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Ricordo Filomeno Moscati Ricordo Di un paese che non c’è più ( costumi, riti, usanze e giochi di un paese che non c’è più ) Foto disegni e grafica di Giulio Renzulli Edizione fuori commercio 1 Filomeno Moscati © copyright.Tutti i diritti riservati È vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata. 2 Ricordo Introduzione Il libro è intitolato Ricordo, perché basato esclusivamente sui ricordi d‟infanzia dell‟autore, e tratta degli usi e dei costumi degli abitanti di San Michele di Serino nell‟epoca anteriore al terremoto del 23 novembre 1980. Quell‟evento catastrofico ha infatti segnato, con la ricostruzione di un paese completamente distrutto, non solo il cambiamento fisico, strutturale e visivo del paese, ma anche il completo mutamento della vita materiale e dell‟atteggiamento mentale di coloro che lo abitano. Ciò si è tradotto in un cambiamento di costumi e nell‟abbandono, o nella progressiva trasformazione, di usanze spesso secolari col pericolo di far dimenticare, a noi come a quelli che verranno dopo di noi, le nostre radici e la nostra antica civiltà. Lo scopo del libro, perciò, non è soltanto quello di ricordare nostalgicamente costumi e usanze del passato, ma anche di spiegarne, per quanto possibile, origini e significato. Esso, basandosi su ricordi in gran parte personali, ha poche citazioni, e, proprio perché basato su ricordi esclusivamente personali, non è esaustivo , pur contribuendo, io spero, a conservare, nella generazione presente come in quelle future, memoria e rispetto per la vita e le usanze di quelle passate. Il libro è stato curato nella grafica da Giulio Renzulli, che lo ha arricchito anche di schizzi e di fotografie che rendono assai più comprensibili antichi giochi e usanze ormai tramontate. San Michele di Serino, 02-05-2009. Filomeno Moscati 3 Filomeno Moscati 4 Ricordo Presentazione Ìl Petrocchi definisce la tradizione come “ memoria di fatti venuta a noi oralmente, trasmessa di generazione in generazione”1 e il Mestica, a sua volta, dopo avere chiarito che il termine deriva dal verbo latino tradere, (tramandare, trasmettere) la definisce “memoria di fatti e di usanze antiche tramandata oralmente di generazione in generazione”.2e, dello stesso tenore, sono le definizioni del termine contenute in tutti gli altri vocabolari della lingua italiana. La tradizione, perciò, è memoria; memoria non solo di fatti, ma, anche e soprattutto , di usanze, riti, costumi e credenze antichi e, spesso, non più esistenti. L‟importanza di queste memorie è data dal fatto che esse costituiscono la testimonianza del passato di una nazione, o di un popolo, o di una gente, una testimonianza che, attraverso il ricordo di usanze, credenze, feste civili e riti religiosi, permette ai posteri la conoscenza di antiche culture e di antiche civiltà. La trasmissione di queste conoscenze costituisce un fatto di rilevante importanza perché la cultura stessa è importante, sia dal punto di vista individuale che collettivo, per ogni popolo e per ogni stirpe. Nel caso delle tradizioni intendiamo parlare non della cultura aulica e curiale, quella, per intenderci, che si apprende sui libri e nei banchi di scuola (una volta patrimonio soltanto delle classi dominanti ed egemoni) e che potremmo, senza tema di sbagliarci, definire come erudizione, bensì di una cultura popolare, ma non per questo meno nobile, che si apprende non sui libri, fra i banchi di scuola, ma con l‟esistenza stessa nell‟ambito della società in cui si nasce e si vive, a cominciare dalla famiglia. Questo tipo di cultura, a differenza di quella individuale, umanistica ed erudita, non è patrimonio di una sola persona, ma, poiché si apprende con la vita stessa, di tutti gli 1 Petrocchi Policarpo, Piccolo Dizionario Della LinguaItaliana, Antonio Vallardi Editore, Milano 1968, p. 881; 2 Mestica, Dizionario della Lingua italiana, p. 1934; 5 Filomeno Moscati individui che fanno parte della stirpe e della comunità in cui si vive. Essa costituisce, perciò, un patrimonio comune a tutte le persone che vivono in quella società, e, per questa ragione, può essere definita popolare. La cultura popolare, a differenza di quella erudita, derivando dalla vita stessa, non può essere limitata a un solo aspetto della conoscenza o del sapere, ma deve, obbligatoriamente, abbracciare tutti gli aspetti della vita stessa, sia spirituali che materiali, e i suoi libri sono costituiti dagli edifici, dagli attrezzi di lavoro, dai manufatti e perfino dall‟alimentazione esistenti in una determinata epoca ( cultura materiale); dai riti religiosi e civili, dalle usanze, dalla lingua, dai proverbi e anche dai valori morali che regolano la vita e la morte di una stirpe o di una comunità in un‟epoca determinata (cultura spirituale). Il libro, che presentiamo all‟attenzione dei lettori, tratta proprio di queste manifestazioni della cultura popolare di San Michele di Serino (il paese che non c‟è più) nell‟epoca anteriore al terribile sisma del 23 novembre 1980, e, poiché la cultura, anche quella popolare, non è statica e si evolve e muta seguendo i mutamenti e l‟evoluzione materiale e ideale di una comunità, esso, oltre a illustrare origine e significato di antiche usanze, ne evidenzia anche la scomparsa, o le variazioni, che testimoniano il passaggio da una civiltà ad un‟altra , di cui la cultura popolare costituisce il segno tangibile e più appariscente. Le sagre, così diffuse nell‟epoca nostra, sono l‟espressione di una cultura popolare che tenta di far rivivere, attraverso riti e sapori antichi, civiltà e culture estinte o in via di estinzione. Filomeno Moscati 6 Ricordo I Ricordo Ricordo il mio paese com‟era. Ricordo le strade affollate di giovani ridenti e spensierati nelle dolci sere d‟estate, e i vicoli ombrosi e solitari nei meriggi afosi. Ricordo! Ricordo le notti settembrine con l‟aria profumata ed il canto lontano dei contadini che spannocchiavano sull‟aia, e rivedo dalla mia finestra, alta sui tetti circostanti, l‟immensa mole azzurrina del “Montagnone”, stagliantesi nella pallida luminosità lunare. Ricordo i giorni felici della festa del Santo Patrono, con la banda, le luminarie e la gioventù vigorosa, che si cimentava nell‟antico gioco del “pizzicantò”. Ricordo quant‟era dolce il Natale, il gran fuoco sul sagrato 7 Filomeno Moscati nella notte gelida e stellata, la stella cometa tirata con la fune, lo scampanìo festoso della mezzanotte santa, il vocio gioioso degli auguri scambiati con la voce e con il cuore. .......….......... Io ti ricordo, e ti rivedo qual eri o mio paese, ma, quando passo sulla tua nullità, un‟immensa malinconia m‟invade e un grido mi sale dall‟anima: Paese mio, paese mio dove sei ! ?3 Questo breve ricordo, comparso sul numero 12 del giornale Anno Zero nel Novembre 1981, a un anno dal terremoto che aveva completamente distrutto San Michele, l‟antico casale di Serino, rende visibile, oltre lo stato d‟animo della popolazione, la vita e la struttura urbanistica del casale prima del sisma. La struttura urbanistica era quella determinata da un altro terremoto, che, nel 1732, aveva distrutto il paese causando lo stesso numero di morti. Era la struttura tipica di un casale a vocazione prevalentemente 3 Filomeno Moscati, Ricordo, Anno Zero n° 12 del 22 Novembre 1981, p.2. 8 Ricordo agricola, che, ricostruito per economia sui resti delle case dirute, ne aveva conservato l‟impianto seicentesco di vicoli stretti e poco soleggiati, larghi quel tanto che bastava per il passaggio degli asini con i loro basti fatti di tralci di vite intrecciati, detti comunemente “store”, e delle “trainelle” per il trasporto di derrate e di letame. Già, perché il letame si produceva in paese, nelle stalle situate al piano terra delle abitazioni, a fianco dell‟ingresso da cui partiva la scala che conduceva al primo ed unico piano destinato a dormitorio. Dall‟altro lato dell‟ingresso c‟era la cucina, luogo del soggiorno diurno di tutta la famiglia. A queste case si accedeva o dai vicoli o dalle “Curtine”, corti comuni a più abitazioni, spesso abitate da membri di un medesimo ceppo familiare. Erano gli ingressi a queste corti, appartenenti alle famiglie più ricche, o più numerose, a conferire ai vicoli e al paese un certo pregio architettonico, perché quasi sempre dotati di grandi portali settecenteschi, di pregevole fattura artigianale, che portavano incisi sulla pietra centrale della volta la data della costruzione e le iniziali di chi li aveva fatti edificare. Erano tutti identificati col nome di “portone” seguito dal nome della famiglia che vi abitava. I più famosi erano il “portone dei Vitagliano” all‟inizio di Vicolo del Sole, il “portone dei Perrottelli” e quello dei Romei in Via Cruci, (oggi Piazza Medaglia d‟oro Raffaele Perrottelli), il “portone dei De Mattia” in Vicolo Mezzogiorno, il “portone di Pichione” ( Camillo Covelluzzi ) e quello di “Siloviestro” (Silvestro Renzulli ) in Via Palazzo, il “portone dei Renzulli” in Via del campanaro, il “portone dei Cotone” e quello “Mariconda” in Via Roma, quest‟ultimo facente parte di 9 Filomeno Moscati una struttura palaziale che assume un‟importanza particolare e per l‟architettura e per la storia del paese. Dal punto di vista architettonico questo palazzo attirava immediatamente lo sguardo stupefatto di chiunque entrasse in paese, tanta era la differenza di mole, di altezza e di struttura che lo distingueva da tutte le altre costruzioni del paese, con un “portone” immenso, altissime finestre ad arco, un balcone enorme e caratteristico sotto il quale volava, ad ali spiegate, una altrettanto enorme aquila reale, fra pinnacoli, volute, putti e grifoni. Una struttura palaziale in perfetto stile barocco coloniale ispanoamericano del XVIII-XIX secolo, in cui la struttura del palazzo costituiva soltanto il supporto, l‟impalcatura scenica su cui applicare una congerie di figure rampanti, vasi, angioletti, colonne tortili, foglie e corone, in modo tale che il tutto conferisse l‟impressione della ricchezza. Una costruzione in stridente contrasto con la modestia e, spesso, con la povertà delle altre costruzioni del casale, quasi tutte strutturate sullo schema della tipica abitazione contadina delle nostre contrade, costituita da due locali al piano terra e due al primo piano, con al centro ingresso e scala. Malgrado lo stridente contrasto questo palazzo, anche con quel poco che ne resta dopo il terremoto del 1980, assume per San Michele di Serino una rilevanza enorme perché costituisce la memoria visiva di un periodo importante della sua storia, quello della prima emigrazione, che, nella seconda metà del XIX e nel primo ventennio del XX secolo, contrassegnò la diaspora di tanti suoi figli verso le lontane Americhe. Esso fu infatti costruito da Domenicantonio Mariconda, emigrato in un paese dell‟America del Sud, ove l‟aveva acquistato, o ereditato, da un ricco signore che aveva 10 Ricordo amorosamente assistito fino alla sua morte. Divenuto ricco egli ritornò in Italia, e, a dimostrazione del suo successo, volendo ricostruire nel proprio paese il suo palazzo americano, lo fece demolire e, dopo averlo fatto catalogare pezzo per pezzo perché risultasse perfettamente identico a quello originario, lo fece trasportare e riedificare nel suo paese, come mi riferì uno dei suoi eredi e mio carissimo amico, Francesco Mariconda, amichevolmente identificato con l‟affettuoso diminutivo di Cecchillo. Nella struttura di questo antico casale due punti, menzionati nel breve Ricordo comparso su Anno Zero, rivestivano grande importanza dal punto di vista civile e sociale, il sagrato dell‟antica chiesa di S. Michele Arcangelo e l‟aia. Il sagrato assumeva un‟importanza fondamentale sia dal punto di vista religioso che civile. In questa piazza, infatti, si riuniva il popolo per solennizzare le feste religiose come il Natale, col grande fuoco nella notte gelida e stellata; il Capo d‟Anno, con la veglia in attesa dell‟anno nuovo e 11 Filomeno Moscati degli auguri di”bona fine e buon principio. Semp‟a meglio!” Era questo l‟augurio portato a tutte le famiglie dal banditore del paese, che riceveva in cambio un dono in denaro o in derrate alimentari, e da un codazzo di bambini, che, dopo il grido di “ „e cicci „e creature”, ricevevano in dono i chicchi bolliti di grano e di granone (cosiddetti “cicci”), che, conditi con sugo di pomodoro, o semplicemente con olio, costituivano un piatto presente su ogni tavola come augurio di abbondanza e prosperità per l‟anno che iniziava. Questa tradizione è oggi del tutto scomparsa con la morte della Signora Emma Gerardo, avvenuta il 16-04-2004, che, credo, sia stata l‟ultima persona a praticarla offrendo in dono i”cicci” per augurare un anno felice, e soprattutto prospero, a quelli che, come me, erano onorati di essere considerati suoi amici. Sul sagrato iniziava anche la Pasqua con la tradizionale cerimonia dello “scandone”, una grossa asta di pino, adorna di arance e limoni, portata al Santo patrono, quale simbolo di tutto il casale, e appesa sotto la statua di S. Michele campeggiante sul grande portale dell‟antica chiesa, oggi non più esistente, fra canti di devozione che iniziavano con la strofa: „Oi S. Michele „a primo, „oi S. Michele „a primo, simo venuti re bona matina pe te purtà la rosa marina.” Il rito si concludeva con il consueto commiato di: “‟oi S. Michele caro, „oi S. Michele caro, ti lasso „a bona Pasqua e me ne vavo,” 12 Ricordo un commiato augurale rivolto al Santo, ma che coinvolgeva l‟intero paese. Alla “posa” dello “scandone” seguiva l‟augurio di primavera, che, portato a tutte le famiglie nella giornata del sabato santo e nella mattinata di Pasqua, iniziava con il motivo antico di: “bona Pasqua e bona matina. t‟aggio portato la rosamarina”, un rito, un dono e una formula atavici con cui , mediante le foglie acuminate dell‟arbusto fiorito del rosmarino, si volevano esorcizzare malanni e malocchio, in assenza dei quali si acquisiva la certezza di una vita lunga e felice. L‟augurio di benessere e felicità era indirizzato a tutti i membri della famiglia, individuati per nome a cominciare dal suo capo, con un motivo antico che racchiudeva in sé amore, affetto e sacralità, e, appunto per questo, assumeva il colore e il ritmo di una vera e propria mattinata.4 Sul sagrato, durante la festività del Santo Patrono, prima che il simulacro del Santo uscisse dalla chiesa per la processione solenne, si svolgeva anche l‟antico gioco del pizzicantò,5 un gioco antico con cui i giovani scapoli del N.d.A. “Mattinata” veniva detto, anticamente, il cantare e suonare che gli amanti facevano, al mattino, sotto la finestra della donna amata, per augurarle la buona giornata. “Cantare, o dir mattutino” venivano denominate le laudi mattutine al Signore, cantate nelle chiese e nei conventi. In questo senso la intende Dante quando dice: “ne l‟ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l‟ami,” Dante, Paradiso, X, v. 140,141. 5 Aldo Renzulli, VAGGIACUNTàNUFATTO, Edizione fuori commercio 28- 12-2008, p.3. 13 4 Filomeno Moscati paese mettevano in mostra, davanti alle fidanzate, o alle ragazze da essi corteggiate, le loro doti di forza e di abilità, montando l‟uno sull‟altro a formare una piramide, che, quando si spezzava terminava col grido da cui aveva derivato il nome “‟e „Ntò „e „Ntò „e „Ntò, quant‟è bello lu pizzicantò”. La sera dei festeggiamenti in onore del Santo patrono sul lastrico del portone dei Vitagliano, che confinava con la piazza ed era liscio e coperto dalle abitazioni che insistevano sulla sua volta, si svolgeva anche, negli intervalli in cui la banda non suonava, il ballo della tarantella. L‟ultima persona a praticarlo, segnando il ritmo con le nacchere al suono dell‟organetto e dei tamburelli, fu, negli anni trenta del XX secolo, Caterina „a sciurella (Renzulli Caterina). Dal punto di vista civile era in questa piazza che, dal tempo di Federico II e fino alla costruzione del Municipio nell‟ultimo decennio del XIX secolo,6 si riuniva il popolo per deliberare sulle questioni importanti per la vita del paese, giacchè, come dice il Colletta, “il Parlamento si riuniva in certo giorno d‟estate nella piazza e si facevano le scelte per grida” 7. Era forse proprio per questo che l‟architettura della piazza, antistante la chiesa, le conferiva l‟aspetto di un grande sala per riunioni, rettangolare e tutta circondata dalle case, con al centro un tiglio secolare che l‟ombreggiava d‟estate, tiglio che, fino a quando la piazza lastricata con rotondi ciottoli di fiume non venne asfaltata 6 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 381 e seg. 7 Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1951, Vol. I, p. 91. 14 Ricordo nel decennio 1950-1960, era circondato da un muretto su cui la gente si sedeva a discutere e a parlare. L‟altro punto di aggregazione era l‟aia, lo spazio in calcestruzzo davanti alle abitazioni coloniche e periferiche. L‟aia era ordinariamente adibita all‟essiccazione dei raccolti, mediante l‟esposizione al sole, alla trebbiatura del grano, con l‟ancestrale tecnica della battitura col “villo”, e alla sua liberazione dalla pula lanciando in alto i chicchi, al vento, con la pala di legno. L‟aia, usata a turno da diverse famiglie, diveniva luogo delle loro riunioni durante il periodo settembrino della spannocchiatura del granturco, operazione importante che consentiva di rinnovare ogni anno, con nuove “sberze”,8 gli umili ma confortevoli materassi, detti comunemente 8 N. d. A. Sberze, nel nostro dialetto, vengono ancora oggi denominate le foglie che ricoprono la pannocchia del granturco. 15 Filomeno Moscati “sacconi”, che, situati sulle tavole di legno che costituivano il piano dei letti di ferro, consentivano un piacevole sonno ai dormienti perché li tenevano freschi d‟estate e caldi d‟inverno. La spannocchiatura si eseguiva sempre sull‟aia, insieme e di sera, al chiaro di luna, e su di essa, fra cori e stornelli, fiorivano gli amori e si combinavano i matrimoni. Questo paese antico ormai non c‟è più, travolto dal tempo e dalle calamità esso vive solo nel Ricordo di qualche vecchio in fregola di poesia e in una sua riproduzione accurata e minuziosa fatta da due terremotati, Sarno Aldo e Spagnuolo Carmine, che, con questo loro lavoro ne hanno tramandato ai posteri l‟immagine visiva.9 Al suo posto è sorto un paese moderno progettato e ideato da un urbanista di valore, l‟ingegnere Marcello Vittorini, professore di Urbanistica nell‟Università di Roma.10 Le linee guida della ricostruzione del paese furono generate da due circostanze di fatto, la completa distruzione del centro storico ad opera del sisma del 23-11-1980 e l‟impossibilità di poter salvare, o restaurare, il vecchio paese. Partendo da questa realtà, dopo innumerevoli incontri, e scontri, intercorsi fra amministrazioni, forze politiche, tecnici di varia provenienza e popolo, fu infine deciso di costruire, sullo stesso posto dell‟antico, un paese nuovo, che, nel rispetto delle norme antisismiche, fosse moderno e al passo con i tempi. La struttura urbanistica della Nuova San Michele prevedeva la conservazione del tracciato viario preesistente, ma con strade larghe che permettessero il transito con automezzi, e, visto che asini e 9 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005, p.490. 10 Filomeno Moscati, idem, p.479 e seg. 16 Ricordo stalle erano totalmente scomparsi dal centro urbano, la presenza di marciapiedi in ogni strada e autorimesse sotto ogni comparto abitativo; parcheggi nei pressi della Chiesa parrocchiale, del Municipio, del Campo sportivo e delle scuole; piazze più ampie per feste, manifestazioni, mercato settimanale, e, infine, spazi attrezzati per le attività sportive giovanili, dislocati in modo da favorire l‟afflusso di popolo in ogni rione cosicché nessuno di essi rimanesse isolato e fosse considerato un ghetto. Venne pure regolamentata la struttura architettonica dei comparti e delle singole abitazioni da ricostruire, stabilendo un limite d‟altezza degli edifici e, nel Piano Regolatore Generale, vennero previste e definite le linee d‟espansione futura del paese con l‟ampliamento e la valorizzazione delle strade di campagna e di quelle in collina della riva sinistra del Torrente Barra, e, cosa importantissima, l‟area da destinare al Piano degli Insediamenti Produttivi, comunemente detta Zona Industriale. Dalla ricostruzione, portata avanti seguendo queste linee di. sviluppo, è emerso un paese nuovo, moderno , al passo con i tempi e proiettato verso il futuro, un paese in cui gli immigrati superano gli emigranti e in cui, a ricordare l‟antico casale e la civiltà contadina, ch‟era stata per secoli il suo orgoglio e la sua bandiera, sono rimasti soltanto il piano terra con la balconata e l‟aquila reale del Palazzo Mariconda, il monumento a S. Michele Arcangelo, proprio per questo costruito sull‟area dell‟antica chiesa andata distrutta, il plastico, situato sotto la ricostruita chiesa di S. Michele Arcangelo, e alcune tradizioni che annualmente vengono fatte rivivere, con lodevole solerzia, dalla “Pro Loco” e dall‟Amministrazione. 17 Filomeno Moscati Antico paese – Centro Monumento all‟Arcangelo – anno 2002 18 Ricordo II I giochi di strada dell’infanzia L‟infanzia, nel tempo in cui la tecnologia era poco avanzata e l‟informatica addirittura inesistente, come nella prima metà del secolo XX, costituiva l‟epoca più felice della vita, proprio allo stesso modo di adesso. In quell‟epoca i giochi dei bambini, oggi tutti legati all‟uso di moderne apparecchiature come i telefonini, la televisione, le automobiline semoventi, i videogiochi e un‟infinità di altre diavolerie altamente tecnologiche, erano assai più semplici, meno individualistici e, proprio per questo, assai più partecipativi e, oso dire, assai più divertenti per chi vi prendeva parte attiva. Il gioco più in auge, fra i bambini del paese che non c‟è più, era quello del”circhio”, un gioco antichissimo perché già praticato dai figli degli antichi romani. Consisteva nel portare in giro di corsa, per le vie del paese, il cerchio di ferro di una botticella, o di un barile, 19 Filomeno Moscati spingendolo con un piccolo uncino di ferro legato a una mazza di legno. Il gioco raggiungeva il suo acme quando si tramutava in una gara di corsa, in cui i candidati alla vittoria erano pochissimi privilegiati, non più di due o tre, possessori di un “circhio „e lusso”, cioè del cerchione della ruota di una bicicletta, che veniva spinto e guidato con una semplice mazza inserita nella sua incavatura. Molto diffuso era anche il gioco del rimpiattino (o nasconderello), denominato “viello velluto” dai bambini che lo praticavano, perché iniziava con una filastrocca che veniva recitata, con i bambini disposti in cerchio, per individuare a chi di essi spettasse il compito di fare la sentinella, cioè di avvistare e indicare per nome gli altri, che si erano nascosti mentre egli contava fino a trenta con la fronte sull‟avambraccio e la faccia rivolta al muro e che, una volta identificati, sostituivano la sentinella che li aveva avvistati. Questo gioco veniva , perciò, denominato anche “‟a sentinella”. La filastrocca iniziale diceva all‟incirca così : “viello velluto cavallo pezzuto, chi fila e chi tesse cavallo se n‟esce e se n‟esce co‟ tric trac, una, doie, tre e quatto, e quatto e quattuscelle sotto „o ponte e zi Sabella „nci sta „na palummella. Iesce palomma e cecala tu. 20 Ricordo Un gioco molto diffuso fra i fanciulli e gli adolescenti era quello dello “strummolo”, una trottola di legno con una punta di ferro, che i ragazzi facevano girare, sfilando rapidamente uno spago che le era stato avvolto attorno. Questo gioco, che a prima vista sembra individuale, era in realtà un gioco collettivo, perché vi partecipavano quasi tutti i possessori di strummoli. Esso era, inoltre, ricco di tensione emotiva, perché l‟essenza del gioco consisteva nel cercare di colpire, con la punta acuminata del proprio strummolo, il corpo dello strummolo degli avversari con un colpo così violento da spaccarlo in due ( iuoco a spacca strummolo ). Assai diffuso fra gli adolescenti era anche il gioco denominato “mazza co‟ pieuzo” o “mazza co‟ tammaro”, una gara di forza e di abilità vagamente rassomigliante al baseball americano, perché praticato con una mazza e con un “pieuzo”, un pezzo di legno cilindrico e con le estremità appuntite. Vinceva chi, dopo aver fatto sollevare per aria il “pieuzo”, battendo con la mazza su una delle estremità 21 Filomeno Moscati appuntite, riusciva, poi, a colpirlo a volo lanciandolo più lontano di tutti gli altri partecipanti al gioco. Diffusissimi erano anche i giochi della “Cavallina” e della “Scaricavallina”. La “scaricavallina”, era un gioco di forza , resistenza e abilità, che si praticava fra due squadre contrapposte, costituite ognuna da cinque giocatori. Iniziava individuando, a sorte, la squadra che doveva andare sotto. La squadra individuata disponeva il proprio capofila con il corpo curvo e con la testa, protetta dall‟ avambraccio, contro un muro. Gli altri quattro componenti della squadra si disponevano, uno dietro l‟altro, curvi allo stesso modo e con l‟avambraccio poggiato sui lombi di chi lo precedeva, come a formare una fila di cavalli. Una volta formata la fila dei cavalli, i componenti la squadra di sopra, ossia i cavalieri, saltavano sul dorso dei cavalli e cercavano di restarvi il più a lungo possibile, resistendo ai tentativi che i membri della prima squadra facevano per cercare di farne cadere almeno uno. Le funzioni delle squadre rimanevano invariate se i cavalieri resistevano fino a che almeno uno dei cavalli si accasciava sotto il peso (sconocchiava), si invertivano quando almeno un cavaliere cadeva dal cavallo. La “cavallina” derivava il suo nome, molto probabilmente, dal gesto ginnico - atletico del salto del cavallo, un attrezzo assai diffuso nelle palestre di ginnastica. In questo gioco i partecipanti si disponevano in una lunga fila, a distanza di tre o quattro metri l‟uno dall‟altro, di traverso, con il corpo curvo, le mani sulle ginocchia e la testa fra le braccia. Formata la fila il primo di essa incominciava a correre e a superare gli ostacoli, in successione, con un salto che si eseguiva poggiando le mani sui corpi curvi e divaricando le gambe, proprio come nel salto dell‟attrezzo ginnico. Il saltatore, una volta giunto 22 Ricordo al termine della fila, si disponeva a sua volta nella posizione di ostacolo, facendo sì che questa si andasse sempre riformando. Il gioco terminava per l‟esaurimento delle forze, causato dalla corsa e dai salti eseguiti senza alcuna interruzione. Il “gioco delle stacce” era un succedaneo del gioco delle bocce e si giocava, fra due o più bambini, con i resti dei mattoni (detti comunemente “mautuni”) usati per la 23 Filomeno Moscati pavimentazione delle abitazioni. Questi resti, opportunamente arrotondati con pietre aguzze dagli stessi bambini, fino a formare un disco, costituivano le “stacce”. Conquistava punti il bambino, o la squadra, che riusciva a lanciare vicino a un disco più piccolo, detto “pallino”, un numero di “stacce” maggiore di quello della squadra avversaria. Vinceva la partita chi, per primo, arrivava a conquistare 12 o 16 punti, a seconda dei patti stabiliti. Il gioco più diffuso fra le bambine era quello denominato “la settimana”. Questo gioco per poter essere praticato aveva bisogno di un disegno, che le bambine facevano sul piano stradale con rimasugli di gesso portati via dalla scuola. Il disegno rappresentava i giorni della settimana con diversi quadrati numerati dall‟uno al sette, separati fra loro da altri quadrati non numerati. Il gioco consisteva nel saltare, reggendosi su di una sola gamba, da un quadrato numerato all‟altro, seguendo l‟ordine numerico e 24 Ricordo superando nel salto, senza cadere, i quadrati privi di numero. Questo gioco veniva, a volte, reso più difficile costringendo le partecipanti a saltare portando, sul dorso del piede non d‟appoggio, una “rasta”, un piccolo pezzo di piatto o di vaso, rimasuglio di una ceramica rotta, senza farlo cadere. Vinceva chi riusciva a compiere, senza errori, l‟intero percorso. Assai diffuso, fra le bambine, era il “girotondo”, gioco antichissimo, che veniva praticato da più bambine disposte in tondo dandosi la mano, in modo da formare un cerchio continuo. Le bambine, una volta formato il cerchio, cominciavano a girare con andatura sempre più veloce, fino a far sì che il cerchio si rompesse. Caratteristica del “girotondo” era la cantilena, cantata dalle bambine durante il loro moto rotatorio, cantilena che diceva all‟incirca così: Giro, giro tondo, quant‟è bello il mondo. Gira il mondo, gira la terra e Maria (o altro nome) va per terra. Molto diffuso. fra le bambine, era anche il gioco della “mosca cieca”, in dialetto denominato “‟a iatta cecata” ( la gatta cieca ). Iniziava con l‟individuazione della “iatta cecata” con i soliti sistemi del tocco o di una filastrocca, come ad es. “Ietti a cappotti e accattai buttuni, n‟accattai trentarui, trentarui e „na petacca 25 Filomeno Moscati sabeto abbotta e dumeneca scatta. Individuata la “iatta”, questa veniva “cecata” mediante un fazzoletto legato sugli occhi e, così “cecata”, doveva individuare, citandola per nome, la ragazza che le capitava fra le mani e che, una volta individuata correttamente, diveniva, a sua volta, “iatta cecata”. Erano, come si è visto, giochi molto coinvolgenti e partecipativi e, proprio per questo, molto divertenti, ma poveri. Questi giochi sono oggi, nell‟epoca dell‟opulenza e della tecnologia digitalica, oltre che disusati anche dimenticati. Li abbiamo inclusi in questo ricordo perché essi costituiscono una testimonianza viva e vera di un‟epoca tramontata, uno spaccato della vita che conducevano i fanciulli del paese che non c‟è più nella prima metà del secolo XX. 26 Ricordo III Tradizioni scomparse o in via di estinzione Il rispetto delle tradizioni nella prima metà del secolo XX, all‟epoca del paese che non c‟è più, assumeva un carattere quasi sacrale. La sacralità derivava dal fatto che le tradizioni , intese come memoria di fatti e di usanze antiche tramandate oralmente di generazione in generazione , davano un significato e un senso di continuità alla vita dei singoli e dell‟intero paese. Esse,infatti, riallacciandosi alle usanze della vita quotidiana di genitori ed avi, spesso risalenti ad epoche lontanissime, facevano sì che ognuno acquistasse cognizione delle proprie origini, e, comprendendone il significato sia palese che recondito, o anche semplicemente intuendolo, si sentisse, con orgoglio, parte della comunità in cui egli viveva e in cui i suoi padri avevano vissuto. Queste tradizioni, essendo accettate e praticate da tutti i membri della comunità, diventavano una parte essenziale della loro vita, scandendone i tempi dalla nascita alla morte e dando, ad ogni atto della loro esistenza, senso e valore. La forza della tradizione si manifestava, con evidenza, ancora prima della nascita di un suo nuovo membro, con la scelta o, meglio, con l‟imposizione del nome ai nascituri primogeniti, sia maschi che femmine, cui si dava il nome del nonno paterno, se maschi, e della nonna paterna se femmine, un‟usanza antica e radicatissima, dal popolo indicata col termine dialettale di “asseppontare” , inteso nel senso di mettere un supporto, una zeppa (sepponta o zepponta) a qualcosa che stava per crollare. 27 Filomeno Moscati E‟ proprio questo termine dialettale a svelare il significato dell‟usanza, che è quello di rendere noto a tutti che la stirpe dei nascituri, evidenziata con nomi e cognomi spesso antichissimi, non si era estinta. L‟usanza aveva, ed ha, oltre che un significato sociale anche un significato affettivo e familiare, così radicato e fortemente sentito ancora tuttora da tantissimi giovani, che essi, con orgoglio, impongono ai loro figli il nome dei propri genitori, e specie quello del padre, a significare non solo l‟affetto, ma la stima e il rispetto che nutrono per essi, e, quando ciò non si verifica, è, per i nonni del neonato, causa di grande dolore, anche se non apertamente manifestato. Questa tradizione è, inoltre, testimonianza di un‟antica civiltà oltre che segno della sua grandezza. La consuetudine può, infatti, essere fatta risalire addirittura al tempo dei Romani, come si può facilmente dedurre dalle tantissime epigrafi di epoca latina a noi pervenute, riportanti i nomi di personaggi famosi appartenenti alla stessa famiglia. Per nostra consolazione questa tradizione non si è ancora spenta. Spenta del tutto è, invece, l‟usanza, molto diffusa nelle famiglie contadine, di piantare uno o più alberi di noci alla nascita di ogni figlia femmina. Quest‟usanza era stata generata da una causa esclusivamente economica, derivante dai patti maritali nei quali si includeva, fra gli obblighi dotali della sposa, quello di portare con sé un mobilio, che comprendesse almeno un letto matrimoniale, un armadio, una cassapanca e una tavola per il pranzo, mobili che venivano fatti costruire, prima delle nozze, dal falegname del paese con il legno ricavato dal taglio dei noci. Disusato è anche l‟obbligo, che entrambe le famiglie assumevano al momento della conclusione dei patti, di dotare gli sposi l‟uno di una vacca , l‟altro di un maiale, animali ritenuti indispensabili per poter fornire, alla nuova 28 Ricordo famiglia, una vita confortevole. Quest‟usanza era applicata in modo così rigido, che, secondo quanto mi è stato riferito da persona che ne aveva fatto personale esperienza, in alcune famiglie si pretendeva che in casa dovesse entrare prima la vacca e poi la sposa che la portava in dote. La forza della tradizione si faceva sentire perfino in occasione dei matrimoni. La sua manifestazione più eclatante era costituita dal corteo nuziale, al quale partecipavano tutti i parenti degli sposi. Esso partiva dalla casa della sposa e attraversava, percorrendole a piedi, le vie principali del paese per giungere , infine, all‟antica chiesa di S. Michele Arcangelo, ove veniva celebrato il rito sacro del matrimonio. La principale caratteristica del corteo era la rigida disposizione che in esso assumevano i partecipanti, una disposizione vistosamente diversa fra l‟andata in chiesa e il ritorno da essa a celebrazione avvenuta. All‟andata il corteo era guidato dal padre della sposa, con al braccio la sposa stessa, seguiva lo sposo con al braccio la madre della sposa, venivano poi tutti i parenti della sposa a cominciare dai fratelli, cui seguivano i cugini e gli altri parenti , disposti in successione secondo il grado di parentela. Ai parenti della sposa seguivano, senza soluzione di continuità, i parenti dello sposo, guidati dai suoi genitori e disposti anch‟essi, in rigida successione, secondo il grado della parentela. All‟ uscita dalla chiesa, dopo la celebrazione, il corteo era guidato dagli sposi, cui seguivano i genitori dello sposo e, con la stessa rigida successione di grado di parentela, tutti i parenti dello sposo. Terminati questi venivano i parenti della sposa, ma con disposizione rigidamente invertita 29 Filomeno Moscati rispetto all‟andata, di modo che gli ultimi all‟andata diventavano i primi al ritorno, e, in questo corteo, i genitori della sposa occupavano l‟ultima posizione. La tradizione anche in questo caso aveva un significato chiaro, che era quello di annunciare a tutta la comunità paesana, in un‟epoca in cui non si era ancora diffusa la moda delle partecipazioni matrimoniali inviate per posta, l‟avvenuto matrimonio e la nascita di una nuova famiglia. Il significato recondito stava nella diversa disposizione dei partecipanti al corteo di ritorno, con i genitori della sposa in ultima posizione, come mi fu spiegato da un vecchio contadino mio amico, cui avevo chiesto lumi in merito. Ciò stava a significare che la novella sposa era entrata a far parte a pieno titolo di una nuova famiglia, diversa da quella originaria, di cui assumeva il cognome secondo l‟usanza di quell‟epoca. I genitori della sposa, inoltre, assumendo 30 Ricordo l‟ultima posizione annunciavano a tutti di aver rinunziato alla patria potestà fino a quel momento esercitata sulla sposa. Nel solco della tradizione si effettuavano anche i festeggiamenti agli sposi novelli, che cominciavano con l‟annuncio (partecipazione) delle nozze, abitualmente a voce, a parenti e amici. Una volta dato l‟annuncio gli sposi si preparavano a ricevere i regali di nozze nelle proprie abitazioni ordinando al pasticciere del paese, il bravissimo Raffaele Sarno, un congruo numero di biscottini e dessert, comunemente denominati “paste secche”, e, per risparmiare, a volte fornendogli anche la materia prima e pagandolo alla giornata. Confetti, comperati presso il negozio Limongelli di Atripalda, biscottini e paste secche venivano gelosamente custoditi in una cassa e offerti, ai portatori di regali di nozze, assieme a bicchierini di liquore di vario colore, il cosiddetto “rosolio”, che veniva quasi sempre fatto in casa con alcool, aromi e coloranti vari. 31 Filomeno Moscati Al momento del commiato ai portatori di regali veniva consegnato un pacchetto di varie dimensioni, il cosiddetto “cartoccio”, contenente confetti, biscottini e paste secche, perché tutti i membri della loro famiglia potessero gustarli. I festeggiamenti si concludevano, nella tradizione contadina, con un pranzo in cui erano d‟obbligo „e maccaruni „e zita, i maccheroni della sposa, oppure, in caso di persone abbienti, con un ricevimento in casa, con gli invitati seduti su sedie disposte in doppia fila lungo le pareti delle stanze, ricevimento in cui si distribuiva ai partecipanti, oltre ai rosoli e agli stessi dolci del cartoccio, una pasta con la crema. Questi festeggiamenti, tutti straordinariamente economici se visti con gli occhi abituati all‟opulenza dei giorni nostri, potevano risultare, nella prima metà del secolo XX, molto costosi e tali da non poter essere affrontati da molte famiglie di modesta condizione economica. In tali casi l‟ostacolo veniva superato dai promessi sposi con una fuga, che, assai spesso, era frutto di un segreto accordo fra le famiglie e veniva annunciata con la frase: “se n‟enno fuiute” . Nell‟ambito della tradizione si collocava financo il rito funebre, che si svolgeva, immutabile, ogni qualvolta moriva un membro della comunità. Esso iniziava col suono delle campane, annuncianti, coi loro rintocchi lenti e pieni di mestizia (“campane a morto”), la dipartita di un suo membro. Seguiva la visita, cosiddetta “di condoglianza”, alla casa del defunto, eseguita da ogni capofamiglia o, nell‟impossibilità, da un suo membro autorevole , col duplice scopo di esternare al morto affetto, rispetto e stima, e, ai suoi familiari, la compartecipazione al loro dolore. Il rito proseguiva con il corteo funebre, cui partecipava tutta la comunità. Il corteo iniziava partendo dalla casa del morto, 32 Ricordo con in testa la confraternita seguita dai portatori delle “ghirlande” di fiori, e, dietro di essi la banda musicale, il parroco, che precedeva il feretro trasportato a spalla da parenti o amici, e, dietro il feretro, i parenti seguiti da tutto il popolo dei partecipanti al funerale. Nello stesso ordine, percorrendo a piedi tutta Via Roma e tutta Via Viaticale, si accompagnava il feretro all‟ultima dimora, dove, nella cappella del cimitero, il rito si concludeva con la stretta di mano ai familiari del morto. Questo rito, che dal 1875 in poi si concludeva nel neo-costruito cimitero di Via Viaticale,11 doveva essere molto più antico, e, in 11 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta di Fisciano (SA) 2005, pp.341-347. Filomeno Moscati, San Michele di Serino e la chiesa di S. Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, Edizione a cura 33 Filomeno Moscati epoca anteriore al 1875, quando era in auge la sepoltura dei morti nelle chiese, si concludeva nell‟ antica chiesa di S. Michele Arcangelo. Oggi la seconda parte del rito, che con la partecipazione di tutta la comunità al corteo funebre testimoniava la grandezza e la nobiltà della civiltà contadina del nostro paese, non viene più attuata; infatti, a causa delle disposizioni impartite dalle autorità civili e religiose, che vietano i cortei per evitare intralci al traffico automobilistico e pericoli ai pedoni, il corteo non si forma più e il rituale si svolge tutto in chiesa, ove i partecipanti attendono la salma, e in essa si conclude con la stretta di mano, esattamente come duecento anni fa. del Comune di San Michele di Serino, LUBIGRAF Montoro Inferiore 2007, pp. 183-192. 34 Ricordo IV Tradizioni e usanze legate alle feste religiose Tradizioni e usanze accompagnavano, nella prima metà del secolo XX, anche le feste religiose, a cominciare dal Natale. La giornata antecedente il Natale, essendo vigilia, avrebbe dovuto essere caratterizzata dal digiuno. Nella realtà il digiuno era stato attenuato nella prescrizione di “non camerare”, espressione popolare comunemente adoperata per indicare il divieto di mangiar carne in quel giorno. L‟attenuazione del divieto aveva dato origine ad un‟alimentazione particolare, che, col passar del tempo, si era trasformata in una vera e propria consuetudine , la quale, a sua volta, aveva dato luogo alla tradizione dei pasti tipici della vigilia di Natale. Il pranzo della vigilia, rispettando il divieto dell‟alimentazione carnea, era costituito da un piatto di cavoli (cosiddetti cavolabruoccoli o pizzulama) oppure, a seconda delle usanze familiari, da un piatto di sedani con le noci (cosiddetti accci c„a noce) seguiti da una pietanza di baccalà condito con aglio ed olio. Il cenone della vigilia comprendeva un piatto di spaghetti con le sarde ( o con le alici per i palati più raffinati) seguito da una pietanza di anguille ( i famosi capitoni di Comacchio), comprate quand‟erano ancora vive e cucinate in vari modi, a seconda dei gusti e delle preferenze familiari, e da una frittura di baccalà . Al piatto forte, costituito dai capitoni, seguivano zerpole col miele, fichi secchi, noci, nocelle e castagne infornate. Erano pasti modesti e poco costosi, come si può facilmente dedurre dalle pietanze ammannite, preparate con verdure 35 Filomeno Moscati raccolte nell‟ orto di casa e in cui di veramente costoso non c‟era che il capitone, ritenuto una vera prelibatezza. Il cenone della vigilia di Natale assumeva, dal punto di vista delle tradizioni familiari, una valenza del tutto particolare, perché, nel corso di un intero anno, era quello il momento in cui attorno al desco del capofamiglia si riunivano, sempre e comunque, tutti i suoi membri, nessuno escluso. Il cenone si concludeva, in genere, con la cerimonia dello “nferto”, un modesto regalo in denaro che il capofamiglia, quasi a contrassegnare la sua figura di patriarca e capo carismatico, faceva a tutti i partecipanti al momento dello scambio degli auguri. La presenza di ogni componente, in un‟epoca in cui la famiglia era ancora intesa come struttura patriarcale, e la cerimonia dello “‟nferto” a ogni suo membro, dal più vecchio al neonato, conferivano al cenone della vigilia il valore di un rito sacro, che, rinsaldando i vincoli dell‟appartenenza al proprio ceppo, dava alla cerimonia il significato, intimamente avvertito da tutti i partecipanti, di una vera e propria festa della famiglia. Dopo il cenone adulti e ragazzi raggiungevano il sagrato , dove, accanto al “focone” acceso sul suo selciato, si attendeva l‟inizio della “Messa di Mezzanotte” fra spari di “tric trac, truoni, sischi, botte a muro e carrubine”, carabine formate da una chiave femmina sospesa ad uno spago i cui capi venivano legati alle sue due estremità. Una volta costruita la carrubina nel suo buco veniva introdotta una piccolissima quantità di polvere pirica, e, poi, un grosso chiodo con la testa in avanti, che , spingendo col movimento del pendolo la bocca della chiave contro un muro, la faceva esplodere. 36 Ricordo L‟usanza dell‟attesa attorno al “focalorio” era immortalata in due brevi filastrocche, molto in auge nella prima metà del secolo XX. La prima diceva: E‟ benuto Natale e spareno „e botte, mi metto „o cappotto e vav‟ a berè. La seconda filastrocca descriveva invece, con molto realismo, la sorte di coloro che, a corto di moneta, preferivano non vedere lo “sparo delle botte”. Essa diceva: E‟ benuto Natale e spareno „e botte, ma nun tengo renari, mi fumo „na pippa e mi vav‟ a curcà. La Messa di mezzanotte terminava con la processione del Bambino attorno all‟unica navata dell‟antica, e ora non più esistente, chiesa di S. Michele Arcangelo; una processione spettacolare perché guidata, passo per passo, da una stella cometa di legno appesa ad un filo di ferro disteso fra l‟organo, situato sopra la porta d‟ingresso della chiesa, e l‟altare maggiore. La cometa, come io la ricordo, era tirata da una fune, sia all‟andata che al ritorno, ed era illuminata da lampadine elettriche, ma, in epoca anteriore all‟anno 1923, anno in cui a San Michele di Serino fu impiantata la luce elettrica, 12 la stella doveva essere illuminata o con candele o con fiammelle a gas. 12 Moscati Filomeno, Storia di Serino. Gutenberg Edizioni, Penta di Fisciano 2005. p. 390 e seg. 37 Filomeno Moscati Nella tradizione rientrava anche il pranzo di Natale, costituito, in tutte le famiglie, dai caratteristici tagliolini all‟uovo, fatti in casa e cotti nel saporitissimo brodo di cappone ripieno ( capone „mbuttuniato) o, in alternativa, dai maccheroni fatti con la “maccaronara” e conditi col sugo di pomodoro in cui era stato cotto il cappone. Il ripieno era realizzato con uovo battuto, pinoli, animelle e frattaglie del cappone stesso, che veniva servito come secondo e presentato trionfalmente in tavola, circondato da insalate di verdura e variopinti sottaceti di esclusiva produzione familiare. Un pranzo gustosissimo, ma anch‟esso poco costoso, perché ammannito con ingredienti di produzione domestica e, perciò, perfettamente consono alla civiltà contadina di cui era espressione. Il pranzo, nei suoi componenti fondamentali, era anch‟esso immortalato in una filastrocca, che lo rendeva grandioso e sufficiente per nobilitare il Natale anche del contadino più indigente. La filastrocca diceva: Mo vene Natale e nun tengo renari, „o meglio pizzo è „o fucularo „na veppeta „e vino e „nu capunciello e gloria e gloria a „o Bambiniello Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S. Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, Edizione a cura del Comune di San Michele di Serino, LUBIGRAF Montoro Inferiore 2007, p. 201. 38 Ricordo Oggi , nell‟epoca dell‟opulenza, questo pranzo una volta comunissimo credo non faccia più parte delle tradizioni familiari, sia per la scomparsa dei capponi e dei tagliolini fatti in casa, sostituiti da tanti prodotti assai meno impegnativi presenti nei supermercati, sia per l‟allentarsi dei vincoli familiari, che costituivano i pilastri su cui si reggeva la famiglia patriarcale, espressione concreta dell‟antica civiltà contadina del nostro paese. Della tradizione faceva parte pure la cena dell‟ultimo dell‟anno, comunemente denominata “ cenone di S. Silvestro”, un cenone che si differenziava da quello della vigilia di Natale soltanto per la presenza in tavola del cotechino circondato dai “cicci” del buon augurio, oggi sostituito dal piatto d‟importazione costituito dallo zampone con le lenticchie. Al Natale era legata anche la costruzione del presepe in ogni famiglia, una tradizione iniziata da S. Francesco nella chiesa di Greccio nel 1223,13 due anni prima della sua morte. 13 Moscati Filomeno, Presepe e pastori. I pastori di Luigi Tarantino, Edizione a cura del Comune di San Michele di Serino e altri, Poligrafico Ruggiero S. r. l., Avellino 2007, p.13. 39 Filomeno Moscati Essa fortunatamente ancora si attua, anche se affiancata, e in tante famiglie addirittura sostituita, dalla costruzione dell‟albero di Natale, un albero rutilante di luci e di palline colorate, di grande effetto visivo, ma, per noi, di nessun valore simbolico e di nessuna relazione con il passato, perché legato esclusivamente all‟usanza nordica di festeggiamenti per il ritorno della luce in paesi in cui la notte è lunghissima e il buio è presente per gran parte dell‟anno . Sorte simile a quella del presepe sta subendo la tradizione della calza, che, nella prima metà del secolo XX i bambini appendevano alla spalliera del letto, nella notte dell‟Epifania, perché nel buio la vecchia Befana, scendendo attraverso il camino, potesse riempirla, non vista, di molto carbone, per punizione, o di piccoli doni, quali fichi secchi, mandarini, come premio, e, in fondo alla calza, le caramelle, all‟epoca tanto desiderate dai bambini. Nell‟era dell‟abbondanza questa consuetudine, che era testimonianza di tempi grami, è stata sostituita dall‟usanza, anch‟essa nordica, del Babbo Natale recante regali costosi, oltre che vistosi e tecnologicamente avanzati, che si depositano sotto l‟albero. Legate alla tradizione erano anche molte usanze popolari connesse alla liturgia della Pasqua. La prima, e io ritengo la più importante di queste usanze, per il suo fortissimo simbolismo religioso, era la costruzione del sepolcro del 40 Ricordo Cristo morto. Questo sepolcro veniva costruito con teneri germogli di grano, pallidi perché fatti germogliare all‟oscuro e in piccoli vasi (cosiddette “teste”) presso un considerevole numero di famiglie, vasi che venivano portati in chiesa dopo la messa in cena domini del giovedì santo. E‟ evidente, per chi crede, la connessione di questo sepolcro alla parabola del seminatore14 e al chicco di grano, che, caduto nel terreno fertile, deve morire per germogliare e dare frutto,15 e, inoltre, alla promessa dell‟immortalità futura, enunciata da Cristo con le parole : “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morrà in eterno.” 16 A dimostrazione di ciò, nel giorno della Pasqua di resurrezione, ogni fedele raccoglieva uno o più di quei germogli per portarli nella propria abitazione e sulla tomba dei propri cari come segno visibile e tangibile della promessa del Signore. La scomparsa di quei germogli, nella Pasqua del 2009, e la loro sostituzione con fiori di sicuro effetto estetico, ma di nessun significato simbolico, è stata per molti causa di grande dolore. Strettamente legata alla liturgia (cosiddette funzioni) del venerdì santo era un‟altra usanza da decenni ormai scomparsa. La liturgia di questo giorno prevedeva la lettura evangelica della passione e morte di Gesù, e, durante la lettura, lo spegnimento, una alla volta, di alcune candele situate su un triangolo di legno, fino all‟oscuramento completo della chiesa per alcuni secondi, al momento della morte di Cristo. 14 Matteo,13, 3-9, 18-23; Marco,4, 3-9, 13-20; Luca,8, 5-8, 11-15. 15 Giovanni, 12, 24. 16 Giovanni, 11, 25-26. 41 Filomeno Moscati Nello stesso istante iniziava un rumore assordante, prodotto soprattutto da giovani adolescenti con raganelle e martelli di legno appositamente costruiti dai falegnami, mazze, pietre e materiali di tutti i generi. In questo caso l‟usanza più che al simbolismo era legata alla riproduzione reale del terremoto descritto nei passi evangelici, che, a sottolineare l‟effetto che la morte di Cristo provocò sulla natura, oltre che sugli uomini, letteralmente dicono: “Venuto mezzogiorno si fece buio su tutta la terra”17 “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono”18 Alla festa della Pasqua era legata anche la tradizione della rosamarina, un rito antichissimo risalente, più che verisimilmente, all‟epoca pagana e al culto della dea Cibele, personificazione della Terra Madre, la cui festa si celebrava durante l‟equinozio di primavera, fra canti di coribanti e il suono di cembali,19 per celebrare il suo mito di dea della morte e della rinascita della vegetazione.20 Non sono note le leggende che la riguardavano salvo una, quella che si riferisce ai suoi amori con Attis, in cui sono stati trasferiti i misteri orgiastici ed orfici della resurrezione,21 che, all‟avvento del Cristianesimo, divennero una forma di 17 18 Marco, 15,33; Luca, 23,44. Matteo, 27, 51-52. 19 Mestica, Dizionario della Lingua italiana, p. 294. Cembalo = tamburello, strumento formato da un cerchio di legno intorniato di sonagli e col fondo di cartapecora ben tesa, su cui si battono le dita a cadenza, tenendolo con una mano e agitandolo. 20 Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Milano 1998, p. 72. 21 Schimdt Joel, Dizionario della mitologia greca e romana, Cremese Editore, Roma 1994, p.55. 42 Ricordo partecipazione laica alle celebrazioni religiose per la morte e la resurrezione di Cristo Salvatore. La leggenda della morte e della resurrezione di Attis, trasformato in pino, è stata immortalata da Ovidio nel libro X delle sue Metamorfosi, che tratta del mito di Orfeo ed Euridice, là dove dice: Anche voi, tortuose edere veniste, e, insieme a voi, Le viti ricche di pampini e gli olmi maritati alle viti, E gli orni e le piante picee, e, carichi di pomi rosseggianti, I corbezzoli, e , premio del vincitore, le flessibili palme E il pino dall‟alta chioma rotonda e dall‟irsuto vertice, Caro alla madre degli dei; tanto che Attis, amato da Cibele, Svesti le sembianze umane e s‟indurì in quel tronco22 (Traduzione di Filomeno Moscati) In questa tradizione antichissima risulta evidente il collegamento anche con il culto latino dei numina, una categoria di divinità minori personificanti la forza divina e misteriosa della natura, che guida ogni atto dell‟uomo dandogli forza ed efficacia. Questa forza divina della natura è presente in ogni cosa, in ogni animale come in ogni vegetale, nei quali infonde un soffio di vita e di volontà, ragion per cui il loro appoggio veniva molto ricercato.23 A questa religione di tipo feticista si ricollega il dono del ramo di pino e dell‟arbusto del rosmarino, ricchi di foglie 22 Ovidio, Le metamorfosi, X, 99-105: Vos quoque, flexipedes hederae, venistis et una Pampinee vites et amictae vitibus ulmi Ornique et piceae pomoque onerata rubenti Arbutus et lentae, victoris praemia, palmae Et succincta comas hirsutaque vertice pinus, Grata deum matri, siquidem cybeleus Attis Exuit hac hominem truncoque induruit illo. 23 Schimdt Joel, idem, p. 152. 43 Filomeno Moscati aguzze e puntute, che vengono offerti ad ogni famiglia col valore di un amuleto, che, con la sua intrinseca forza naturale e con le sue foglie acuminate, è capace di allontanare da quella famiglia ogni malanno e ogni influsso naturale avverso (cosiddetto malocchio). Al dono dell‟amuleto, diffuso in tutta l‟Irpinia, si aggiunge il canto augurale, fatto di strofe che variano di poco da un Comune all‟altro, a seconda dell‟estro e delle capacità poetiche estemporanee dei cantori, i quali danno loro contenuti e significati vari, che vanno, a seconda del luogo e delle circostanze, dalle velate espressioni d‟amore a quelle più esplicite e addirittura salaci. Molto comune e variato è il soggetto della bella mugliera, che inizia con un tema sempre uguale che dice: Megli‟è a spusà una bella e senza niente, ca una brutta e cu‟ denari „nante cui vengono aggiunte variazioni infinite, fra cui : 1) Ca li renari so‟ com‟a lu viento nu bello iuorno ti rimane „nante; 2 ) Chi tene li renari sempe conta 44 Ricordo chi la bella mugliera sempe canta; 3 ) La bella face onore a li pariente la brutta face schifo a tutte quante. Il momento cruciale del rito era, ed è, in realtà, quello degli auguri, con la chiamata rivolta ad ogni membro della famiglia, a cominciare dal suo capo , al quale si rivolge, se avanzato negli anni, questo augurio di immortalità: „ Oi(nome del chiamato) caro, „oi ..... caro puozzi campà gagliardo e forte pe‟ quanto durano Terminio e Monteforte. La chiamata coinvolge tutti i membri della famiglia, che vengono individuati per nome, e l‟ometterne qualcuno viene considerata una grave offesa. Questo momento del rito è così vivo e partecipato che alcune famiglie chiedono ai cantori di chiamare perfino qualche persona morta. 24 La tradizione ancora si attua , nel nostro paese , perché tenuta pervicacemente in piedi dalla Pro Loco. Come per la rosamarina all‟influsso degli spiriti (numina) presenti in alcuni esseri viventi è possibile far risalire anche la macabra usanza, ancora presente nel nostro paese e in tutta l‟Irpinia nella prima metà del secolo XX, di inchiodare alla porta di casa una civetta perché ritenuta uccello di malaugurio, e, viceversa, di affiggere al di sopra dell‟entrata la parte anteriore del teschio di un bue perché ritenuto capace d‟impedire, con la punta delle corna, l‟ingresso a qualunque maleficio. 24 Capriglione F., De Feo G., Farese N., Feola A., Iallonardo G., „A rosamarina, Edito dal Centro “Tre Tigli” di S. Stefano del Sole (AV) 2008, p.33. 45 Filomeno Moscati In proposito non bisogna dimenticare che, nelle popolazioni primitive, la religione e le pratiche religiose sconfinavano spesso nella magia e che il Sannio antico, patria anche della tribù degli Hirpini che abitavano le nostre contrade, era il paese delle streghe, esseri dotati di poteri magici che le rendevano capaci di influire negativamente sulla vita altrui attraverso fatture e malocchio. La parola strega deriva proprio dal termine latino strix, vocabolo con cui si indicavano animali notturni come il barbagianni e la civetta, che erano ritenuti, allora come oggi, uccelli di cattivo augurio. L‟accostamento scaturisce dal fatto che, presso i popoli primitivi, era credenza comune che la magia del male, di cui si riteneva fossero protagoniste le streghe, venisse compiuta da queste agendo prevalentemente di notte e assumendo l‟aspetto di animali notturni, quali sono le civette e molti altri esseri viventi. La magia del male poteva essere contrastata e vinta solo attraverso la magia del bene, attuata da altrettanti esseri viventi, appartenenti al regno animale e vegetale, dotati di intrinseche forze naturali e magiche capaci di impedire e annullare l‟influsso malefico causato da fatture e malocchio. La magia del bene si attuava, perciò, allora come oggi, attraverso uno specifico armamentario profilattico costituito da amuleti e talismani. Amuleto, infatti, è parola che deriva dal verbo latino amoliri ( amolior, ammoliris, amolitus sum , amoliri ) che significa rimuovere, allontanare. Esso è, in massima parte, costituito da cose naturali, e, perciò, la categoria degli amuleti è molto vasta e in essa sono compresi oggetti diversi e spesso senza alcuna somiglianza o connessione fra loro. Ciò che li unisce, e nello stesso tempo li distingue, è lo spirito naturale, la forza immanente della natura, che da 46 Ricordo taluni viene ritenuta presente in essi e che, per la sua essenza benefica e di opposizione alla magia del male, viene definita magia del bene. L‟azione benefica e di contrasto ai malefìci, esercitata dagli amuleti, si esplica attraverso diverse forme di magia del bene fra cui, importantissime, vanno annoverate: La magia delle punte, esercitata da tutti gli oggetti, animati o inanimati , forniti di una punta, come chiodi, forbici, spilli, corni appositamente costruiti, corna di animali, mani con le dita disposte in modo da formare l‟immagine delle corna, parti di vegetali e di piante con foglie appuntite , come i rami delle conifere;25 La magia della conta basata sulla credenza, assai diffusa presso i popoli primitivi, che le streghe potessero utilizzare i loro poteri malefici soprattutto di notte, entro un tempo limitato che andava dalle ore 23 alle ore 3 , e che esse non potessero oltrepassare oggetti formati da una quantità di cose identiche se non le avessero prima contate. La categoria degli amuleti basati sulla magia della conta era costituita da oggetti che si riteneva fossero capaci di far perdere tempo alle streghe, come i rami del rosmarino e delle conifere, muniti di ammassi di foglie aghiformi difficili da contare. Una sottospecie di questa categoria di amuleti era costituita dalla scopa di saggina, che si esponeva davanti alla porta delle case, e forse ancora oggi si espone da alcune massaie, con i rami di saggina rivolti in alto, per impedire l‟ingresso ai 25 Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina popolare, Recordati, Istituto Italiano d‟Arti Grafiche di Bergamo 1940, p.78 47 Filomeno Moscati poteri occulti. Questo effetto viene definito magia della scopa;26 La magia degli organi animali basata sul principio fondamentale della medicina omeopatica, secondo il quale similia similibus curantur, che è l‟esatto contrario del principio ippocratico contraria contrarriis curantur, su cui si basa la medicina curativa (non preventiva o vaccinale) moderna. Il malocchio veniva, perciò, combattuto con la riproduzione pittorica dell‟occhio, o degli occhi umani, sulle pareti esterne delle abitazioni, sulla porta delle case, sulla prora delle navi, sul fondo di oggetti di uso domestico e quotidiano, quali tazze e vasi, in modo che costituisse quasi un invito a berne il contenuto, fino all‟ultima goccia, per poter usufruire dell‟azione benefica dell‟amuleto dipinto sul fondo. Grande valore magico assumevano, e nel solco della tradizione assumono ancora oggi, alcuni monili da indossare, i quali riproducono in oro, (minerale ritenuto anch‟esso dotato di poteri magici) organi umani, quale il cuore, o animali, quale il corno, che ha costituito per millenni l‟amuleto principe contro il malocchio.27 Nel solco di questa tradizione una valenza del tutto particolare assumeva la riproduzione degli organi genitali, e in modo preminente di quelli maschili, fatti oggetto di un vero e proprio culto, propiziatorio di fecondità e abbondanza. Questa tradizione tuttora sussiste, oltre che nel cornetto (cosiddetto curniciello) ritenuto una riproduzione simbolica del membro genitale maschile, in alcuni gesti della vita quotidiana, quali il toccarsi o grattarsi i genitali, o 26 27 Pazzini Adalberto, idem, p. 80. Pazzini Adalberto, idem, p. 83. 48 Ricordo nel formare le cosiddette fiche introducendo il pollice fra indice e medio piegati, figura che costituisce la riproduzione simbolica della copula. Questo gesto antichissimo, usato ancora oggi col valore di amuleto contro il malocchio, veniva adoperato anche per esprimere disprezzo e spregio verso gli altri o verso Dio. In questo senso lo intese Dante, nel XXV canto dell‟Inferno, quando rappresentò Vanni Fucci bestia,28 che “le mani alzò con amendue le fiche, gridando: <<Togli, Dio, che a te le squadro! >>29 La magia della parola è una delle più antiche forme di magia che sia stata documentata e può essere considerata come una fra le più antiche forme di medicina mai praticate. Essa risale infatti all‟epoca in cui la malattia stessa era considerata effetto di magia, e, come tale, poteva essere vinta solo per mezzo di pratiche magiche. Una di queste pratiche era costituita dalle formule magiche, come traspare dall‟introduzione del papiro di Ebers che dice. “Il Signore del tutto mi ha dato le parole per cacciare le malattie di tutti gli dei e le malattie dei mortali di ogni genere”30 In questa forma di medicina apotropaica aveva grande importanza il suono, poiché era convinzione diffusa nel popolo che alcune frasi, alcune parole , anche se spesso incomprensibili, avessero una speciale virtù antimalefica al cui suono si disfaceva ogni fattura. Il significato delle parole non aveva , perciò, grande importanza, mentre ne aveva 28 Alighieri Dante, Inferno, XXIV , vv. 125, 126 Alighieri Dante, Inferno, XXV, vv. 2, 3. 30 Pazzini Adalberto, Storia della medicina, Società Editrice Libraria, Milano 1947, Vol. I, p.22. 49 29 Filomeno Moscati moltissima il suono e la personalità di chi pronunciava le formule magiche.31 Tutte le forme di magia benefica sopra esposte sono presenti nel rito della rosamarina; la magia delle punte e della conta nelle foglie del rosmarino e dei rami di conifere; la magia degli organi sessuali maschili nelle due arance con un limone al centro, che costituiscono la rappresentazione simbolica dell‟organo sessuale e riproduttivo maschile; la magia della parola nella chiamata, che ha la sua base nella ripetizione di formule ataviche bene-auguranti, enunciate, con melodie tramandatesi immutate attraverso i secoli, al ritmo scandito dal suono dei cembali, ciò che conferma l‟ ancestralità del rito. Alla festività della Pasqua sono legate molte tradizioni culinarie, che in parte ancora si perpetuano, come la pizza con le erbe ( pizza cu l‟erve e pampine „e „ieta) , la pizza piena ( pizza chiena), i taralli tipici di Pasqua e il tortano con sopra le uova, protette da due strisce di pasta disposte in croce, in numero corrispondente a quello dei componenti la famiglia. Tutte queste specialità culinarie, legate all‟abbondanza primaverile di erbe novelle e di uova, venivano preparate, nella prima metà del secolo XX, esclusivamente in famiglia e venivano poi cotte presso il forno pubblico , dove venivano trasportate su apposite tavole di legno fornite dal gestore del forno. 31 Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina popolare, Recordati, Istituto d‟arti grafiche di Bergamo 1940, p. 115. 50 Ricordo Caratteristico della settimana santa era, perciò, il grande via vai delle donne che all‟andata al forno trasportavano sulla testa, protetta da uno straccio attorcigliato (coruoglio), le tavole sorreggenti le specialità culinarie pronte per la cottura e, al ritorno, grandi sporte ripiene di esse, calde ed emananti una fragranza capace di fare resuscitare i morti. Una tradizione, questa del forno pubblico, che era retaggio del periodo feudale, periodo nel quale i conti e i baroni riservavano a sé il diritto di costruire mulini, forni e vinacciai , proibendolo ai propri sudditi (cosiddetti diritti proibitivi) e obbligandoli, nel contempo, a servirsi esclusivamente di quel mulino, di quel forno e di quel vinacciaio (cosiddetti diritti di privativa).32 33 32 Moscati Filomeno, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta di Fisciano (SA) 2005, pp. 226, 227; Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S. Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri , Edizione a cura del Comune di San Michele di Serino, LUBIGRAF, Montoro Inferiore 2007, pp.24, 182. 33 N. d. A. , Dopo l‟abolizione della feudalità mulino , forno e vinacciaio furono comperati il 31 agosto 1847, col 51 Filomeno Moscati Il forno, situato in Via Cruci („ncoppa „e Cruci) e il mulino, situato in via Augello, ormai non esistono più e con il mulino ad acqua di Via Augello è scomparsa anche l‟usanza di avvisare i clienti, col suono cupo e potente di un corno formato da una grossa conchiglia marina, che il mulino era libero e la torre di carico ricolma d‟acqua. Contemporaneamente alla scomparsa dei mulini ad acqua e dei forni pubblici scompare l‟usanza del pane di mais, „o pane „e rarignino, costituto da grandi pezzi di pane di mais, cotti nel forno a legna, con sotto una foglia di verza, oppure, a seconda del luogo in cui si viveva, molte foglie di castagno. Con il pane di mais è scomparsa anche la pizza al chinco, una saporita focaccia di farina di granone, cotta sul focolare in un apposito tegame di creta, detto chinco. Lo scagnuozzo, una grossa fetta di pane di mais che i contadini per sfamarsi portavano con sé sul campo da coltivare, e la pizza al chinco hanno permesso la sopravvivenza dei lavoratori dei campi, nelle nostre contrade, per almeno due secoli. Scomparsa del tutto è anche la tradizione delle rogazioni, antica almeno quanto quella della rosamarina. Erano processioni, per impetrare da Dio un buon raccolto, che si effettuavano per le vie di campagna, tra i campi seminati e in fiore, nei tre giorni precedenti l‟Ascensione. Una pratica religiosa cristiana, radicata soprattutto nei paesi pagamento di un censo (enfiteusi) di 234 ducati annui, dal mio bisnonno Francesco Moscati fu Vincenzo, e i suoi beni passarono nel 1877, per successione ereditaria, ai suoi figli Lorenzo, Vincenzo e Filomeno, mio nonno, cui toccarono mulino, forno e vinacciaio, e da lui a mio padre Vincenzo Moscati. 52 Ricordo cattolici, che aveva soppiantato l‟antico rito pagano della lustratio finium , la purificazione dei confini dei campi per liberarli e proteggerli da ogni influsso malefico capace di compromettere il raccolto. La cessazione di queste processioni di primavera, una volta tenute in grande considerazione, è il segno chiaro che l‟antica e nobilissima civiltà contadina, ricchezza e vanto di San Michele di Serino, esiste ormai come realtà puramente marginale, soppiantata, com‟è, dalla moderna civiltà industriale e consumistica. Pure tramontata, almeno nella forma antica, è l‟usanza del pellegrinaggio, nel mese di settembre, al santuario della Madonna di Montevergine sul Monte Partenio, un‟usanza antichissima subentrata ai pellegrinaggi pagani al tempio di Cibele, che la tradizione vuole fosse anticamente esistente sul monte Partenio34 in epoca anteriore all‟avvento del Cristianesimo, a testimonianza e conferma, assieme al rituale della rosamarina, della devozione alla Terra Madre diffusa in tutta l‟Irpinia fin dall‟epoca dei Sanniti. I pellegrinaggi alla Madonna di Montevergine, comunemente denominati „a iuta a Muntuvergine, venivano compiuti in comitiva. I pellegrini partivano in piena notte e, portando con sé le vettovaglie, percorrevano a piedi tutta la strada fino al santuario, fra canti inneggianti alla Madonna bruna o impetranti grazie da Mamma Schiavona . Fra le regole non scritte della iuta, ma osservate da tutti i partecipanti con assoluto rigore, c‟era quella del digiuno nel tratto da Mercogliano al santuario sia all‟andata che al ritorno, che veniva compiuto anch‟esso a piedi. La 34 Capriglione F., De Feo G., Farese N., Feola A., Iallonardo G., „A rosamarina, Edito dal Centro Tre Tigli di S. Stefano del Sole, Stampa Editoriale s.r.l., Avellino 2008, p. 10. 53 Filomeno Moscati caratteristica dell‟ ingresso dei pellegrini in paese, al loro ritorno, era il canto col quale essi ringraziavano la Madonna per il pellegrinaggio felicemente compiuto e promettevano di rifarlo nell‟anno successivo, un canto, intonato a piena voce per farsi sentire da tutti, che si chiudeva sempre con la stessa strofa: Simo iute e simo venuti e quanta razie avimo avute. Oggi il santuario viene raggiunto con l‟automobile, o con la funicolare, in forma individuale o familiare, oppure in autobus con un pellegrinaggio in comitiva organizzato dalla parrocchia, ma, dei canti che risuonavano nelle dolci notti settembrine, è rimasto nell‟animo soltanto l‟amaro ricordo. Un‟ usanza del tutto particolare, legata al culto dei morti e oggi del tutto scomparsa a causa del sopravvenuto predominio dell‟illuminazione elettrica, era quella praticata dai bambini nella sera del 2 di novembre. Essi attendevano che gli adulti abbandonassero il cimitero per sottrarre qualche cero dalle tombe e porlo, acceso, in grosse zucche vuotate in precedenza del loro contenuto e su cui erano stati incisi gli occhi e la bocca, in modo da farle sembrare dei teschi. Le zucche (cocozze) venivano poi appese a una pertica e portate in giro, nell‟oscurità, per tutte le vie del paese. Una processione che aveva una vaga rassomiglianza con la festa di allowin praticata negli U.S.A. Alla festa del Santo patrono era invece legata la recita, sul sagrato, di un dramma sacro denominato “O ritto „e S. Michele”, la cui rappresentazione avveniva soltanto periodicamente. Anche l‟usanza di questa sacra rappresentazione può ritenersi ormai scomparsa perché il suo 54 Ricordo canovaccio è andato perduto durante il terremoto novembre 1980. 55 del 23 Filomeno Moscati 56 Ricordo V ‘O Ritto ‘e S. Michele Il dramma sacro cristiano, o sacra rappresentazione, è antico quanto la chiesa stessa e si può ritenere istituito dallo stesso Cristo nell‟ultima cena, quando, spezzando il pane disse: hoc facite in meam commemorationem ( fate questo in memoria di me)35. Questa frase di Cristo Salvatore è letteralmente ripetuta nella Messa, la quale non è altro che la rappresentazione quotidiana del mistero dell‟incarnazione e passione di Cristo, ma non è la sola. Nella messa, infatti, vi è un susseguirsi di dialoghi, un avvicendarsi di movimenti simbolici e una coralità ottenuta con la partecipazione dei fedeli, che, non fungendo da sfondo inerte, diventano parte attiva del rito sacro.36 La Messa nei primi secoli del cristianesimo costituiva la parte fondamentale della liturgia , ma la liturgia era rigida e intoccabile e, pur avendo forme e spunti drammatici in alcune sue espressioni, come i Libri antiresponsales e gli Antiphonaria, non era dramma. Incominciò a diventarlo soltanto nel secolo XII, quando, con il passaggio dal latino alla lingua volgare si affermarono le laudi, che avevano la struttura di dialoghi cantati in forma drammatica da apposite confraternite.37 La più famosa di queste laudi è Il pianto della Madonna di Iacopone da Todi, in cui protagonisti del 35 Luca, 22,19. Ghilardi Fernando, Storia del Teatro , casa Editrice F. Vallardi, Appiano Gentile (CO) 1961, p. 112. 37 Ferroni Giulio, Storia della Letteratura Italiana, Einaudi Scuola, Milano 1991, p .125. 57 36 Filomeno Moscati dialogo sono Maria, Cristo, Giovanni evangelista e il popolo.38 La lauda, componimento dialogato ma privo di scenografia, venne soppiantata, nel corso del XIII e XIV secolo, dalle sacre rappresentazioni, in cui l‟aspetto spettacolare prese il sopravvento sul fervore religioso. Una sacra rappresentazione abruzzese di quell‟epoca, il Dicto dello Nferno39 ha, almeno nel titolo, una forte assonanza con il Ritto „e S. Michele, che si rappresentava in San Michele di Serino ancora nella prima metà del secolo XX. Entrambe le rappresentazioni hanno, nel titolo, l‟equivalente dialettale della parola Detto, intesa come cosa vera tramandata da altri. Io non credo che il canovaccio del “Ritto” fosse antico quanto quello dell‟ omonimo abruzzese, ma certamente doveva essere anteriore alla seconda metà del secolo XIX, epoca in cui subì qualche modifica, o ammodernamento, da parte del canonico Romei, come sostengono i suoi parenti, o di monsignor Giuseppe De Mattia. Quello che è certo è il fatto che il canovaccio di questa sacra rappresentazione è sempre stato in possesso del maestro Giuseppe Forcellati, nipote di monsignor De Mattia, cosa che fa propendere per la seconda ipotesi. Il canovaccio del Ritto „e S. Michele altro non era che la trasposizione drammatica del passo dell‟Apocalisse che dice: Allora avvenne una guerra nel cielo. Michele e i suoi Angeli combattevano contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli ingaggiarono battaglia, ma non poterono prevalere e nel cielo non vi fu più posto per loro. 38 Petrocchi G., Iacomuzzi F., Reggio G., Il libro della letteratura italiana, Le Monnier, Firenze 1972, p. 110. 39 Ghilardi Fernando, Storia del Teatro, Casa Editrice F. Vallardi, Appiano Gentile (CO) 1961, p. 132. 58 Ricordo E il gran dragone fu precipitato, l‟antico serpente, che si chiamava diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero; fu precipitato sulla terra, e i suoi angeli furono precipitati con lui40 L‟antico canovaccio, in tre atti, deve ritenersi posteriore al XVI secolo perché la scena fondamentale del primo atto, il concilio dei demoni, era chiaramente ispirata al concilio infernale descritto dal Tasso nel quarto canto della sua Gerusalemme Liberata, e, in particolare, alla terza strofa che così ne descrive l‟inizio, del tutto simile a quello del “Ritto”: Chiama gli abitator de l‟ombre eterne Il rauco suon della tartarea tromba. Treman le spaziose alte caverne, e l‟aer cieco a quel romor rimbomba; né sì stridendo mai da le superne region del cielo il folgor piomba, nè sì scossa mai trema la terra quando i vapori in sen gravida serra.41 Anche i personaggi infernali sono quelli descritti dal Tasso nella quinta strofa del canto quarto della Gerusalemme Liberata, che associa ai demoni personaggi mitologici quali Arpie, Centauri, Sfingi, Gorgone, Scille, Idre, Pitoni, Chimere, Polifemi e Gerioni42 oltre Aletto e Astagor, citati in altra parte del poema. Il testo del Ritto, gelosamente custodito dal maestro Giuseppe Forcellati, è, purtroppo, andato distrutto, assieme alla sua casa, nel terremoto del 23 novembre 1980 , e la stessa sorte hanno subito le singole parti di esso, che gli attori 40 Apocalisse, 12,, 7,8,9. Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, IV,3. 42 Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, IV, 5. 59 41 Filomeno Moscati conservavano con grande cura presso le proprie abitazioni, a quanto mi è stato riferito da alcuni di essi da me a suo tempo interpellati. Il mio augurio e la mia speranza , avendo io interpretato per due volte la parte di S. Michele, è che questo antico canovaccio possa venir ritrovato e sottratto all‟oblio. Difficilissimo sarebbe, comunque, trovare oggi degli attori capaci d‟interpretare delle parti come quella di Giovanni Iasimone, che dava vita a un personaggio infernale che si presentava sul palco con decine di serpi vive legate alla cintura, e con altre legate a una corda che di tanto in tanto lanciava verso il pubblico assiepato sotto il palco, provocando panico, fughe, urla e schiamazzi. Dopo il terremoto, richiesto da più parti di riscrivere il Ritto, l‟ho fatto, e, pur essendo stato esso in parte rappresentato, per opera di Salvatore Aufiero, nella chiesa di S. Michele Arcangelo, non avevo nessuna intenzione di pubblicarlo non ritenendolo degno di tanto. Il testo da me scritto è, comunque, cosa ben diversa da quello antico, poiché nel primo atto mette in risalto le origini longobarde di S. Michele di Serino e i suoi personaggi portano tutti nomi longobardi. Il secondo atto, che descrive il concilio infernale, è ispirato all‟Inferno di Dante e i suoi personaggi portano il nome e sono modellati sui demoni presenti nell‟Inferno dantesco. Il terzo atto è ispirato all‟Apocalisse e ai vangeli sinottici, di cui, soprattutto nelle parole dell‟Angelo, riporta i passi più significativi. Una seconda ragione, di carattere letterario e teatrale, alimentava la mia ritrosia alla pubblicazione di questo testo. Ritengo, infatti, che sia difficilissimo dar vita teatrale al dramma sacro, che non si basa su passioni e sentimenti umani, e pressoché impossibile quando l‟essenza del dramma è costituita da uno scontro tra due principi, quello del bene e 60 Ricordo quello del male, principi astratti da rendere concreti e visibili a tutti personificandoli nelle due schiere degli angeli fedeli e degli angeli ribelli. Il testo da me scritto ha, nonostante ciò, avuto l‟onore della pubblicazione perché Aldo Renzulli, avendolo visto abbandonato su di un tavolo, durante una sua visita amichevole a casa mia, me lo chiese e lo ha ritenuto degno di essere pubblicato in un suo pregevole lavoro,43 togliendomi così dall‟imbarazzo. Qui lo ripropongo con qualche lieve modifica. Costume di San Michele indossato da Giosino e Ugo Fiorillo 43 Renzulli Aldo, VAGGIACUNTàNUFATTO, pp. 13-22. 61 Filomeno Moscati ‘O RITTO E S. MICHELE NELLA RIELABORAZIONE DI FILOMENO MOSCATI PROLOGO PROLOGO : Non si sa da quando, ma certamente da tempi antichi, in questo paese si usava allestire, in concomitanza con la festa di S. Michele, una sacra rappresentazione in onore del patrono da cui ha preso il nome. Il canovaccio di questo primitivo e popolare dramma sacro, reso più accettabile ai tempi moderni, sia dal punto di vista letterario che drammatico da monsignor Giuseppe De Mattia, nella seconda metà dell‟Ottocento, veniva recitato sul sagrato, ove negli antichi tempi si tenevano queste rappresentazioni, e cioè nella piazza principale del paese (Piazza Umberto I) antistante la chiesa. Attori della rappresentazione erano gli stessi abitanti del casale. L‟ultima recita risale agli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, 1946-1947, durante la festa in onore del Santo patrono, una grande festa di ringraziamento voluta e organizzata dai reduci scampati al conflitto. Il testo del dramma, amorosamente custodito dal “maestro” (insegnante) Giuseppe Forcellati, è andato purtroppo perduto, assieme alla sua casa, durante il terremoto del 23 Novembre 1980, né è stato più possibile recuperarlo o ricostruirlo. Il testo attuale, quello che oggi si rappresenta, è un libero rifacimento in cui sopravvivono soltanto un paio di frasi dell‟antica rappresentazione, frasi riguardanti il concilio dei démoni ( Ancor potente è Lete; Io sono il vessillo di guerra e qui lo pianto), frasi rimaste impresse nella memoria malgrado i tanti anni trascorsi. 62 Ricordo ATTO PRIMO SCENA PRIMA S. Angelo ad peregrinos ( La scena ha sul fondo un grande pannello con, sulla destra, l‟immagine del monte Terminio, al centro una tettoia di paglia su travi di legno e, sul fondale, si vede la Mezza Costa con l‟antica via Sabe Maioris e, sulla sinistra, un tratturo che porta ad un ponte, costituito da due travi di legno coperte da spesse tavole. Da questo ponte il tratturo prosegue congiungendosi con la via Sabe Maioris. Davanti alla tettoia di paglia si erge una croce di legno, che ha per base un muretto di pietre su cui potersi sedere. È l‟ora del tramonto. La scena è vuota. Si ode, in lontananza, un canto che dice: O San Michele Arcangelo Sei capitano del cielo, Sei nostro protettore, donaci grazia e favore a cui un altro risponde con la strofa: S. Michele Arcangelo Tu sia lodato sempre Sei nostro protettore Donaci grazia e favore,44 44 N. d. A. Le due strofe erano cantate, sotto forma di laude alternata, dalle donne che seguivano il simulacro di S. Michele durante la processione nella festività del Santo Patrono, almeno fino al terremoto del 198063 Filomeno Moscati Con questo canto entrano in scena tre pellegrini, vestiti del saio dei romei, appoggiandosi ad un vincastro e con un sacco, a mo‟ di zaino, sulle spalle. Giunti davanti alla croce si segnano, recitano una breve preghiera, (l‟Ave Maria in latino) e si siedono sul muretto che forma la base della croce.) ROMUALDO : Ringraziamo il Signore Nostro Gesù Cristo, perché il primo giorno del nostro pellegrinaggio è andato bene. Speriamo che continui così per tutto il percorso. RODOALDO : Sia ringraziato il Signore anche per questa tettoia sotto la quale potremo riposare questa notte. Qui ci troviamo in mezzo ai fiumi, le notti sono umide e il freddo penetra nelle ossa. GARIBALDO : Hai ragione, ma prima di stenderci sul giaciglio di paglia per riposare, apriamo i sacchi e rifocilliamo i nostri corpi per riprendere le forze. Un lungo cammino e ancora molte tappe ci attendono prima di arrivare alla grotta dell‟Angelo del Gargano. (I pellegrini aprono i sacchi e ne estraggono cibi semplici che si conservano a lungo, la focaccia di farro, pane biscottato, formaggio secco e salami e si apprestano a mangiare) RODOALDO : Meno male che possiamo dissetarci, perché qui l‟acqua non manca ed è limpida e fresca. ROMOALDO : Domani ci attende un lungo e faticoso cammino. Dovremo fare, in salita, tutta la via della Mezza Costa e, dopo aver superato la Piana del Dragone, scendere al fiume Calore fino al Ponte del Romito. GARIBALDO : Il Signore ci assista, e ci aiuti l‟Angelo Michele, perché il cammino è lungo e difficile. ROMOALDO : Sono tutte montagne e il cammino non è facile. RODOALDO : Il cammino fra i monti è difficile e pericoloso anche perché siamo in pochi e i boschi sono pieni 64 Ricordo di briganti che assaltano noi, poveri pellegrini, per sottrarci anche quel poco che abbiamo. ROMOALDO : E‟ vero, ma l‟Arcangelo Michele, che ha sconfitto i diavoli, ci aiuterà. (Si ode di nuovo il canto e una comitiva di dieci uomini e cinque donne, anch‟essi vestiti del saio dei pellegrini, giunge davanti alla croce e si segna.) ROMOALDO: Da dove venite, cari fratelli, e dove siete diretti? ROSMUNDA: Veniamo da Nuceria e andiamo alla grotta del Gargano per pregare all‟altare dell‟ Angelo Michele. Abbiamo saputo che in quest‟ anno del Signore 663, l‟otto di Maggio, l‟Arcangelo Michele è apparso al Duca di Benevento, Grimoaldo, che lo invocava. Con il suo aiuto egli ha sconfitto i greci che volevano saccheggiare il santuario del Gargano. RADELGISIO: Molti di noi si sono fatti pellegrini per implorare qualche grazia dall‟Angelo miracoloso. Egli stesso lo promise quando, più di duecento anni fa, apparve al vescovo di Siponto dicendogli: “ Io sono l‟Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna sul monte Gargano è a me sacra e io stesso ne sono il vigile custode.” SCAUNIPERGA: Egli ordinò al vescovo di recarsi sulla montagna e di dedicare la grotta al culto cristiano, perché “là dove si spalanca la roccia possono essere perdonati i peccati degli uomini e tutto quello che lì sarà chiesto nella preghiera sarà esaudito.” AIONE: Molti altri fedeli partiranno da Salerno e Nocera per rendere omaggio all‟Angelo del Gargano e pregare davanti al suo altare, per ringraziarlo o per implorare il suo aiuto, e si fermeranno in questo luogo dopo il primo giorno di cammino. 65 Filomeno Moscati RODOALDO: Anche il nostro incontro in questo pio luogo è un miracolo dell‟Arcangelo Michele. Egli ci ha fatto incontrare qui per farci proseguire insieme il viaggio formando un gruppo numeroso, che può facilmente difendersi dalle violenze dei ladri. ROSMUNDA : Hai visto giusto. Questo è un vero miracolo. E‟ opera dell‟Angelo che vuole rendere sicuro il nostro cammino. AIONE: L‟Angelo è veramente miracoloso. Anche il nostro re Cuniperto lo venera e, fiducioso nei suoi poteri miracolosi e nella sua predilezione e protezione per il nostro popolo guerriero, ne ha fatto imprimere l‟immagine su questa moneta, come voi potete vedere. ( Estrae dalla tasca una moneta e la mostra agli altri.) SICONE : Per questo il Papa lo ha eletto protettore del popolo longobardo. Anch‟io credo che sia un angelo miracoloso e che sempre più numerosi saranno i pellegrini che, da Salerno e Nocera, si recheranno alla grotta del monte Gargano per pregare e implorare dall‟ Angelo protezione e aiuto. ROSMUNDA : Io sono certa che, negli anni futuri, i pellegrini troveranno in questo luogo una cappella in cui potranno fermarsi, per pregare e riposare al coperto, dopo il primo faticoso giorno di cammino. SICONE : Questo sarà un altro miracolo dell‟Arcangelo, vincitore del diavolo e dei suoi seguaci. Mi è stato riferito che l‟Angelo è apparso anche da queste parti in una grotta sul Monte Terminio, che gli abitanti di queste contrade chiamano il Montagnone . Il diavolo vi si era rifugiato ma l‟Angelo, dopo averlo colpito con la sua spada, lo ha fatto precipitare in un burrone e la montagna è rimasta macchiata del suo sangue. 66 Ricordo ROSMUNDA : E‟ vero l‟ho udito anch‟io, ma mi è stato riferito che in quella grotta è apparso anche Gesù Cristo, il figlio di Dio e nostro salvatore. Il diavolo voleva insidiarlo, ma l‟Angelo non lo permise e lo precipitò dalla rupe. Ecco perché gli abitanti di questi luoghi chiamano questa caverna la grotta del Salvatore e hanno situato in essa i simulacri di Cristo Salvatore e dell‟Arcangelo Michele. GRIMOALDO : Cristo è apparso anche in un‟altra grotta, a Gauro. Egli è veramente il figlio di Dio venuto a salvarci dal demonio e dal peccato . Per questo il re dei longobardi Ariperto fece costruire una chiesa a Cristo Salvatore subito fuori le mura di Pavia, la nostra capitale.. TEODOLINDA : Ringraziamo Dio e l‟Angelo Michele per averci protetto nel primo giorno di cammino e andiamo a riposare. ( I pellegrini si recano sotto la tettoia e si stendono sulla paglia.) 67 Filomeno Moscati SCENA SECONDA ( E‟ l‟alba. La scena s‟illumina lentamente per il sorgere del sole. I pellegrini abbandonano i loro giacigli e si riuniscono davanti alla croce). GRIMOALDO : Il fiume è poco lontano. Lì, prima di attraversare il ponte, ci laveremo , ma prima di riprendere il nostro cammino invochiamo la protezione di Dio. ( I pellegrini fanno il segno della croce e recitano il Pater Noster. Quasi alla fine della recita entra una piccola processione guidata da un prete. Quattro uomini portano la statua dell‟Angelo Michele e, dietro la statua, segue una piccola processione di uomini e donne.) PRETE: In questo luogo si fermano ogni giorno i pellegrini che si recano alla grotta dell‟Angelo del Gargano per implorare qualche grazia o per adempiere un voto. Non è cristiano lasciare questi poveri pellegrini all‟adiaccio nelle notti umide e fredde di questi luoghi. L‟Angelo mi è apparso in sogno e ha ordinato che proprio qui si costruisca una cappella intitolata a lui. I pellegrini, che vengono da Salerno e Nuceria percorrendo la grande via antica, sono costretti a fermarsi qui, dopo una giornata di cammino, per poter prendere, il giorno dopo, la via della Mezza Costa che porta alla Piana del Dragone. Essi sono obbligati a fermarsi qui perché in questo punto il fiume è più stretto e c‟è, alle Corticelle, un ponte di legno che permette di attraversarlo senza pericolo. In questo punto, per conforto e rifugio dei pellegrini del Gargano, costruiremo la chiesa e la chiameremo “S. Angelo ad peregrinos”e, ogni cinque anni, vi faremo rappresentare la vittoria dell‟Arcangelo contro gli angeli ribelli, come la Bibbia ci ha tramandato. 68 Ricordo TUTTI: Con l‟aiuto di Cristo Salvatore e dell‟Angelo Michele lo faremo. GRIMOALDO: I nostri voti sono stati esauditi. Ringraziamo Dio e l‟Angelo Michele e promettiamo di venire di nuovo in questo luogo per assistere alla prima rappresentazione della vittoria dell‟Angelo sul diavolo. (Pellegrini e paesani lasciano lentamente la scena cantando l‟inno a S .Michele) Fine del primo atto 69 Filomeno Moscati ATTO SECONDO SCENA PRIMA Il concilio dei demoni ( La scena è quella dell‟ atto primo ma, al centro di essa, al posto della tettoia di paglia v‟è una cappella con la facciata identica a quella della chiesa di S. Michele Arcangelo crollata nel terremoto del 1980. Sotto la statua di S. Michele, sita sopra il portale, c‟è la scritta : S. ANGELO AD PEREGRINOS. Davanti ad essa si svolge la sacra rappresentazione. Ai lati della chiesa vi sono delle case e, davanti ad esse, delle panche su cui sono seduti alcuni spettatori e alcuni pellegrini del primo atto. La scena della rappresentazione è costituita da una grande caverna con fiamme che si intravedono da tutti i lati. Sul fondo della caverna è situato un trono. La scena è vuota. Entra Lucifero seguito da un diavolo, Farfarello, e si va a sedere sul trono.) LUCIFERO: Grande è la mia pena e insopportabile il dolore. Un‟altra chiesa è stata costruita e dedicata al nostro grande nemico, Michele. Non gli basta, per tenere fede al suo Dio, averci cacciato dal Paradiso e averci confinato in questo antro infernale. Non molto tempo è passato da quando, avendomi cacciato anche dalla grotta del Salvatore, sul monte Terminio, mi precipitò giù dalla rupe con tanta violenza che la montagna è ancora rossa del mio sangue. Questa chiesa accresce il mio rancore e fomenta la mia ira, perché rende più facile e sicuro il cammino dei pellegrini che si recano al suo santuario del Gargano e li sottrae al mio potere. Essi ritornano alle loro case rafforzati nella fede e nell‟amore di Dio, che, cingendoli come impenetrabili 70 Ricordo corazze, li sottraggono al mio influsso rendendo vana ogni mia opera. Le forze infernali non possono accettare supinamente un sopruso che rende vana ogni nostra fatica. Bisogna opporsi in tutti i modi, lottando contro Dio, contro Michele suo capitano e contro gli uomini, mettendo in atto ogni violenza, ogni inganno, ogni astuzia capace di sottrarre le anime al loro destino celeste facendole precipitare negli abissi infernali, fra lacrime e stridor di denti. Per essere pronti a questa lotta decisiva, e per studiare tutti i mezzi atti ad opporci al nostro odiato nemico, io voglio radunare attorno a me tutti i miei fidi. Perciò, mio fedele Farfarello, fa risuonare attraverso gli antri d‟Averno l‟eco della tartarea tromba, perché risvegli nei cuori dei miei seguaci l‟odio assopito e raduni attorno a me la schiera dei miei valorosi capitani e io possa, da essi, attingere aiuto e consiglio. FARFARELLO: Eseguo il tuo ordine all‟istante. (Soffia più volte in una conchiglia –o altro strumento idoneoda cui scaturisce un suono lungo e cupo. Dopo pochi istanti cominciano ad arrivare, uno ad uno, i diavoli, che si pongono accanto al trono così da formare come un semicerchio. Per primo entra Belfagor, impugnando un nero vessillo triangolare su cui è raffigurato un teschio.) BELFAGOR: Eccomi, pronto ad eseguire i tuoi ordini, o signore delle tenebre. Io impugno il vessillo di guerra e qui lo pianto. (si pone al fianco di Lucifero e infigge nel suolo l‟asta del vessillo.) ( Entra in scena Malacoda) MALACODA : Sono accorso al tuo richiamo, o signore degli abissi. Sotto il tuo comando ancor potente è Lete! ( Entra in scena Libicocco ) LIBICOCCO: Il suono del corno mi ha riempito di gioia. Comandami, signore, e ti ubbidirò. 71 Filomeno Moscati ( Entra in scena Graffiacane. ) GRAFFIACANE: Sono pronto ai tuoi comandi, signore dell‟Averno. Al tuo ordine morderò, come un cane arrabbiato, il mondo intero. ( Entra in scena Ciriatto. ) CIRIATTO: Il richiamo della tromba infernale mi ha riempito di gioia. Eccomi, o mio signore, per combattere, sotto il tuo comando, contro il cielo e la terra. ( Entra in scena Calcabrina. ) CALCABRINA: A te vengo, signore possente, al richiamo del corno infernale, per combattere al tuo fianco. ( Entra in scena Rubicante.) RUBICANTE: Sono pronto ai tuoi comandi, o signore degli spiriti infernali. ( Entra in scena Aletto. ) ALETTO: Rapido come la folgore a te volai, o mio padrone, al rauco suono della infernal diana. Comanda e ti ubbidirò. ( Entrano in scena Cagnazzo e Cerbero. ) CAGNAZZO: Al tuo richiamo accorsi, o imperatore degli eterni abissi, per cancellare, combattendo al tuo fianco, l‟onta delle passate sconfitte. CERBERO: Custode fedele delle porte infernali io fui, sono e sarò. Ai miei latrati trema l‟inferno tutto e, con me custode, sicuro è il tuo regno e nessuno potrà sottrarsi ad esso, o mio signore. Di questo sii certo! LUCIFERO: Vi ringrazio, miei fedeli condottieri, per essere accorsi con tanta premura al mio richiamo. E‟ ormai tempo che raduniate le vostre schiere per guidarle , al mio segnale, contro il signore del cielo e sconfiggerlo, finalmente, assieme al suo odiato capitano, Michele. 72 Ricordo Voi, numi delle tenebre, siete assai più degni di risiedere al di sopra del sole, negli eterei cieli in cui fu posta l‟origine vostra e da cui cacciati foste per un orribil caso. Grande fu l‟impresa che allora intraprendemmo e superbo il tentativo. Per questo colui che regge a suo voler le stelle ci giudicò anime ribelli e ci precipitò in questo fetido e orribile luogo e, invece di contemplare i cieli sereni e puri, l‟aureo caldo sole e l‟etere limpido e stellato, siamo qui rinchiusi nell‟abisso oscuro. Ma, ciò che più mi ferisce e mi addolora, è che Egli ci ha privato di quell‟onore di cui godemmo un dì e ha chiamato ad occupare i nostri seggi, nell‟alto dei cieli, gli uomini, i discendenti di un essere nato dal fango, la più umile e vile di tutte le materie. TUTTI I DIAVOLI: ( urlano, si agitano e mostrano la loro rabbia alzando i pugni contro il cielo. ) Non siamo ancora vinti, o re degli abissi e delle tenebre. Non ancora piegato è il nostro orgoglio, né placati l‟odio e la rabbia. Guerra invochiamo contro i nemici celesti e rovina per Michele, capitano del cielo, e per i suoi seguaci. LUCIFERO: Sono lieto di vedervi pronti alla guerra e alla vittoria. Ma, per far sì che ancor più grande sia l‟odio, più deciso il volere, più forte e violenta l‟azione, non voglio a voi ricordare le sconfitte subite. Richiamerò, invece, alle vostre menti che il Signore del Cielo, per arrecarci più danno e maggiormente accrescere le nostre pene, diede in preda alla morte suo figlio per la salvezza degli uomini e Cristo Salvatore discese all‟inferno, ne ruppe le porte, per portarne via con sé le anime che erano state a noi donate in sorte, schernendo le insegne dell‟inferno vinto. Egli ora progetta di trarre al suo culto tutte le umane genti. Dunque d‟uopo è combattere con tutte le nostre forze e mettere in opera tutte le astuzie per sconfiggere il Re dei cieli e l‟esercito degli 73 Filomeno Moscati angeli fedeli, guidati dall‟esecrato loro capitano, l‟invitto Michele. Ma per rendere più efficace la nostra lotta, più dannosi i suoi effetti, più deleteri e nocivi per gli uomini i suoi risultati, e più certa e sicura la vittoria, è necessario unire le nostre forze per dirigerle verso quest‟unico scopo, sconfiggere Dio e assoggettare gli uomini. Vi ho perciò riuniti intorno a me perché, conoscendo i vostri intenti, io possa meglio guidarvi concordando l‟azione. Parlate dunque e svelate a me, vostro signore e duce, quello che intendete fare. MALACODA: Con le mie schiere invaderò la terra, seminando la menzogna, propagando la calunnia, rafforzandola e ingigantendola fino a provocare la discordia e la guerra fra gli uomini. CAGNAZZO e GRAFFIACANE: Le schiere da noi guidate riempiranno i cuori degli uomini di tanta furia e di tanto furore che essi saranno costretti ad azzannarsi fra loro come lupi. CIRIATTO: Noi aizzeremo i piaceri della carne e, con la lussuria, indurremo gli uomini a vivere come porci e a rinunciare alla gioia del cielo in cambio dei piaceri della terra. LIBICOCCO E CALCABRINA: Noi, come il vento, percorreremo la terra suscitandovi tempeste che arrecheranno agli uomini morte e sventura, così che essi siano costretti a maledire il cielo e il Dio che li ha creati. DRAGHIGNAZZO: Io, con le mie schiere, farò tremare la terra, che, come la bocca di un drago, vomiterà fuoco da ogni parte e, recando dappertutto morte e terrore, farò sì che gli uomini temano l‟inferno e maledicano il cielo. ALETTO: Mio signore, volerò per il mondo, assai più veloce della luce, trasmettendo i tuoi ordini alle schiere infernali 74 Ricordo e diffonderò per il mondo le notizie più false, le nuove più mendaci, così che gli uomini, aizzati dall‟odio da esse causato, da nostri nemici si trasformino in nostri alleati. BELFAGOR: Io, che sono l‟arcidiavolo, sotto il tuo alto comando guiderò le tue schiere perché diffondano nel mondo ogni sorta di peccato, che è per gli uomini causa di distruzione del corpo e di morte dell‟anima. LUCIFERO: Andiamo, dunque, miei prodi! Combattiamo con coraggio e la vittoria sarà nostra. Incominceremo la nostra battaglia partendo dalla località detta “Ad Peregrinos” inducendo al peccato i suoi abitanti e arrecando loro la morte e la distruzione dell‟anima e del corpo.( I diavoli, dopo aver salutato il loro capo, si allontanano fra invettive e minacce ) Fine del secondo atto 75 Filomeno Moscati ATTO TERZO SCENA PRIMA La vittoria di Michele La scena è la piazza della località “Ad Peregrinos “ con la chiesa di “S. Angelo ad peregrinos” fiancheggiata dalle case. In questa piazza si radunano, alla spicciolata i diavoli. Ultimo giunge Lucifero. LUCIFERO: Esultate miei valorosi capitani e intrepidi soldati. E‟ giunto il momento tanto agognato! Da questo luogo, dedicato all‟odiato nostro nemico Michele, stiamo per muovere alla conquista del mondo intero e, dopo averne assoggettato gli abitanti con il peccato, iniziare la scalata verso il cielo per riconquistare quel posto che ci compete, in virtù della nostra angelica natura, e per cacciarne quel dio che ordinò al suo capitano, Michele, e alle schiere degli angeli da lui guidate, di confinarci nelle eterne tenebre degli abissi infernali fra pene e dolori infiniti. Da questo luogo, asilo di pellegrini, parte la nostra rivincita su Dio e sugli uomini, suoi prediletti. Uno solo è il nostro scopo, cacciarli dal paradiso, unico il fine, conquistare la terra e divenire padroni del cielo dove, da voi circondato, io mi assiderò su quel trono che a me, ed a me solo spetta, e voi su quei seggi che vi furono assegnati fin dall‟inizio dei tempi. Di là domineremo il mondo, regolando il moto degli astri, il percorso e il calore del sole, il corso e lo splendore della luna, e, divenuti signori dell‟universo, comanderemo su tutte le cose che lo compongono, animate e inanimate. Orsù dunque miei prodi, sicuri della vittoria partiamo alla conquista del cielo. TUTTI I DIAVOLI : (si agitano disordinatamente, saltando, lanciando invettive contro Dio e contro il cielo e gridando) 76 Ricordo A noi spetta la gloria del cielo! Ai seguaci di Lucifero il dominio del mondo! Viva Satana, re dell‟universo! Evviva Satana, ribellione, forza vindice della ragione! ( A questo punto un raggio di luce illumina la statua di S. Michele, sul portale della chiesa, che lentamente si sposta fino a scomparire e, al suo posto, compare l‟immagine vivente dell‟arcangelo, che, con voce tonante, apostrofa gli angeli ribelli.) ARCANGELO MICHELE : Alto là, Satana, voi dèmoni a Dio ribelli e voi uomini seguaci del male, che, superbi per essere stati creati ad immagine e somiglianza di Dio, credete di poter spiegare e dominare l‟universo con la sola forza di quella ragione che vi contraddistingue, ma che è vostra sol perché vi fu donata da Dio. Tu, Lucifero, serpente maledetto, che fingi di aver dimenticato il motto impresso sul mio scudo, ”Quis ut Deus”, Chi come Dio, subirai, proprio per volontà di colui che ci ha creato, gli effetti della mia ira e i colpi della mia spada. Essa, resa forte ed invincibile dal nostro comune Signore, si abbatterà come folgore sul capo tuo e su quello dei tuoi seguaci per ricacciarvi nelle tenebre donde fuggiste. E‟ infatti scritto nel santo libro che le forze del male non vinceranno su quelle del bene, “et porta inferi non prevalebunt”, e le forze dell‟inferno non prevarranno! Nel tuo smisurato orgoglio, nella tua sconfinata superbia, hai dimenticato che Egli ha stabilito che “Quando il Figlio dell‟uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a Lui tutte le genti Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua 77 Filomeno Moscati destra e i capri alla sua sinistra.”45 E a quelli posti alla sua sinistra dirà: “Via lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi seguaci….”46 “perché non comprendete il mio linguaggio e non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo,e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non vi è verità in lui, perché è menzognero e padre della menzogna”.”47 Tu hai indotto gli uomini a distorcere la propria natura, rendendoli maestri di ogni iniquità, perversione, cupidigia e malizia. Tu li hai resi invidiosi, omicidi, fomentatori di discordia, esperti in ogni frode e malignità. Per opera tua essi sono diventati calunniatori, maldicenti, arroganti, altezzosi, millantatori, inventori di male, ribelli ai loro genitori, privi di senno, di affetto, di lealtà, di misericordia, e odiatori di Dio, così che, pur conoscendo il giudizio di Dio, che condanna alla morte eterna chi commette tali cose, essi non solo le fanno ma approvano persino chi le fa, come se fossero privi di quella ragione di cui Dio li ha fatti partecipi e che li rende tanto simili e vicini a lui. Per queste orrende cose tu sei stato giudicato, e i tuoi seguaci con te, e sarai confinato per l‟eternità, tra lacrime e dolori, nelle più oscure latèbre dei profondi abissi, ove altro non c‟è che pianto e dolore L‟onnipotente Iddio ha stabilito che ognuno sia giudicato secondo le sue opere e tu, o Satana, serpente maledetto, pensi forse di sfuggire al giudizio di Dio? Tu sei stato giudicato per le tue azioni perverse, per la tua ribellione a Dio e alla verità, per la tua ostinatezza nel 45 Matteo, 25, 31-34. Matteo, 25, 41; 47 Giovanni, 8, 44 46 78 Ricordo praticare il male, per la tua fede nell‟iniquità, sei stato posto alla sinistra di Dio e condannato alla dannazione eterna. Per questo, mandato da Dio, io sono venuto, con la miriade degli angeli fedeli, perché sia compiuta la punizione stabilita. Ritorna dunque nella tua tana, dragone fetido e immondo. Ritorna negli abissi profondi dell‟Averno, da cui fuggisti e dove sei stato condannato a rimanere per sempre! (L‟arcangelo colpisce Lucifero con la sua spada e il diavolo scompare, con i suoi seguaci, tra fumi e vapori. Poi, rivolto a tutti, l‟angelo prosegue dicendo:) Sul mio scudo è scritto un motto: Quis ut Deus, Chi come Dio. Lucifero, che aveva osato porsi alla pari e anzi al di sopra di Dio, è stato punito per la sua superbia! Guai a coloro che, spinti da un orgoglio smisurato, commetteranno lo stesso peccato, perché ad essi è riservata la stessa punizione e saranno precipitati nella Geenna eterna dove ci sono solo lacrime e stridor di denti FINE 79 Filomeno Moscati Chiesa di San Michele Arcangelo distrutta dal sisma del 23 novembre 1980 80 Ricordo VI Il tramonto della civiltà contadina Il trentennio che va dal 1950 al 1980 fu per San Michele di Serino un trentennio di grandi e nello stesso tempo vistose trasformazioni, che mutarono la vita e l‟aspetto del paese, legato, nella prima metà del secolo XX, ad un‟economia prevalentemente agricola, una vita e un aspetto che spesso mi ritornano alla mente. Ricordo, nelle giornate soleggiate antecedenti il Natale, la potatura delle viti con i contadini sui loro treppiedi di legno (tribbiti), un‟epoca e un‟opera immortalate in un proverbio contadino che così le descrive : “Viata chella puta ca pe‟ Natale si trova fernuta”; e , nei mesi invernali, i compratori di broccoli fermi ai bordi delle strade di campagna, con le loro carrette e i loro “traìni”, in attesa che le contadine chine sulle zolle li raccogliessero con movimenti rapidi ed esperti, legandoli con flessibili salici in 81 Filomeno Moscati mazzi, che, potendo essere contenuti nel palmo d una mano, erano designati come “‟na mano „e ruoccoli”.Ricordo, a primavera, il periodo della semina delle patate, con le donne intente a spaccare, con mano sapiente, le patate appositamente scelte a questo scopo e gli uomini, che, con la zappa dalla lama lucente, tracciavano solchi diritti e profondi; e, d‟estate, la raccolta delle ciliege, con scale lunghe e strette, e il loro commercio che animava la vita di questo paese, facendolo, dalla fine di maggio alla fine di luglio, pullulare di autocarri e traini venuti a farne incetta; e, a giugno, la mietitura del grano con la falce e il trasporto dei covoni sulle aie, a formarvi biche (casazze) da sorvegliare di notte, con il fucile accanto, al solo sospetto che qualcuno potesse rubare quel bene prezioso per la sopravvivenza della famiglia, come mi ha spesso ricordato Alessandro Potenza (Sandrino), fratello del mio 82 Ricordo fraterno amico d‟infanzia Antonio, detto tizzone per il suo colorito scuro, col quale scambiavo perfino i vestiti; e, a settembre, la raccolta delle patate scavate con la zappa, e, sul calar del sole, il canto sottovoce dei “campaciani” che diceva: E‟ fatto notte e lu padrone abbotta, rice ch‟è stata corta la iurnata; a S. Martino la vendemmia e la pigiatura delle uve , a piedi nudi, e l‟odore acre dei mosti che fermentavano nei tini, un odore immortalato in un proverbio che dice: A San Martino ogni musto addiventa vino; e, nei mesi di gran freddo, la sagra dei maiali, immolati al benessere familiare sul fondo di un gran secchio di legno. Un rito, quest‟ultimo, cui erano chiamati a partecipare anche i bambini , deputati a mantenere la coda dell‟animale.. Questo rito si concludeva con l‟offerta altrettanto rituale, ad amici e parenti, di un piatto ricco di carni suine, detto comunemente „o rato, un piatto di ritorno che assicurava, alle famiglie che lo ricevevano e lo restituivano, carne suina fresca per tutto l‟inverno. Anche questo rito era immortalato in un proverbio che dice: Crisci puorci ca ti ungi „o musso. Erano queste le opere e i giorni che, come ai tempi di Esiodo,48 scandivano la vita degli abitanti di San Michele di Serino all‟epoca della 48 Esiodo (VIII sec. a. C.) , Le opere e i giorni (‟έργα καί ήμέρα ) 83 Filomeno Moscati civiltà contadina. Di questa civiltà erano parte viva, come si è visto, anche i proverbi, che, con sentenze lapidarie, ne sottolineavano gli usi e i costumi, proverbi che scaturivano spontanei dalla mente acuta del contadino, il quale, proprio per questa sua dote, viene immortalato in un proverbio che lo definisce: “contadino, scarpa tronce (grossa) e cerviello fino”. La prova della formazione estemporanea dei proverbi l‟ebbi da un mio vicino di casa e carissimo amico, Domenico Covelluzzi, quando, all‟epoca dell‟introduzione dell‟ora legale, rispondendo a una mia domanda in merito, disse che per lui nulla sarebbe cambiato perché “si „o rilorgio esce paccio, „o sole nun si „mbriaca”, a significare che la sua giornata e il suo lavoro erano regolati esclusivamente sul corso del sole, proprio come al tempo di Esiodo. Mi sembra perciò opportuno riportare almeno alcuni dei mille proverbi che accompagnavano la vita quotidiana e il lavoro dei contadini di questo paese perché, essendo racchiusi in essi insieme alla saggezza il senso e il valore della loro antica civiltà, possano averne cognizione anche le generazioni future: Quanno scura a Solofrana fuitenne che panni mano ! (Quando il cielo di Solofra si oscura scappa svestito perché la pioggia è vicina); Frevaro, freve la terra ( Febbraio, ferve la terra) ; Frevaro, curtu e amaro; Frevaro, curto e male cavato ( Febbraio, corto e malandrino); Si marzo „ngrogna ti fa carè l‟ogna ( se marzo s‟ingrugna ti fa cadere le unghie): Si marzo „o vo fa „a vecchia fa scapillà (scompiglia i capelli). Aprile, ogni goccia nu varrile ( aprile ogni goccia un barile); 84 Ricordo Leune p‟aprile e pane pe‟ maggio (legna per aprile e pane per maggio);: Aprile non ti scoprire, a maggio vai adagio; San Vicienzo, gran freddura, san Lorenzo gran calura, l‟una e l‟auto pocu dura; Austo, spenna e arruste; A‟ prim‟acqua r‟austo vierno a‟ l‟uscio; „E muorte, „a neve pe‟ l‟uorte; A santa Luciella o acqua o nevicella; Natale co‟ sole e Pasqua co‟ cippone; „E fatica se n‟edda fa pocu, e chello pocu s‟edda fa fa a l‟ati ( di fatica se ne deve fare poca, e quel poco si deve farlo fare agli altri ); „A carne fa „a carne, „o vino fa „o sangu e „a fatica fa ghiettà „o sangu; Menesta,‟o cuorpo fa festa ma sempe riuno resta; „A cucozza comm‟a fai fai sempe cucozza è; Cappoccia e carne‟e (di) vaccina svergognano chi „e cucina; Noce,nociva, e „a nucella pur‟ella; „Nu maccarone vale ciento vermicielli; „A sarvia sarva; „A ruta ogni male stuta; „Nu milo „o iurno leva „o mierico ra tuorno; Catarro, vino co‟ carro; Chi mangia scarole mai more; „A meglio mericina, vino „e (di) campagna e purpette „e (di) cucina; „O ghianco (bianco) e „o russo traseno (entrano ) p‟o musso; Si vuò murì mangete l‟aglio e vattenne a durmì; Chi fila si veve l‟acqua e chi zappa si veve‟o vino; Fa chiù miracule o vino ca nu‟ pure (neppure) sant‟Antunino; 85 Filomeno Moscati Prune, ogni tanto una; Vino e maccaruni songo „a cura re‟ purmuni; Cu „e ficu l‟acqua e cu „e percoca „o vino; Pane cu l‟uocchie e casu (cacio) senz‟uochhie; Si vuò campà cient‟anni, broro „e (di) vacca, vino senz‟acqua e „na bella purchiacca49 (donna); Chi „mpasta assaie fa‟o pane buono; L‟uosso conza (condisce)„a menesta; „A „nzalata bona cunzata (condita), cu‟assai acito e poco oliata; Iallina vecchia fa buono broro; Pe‟ n‟ acino „e sale si perd‟ a menesta; Pesce „e n‟ora, pane „e nu iurno, vinu „e n‟anno e femmena „e vint‟anni; Acqua a‟ la fraveca (malta) e vino a‟ e fravecaturi (muratori); „A miricina ( medicina) t‟arruvina e „o vino ti fa cantà; Quanno „a vocca so pigglia (mangia) e „o culo „o renne (scorreggia) futtetenne (fregatene) ro mierico, re mericine e di chi „e venne; Quanno „o culo spiritea (scorreggia) „o mierico crepa; L‟acqua fa „nfracetà e bastimienti a mare; Pane fino a c‟abbasta, vino c‟a misura; N. d. A. E‟ vocabolo complesso, perché formato da due voci dell‟antica lingua greca, e significa buco di fuoco (πσρ,ος = fuoco, γύης οσ=cavità ) oppure derivante da πσρκαϊά = luogo dove si accende il fuoco. Il vocabolo, inventato da qualche persona dotta, è formato da due figure retoriche, la sineddoche, che indica una parte per il tutto, e la metafora che indica una cosa per significarne un‟altra con cui è in relazione, qui usate per individuare la donna attraverso il suo organo genitale. 86 49 Ricordo „O vino è „o latte re viecchie; Na tavula senza vinu è comm‟a „na iurnata „e vierno senz „o sole; Uommine „e vino dieci „a carrino; „ O vino è comm‟e vasi (baci), nu bicchiere sulo nun leva „a sete; Ogni carne mangia, ogni fungo fuggi; „A pulenta t‟abbotta e t‟allenta; Mangia soreve (sorbe) e nun farrai rumore; „A panza è comm‟a „na pellecchia chiù a igni e chiù si stennecchia; Saccu abbacante nun reie all‟erta; Chi „a fatica nu‟ l‟allenta ( lo stanca)„a fame nunn‟a sente; Com‟è „o mangià accussì è „o faticà; Si vuò sparagnà (risparmiare) ,leuna (legna)virdi e pane peruto (ammuffito), Nu furno „e pane male cuotto e „na votte „e vinu r‟acito nun finiscino mai; „O sazio nun crere a „o riuno; Chi a tiermpo si provere (rifornisce) a ora mangia; Oggi dell‟antica saggezza e delle antiche colture è rimasto ben poco. Scomparse, o ridotte al lumicino, sono le colture del ciliegio e della patata, una volta animatrici del commercio di questo paese e fonti di ricchezza per padroni, contadini, mediatori, insaccatori e portatori a spalla di sacchi di canapa ripieni di patate, mestieri oggi desueti. Scomparso è pure lo strano mestiere del cacciatore di talpe ( trappini ) che lasciava in giro, nei campi, la prova del suo lavoro appendendo le sue prede ai rami degli alberi, né è più possibile vedere il cacciatore, che, con la carcassa di un lupo o di una volpe messa di traverso sul dorso di un asino, percorreva le vie del paese per ricevere, 87 Filomeno Moscati dai contadini, un‟offerta in natura per aver salvato le loro pecore o i loro polli. Nella mia memoria l‟ultimo a farlo è stato mastro Ernesto Rodia, ottimo fabbro, celebre cacciatore, prim‟ommo e capofila del ballo della mascherata di Carnevale. Spariti del tutto sono anche gli asini, una volta preziosi e amati compagni della fatica del contadino, e, con loro, sono scomparsi i traìni, le trainelle e le stalle al centro del paese, soppiantati da automobili e autorimesse. Assieme agli asini sono scomparse anche le cavie, comunemente denominate suricirignoli, una specie di grosso roditore domestico dalla pelliccia bianca o pezzata, allevato nelle stalle assieme alle mucche, ai polli e agli altri animali domestici; e i fabbricanti di store, i comodissimi e capacissimi basti fatti coi tralci delle viti, che si rinnovavano ogni anno dopo la potatura; e, congiuntamente ai costruttori di store, 88 Ricordo sono spariti anche i secchiari, fabbricanti di secchi e bigonce di legno; i cestellari, fabbricanti di cesti, panieri e sporte, arnesi che sono stati sostituiti da recipienti di plastica molto meno costosi e assai più maneggevoli. Fra i mestieri scomparsi c‟e anche quello dei castratori di polli e di suini, comunemente appellati rastapurcelle. Unitamente a questi mestieri, legati direttamente alla presenza di un‟agricoltura florida, sono scomparse anche alcune botteghe artigiane, una volta sempre aperte perché fiorenti di vita e di lavoro, com‟erano quelle del sarto e del calzolaio, meta assidua di clienti e di bighelloni in cerca di novità e di pettegolezzi paesani. Al loro posto sono sortì negozi per la vendita di abiti e scarpe preconfezionati, le officine meccaniche, i laboratori per la riparazione di radio, televisioni e computer, e, in sostituzione delle piccole botteghe di alimentari, i supermercati. Il terremoto del 23 novembre 1980, quasi a contrassegnare il passaggio dall‟atavica e millenaria civiltà contadina alla moderna civiltà industrializzata, ha fatto sparire il vecchio casale per far sorgere, sulle sue rovine, un paese nuovo e diverso, e, da allora, come a segnalare il mutamento con cui la stessa natura accompagna la fine di un‟era millenaria, perfino le rondini, che una volta riempivano di voli i cieli del nostro paese e di nidi le ali dell‟aquila reale di palazzo Mariconda, sono sparite, e, con loro, è sparita l‟isola felice dell‟antico paese cantato da Mario Giliberti, che, per ricordarlo all‟uomo nuovo nato da quel passaggio epocale, lo descrisse come un piccolo: 89 Filomeno Moscati Mondo racchiuso da una siepe Col suo pezzo di cielo e una stella che vigila di notte. Uomo nuovo come ignori l‟isola felice.50 50 Filomeno Moscati, Mario Giliberti, poeta della natura, Ed. Comune di San Michele di Serino, novembre 2004, p.11. 90 Ricordo VII Il fiume Sabato L’ agonia di un fiume ricco di storia e di leggenda Il Salmon, uno dei massimi e fra i più attendibili studiosi della civiltà dei Sanniti, dopo aver constatato che il <<nome Sabato non appare nella letteratura antica >> prosegue affermando che <<tuttavia il popolo che abitava nella sua valle era chiamato dei Sabatini ed il nome moderno Sabato si è tramandato attraverso il Medioevo. Non c‟è quindi dubbio su quale dovesse essere l‟antico nome del fiume.>>51 Il nome Sabato ha come sillaba iniziale la radice indo-europea sabh. presente anche nel nome del dio Sabus di cui i Sanniti erano devoti e da cui sia essi che il fiume presero nome.52 Non è inutile perciò rilevare che Sabo era un antico Dio, venerato dai Sabini come progenitore della loro razza, e che esso ha la stessa radice di Sabazio, uno dei tanti soprannomi di Dioniso ( Bacco ) col quale, in origine, era venerato fra i monti della Tracia. << In quel paese ricco di folti boschi e di vallate profonde,>> scrive il Turchi, <<Sabatio era per eccellenza il dio della vegetazione selvaggia, che si compiaceva di attraversare in corsa sfrenata, tra l‟urlìo del vento, le secolari foreste.>>53 Ciò, al di là delle evidenti somiglianze ambientali, conferma l‟ipotesi che i Sabelli, progenitori dei Sanniti, sarebbero discendenti di un popolo di provenienza orientale, un popolo 51 E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1993, p. 45 e nota 47 a p. 31. 52 E, T. Salmon, idem, p. 156. 53 Decio Cinti, Dizionario mitologico, Editore Sonzogno, Milano 1998, p. 263. 91 Filomeno Moscati di guerrieri venuto d‟ oltremare, dall‟area egea, all‟epoca delle migrazioni dei popoli del mare54 che approdarono in Apulia, o sulle coste occidentali dell‟Italia, e parlavano una lingua indoeuropea, che diede poi luogo ai dialetti osco-sabellici parlati dai Sanniti55 e dalla tribù degli Hirpini, che, col nome di Sabatini, abitavano le due sponde del fiume Sabato.56 Il nome del fiume Sabato, secondo Francesco Scandone, non deriverebbe da quello di un dio, ma dalla stessa <<corrente del fiume, che per la sua natura torrentizia, fu detto Sabato, dalla radice “saba” – arena, limo.57 Entrambe le ipotesi possono essere ritenute valide, perché in entrambe c‟è un fondo di verità, ma, quale che sia questa verità, esse comprovano l‟antichità del nome del fiume, un nome antichissimo, risalente all‟epoca in cui le sue sponde erano abitate da una delle quattro tribù che componevano il popolo sannita, la tribù degli Irpini. L‟importanza di questo fiume per la vita e per la storia delle popolazioni che abitarono sulle sue sponde, e in particolare per gli abitanti dell‟Alta Valle del Sabato, è stata enorme fin dall‟antichità, com‟è dimostrato dal fatto che le sue sorgenti, per la purezza e l‟abbondanza delle sue acque, fin dall‟epoca romana furono oggetto di captazione 54 M. Cary, H. H. Scullard, Storia di Roma, Editrice Il Mulino, Bologna 1996, p. 28. 55 M. Cary, H. H. Scullard, idem, p. 28. 56 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 23. 57 Francesco Scandone, Documenti per la storia dei Comuni dell‟Irpinia, Amministrazione provinciale di Avellino MCMLVI, Vol. I p. 2. 92 Ricordo per l‟alimentazione di acquedotti rimasti famosi nella storia, come l‟Acquedotto sannitico, di epoca repubblicana, e come quello di epoca imperiale fatto costruire da Augusto 58 per rifornire d‟acqua la flotta che aveva il suo porto a Capo Miseno. L‟evento è provato dal ritrovamento di un‟epigrafe lapidea proprio presso le sorgenti Acquara, nel 1938, durante i lavori di captazione di queste sorgenti per l‟alimentazione di un altro importantissimo acquedotto, il moderno acquedotto di Napoli detto impropriamente Acquedotto del Serino.59 L‟esistenza di questi antichi acquedotti è concretamente comprovata da reperti archeologici, costituiti da antiche arcate e gallerie che contrassegnano tutto il loro percorso dalle sorgenti fino a Benevento , per quello sannitico, e fino a Miseno per quello augusteo. A questo fiume, e soprattutto al suo nome, sono legati episodi e vicende che più che il sapore della storia hanno quello della leggenda, come quello relativo all‟esistenza di una mitica città, Sabazia, da cui avrebbero preso origine non solo i diversi casali di Serino ma la stessa Avellino. Il primo a parlare di questa città, di cui non vi è traccia in nessuno degli autori antichi, fu, nel secolo XVII, il Cluverio con queste parole: << Dei fiumi che partendo dal territorio degli Irpini si riversano nel Volturno il primo è il fiume Sabatus, ora volgarmente detto Sabato. Questo fiume aveva questo nome da tempi così antichi che da esso ha preso nome la popolazione detta dei Sabatini..... Italo Sgobbo, L‟acquedotto romano della Campania, Fontis Augustei Aquaeductus, in Notizie degli scavi, 16 ( 1938), p.75 e seg.. 59 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005, pp. 362 e seg.. 93 58 Filomeno Moscati Sembra poi che ci fosse un luogo fortificato presso il fiume, di nome Sabazia, da cui i suoi abitanti hanno preso il nome di Sabatini. In quali luoghi essi stessero è cosa incerta. Si crede tuttavia che questo luogo si trovasse fra due località fortificate che volgarmente vengono chiamate Terranova e Prata.>>60 Sulle sue orme si pose il Bella Bona, che, come il Cluverio, ritiene che “Sabatia” sia stata fondata da un mitico progenitore di nome Sabatio, un pronipote di Noé sopravvissuto al diluvio universale, il quale, giunto in Italia a seguito di una migrazione, << dando inizio all‟edifici nelli Irpini, impose il suo nome alla città>> e << chiamolla Sabatia.....al fiume similmente che nasce da quella città impose il suo nome chiamandolo Sabato e fin‟ora lo ritiene. Si riconosce al presente non solo il fiume col nome Sabato e tale si nomina, ma ancora la città Sabatia nelle sue ruine, sita appunto nella valle fra i monti di Serino nel luogo detto Ogliara, parte dei suoi vestigi fin hora appare, volgarmente ne vengono chiamati Civita; li suoi cittadini Sabatini.>>61 Il Pionati attribuisce invece la fondazione della mitica città ai Troiani, che giunsero in Italia in compagnia di Enea dopo la caduta di Troia.62 60 Philip Cluveri, Italia Antiqua, IV, p. 1205, <<Fluviorum qui ex Hirpinis in Volturnum deflunt, primus est Sabatus amnis, vulgo nunc Sabato dictus. Hunc iam ab antiquis temporibus id habuisse nomen, quod populos ab eo nominat Sabatinos.... Videtur igitur oppidum fuisse apud fluvium, nomen Sabatium, unde oppidanos nominant sabatinos. 61 Scipione Bella Bona, Ragguagli della città di Avellino, per Lorenzo Valeri, Trani 1656, pp.6, 5. 62 Serafino Pionati, Storia di Avellino, Avellino 1829. 94 Ricordo I dubbi sull‟esistenza di questa città, scaturenti dall‟assenza di qualsiasi riferimento ad essa negli autori antichi, vengono rafforzati ancora di più dalla descrizione della sua distruzione fatta da diversi autori, tutti in contrasto fra loro, giacché alcuni la vogliono distrutta da Annibale e altri al contrario dai Romani, al tempo della seconda guerra punica (218-202 a. C.). Altri ancora la vogliono distrutta da Silla al tempo della guerra sociale ( 89 a, C.) ma è assai strano che, ancora una volta, nessun riferimento sia stato fatto, ad un avvenimento di tale importanza, dagli autori delle antiche storie, fra cui Tito Livio e, soprattutto, da Appiano, che ci ha tramandato le vicende di quel periodo, compresa la distruzione di Eclano, l‟odierna Mirabella, avvenuta per opera di Silla.63 Interessante risulta la descrizione della distruzione di Sabazia, fatta senza nessun riscontro certo da Scipione Bella Bona nel secolo XVII, perché da essa hanno preso origine le leggende e le poesie, fiorite nei secoli successivi, sulla mitica città. Il Bella Bona ammette infatti che << da chi ella fosse stata distrutta, ed in che tempo, non è pervenuta ancora notizia, >> ma, dopo questa grave ammissione che inficia ogni racconto successivo, egli prosegue affermando con certezza che << fu la sua destruzione prima del tempo di salute,>> cioè prima della nascita di Cristo, <<essendone dalle sue genti edificato Serino, >> che <<fu ed è disposto in diverse contrade non si sa se per pena imposta dalli distruttori di non poter fare l‟habitatori unito corpo di popoli, o pure, perché così lor piacque, per aver maggiore occasione di fuga in tempo d‟assalti, e l‟assalitori 63 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta di Fisciano (SA) 2005, p.117. 95 Filomeno Moscati non vedendoli fra mura ristretti, liberi gli lasciassero>> e, infine, proprio per l‟assoluta mancanza di notizie sulla sua distruzione, conclude asserendo che << molte di dette contrade hanno gli lor principi doppo il tempo di salute.>>64 Una descrizione fantasiosa che contraddice la storia, che, basandosi sulle notizie circa l‟abitazione vicatim tipica dei Sanniti, fornite da Tito Livio , Strabone e Festo, 65 e su reperti archeologici di tombe sannitiche rinvenute su entrambe le sponde del fiume Sabato66 nelle vicinanze di casali tuttora esistenti, vuole invece che la maggior parte dei villaggi che compongono l‟attuale Serino sia di origine sannitica, come sostiene anche Filippo Masucci. 67 La fantasiosa narrazione del Bella Bona, oltre a dare lo spunto alle numerose e antistoriche narrazioni successive, ha stimolato anche l‟estro dei poeti, che, ispirandosi a una delle diverse ipotesi avanzate sulla mitica città, sono anch‟essi in contrasto fra loro, come Nicola Amenta, che, dopo aver fatto una descrizione quasi perfetta della cinta muraria del castro di Civita Ogliara, la vuole distrutta dai Cartaginesi, giacché così la rievoca nei suoi versi: 64 Scipione Bella Bona, Ragguagli della città di Avellino, per Lorenzo Valeri, Trani 1656, pp. 6, 5 65 Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 17, 2; IX, 13, 7; IX, 14; Strabone, Geografia, V, 4, 12; Festo, 1, 502, 508; 66 Giampiero Galasso, L‟Irpinia nell‟antichità e nel Medioevo, in Irpinia, rivista culturale, Antonio Schiavo Editore, Ariano Irpino, n° 1, Gennaio-Marzo 1986. 67 Filippo Masucci, Serino nell‟Età antica, Tipografia Pergola Editrice, Avellino1959 96 Ricordo << E tornando dove io feci dimora V‟è Sabatia città dal fiume detta Ch‟anco distrutta il bel paese onora Fu di rotondità quasi perfetta Come mostrano le forti antiche mura Rovinate dal tempo e da vendetta ........................................................ E quanti d‟Annibale fur sotto i segni Strusser Sabatia ai nostri o per flagello O per ragion pessima di Stato. ....di Serino per questo oggi lo Stato sta disunito in ventidue casali che si veggon per lungo spazio e lato.68 Una descrizione diversa e contrastante ne fa invece il poeta Domenico Giella, che, dopo aver cantato le sue origini ancestrali e preistoriche, la vuole invece distrutta dai Romani, come si evince dai versi seguenti: <<Là dove fischia la procella e stride il vento, e si riversa ampia la piova, Surse Sabazia un di, Sabazia antica, prima città della Iapigia gente, e primo ceppo oriental di nostra inclita schiatta............................. Il superbo Roman....................... Rase le mura e le reliquie estreme Fur divise per paghi e per casali.69 Filippo Masucci, Serino nell‟Età antica, Tipografia Pergola, Avellino 1959, pp. 80,81 69 Filippo Masucci, idem, pp. 81,82. 97 68 Filomeno Moscati Malgrado le leggende e le poesie, fiorite dopo la fantasiosa narrazione del Bella Bona, l‟assenza assoluta di notizie credibili sull‟origine della città, le divergenze sul luogo del suo insediamento, sul tempo e sul modo della sua distruzione, la mancanza di reperti archeologici attendibili, ha ingenerato in alcuni studiosi un dubbio così forte da indurli a negare decisamente l‟esistenza stessa della mitica città. E‟ questo il caso di Francesco Scandone, che nega l‟esistenza in Civita Ogliara non solo di una città di epoca antichissima e di nome Sabatia , ma anche quella di una città di epoca romana, Lo Scandone ritiene infatti che <<gli eruditi dopo la congettura del Cluverio la chiamarono Civita e la battezzarono col pomposo nome, che non poté esistere, di Sabatia. Dagli eruditi questa falsa credenza è ora discesa nel popolo- >>70 Scandone va anzi oltre, per spiegarci come, quando e perché siano sorte le mura e le torri che ancora oggi si vedono in Civita Ogliara. Egli afferma infatti che << nell‟839, scoppiata la guerra civile nel principato di Benevento fra i due principi Siconolfo e Radelchi, vi fu un bisogno da una parte e dall‟altra di rafforzarsi per l‟offesa e la difesa......per impedire l‟avanzarsi di un esercito nemico che da Salerno, per la valle del Picentino, avrebbe potuto invadere quella del Sabato, fu costruito in quel luogo un forte di sbarramento che chiudeva il punto più angusto di quella valle..... Come fortezza di confine quel recinto poteva avere un valore, >> ma, << dopo che con la conquista normanna caddero le barriere....... quella fortezza non desiderata né abitata da alcun feudatario, mancandovi più che in altre le comodità di abitazione, >>71 fu abbandonata. 70 71 Francesco Scandone, Alto Calore, Vol. I, p.138. Francesco Scandone, idem, p. 28 e seg. 98 Ricordo L‟ipotesi dello Scandone è stata confermata da vari archeologi e studiosi che si sono interessati delle mura e delle torri di Civita Ogliara, come Woolley, Schmiedt, Johannowski, Tabaczinska, Huguette Taviani Carozzi e Pasquale Natella, i quali tutti hanno affermato che le mura e le torri di Civita Ogliara appartengono all‟epoca medievale e al periodo longobardo, con l‟esclusione del solo Woolley, che le attribuisce all‟inizio del Medioevo e al tempo di Alarico ( 410 d. C. ). Particolarmente pregnante in proposito è quanto scrive Pasquale Natella, il quale, parlando di castelli e di antichi luoghi fortificati così si esprime circa la cinta muraria di Civita Ogliara, dal popolo comunemente indicata come Mura della Civita o Sabazia. Egli dice: << Del tardo antico e dell‟alto Medioevo rimangono pochissime vestigia, anche se spesso negli studi continuano qua e là false attribuzioni ad età romana di cinte murarie. E‟ il caso, in Serino, su di un pianoro verso il Terminio, della Civita Ogliara, che dalla fine dell‟Ottocento fin quasi ai giorni nostri si credeva fosse opera di legioni romane o di popolazioni locali di periodo protobizantino od ostrogoto. Impostato su di un precedente insediamento protostorico il recinto è, al contrario, collegato alla presenza longobarda e per il suo andamento planimetrico strutturale – cortine innalzate con ciottoli di fiume, torri quadrate del tipo delle beneventane e del castello di Salerno, vale a dire con materiale di spoglio – fu da me avvicinato al castrum longobardo di Castelseprio in Lombardia.>>72 72 Pasquale Natella, I Castelli, in Storia Illustrata di Avellino e dell‟Irpinia, Vol. III, L‟età Moderna, Sellino e Barra Editori, Pratola Serra (AV) 1996, p.33. 99 Filomeno Moscati Le mura della Civita non erano, perciò, le mura di una città mitica, ma quelle di un castrum o castello, costruito con materiali trovati sul posto, così come afferma Pasquale Natella, e messo a guardia della strada che dalla piana di Battipaglia conduceva alla piana di Serino, al tempo della guerra tra Radelchi e Siconolfo durata ben dieci anni (838-848).73 L‟importanza del fiume per l‟economia e per la storia dell‟Alta Valle del Sabato si conferma anche nel tardo Medioevo, quando, col progressivo affermarsi della tecnologia , sorsero sulle sue sponde i primi opifici industriali, ferriere per la lavorazione del ferro e ramiere per 73 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta di Ftsciano (SA) 2005, p. 123. 100 Ricordo quella del rame, e, contemporaneamente al sorgere di questi opifici, fiorì l‟artigianato del ferro con la fabbricazione di chiodi particolarmente rinomati, richiesti ed esportati anche fuori della Campania. La caratteristica più importante di questo periodo è, però, il sorgere, lungo le sponde del fiume, di mulini che sfruttavano l‟energia delle sue acque per far girare le mole, mulini che divennero la tappa obbligata dei trasportatori di grano provenienti dalle Puglie, che vi si fermavano per trasformarlo in farina da portare a Napoli. Uno dei più famosi di questi mulini posizionati lungo le sponde del fiume Sabato era quello delle monache, feudatarie di San Michele di Serino, prima situato in Via Corticelle74 e alimentato con acque deviate dal fiume mediante una palafitta comunemente denominata palata „e coppa, palafitta di sopra, perché costruita al di sopra del casale, mulino che nella prima metà del secolo XVI, per divergenze col feudatario di Serino che lo aveva privato delle sue acque, 75 fu poi trasferito in Via Zappelle, sulle sponde del torrente Barra affluente del fiume Sabato. L‟importanza di questo fiume, per l‟economia delle popolazioni rivierasche, si accrebbe ancora di più a partire dal secolo XVIII, quando, per le accresciute conoscenze sulle patate e sul mais, importati dalle Americhe dopo la scoperta di Cristoforo Colombo, la loro coltivazione si diffuse nell‟alta valle del Sabato favorita proprio dalle acque del fiume, che permettevano irrigazioni abbondanti dei campi coltivati a mais e a patate, campi che, oltre ad essere fonte di ricchezza, costituivano uno spettacolo per la vista 74 Filomeno Moscati, idem, p. 197 . Filomeno Moscati, idem, p. 240. 101 75 Filomeno Moscati con i loro solchi dritti e lussureggianti di verde, per gli alti steli del granturco, e di bianco al tempo della fioritura delle patate. L‟epoca d‟oro di queste coltivazioni è ormai tramontata per cause diverse, ma soprattutto per la captazione delle sorgenti Acquara e Pelosi negli anni trenta del secolo XX, che ha fortemente depauperato il fiume delle sue acque, la cui abbondanza vive solo nel ricordo rappresentato dalle fontanine a getto continuo, che fanno bella mostra di sé nell‟abitato di San Michele di Serino per concessione dell‟Acquedotto di Napoli, concessione intervenuta dopo una protesta insurrezionale organizzata e guidata da un prete del casale.76 Dal momento di quella captazione è cominciata l‟agonia del fiume, oggi ridotto a un modesto ruscello a causa di ulteriori prelievi delle sue acque a mezzo di pozzi artesiani, che, succhiando dalle viscere della terra la sua linfa più profonda e nascosta, hanno reso pressoché impossibili le antiche colture su vasta scala di ortaggi, pregiati e rinomati fin dall‟epoca dei sanniti, come ci tramanda Plinio,77 oltre che delle patate, del granturco e di tutte le altre colture che, con la loro abbondanza, contribuivano ad evidenziare l‟età dell‟oro di quella civiltà contadina, che, per secoli, ha costituito l‟onore e il vanto del nostro paese e in cui l‟uomo e la natura, vivendo in armonia e non in contrasto, si fondevano tra loro, come chiaramente si avverte nella poesia di un poeta sammichelese, il “Sanmichelese” Mario Giliberti, che così descrive quest‟armonia: 76 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 375 e seg.. 77 Plinio, Naturalis Historia, XIX,141. 102 Ricordo Osserverò l‟ondeggiare del grano - nella piana tessuta di vento – al canto delle cicale, in un velato amplesso. Sentirò il granturco frusciare, con gli steli diritti e allineati come plotoni di soldati pronti per la sfilata. E conterò i peschi lividi, carichi di frutti carnosi, e i peri alti, dal fusto massiccio e scabro, e i fichi dalle foglie alte e grasse. Curerò la rete telegrafica delle viti, strette da vincoli tenaci. Poi – al ritmo sonnolento d‟ una cantilenapasserò in rassegna l‟armata spettacolare che domina la campagna78 L‟ età dell‟oro della civiltà contadina si rifletteva nel fiume che la generava. 78 Mario Giliberti, Non fuggirò la vanga, in Il Sentiero della speranza, Edizione del Giano, Roma 1994, p. 106 103 Filomeno Moscati Ricordo, al tempo dell‟infanzia felice, il fiume ancora ricco d‟acque limpide e freschissime, sulle cui sponde si radunavano le donne per lavare la biancheria e i panni di tutta la famiglia, immergendoli nelle fluenti e limpide acque, sbattendoli poi con forza su grosse pietre piatte e levigate e, infine, strizzandoli per farli meglio e più presto asciugare. Erano le stesse donne che raccoglievano e conservavano con cura la cenere dei focolari, per rendere più candidi e bianchi quei panni con l‟ancestrale metodo della “colata”, che sfruttava il potere candeggiante del potassio contenuto nelle ceneri, che venivano versate, a strati, sulla biancheria depositata in un apposito secchio di legno; Ricordo, in autunno, le piene torbide e limacciose, con l‟acqua del fiume che superava gli argini per allagare i campi che si stendevano fra il torrente Ciciurchia e il ponte 104 Ricordo della Starza, depositandovi quel limo che li rendeva fertilissimi; e, in estate, nei caldi pomeriggi di agosto, i bagni di ragazzi e adolescenti nelle placide acque della palata „e sotta, situata poco al di sotto dello stesso ponte; e i bambini, che, lungo le sponde davano la caccia a lamprede, ranocchi e girini. Ricordo Domenico Giliberti, il pescatore, che, immerso fino all‟addome nelle morte gore del fiume, o nel canale di carico dell‟ex mulino di via Zappelle, detto comunemente „o curso „e l‟acqua, impugnando, con la sinistra, il ramo ricurvo di salice che teneva spalancata la bocca della sua rete e, con la destra, la lunga pertica con cui esplorava le sponde, catturava secchi di iridee trote e di guizzanti anguille; e la pesca notturna con cui, muniti di un lume a gas, di un amo dal triplice uncino e di un ombrello aperto in cui raccogliere le prede, io, Lorenzo Mastroberardino e il caro amico Costantino Romano, oggi defunto, catturavamo , in breve tempo, chili di pallidi gamberi con cui imbastire, la sera successiva, splendide e succulente cene; 105 Filomeno Moscati e, nei periodi di magra, la pulitura della torre di carico del mulino di Via Augello, con decine di trote e di anguille guizzanti fuori dal limo, uno spettacolo che, fatte le debite proporzioni, rassomigliava alla cattura dei tonni nelle tonnare. La pescosità di questo fiume era tale che, a comprova, si ricordava un episodio che, anche per il suo duplice significato, assumeva il valore di un aneddoto. Si raccontava, infatti, che Vincenzo Cacchio, parsonale (colono) della famiglia Cotone, mentre, nella settimana che precede il Natale, era intento ai lavori di travaso del vino nella cantina del palazzo dei Cotone, alla padrona, che gli chiedeva se avesse provveduto a comprare il capitone per il Natale, rispondesse “ no signò, nui n‟arrangiamo co‟ nuosto, a significare che il piatto forte del cenone della vigilia sarebbe stato preparato con i capitoni pescati direttamente dal fiume. Le acque del fiume erano infatti così limpide e pure che in esse venivano a riprodursi, partendo dal mare dei Sargassi, le anguille che vi erano nate. Dopo la seconda guerra mondiale, con l‟affermarsi della civiltà industriale e consumistica la vita è divenuta così difficile, per non dire impossibile, nell‟antico fiume, che perfino nel neo-costruito laghetto artificiale di Via Augello, inizialmente destinato alla pesca sportiva, questo sport è diventato impraticabile a causa della moria autunnale delle trote, che in esso venivano versate, per il ripopolamento, nei mesi primaverili. La colpa di questa moria, attribuita al fondo bitumato del laghetto, va, molto più probabilmente, imputata ai tannini, che, dopo la raccolta e la cura delle castagne nei mesi autunnali, vengono riversati nel lume del torrente Barra che lo alimenta. La stessa sorte di questo suo affluente di sinistra ha subito il fiume Sabato, che, ridotto oggi alle dimensioni e alla 106 Ricordo portata di un modesto ruscello e sacrificato, per di più, alle esigenze della civiltà industriale, rivive soltanto nella memoria senza valore di qualche vecchio stanco, nostalgico di tempi passati che mai più ritorneranno, e di Mario Giliberti, un”Sanmichelese” poeta,79 che così rivide, in una visione quasi di sogno, l‟antico fiume e il suo vecchio paese: Un panorama di tetti digradanti a valle. Lo sguardo lontano a seguire il corso monotono del fiume. Sale un odore acre di fieno verde, di fiori umidi. Mi vapora davanti il vecchio paese, quello vero dell‟infanzia felice. E sfila il flashback della mia vita. Rivedo la chiesa e il campanile alto col grato risveglio delle campane. L‟orologio a rintocchi. Gli antichi antri 79 Filomeno Moscati, Mario Giliberti, poeta della natura, Edizione a cura del Comune di San Michele di Serino, 2004107 Filomeno Moscati solitari e bui. Il selciato consunto, secolare: sede eletta di giochi infantili. E il giardino ( ahi il mio giardino! ) fiorito a primavera con sogni e voli, solchi e aiuole, luci e colori, prati e cielo.. Il sisma ha raso al suolo, spietato, le case secolari, ma il ricordo vive nel cuore.80 80 Mario Giliberti, Dalle colline, in Il sentiero della speranza, Edizione del Giano, Roma 1994, p. 31 108 Ricordo Bibliografia Bella Bona Scipione, Ragguagli della città di Avellino, per Lorenzo Valeri, Trani 1656; Caprigliione F., De Feo G., Farese N., Feola A., Iallonardo G., „A rosamarina, Centro Tre Tigli di Santo Stefano del Sole (AV), 2008; Cary M., Scullard H., Storia di Roma, Editrice il Mulino, Bologna 1996; Cinti Decio, Dizionario mitologico, Sonzogno Editore, Milano 1998; Cluveri Philip, Italia antiqua; Colletta Pietro, Storia del Reame di Napoli, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1951; Ferroni Giulio, Storia della Letteratura Italiana, Einaudi Scuola, Milano 1991; Galasso Giampiero, L‟Irpinia nell‟antichità e nel Medioevo, in Irpinia, rivista culturale, Antonio Schiavo Editore, Ariano Irpino, n°1, 1986; Ghilardi Fernando, Storia del Teatro, Casa Editrice F. 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Michele...........................................p.57 VI - Il tramonto della civiltà contadina ............................p.81 VII – Il fiume Sabato, L‟agonia di un fiume storico......p. 91 Bibliografia...-......................................................p.109 Indice…………………………………………..p. 111 111 Filomeno Moscati Finito di stampare Ottobre 2010 Stampa CITY PRINT Via A. De Gasperi. 72 Avellino Riproduzione vietata ©Copy right. Tutti i diritti riservati 112 Ricordo 113