nella Società
Giellei.
L'unica somma di denaro richiesta dal Curulli al Pipitone Vincenzo, sarebbe
stata motivata da una urgente necessità, ossia quella di estinguere due
istanze di fallimento.
Con il terzo motivo rileva che, se il Pipitone avesse elargito denaro proprio
o di altri, di provenienza lecita o illecita, di ciò il Curulli non avrebbe
potuto avere consapevolezza alcuna.
Per tale motivo doveva essere esclusa l'aggravante di cui all'art. 7 D.L.
13.5.1991 n° 152, conv. con modif. nella legge 12.07.1991 n° 203, attesa la
mancata consapevolezza circa la provenienza del denaro ricevuto dal
Pipitone.
L’appellante Iaquinoto Giorgio, la cui posizione è stata esaminata nella
sentenza impugnata congiuntamente a quella di Curulli Vincenzo, assume,
con il primo complesso motivo del proposto gravame, che il Tribunale
avrebbe dovuto assolverlo dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste.
173 Rileva preliminarmente che nel capo d’imputazione erano stati contestati in
origine, congiuntamente, i delitti di cui all'art. 648 bis e 648 ter, e che nella
sentenza impugnata era stato ritenuto configurabile, in concreto, il delitto di
reimpiego di denaro di provenienza illecita in attività economica finanziaria
(648 ter cp), sostenendosi che l’appellante, nella qualità di apparente socio
unico ed amministratore della G.L.I. Electro Trading S.r.l., avrebbe
concorso in tale reato.
Rileva poi che la sentenza aveva evidenziato come nel maggio 2001 fosse
stato accertato che un’utenza cellulare intestata a Iaquinoto era in uso a tale
Sirchia Giovanni, esponente della “famiglia” mafiosa di “Passo di Rigano”,
ma che, tuttavia, l’imputato aveva reso dichiarazioni spontanee, precisando
che in quel periodo acquistava all'ingrosso telefoni cellulari della Telecom,
le cui schede erano già attivate a suo nome e restavano tali fino al momento
della prima ricarica; e che anche nel 2002 era stato convocato dalla
Questura di Ragusa per una scheda a lui intestata, che era stata utilizzata su
un telefono rubato ed anche in quel caso era stata esclusa ogni sua
responsabilità.
Per quel che concerne il giro di assegni fra le banche di Carini e di Acireale,
accertato dalla Guardia di Finanza, vale a dire tra banche situate a centinaia
di chilometri di distanza, assune che la produzione difensiva avrebbe
comprovato la puntuale coincidenza tra gli importi provenienti dagli assegni
di conto corrente emessi sulla Banca di Acireale e gli importi degli assegni
circolari emessi a distanza di poche ore o tutt’al più il giorno dopo dalla
Banca di Carini.
Peraltro, la prassi dello scambio di assegni di pari importo tra i due conti
correnti, avrebbe avuto il solo scopo di creare liquidità temporanea, ed era
stata confermata dai testi della difesa Meli Illuminato, Candela Edoardo,
Leto Fabio, a parte che anche il “collaborante” Pulizzi aveva confermato di
avere operato attraverso il proprio conto corrente personale, uno scambio di
assegni alla pari con la G.L.I. S.r.l. effettuato allo scopo di creare liquidità
immediata per la suddetta società.
174 Inoltre, considerato che il Pulizzi aveva ricoperto la carica di reggente della
“famiglia” di Carini, sarebbe stato possibile affermare che se la G.L.I. s.r.l.
fosse stata utilizzata per riciclare o reimpiegare sostanze provento di
estorsioni o traffici illeciti, certamente il collaboratore ne sarebbe stato a
conoscienza, non si sarebbe fatto ricorso allo scambio di cortesia di assegni
bancari, e la società non avrebbe versato in situazioni di precarietà
economica e non sarebbe stata dichiarata fallita nel 2005.
Il teste La Porta Girolamo, escusso ai sensi dell'art. 210 c.p.p., aveva riferito
in maniera dettagliata le modalità con le quali avveniva lo scambio di
assegni alla pari per far fronte alle esigenze di liquidità della società,
consentendo di guadagnare 4/5 giorni di tempo necessari per la
compensazione tra la Banca di Villagrazia di Carini e quella di Acireale.
Il Tribunale avrebbe riconosciuto che la produzione documentale difensiva,
le deposizioni testimoniali (prima fra tutte quella del Brigadiere Muscia) e
le dichiarazioni degli imputati di reato connesso avrebbero accreditato la
tesi difensiva secondo la quale le movimentazioni anomale effettuate da
Iaquinoto in un ristretto arco temporale (tra il 16 marzo 2000 e il 23 giugno
2000) corrispondessero ad una mera partita di giro tra i conti corrente
interessati, tuttavia aveva affermato che tale circostanza non escludeva la
configurabilità del delitto di cui all'art. 648 ter c.p., considerando che Di
Maggio e Pipitone avrebbero conferito ingenti risorse finanziarie di origine
illecita (senza indicare quando, in che misura e con quali modalità) nel
capitale della G.L.I. S.r.l..
Tale conclusione, a parere della difesa, sarebbe in contrasto con le
risultanze acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale e con la
configurazione giurìdica del reato de quo. Infatti, con la previsione
dell'art.648 ter c.p. il legislatore ha voluto sanzionare una fase ulteriore e
successiva a quella vera e propria del riciclaggio e cioè l'anello terminale
sfociante nell'investimento produttivo dei proventi di origine illecita; tale
condotta di impiego presupporrebbe che la fase di ripulitura del denaro sia
già avvenuta e che l'agente impieghi in attività economico-finanziarie il
175 capitale, consapevole della sua provenienza delittuosa e dell'avvenuta
ripulitura da parte di altri.
Nel corso dell'istruttoria dibattimentale, a carico dello Iaquinoto sarebbe
emerso un ruolo del tutto differente da quello sopra descritto. Infatti,
all'udienza del 7.5.2008 l'Ispettore Castrogiovanni Rosario della Squadra
Mobile di Palermo aveva affermato che le indagini espletate avevano
indotto a ritenere che lo Iaquinoto fosse formale intestatario della G.L.I.
S.r.l. e che il potere decisionale risiedesse nelle mani di Di Maggio
Antonino e Pipitone Vincenzo; all'udienza del 9.5.08 il “collaborante”
Pulizzi Gaspare aveva riferito che Iaquinoto Giorgio era formalmente
titolare della società e che soci occulti della medesima erano il Curulli, il Di
Maggio ed il Pipitone; ed all'udienza del 21.5.08 il “collaborante” La
Manna Angelo aveva riferito che Iaquinoto Giorgio era un prestanome del
Di Maggio e del Pipitone, i quali avevano interessi economici nella società.
All'udienza del 28.5.08 l'indagato di reato connesso La Porta Girolamo,
consulente della società dalla data di costituzione in poi, aveva riferito che
all'interno della G.L.I. s..r.l il Curulli e il Di Maggio avevano una quota di
fatto, circostanza che non gli era stata comunicata da nessuno, ma da lui
compresa perché vedeva l’andamento della situazione.
All'udienza del 2.7.08 il capitano Ape aveva riferito che Iaquinoto Giorgio
risultava solo cartolarmente rappresentante legale della G.L.I. Srl.
Da ciò sarebbe conseguito che la condotta dell'appellante non concretizzava
gli estremi del reimpiego di risorse finanziarie già riciclate, e lo Iaquinoto
sarebbe dovuto essere mandato assolto dalla contestazione di cui all'art.648
ter cp.
In linea subordinata, ha osservato che il Tribunale avrebbe dovuto
qualificare diversamente il delitto contestato, considerando integrata la
diversa fattispecie di cui all'art. 12 quinquies L.356/92 e cioè la condotta del
soggetto cui viene attribuita la titolarità di un bene altrui, in una situazione
di apparenza giuridica e formale.
176 D'altra parte, se l'istruttoria dibattimentale aveva confermato l'esistenza di
un interesse concreto del Di Maggio e del Pipitone all'andamento della
società, nel contempo ha consentito di accertare che la stessa versava in una
grave crisi di liquidità (che la portò al fallimento).
Tale dato si sarebbe posto in oggettivo contrasto con la tesi accusatoria
dell'utilizzo della G.L.I. come canale di reimpiego o di riciclaggio di ingenti
somme di denaro di provenienza illecita.
I giudici di primo grado avrebbero dato per scontata la circostanza (non
dimostrata) che se il Di Maggio ed il Pipitone erano interessati
all'andamento della società, essi avevano investito nella stessa somme di
sicura provenienza illecita; viceversa, il dato processuale che emergeva
sarebbe stato quello della possibile qualità di soci occulti della GLI srl., di
cui risultava, formalmente titolare soltanto lo Iaquinoto.
Nel
contempo, i
sintomatici
movimenti
bancari
ritenuti sospetti o comunque
di riciclaggio o reimpiego avrebbero costituito oggetto di
chiarimento documentale e testimoniale, grazie anche al contributo dei testi
dell'accusa.
Pertanto sarebbero rimasti indimostrati tempi, entità e modalità
dell'investimento illecito ipoteticamente riconducibile al Di Maggio e al
Pipitone.
Con il secondo motivo, anche lo Iaquinoto assume, in via subordinata, che
iI Tribunale avrebbe dovuto escludere, in ordine al reato alui contestato,
l'aggravante di cui all'art.7 D.L. 152/91, ovvero applicarla nella misura
minima, concedendogli in ogni caso le circostanze attenuanti generiche.
Infatti, alla pagina 444 della sentenza impugnata, il Tribunale aveva
motivato la configurabilità dell'aggravante ad effetto speciale di cui all'art.7
del D.L. 152/91 con un lapidario riferimento alla finalità di avvantaggiare
esponenti di vertice della “famiglia” mafiosa di Carini.
In tal modo i primi giudici avrebbero aderito a quel minoritario e meno
recente orientamento di legittimità secondo cui, allorché la condotta di
agevolazione sia posta in essere a vantaggio di un esponente di spicco della
177 struttura di tipo mafioso, essa avrebbe, per ciò solo, una diretta influenza
sull'esistenza dell'organismo criminale.
Al contrario, l'orientamento assolutamente prevalente della Corte di
legittimità ha chiarito che la condotta agevolatrice posta in essere a favore
di un personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non determina
automaticamente, in ragione esclusivamente dell'importanza di questo
soggetto all'interno dell'associazione e del predominio esercitato dal
sodalizio sul territorio, la sussistenza dell'aggravante.
Quest'ultima, infatti, è ravvisabile soltanto nel caso in cui si accerti la
oggettiva funzionalità della condotta all'agevolazione dell'attività posta in
essere dall'organizzazione criminale.
E' quindi necessario distinguere l'aiuto prestato alla persona da quello
prestato all'associazione, potendosi ravvisare l'aggravante solo quando si
accerti (e si motivi) la oggettiva funzionalità della condotta all'agevolazione
dell'attività posta in essere dall'organizzazione criminale.
Ai fini della corretta applicazione dell'aggravante sarebbe stato quindi
indispensabile verificare se ed in quale misura il soggetto agente avesse
inteso fornire un reale aiuto o vantaggio al sodalizio criminale o, per esso,
ad uno dei suoi esponenti apicali.
A tal fine sarebbe stato “indispensabile accertare i concreti tratti esteriori
del comportamento criminoso che ne connotano l'ascrizione alla dinamica
mafioso (nella duplice valenza metodologica o agevolatrice) e che - quanto
alla modalità di agevolazione (aggravante ed. soggettiva) - deve
necessariamente radicarsi nella dimostrazione, in chiave di evidenziazione
di idonei tratti indiziari o sintomatici di una univoca cosciente
finalizzazione agevolatrice della condotta antigiuridica del soggetto
agente” (Cass. VI, 3 novembre 2008, D'Andrea).
Di tanto non vi sarebbe traccia nella impugnata sentenza, che si sarebbe
limitata a dare assiomaticamente per coincidente e sovrapponibile la
178 condotta agevolatrice del singolo esponente criminale con quella in ipotesi
prestata in favore dell'associazione.
Del resto, una diversa interpretazione della norma -quale quella fatta
propria dai giudici di merito- finirebbe per configurare l'aggravante di cui
all'art. 7 L. 203/91 come una sorta di circostanza “ambientale o locale”,
impossibile da eludere in realtà territoriali ad elevata infiltrazione mafìosa.
In ogni caso, l'aumento di pena previsto dall'aggravante ad effetto speciale
poteva essere applicato dal Tribunale nella misura minima di un terzo della
pena base.
Avuto infine riguardo ai parametri di cui all'art. 133 cp, alla ridotta
operatività della G.L.I. Electrotrading srl , al ruolo del tutto secondario
attribuito in sentenza all'odierno appellante, il Tribunale avrebbe dovuto
concedere le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis cp.
Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, rivestendo gli
imputati sostanzialmente la medesima posizione processuale, ove si eccettui
la formale qualifica di amministratore della G.L.I. rivestita dallo Iaquinoto,
mentre il Curuli aveva veste, almeno all’apparenza, di semplice dipendente,
non appaiono - salvo per quanto si dirà in ordine all’aggravante di cui
all’art. 7 D.L. n. 152/1991 - accoglibili.
Come è stato evidenziato dai primi Giudici, nell’odierno giudizio la vicenda
della “Giellei Electro Trading” rileva per le posizioni degli imputati Curulli
e Iaquinoto, accusati di avere contribuito a vario titolo, unitamente a
Cardinale Michele e Vitale (separatamente giudicati con il rito abbreviato),
a convertire denaro di provenienza illecita utilizzandolo nell’ambito della
predetta attività d’impresa, in tal modo agevolando gli investimenti occulti
del Pipitone e del Di Maggio.
Al fine di evidenziare i ruoli e le responsabilità degli odierni imputati, gli
stessi hanno ritenuto necessario fare riferimento a quanto è emerso dalle
indagini svolte dalla Squadra Mobile della Questura e dal Nucleo di Polizia
Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo sulle attività dello Iaquinoto
179 e del Curulli, nonché sui loro collegamenti con esponenti mafiosi di Carini
e di altre zone.
Hanno così acclarato che Iaquinoto Giorgio, amministratore unico della
società - che operava nel settore del commercio all’ingrosso e al dettaglio di
articoli elettronici ed elettrodomestici - era un personaggio noto agli
inquirenti, già prima che nel 2003 si sviluppassero le indagini sugli
appartenenti alla cosca di Carini; nel maggio del 2001 era stata infatti
richiesta l’intercettazione di comunicazioni su una utenza radiomobile
intestata allo Iaquinoto, ma in uso a Sirchia Giovanni, esponente della
“famiglia” mafiosa di “Passo di Rigano” ritenuto vicino a Lo Piccolo
Salvatore, capomandamento di San Lorenzo, all’epoca latitante.
Nel corso di una conversazione intercettata all’interno del deposito di
Gottuso Salvatore alle ore 9,58 del giorno 8 ottobre 2002, lo stesso Gottuso,
dialogando con un interlocutore non identificato, diceva che avrebbe dovuto
recarsi a Carini per parlare con tale “Enzo”, ancorché avesse poi rimandato
la trasferta, allarmato dalla notizia dell’arresto di Maltese Umberto.
La conversazione offriva preziosi elementi conoscitivi, che avrebbero
consentito di giungere all’identificazione di “Enzo” e, nello stesso tempo, di
documentarne la contiguità ai Pipitone di Carini; in primo luogo, la notizia
che la figlia di “Enzo” era fidanzata con il figlio di “Nino” Pipitone,
indicato come il vero “padrone” della società.
Gli organi inquirenti accertavano in realtà, a parte il lapsus in cui il Gottuso
era ioncorso, nell’attribuire a Pipitone Vincenzo il nome del figlio
Antonino, e viceversa, che effettivamente Pipitone Antonino era stato
fidanzato con Curulli Ida, figlia dell’imputato; e si appurava, inoltre, che il
Curulli aveva quattro figli, di cui due di sesso femminile, come era stato
precisato dal Gottuso.
Nel corso di un colloquio avvenuto il 21 dicembre 2001 all’interno
dell’autovettura
di
Landolina
Pietro
(tratto
in
arresto
all’esito
dell’operazione “Piana dei Colli”, il Gottuso riferiva al predetto Landolina
180 di vantare un credito di trenta milioni di lire nei confronti di Enzo Curulli,
indicato come un commerciante di elettrodomestici.
Alla stregua della successiva attività di indagine svolta dalla Polizia di Stato
e dalla Guardia di Finanza, si accertava che nel maggio del 2003 l’elenco
del personale impiegato presso la sede di Carini della “Giellei Electro
Trading” comprendeva Candela Edoardo, con mansioni di autista; Pipitone
Antonino, con mansione di magazziniere; Di Maggio Giovanni (figlio di
Antonino), con mansioni di generico; Di Maggio Antonino, con mansioni di
responsabile commerciale; Pipitone Francesca e Curulli Vincenzo.
La presenza di Di Maggio Antonino, di un suo familiare e dei figli di
Pipitone Vincenzo configurava un primo dato di rilevante interesse
investigativo, rafforzato dal contenuto di una conversazione telefonica
avvenuta il 9 maggio 2003, alle ore 14,13, tra un impiegato di nome
“Roberto” - identificato in Vitale Fortunato, ragioniere addetto alla tenuta
della contabilità - e sua moglie Silvana, dalla quale risultava che era in
realtà lo “Zù Nino” Di Maggio - e non l’amministratore unico Iaquinoto - a
prendere le decisioni inerenti il pagamento delle retribuzioni.
Due successive conversazioni, captate all’interno dell’autovettura “Jaguar”
in uso a Pipitone Vincenzo ed intercorse tra lo stesso Pipitone e il Di
Maggio, contribuivano a rendere più chiaro il quadro della vicenda e la
cointeressenza nella società dei due esponenti di vertice della cosca mafiosa
di Carini.
Nel corso della prima il Pipitone, alla presenza di un altro soggetto non
identificato, prospettava al Di Maggio l’opportunità di chiudere l’attività
commerciale; il Di Maggio, dal canto suo, ipotizzava la possibilità di
effettuare, prima della chiusura, ordinativi di merce per importi elevati con
pagamenti dilazionati nel tempo, in frode ai fornitori.
Nel corso della seconda, il Pipitone e il Di Maggio, nel discutere dell’andamento della società, accusavano apertamente il Curulli e lo Iaquinoto di
avere sottratto dalla cassa sociale ingenti somme di denaro, ed il Pipitone
suggeriva, quindi, al Di Maggio di chiedere la dichiarazione di fallimento,
181 per cercare di recuperare almeno una parte delle somme investite nella
società stessa, così rivelando un loro interesse personale e diretto alla
situazione finanziaria della società, incompatibile sia con il ruolo formale di
magazziniere del Di Maggio, sia con la posizione del Pipitone che, almeno
in apparenza, era del tutto estraneo all’assetto di essa.
Ulteriore conferma del fatto che nella Giellei Electro Trading era stato
investito denaro del Pipitone e del Di Maggio era stata fornita da una
ulteriore intercettazione intercorsa all’interno del deposito di ceramiche del
Gottuso, tra quest’ultimmo e tale Musso Giuseppe.
I due menzionavano tale Gelsomino, Di Maggio Antonino, Curulli
Vincenzo e tale Masucci, in relazione ai guadagni legati all’acquisto di
grosse partite di telefoni cellulari e ai gravi danni economici arrecati dal
Curulli ai mafiosi di Carini, danni consistiti in un “buco” di dieci miliardi
di lire.
Altri elementi valorizzati dal Tribunale sono costituiti dalle indagini svolte
dal Capitano della Guardia di Finanza Antonio Ape, in servizio, all’epoca
degli accertamenti di p.g., al Nucleo Speciale di Polizia Valutaria di
Palermo, il quale aveva riferito di operazioni bancarie sospette, intercorse
tra una banca di Carini ed una banca di Acireale, relative ad una cospicua
movimentazione di capitali, formalmente riconducibili allo Iaquinoto,
effettuata da quest’ultimo nel breve periodo di tempo intercorso tra il marzo
e il giugno del 2000.
In tale periodo, la filiale di Carini della Banca Mercantile (che in seguito
assunse la denominazione di Banca Popolare di Lodi) aveva emesso vari
assegni circolari richiesti, a fronte di versamento di denaro contante, dallo
stesso Iaquinoto, da Curulli Vincenzo e dal figlio Pietro, per un importo
complessivo di 328.418 euro.
Gli assegni circolari erano stati versati sul conto corrente intrattenuto dallo
Iaquinoto presso la filiale di Acireale della Banca Popolare di Santa Venera,
e sullo stesso conto erano stati poi versati assegni bancari per un importo di
163.503 euro e denaro contante per un importo complessivo di 178.384
182 euro. Era stato poi accertato che lo Iaquinoto, una volta raccolta la provvista
con le modalità anzidette, aveva emesso assegni bancari in favore di
dipendenti della Giellei Electro Trading, ovvero di soggetti che gravitavano
attorno alla figura del Curulli; si trattava, in particolare, di Leto Fabio,
Candela Edoardo Vincenzo, Cocuzza Gabriella, Vitale Fortunato, Tarantino
Salvatore, Riggio Antonino, Pipitone Antonino, Pipitone Francesca, Lunetta
Antonia, Curulli Pietro e lo stesso Curulli Vincenzo.
Altri assegni bancari erano stati emessi in favore di due società, cioè la Ellei
Trasporti s.a.s. di Curulli Pietro, e la stessa Giellei Electro Trading (nata a
seguito della cessazione della Ellei Trasporti), di cui lo Iaquinoto era
amministratore unico.
Di Maggio Antonino e Di Maggio Giovanni erano statti entrambi assunti
successivamente a tali movimentazioni bancarie, il 16.4.2002.
Erano state poi approfondite le indagini sui rapporti commerciali esistenti
tra la Giellei Electro Trading e due società operanti a Catania, denominate
Keletron s.r.l. e CMA Trading s.r.l., già oggetto di indagini da parte della
Procura della Repubblica di Catania, essendo stati gli amministratori
denunciati per emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni
inesistenti.
Si era accertato, in particolare, che dopo il versamento nella banca di
Acireale degli assegni circolari, lo Iaquinoto aveva emesso assegni in
favore delle due società per un importo complessivo di circa 100.000 euro;
tuttavia, dall’esame della documentazione bancaria era emerso che la prima
girata di tali assegni era stata effettuata in bianco; il nominativo del
soggetto che aveva posto gli assegni all’incasso era sempre quello di
Iaquinoto Giorgio, che così rientrava nella disponibilità delle somme
fittiziamente erogate alle due società in questione; e che il meccanismo
descritto rivelava chiaramente che si trattava di due cd. “cartiere”.
L’analisi delle scritture contabili della società, poi, aveva rilevato anomali
prelevamenti
dal
conto
cassa
e
dal
conto
banca
in
favore
dell’amministratore e socio unico Iaquinoto Giorgio, per un importo
183 complessivo di oltre 860 milioni di lire, di cui non risultava la successiva
restituzione.
Ed altrettanto anomalo risultava l’importo degli interessi passivi corrisposti
alle banche, esposto nel bilancio relativo all’anno 2000, importo pari a circa
12.000 euro, irrisorio rispetto al consistente volume di affari della società,
pari a circa due milioni di euro. Tale modesto valore, a giudizio del
Capitano Ape, avrebbe fatto apparire la Giellei Electro Trading come una
società molto solida, che non aveva la necessità di ricorrere al
finanziamento bancario per sviluppare l’attività e riusciva a fronteggiare gli
impegni finanziari con mezzi propri, contrariamente a quanto si verifica
nella comune esperienza commerciale.
I primi Giudici hanno poi rilevato che in data 8.2.2001 era stato registrato
un atto di compravendita tra la Giellei Electro Trading e Saladino
Benedetto, la cui azienda, con sede in Castelvetrano, fu acquisita per un
valore dichiarato di circa 38.000 euro e quindi ceduta in data 4.11.2002 per
un valore dichiarato di 60.000 euro a Curulli Pietro (figlio di Vincenzo).
In data 5.7.2001 era stato registrato un atto di compravendita tra la Giellei
Electro Trading e la A.C. Company s.p.a., avente sede in Ragusa, acquistata
per un valore dichiarato di oltre 10.000 euro e ceduta in data 4.11.2002 (lo
steso giorno in cui fu ceduta la sede di Castelvetrano) per un valore
dichiarato di 37.500 euro a Vitale Fortunato, dipendente della stessa Giellei
Electro Trading.
Esaminando la situazione economica e reddituale dello Iaquinoto e del
Curulli negli anni di imposta compresi tra il 1998 e il 2003, gli organi
investigativi avevano rilevato un’enorme sproporzione tra il volume delle
movimentazioni finanziarie e i redditi dichiarati; in alcuni casi, nello stesso
arco temporale, i due odierni imputati non avevano neppure presentato le
dichiarazioni dei redditi.
Sull’accordo delle parti era stato poi acquisito, ai sensi dell’art. 493 c.p.p., il
verbale delle dichiarazioni rese dallo Iaquinoto in data 7.10.2002 (ex art 29
184 del D.P.R. n. 148/1988) circa le operazioni finanziarie della Giellei Electro
Trading e i rapporti con le s.r.l. CMA Trading e Keletron.
In tale circostanza, questi aveva riferito che nella sua qualità di
rappresentante legale della Giellei Electro Trading aveva acquistato
un’attività commerciale sita in Ragusa dalla “A.C. Company s.p.a.” di
Acireale per 25 milioni di lire, nonché un’ulteriore attività commerciale in
Castelvetrano da Saladino Benedetto, per un importo pari a 70 milioni di
lire; per un periodo di circa 5 o 6 mesi, tra la fine del 2000 e l’estate del
2001 aveva effettuato una serie di anomale operazioni finanziarie con. tale
Rinallo Angelo, titolare di una ditta individuale nell’Agrigentino, fallita nel
2001; in particolare il Rinallo, che versava in una situazione di difficoltà
finanziaria, non era in grado di onorare gli impegni assunti alle scadenze
prestabilite, sicché sovente lo Iaquinoto gli consegnava un proprio assegno
(bancario o circolare) di importo pari o inferiore all’importo del quale il
Rinallo era debitore; in tal modo quest’ultimo versava l’assegno ricevuto ed
evitava il protesto; contestualmente il Rinallo emetteva altri assegni nei
confronti dello Iaquinoto con una data successiva e per un importo
corrispondente; il Rinallo talvolta corrispondeva merce in pagamento, il cui
valore veniva quindi scomputato dall’importo dovuto. In altre occasioni, per
favorire il Rinallo, lo Iaquinoto forniva denaro contante o assegni circolari
appositamente emessi sul conto della società o sul suo conto corrente
personale (a seconda della momentanea disponibilità) della Banca
Mercantile di Carini; ed analoghe operazioni finanziarie lo stesso aveva
effettuato con i rappresentanti di varie società.
Notevole rilevanza è stata attribuita dal Tribunale alle dichiarazioni di La
Porta Girolamo, escusso ai sensi dell’art. 210 c.p.p.
Questi, dopo avere premesso di essere stato il consulente contabile della
Giellei Electro Trading fin dal 1999, anno della sua costituzione, ha
affermato che alla compagine sociale partecipavano come soci di fatto sia il
Curulli, sia il Di Maggio, i quali formalmente figuravano come impiegati: il
pri- mo, essendo stato protestato, non poteva accedere alle linee di credito;
185 il secondo era sicuramente un socio di fatto, alla stregua delle dinamiche
aziendali, e, in ogni caso, partecipava alle riunioni con il Curulli e lo
Iaquinoto, discutendo con loro tutte le questioni relative alla gestione della
società.
Quando il Curulli e lo Iaquinoto decisero di abbandonare i trasporti e di
dedicarsi al commercio di articoli di elettronica, aprirono un negozio di
ingrosso a Carini, nella via dei Limoni; il primo si occupava della vendita,
attività in cui era molto capace; il secondo curava prevalentemente la parte
amministrativa; a quel tempo la ditta era denominata Ellei ed aveva la
forma di una società di persone; fu lo stesso La Porta a consigliare ai due
odierni imputati di porre in liquidazione la società e di costituire una nuova
società a responsabilità limitata, denominata Giellei Electro Trading.
Successivamente furono aperti altri punti vendita a Castelvetrano, a Ragusa
e a Mazara del Vallo.
Il La Porta ha affermato che, prescindendo dal valore delle giacenze di
magazzino – peraltro soggette a una rapida svalutazione per obsolescenza,
essendo articoli di elettronica - la società era sostanzialmente in perdita;
inoltre, il Di Maggio aveva anticipato circa 30.000/40.000 euro alla società;
quest’ultima, durante il periodo di detenzione del Di Maggio, aveva a sua
volta corrisposto ai familiari la retribuzione mensile di pertinenza dello
stesso Di Maggio, sicché vi era un conto di dare-avere che doveva essere
regolato; d’altra parte, anche la moglie e il figlio del Di Maggio erano stati
formalmente assunti dalla società.
I versamenti periodici al Di Maggio erano stati tutti registrati in una
ricevuta; poiché il Di Maggio aveva smarrito tale ricevuta, i suoi soci ne
esibirono una copia; ma quando il Di Maggio ritrovò la sua ricevuta e la
confrontò con quella esibita dai soci, si rese conto che la copia era stata
contraffatta ai suoi danni, e pensò che gli fosse stata sottratta una
consistente somma di denaro, di cui richiese la restituzione in quattro rate
mensili.
186 Il contrasto venne composto mercé l’intevento di Vincenzo Pipitone, il cui
figlio, come si è detto, era fidanzato con la figlia del Curuli, ma la vicenda
aggravò la crisi finanziaria della società, e da quel momento fu il Di
Maggio a gestire personalmente gli incassi, non fidandosi più degli altri
soci.
Vincenzo Pipitone, ha soggiunto il La Porta, entrò successivamente nella
compagine sociale per rimpinguare le casse della società e fare assumere il
figlio Nino, versando a titolo di acconto una somma tra i 25.000 e i 40.000
euro e riservandosi di versare il saldo, non appena avesse venduto un
terreno di sua proprietà; anche il figlio del Curulli era stato assunto dalla
società e percepiva lo stipendio.
Formalmente l’unico socio era lo Iaquinoto, ma in realtà la società era di
fatto suddivisa in quattro quote, i cui titolari erano dunque, oltre allo stesso
Iaquinoto, il Curulli, il Di Maggio e il Pipitone; in seguito, anche il Pipitone
manifestò il suo risentimento, accusando gli altri di avergli venduto solo
debiti, ed uscì dalla compagine sociale, forse senza nemmeno recuperare il
denaro che vi aveva investito.
Alla fine la società fu dichiarata fallita; i punti vendita di Castelvetrano e
Ragusa vennero chiusi, mentre il negozio di Mazara del Vallo fu ceduto a
terzi.
Il Tribunale ha, quindi, esaminato le dichiarazioni dei “collaboranti” Pulizzi
Gaspare e La Manna Angelo.
Il primo ha riconosciuto l’effigie fotografica dello Iaquinoto, riferendo che
era l’amministratore della società Giellei Electro Trading, alla cui
compagine
partecipavano
Enzo
Curulli,
Nino
Di
Maggio
e,
successivamente, anche Enzo Pipitone.
Ha ammesso di avere costituito, su richiesta di Pipitone Vincenzo, verso la
fine del 2002, un’impresa denominata “Elettronica”, tramite il ragioniere La
Porta, all’unico scopo di emettere fatture false in favore della Giellei
Electro Trading; in particolare, la “Elettronica” avrebbe acquistato
187 fittiziamente da una ditta di Forlì telefoni cellulari che poi rivendeva alla
Giellei Electro Trading. Ha rammentato, poi, di avere messo a disposizione
della Giellei Electro Trading il proprio conto corrente personale e quello
che aveva aperto come titolare della “Elettronica” per un giro di assegni,
effettuato a titolo di cortesia su richiesta del Curulli e dello Iaquinoto.
Il collaborante ha mostrato di non avere conservato un ricordo preciso degli
esatti termini della vicenda, che era gestita all’interno della Giellei Electro
Trading, ma ha dichiarato che si trattava sostanzialmente di uno scambio di
assegni alla pari, allo scopo di creare liquidità immediatamente disponibile
per la società.
Il secondo ha rammentato, per quello che interessa nell’odierna sede
processuale, di avere effettuato, tra il 2004 e il 2005, attraverso l’impresa
edile di cui era titolare, una fornitura di climatizzatori in favore della Giellei
Electro Trading al prezzo concordato di 180.000 euro; che il Curulli, che gli
aveva commissionato l’acquisto, tuttavia, gli aveva detto che il denaro
sarebbe stato versato da due mafiosi, ai quali lo stesso La Manna avrebbe
dovuto offrire una riduzione del prezzo originario: si trattava di Pipitone
Vincenzo e di Di Maggio Antonino, i quali si qualificarono come esponenti
mafiosi e gli dissero in termini perentori che avrebbero pagato per
l’acquisto dei climatizzatori la somma di 60.000 euro, e che, se non avesse
accettato, non avrebbe potuto vendere la merce a nessun’altro.
Elementi probatori in ordine al reato di che trattasi sono emersi pure dalle
dichiarazioni degli imputati.
Il Curulli, infatti, ha ammesso esplicitamente la sua partecipazione alla
società, affermando di avere dapprima fondato con lo Iaquinoto, negli anni
’90, una società denominata “Risas” di Lunetta Antonina, operante nel
settore del trasporto merci; la Lunetta era sua sua moglie, ed era entrata solo
formalmente nella compagine sociale, in quanto egli era in attesa di espiare
una pena inflittagli nel 1992 in relazione ad una vicenda di natura estorsiva.
Nel marzo del 2000, decise con lo Iaquinoto di dare vita alla società Giellei
Electro Trading, con sede a Villagrazia di Carini, operante nel settore della
188 vendita all’ingrosso di elettrodomestici; inserendo im luogo della Lunetta,
nella compagine sociale il figlio Pietro, nel frattempo divenuto
maggiorenne.
Ha sostenuto poi che assumeva personalmente, assieme allo Iaquinoto, le
decisioni gestionali, di avere successivamente conosciuto Pipitone
Vincenzo, cognato del Di Maggio, e che in seguito, nel 2001, sua figlia si
era fidanzata con il figlio del Pipitone, a nome Nino, che fu assunto nel
punto vendita di Castelvetrano.
Ha negato, tuttavia, di avere ricevuto denaro, beni o altre utilità dal Di
Maggio, ed ha affermato, quanto al Pipitone, che questi gli prestò a titolo
personale quaranta milioni di lire nell’aprile del 2002, in una fase di grave
dissesto della società, ancorché tale apporto di liquidità non valse ad evitare
la dichiarazione di fallimento.
Sull’accordo delle parti è stato acquisito il verbale di interrogatorio del
29.1.2007, di Iaquinoto Giorgio, nel corso del quale l’imputato aveva
sostanzialmente negato che il Pipitone e il Di Maggio avessero una
compartecipazione nella Giellei Electro Trading.
In sede dibattimentale, l’imputato ha precisato che sotto il profilo formale
egli era socio del figlio del Curulli (di nome Pietro), ma che in realtà lo
stesso Vincenzo Curulli era socio di fatto.
Ha aggiunto che alla fine dell’anno 2000, Curulli Pietro era uscito dalla compagine sociale e le quote erano state interamente da lui rilevate.
Con riferimento alla intercettazione telefonica della conversazione avvenuta
il 9.5.2003 tra “Roberto” e “Silvana”, interpellato specificamente sulla
figura dello zio Nino, richiamata nel corpo di tale conversazione, lo
Iaquinoto ha precisato che si trattava di Di Maggio Antonino, un altro
dipendente della società che svolgeva le mansioni di magazziniere; ed ha
quindi affermato che, nella qualità di socio unico e amministratore unico
della società, egli stesso assumeva in prima persona tutte le decisioni
gestionali e operative.
189 Con riguardo alla conversazione telefonica tra il Di Maggio e il La Porta,
intercettata il 6.6.2003, l’imputato non è stato in grado di fornire una
spiegazione in ordine a quei passaggi nei quali il Di Maggio interloquiva
con il consulente contabile, in modo interessato e partecipe, sulla precaria
situazione finanziaria dell’azienda.
Soffermandosi sulle modalità di gestione della società, lo Iaquinoto ha
sostenuto di non avere mai versato denaro contante alla Banca Popolare di
Lodi (filiale di Carini), ma soltanto assegni tratti sul suo conto corrente
della Banca Santa Venera di Acireale, che aveva precedentemente aperto
poiché in quella zona vi era un suo fornitore; tali assegni, in particolare,
erano versati sul suo conto o sui conti dei dipendenti intrattenuti presso la
Banca Popolare di Lodi, che emetteva assegni circolari per importi
corrispondenti, con i quali venivano coperti gli assegni della Banca Santa
Venera; in sostanza il giro di assegni serviva ad acquistare valuta, per
tamponare una mancanza temporanea di liquidità.
Nel gennaio del 2001 egli, sulla base del consistente fatturato realizzato
nell’anno precedente, aveva pensato di aumentare il capitale sociale; e
l’aumento era stato regolarmente deliberato, ma poi non venne effettuato
alcun versamento di capitale.
Fate tali premesse, ritiene la Corte che il convincimento dei primi Giudici
sulla colpevolezza di entrambi gli anzidetti imputati in ordine al reato di
cuii all’art. 648.ter c.p. debba esse condiviso.
Gli stessi hanno osservato che costituisce ormai patrimonio acquisito, sotto
il
profilo
storico
e
giudiziario,
il
fatto
che
la
pericolosità
dell’organizzazione mafiosa si manifesta in modo particolarmente insidioso
nel settore delle attività imprenditoriali.
Effettivamente, infatti, l’associazione mafiosa trova più rispondente alle
proprie finalità illecite divenire essa stessa imprenditrice, anche per
interposta persona, acquisendo aziende già esistenti o costituendone di
nuove; ciò non soltanto per investire una ricchezza ab origine inquinata in
quanto di provenienza illecita, ma anche allo scopo di accrescere la capacità
190 di penetrazione nel tessuto economico e consolidare così la propria
affermazione egemonica sul territorio.
Nella specie, alla stregua della compiuta istruttoria, è emerso che l’acquisizione della gestione e del controllo di attività economiche è stata realizzata
mediante l’immissione di capitali di derivazione illecita nel circuito
finanziario delle attività d’impresa, nonché mediante il ricorso alla
interposizione di terzi nella titolarità di tali attività, in realtà riconducibili
alla sfera degli interessi patrimoniali di esponenti dell’organizzazione
mafiosa.
Va condiviso, infatti, il rilievo secondo cui le univoche risultanze dei servizi
di intercettazione, valutate unitamente ai concordanti apporti dichiarativi di
Pulizzi Gaspare, La Porta Girolamo e di La Manna Angelo, nonché agli
esiti delle attività di verifica poste in essere dagli organi investigativi, hanno
consentito di accertare che il Curulli e lo Iaquinoto, pienamente consapevoli
della specifica finalità dei rispettivi apporti, hanno creato la fittizia
apparenza di una società interamente riconducibile allo stesso Iaquinoto, ma
in realtà partecipata con quote rilevanti da singoli esponenti della
“famiglia” mafiosa di Carini.
In tal modo, gli imputati hanno consentito il reimpiego - nell’esercizio
dell’attività di impresa - di risorse finanziarie di provenienza delittuosa loro
direttamente conferite dagli appartenenti al citato sodalizio mafioso,
mentre, alla stregua di quanto si è venuti fin qui esponendo, risulta
all’evidenza come la derivazione di tali risorse fosse di natura pressoché
esclusivamente illecita, costituendo esse
il frutto dell’attività estorsiva
esercitata dagli imputati sulle imprese operanti nel territorio di loro
“competenza”.
Del resto, come è stato esattamente rilevato dal Tribunale, dalle risultanze
investigative acquisite, è emersa l’effettiva natura dell’inserimento del Di
Maggio e del Pipitone nella società, che era formalmente amministrata dal
solo Iaquinoto e che vedeva anche la partecipazione occulta del Curulli.
Appare sufficiente, a tal fine, fare riferimento ai collegamenti di natura
191 familiare tra il Curulli e Vincenzo Pipitone ed alla significativa presenza,
fra i dipendenti della Giellei Electrotrading, di congiunti dello stesso
Pipitone e del Di Maggio (quest’ultimo formalmente assunto con la
qualifica di magazziniere). Inoltre, dalle conversazioni intercettate
all’interno del deposito del Gottuso è stato possibile trarre la conferma degli
accordi esistenti fra i predetti esponenti mafiosi ed il Curulli, ed è stata
acquisita l’esplicita indicazione del Pipitone, nelle affermazioni dello stesso
Gottuso, come il vero “padrone” della società nella quale operava il Curuli.
La conversazione telefonica intercorsa tra Vitale Fortunato (Roberto) e la
moglie Silvana, ha offerto un quadro evidente della reale attribuzione dei
poteri di gestione nell’ambito della società, indicando il Di Maggio come la
persona competente ad assumere le decisioni in materia di pagamento degli
stipendi. Ed ancora, dai colloqui tra il Di Maggio e il Pipitone è emersa con
assoluta chiarezza la cointeressenza dei due interlocutori nella Giellei
Electro Tra- ding, resa palese dal riferimento alla opportunità di chiedere il
fallimento della società e dall’auspicio di recuperare almeno in parte le
somme che vi erano state investite,
Significative appaiono pure le convergenti deposizioni del Pulizzi e del La
Porta, i quali hanno descritto, in sostanza negli stessi termini, il reale assetto
societario,
affermando
che,
se
formalmente
lo
Iaquinoto
era
l’amministratore unico, partecipavano in modo occulto alla compagine
sociale, oltre al Curulli, anche il Di Maggio e il Pipitone.
In particolare, come era stato riferito dal La Porta, i due esponenti della
“famiglia” mafiosa di Carini avevano conferito ingenti somme di denaro nel
capitale della società, ed il il Di Maggio partecipava, unitamente al Curuli
ed allo Iaquinoto, alle riunioni nelle quali si discuteva della gestione della
società e, quando si aggravò la situazione di dissesto finanziario, assunse un
ruolo di controllo ancora più marcato.
A fronte di siffatto cospicuo compendio probatorio, va condiviso il
convincimento espresso dai primi Giudici, secondo cui poco rilievo
192 rivestirebbe il giro di assegni fra le banche di Carini e di Acireale accertato
dalla Guardia di Finanza e descritto, oltre che da taluni dei soggetti
direttamente coinvolti (come il La Porta, il Candela, il Leto e il Pulizzi),
anche dallo stesso Iaquinoto, ancorché esso ben potesse costituire uno
strumento precipuamente diretto al riciclaggio di capitali di origine illecita
riconducibili all’associazione mafiosa.
Secondo la tesi accusatoria, l’interposizione di società “cartiere”, gli ingenti
e ricorrenti versamenti di denaro contante, l’utilizzo di assegni circolari e
l’emissione di assegni bancari per gli stessi importi, incassati da soggetti
vicini al Curulli Vincenzo o comunque inseriti nell’elenco dei dipendenti, la
circostanza che tali movimentazioni oggettivamente anomale avvenissero
tra istituti bancari situati a centinaia di chilometri di distanza e che esse non
fossero giustificabili in relazione all’attività commerciale svolta dalla
società, sarebbero tutti elementi indicativi di una serie di condotte volte alla
“ripulitura” e al “ritorno” di cospicue somme di denaro di provenienza
illecita, secondo lo schema normativo tipico del riciclaggio.
Le difese degli imputati hanno continuato a sostenere, anche nei loro
rispettivi atti di appello, che in realtà tali operazioni sarebbero state
determinate dalla necessità di fronteggiare la mancanza di liquidità nella
quale la Giellei Electro Trading si dibatteva nel periodo considerato dalla
contestazione.
Tale complesso meccanismo sarebbe stato articolato nel senso che i
versamenti di assegni circolari emessi dalla banca di Carini erano preceduti
dall’emissione di assegni della banca di Acireale di pari importo, sicché gli
importi in entrata e in uscita dei due conti correnti erano sostanzialmente
corrispondenti; gli assegni bancari dell’istituto di credito di Acireale erano
cambiati presso la banca di Carini con il ritiro del denaro contante, che
veniva utilizzato lo stesso giorno per emettere gli assegni circolari; tali
assegni circolari erano destinati alla copertura degli assegni bancari
dell’istituto di credito di Acireale; ed in definitiva, la provvista per emettere
gli assegni circolari della banca di Carini proveniva da denaro contante
193 derivante dall’in- casso, immediatamente precedente, degli assegni della
banca di Acireale.
E se non può effettivamente escludersi che tali anomale movimentazioni
corrispondessero ad una mera partita di giro tra i conti correnti interessati,
posta in essere allo scopo precipuo di creare una liquidità meramente fittizia
e fronteggiare, in tal modo, le impellenti esigenze di pagamento dei
fornitori; ciò non sarebbe stato di ostacolo a sostenere che, in ogni caso,
dietro l’attività commerciale apparentemente riconducibile allo Iaquinoto e,
indirettamente, al Curulli (quest’ultimo nella qualità socio di fatto della
Giellei Electro Trading), si celavano in realtà specifici interessi patrimoniali
del Pipitone e del Di Maggio.
È stato pur sempre accertato, infatti, come si è visto, che i due esponenti di
vertice della cosca mafiosa di Carini avevano conferito ingenti risorse
finanziarie di origine illecita nel capitale sociale ed erano, unitamente al
Curulli, i reali gestori occulti della società, dietro lo schermo della titolarità
formale attribuita al solo Iaquinoto. Né può, d’altra parte, attribuirsi
particolare rilievo al dissesto finanziario della società (dissesto effettivo,
tant’è che era culminato nella dichiarazione di fallimento), come sostiene in
particolare lo Iaquinoto nel suo atto dei appello, poiché, se è vero che gli
investimenti di carattere economico – finanziario operati dagli adepti di
“cosa nostra” o da soggetti ad essa vicini, sono di regola assai vantaggiosi,
non può certamente escludersi che a volte tali investimenti, per incapacità
dei soggetti che li pongono in essere, o per sfavorevoli congiunture
econimniche, o per altri motivi contingenti, riescano del tutto improduttivi
e, anzi, dannosi, come si è verificato nel caso in specie, per la stessa
associazione criminosa. Non è seriamente sostenibile, infatti, che la perdita
del denaro, o dei beni o delle altre utilità investite in attività apparentemente
lecite tolga agli stessi il carattere di illiceità derivante dalla loro
provenienza.
Si è visto che, con riguardo al profilo della qualificazione giuridica delle
condotte in contestazione, premesso che nei confronti degli imputati era
194 stata elevata un’imputazione di natura cumulativa, ai sensi degli artt. 648
bis e 648 ter c.p., il Tribunale ha ritenuto che tra le fattispecie in esame
sussiste
un
rapporto
di
specialità,
dal
momento
che,
secondo
l’insegnamento della S.C., esse hanno come presupposto comune la
provenienza da delitto del denaro e dell’altra utilità di cui l’agente dispone
e, sotto il profilo soggettivo, richiedono la specifica finalità di far perdere le
tracce dell’origine illecita; con l’ulteriore peculiarità, quanto al reato di cui
all’art. 648 ter c.p., che detta finalità deve essere perseguita mediante
l’impiego delle risorse in attività economiche o finanziarie.
Ha, pertanto, ritenuto, avuto riguardo alle concrete modalità realizzative
della condotta, attuata mediante l’immissione nel circuito economico di
risorse finanziarie di derivazione illecita, di dovere ricondurre i fatti
contestati al Curulli e allo Iaquinoto unicamente nell’alveo di operatività
dell’art. 648 ter c.p.
Tale affermazione va, ad avviso della Corte, condivisa.
Si ritiene, tuttavia, di dover aggiungere, avuto riguardo, altresì, alla
richiesta, formulata dallo Iaquinoto in via subordinata, di riconduzione della
fattispecie concreta in esame nell’ambito di applicabilità dell’art. 12
quinques della legge n. 356/1992, alcune precisazioni.
Secondo l’orientamento espresso in alcune recenti sentenze dalla S.C.,
integra il solo delitto di impiego di beni di provenienza illecita, nel quale
rimangono assorbiti quelli di ricettazione e di riciclaggio, colui che realizza,
in un contesto unitario caratterizzato sin dall'origine dal fine di reimpiego
dei beni in attività economiche o finanziarie, le condotte tipiche di tutte e
tre le fattispecie menzionate. La Corte ha altresì precisato che, per
converso, qualora, dopo la loro ricezione o la loro sostituzione, i beni di
provenienza illecita siano oggetto, sulla base di una autonoma e successiva
determinazione volitiva, di reimpiego, tale condotta deve ritenersi un mero
195 post factum non punibile dei reati di ricettazione o di riciclaggio in forza
della clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 648 ter cod. pen.
Invero, chi impiega denaro “sporco”, ossia di provenienza delittuosa,
direttamente in un'attività economica o finanziaria, così ripulendolo,
risponde non del reato di riciclaggio, ma di quello punito dall'art. 648 ter
c.p. (Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita). In
quest'ultimo, infatti, risulta assorbita la precedente attività di sostituzione o
di ricezione. Invece, se taluno sostituisce denaro di provenienza illecita con
altro denaro od altre unità e, poi, impieghi i proventi derivanti da tale opera
di ripulitura in attività economiche o finanziarie, risponde del solo reato di
riciclaggio (art. 648 bis c.p.) con esclusione del 648 ter c.p. I reati di cui
agli art. 648 e 648 bis c.p. prevalgano solo nel caso di successive azioni
distinte, le prime di ricettazione o riciclaggio, le seconde di impiego, mentre
si applica solo il delitto di cui all'art. 648 ter nel caso di una serie di
condotte realizzate in un contesto univoco, sin dall'inizio finalizzato
all'impiego.
In conclusione, ai fini della distinzione tra l'ipotesi di reato di cui all'art. 648
ter c.p. (impiego di danaro, beni o utilità di provenienza illecita) e quella di
cui all'art. 648 bis c.p.(riciclaggio), assume decisivo rilievo l'elemento
costituito dalla necessaria contestualità tra la sostituzione dei beni e la
destinazione degli stessi (anche a livello di determinazione volitiva) non
solo alla specifica finalità (propria del reato di riciclaggio) di far perdere le
tracce della loro origine illecita, ma anche a quella di realizzare tale
obiettivo proprio mediante l'impiego in attività economiche o finanziarie,
dovendosi invece ritenere che, in difetto di detta contestualità, siffatto
impiego, successivamente intervenuto, costituisca un post factum non
punibile, rispetto alla già avvenuta commissione dell'altro reato (Cass. Pen.
Sez. II, 11 novembre 2009, n. 4800).
In conclusione, con la previsione dell'art. 648 ter c.p., il legislatore ha
voluto sanzionare una fase ulteriore e successiva a quella vera e propria del
riciclaggio e cioè l'anello terminale sfociante nell'investimento produttivo
196 dei proventi di origine illecita; tale condotta di impiego presuppone che la
fase di ripulitura del denaro illecito sia già avvenuta e che l'agente impieghi
in attività economico - finanziarie il capitale, consapevole della sua
provenienza delittuosa e dell'avvenuta ripulitura da parte di altri. (Cass.
Pen. Sez. VI, 21 settembre 2000, Villecco).
Ancora più marcata appare la differenziazione del suddetto reato di cui
all’art. 648 iter c.p. da quello di cui all’art. 12- quinquies, comma 1, del d.l.
n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356/1992, che si realizza con la
commissione di atti finalizzati ad eludere le misure di prevenzione
patrimoniali o anticontrabbando, ovvero ad agevolare la commissione di
reati di ricettazione e di riciclaggio Cass. Pen. Sez. II, 9 luglio 2009, n.
39303.
Il delitto di trasferimento fraudolento di valori, infatti, è una fattispecie a
forma libera che si concretizza nell'attribuzione fittizia della titolarità o
della disponibilità di denaro o altra utilità realizzata in qualsiasi forma. Il
fatto-reato consiste nella dolosa determinazione di una situazione di
apparenza giuridica e formale della titolarità o disponibilità del bene,
difforme dalla realtà, al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale
o di contrabbando ovvero al fine di agevolare la commissione di reati
relativi alla circolazione di mezzi economici di illecita provenienza. Ha
specificato la Corte che se, da un lato, i termini titolarità e disponibilità
impongono di comprendere nella previsione normativa non solo le
situazioni del proprietario o del possessore ma anche quelle nelle quali il
soggetto venga comunque a trovarsi in un rapporto di signoria con il bene;
dall'altro lato, impongono altresì di considerare ogni meccanismo che
realizzi la fittizia attribuzione consentendo al soggetto incriminato di
mantenere il proprio rapporto con il bene (Cass. Pen. Sez. 1, 26/04/2007, n.
30165).
E seppure le disposizioni di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p., pur
configurando reati a forma libera, richiedono che le condotte di riciclaggio
o di reimpiego siano caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio,
197 risultando dirette in ogni caso ad ostacolare l'accertamento sull'origine
delittuosa di denaro, beni o altre utilità (Cass. Pen. Sez. I, 11 dicembre
2007, n. 1470), nel delitto di cui all’art. 648 ter c.p. non si vuole affatto
sanzionare una situazione di apparenza, per la intuitiva ragione che non è
dato rilevare alcuna attribuzione fittizia di beni, bensì una situazione
concreta e reale in cui l’agente non si limita a figurare quale apparente
titolare, ma impiega effettivamente beni o altre utilità provenienti da delitto
- appartenenti ad altri, altrimenti si configurerebbe un post factum non
punibile - in attività econoniche di cui egli è effettivamente il dominus.
Nella specie, invero, lo Iaquinoto era effettivamente amministratore della
società, e non già un mero prestanome del Pipitone ed il Curulli un effettivo
socio occulto di essa, sicché i predetti imputati si erano resi responsabili di
impiego – effettivo – di capitali forniti dal Pipitone e dal Di Maggio, nel
che è configurabile il delitto di cui all’art. 648 iter c.p., e non già quello di
fittizia interposizione di cui all’art. 12 quinquies D.L.n. 152/1991.
Si contesta dagli appellanti, come si è visto, anche l’esistenza di elementi
probatori che depongano per l’origine illecita delle somme di denaro e, in
genere, delle utilità impiegate nell’attività in parola, non essendo stata
fornita dalla pubblica accusa alcuna prova in tal senso.
Anche questa censura è prova di fondamento.
Invero, secondo il consolidato orientamento della S.C., ai fini della
configurabilità del reato di riciclaggio non si richiede l'accertamento
giudiziale del delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell'esatta tipologia
di esso, sufficiente essendo che sia raggiunta la prova logica della
provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute (v. e
plurimis Cass. Pen. Sez. 5, 21.5.2008, n. 36940).
La stessa Corte aveva già osservato, con rifeimento all’art. 416 bis c.p., che
il delitto di riciclaggio di cui all'art. 648 bis c.p., riformulato dalla L. 9
agosto 1993, n. 328, art. 4, che ha provveduto a riscriverne la condotta in
conformità alla Convenzione del Consiglio d'Europa sul riciclaggio, la
ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, nonché della
198 Direttiva n. 166 del 10 giugno 1991 del Consiglio dei Ministri della
Comunità Europea con cui gli stati membri venivano invitati ad evitare il
riciclaggio dei proventi di reato, è oggi svincolato dalla pregressa tassativa
indicazione dei reati che potevano costituirne il presupposto, esteso
attualmente a tutti i delitti non colposi previsti dal codice penale (per cui il
delitto di riciclaggio può presupporre come reato principale non solo delitti
funzionalmente orientati alla creazione di capitali illeciti quali la
corruzione, la concussione, i reati societari, i reati fallimentari, ma anche
delitti che, secondo la visione più rigorosa e tradizionalmente ricevuta del
fenomeno, vi erano estranei, come ad esempio i delitti fiscali e qualsiasi
altro) e consiste in qualsiasi condotta tendente a “ripulire” il c.d. denaro
sporco, facendo perdere le tracce della sua provenienza delittuosa nelle
diverse forme della sostituzione o del trasferimento del denaro, beni o altre
utilità di provenienza illecita ovvero del compimento di altre operazioni in
modo da dissimularne la origine illecita e da ostacolarne l'identificazione
della provenienza illecita. La eliminazione della indicazione normativa dei
reati - presupposto si è resa necessaria in conseguenza della straordinaria
mutabilità delle forme usate dal mercato finanziario ed economico in genere
nella formazione di capitali illeciti suscettibili di essere successivamente
“lavati” e per la altrettanto straordinaria capacità delle menti finanziarie
della grande criminalità organizzata nell'escogitare metodi e sistemi di
pulitura dei capitali illeciti. Da ciò deriva necessariamente anche la
inclusione della associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416 bis c.p. fra i
reati da cui provengono capitali illeciti, che, in quanto tali ed onde potere
essere rimessi in circolazione come capitali ormai depurati e perciò
investibili anche in attività economiche produttive legali, devono essere
riciclati.
La tesi per cui solo i reati fine dell'associazione mafiosa potrebbero
costituire presupposto del riciclaggio, mentre la associazione mafiosa, quale
reato di puro pericolo, non potrebbe ex se produrre proventi illeciti, non
appare in alcun modo condivisibile poiché il delitto di cui all'art. 416 bis
199 c.p. sussiste anche allorché lo scopo dell'associazione è quello di trarre
vantaggi o profitti da attività di per sè lecite (ad esempio gestione di attività
economiche, acquisizione di appalti pubblici), purché lo stesso sia
perseguito con metodo mafioso, quale l'uso della forza intimidatrice della
associazione, l'assoggettamento delle persone con tale timore, l'imposizione
di atteggiamento omertoso (v. Cass. sez. 1 n. 4714 del 1996).
Ed ha affermato che è ben possibile, ed anzi usuale, che l’associazione
mafiosa abbia fra i suoi scopi anche il perseguimento di attività di per sè
formalmente lecite, conseguite attraverso il metodo mafioso che imponga,
ad esempio, il monopolio di soggetti mafiosi in un certo settore attraverso la
desistenza di eventuali concorrenti (Cass. Pen. Sez. 6 n. 1793 del 1994); il
che determina che sia la stessa associazione mafiosa a creare proventi
caratterizzati dal metodo mafioso, senza necessità della commissione di
altri diversi reati da qualificare come fine della associazione. Costituisce
infatti un principio giurisprudenziale ormai consolidato quello per cui
l'associazione di tipo mafioso si distingue dalla comune associazione per
delinquere, come può rilevarsi dal semplice raffronto testuale fra le due
norme incriminatrici (a cominciare dalla rispettiva rubrica, la prima delle
quali è priva, non a caso, a differenza della seconda, dell'inciso "per
delinquere"), anche per il fatto che essa non è necessariamente diretta alla
commissione di delitti - pur potendo, questi, ovviamente, rappresentare lo
strumento attraverso il quale gli associati perseguono i loro scopi - ma può
anche essere diretta a realizzare, sempre con l'avvalersi della particolare
forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di
assoggettamento e di omertà che ne deriva, taluno degli altri obiettivi
indicati dall'art. 416 bis c.p., fra i quali anche quello, assai generico,
costituito dalla realizzazione di "profitti e vantaggi ingiusti per sè o per
altri"; per cui, mentre non può parlarsi di associazione per delinquere
ordinaria quando gli associati abbiano come scopo esclusivo la
commissione non di un numero indeterminato di delitti, ma solo di uno o
più delitti previamente individuati, nulla vieta la configurabilità, invece, del
200 reato di associazione di tipo mafioso quando gli associati, pur essendosi dati
un programma che, quanto a fini specificamente delittuosi, presenti le stesse
limitazioni dianzi indicate, siano tuttavia mossi da altre concorrenti finalità
comprese fra quelle previste dalla norma incriminatrice e comunque
adottino, per la realizzazione di quel programma e delle altre eventuali
finalità, i particolari metodi descritti dalla stessa norma (v., per tutte, Cass.
sez. 1 n. 5405 del 2000, rv. 218089). E di ciò si ha riprova anche nella L. 24
luglio 2008, n. 125, art. 12 ter (c.d. pacchetto sicurezza), che ha introdotto il
D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 4 bis (per cui per i soggetti già
condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli art. 416 bis c.p.,
nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal
predetto art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli fini del presente decreto, il
reddito si presume superiore ai limiti previsti), che esclude dal patrocinio a
spese dello stato il condannato anche soltanto per associazione mafiosa, sul
chiaro presupposto che tale reato possa produrre ex se lucrosi proventi,
indipendentemente dai reati fine della associazione.
In conclusione, dunque, in tema di riciclaggio, l'associazione per delinquere
di stampo mafioso costituisce delitto da cui provengono il denaro o i beni
sostituiti o trasferiti, posto che è l'associazione mafiosa in quanto tale,
anche indipendentemente dalle attività cui si dedica, a rendere tali attività
illegali, poiché esse sono perseguite e realizzate con lo strumento
dell'omertà, dell'intimidazione o della violenza, senza neppure la necessità
di una preventiva individuazione, da parte dell'associazione medesima, di
un programma criminoso di reati-fine (Cass. Pen. Sez. 1, 27.11.2008, n.
2451).
Avuto riguardo, pertanto, all’accertata elevata caratura mafiosa dei soggetti
che hanno investito capitali nella società Giellei (Pipitone, Di Maggio) non
sussisteva a carico dell’accusa alcuno specifico onere di fornire la prova
dell’origine illecita di tali capitali.
201 Entrambi gli appelli sono, tuttavia, fondati nella parte in cui si sostiene che
debba essere esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13.5.1991, n.
152, convertito con modifiche nella legge 12.7.1991, n. 203.
La giurisprudenza della S.C., infatti, è pressoché costante nel sostenere che,
in tema di reati di criminalità organizzata, la circostanza aggravante di cui
all'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella L. n. 203 del 1991,
può qualificare anche la condotta di chi, senza essere organicamente
inserito in un'associazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento
dei suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla
base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una cosciente ed univoca
finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale (v. e plurimis Cass. Pen.
Sez. 6, 13.11.2008. n. 2696).
E’ stato, così, ritenuto che, in tema di reati di criminalità organizzata, la
circostanza aggravante di cui all'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152,
convertito nella L. n. 203 del 1991, può qualificare anche la condotta di chi,
senza essere organicamente inserito in un'associazione mafiosa, offra un
contributo al perseguimento dei suoi fini, a condizione che tale
comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o
sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del
sodalizio criminale. La S.C., pertanto, in una fattispecie relativa ad una
indebita locupletazione derivante da una serie di frodi informatiche
commesse attraverso abusive ricariche di credito telefonico su elenchi di
"sim cards", ha escluso la configurabilità dell'aggravante dell'agevolazione
di un'associazione di stampo camorristico (Cass. Pen. Sez. 6 , 13/11/2008,
D’Andrea).
Vedasi anche Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 19300 del 11/02/2008: “In
tema di procurata inosservanza di pena aggravata dalla circostanza di cui
all'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla L. 12 luglio
1991, n. 203, il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di
un'associazione mafiosa non determina la sussistenza dell'aggravante, in
ragione esclusivamente dell'importanza rivestita all'interno dell'associazione
202 e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, dovendosi
distinguere l'aiuto prestato alla persona da quello prestato all'associazione e
potendosi ravvisare l'aggravante soltanto nel secondo caso, quando cioè si
accerti la oggettiva funzionalità della condotta all'agevolazione dell'attività
posta in essere dall'organizzazione criminale”.
Ed ancora: “In tema di procurata inosservanza di pena aggravata dalla
circostanza di cui all'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito
dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, il fatto di favorire la latitanza di un
personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non determina la
sussistenza dell'aggravante, in ragione esclusivamente dell'importanza
rivestita all'interno dell'associazione e del predominio esercitato dal
sodalizio sul territorio, dovendosi distinguere l'aiuto prestato alla persona da
quello prestato all'associazione e potendosi ravvisare l'aggravante soltanto
nel secondo caso, quando cioè si accerti la oggettiva funzionalità della
condotta all'agevolazione dell'attività posta in essere dall'organizzazione
criminale” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 19300 del 11/02/2008).
E nel caso in esame, non sembra che l’attività posta in essere dal Curulli e
dallo Iaquinoto, consistente, come si è visto, nell’impiegare nell’azienda di
cui erano rispettivamente socio occulto ed amministratore, capitali di
proprietà del Pipitone e del Di Maggio, possa essere ritenuta, in maniera
inequivoca, finalizzata a fornire un consistente appoggio di carattere
economico alla societas sceleris (“famiglia” mafiosa di Carini) della quale
il Pipitone ed il Di Maggio facevano parte, nel suo complesso, quanto
piuttosto a favorire singole e determinate persone con le quali sussistevano
rapporti di amicizia e/o di probabile futura affinità (si è detto più volte che
una delle figlie del Curuli era fidanzata con il figlia del Pipitone a nome
Antonino, e che il Di Maggio era cognato del Pipitone).
Non è stato nemmeno provato del resto che le somme investite dal Pipitone
e dal Di Maggio nella Giellei fossero “ingenti”, sì da indurre ad ipotizzare
che gli investimenti potessero riguardare un numero più elevato di persone,
ovvero operare il coinvolgimento del complessivo assetto patrimoniale
203 della “famiglia” (non sembra che le somme corrisposte o anticipate a
qualsiasi titolo dal Pipitone e dal Di Maggio superassero i quaranta o
cinquantamila euro).
Ritiene, conseguentemente, la Corte, in assenza di più pregnanti elementi
dai quali possano emergere il coinvolgimento, nell’attività della Giellei,
dell’intera associazione criminosa, ovvero la presenza di investimenti di più
rilevante entità finalizzati all’uncremento ed a una maggiore espansione,
anche sotto il profilo economico-imprenditoriale, della stessa associazione,
di dovere, riformando sul punto la sentenza impugnata, escludere la
configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 7 citato, contestata al Curulli
ed allo Iaquinoto.
Ritiene, pertanto, di dovere eliminare l’aumento operato dai primi Giudici,
per tale aggravante, sulla pena base stabilita per il reato di cui all’art. 648
ter c.p. ritenuto a carico dei predetti due imputati, e conseguentemente, di
ridurre la pena da infliggere agli imputati ad anni quattro e mesi sei di
reclusione ed euro 6.000,00 di multa per il Curulli e ad anni quattro ed euro
5.000,00 di multa per lo Iaquinoto.
2-5. – L’APPELLO NELL’INTERESSE DI BIONDO FRANCESCO –
Premette l’appellante che gli è stata contestata la partecipazione
all'associazione mafiosa, per essere intervenuto nella vicenda relativa ad
una disputa intercorsa tra Bruno Giuseppe e vari appartenenti alla
“famiglia” Liga in relazione ad una attività commerciale nella quale il
fratello del Bruno, di nome Andrea, era socio occulto del genero del noto
esponente mafioso Liga Salvatore, detto “Tatunieddu”.
Assume di avere reso, sul punto, al Giudice di primo grado spontanee
dichiarazioni fornendo le giustificazioni della citata conversazione, e
riconducendo il senso delle frasi riportate alla pregressa vicenda
processuale, che lo aveva visto protagonista, tra l'altro, di un iniziale
contestato presunto episodio di estorsione, del quale si sarebbe reso
204 responsabile ai danni di tale Bruno, in concorso con tale Lo Piccolo. Infatti,
allorquando era stato tratto in arresto nell'ambito del procedimento penale
denominato “San Lorenzo Due”, una delle accuse specifiche mossegli era
quella di avere partecipato ad una estorsione in danno di tale Bruno, titolare
di un esercizio commerciale. Dalle intercettazioni effettuate in quella sede,
infatti, gli agenti di p.g. operanti avrebbero tratto il convincimento che
Biondo Francesco, chiamato dal Bruno (il quale riferiva di avere trovato
dell'attack nei lucchetti del proprio negozio, addebitando detto atto
criminoso al Lo Piccolo), si fosse intromesso al fine di “concordare” fra le
parti la somma da consegnare agli estortori.
In realtà, nella predetta intercettazione, così come era stato accertato nel
conseguente giudizio, il Biondo avrebbe invitato l'interlocutore a
denunciare ai CC. l'accaduto e, soprattutto, il Lo Piccolo in questione
sarebbe stato il proprietario dell'immobile condotto in affitto dal Bruno.
In realtà, così come era stato giudizialmente accertato, fra le parti vi sarebbe
stata una controversia giudiziaria, definita successivamente con la stipula,
in data 10.01.2000, di un nuovo contratto di locazione per la durata di anni
sei, con scadenza 10.1.2006.
Assume l’appellante che dette circostanze sarebbero state del tutto
trascurate in sentenza, e che non poteva affatto affermarsi, con ragionevole
certezza, che l'unico episodio contestato a Biondo Francesco fosse da
ascrivere ad un contesto malavitoso.
Invero, nel corpo della intera intercettazione e, soprattutto, poco prima
dell'inciso incriminato, Biondo Francesco si sarebbe lamentato con il
Gottuso delle traversie giudiziarie da cui era reduce.
Inoltre, nel corso dell'intera indagine condotta dai Pubblici Ministeri non
sarebbe stata fatta menzione del Biondo Francesco in nessun atto di
indagine, antecedente o successivo, ove si eccettui l’unica intercettazione
del 27.10. 2004, nella trascrizione della quale sarebbero state presenti oltre
400 interlocuzioni definite “incomprensibili”.
205 Da tale dato discenderebbe, inevitabilmente, che il senso compiuto
dell'intero discorso non può farsi derivare da congetture, che per loro stessa
natura non possono condurre ad una affermazione di penale responsabilità,
se non supportate da ulteriori elementi che, nel caso in questione,
risulterebbero del tutto assenti.
Inoltre, l’anzidetta unica fonte di prova apparirebbe poco chiara nel suo
significato, prestandosi a diverse interpretazioni. Tanto più che le
trascrizioni sono intervallate da continue interruzioni, imputabili alla
difficoltà di dare veste verbale ad espressioni confuse, poco comprensibili e
comunque, anche quando riportate, dal significato non necessariamente
compatibile con quanto asserito dalla Pubblica Accusa.
Preso atto di quanto sopra, in assenza di ulteriori elementi portati dalla
Pubblica Accusa dinanzi al Tribunale, anche aderendo alla prospettazione
dell'Accusa di un “tentativo” di intervento di Biondo Francesco per
dirimere una controversia sorta tra soggetti dallo stesso conosciuti in
occasione della sua permanenza in regime di detenzione, non potrebbe
ritenersi comunque integrata la partecipazione al sodalizio di cui all'art. 416
bis C.P. Infatti, posto che il Biondo Francesco non è apparso in nessuna
indagine di Polizia Giudiziaria dal 29 luglio 1998 al 27 ottobre 2004 e
successivamente, da quest'ultima data e sino al suo arresto avvenuto circa
tre
anni
dopo,
nell'ambito
dell'odierno
procedimento,
sarebbe
incomprensibile, alla luce dell'insegnamento della S.C. menzionato, come
possa affermarsi che lo stesso sia “stabilmente” inserito in un sodalizio
mafioso.
Inoltre, non si comprenderebbe quale contributo l'appellante possa avere
apportato al mantenimento od al rafforzamento del vincolo associativo, nei
termini prospettati dalla Pubblica Accusa.
In altri termini, il fatto ascritto all’imputato sarebbe sprovvisto dì
qualsivoglia
disvalore
penale,
non
essendo
significativo
di
una
partecipazione, caratterizzata da apprezzabilità temporale, suscettibile di
essere sussunta sotto la previsione dell'art. 416 bis c.p. In ordine alla
206 configurabilità, in astratto, del delitto di cui all'art. 416 bis c.p., la S.C. ha
statuito che “l’elemento materiale del reato è costituito dalla condotta di
partecipazione ad associazione di tipo mafioso, intendendosi per
partecipazione la stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori almeno in numero di tre — del reato allo scopo di realizzare una serie
indeterminata di attività tipiche dell'associazione e per tipo mafioso la
sussistenza degli elementi elencati nel terzo comma dell'art. 416 bis c.p.,
qualificanti tale genere di organizzazione criminosa. L’elemento soggettivo
è, invece, rappresentato dal dolo specifico caratterizzato dalla cosciente
volontà di partecipare a detta associazione con il fine di realizzare il
particolare programma e con la permanente consapevolezza dì ciascun
associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad
operare per l'attuazione del comune programma delinquenziale con
qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento
della struttura associativa” (Cass. Pen., Sez. I, n. 198328/94).
La consorteria è di tipo mafioso “quando il vincolo associativo ha una
particolare intensità e stabilità, di guisa che essa avvalendosi dalla forza di
intimidazione del medesimo e della condizione di assoggettamento e omertà
che ne deriva, esista ed operi permanentemente fuori della legge ed abbia a
presidio un'organizzazione stabilmente rivolta al conseguimento dei suoi
scopi” (Cass. Pen. Sez. I, n. 88/179313).
Per di più, “non basta l'uso della violenza o della minaccia previste come
elementi costitutivi dei delitti programmati - altrimenti tutte le associazioni
criminose aventi nel programma tali delitti diventerebbero automaticamente
di tipo mafioso — ma è necessario, invece, che la forza ìntimìdatrice sia
non solo componente strumentale del programma criminoso, ma anche che
promani dallo stesso vincolo associativo e diretto a creare nel territorio
condizioni dì assoggettamento tali da rendere diffìcile l'intervento,
preventivo o repressivo, dei poteri dello Stato e da creare una diffusa
omertà” (Cass.Pen., Sez. I, n. 176677/87).
207 In diritto, e senza recesso alcuno dalle superiori argomentazioni,
l’appellante contesta, altresì, l'inosservanza delle disposizioni in tema di
valutazione delle prove “indiziarie”, attesa la netta preponderanza di tali
elementi nell'ambito dell'intera vicenda processuale.Richiama, a questo
proposito, i principi, oramai consolidati, che regolano la complessa
questione, considerato che, nel corso della lunga istruttoria dibattimentale,
non sarebbe emersa alcuna prova a riscontro dell'originaria ipotesi
accusatoria, risolvendosi il tutto nella unilaterale interpretazione di un solo
elemento indiziario: il contenuto di una intercettazione ambientale.
Ed invero, nessun elemento di prova a carico potrebbe essere desunto dalle
dichiarazioni dei “collaboranti”, che nulla di rilevante in ordine alla verifica
dei fatti oggetto di imputazione hanno riferito sul Biondo Francesco, di
talché con riferimento ad esse non sussisterebbe neanche un problema di
controllo circa l’esistenza, o meno, dei necessari riscontri. Quand'anche,
tuttavia, si volesse tributare valenza indiziaria alle dichiarazioni acquisite,
anche se non si comprenderebbe in relazione a quali circostanze rilevanti
per il processo ed a quali fatti costituenti reato, si dovrebbero comunque
individuare i richiesti riscontri. Sul punto, secondo l'insegnamento della S.
C.: “In tema di prova, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in
correità a mente del disposto dell'ari. 192, comma terzo, e.p.p., il Giudice
deve, in primo luogo, sciogliere il problema della credibilità del dichiarante
(confidente ed accusatore) in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle
sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con
i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione
alla confessione ed alla accusa dei coautori e compiici; in secondo luogo,
deve
verificare
l'intrinseca
consistenza
e
le
caratteristiche
delle
dichiarazioni del chiamante, alla luce dei criteri quali, tra gli altri, quelli
della precisione, della coerenza, della spontaneità; infine, egli deve
esaminare i riscontri cd. "esterni". L'esame del Giudice deve essere
compiuto seguendo l'indicato ordine logico, perché non si può procedere ad
una valutazione ordinaria della chiamata in correità e degli “altri elementi di
208 prova che ne confermano l'attendibilità”, se prima non si chiariscono gli
eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente
dagli elementi di verifica esterni ad essa” (Cass., Sez. I, 13 luglio 1999, n.
8844).
“Una volta verifìcata l'attendibilità intrinseca del chiamante in correità, il
procedimento logico non può pervenire, omisso medio, all’esame dei
riscontri esterni della chiamata, occorrendo che in ogni caso il Giudice
verifìchi se quella singola dichiarazione, resa da soggetto attendibile, sia, a
sua volta, attendibile. Si tratta di un procedimento non superabile, perché se
l'attendibilità della dichiarazione venisse riferita al solo riscontro, senza il
passaggio ad una verifica di attendibilità intrinseca, si finirebbe per fare del
riscontro la vera prova da riscontrare, così da indebolire consistentemente la
valenza dimostrativa delle dichiarazioni rese a norma dell'ari. 192 comma
terzo e.p.p. (Cass., Sez. VI, 13 giugno 1997, n. 5649).
Inoltre, “le chiamate in correità possono assumere valore probatorio quando
siano dotate del requisito della attendibilità, sia sotto l'aspetto soggettivo
che oggettivo; esse cioè devono: provenire da soggetti che conoscano il
vero, perché certamente concorsero alla commissione dell'illecito che si
attribuisce all'incolpato; essere spontanee, costanti, disinteressate (non
provocate da motivi di odio o inimicizia), dettagliate e coerenti; essere il
contenuto altamente verosimile per elementi oggettivi di riscontro; è,
quindi, da escludere che tale ultimo requisito possa essere sostituito dalla
cosiddetta
“attendibilità
generale”
del
chiamante,
da
desumersi
dall'autoincolpazione, la quale comporterebbe per il chiamato in correità
l'obbligo di fornire la prova della innocenza. Il cosiddetto riscontro, pur non
dovendo presentare il valore di prova autonoma, deve, infatti, offrire ampie
garanzie in ordine alla veridicità; esso può essere costituito anche da altra
chiamata in correità, che alla prima sì aggiunga purché anche di essa se ne
valuti rigorosamente l'attendibilità e la si apprezzi in senso positivo,
escludendosi la sussistenza di collusioni o condizionamenti di qualsiasi
genere tra i soggetti che la rendano, o da dichiarazioni de relato,
209 intrinsecamente attendibili, di origine autonoma, individuata la fonte di
provenienza della notizia e controllata l'affidabilità, né è sufficiente che la
chiamata
abbia
fornito
una
ricostruzione
del
fatto
esattamente
corrispondente alle modalità del suo verifìcarsi, essendo necessaria la
esistenza di elementi che si riferiscono alla posizione dei singoli incolpati”
(in Cass. Pen., sez. I, 24/02/1992, Mass. Cass. Pen., 1992 fase. 10,17).
Considerazioni analoghe valgono con riferimento alla valutazione della
prova critica, ed. indiziaria, ossia quella prova avente ad oggetto non già il
fatto da provare, bensì circostanze dalle quali desumere il fatto stesso. Nel
caso di specie, infatti, la partecipazione dell'imputato Biondo Francesco al
sodalizio criminale verrebe ad essere, non già provata, bensì desunta
unicamente dalla circostanza riportata nella sola intercettazione del
27.10.2004, che viene utilizzata a sostegno della condanna, ed il cui valore
risulterebbe ingiustificabilmente amplificato nell’impugnata sentenza in
termini di raggiungimento della prova che “anche dopo la condanna e
l'espiazione della pena infintagli, egli non ha mai reciso i propri legami con
l'organizzazione criminale, ma anzi li ha ulteriormente coltivati e alimentati,
intervenendo attivamente in una spinosa vicenda, oggetto di discussione tra
gli esponenti di varie famiglie mafìose appartenenti al mandamento San
Lorenzo”.
E se nel processo penale l'esistenza di un fatto può essere provata in via
indiziaria, è altrettanto vero che l’assenza dei requisiti di cui all’art. 192
comma 2° c.p.p. (gravità, precisione e concordanza), osta alla possibilità di
valutare come accertato il fatto considerato.
Alla luce del menzionato disposto normativo, non si comprenderebbe,
allora, a giudizio dell’appellante, attraverso quale meccanismo istnittorio il
Tribunale abbia potuto ritenere comprovata l'attualità dell'appartenenza
dell'imputato all’associazione prevista dall'art. 416 bis c.p.
Sicuramente nessuna prova piena sulla partecipazione al reato associativo
sarebbe mai stata fornita dalla Pubblica Accusa, dal momento che
210 l’episodio attorno al quale gravita la contestazione sarebbe di per sé
penalmente neutro.
Ancora, nessun rilievo potrebbe essere tributato alla “risalente appartenenza
del Biondo all’organizzazione”, ritenuta non suscettibile di “'essere posta in
discussion”, atteso che detti fatti hanno formato oggetto di ben altro e già
definito procedimento.
L’episodio contestato è unico, pertanto quale indizio sarebbe comunque
sprovvisto dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza
e, conseguentemente, inutilizzabile ai sensi del combinato disposto degli
artt. 191 e 192 comma 2 c.p.p.
In ogni caso, tanto le chiamate in correità, che nel presente procedimento
non
avrebbero
in
realtà apportato
alcun
contributo
a
sostegno
dell'accertamento di quanto indicato nel capo di imputazione, quanto la
prova critica o indiretta (intercettazione del 27.10.2004), che per meglio
dire costituisce un mero indizio, non costituirebbero elementi idonei a
giustificare l'affermazione della responsabilità penale del Biondo.
L’appellante, quindi, dopo avere fatto riferimento ai principi espressi dalla
giurisprudenza della S.C. in materia di intercettazioni, assume che gli scarsi
elementi addotti a carico del Biondo non appaiono tali da assurgere a
prova della di lui colpevolezza.
Infine, con riferimento alla chiamata dei cd. collaboranti, rileva come i
difensori abbiano acconsentito alla acquisizione dei relativi verbali, per la
parte di interesse, consapevoli del fatto che dalle dichiarazioni dei soggetti
in questione nulla di penalmente rilevante veniva riferito sul conto di
Biondo Francesco.
Del tutto inconferenti risulterebbero, infatti, tanto le propalazioni del
Franzese, che quelle del Nuccio.
Entrambi gli anzidetti collaboratori, infatti, hanno negato di essere stati
presentati ritualmente all’imputato, e di avere con lo stesso una conoscenza
meramente occasionale, sicché le loro dichiarazioni non rivestirebbero
alcun interesse per la tesi dell’accusa, e, soprattutto, non potrebbero
211 costituire elementi di riscontro o indiziari da valutare congiuntamente ai
risultati dell’intercettazione.
In via subordinata l’appellante si duole della mancata esclusione delle
aggravanti di cui ai commi quarto e quinto dell'art.416 bis c.p., fondandosi
l'imputazione relativa alle stesse unicamente sulla “notorietà” della
disponibilità di armi da parte di una associazione di tipo mafioso e
dell’altrettanto notorio reimpiego di capitali di provenienza illecita.
Le censure sono fondate.
Come è stato esattamente rilevato dall’appellante, infatti, nell’odierno
procedimento gli elementi acquisiti a carico dell’imputato non appaiono
subiscettibili di tradursi in consistenti elementi probatori, rimanendo
confinati a livello di meri indizi.
Lo stesso ha fatto riferimento ad un arresto giurisprudenziale della S.C.,
secondo cui “Nel delitto di cui all'art. 416 bis cod. pen. l'elemento materiale
del reato è costituito dalla condotta di partecipazione ad associazione di tipo
mafioso, intendendosi per partecipazione la stabile permanenza di vincolo
associativo tra gli autori - almeno in numero di tre - del reato allo scopo di
realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell'associazione e per
“tipo mafioso” la sussistenza degli elementi elencati nel terzo comma del
citato articolo, qualificanti tal genere di organizzazione criminosa, mentre
quello soggettivo è rappresentato dal dolo specifico caratterizzato dalla
cosciente volontà di partecipare a detta associazione con il fine di
realizzarne il particolare programma e con la permanente consapevolezza di
ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile
ad adoperare per l'attuazione del comune programma delinquenziale con
qualsivoglia condotta idonea alla conservazione, ovvero al rafforzamento
della struttura associativa” (Cass. Pen. Sez. 1, 18,5,1994, n. 2348).
L’anzidetta sentenza, peraltro, risulta confermata da pronunzie successive,
che ribadiscono l’essenzialità della partecipazione al comune programma di
212 delinquenza, circa la consapevolezza di rafforzare la struttura e l’operatività
del sodalizio criminoso.
Vedasi ad esempio Cass. Pen. Sez. VI, 8.10.2008, n. 40966: “Il delitto di
partecipazione ad associazione mafiosa si distingue da quello di
favoreggiamento, in quanto nel primo il soggetto interagisce organicamente
e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura
organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini
di polizia volte a reprimere l'attività dell'associazione o a perseguirne i
partecipi, mentre nel secondo egli aiuta in maniera episodica un associato,
resosi autore di reati rientranti o meno nell'attività prevista dal vincolo
associativo, ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle
ricerche di questa. (Fattispecie relativa all'aiuto prestato in modo generale e
sistematico da un associato in favore di un altro partecipe latitante, in cui la
S.C. ha individuato il reato di associazione mafiosa ed ha escluso la
configurabilità del concorso tra le suddette figure criminose, precisando che
la loro sovrapposizione può sussistere solo quando il favoreggiamento
venga posto in essere per la copertura di un singolo reato-fine, ovvero per
un reato totalmente estraneo alle finalità dell'associazione)”.
Sussiste, pertanto, la necessità di accertare se l’appellante possa avere
apportato all’associazione criminosa denominata “cosa nostra” un
contributo utile al mantenimento od al rafforzamento del vincolo
associativo, fermo restandeo che nessuna valenza probatoria in tal senso
può essere riconsiociuta alla pregressa condanna dallo stesso riportata per il
medesimo delitto. Come si è detto, infatti, Biondo Francesco era già stato
riconosciuto responsabile del reato previsto dall’art. 416 bis c.p. (nonché
del delitto di riciclaggio continuato in concorso) e condannato alla pena di
nove anni di reclusione per il suo coinvolgimento nelle attività criminali
della “famiglia” mafiosa di San Lorenzo, con sentenza emessa dal
Tribunale di Palermo in data 5.7.2002 (divenuta irrevocabile il 14.2.2007),
in relazione a condotte commesse fino al 19.7.2000.
213 L’anzidetta condanna, tuttavia, che correttamente i primi Giudici hanno
qualificato
cone
dimostrativa
di
una
“risalente
appartenenza
all’organizzazione”, e tale non potere essere posta in discussione (factum
infectum fieri nequit), non può costituire per sé sola un indizio di
appartenenza all’associazione criminosa, sussistendo la necessità che
l’ipotesi, formulata dall’accusa, della permanenza, in capo all’imputato,
della adfectio societatis sceleris, venga corroborata da elementi suscettibili,
in una lettura corrdinata di essi, in elementi di prova.
Invero, soltanto nel procedimento per l’applicazione di misure di
prevenzione, la pericolosità sociale non deve essere necessariamente
formulata sulla base di prove occorrenti per la condanna penale, trattandosi
di valutazione di carattere sintomatico, che, nell'ipotesi di sospetta
appartenenza ad associazione mafiosa , può basarsi su qualsiasi elemento
indiziario, purché di per sè certo, ossia rappresentato da circostanze
oggettive, ed idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità di tale
appartenenza (Cass. Pen. Sez. VI, 19 marzo 1997, n. 1171).
In conclusione, la condanna riportata dal Biondo con sentenza irrevocabile,
attestante la sua partecipazione alla associazione criminosa almeno sino
all’anno 2000, pur costituendo oggetto di definitivo accertamento
giurisdizionale, e ben potendo costituire astrattamente il presupposto per
l’eventuale applicabilità di una misura di prevenzione, non può essere posta
da sola a fondamento di una condanna relativa alla partecipazione
dell’appellante all’associazione anzidetta per il periodo successivo all’anno
2000, se non in presenza di elementi, anche di carattere indiziario,
suscettibili, però, in una valutazione globale ed unitaria, di costituire
elementi sufficienti alla dimostrazione del thema probandum (continuità
dell’adesione di un soggetto già condannato per associazione mafiosa alla
consorteria criminosa, e condivisione della comune progettualità illecita).
Corretta, dunque, appare la prospettazione del Tribunale, laddove pretende
che, ai fini dell’affermazione della colpevolezza dell’imputato, si ravvisa la
necessità di dimostrare che lo stesso, anche dopo la condanna e l’espiazione
214 della pena inflittagli, non solo non abbia mai reciso i propri legami con
l’organizzazione criminale, ma anzi li abbia ulteriormente coltivati e
alimentati, attraverso acconci elementi probatori.
Tali elementi sarebbero costituiti, come si è visto, dalle dichiarazioni dei
“collaboranti” e dal contenuto dell’intercettazione effettuata il 27 ottobre
2004 alle ore 11,00 all’interno del magazzino di pertinenza del Gottuso, in
cui questi avrebbe perorato, presso lo stesso Gottuso, la causa di Garofano
Francesco, genero dell’ergastolano Liga Salvatore, intesto “Tatunieddu”,
titolare di un esercizio commerciale, del quale si sarebbe illegittimamente
impossessato tale Bruno Giuseppe, inteso “Castagna”, tranciando e
sostituendo i lucchetti posti all’ingresso del suddetto esercizio.
In buona sostanza, il “contributo” che, a dire dei primi Giudici, l’odierno
appellante avrebbe dato all’associazione criminosa sarebbe consistito nella
richiesta di “intervento” formulata nei confronti del Guttuso, per una
composizione bonaria della questione, seguito dalla richiesta di restituzione
delle chiavi dei lucchetti che il Bruno aveva apposto al magazzino in
contestazione.
Osserva, però, la Corte, in primo luogo, che il contributo offerto dai due
“collaboranti” interpellati, Francese Francesco e Nuccio Antonino, è in
realtà insussistente, dal momento che costoro, come è dato desumere
dall’analisi delle loro dichiarazioni effettuata dai primi Giudici, non sono
stati in grado di fornire alcun elemento utile ai fini dell’indagine sul conto
del Biondo Francesco, ove si eccettui la mera conoscenza di costui,
conoscienza che, però, non si traduce in “presentazioni” rituali, né sottende
ulteriori elementi di importanza investigativa e che, in ogni caso, appare
pienamente giustificabile alla luce delle vicende dello stesso appellante, il
quale, come si è detto più volte, aveva riportato una pregressa condanna
anche per il delitto di associazione mafiosa.
Residua, dunque, lo “intervento” in favore del genero del Liga Salvatore
inteso “Tatunieddu”, Garofalo Francesco, di cui alla più volte menzionata
intercettazione del nel magazzino di pertinenza del Gottuso.
215 Tuttavia, a ben vedere, non è dato trarre alcun significativo elemento in
favore dell’ipotesi accusatoria nemmeno da detto comportamento.
Dal testuale contenuto della conversazione intercettata, riportata pressoché
interamente nella sentenza impugnata, ma in larga parte incomprensibile, in
specie per quanto riguarda il Biondo, sembrerebbe desumersi che un
soggetto imprecisato si sia recato da Cusimano Giovanni e da Di Blasi
Francesco, per denunciare l’operato del “picciotto” soprannominato
“Castagna”, vale a dire Bruno Giuseppe. Al che il Gottuso, mostrandosi
meravigliato e rivelando stretti vincoli di amicizia e di affetto con il Bruno
(chistu è me frati), chiedeal Biondo cosa è successo, e qiest’ultimo gli
riferisce che il Bruno ha reciso i lucchetti [del magazzino in contestazione]
uno per uno.
Dal contenuto della conversazione, buona parte della quale è, come si è
detto, inconotensibile, sembra desumersi che sia il Gottuso quello dei due
interlocutori ad essere maggiormente preoccupato. Chiede innanzitutto al
Biondo se la notizia della lite insorta tra il Bruno ed il Garofano era
pervenuta a Lo Piccolo salvatore, e, ricevutane risposta positiva, narra al
Biondo che in passato Liga Federico, figlio di “Tatunieddu”, si era
comportato male mei suoi confronti. Ad un certro punto sembra doversi
supporre (il discorso è pressoché incomprensibile) che il Biondo voglia
incontrarsi con il Cusimano Giovanni; al che il Gottuso gli chiede: “Pi stu
riscursu?”, riferendosi ovviamente alla diatriba tra il “Castagna” ed il
Garofano; ma il Biondo risponde: “No, pu fattu ra…” mostrando a chiare
lettere che si tratta di una diversa questione.
La conversazione prosegue, ed i due (Biondo e Gottuso) toccano svariati
argomenti, in particolare gli inadempoimenti di cui il figlio del Liga,
Federico, si sarebbe reso responsabile nei confronti del Gottuso.
Successivamente, nel medesimo locale, il Gottuso intrattiene una lunga
conversazione con Collesano Rosario, in cui viene affrontato il problema
cui ha dato origine l’atto di forza compiuto dal Bruno, ma nessun accenno
viene fatto al Biondo, né tantomemno al preteso incarico che allo stesso
216 sarebbe stato conferito da Liga Salvatore di ritirare le chiavi del locale di
cui il Bruno si è impossessato.
Come è stato evidenziato dai primi Giudici, sulla base delle indicazioni
fornite dai protagonisti delle conversazioni intercettate, gli organi inquirenti
avevano individuato una prima attività commerciale, oggetto del
contendere, denominata Bar Marinella - sita in Palermo, nella via Caduti sul
Lavoro - ed un secondo esercizio adiacente, denominato Salumeria DOC.
Il proprietario della salumeria era Pedalino Davide, il quale alla fine del
2004 aveva rilevato l’attività da Garofalo Francesco, genero di Liga
Salvatore; in precedenza, l’esercizio commerciale era appartenuto a tale
Spitaleri Gaetano, come era risultato dalle visure camerali e dall’esistenza
di un’insegna, all’interno del negozio, che riportava sul retro la dicitura
“Sigma di Spitaleri Gaetano, Premiata Salumeria”. Il Pedalino era cognato
di Andrea e Giuseppe Bruno. Il Bar Marinella aveva costituito oggetto di un
attentato incendiario, avvenuto il 10.5.2005.
Sarebbe stato evidente, dunque, che l’azione di forza del Bruno in danno
del Garofalo, genero del Liga, si era conclusa con l’estromissione dello
stesso Garofalo e con l’intestazione dell’esercizio commerciale al Pedalino,
cognato del Bruno.
Alla stregua di tali considerazioni, sembra che l’attività dell’odierno
appellante, consistente, si può dire, in un mero “tentativo” di risolvere la
questione vertente tra il Bruno ed il genero di “Tatunieddu” Liga, si sia in
pratica esaurita in una richiesta di intervento di Gottuso Salvatore, “uomo
d’onore” tenuto in molta considerazione nell’ambito di “cosa nostra”, anche
per la sua abilità diplomatica e per la capacità di comporre eventuali dissidi
tra gli adepti della consorteria criminosa. E per di più, siffatta attività non
avrebbe sortito l’esito sperato se, come si è visto, il locale in contestazione
era rimasto nella disponibilità del cognato del Bruno.
D’altra parte, tenuto conto della scarsa qualità delle captazioni (si è già
detto che larga parte di esse è inintelligibile, in specie per quanto concerne
l’appellante, del quale vengono spesso riportate brevi frasi prive di senso
217 compiuto e difficilmente rapportabili ad altri brani di conversazione al fine
di ricavarne un significato plausibile), non è dato rilevare con certezza il
compimento, da parte dello stesso, di attività particolarmente significative,
quali quello del – preteso – incarico della consegna delle chiavi,
presumibilmente ipoitizzato in sentenza in via presuntiva, ovvero di un
interessamento più assiduo che rivelasse un particolare interesse dello
stesso al componimento della diatriba in via bonaria.
D’altra parte, non è dato, ancora, rilevare l’esistenza di ulteriori elementi da
cui sia possibile ricavare il compimento, da parte dell’imputato, di
successivi significativi interventi nella vicenda in esame, ove si eccettui
l’inziale conversazione con il Gottuso, che ha offerto a quest’ultimo l’input
per intervenire, a sua volta, nel cercare un adeguato componimento di essa.
Non sembra, infine, anche a volere ammettere l’espletamento, da parte del
Biondo, di una più penetrante attività e di una più assidua partecipazione
alle vicende de quibus, che le stesse, ancorché svoltesi fra soggetti di
elevata caratura mafiosa, potessero investire profili di vitale interesse per
l’associa- zione mafiosa, e perciò tali da ritenere che l’intervento spiegato
dal Biondo apparisse, nell’ottica di una prospettazione ex ante, di decisiva
importanza per l’esistenza o per gli assetti dell’intera associazione,
apparendo piuttosto come il tentativo di risolvere bonariamente una
questione in favore di un soggetto, ancorché mafioso, con il quale lo stesso
imputato intratteneva rapporti di amicizia.
Alla stregua di tali considerazioni, ed in presenza di elementi insufficienti
sotto il profilo probatorio, per l’affermazione della responsabilità dell’imputato, ritiene la Corte che lo stesso, in riforma della sentenza impugnata,
debba essere mandato assolto dal reato contestatogli ai sensi dell’art. 530
cpv. c.p.p. perché il fatto non sussiste.
218 2-6. L’APPELLO NELL’INTERESSE DI COLLESANO VINCENZOCon il primo articolato motivo del proposto gravame l’appellante sostiene
che il Tribunale avrebbe dovuto assolvere l’imputato dal reato ascrittogli
per non avere commesso il fatto.
Il Collegio, infatti, non avrebbe tenuto conto, pur avendole riportate nella
parte motiva della sentenza, delle dichiarazioni rese nel corso del
dibattimento dai “collaboratori di giustizia” addotti dalle parti, i quali
avrebbero concordemente escluso che il Collesano Vincenzo fosse
partecipe qualificato al sodalizio criminoso.
Ed infatti gli storici collaboratori di giustizia Avitabile Antonino, Cracolici
Isidoro e Onorato Francesco, tutti gravitanti per anni nella “famiglia”
mafiosa di Partanna Mondello, sentiti all'udienza del 21 maggio 2008,
avevano dichiarato di non avere mai conosciuto il Collesano Vincenzo ed,
implicitamente, escluso che lo stesso facesse parte di tale articolazione
territoriale.
La circostanza non era di poco momento atteso il grado di attendibilità che
ai predetti collaboratori conseguiva dalle positive verifiche svolte, sulle loro
dichiarazioni, in numerosi procedimenti penali.
Ma anche i più recenti collaboratori di giustizia, parimenti sentiti al
dibattimento, avrebbero escluso che il Collesano Vincenzo rivestisse la
qualità di “uomo d'onore” della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello.
Franzese Franco, pur dichiarandosi reggente di tale “famiglia” ed
attribuendo al Collesano Vincenzo la riscossione del pizzo presso alcuni
commercianti per conto di Di Blasi Francesco, cui era vicino, aveva tuttavia
affermato che il Collesano Vincenzo non gli era stato presentato come
“uomo d'onore” e che non era ritualmente affiliato.
Precisava ancora che “soltanto lui (Franzese) e Nino Mancuso erano
affiliati alla “famiglia”” e che, in precedenza, lo era Totuccio Davì.
219 E tali affermazioni del Franzese, atteso il ruolo di reggente allo stesso
riconosciuto, avrebbero costituito un dato rilevante, escludente la ritenuta
intraneità del Collesano a detta “famiglia” mafiosa, del tutto ignorato dal
Collegio.
Pulizzi Gaspare, sentito all'udienza del 9 maggio 2008, dopo avere
premesso che Franzese Franco era il reggente della “famiglia” mafiosa di
Partanna Mondello e di avere intrattenuto rapporti con lo stesso per tale
qualità, riferiva di avere saputo da questi che Collesano Vincenzo non era
“uomo d'onore” e ricevuto l'esortazione a “trattarlo male”.
Nuccio Antonino, sentito all'udienza del 9 maggio 2008, riferiva, tra le altre
cose, di avere saputo dal Franzese che il Collesano era affiliato alla
“famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, ma tale circostanza sarebbe stata
smentita proprio dalla stessa fonte Franzese Franco e da Pulizzi Gaspare.
Ne conseguiva, pertanto, che agli atti processuali sarebbe stata acquisita la
prova che il Collesano Vincenzo non fosse partecipe qualificato al sodalizio
criminoso non essendo “uomo d'onore” ritualmente combinato.
Alla stregua di tale dato, quindi, il Tribunale avrebbe dovuto valutare se, nei
comportamenti (facta concludentia) processualmente accertati e posti in
essere dal Collesano, ricorressero elementi dai quali desumerne aliunde la
sua partecipazione al sodalizio medesimo.
Soggiunge la Difesa che la condotta del Collesano, desumibile dalle
dichiarazioni rese da Pulizzi Gaspare, sarebbe consistita nell’intercedere
presso lo stesso Pulizzi, nell'ottobre 2006, affinchè “facesse una carezza”,
vale a dire riducesse l'importo di diecimila euro che il medesimo aveva
richiesto al costruttore Massimo Caravello quale “messa a posto” per dei
lavori edili che il predetto stava eseguendo in territorio di Carini.
Tale richiesta, però, sarebbe stata respinta dal Pulizzi, previa consultazione
con il Francese.
Precisava ancora il Pulizzi che il denaro richiesto al Caravello gli era stato
consegnato (nell'importo richiesto) da Nino Mancuso.
220 Tali fatti venivano confermati dal medesimo Franzese, il quale precisava di
avere detto al Pulizzi ed al Nuccio Antonino, che il Collesano era malvisto
da Sandro Lo Piccolo in quanto non voleva rinunciare a dei lavori idrici in
delle costruzioni a favore di certo Vitamia sponsorizzato dal Lo Piccolo.
Tali fatti, pertanto, non avrebbero rilevato ai fini della partecipazione del
Collesano al sodalizio criminoso, apparendo evidente come la condotta del
predetto fosse finalizzata ad evitare o limitare un ingiusto danno al
costruttore Caravello e non ad arrecare un vantaggio al suddetto sodalizio.
Tale condotta avrebbe evidenziato, altresì, come il Collesano fosse inviso al
Lo Piccolo Sandro e, di converso, allo stesso Franzese Franco (cui aveva
fatto fare una brutta figura, come riferito dal Nuccio, perché non aveva
ottemperato alle richieste del predetto), cosa questa non possibile ove fosse
stato partecipe al sodalizio criminoso nel quale il Lo Piccolo ricopriva un
ruolo apicale ed il Franzese reggente di una “famiglia”.
Le dichiarazioni di Nuccio Antonino (professatosi non “uomo d'onore”),
sarebbero apparse del tutto generiche e prive di ogni riscontro.
Ed infatti, sulle presunte estorsioni che il Collesano, alle dipendenze di
Ciccio Di Blasi avrebbe consumato nella zona di Partanna Mondello, il
Nuccio non era stato in condizione di riferire alcunché di preciso.
Il predetto, sentito all'udienza del 9 maggio 2008, aveva affermato, per
averlo appreso de relato da Nino Mancuso, Caviglia Domenico,
Ciaramitaro Domenico e Lavardera Roberto, che il Collesano si era
occupato di una estorsione consumata ai danni di un soggetto, del quale non
sapeva indicare il nome, che “stava ristrutturando una casa” nel territorio di
Mondello.
Precisava ancora il Nuccio di non essere a conoscenza di altre estorsioni
consumate dal Collesano, ma di essere stato informato dal Franzese che lo
stesso gli aveva fatto fare una brutta figura con i Lo Piccolo in quanto non
aveva voluto cedere dei lavori di idraulica su degli immobili a persona da
quest'ultimi designata.
221 Le propalazioni del Nuccio, pertanto, non soltanto non avevano trovato
riscontro negli accertamenti di p.g. e nella istruzione dibattimentale (non
essendo stato individuato l'immobile e l'estorto, né confermato da altri
l'episodio) ma, altresì, per la loro genericità, non avrebbero presentato
alcuna valenza probatoria.
Franzese Franco, sentito alle udienze dell’11 e del 18 giugno 2008,
qualificava il Collesano come persona vicina a Ciccio Di Blasi, con cui
faceva riunioni presso la "Edilpomice", e per conto del quale riscuoteva il
pizzo presso l'esercizio commerciale "Testaverde" e la fabbrica di mobili
"Adile".
Aggiungeva che, dopo l'arresto del Di Blasi, il Collesano si era allontanato
da tale attività e che Totuccio Davì era rimasto il solo ad occuparsi delle
estorsioni.
Nell'illustrare un biglietto allo stesso sequestrato e contenente dei conteggi,
il Franzese aveva precisato che lo aveva ricopiato da altro ricevuto da
Sandro Lo Piccolo nel 2007 e spiegava che le somme costituivano la
divisione di una “mediazione immobiliare curata da Totuccio Davi” e della
quale non sapeva nulla in quanto il Sandro Lo Piccolo non gli aveva
rivelato a quale immobile si riferisse. Aveva altresì precisato di non
conoscere il soggetto indicato nel biglietto come “zio Pinuzzu” e che le due
diciture "COLL" si riferivano ai fratelli Collesano Vincenzo e Rosario,
aggiungendo che, tuttavia, le relative cifre non erano state corrisposte agli
interessati.
Aggiunge l’appellante che l’attività processuale di riscontro alle anzidette
propalazioni accusatorie del Franzese, sarebbe negativa.
Ed infatti Testaverde Giovanni e Rosario, titolari dell'omonimo esercizio,
escussi, quali testi, dopo avere precisato di ben conoscere il Collesano
Vincenzo in quanto idraulico, avevano escluso categoricamente di avere
avuto richiesto o consegnato allo stesso denaro quale compendio di
estorsione consumata ai loro danni.
222 Analogamente, Adile Carlo e Roberto, titolari dell'omonima fabbrica, dopo
aver precisato (il Carlo) di conoscere il Collesano Vincenzo, avendone
usufruito quale idraulico, avevano escluso categoricamente di avere avuto
richiesto o consegnato allo stesso denaro frutto di estorsione.
Il Tribunale, nell'intento di attribuire, comunque, credibilità al Franzese,
aveva ritenuto dette dichiarazioni inattendibili estendendo immotivatamente
le riserve conseguenti la qualità di indagati di reato connesso degli Adile
(poiché avevano negato di essere stati estorti) anche ai Testaverde, che tale
qualità non rivestivano non essendo mai stato loro contestato il reato di
favoreggiamento personale, mentre non non vi sarebbero state ragioni per
dubitare della veridicità delle dichiarazioni dei predetti Testaverde e Adile, i
quali in altre occasioni non avrebbero esitato a rivolgersi all’A.G.
Relativamente al biglietto sequestrato al Franzese, la valenza dello stesso
(quale prova di una estorsione consumata in danno dell'ignoto venditore di
un non identificato terreno con la “mediazione immobiliare curata da
Totuccio Davi”) nei confronti del Collesano Vincenzo, conseguente alla
doppia annotazione "Coll", sarebbe stata del tutto inconsistente sulla base
delle medesime affermazioni del Franzese.
Questi, infatti, dopo avere illustrato i contrasti insorti tra Francesco (Ciccio)
Di Blasi e Salvatore (Totuccio) Davì, aveva affermato che, arrestato Ciccio
Di Blasi, il Totuccio Davì era rimasto il solo ad occuparsi delle estorsioni, e
che Enzo Collesano si era allontanato dopo l'arresto di Ciccio Di Blasi.
E tali circostanze, da sole, sarebbero valse ad escludere che il Davì potesse
beneficiare un soggetto (Collesano Vincenzo) che era vicino al suo
concorrente Di Blasi e che si era allontanato allorquando questi era stato
arrestato.
A ciò andava aggiunto che, come era stato riferito dal medesimo Franzese,
il Collesano Vincenzo era “mal visto” da Sandro Lo Piccolo, cui il Davì,
secondo la prospettazione accusatoria, sarebbe stato legato e che avrebbe
spiegato al Franzese il contenuto del biglietto.
223 Ne conseguiva, pertanto, che nel 2007 (epoca in cui il Franzese ebbe a
ricevere il biglietto dal Sandro Lo Piccolo), la scritta "Coll." non avrebbe
potuto identificare il Collesano Vincenzo.
Pertanto, le propalazioni dei collaboranti non avrebbero offerto al Tribunale
facta concludentìa dai quali desumere lo stabile inserimento del Collesano
nel sodalizio criminoso.
Ed infatti, le indicazioni del Nuccio su una presunta attività estorsiva del
Collesano sarebbero rimaste generiche e non riscontrate, mentre quelle del
Franzese sarebbero state smentite dai diretti interessati.
Né la vicinanza dell'appellante a Francesco (Ciccio) Di Blasi, ritenuto
partecipe al sodalizio criminoso, avrebbe costituito elemento per estendere
al Collesano tale partecipazione.
Rammenta a tal fine l’appellante che del concetto di “vicinanza” come di
quelli di “contiguità compiacente” o “disponibilità”, la S.C. a Sezioni Unite
ha fatto da tempo giustizia, affermando come tali atteggiamenti non siano
penalmente rilevanti “ove non si accompagnino a positive attività che
abbiano fornito uno o più contributi suscettibili di produrre un oggettivo
apporto di rafforzamento o di consolidamento all'associazione”.
Il contributo che il Collesano avrebbe offerto al sodalizio riscuotendo, su
incarico e per conto di Francesco Di Blasi, il pizzo, sarebbe rimasto,
all'esito dell'istruzione dibattimentale, del tutto indimostrato, non essendo
seguito alle labiali affermazioni del Nuccio Antonino e del Franzese Franco
alcun autonomo elemento confermativo.
Di contro, nel corso dell'esame reso all'udienza del 16 ottobre 2008, il
Collesano Vincenzo, oltre a protestare la propria estraneità ad ogni condotta
estorsiva, aveva precisato come anche in altre occasioni (rispetto quella
riferita dal Nuccio e confermata dal Franzese) aveva dovuto subire
l'espropriazione del proprio lavoro da parte del sodalizio mafioso (lavori del
costruttore Tagliareni in viale Aiace, lavori del costruttore Ferrante a Punta
Raisi, intermediazione vendita terreno Vernaci).
224 Certamente, ove partecipe al sodalizio, il Collesano non avrebbe subito tali
vessazioni e, anzi, sarebbe stato favorito nell'acquisizione di nuove
commesse.
Alla stregua delle medesime dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Pulizzi Gaspare e Franzese Franco, ritenute dal Tribunale attendibili,
sarebbe stata, infine, distorta la lettura delle intercettazioni tra presenti dallo
stesso Tribunale effettuata.
Ed infatti, posto che il Collesano Vincenzo non era “uomo d'onore” della
“famiglia” di Partanna Mondello, e posto che altri ricoprivano un ruolo
apicale in tale “famiglia”, come riferito dai collaboratori di giustizia sentiti
nel corso del dibattimento, le conversazioni tra Gottuso Salvatore e Cinà
Filippo (20 gennaio 2004); tra Gottuso Salvatore e Davì Salvatore (28
gennaio 2004); tra Davì Salvatore e Collesano Rosario (2 e 15 aprile 2004);
tra Gottuso Salvatore, Davì Salvatore, Collesano Rosario e Cinà Filippo (16
aprile 2004); tra Collesano Rosario e Mancuso Rosalia (13 maggio 2004);
tra Collesano Rosario e Bruno Giuseppe (19 aprile 2004); tra Davì
Salvatore e Collesano Rosario (19 aprile 2004); costituenti un prius rispetto
alle anzidette dichiarazioni dei collaboratori, non concernevano i contrasti
tra Collesano Rosario ed il fratello Vincenzo per l'assunzione del comando
della “famiglia” mafiosa di Partanna, bensì, unicamente, la conduzione
della mediazione per la vendita del terreno dei Vernaci.
Ed infatti, come era stato dichiarato dal Franzese Franco, relativamente a
tale mediazione Di Blasi aveva interessato il Collesano Vincenzo e,
arrestato il Di Blasi, il Davì, subentratogli, aveva incaricato il Collesano
Rosario e il Vincenzo era stato estromesso.
Conseguentemente, i contrasti tra i due fratelli non avrebbero riguardato il
"comando" della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, al quale non
potevano essere interessati in quanto entrambi non "uomini d'onore" ed al
quale altri erano deputati, bensì su chi dovesse svolgere tale mediazione.
Tale corretta lettura, peraltro, sarebbe stata offerta, all’udienza del
maggio 2008, dal verbalizzante Tomasino Baldassarre.
225 14
Il Tribunale, anteponendo la lettura di tali intercettazioni alle propalazioni
dei citati collaboratori di giustizia e non tenendo conto delle stesse, sarebbe
incorso, pertanto, in un grave errore di analisi.
Peraltro, Vernaci Francesco, sentito all'udienza del 29 ottobre 2008, aveva
riferito sulla sua intenzione di vendere l'omonimo fondo e sulle trattative
intercorse, escludendo di avere subito imposizioni o vessazioni.
Relativamente poi all'interessamento del Collesano Vincenzo per tale
vendita, alla medesima udienza, aveva riferito il teste Bonomo Mauro,
titolare di una agenzia immobiliare.
Anche il Collesano Rosario, sentito ex art. 210 c.p.p. all'udienza predetta,
aveva confermato le superiori circostanze.
In definitiva, quindi, l'iniziale ipotesi investigativa che, sulla base di tali
intercettazioni, aveva determinato, nel gennaio 2007, l'applicazione della
misura custodiale in carcere nei confronti del Collesano Vincenzo (come
del fratello Rosario) per il delitto di cui ali'art. 416 bis c.p., in quanto
ritenuti in contrasto per assumere il comando della “famiglia” mafiosa di
Partanna Mondello, sarebbe stata smentita dalle successive dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia (Pulizzi Gaspare e sopratutto Franzese Franco) che
avevano chiarito le dinamiche interne a tale “famiglia”.
Conseguentemente, a carico del Collesano non sarebbero residuati elementi
sui quali fondare la responsabilità dello stesso in ordine al delitto
contestatogli.
Le censure sono prive di fondamento.
Invero, come è stato esattamente rilevato dai primi Giudici con riferimento
alla posizione del Collesano, va evidenziata, in primo luogo, la
conversazione del 20 gennaio 2004, intercorsa alle ore 10.54 tra il Gottuso e
l’imprenditore edile Cinà Filippo, successivamente tratto in arresto nel
marzo del 2005, all’esito dell’operazione poi sfociata nel procedimento cd.
“San Lorenzo 5”.
226 Nel corso di tale conversazione, dalla quale emergeva l’approfondita
conoscenza del Gottuso in ordine alle vicende della cosca di Partanna
Mondello, gli interlocutori parlavano di un forte contrasto esistente tra
l’odierno imputato e il fratello Rosario in seno alla “famiglia” mafiosa.
Il tenore della conversazione era di tale chiarezza da non richiedere
particolari commenti; il Gottuso esprimeva la propria viva preoccupazione
per la situazione di tensione determinatasi a Partanna a causa della rivalità
esistente fra i fratelli Collesano e delle contestuali aspirazioni egemoniche
di Totò Davì, scarcerato nel 2003.
L’identificazione dei soggetti citati dal Gottuso appariva certa, non solo con
riguardo al Davì, attesa la menzione integrale del suo nome ed il riferimento
alla sua recente scarcerazione (avvenuta il 20.10.2003), ma anche in
relazione ai fratelli Collesano, i quali comandavano “uno da una parte… e
uno dall’altra” e “cercavano di ammazzarsi l’uno con l’altro”.
Sulla base delle notizie emerse dallo stesso colloquio, come esattamente
hanno osservato i primi Giudici, i fratelli schierati su fronti differenti sono
stati identificati, senza tèma di equivoci, in Collesano Rosario e Collesano
Vincenzo, entrambi idraulici; il primo dei quali, ritenuto il “migliore” fra i
due, genero di Mancuso Mariano, esponente di spicco della “famiglia”
mafiosa di Partanna Mondello, ucciso in un agguato di mafia.
Gottuso, per vero, aveva riferito al Cinà di avere parlato della questione con
il Davì e di averlo invitato a risolvere il problema, la cui soluzione
definitiva però sarebbe spettata al vertice del mandamento, esplicitamente
evocato dal Cinà con il riferimento al “figlio di Totuccio” (cioè Sandro Lo
Piccolo), ancorché, ad avviso dello stesso Gottuso, la scelta sarebbe dovuta
ricadere sul Davì, il quale, dopo venticinque anni di detenzione, aspirava
legittimamente a vedersi riconosciuto il ruolo di guida della cosca di
Partanna Mondello.
Il chiarimento definitivo e la conseguente attribuzione del ruolo di reggente
apparivano necessari per la soluzione di una questione attinente alla
227 compravendita di un terreno, al quale erano interessate le due diverse
“cordate”.
Dalla successiva conversazione del 28 gennaio 2004, intercorsa alle ore
16,40 tra il Gottuso e il Davì, si ricavava che quest’ultimo aveva dato
conferma della contrapposizione esistente in seno alla “famiglia” di
Partanna.
Nella prima parte della conversazione, il Davì diceva al Gottuso che si era
interessato personalmente per cercare di assicurargli un compenso in
relazione all’attività idi mediazione svolta per la compravendita
dell’immobile.
Esaurito il primo argomento, il Davì introduceva un altro tema, che si
collegava direttamente alla conversazione intercorsa il 20 gennaio 2004 tra
il Gottuso ed il Cinà.
Dal tenore del colloquio si comprendeva che il Gottuso aveva contattato le
“persone interessate” alla compravendita di un terreno e che ora
manifestava il timore di continuare a gestire l’affare senza un’adeguata
copertura, chiedendo chiarimenti al Davì in merito a quanto stava
accadendo a Partanna.
Infatti, come si è detto, per continuare ad occuparsi della questione, il
Gottuso riteneva essenziale risolvere preliminarmente la questione che
riguardava i “fratelli” (vi era un chiaro riferimento ai fratelli Collesano);
aggiungendo vi era stato il tentativo, da parte di un soggetto non meglio
identificato, di accreditarsi presso i vertici mafiosi come soggetto
legittimato a gestire la “sensaleria” e che Salvatore Lo Piccolo aveva
autorizzato costui ad interessarsi al medesimo affare; riferiva inoltre al Davì
che era stato contattato da tale Michele Acquisto (“quello dello ZEN”),
indicato come compare del fontaniere “Enzo” – cioè Collesano Vincenzo il quale gli aveva chiesto conto del suo interessamento all'affare.
Il Davì rassicurava il Gottuso, ribadendo la propria piena investitura
“mafiosa”, invitandolo ad occuparsi della questione ed esortandolo a
proseguire nella sua attività senza curarsi di quanti si erano indebitamente
228 intromessi; quindi, lo autorizzava espressamente a rappresentare a chiunque
avesse manifestato interesse per la vicenda che egli era legittimato ad
“andare avanti” e che non era tenuto a fornire ulteriori spiegazioni.
Nelle successive conversazioni del 2 e del 15 aprile 2004 tornava in primo
piano la figura di Collesano Vincenzo.
La prima intercettazione, che riguardava un colloquio intercorso tra il Davì
e Collesano Rosario alle ore 18,11 del 2.4.2004 all’interno dell’autovettura
in uso allo stesso Collesano, appariva confermativa del quadro sopra
delineato e forniva la prova del collegamento diretto tra il Davì e Lo
Piccolo Salvatore (e ciò spiega la sicurezza ostentata dal Davì
nell’affermare la propria legittimazione a gestire la questione della
compravendita del terreno).
Alla richiesta di Collesano Rosario, volta a conoscere il livello dei rapporti
esistenti tra il fratello Vincenzo e Totuccio Lo Piccolo, il Davì rispondeva
dicendo che tra i due non vi era alcun collegamento diretto e lasciando
intendere che egli era l’unico ad essere accreditato presso il “parrinu”.
Durante la successiva conversazione tra il Gottuso e Collesano Rosario,
intercettata alle ore 19.07 del 15 aprile 2004 all’interno dei locali della
S.B.S., si riaffermava l’esistenza di uno stretto legame tra il Davì ed il capo
mandamento
Salvatore
Lo
Piccolo;
i
due
interlocutori,
inoltre,
menzionavano “quello di Pallavicino”, verosimilmente Di Blasi Francesco,
quale ulteriore protagonista delle diatribe in corso tra gli esponenti della
“famiglia” mafiosa di Partanna.
Il Gottuso riferiva che un suo “amico” aveva parlato con Lo Piccolo
Salvatore, il quale lo aveva indirizzato da una persona di Pallavicino che, a
sua volta, aveva chiamato Collesano Vincenzo per risolvere il “problema”
tanto dibattuto.
Collesano Rosario, a sua volta, ricordava gli stretti rapporti esistenti tra il
Davì e Lo Piccolo Salvatore, cui egli stesso – su impulso del Davì - aveva
fatto pervenire una torta in occasione delle festività pasquali; quindi, in base
alle notizie di cui disponeva, smentiva il personale coinvolgimento nella
229 vicenda di “quello di Pallavicino”, il quale aveva sostenuto con il Davì che
non si era “immischiato in questo discorso”.
Il Gottuso fissava quindi un nuovo appuntamento per il giorno successivo,
allo scopo di discutere della questione, convocando telefonicamente tale
“Filippo” (che risulterà essere il Cinà).
In effetti, il 16 aprile 2004, alle ore 17,12, all’interno dei locali della S.B.S.
veniva registrata una ulteriore conversazione sul tema, che consentiva di
chiarire i termini dell’affare e di comprendere i ruoli dei diversi protagonisti
della vicenda.
La prima parte della conversazione intercorre tra il Gottuso, il Davì e
Collesano Rosario; il Gottuso diceva al Davì che sarebbe sopraggiunto
Filippo Cinà; quindi, per il timore che la discussione venisse captata, i tre
avevano adottato preliminarmente la precauzione di spegnere i telefoni
cellulari, ovvero di riporli a distanza di sicurezza dal luogo della riunione.
La conversazione poi proseguiva tra il Gottuso e il Davì.
Da un successivo passaggio della conversazione, si poteva desumere che il
proprietario del terreno era tale Vernaci.
Questo passaggio della conversazione consentiva, in primo luogo, di
identificare l’amico menzionato dal Gottuso nella conversazione del 15
aprile 2004, intercorsa con Collesano Rosario; si trattava dell’imprenditore
Cinà Filippo, che Lo Piccolo Salvatore aveva indirizzato da un esponente
mafioso di Pallavicino per la vicenda della compravendita del terreno;
questi, a sua volta, aveva chiamato Collesano Vincenzo per risolvere il
“problema”.
Il Cinà, come precisato dal Gottuso su richiesta del Davì, agiva per conto di
tale Cusimano, interessato all’acquisto del terreno.
Il Gottuso, riferendo ai suoi interlocutori il racconto del Cinà, spiegava
inoltre che lo stesso Cinà e Vincenzo Collesano, incontratisi grazie alla
mediazione di “quello di Pallavicino”, si erano recati assieme dal Vernaci.
Nel mezzo della conversazione interveniva il Cinà, il quale – dopo avere
anch’egli disattivato il telefono cellulare, su invito del Davì – raccontava la
230 sua versione della vicenda, confermando quanto riferito poco prima dal
Gottuso e precisando, con un linguaggio criptico, di aver contattato il
latitante Lo Piccolo Salvatore attraverso l’ormai consolidato sistema dei
“pizzini”, recapitati grazie all’interposizione di terzi:
Quindi, dopo il racconto delle trattative intercorse tra il Cusimano e il
Vernaci, la discussione si chiudeva con l’invito, rivolto dal Davì al Cinà, di
informare il Lo Piccolo della riunione appena avvenuta.
Nella parte finale della registrazione - successiva all’allontanamento del
Davì e di Collesano Rosario dai locali della S.B.S. - il Gottuso e il Cinà
offrivano ulteriori elementi per pervenire all’identificazione di “quello di
Pallavicino”:
Il riferimento a “Ciccio”, diminutivo di Francesco, nonché l’associazione
del nome alla zona di Pallavicino, consentiva di pervenire con certezza
all’identificazione di Di Blasi Francesco.
La conversazione avvenuta all’interno dell’autovettura KIA Sportage di
Collesano Rosario tra quest’ultimo e la moglie Mancuso Rosalia (sorella di
Bartolomeo) alle ore 10.53 del 13.5.2004, offriva un efficace spaccato dei
contrasti esistenti in seno alla “famiglia” mafiosa di Partanna, delineando
possibili futuri scenari, che non escludevano, a giudizio degli interlocutori,
anche l’eliminazione fisica di Collesano Vincenzo.
I due coniugi, infatti, biasimavano concordemente il comportamento di
Collesano Vincenzo, il quale aveva la pericolosa abitudine di “parlare
assai”; Collesano Rosario, a questo punto, ipotizzava l’imminente
soppressione di Vincenzo che, secondo la Mancuso, avrebbe plagiato suo
fratello Bartolomeo.
Quindi Collesano Rosario aveva rievocato con la moglie l’omicidio del
suocero ed il comportamento tenuto in quella circostanza dal cognato
Bartolomeo, che aveva assistito al fatto di sangue; poi, tornando a parlare
del fratello Vincenzo, lo aveva definito “un soldato che si sente generale”,
esprimendo la convinzione che, nel caso di una sua fine cruenta, nessuno
sarebbe intervenuto per punire i suoi assassini.
231 Alle ore 14,29 del 19.4.2004, veniva captata una conversazione di rilevante
interesse tra Collesano Rosario e Bruno Giuseppe, affiliato alla “famiglia”
di Partanna Mondello, già condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis
c.p. con sentenza definitiva.
L’identificazione del Bruno era avvenuta grazie alla intercettazione di una
conversazione telefonica, intercorsa alle ore 14,19 con Collesano Rosario
(chiamante), nel corso della quale i due avevano concordato di vedersi di lì
a poco.
La conversazione appariva di estremo interesse, perché dalla viva voce dei
due interlocutori si traeva la conferma del loro inserimento nel gruppo
capeggiato dal Davì, contrapposto a quello nel quale si era schierato
Collesano Vincenzo.
Nel corso del dialogo, il Bruno affermava, inoltre, di essersi interessato alla
questione della vendita del terreno e di volere partecipare all’incontro che il
Davì avrebbe avuto con gli altri protagonisti della vicenda presso l’azienda
avicola dei Vernaci.
Il servizio di osservazione predisposto dagli agenti operanti consentiva di
appurare che l’annunciato incontro “da quello delle uova” (l’azienda
avicola dei Vernaci) aveva effettivamente avuto luogo.
Alle ore 17,00 del 19 aprile 2004, subito dopo la nuova riunione svoltasi
nell’azienda dei Vernaci, il Davì raccontava a Collesano Rosario l’epilogo
della vicenda discussa con il Cinà il precedente 16 aprile, alla presenza del
Gottuso.
I due biasimavano il comportamento del gruppo avverso e di Vincenzo
Collesano, che ne era uno dei principali esponenti; dal colloquio si
evinceva, in particolare, che il Di Blasi ricopriva una posizione di spicco
nel gruppo cui apparteneva lo stesso Vincenzo Collesano, ma, al contenpo,
che anche il Collesano vi rivestiva una posizione di importanza certamente
non secondaria.
Alla stregua della suddetta articolata esposizione di quanto emerge dalle
intercettazioni, non può revocarsi in dubbio, contrariamente a quanto è stato
232 osservato in proposito dall’appellante, dell’inserimento del Collesano a
pieno titolo nel milieu delinquenziale della “famiglia” di Partanna
Mondello, a prescindere dalla esistenza
o meno di una sua rituale
affiliazione.
Invero, come è ormai jus receptum, la compartecipazione alla consorteria
criminosa denominata “cosa nostra” può essere assunta tanto attraverso
l’acquisizione della qualifica di “uomo d’onore”, che consegue, appunto, al
compimento di un particolare cerimoniale, quanto attraverso la messa in
atto di comportamenti univocamente significativi della volontà di
perseguire le medesime finalità illecite che l’organizzazione criminosa si
prefigge, ponendo, quindi, senz’altro in essere detti comportamenti, ossia
per facta concludentia.
E ad avviso di questa Corte, i comportamenti dell’imputato debbono essere
senz’altro
ritenuti
particolarmente
indicativi
di
una
sua
compenetrazione nel tessuto connettivo dell’associazione mafiosa.
certa
Del
tutto irrilevanti appaiono, infatti, i contrasti sorti all’interno della stessa, di
cui vi è indiscutibile traccia nelle intercettazioni esaminate, determinati
principalmente dalla rivalità esistente tra l’odierno imputato ed il fratello
Collesano Rosario e dalla preferenza che, a quanto sembra, è stata concessa
dal reggente della cosca Davì a quest’ultimo, dal momento che tali contrasti
non impediscono ovviamente la configurabilità del contestato delitto di
associazione mafiosa.
Invero, secondo l’orientamento assolutamente consolidato della S.C.,
risponde di partecipazione ad associazione mafiosa colui che risulta in
rapporto di stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del
sodalizio, tale da implicare l'assunzione di un ruolo dinamico e funzionale,
in esplicazione del quale l'interessato “prende parte” al fenomeno
associativo rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei
comuni fini criminosi (Cass. Pen. Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748).
E tali caratteristiche, come agevole rilevare, ricorrono tutte nella condotta
attribuibile all’odierno imputato.
233 D’altra parte, come esattamente è stato osservato dai primi Giudici, anche
con riguardo alla posizione del Collesano, le risultanze dei servizi di
intercettazione hanno assunto una assai rilevante capacità rappresentativa
del suo inserimento nell’organizzazione criminale denominata “cosa
nostra”.
Le acquisizioni probatorie derivanti dalle numerose conversazioni captate
hanno consentito, infatti, di delineare chiaramente gli assetti della
“famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, che in quella fase storica è
caratterizzata dallo scontro intestino tra due gruppi contrapposti e dalla
grave situazione di conflitto determinatasi tra i fratelli Collesano, schierati
su fronti diversi.
La contrapposizione esistente tra i Collesano era ben nota negli ambienti di
“cosa nostra” e costituiva motivo di gravi preoccupazioni per il Gottuso,
l’uomo che - come risulta pacificamente dalle emergenze processuali svolgeva attività di mediazione immobiliare muovendosi con estrema
disinvoltura tanto negli ambienti dell’imprenditoria, quanto tra gli uomini di
“cosa nostra”, garantendo gli interessi delle famiglie mafiose di volta in
volta interessate. Il Gottuso si è adoperato personalmente per comporre le
tensioni createsi all’interno della “famiglia” di Partanna Mondello,
ulteriormente esarcebate dal fatto che Salvatore Davì, scarcerato dopo un
lungo periodo di detenzione, aspirava ad assumere il ruolo di vertice della
cosca, forte del suo stretto rapporto con Salvatore Lo Piccolo.
Dalla menzionata conversazione intercorsa tra Collesano Rosario e la
moglie, è stata tratta l’ulteriore conferma del fatto che il dissidio tra i fratelli
non riguardava soltanto questioni personali (come sostenuto dall’imputato
in sede di esame dibattimentale), ma anche e soprattutto, il rispettivo
posizionamento nei due schieramenti contrapposti.
Le dichiarazioni del Franzese, la cui attendibilità è stata ben illustrata dai
primi giudici, hanno pienamente confermato le risultanze dell’attività di
intercettazione, conferamando la circostanza che all’interno della famiglia
mafiosa di Partanna Mondello convivevano due opposte fazioni: da un lato,
234 quella riconducibile al Davì, appoggiato da Collesano Rosario e da Bruno
Giuseppe, detto “castagna”, dall’altro, quella riconducibile a Di Blasi
Francesco, appoggiato da Collesano Vincenzo e De Luca Antonino.
Parimenti, appare evidente l’inconsistenza della tesi difensiva che vorrebbe
ricondurre ad una banale querelle familiare e a meri interessi privati un
conflitto che, dal contenuto delle intercettazioni, appariva prossimo a
scoppiare fra due gruppi di mafia contrapposti interessati a lucrosissimi
affari nel settore immobiliare.
Dalle anzidette risultanze emerge, infatti, che l’odierno imputato era
personalmente coinvolto nelle trattative inerenti la cd. “sensaleria” per la
vendita del fondo Vernaci e cercava di accreditarsi presso Lo Piccolo
Salvatore, al fine di prevalere sul Davì.
Ed a tale riguardo appariva significativa del grado di inserimento
dell’imputato nell’associazione mafiosa anche la circostanza che il Cinà,
indirizzato dal Lo Piccolo a parlare con il Di Blasi per risolvere la
questione, fosse stato da quest‟ultimo dirottato proprio verso il Collesano
Vincenzo, che doveva perciò considerarsi il referente del gruppo facente
capo al Di Blasi.
Ma, vi è di più.
Accanto alle anzidette circostanze di inequivoco valore probatorio, si
colloca altra incontrovertibile prova documentale.
Si intende far riferimento al chiaro contenuto del documento sequestrato al
Franzese in occasione del suo arresto, laddove i fratelli Collesano
compaiono (indicati con l’abbreviazione “coll”) vengono menzionati fra i
soggetti destinatari di somme di denaro derivanti dalle estorsioni.
Ed al riguardo pienamente credibile appare la cd “interpretazione autentica”
dello scritto fornita dallo stesso Francese, il quale ha, per l’appunto, chiarito
che le cifre indicate nel manoscritto si riferivano alla suddivisione di una
ingente somma di denaro ricavata da un’estorsione fra i vari appartenenti
alla “famiglia” di Partanna Mondello, fra cui anche i fratelli Collesano.
235 Ed è perfino evidente come il contenuto di tale documento consenta di
riscontrare esternamente l’assunto del Franzese secondo cui Vincenzo
Collesano era soggetto particolarmente attivo nel settore delle estorsioni,
essendo stato delegato dal Di Blasi a riscuotere il “pizzo” presso vari
esercizi commerciali.
Al riguardo le dichiarazioni del Franzese riscontrano pienamente anche
quelle del Nuccio il quale ha confermato il rapporto di sovraordinazione
gerarchica esistente tra il Di Blasi e l’odierno imputato ed il ruolo di
quest’ultimo di soggetto deputato alla raccolta del pizzo.
Le lineari dichiarazioni del Nuccio hanno confermato sostanzialmente
anche le propalazioni del Franzese nella parte in cui questi ha riferito della
mancata adesione del Collesano ad una richiesta, indirettamente
proveniente da Sandro Lo Piccolo e trasmessa dallo stesso Franzese, di
cedere un lavoro di idraulica in favore di un altro soggetto gradito al
capomandamento di San Lorenzo.
L’appellante, per vero, come si è detto, ha cercato di sminuire l’efficacia
probatoria del documento summenzionato, sostenendo che i soggetti
menzionati con l’indicazione “Coll” non sarebbero i fratelli Collesano,
sostenendo che dovrebbe escludersi che il Davì (ispiratore del documento
rinvenuto nella disponibilità del suo successore Francesco Franzese)
potesse beneficiare un soggetto, quale era Collesano Vincenzo, vicino al
suo concorrente Di Blasi.
Tale assunto è, però, palesemente infondato.
Sarà sufficiente rammentare, a tacer d’altro, che le “assegnazioni” di quote
del ricavato delle estorsioni veniva effettuata direttamente non dal Davì ma
dai Lo Piccolo, con criteri prestabiliti.
Seguendo l’ordune di idee prospettato dall’appellante, poi, non si
riuscirebbe a comprendere le ragioni per le quali il Lo Piccolo avrebbe
assegnato una parte del bottino anche al Di Blasi, che del Collesano era,
nella gerarchia mafiosa, il diretto superiore.
236 A smentire l’assuno difensivo soccorrono peraltro le ulteriori risultanze
inerenti l’effettiva esistenza di uno stretto legame tra l’odierno imputato e il
Franzese costituite dalle dichiarazioni del collaboratore Spataro che ha
rammentato come il capomandamento di Resuttana Bonanno, allorchè
aveva la necessità di incontrare lo stesso Franzese per fatti inerenti
l’organizzazione mafiosa si rivolgesse proprio al Collesano per stabilire il
contatto.
Parimenti inconsistenti appaiono i rilievi difensivi con cui si è messa in
dubbio la valenza probatoria delle indicazioni fornite dal collaboratore
Pulizzi sul conto del prevenuto.
Anche il Pulizzi, infine, aveva dichiarato di conoscere il Collesano,
ricordando il suo intervento infruttuoso nella vicenda relativa all’estorsione
ai danni dell’imprenditore Caravello, volto ad ottenere una riduzione
dell’importo coattivamente richiesto dalla “famiglia” mafiosa di Carini, in
quel periodo capeggiata dallo stesso Pulizzi; in relazione a tale vicenda, il
Collesano si era peraltro già rivolto a Nino Pipitone e non aveva mancato di
precisare al Pulizzi che conosceva anche Nino Di Maggio.
A conferma della piena attendibilità del Pulizzi, la vicenda è stata narrata in
termini speculari dal Franzese, anch’egli destinatario della richiesta,
avanzatagli dal Collesano, di intercedere con gli esponenti mafiosi di Carini
nell’interesse del Caravello, per ottenere la riduzione di una somma di
denaro che invece fu poi interamente ritirata dal Mancuso e consegnata a
Ferdinando Gallina.
I contatti con il Pulizzi nell’ambito della vicenda relativa al Caravello sono
stati ammessi, infine, anche dallo stesso Collesano.
Per quel che concerne il riferimento, quale ulteriore indizio di responsabilità
del Collesano, alla presunta non veridicità delle dichiarazioni rese dai
fratelli Testaverde, e dai fratelli Adile - indicati dal Franzese tra i
commercianti taglieggiati dalla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello
mediante l’intervento diretto del Collesano – i quali hanno negato di avere
ricevuto richieste estorsive da parte dell’imputato, sarà sufficiente osservare
237 che l’attendibilità del Franzese su questo punto, risulta confermata dal
rinvio a giudizio degli Adile, e che tale circostanza non vale ad estendere la
qualità di indagati nel reato di favoreggiamento personale attribuita agli
Adile, come ritiene erroneamente l’appellante, amche ai Testaverde; bensì
refluisce sulla complessiva attendibilità del collaborante, che viene a
trovare, così, una sostanziale conferma alle sue asserzioni.
Va rilevato, in conclusione, che, benché non sia emerso dalle fonti
dichiarative che l’odierno imputato fosse stato ritualmente affiliato a “cosa
nostra”, l’imponente materiale probatorio raccolto a carico del Collesano
dimostra comunque, in termini inoppugnabili, il suo organico inserimento
nella “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, il ruolo dinamico svolto al
servizio della cosca, ed il consapevole contributo arrecato al perseguimento
delle finalità illecite proprie dell’organizzazione, sicché lo stesso è stato
correttamente ritenuto responsabile del reato contestatogli.
Con il secondo motivo, in via subordinata, l’appellante invoca la
concessione delle attenuanti generiche e la determinazione della pena nel
minimo edittale.
Sarebbe emerso, infatti, che egli era trattato male, in quanto inviso al
Franzese Franco e al Sandro Lo Piccolo, ai quali avrebbe fatto fare “cattiva
figura”. Inoltre, dopo l'arresto di Ciccio Di Blasi si sarebbe allontanato, e
tale circostanza sarebbe rilevante per la valutazione dell'intensità della
condotta antigiuridica che lo stesso avrebbe posto in essere.
Conclusivamente, quindi, il trattamento sanzionatorio adottato dal Collegio
non sarebbe apparso adeguato alla effettiva gravità della condotta
attribuibile all'appellante.
Le censure sono prive di fondamento.
L’appellante, infine, si duole della mancata concessione delle circostanze
attenuanti generiche e della entità della pena inflittagli, della quale invoca, in
linea di maggiore subordine, una più mite rideterminazione.
Neanche queste ultime censure appaiono suscettibili di accoglimento.
238 Rileva, infatti, la Corte che i fatti relativi all’odierno procedimento
rivestono particolare gravità, tenuto conto in particolare del rilevante
spessore criminale dell’imputato, dipendente dalla lunga militanza in seno
al sodalizio criminoso, dal suo prestigio derivante dalla notevole caratura
criminale ed alla rilevante gravità dei reati da lui commessi (estorsioni),
sicché deve essere ritenuto legittimo il rifiuto opposto dai primi Giudici alla
concessione delle attenuanti innominate.
Parimenti equa ed adeguata ex art. 133 c.p. alla gravità del reato ed alla
personalità dell’autore, appare la pena complessivamente irrogata
all’imputasto (anni dodici di reclusione)., osservandosi al riguardo che detta
pena risulta essere stata determinata in una misura che garantisce al tempo
stesso il diritto dell’imputato ad un trattamento sanzionatorio equo,
nell’ambito segnato dalla Carta costituzionale, e l’esigenza statuale che i
crimini di rilevante entità vengano sanzionati con pene adeguate.
Con il terzo motivo, infimne, in ulteriore subordine, l’appellante assume
che il Tribunale avrebbe dovuto ritenere insussistenti le aggravanti di cui ai
commi quarto e quinto dell'art. 416 bis c.p. e di converso applicare una pena
minore.
Ed invero l'istruzione dibattimentale non avrebbe offerto la prova né che la
“famiglia” mafiosa di Partanna Mondello disponesse di armi, né che le
estorsioni di cui il Nuccio Antonino e il Franzese Franco avevano riferito
fossero state in realtà consumate.
Ed infatti nessuna arma era stata sequestrata ai predetti e nessun soggetto
aveva confermato di essere stato estorto.
Le censure sono prive di fondamento.
Invero, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della S.C. “In
tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l’aggravante
prevista dall’art. 416 bis comma 4° c.p., è configurabile a carico di ogni
partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o
lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi della
239 organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra” può ritenersi che la
circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile” (Cass. pen., sez. I, 18
aprile 1995, Farinella).
E tale indirizzo è stato più recentemente ribadito dalla stessa S.C.: “In tema
di associazione per delinquere di stampo mafioso la circostanza aggravante
della disponibilità delle armi - di cui all’art. 416 bis, commi quarto e quinto
cod. pen. - non richiede la diretta detenzione, nè il porto di esse, e, una volta
provato l’apparato strutturale mafioso, l’eventuale disponibilità di armi o
esplosivi da parte di alcuni degli associati, ben può ritenersi finalizzata, in
linea di principio, al conseguimento degli scopi propri dell’associazione di
tipo mafioso. E’ dunque sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti
abbiano la disponibilità di armi, per il conseguimento dei fini del sodalizio,
perchè detta aggravante, di natura oggettiva, sia configurabile a carico di
ogni partecipe il quale sia consapevole del possesso di armi da parte degli
associati, o lo ignori per colpa, non sussistendo - attesa l’ampia
formulazione dell’art. 59, comma secondo cod. pen., introdotto dalla legge
7 febbraio 1990 n.19 - logica incompatibilità tra l’imputazione a titolo di
dolo della fattispecie criminosa base e quella, a titolo di colpa, di un
elemento accidentale come la circostanza in questione” (Cass. Pen., sez. I,
27 ottobre 1997, n. 9958, Carelli ed altri).
Nè, peraltro, possono condividersi le preoccupazioni, talora manifestate con
riferimento all’anzidetta aggravante, in elemento strutturale del reato, dal
momento che la stessa sarebbe sempre in concreto ravvisabile in
qualsivoglia ipotesi di associazione per delinquere di stampo mafioso.
E’ agevole, infatti, osservare che l’art. 416 bis disciplina la figura dell’associazione di stampo mafioso in generale, e non già la consorteria
delinquenziale denominata “cosa nostra”, la quale, unitamente ad
organizzazioni similari quali, ad esempio, la camorra napoletana o la “sacra
corona unita” pugliese, o la “‘ndrangheta” costituisce una species
nell’ambito del genus costituito dalla categoria generale dell’organizzazione
criminale caratterizzata dal modo di agire denominato “mafioso”, e che, a
240 differenza delle organizzazioni menzionate, ben può non avere la
disponibilità di armi.
Tale tesi, dunque, sarebbe condivisibile soltanto ove l’art. 416 bis
disciplinasse esclusivamente la consorteria criminosa denominata “cosa
nostra”, e non già l’associazione di stampo mafioso in genere.
Ne consegue che l’aggravante de qua potrà considerarsi sempre ricorrente
nel caso in cui la consorteria criminosa rientrante nell’ambito di
applicabilità dell’art. 416 bis sia “cosa nostra”, ma che, ovviamente, non
potrà essere considerata elemento costitutivo di una fattispecie legislativa
autonomamente disciplinata (associazione mafiosa denominata “cosa
nostra”) che non trova allocazione nell’attuale ordinamento penale.
In proposito la giurisprudenza della S.C. si è espressa affermando che
“Allorché risulta che l’associazione per delinquere di stampo mafioso faccia
uso di armi, la mancanza della disponibilità di esse da parte del singolo
partecipe non esclude, a carico dello stesso, l’esistenza della circostanza
aggravante di cui all’art. 416-bis quarto comma cod. pen., essendo
sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti ne abbiano la disponibilità, allo
stesso modo che non è necessario, per la sussistenza dell’aggravante di cui
al successivo sesto comma, che il singolo associato personalmente si
interessi a finanziare con i proventi da delitti, le attività economiche di cui i
partecipi dell’associazione criminale intendono assumere e mantenere il
controllo” (Cass. Pen. Sez. I, 6.8.1996, Trupiano).
Ne consegue che dovrà trovare applicazione nella specie l’aggravante
contestata, ancorché effettivamente non risulti provato che l’imputato abbia
realmente avuto il possesso di armi.
2-7. - L’APPELLO NELL’INTERESSE DI DE LUCA ANTONINO –
L’appellante premette alla esposizione dei motivi, che la S.C. ha sancito il
principio secondo cui la partecipazione ad una associazione criminosa ex
art. 416 bis c.p. può essere desunta da indicatori fattuali fondati su
241 attendibili regole di esperienza attinenti specificamente al fenomeno della
criminalità di stampo mafioso, purché si tratti di indizi gravi e precisi, tra i
quali, esemplificando i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di
osservazione e prova, si annoverano l'affiliazione rituale, l'investitura della
qualifica di “uomo d'onore”, la commissione di delitti - scopo idonei, senza
alcun automatismo probatorio, a fornire la dimostrazione della costante
permanenza del vincolo, con puntuale riferimento allo specifico periodo
temporale considerato dall'imputazione. E si è affermato che non è
necessario
un
atto
formale
di
affiliazione
ai
fini
dell'ingresso
nell’associazione criminosa, dal momento che questo potrebbe avvenire
anche in virtù di tacito assenso.
Nel caso dell'associazione di stampo mafioso, differenziandosi questa dalla
comune associazione per delinquere, per la sua peculiare forza di
intimidazione, derivante dei metodi usati e dalla capacità di sopraffazione, a
sua volta scaturente dal legame che unisce gli associati, ai quali si richiede
di prestare, quando necessario, concreta attività diretta a piegare la volontà
dei terzi che vengano a trovarsi contatto con l'associazione e che ad essa
eventualmente resistano, detto contributo può essere costituito anche dalla
dichiarata adesione all'associazione da parte del singolo, il quale presti la
sua disponibilità ad agire quale “uomo d’onore” per gli anzidetti fini. Il
partecipe, pertanto, dovrebbe identificarsi con un soggetto la cui volontà di
operare a favore dell’associazione trovi riscontro in una altrettanto univoca
e concorde decisione di inserirlo nel tessuto organizzativo, risoltasi con
l'affidare a tale soggetto un ruolo permanente all’interno dell’associazione
medesima.
Fatte tali premesse, l'appellante assume, con il primo motivo, di essere
soggetto sicuramente estraneo alle dinamiche di “cosa nostra” e di non
essere alla stessa affiliato. Infatti, gli elementi di prova acquisiti non
consentirebbero di affermare che il De Luca Antonino abbia mai
manifestato la volontà di operare a favore dell'associazione, e in tal senso
sarebbe assente un’altrettanto univoca e concorde decisione di inserirlo nel
242 tessuto criminale, e difetterebbe l'individuazione di un suo ruolo stabile e
permanente all'interno dell'organizzazione denominata “cosa nostra”, anche
come mero concorrente esterno.
Evidenzia, quindi, in primo luogo che gli elementi indiziari emersi nel corso
dell'indagine svolta dalla Squadra Mobile di Palermo, si fondano sull'esito
di servizi di osservazione sul territorio, svolti anche nel deposito di
ceramiche di Gottuso Salvatore e presso il luogo di lavoro residenza di
Pipitone Vincenzo, nonché sul contenuto di numerose conversazioni
telefoniche ed ambientali intercettate, che provano l'esistenza e l'operatiità
del sodalizio criminoso “cosa nostra” nelle articolazioni riconducibili alle
“famiglie” mafiose di Carini, Partanna Mondello e S. Lorenzo ricomprese
nel “mandamento” mafioso di San Lorenzo - Tommaso Natale.
Osserva che dalle risultanze dell'attività investigativa sono stati tratti
rilevanti contributi conoscitivi in ordine al conflitto esistente in seno alla
“famiglia” di Partanna Mondello e, in particolare, ai contrasti insorti
all'interno di essa, ma che mai verrebbe fatto il nome di De Luca Antonino.
Dal contenuto delle intercettazioni si evince che si erano venuti a creare in
seno alla “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello due schieramenti che
rappresentavano i diversi interessi economici sottesi alla realizzazione
dell'affare ed al contempo all'affermazione di due distinte sfere di potere
sull'area territoriale in questione. Ed il primo giudice avrebbe correttamente
valutato il positivo valore probatorio delle intercettazioni, ma non avrebbe
tenuto in considerazione, con riferimento al De Luca, che dall'analisi del
contenuto delle stesse emergerebbe la pressoché totale assenza di qualsiasi
contatto di quest’ultimo, sia con i coimputati, che con qualunque altro
soggetto gravitante all'interno di “cosa nostra”. E tale circostanza sarebbe
dovuta essere valutata favorevolmente per un soggetto imputato di un reato
così grave come quello costituente oggetto di gravame.
Osserva ancora che l’accusa a suo carico si reggerebbe esclusivamente sulle
chiamate in correità, costituenti l’unico elemento probatorio in tal senso.
Detta accusa, infatti, sarebbe costituita unicamente dalle dichiarazioni dei
243 collaboratori di giustizia escussi nella veste di imputati di reato connesso ex
art. 210 c.p., ovvero in qualità di testimoni assistiti, ai sensi dell’art. 197 bis
c.p.p.
Rileva, quindi, che la maggior parte dei collaboratori non è stata in grado di
fornire alcuna notizia sul conto di esso appellante: Abitabile Antonino,
sentito nelle forme di cui all’art. 197 bis c.p.p., ha dichiarato non conoscere
De Luca Antonino, e la medesima considerazoone vale per
Onorato
Francesco e Cracolici Isidoro, avendo anche costoro dichiarato di non
conoscere il De Luca. Identica risposta hanno fornito i collaboranti Mazzola
Giovanni e Pulizzi Gaspare.
La tesi accusatoria, pertanto, verrebbe a fondarsi esclusivamente sulle
dichiarazioni rese dai collaboratori Franzese Francesco e Nuccio Antonino,
ma le testimonianze di costoro sarebbero contraddette da elementi fattuali e,
soprattutto, sarebbero assolutamente disancorate tra di loro.
Il Franzese, una volta diventato reggente della “famiglia” di Partanna
Mondello, aveva avuto da Lo Piccolo Sandro l'elenco degli operatori
economici che già pagavano stabilmente il pizzo al Davì, nonché l'elenco
degli associati che ricevevano un sussidio dall'organizzazione mafiosa,
ossia la c.d. “mesata”, ma tra questi non era dato rinvenire il nome del De
Luca Antonino. Lo stesso, a differenza di tutti i precedenti collaboratori,
aveva reso delle dichiarazioni a carico del De Luca, ma da una attenta
analisi di esse, si potrebbe agevolmente verificare come egli nutrisse motivi
di rancore nei confronti di quest’ultimo, che lo avrebbero indotto a rendere
affermazioni mendaci sul suo conto.
Il Franzese aveva precisato che si era avvalso soprattutto della
collaborazione di Nino Nuccio, uomo di cui si fidava ciecamente, tanto è
vero che questi era l'unico soggetto che curava la sua latitanza, quando egli
si era reso irreperibile a seguito della sentenza denominata mare nostrum,
con la quale era stato condannato all'ergastolo
Il Franzese avrebbe curato in perfetta autonomia ogni forma di estorsione e
di danneggiamento, e delegava il Nuccio per recuperare la manovalanza,
244 dandogli precise istruzioni. E sul conto del De Luca non avrebbe indicato
alcuna azione delinquenziale, fatta eccezione di quella per cui lo stesso
venne tratto in arresto, e la cui notizia venne pubblicata in tutti i quotidiani
locali.
Assume, quindi, che il Tribunale avrebbe errato nella parte in cui aveva
ritenuto che la contiguità del De Luca agli ambienti mafiosi di Partanna
Mondello
emergerebbe
dalle
attività
investigative
seguite
al
danneggiamento mediante incendio di due autovetture, avvenuto il 22 aprile
2004.
In ordine a tale fatto, infatti, potrebbero essere formite diverse chiavi di
lettura rispetto a quella effettuata dal Tribunale e di pari valore probatorio:
l’auto sarebbe stata danneggiata per intimidire esso appellante al fine di
sottoporlo al pagamento del pizzo, in quanto gestore di un vivaio e perciò di
un’attività commerciale; l’auto era parcheggiata vicina a quella del cognato
di Collesano Rosario, diretto antagonista del Franzese, per cui l'attentato
incendiario sarebbe stato diretto esclusivamente all'auto del Mancuso e per
mera coincidenza l’incendio aveva interessato anche l'auto del De Luca; il
Franzese aveva danneggiato l'auto del De Luca in quanto creditore di una
cospicua somma di denaro a fronte di lavori di ristrutturazione effettuati
nell'appartamento del De Luca, sicché l'incendio costituiva un ultimo
avvertimento al fine di indurre quest’ultimo a corrispondere la somma
dovuta.
Il Tribunale, poi, non avrebbe valutato che all'inserimento organico del De
Luca nell'organizzazione criminosa si opponeva logicamente una duplice
circostanza, costituita dal fatto che il De Luca era rimasto vittima della
condotta di danneggiamento posta in essere dalla stessa associazione
mafiosa di cui faceva parte, e che lo stesso, a sua volta, compiva un'azione
totalmente contrastante con la mentalità mafiosa, consistente nello sporgere
denunzia dinanzi agli organi di polizia giudiziaria competenti. Inoltre,
subito dopo l’incendio, il De Luca non avrebbe effettuato alcuna telefonata,
né in entrata né in uscita.
245 Dalle intercettazioni captate si poteva ritenere sufficientemente provato il
rapporto di stretta amicizia intercorso tra il medesimo De Luca ed il
Collesano Vincenzo, ma null’altro.
Inoltre, non sarebbero sussistiti elementi dai quali desumere che il vivaio
nella disponibilità dell'appellante fosse stato adibito a luogo di incontri tra
gli esponenti dell'associazione mafiosa.
L’unico elemento in proposito, infatti, proverrebbe dal Franzese, il quale,
come si è detto, avrebbe avuto motivi di rancore nei confronti del De Luca,
il quale non gli aveva pagato l’importo dei lavori di muratura eseguiti sulla
sua abitazione.
Rileva, quindi, l'appellante che l’imputazione a suo carico consiste
esclusivamente nella sua partecipazione all'associazione mafiosa “cosa
nostra” attinente al quartiere di Partanna Mondello, e che egli non risponde
di alcun reato fine e ancor meno di reati in materia di stupefacenti. L’unica
estorsione che viene riferita come elemento di riscontro alle propalazioni
dei collaboranti è quella da lui commessa in Via Marinai Alliata, fatto di
cronaca notorio per la pubblicità che ebbe su tutte le testate giornalistiche
siciliane.
Il Franzese, per converso, sfuggirebbe alle domande e parlerebbe di fatti
assolutamente inconcludenti rispetto al thema probandum.
Dal suo esame sarebbe dato evincere una totale contraddizione: prima
aveva affermato che dall'inizio del 2005, subito dopo la sua scarcerazione,
non aveva più frequentato il vivaio del De Luca; successivamente, per
aggravare la posizione del De Luca, aveva affermato di avere assistito ad
una riunione del 2005, ma a domanda della difesa in merito agli argomenti
trattati nel corso della discussione, aveva risposto di non ricordarsene.
Il Tribunale, inoltre, non avrebbe tenuto conto del provvedimento del
Tribunale della libertà, che aveva ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese
dai collaboratori, annullando l'ordinanza custodiale, mentre la produzione
documentale della difesa in riferimento al processo “mare nostrum”,
celebrato a Messina avrebbe cristallizzato la data in cui il Franzese si era
246 reso latitante, allontanandosi dalla borgata di Partanna Mondello. Tale
produzione proverebbe l'assoluta inattendibilità del Franzese, e ne
conseguirebbe la mancanza di riscontro alle dichiarazioni dello stesso, che
entrerebbero in piena collisione con la tesi accusatoria, che vede il De Luca
come vicino al Collesano Vincenzo e al Di Blasi Framcesco, frazione
contrapposta a quella del Davì e del Collesano Rosario, mentre dalla
intercettazione prima evidenziata si evincerebbe come lo stesso Davì
avrebbe individuato De Luca come “il fioraio”, in maniera distaccata e
dispregiativa, mentre stando alle parole del Franzese lo stesso sarebbe
dovuto essere un adepto del Davì.
Secondo l'appellante, quando il Franzese uscì dal carcere nel gennaio 2005,
chiese subito al De Luca di pagare il debito residuo relativo agli anzidetti
lavori di muratura, ma l'imputato prese tempo, ed il collaborante parlò
allora della questione con il Collesano Vincenzo, in quanto l'imputato non
si recava più al vivaio, luogo in cui veniva svolta l'illecita attività di vendita
degli stupefacenti. Orbene, l’assunto del Franzese è tale da collidere
logicamente con l'impianto accusatorio a carico del De Luca. Sarebbe,
infatti, contrario ad ogni logica che venissero effettuate delle riunioni
mafiose nello stesso luogo ove il titolare svolgeva attività illecita di spaccio
di stupefacenti.
In definitiva, l’unico elemento fornito dal Franzese a carico del De Luca
sarebbe costituito da un fatto notorio riguardante l'estorsione che il De Luca
stesso pose personalmente in essere ai danni di un cantiere edile sito nella
Via Marinai Alliata. Non vi sarebbe alcun elemento indicativo di una reale
fattuale partecipazione del De Luca alla “famiglia” mafiosa di Partanna
Mondello, e nessun riscontro alle pretese riunioni a cui forse partecipò solo
il Franzese, ma che certamente non avvennero all'interno del vivaio del De
Luca e ancor meno in sua presenza.
Contraddittorie sarebbero le dichiarazioni rese dal collaboratore in merito
alla partecipazione del De Luca all'associazione mafiosa, anzi, per meglio
dire, prive di ogni contenuto in riferimento al capo di accusa, in quanto lo
247 stesso collaboratore maldestramente avrebbe tentato solo di accreditare a sè
un’attendibilità sino ad oggi non riconosciuta, Infatti, ha tentato di incolpare
il De Luca di reati estorsivi, mai contestati a quest’ultimo ma non ha mai
riferito in merito alla partecipazione dello stesso De Luca alla “famiglia”
mafiosa di Partanna Mondello. Al contrario, con talune sue affermazioni
avrebbe avallato la tesi difensiva, come nel caso in cui a domanda del
difensore se il De Luca avesse mai percepito somme di denaro dallo stesso
dichiarante o da altro soggetto mafioso, ha riferito di non avergli mai
corrisposto somme di denaro. Il De Luca, infatti, era l'unico soggetto non
inserito nel “pizzino” sequestrato al Franzese, in cui erano appuntate le
mensilità date agli uomini della borgata appartenente alla “famiglia” che,
per l’appunto, percepivano un reddito mensile per le azioni delinquenziali
poste in essere nell'interesse di “cosa nostra”.
L’altro collaborante, Nuccio Antonino, non parla di una posizione del De
Luca
all'interno
dell'associazione
denominata
“cosa
nostra”,
ma
esclusivamente di una estorsione di cui l’odierno imputato si sarebbe
occupato, senza fornire il nome del costruttore che sarebbe stato vittima del
fatto estorsivo, privando così la difesa di una verifica sull'attendibilità del
collaboratore.
Inoltre, non sarebbe stato presente né all’asserito colloquio intercorso tra
tale Di Maio ed il De Luca, né quando il primo ebbe a consegnare al
secondo la somma di mille euro, costituente il provento dell’estorsione, che
doveva essere consegnata al Davì.
Successivamente, in sede di controesame, aveva modificato la versione dei
fatti, affermando cosa totalmente diversa rispetto al precedente assunto,
sostenendo, in particolare, che per intermediare l’estorsione si sarebbe
rivolto prima al Collesano, e che sarebbe stato quest’ultimo ad indirizzarlo
dal De Luca. Prima, infatti, aveva dichiarato di essersi recato direttamente
dal Di Maio, stante l'assenza da Palermo del Franzese, resosi latitante per
l’approssimarsi della pubblicazione della sentenza “mare nostrum”.
248 Tale ultimo punto, a detta dell’appellante, farebbe comprendere
l’inattendibilità del Nuccio, ed il suo tentativo di addebitare al De Luca un
fatto assolutamente non riscontrato.
Dalla produzione difensiva si potrebbe agevolmente verificare che nella
data riferita dal Nuccio per l’intermediazione estorsiva, il De Luca era già
detenuto (era stato arrestato nell’aprile 2006 a seguito del fermo per la
tentata estorsione) ed il Franzese era in stato di libertà, per cui, se il fatto
narrato dal Nuccio fosse avvenuto quando il De Luca era libero, anche il
Franzese lo sarebbe stato, per cui il Nuccio si sarebbe rivolto a quest’ultimo
e non certamente al Di Maio. La circostanza eccezionale di rivolgersi ad un
affiliato mafioso appartenente ad una diversa “famiglia” presuppone che in
quel momento storico vi sia un vuoto di potere, che poteva coincidere
esclusivamente con la latitanza del Franzese. Pertanto, il Tribunale avrebbe
errato, in quanto il Franzese, sino all’emissione della sentenza mare
nostrum, non si trovava fuori Palermo.
Soggiunge l’appellante che sarebbero ipotizzabili tre soluzioni: la prima era
che il Nuccio abbia parlato di una estorsione mai avvenuta addebitandola
ingiustamente al De Luca; la seconda che l’estorsione sia stata commessa in
un periodo in cui il Franzese era già latitante, e quindi in data successiva al
luglio del 2006, ma, in tal caso, l’accusa sarebbe infondata in quanto il De
Luca risultava detenuto dall’aprile del 2006; la terza che l’estorsione sia
stata commessa in una data in cui il Franzese era a Palermo in attesa della
sentenza “mare nostrum” in data compatibile con lo stato di libertà del De
Luca, ma anche in questo caso la tesi del Nuccio sarebbe risultata non
veritiera, in quanto, essendo il Franzese libero ed ancora responsabile
mafioso del territorio, il Nuccio si sarebbe dovuto rivolgere al proprio
referente e certamente non a Di Maio Salvatore inteso “Africa”,
appartenente alla “famiglia” di Tommaso Natale, e dunque referente di altra
zona, che lo avrebbe inviato dal De Luca.
Avrebbe, pertanto, errato il Tribunale nella parte in cui aveva ritenuto
attendibile il Nuccio, il quale avrebbe intenzionalmente collocato il fatto
249 estorsivo tra il gennaio e il febbraio del 2006, con il chiaro intento di
danneggiare il De Luca, evidentemente sapendo che quest’ultimo era
detenuto dall’aprile del 2006, nonché nella parte in cui aveva ritenuto che le
dichiarazioni
rese
dal
Franzese
e
dal
Nuccio
si
riscontravano
reciprocamente, non essendo, in realtà, concordemente individuato il ruolo
del De Luca e l’effettivo apparto dallo stesso dato all'associazione.
Mancherebbe anche un minimo riscontro alle dichiarazioni del Franzese
nella parte in cui aveva indicato il vivaio di pertinenza del De Luca come
un luogo più volte utilizzato per riunioni mafiose, alle quali egli stesso
aveva dovuto partecipare.
Dall’esame del De Luca era emerso soltanto che lo stesso conosceva
Collesano Vincenzo, che aveva eseguito lavori nella sua nuova casa e che
era solito frequentare il suo esercizio commerciale negli anni 2003/2004.
In ogni caso, la partecipazione del De Luca all’associazione mafiosa,
doveva esserre circoscritta alla disponibilità che lo stesso dava del suo
vivaio agli associati, al fine di consentire che vi avvenissero delle riunioni,
non essendo stata data la prova del coinvolgimento dello stesso in affari
illeciti mafiosi.
Le censure sono prive di fondamento.
E’ opportuno, peraltro, pemettere che, come è stato esattamente osservato
dai Giudici di prime cure, la contiguità del De Luca agli ambienti mafiosi di
Partanna Mondello era emersa chiaramente dalle attività investigative
seguite al danneggiamento seguito da incendio di due autovetture, avvenuto
il 22 aprile 2004; tali indagini consentivano di acquisire ulteriori
informazioni in ordine alla contrapposizione esistente tra il gruppo facente
capo al Davì e quello coagulatosi attorno a Collesano Vincenzo.
In quella data veniva appiccato il fuoco a due autovetture, una “Renault
Clio” ed una “Opel frontiera”; la prima intestata a Lucchese Carmela Ilaria
Rita, titolare del vivaio denominato “La Venere dei fiori” (sito a Palermo,
nel Viale Venere), moglie del De Luca; il proprietario del secondo veicolo
dato alle fiamme era Mancuso Bartolomeo, cognato di Collesano Rosario.
250 I vigili del fuoco intervenuti sul posto accertavano la natura dolosa degli
incendi.
L’evento del 22 aprile formava oggetto della conversazione intercettata nel
deposito di ceramiche di cui era titolare Gottuso Salvatore, presso il quale
era stato installato un sistema permanente di captazione, il successivo 27
aprile, alle ore 8.58. Protagonisti della conversazione erano lo stesso
Gottuso e tale Collesano Rosario, fratello di Collesano Vincenzo, entrambi
bene inseriti negli ambienti mafiosi di Partanna Mondello e profondi
conoscitori delle dinamiche interne al sodalizio criminale
Nella prima parte della conversazione, i due interlocutori si soffermavano
ancora una volta sulla questione della compravendita del fondo Vernaci,
parlando della posizione del Davì, dei suoi rapporti con Di Blasi e della
tensione esistente tra i due gruppi contrapposti.
Dalla medesima conversazione emergeva che il De Luca era un uomo di
fiducia di Collesano Vincenzo, il quale era solito frequentare la sua
rivendita di fiori.
Nel prosieguo, Collesano Rosario introduceva l’argomento relativo all’incendio delle due autovetture, che collegava alla situazione di conflittualità
determinatasi all’interno della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello, e,
anzi, la collocazione del De Luca nello stesso schieramento di Collesano
Vincenzo, facente capo al Di Blasi, veniva ritenuto dai due interlocutori
all’origine dell’incendio appiccato alla sua autovettura, sicché l’episodio
veniva dagli stessi considerato di rilevante gravità, essendo inquadrabile nel
contesto delle gravi tensioni sorte tra i due gruppi in competizione per la
conquista del potere mafioso nella zona di Partanna Mondello.
Il Gottuso, in particolare, ipotizzava una propria spiegazione dell’accaduto,
biasimando un recente comportamento del De Luca.
In particolare, il Gottuso riferiva di avere appreso (dalle sue parole sembra
potersi evincere che la sua fonte fosse il Cinà) che un soggetto non meglio
identificato si era rivolto all’odierno imputato per incontrare Bruno
Giuseppe, schierato invece con il Davì, per questioni di rilievo mafioso.
251 In quella circostanza, l’odierno imputato avrebbe sminuito il ruolo del
Bruno nell’ambito dell’organizzazione mafiosa - indicandolo come “uomo
d’onore” posato - ed aveva indirizzato il suo interlocutore da Collesano
Vincenzo, accreditando dunque quest’ultimo come nuovo referente di “cosa
nostra” nella zona di Partanna Mondello.
Rammentano i primi Giudici che nel gergo mafioso, il termine “posato”
indica la posizione di chi viene allontanato dall’organizzazione criminale,
per avere violato una regola di “cosa nostra”, ovvero perché ritenuto non
più idoneo a ricoprire il ruolo assegnatogli; in tal caso, non perde per ciò
solo la qualità di “uomo d’onore”, ma rimane per un certo periodo – in
alcuni casi anche a vita – in uno stato di quiescienza; a volte, dopo un
periodo di osservazione, può anche essere riammesso a fare parte integrante
dell’associazione criminale.
Le pesanti osservazioni del De Luca sulla persona del Bruno, l’implicita
sconfessione del ruolo del Davì e dei suoi alleati, venivano, pertanto,
individuate come la plausibile causale del gesto intimidatorio compiuto ai
suoi danni.
L’attentato aveva, pertanto, una matrice mafiosa ed appariva riconducibile
all’esigenza del Davì di riaffermare il proprio controllo sul territorio a
discapito della fazione contrapposta, cui appartiene a pieno titolo il De
Luca.
Secondo entrambi gli interlocutori, dunque, l’attentato incendiario si
inquadrava nell’ambito del confronto in atto a Partanna Mondello tra i due
opposti schieramenti, di cui veniva chiarita la rispettiva composizione: da
una parte Collesano Rosario e il Bruno con il Davì, dall’altra Collesano
Vincenzo e il De Luca, nel gruppo facente capo al Di Blasi.
Il fatto che il De Luca fosse un uomo di fiducia di Collesano Vincenzo,
d’altra parte, appariva incontrovertibilmente dimostrato dalle risultanze di
altre intercettazioni.
Lo stretto rapporto esistente tra i due odierni imputati, infatti, emergeva a
chiare lettere anche dalla conversazione del 2 aprile 2004 (ore 18.11),
252 intercorsa tra il Davì e Collesano Rosario all’interno dell’autovettura di
quest’ultimo. Per quanto qui interessa, va rilevato che i due interlocutori,
dopo avere parlato della inesistenza di contatti diretti tra Lo Piccolo
Salvatore e Collesano Vincenzo, facevano espressamente riferimento al
“fioraio di Via Venere”, per indicare il luogo abitualmente frequentato dallo
stesso Collesano Vincenzo.
L’appellante, come si è detto, contesta siffatta ricostruzione ed indica altri
plausibili moventi dell’attentato incendiario.
Osserva, tuttavia, la Corte che, a parte la considerazione che la tesi sopra
riportata è stata espressa da un profondo conoscitore degli ambienti e della
mentalità mafiosa quale è il Gottuso Salvatore, l’odierno procedimento non
ha ad oggetto il più volte menzionato attentato incendiario e, quindi, l’individuazione dei suoi responsabili, bensì l’appartenenza o meno dell’imputato
De Luca Antonino alla consorteria criminosa denominata “cosa nostra”.
E sotto questo profilo ciò che più rileva sono le risultanze emerse dalle
intercettazioni ambientali de quibus, alle quali ben può essere attribuito
valore di prova.
Invero, secondo l’orientamento assolutamente consolidato della S.C., il
contenuto di una intercettazione, anche quando si risolva in una precisa
accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla
cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di aver partecipato,
non è in alcun senso equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se va
anch'esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello
probatorio, non è però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui
all'art 192 comma terzo cod. proc. pen. (Cass. Pen. Sez. 5, 14.10.2003, n.
603; id. Sez. 4, 28.9.2006, n. 35860; Sez. 5, 26 marzo 2010, n. 21878; Sez.
1, 23.9.2010, n. 36218).
L’ipotesi riguarda i c.d. conversanti. In questo caso, infatti, a differenza dei
“collaboranti”, si tratta di persone che non scelgono deliberatamente di
accusare qualcuno all'Autorità Giudiziaria, ma di persone, che, non sapendo
che le loro conversazioni sono intercettate, parlano liberamente di vari
253 argomenti, spesso anche irrilevanti ai fini del processo per il quale è stata
disposta la intercettazione.
Tra le tante questioni discusse capita, quando vengano intercettate
conversazioni di persone appartenenti ad organizzazioni criminali, che i
soggetti intercettati discutano di problemi di lavoro, ovvero di imprese
criminali già realizzate o da porre in essere e dei soggetti che hanno
compiuto reati e con i quali loro siano in contatto. La differenza tra le due
categorie di persone - collaboratori di giustizia e conversanti - appare del
tutto evidente, perché nel caso dei conversanti non vi è alcuna
consapevolezza di accusare qualcuno e l'intento di chi parla non è quello di
accusare, ma essenzialmente quello di scambiare libere opinioni con un
sodale.
È allora evidente che tutte le riserve e tutte le prudenze necessarie per
valutare la genuinità delle dichiarazioni del collaboranti non sussistono
quando si tratta di conversazioni intercettate, perché in siffatte situazioni la
spontaneità e la genuinità sono più semplici da accertare.
Una volta accertato che i conversanti non sanno di essere intercettati, infatti,
i criteri da utilizzare per la valutazione della prova sono quelli ordinari e
non può farsi riferimento ai criteri indicati dall'articolo 192 comma 3^ c.p.p.
Del resto la Suprema Corte ha già chiarito che il contenuto di una
intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di
una terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui
consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di avere partecipato,
non è in alcun modo equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se va
anche esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello
probatorio, non va però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui
all'articolo 192 comma 3° c.p.p.
Nella specie tanto il Gottuso che il Collesano Rosario danno per scontata,
come è agevole rilevare dal contesto del discorso, l’appartenenza del De
Luca all’associazione mafiosa, ed è perciò impensabile, dati anche la
gravità del momento ed il preoccupante quadro che si è venuto a delineare
254 dopo l’attentato incendiario in parola, che le loro dichiarazioni sul punto
possano essere dettate da intenti di rivalsa od inimicizia nei confronti
dell’imputato, o possano essere comunque non veritiere.
Ne consegue che gli elementi ricavabili dalle inercvettazioni anzidette
appaiono, per sé soli, idonei ad integrare un sufficiente costrutto probatorio
a carico del De Luca in ordine al reasto di partecipazione ad associazione di
stampo mafioso contestatogli.
Militano, tuttavia, a carico del prevenuto le dichiarazioni dei collaboranti, in
specie di Franzese Francesco e Nuccio Antonino, nonché un inoppugnabile
elemento di riscontro di carattere puramente estrinseco, costituito dalla
sentenza di condanna per l’estorsione della Via Marinai Alliata, dallo stesso
ammessa, che attesta a chiare lettere la capacità dell’imputato di compiere
gravi reati di tipologia e marca puramente mafiose.
Quanto alle dichiarazioni del Franzese, si rileva che, come hanno osservato
i primi Giudici, il collaboratore ha riconosciuto l’effigie fotografica del De
Luca, dichiarando di conoscerlo da molti anni in quanto si tratta di un
soggetto di Partanna Mondello, e di avere eseguito per lui anche lavori di
muratura, aggiungendo che mentre egli era detenuto, tra la fine del 2003 e
l’inizio del 2005, il De Luca si era avvicinato al Davì, occupandosi di
danneggiamenti, di estorsioni e di traffico di droga per conto
dell’associazione mafiosa e prendendo ordini dallo stesso Davì.
Quando il Franzese uscì dal carcere, aveva chiesto al De Luca di pagare il
debito residuo relativo ai predetti lavori di muratura, che ammontava a poco
meno di 20.000 euro, ma avendo l’imputato preso tempo, aveva parlato
della questione con Collesano Vincenzo, che sapeva essere molto amico del
De Luca; in quella circostanza, il Collesano gli aveva raccontato che egli si
era allontanato dal Davì e, di conseguenza, anche dal De Luca, essendo più
vicino a Ciccio Di Blasi, che con il Davì non andava d’accordo.
In sostanza, il Di Blasi e il Collesano non avrebbero condiviso i metodi
arroganti e violenti utilizzati dal Davì e dal De Luca ai danni dei
commercianti nella commissione delle estorsioni; il De Luca, in particolare,
255 era uno dei componenti di una “squadra” agli ordini del Davì, di cui
facevano parte anche il fratello di Michele Catalano e Sandro Dieli; ed era
stato il Collesano a dirgli che costoro avevano danneggiato l’autovettura di
Andrea Marino al rione Marinella e quella di Bartolo Mancuso, parente del
fratello dello stesso Collesano; inoltre, avevano compiuto pesanti atti
intimidatori, apponendo delle croci sui siti di cantieri edili; il collaborante
aveva ricevuto informazioni dello stesso tenore anche da Michele Catalano
e da Giovanni Botta, che aveva pure subito il danneggiamento del suo
autoveicolo.
Un’altra ragione di attrito tra il Davì e il Di Blasi era costituita dal fatto che
il primo, non appena uscito dal carcere, pretendeva di assumere un ruolo
sovraordinato rispetto al secondo, ma ciò non gli era stato concesso fino
all’arresto dello stesso Di Blasi, per quanto godesse di un potere rilevante,
forte anche del suo rapporto personale con Salvatore Lo Piccolo, di cui era
compare.
Inoltre, il Davì intendeva gestire in prima persona lo spaccio di droga allo
ZEN, sempre con la collaborazione del De Luca (definito dal collaborante
un esperto di sostanze stupefacenti), ma avrebbe incontrato l’opposizione di
Michele Catalano, referente mafioso della zona; il Catalano godeva
dell’appoggio di Sandro Lo Piccolo, il quale riteneva che il traffico di droga
dovesse essere gestito da soggetti di quella stessa zona; la questione fu
oggetto di una riunione, avvenuta allo ZEN nel 2005, cui parteciparono il
Franzese, il Davì, il Catalano e Salvo Genova; l’esito fu conforme ai
desiderata di Sandro Lo Piccolo, in quanto si stabilì che il Catalano fosse
coinvolto nel traffico illecito.
Il contrasto tra il Di Blasi e il Davì non durò comunque a lungo, perché il
Di Blasi venne poi arrestato e il Davì assunse i pieni poteri.
In precedenza, prima che si costituisse nel 2003, il Franzese aveva già
chiesto al Collesano di intervenire presso il De Luca perché saldasse il suo
debito e di fare eventualmente pervenire il denaro ai suoi familiari.
256 Nell’anno 2005, dopo che il Franzese era stato rimesso in libertà, andò a
trovarlo tale Fabio Cucina, del quartiere Sperone, chiedendogli se
conoscesse il De Luca, che gli doveva ancora pagare una somma residua
per una fornitura di droga; il dichiarante rispose che non poteva intervenire
nella questione, in quanto anch’egli era creditore del De Luca per i lavori in
muratura eseguiti a casa sua; una vicenda sostanzialmente identica si
verificò con Salvino Sorrentino, un mafioso della “famiglia” del Villaggio
Santa Rosalia.
Quando uscì dal carcere, il Franzese preferì non frequentare il negozio del
De Luca, avendo notato che vi era un notevole andirivieni di spacciatori e
temendo quindi che fosse oggetto di indagini delle forze dell’ordine; in
epoca antecedente alla sua detenzione, aveva avuto modo di partecipare a
tre o quattro riunioni mafiose avvenute nello stesso negozio, cui avevano
partecipato il Di Blasi, Vincenzo Collesano e Tonino Lo Brano, referente
dello ZEN prima di Michele Catalano; nel 2005, ebbe modo di vedere
anche il Davì nell’esercizio commerciale del De Luca, come pure il
Mancuso.
Il Franzese aveva poi riferito dell’estorsione posta in essere personalmente
dal De Luca, tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, ai danni di un cantiere
edile sito nella via Marinai Alliata, che il De Luca non aveva un ruolo
direttivo
nella
“famiglia”
di
Partanna,
essendo
utilizzato
come
manovalanza, in quanto veniva talvolta mandato a compiere atti di
danneggiamento.
Nuccio Antonino ha dichiarato di avere personalmente conosciuto anche De
Luca Antonino, che in una prima fase fu vicino a Collesano Vincenzo, e in
seguito transitò nell’orbita di Salvatore Davì.
Il De Luca, un fioraio che il collaborante aveva avuto modo di vedere due o
tre volte, richiedeva il pagamento del “pizzo” in tutti i cantieri presenti nella
zona di Partanna Mondello.
Il Nuccio riferiva, in particolare, che tale Geraci Giuseppe si era rivolto a
lui, dicendogli che un suo amico, il quale stava eseguendo piccoli lavori di
257 ristrutturazione edilizia a Valdesi, per un importo di 15.000 euro, aveva
ricevuto una richiesta estorsiva di 1.500 euro. E poiché in quel periodo,
collocato tra il gennaio e il febbraio del 2006, il Franzese si trovava fuori
Palermo, in attesa della sentenza che avrebbe definito il processo cd. “mare
nostrum”, il Nuccio si era rivolto a Di Maio Salvatore detto “Africa”,
appartenente alla “famiglia” di Tommaso Natale.
Il Di Maio aveva rilevato che quella zona era di competenza di Davì
Salvatore, soggetto scorbutico e autoritario, con il quale non era facile avere
a che fare.
Si era allora rivolto al fratello Rosolino, chiedendogli di recarsi dal De Luca
presso il suo negozio denominato “la Venere dei Fiori”, sito nella via
Venere, e di condurlo da lui.
All’incontro era presente il Nuccio; Di Maio Salvatore chiamò in disparte il
De Luca, il quale gli confermò che aveva avanzato una richiesta estorsiva in
relazione a quel cantiere edile; il Di Maio gli promise che gli avrebbe fatto
avere 1.000 euro; il Nuccio diede tale indicazione al Geraci, il quale fece
poi avere la somma pattuita allo stesso Nuccio il quale, a sua volta, la
consegnò a Di Maio Salvatore, e quest’ultimo versò il compendio
dell’estorsione al De Luca, anche se il terminale dell’operazione fu
Salvatore Davì, in quel momento reggente della “famiglia” di Partanna
Mondello.
In sede di controesame, il Nuccio aveva precisato che in relazione a tale
vicenda, prima di rivolgersi al De Luca, unitamente a Di Maio Rosolino
egli aveva cercato Collesano Vincenzo, per chiedergli se sapesse qualcosa
circa la richiesta estorsiva in questione; ciò in quanto era a loro ben noto
che anche il Collesano, oltre al Davì e al De Luca, chiedeva il pizzo nella
zona di Partanna Mondello.
I due avevano avuto un incontro con il Collesano in un’officina sita nei
pressi dell’ufficio postale di Partanna Mondello; in quella occasione, il
Collesano aveva loro suggerito di rivolgersi al De Luca, che conosceva
bene la situazione ed aveva un contatto diretto con Salvatore Davì; era stato
258 infatti personalmente il De Luca, ha ribadito il collaborante, a recarsi in
quel cantiere e ad ingiungere l’interruzione dei lavori.
Il De Luca, ha soggiunto il collaborante, si occupava anche del traffico di
cocaina e di hashish; in particolare, il Nuccio ha ricordato che il De Luca
aveva fornito una partita di marijuana a Michele Catalano, indicato come il
reggente della “famiglia” mafiosa dello Zen tra il 2005 e il 2007.
In sede di confronto, disposto dal Tribunale dopo che il De Luca ha
dichiarato di non avere mai visto il Nuccio, quest’ultimo ha confermato le
sue dichiarazioni accusatorie, aggiungendo che nel 2005 il De Luca, in
compagnia di Francesco Bonanni, venne a trovarlo a Cardillo, mentre si
trovava nel locale di un barbiere.
Il Bonanni, che lavorava con il De Luca sia nel commercio di fiori, sia nel
traffico di sostanze stupefacenti, gli aveva chiesto se avesse disponibilità di
cocaina; il Nuccio rispose negativamente, in quanto sapeva che il De Luca
era considerato inaffidabile nei pagamenti; quindi scese anche il De Luca e
i tre si diressero verso un vicino bar, ove il Nuccio offrì il caffè a tutti,
ribadendo di non disporre in quel momento di cocaina.
Il Nuccio aveva inoltre ricordato che – per come riferitogli dal Franzese –
quest’ultimo aveva avvisato il De Luca che era stata installata una
telecamera in un edificio sito nei pressi del suo negozio di fiori, invitandolo
a fare attenzione.
Spataro Maurizio, infine, aveva riconosciuto in effigie fotografica Antonino
De Luca, al quale aveva venduto più volte autovetture nel periodo in cui era
titolare di un autosalone sito a Pallavicino.
Un giorno lo Spataro aveva accompagnato Bonanno Giovanni presso il
vivaio del De Luca per acquistare delle piante; sopraggiunse il cugino
Bonanno Francesco, con il quale Giovanni ebbe un colloquio in un vicino
bar; dopo avere parlato con il cugino, il Bonanno disse allo Spataro che il
De Luca e lo stesso Francesco Bonanno gestivano insieme un traffico di
cocaina, sicché non era opportuno frequentare quel vivaio che poteva essere
oggetto di attenzione da parte delle forze dell’ordine.
259 L’imputato De Luca, poi, aveva dichiarato di conoscere Collesano
Vincenzo, che aveva eseguito lavori nella sua nuova casa ed era solito
frequentare il suo esercizio commerciale, negli anni 2003/2004.
Aveva aggiunto che la sua casa era stata costruita dal Franzese, con il quale
egli aveva, a suo dire, un rapporto di amicizia; di avergli versato come
corrispettivo dei lavori di costruzione 77.000 euro, rimanendo debitore per
altri 20.000 euro; e che il Franzese non aveva esercitato mai particolari
pressioni per ottenere il pagamento del debito residuo.
Aveva pure ricordato di essere stato vittima di un incendio, per il quale
sporse denuncia ai Carabinieri; ed al riguardo aveva dichiarato di non essere
in grado di indicare le un movente plausibile.
Aveva sostenuto di non avere mai commesso reati né con il Franzese, né
con il Nuccio, ed aveva negato, infine, di avere commesso altre estorsioni
ove si eccettui quella relativa allo stabile di Via Marinai Alliata, per il quale
aveva riportato una sentenza di condanna all’esito del giudizio di primo
grado.
Come hanno correttamente sostenuto i primi Giudici, le dichiarazioni dei
principali collaboratori di giustizia completavano il quadro probatorio
coagulatosi attorno alla figura del De Luca in ordine alla sua ritenuta
partecipazione all’associazione mafiosa.
Tanto il Franzese, quanto il Nuccio, come si è visto, avevano descritto,
riscontrandosi reciprocamente, il ruolo svolto dall’odierno imputato
nell’am- bito delle attività criminose della “famiglia” di Partanna Mondello,
indicandolo come un soggetto dapprima molto vicino a Vincenzo Collesano
e quindi (in una fase evidentemente successiva a quella documentata dalle
intercettazioni), transitato nell’orbita di Salvatore Davì.
Il Franzese, inoltre, ha indicato il vivaio di pertinenza del De Luca come un
luogo più volte utilizzato per riunioni mafiose, alle quali egli stesso aveva
avuto modo di partecipare.
260 Entrambi i collaboranti avevano affermato che il De Luca era attivo nel
settore delle estorsioni, dei danneggiamenti e del traffico di droga per conto
dell’associazione mafiosa.
L’appellante ha cercato, come si è visto, reiterando in sede di gravame
l’eccezione formulata in primo grado, di sostenere la tesi dell’inattendibilità
del Nuccio, sostenendo che, poiché il collaborante aveva precisato che in
quell’occasione aveva dovuto rivolgersi al Di Maio, in quanto il Franzese
attendeva il verdetto del processo cd. mare nostrum e per tale ragione era
fuori Palermo, il fatto che la relativa sentenza fosse stata emessa in data
26.7.2006 avrebbe portato logicamente a collocare l’episodio in un periodo
successivo alla data indicata, posto che fino a quel momento il Franzese era
libero, come da lui stesso dichiarato; ciò, tuttavia, sarebbe stato logicamente
incompatibile con la circostanza che il De Luca era stato tratto in arresto
nell’aprile del 2006.
La tesi giustamente non ha trovato accoglimento in prime cure, e non merita
sorte migliore nell’odierno grado del giudizio. Sarà sufficiente, infatti,
rilevare – come hanno già fatto i primi Giudici – che il Nuccio aveva
collocato l’episodio estorsivo tra il gennaio e il febbraio del 2006, cioè in
un periodo nel quale il De Luca era ancora libero ed il Franzese, in attesa
della sentenza del processo mare nostrum, si era preventivamente trasferito
fuori Palermo.
Né può assumere particolare valore la “stranezza” segnalata dall’appellante,
che l’imputato, pur essendo un affiliato a “cosa nostra”, fosse rimasto
vittima di un danneggiamento posto in essere dalla stessa associazione
criminosa di cui faceva parte, ovvero che, pur essendo tale comportamento
radicalmente incompatibile con lo “status” di mafioso, avesse denunciato
l’attentato alla p.g.
Quanto alla prima circostanza si rileva, infatti, che, come insegnano
esperienze anche recenti, nelle “guerre” di mafia, e, in genere laddove
sussistano contrasti interni all’organizzazione criminosa, non è infrequente
il ricorso anche alla eliminazione fisica degli avversari, sicché, tenuto conto
261 delle congiunture in cui era maturata l’azione di rappresaglia, non può
apparire strano o del tutto inatteso il verificarsi di un attentato nei confronti
dell’automobile della vittima. Quanto alla denuncia, è intuitivo osservare
che, essendo stato l’attentato incendiario un fatto eclatante, come tale
percepito da tutti, l’imputato non avrebbe potuto fare a meno, anche se ciò
fosse stato contrario si suoi “principi”, di presentare denuncia all’autorità di
p., formalità peraltro indispensabile, nel caso in esame, per la riscossione di
eventuali indennizzi assicurativi.
Il De Luca, dal canto suo, ha ammesso la propria responsabilità in ordine
all’estorsione commessa ai danni di un’impresa avente il cantiere nella Via
Marinai Alliata, reato per il quale ha già riportato una condanna all’esito del
giudizio di primo grado (si tratta dell’episodio riferito dal Franzese).
Ritiene la Corte che le propalazioni dei collaboranti di cui si è detto, siano
attendibili, ancorché in qualche caso difettino di riscontri estrinseci.
Ad esempio, l’episodio rievocato dal Nuccio con riguardo all’estorsione
commessa dal De Luca ai danni del titolare di un cantiere edile sito a
Valdesi per conto del Davì, destinatario finale del provento estorsivo pagato
mediante l’interposizione del Di Maio, come hanno correttamente osservato
i primi Giudici, appare del tutto verosimile, ancorché non assistito da
riscontri specifici, in quanto la narrazione è apparsa lineare e circostanziata,
inscrivendosi in modo coerente nel quadro della personalità criminale
dell’odierno imputato tracciato dalle altre risultanze processuali.
Né va sottaciuta la concordanza – pure segnalata dai primi Giudici - delle
fonti accusatorie laddove fanno menzione dell’attività di spaccio di
stupefacenti posta in essere dal De Luca, fatto assai importante sotto il
profilo probatorio ai fini della dimostrazione dell’inserimento nella
consorteria criminosa e, quindi, della configurabilità del reato di cuu all’art.
416 bis, dal momento che il traffico di sostanze stupefacenti è un’attività
traduzionalmente connessa agli interessi criminali di “cosa nostra”. Funge
da riscontro, in proposito, la circostanza che sia il Nuccio, sia lo Spataro,
narrando episodi diversi, hanno collegato la figura del De Luca a quella di
262 Bonanno Francesco, cugino del più noto Giovanni, proprio in relazione alla
detenzione e al traffico di cocaina.
Non può, dunque, che condividersi il giudizio espresso nella sentenza
impugnata, secondo cui
le condotte accertate a carico del De Luca
concretano uno stabile e consapevole contributo apportato agli interessi del
sodalizio mafioso e al rafforzamento delle sue potenzialità offensive,
denotando l’inserimento a pieno titolo dell’imputato nell’organizzazione
criminale, e pertanto, integrano il delitto di partecipazione ad associazione
mafiosa, aggravato dalla disponibilità di armi e dal riciclaggio dei proventi
delittuosi (commi 4° e 6° dell’art. 416 c.p.).
In subordine l'appellante chiede che il fatto venga riqualificato nella diversa
figura delittuosa del favoreggiamento aggravato, in quanto l’attività posta in
essere dal De Luca sarebbe stata svolta esclusivamente in favore del
Collesano Vincenzo e non già della intera organizzazione, a cui egli sarebbe
rimasto estraneo.
La censura è priva di fondamento.
Secondo il consolidato orientamento della S.C., infatti, in tema di rapporti
tra partecipazione ad associazione per delinquere e favoreggiamento
personale, premesso che non può escludersi, in linea di principio, la
possibilità di concorso fra le due fattispecie criminose, deve ritenersi che le
stesse si differenzino tra loro in quanto nella partecipazione ad associazione
per delinquere il soggetto opera organicamente e sistematicamente con gli
associati, come elemento strutturale del sodalizio criminoso, anche al fine
di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l'attività dello stesso o a
perseguire coloro che vi partecipano, mentre nel favoreggiamento il
soggetto aiuta in maniera episodica un associato, resosi responsabile di un
reato (rientrante o meno che questo sia nel programma criminoso dell'
associazione ), ad eludere le investigazioni della polizia o a sottrarsi alle
ricerche di questa (Cass. Pen. Sez. VI, 15 novembre 2004, n. 112).
E come è agevole rilevare dalla esposizione che precede, l’attività del De
Luca appariva finalizzata al perseguimento degli obiettivi propri dell’asso263 ciazione criminosa (estorsioni, spaccio di stupefacenti, etc.), e non già a
favorire, in relazione a singoli episodi, nel modo sopracitato il solo
Collesano, sicché correttamente è stato contestato allo stesso il delitto di
associazione pr delinquere di stampo mafioso e
non quello di
favoreggiamento personale.
In ulteriore subordine l’appellante ha chiesto che venga esclusa l'aggravante
dell'associazione armata di cui all'art. 416 bis comma quarto cod. pen.,
posto che, ancorché per il riconoscimento della circostanza aggravante della
disponibilità delle armi non sia richiesta l'esatta individuazione delle armi
stesse, ma è sufficiente l'accertamento in fatto della disponibilità di un
armamento, tale disponibilità deve essere in concreto individuata, non
essendo sufficiente ritenerla astrattamente sufficiente, in quanto detta
aggravante è riferita all'associazione criminale denominata “cosa mostra”,
che abitualmente detiene delle armi, ma necessita di volta in volta che detto
munizionamento venga rinvenuto.
Vero è che la norma richiede la semplice disponibilità di armi da parte
dell'associazione e non l'effettiva utilizzazione delle stesse, ma la locuzione
“disponibilità di armi” presuppone inevitabilmente la prova non dell'uso.
Infatti la detenzione non coincide con i fatti di illegale detenzione e porto di
armi, non solo perché la disponibilità non corrisponde necessariamente
all'attuale l'effettiva detenzione o porto, ma perché essa può riguardare
anche armi legalmente detenute, sicché l'armamento viene in rilievo come
semplice ed oggettiva situazione di fatto ma deve sempre implicare una
effettiva materiale disponibilità. E nella specie va evidenziato che nessun
fatto di sangue è stato commesso e nessuna azione violenta è stata posta in
essere,per cui sarebbe logico affermare che l’uso di armi potrebbe essere
ritenuto implicito se fosse stato commesso un delitto che necessita dell'uso
delle armi, quale ad esempio un conflitto a fuoco, mentrer l’associazione
cui si fa riferimento in sentenza realizzava i suoi peculiari obiettivi tramite
intimidazioni minacciose, ma semza fare uso di armi.
264 Anche l’anzidetta censura è priva di fondamento, dovendosi porre a base
della relativa statuizione, per evitare inutili ripetizioni, gli stessi motivi per i
quali
è stato respinto l’identito motivo di gravame formulato in via
subordinata da Collesano Vincenzo.
In ulteriore subordine viene dedotta l'insussistenza dell'aggravante di
quell'articolo 416 bis comma sesto cod. pen., sul rilievo che perché essa
possa considerarsi ricorrente, è necessaria l’esistenza, non già di singole
operazioni commerciali o dell’attività di gestione di singoli esercizi, bensì
l’intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di
insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o seevizi.
Anche l’anzidetta censura è infondata.(Cass. Pen. Sez. I, 16 luglio 1993,
Acciarino).
La S.C., ancorché in materia di confiscabilità deu beni, invero, si è espressa
nel senso che l’attività di amministratore, svolta da soggetto indagato del
delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso,
non è sufficiente di per sè a far ritenere che i beni oggetto
dell'amministrazione siano stati provento di delitti ovvero finanziati con
provento di delitti, ben potendo l’attività delittuosa attribuita all'indagato
essere separata da quella lecitamente svolta. Ai fini della confiscabilità dei
beni in questione occorre che sia positivamente dimostrata una qualsivoglia
correlazione (come, ad esempio, la contitolarità delle quote societarie, la
comproprietà dei beni, l'assunzione da parte di terzi delle indicate qualità
per conto dell'indagato) tra i beni medesimi e l’attività illecita attribuita
all'indagato del diritto di cui all'art. 416 bis c.p.
Analogamente si può ritenere che il possesso di determinati beni o attività,
quando non risulti positivamente provato, da parte dell’imputato di
associazione mafiosa, che l’acquisto di essi è del tutto estraneo all’attività
criminosa in parola, e non risulti aliunde il possesso di redditività di
carattere lecito che possa giustificare la disponibilità di detti beni, sia
costituito dal reimpiego del denaro o delle
dall’esercizio dell’attività illecita.
265 altre utilità
derivanti
E nella specie, non risultando che il De Luca sia in possesso di beni di
derivazione lecita che gli consentano di esercitare l’attività di fioraio – che
egli effettivamente esercita – è da ritenere che egli abbia investito i proventi
derivantigli dalla attività illecita posta in essere nell’ambito della “famiglia”
mafiosa di appartenenza, nella suddetta attività, e che, pertanto, ricorra nella
specie l’attenuante di cui all’art. 416 bis comma 6° c.p. contestatagli.
L’appellante chiede, infine, allegando la marginalità della sua condotta, la
concessione delle attenuanti generiche, da ritenere equivalenti alle
contestate aggravanti, e la corrispondente mitigazione del trattamento
sanzionatorio.
Anche quest’ultima censura deve esse disattesa.
Invero, benché il De Luca non sia sicuramente una figura di primissimo
piano del milieu delinquenziale mafioso, tuttavia lo stesso ha mostrato una
cospicua
capacità
criminale,
in
dipendenza
della
sua
accertata
“disponibilità” al compimento di attività illecite di indiscussa gravità, quali
le estorsioni ed il traffico di droga, che non lo rende sicuramente meritevole
del chiesto beneficio.
Le medesime considerazioni inducono a ritenere equa ed adeguata ex art.
133 c.p. alla gravità del reato ed alla personalità dell’autore, la pena
inflittagli dai primi Giudici.
In conclusione, il gravame proposto dal De Luca deve essere respinto e, per
l’effetto, nei suoi confronti va confermata la sentenza impugnata.
266 STATUIZIONI FINALI
Avuto riguardo alla riduzione delle pene principali in favore degli imputati
Curulli Vincenzo, Iaquinoto Giorgio e Cusimano Antonio, va sostituita alla
pena accessoria dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici agli stessi
applicata con la sentenza impugnata, quella dell’intrerdizione temporanea
dai pubblici uffici per la durata di anni cinque, e va altresì eliminata, nei
confronti dei medesimi imputati, la pena accessoria della interdizione legale
durante l'espiazione della pena.
La sentenza impugnata va confermata nel resto, ed i soli imputati Collesano
Vincenzo e De Luca Antonino, nei cui confronti la sentenza impugnata è
stata integralmente confermata, debbono essere condannati al pagamento
delle spese processuali del giudizio di appello.
Tutti gli imputati debbono essere condannati, infine al pagamento delle
spese di costituzione e difesa sostenute nell’odierno grado dalle parti civili
rispettivamente costituitesi nei loro confronti, che si liquidano in loro favore
nel modo seguente:
Conigliaro, Curulli e De Luca al pagamento, in solido, in favore della
"Associazione ONLUS - Comitato "Addio Pizzo" di complessivi
euro
2.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge;
Conigliaro, Cusimano, Curulli e Iaquinoto, al pagamento in solido, in
favore del Comune di Carini, di complessivi euro 1.800,00, oltre I.V.A. e
C.P.A. come per legge;
Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido,
al pagamento in favore della Provincia Regionale di Palermo, di
complessivi euro 3.000,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge;
267 Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido,
al pagamento in favore della F.A.I., Federazione delle Associazioni
Antiracket ed Antiusura Italiane, di euro 2.100,00, oltre I.V.A e C.P.A.
come per legge;
Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido,
al pagamento in favore della Associazione degli Industriali della Provincia
di Palermo - Confindustria di Palermo, di euro 2.800,00, oltre I.V.A. e
C.P.A. come per legge;
Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido,
al pagamento in favore della S.O.S. Impresa Palermo, di complessivi euro
3.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge;
Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca, in solido,
al pagamento in favore della Federazione Provinciale del Commercio, del
Turismo, dei Servizi, delle Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di
Palermo - Confcommercio Federazione Provinciale di Palermo, di euro
3.200,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Va pure ordinata, ai sensi dell’art. 300 c.p.p., l’immediata scarcerazione
dell’imputato Altadonna Lorenzo, ove lo stesso non risulti detenuto per
altro.
Ritiene, infine, la Corte di dovere fissare, per la stesura della motivazione,
avuto riguardo al numero degli imputati ed alla complessità delle questioni,
il termine di giorni novanta, ai sensi dell’art. 544, comma 3 c.p.p.,
sospendendo, durante la pendenza di detto termine, ai sensi dell’art. 304 1°
comma lett. e) c.p.p., quello di custodia cautelare.
268 P. Q. M.
La Corte, visti gli artt. 605, 592, 530 cpv. c.p.p.; in riforma della sentenza
resa in data 3 luglio 2009 dal Tribunale di Palermo nei confronti di
Conigliaro Angelo, Altadonna Lorenzo, Biondo Francesco, Collesano
Vincenzo, Curulli Vincenzo, Cusimano Antonio, De Luca Antonino,
Iaquinoto Giorgio, ed appellata dai medesimi, assolve: Altadonna Lorenzo e
Biondo Francesco dai reati loro rispettivamente ascritti perché il fatto non
sussiste. Assolve Conigliaro Angelo dal reato a lui ascritto al capo 13) della
rubrica per non avere commesso il fatto, e, per l'effetto, riduce la pena allo
stesso irrogata ad anni quattordici di reclusione.
Riqualificato il fatto ascritto a Cusimano Antonio al capo 10) della rubrica
nel delitto di cui agli artt. 610 c.p. e 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152,
ridetermina la pena allo stesso inflitta in anni quattro di reclusione. Esclusa
l'aggravante di cui all'art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, riduce la pena
irrogata a Curulli Vincenzo e ad Iaquinoto Giorgio per il reato di cui al capo
22) della rubrica, rispettivamente ad anni quattro e mesi sei di reclusione ed
euro 6.000,00 di multa, e ad anni quattro ed euro 5.000,00 di multa.
Sostituisce alla pena dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici
applicata nei confronti di Curulli Vincenzo, Iaquinoto Giorgio e Cusimano
Antonio quella della interdizione temporanea dai pubblici uffici per la
durata di anni cinque.
Elimina nei confronti dei predetti la pena accessoria della interdizione legale
durante l'espiazione della pena. Conferma nel resto l'impugnata sentenza.
Condanna Collesano Vincenzo e De Luca Antonino al pagamento delle
spese processuali del presente grado del giudizio.
Condanna Conigliaro, Curulli e De Luca al pagamento, in solido, in favore
delle parte civile "Associazione ONLUS - Comitato "Addio Pizzo" delle
spese processuali sostenute nell'odierno grado, che liquida
complessivamente in euro 2.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli e Iaquinoto, in solido, al
pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore
della parte civile Comune di Carini, che liquida nella misura complessiva di
euro 1.800,00.
Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca,
in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del
giudizio in favore della parte civile Provincia Regionale di Palermo, che liquida in complessivi euro 3.000,00.
269 Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca,
in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del
giudizio in favore della parte civile F.A.I., Federazione delle Associazioni
Antiracket ed Antiusura Italiane, che liquida in euro 2.100,00, oltre I.V.A e
C.P.A. come per legge.
Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca al
pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del giudizio in favore
della parte civile Associazione degli Industriali della Provincia di Palermo Confindustria di Palermo, che liquida in euro 2.800,00, oltre I.V.A. e C.P.A.
come per legge.
Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca,
in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del
giudizio in favore della parte civile S.O.S. Impresa Palermo, che liquida in
complessivi euro oltre 3.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Condanna Conigliaro, Cusimano, Curulli, Iaquinoto, Collesano e De Luca,
in solido, al pagamento delle spese processuali dell'odierno grado del
giudizio in favore della parte civile Federazione Provinciale del Commercio,
del Turismo, dei Servizi, delle Professioni e delle Piccole e Medie Imprese
di Palermo - Confcommercio Federazione Provinciale di Palermo, che
liquida in euro 3.200,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge. Visto l'art.
300 e.p.p., ordina l'immediata liberazione di Altadonna Lorenzo, se non
detenuto per altra causa.
Visto l'art. 544, comma 3, e 304 1° comma lett. e) e.p.p., indica in giorni
novanta il termine per il deposito della motivazione e sospende durante la
pendenza dello stesso quelli di custodia cautelare.
Palermo, lì 23 dicembre 2010.
Il Consigliere
Il Presidente
270 271