Kwame Nkrumah

Transcript

Kwame Nkrumah
Kwame Nkrumah
Il “redentore” del Ghana
Capo del primo stato indipendente dell’Africa nera, Nkrumah sognava gli Stati Uniti d’Africa.
L’ambizione eccessiva e gli errori politici segnarono il suo declino. Ma la sua utopia nutre
ancora la speranza di milioni di africani.
di Pier Maria Mazzola
C’era anche Martin Luther King, quella notte ad Accra. Da Washington era venuto Richard
Nixon, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti. Né poteva mancare il primo ministro britannico,
accompagnato da una rappresentante della regina. Gli esponenti della diplomazia di mezzo
mondo e, sicuramente i più interessati all’evento, tanti leader dell’Africa a sud del Sahara.
Nessuno di questi ultimi, ancora, con l’eccezione di Etiopia e Liberia - paesi dalla storia
singolare - conosceva per esperienza la parola “indipendenza”.
LACRIME DI GIOIA
Era il 6 marzo del 1957. «Il Ghana, il vostro paese amatissimo, è libero per sempre. La lunga
battaglia è finita e il nostro paese ha ritrovato la libertà perduta. Noi non siamo più, d’ora in poi,
un popolo colonizzato. Tutto il mondo ci sta a guardare», aveva annunciato Kwame Nkrumah
mentre l’Union Jack veniva ammainata e per la prima volta fremeva al vento la stella nera del
vessillo nazionale. Era la primizia dell’esaltante stagione delle indipendenze degli anni
Sessanta. Nkrumah, 47 anni, era salito sul palco a passo di danza e con lo scettro in mano.
Martin Luther King confesserà di aver pianto di gioia, a quelle parole. Le lacrime avevano
appannato la vista anche a Nkrumah quando, sei mesi prima, era stato convocato dal
governatore generale per consegnargli personalmente un telegramma da Londra. «Quando
arrivai al quinto capoverso - raccontò poi Nkrumah - non riuscii più ad andare avanti… ». I suoi
1/5
Kwame Nkrumah
occhi avevano appena letto la risoluzione del governo di Harold Macmillan, che decretava
l’indipendenza di quella che fino a quel momento era la Costa d’Oro.
COME L’ANTICO IMPERO
Non a caso il colono l’aveva chiamata così. Il padre stesso di Kwame Nkrumah era un modesto
orafo di Nkroful. E ancor oggi il prezioso minerale viene spesso alla ribalta delle cronache del
Ghana. La sudafricana AngloGold è diventata uno dei primi gruppi auriferi al mondo da quando
si è alleata, pochi anni fa, con la Ashanti Goldfields. E tragici incidenti nelle miniere d’oro
ghaneane sono cronaca dei mesi scorsi. Ma l’Osagyefo - “il redentore”, come a Nkrumah non
dispiaceva affatto essere chiamato - volle, dare alla sua patria «amatissima» un nome nuovo,
per rinnovare gli splendori di un antico impero. Il Ghana, il primo dei grandi stati dell’Africa
occidentale, era fiorito tra il 400 d.C. e il 1240. E poco importa che si localizzasse da tutt’altra
parte, grosso modo a cavallo tra gli attuali Senegal, Mauritania e Mali. Perché Nkrumah era
fatto così. Uomo brillante, trascinatore, di ampie visioni, era consapevole della missione che la
Storia gli aveva affidato: di dover aprire la stra da al riscatto del suo paese e di farlo costruendo
l’unità di tutto il continente. Africa Must Unite - “l’Africa deve unirsi” - è il titolo-slogan del più
citato dei suoi numerosi libri.
EROE DEL PANAFRICANISMO
L’idea panafricanista, di cui Nkrumah è l’apostolo più acclamato, non nacque però con lui. E
nemmeno vide la luce in Africa. Cominciò a prendere forma nei circoli intellettuali dei figli e
nipoti degli antichi schiavi. Henry S. Williams, un avvocato di Trinidad, organizzò a Londra, nel
1900, la prima Conferenza panafricana. Altri fecero progredire l’idea, come William E. Burghardt
DuBois, promotore di ben cinque Congressi panafricani tra il 1919 e il 1945. Marcus Garvey,
giamaicano, ispirandosi al progetto sionista aveva accarezzato il sogno di «riportare a casa, in
Africa, milioni di neri americani ». Era passato anche all’atto pratico, facendosi armatore di una
piccola flotta che battezzò “Black Star”. Non trovò molti clienti. George Padmore e Cyril Lional
2/5
Kwame Nkrumah
Robert James, anch’essi oriundi di Trinidad, furono vicini a Nkrumah negli anni della sua ascesa
politica iniziata dopo un periodo di eclettica formazione, dapprima in un seminario cattolico del
suo paese e, dal 1935, in Pennsylvania e poi a Londra. Dei tre sarà appunto Nkrumah ad
assumere la leadership del movimento panafricanista. E sarà lui a rimanere nell’immaginario
collettivo, fino ad oggi, l’eroe del panafricanismo. Non per nulla gli ascoltatori della Bbc lo hanno
votato, nel 2000, “africano del millennio”.
RIVOLUZIONE NON VIOLENTA
Di ritorno in patria, nel 1947, Nkrumah fu subito cooptato dai dirigenti del partito nazionalista,
l’Ugcc (United Gold Coast Convention), come segretario politico. L’anno successivo, al termine
di una tragica manifestazione di protesta, durante la quale la polizia di Sua Maestà aprì il fuoco
ad altezza d’uomo e il bilancio fu di una trentina di morti e oltre duecento feriti, Nkrumah venne
messo agli arresti insieme ad altri cinque leader del suo partito. «Dopo quel 28 febbraio, fatidico
giorno della marcia indipendentista, la Costa d’Oro ribollì di un appassionato nazionalismo, che
venne ulteriormente alimentato dall’errore politico del governatore di mettere agli arresti i Big
Six», commenta Joseph Henry Mensah, oggi Senior Minister del governo ghaneano. Ma
Nkrumah scalpitava, l’Ugcc gli andava stretta. Ritrovata la libertà, fonda il suo partito, il Cpp
(Convention People’s Party), per ottenere l’autogoverno «subito». Celebre la sua frase a effetto:
«Cercate prima il regno politico e il resto vi sarà dato in aggiunta». In breve tempo riesce a
creare, sfidando la censura coloniale, un clima nuovo di libertà d’espressione. Nascono giornali,
le idee circolano. Nel 1950, infiammatosi per la nonviolenza (il Mahatma era stato ucciso due
anni prima), Nkrumah organizza un grande sciopero ispirato al metodo delle positive actions
gandhiane. Reclama elezioni generali un referendum sulla riforma costituzionale. Finisce di
nuovo in carcere. Ma il consenso popolare cresce, l’autorità coloniale si vede costretta ad
organizzare elezioni e a concedere una forma di autogoverno. Nkrumah passa direttamente, o
quasi, dalle catene alla poltrona di primo ministro. E il 1° luglio 1960 il Ghana diventa
ufficialmente una repubblica.
IN NOME DI MADRE AFRICA
Nkrumah, nel frattempo, non smette di guardare oltre i confini nazionali. Nel 1958 convoca ad
Accra due storiche conferenze panafricane, le prime in terra d’Africa. In aprile si riuniscono, «nel
sacro nome di Madre Africa», i capi di stato degli otto paesi allora indipendenti (Egitto, Etiopia,
Liberia, Libia, Marocco, Sudan e Tunisia nonché lo stesso Ghana); a dicembre, tocca ai
rappresentanti dei popoli africani in lotta per l’indipendenza (un nome fra tutti: il congolese
Lumumba). Si prepara così l’evento del 25 maggio 1963, quando nascerà, in Etiopia,
l’Organizzazione dell’unità africana (Oua). Non era quella la formula sperata da Nkrumah,
fautore di un panafricanismo di alto profilo, capace di fare del suo continente una potenza in
grado di interloquire da pari a pari con i grandi di questo mondo. L’Oua varata ad Addis Abeba
doveva essere, secondo Nkrumah, solo una fase di passaggio verso una vera federazione,
verso gli «Stati Uniti d’Africa» (sarebbe forse un po’ più soddisfatto oggi che l’Oua è diventata
“Unione africana”, sul modello della Ue?). «Ricordo benissimo - racconta il giornalista Ryszard
Kapuscinski, che quel giorno c’era - il momento in cui Nkrumah si presentò all’assemblea. Il
3/5
Kwame Nkrumah
vertice stava vivendo un momento di stanchezza: i delegati disertavano le sale, andavano al
bar, parlavano con i giornalisti, ma all’improvviso una scossa elettrica percorse ognuno di noi. Si
era sparsa la voce: Nkrumah stava per prendere la parola. La sala si riempì in pochi minuti,
Nkrumah salì sul podio e fu silenzio immediato. Aveva uno sguardo che sembrava sempre
guardare lontano. Sicuramente era il più grande fra i nuovi capi dell’Africa».
MA IL MITO NON MUORE
“Troppo” grande, forse. Al punto di rimanere accecato dalla sua ambizione. Dotò il Ghana, è
vero, di molte infrastrutture, approfittando dei corsi favorevoli del cacao e al contempo cercando
di differenziare le risorse agricole, affinché il paese non rimanesse troppo dipendente dal cacao
stesso. Ma Nkrumah diventava sempre più accentratore. Già al momento dell’indipendenza
aveva subito cumulato, con la carica di primo ministro, anche i portafogli della difesa e degli
esteri. E sul fronte esterno era sin troppo attivo, rischiando di perdere progressivamente il
contatto con la realtà profonda del suo paese. Non è di poco conto un ricordo di Nasser, il rais
egiziano campione del panarabismo che per altro coltivava, come Nkrumah, orizzonti
internazionali: «Con lui io cercavo ripetutamente di parlare del Ghana… Era impossibile.
Nkrumah voleva parlare dell’Africa intera». «In certo qual modo - confermava uno dei suoi
consiglieri della prima ora, Michael Francis Dei-Anang - il Ghana non gli interessava. Non era
per lui che il punto di partenza per raggiungere tutta l’Africa». Lo scontento cresceva, e non
poteva certo essere ammansito dalle misure dell’Osagyefo come quella di proclamare il Cpp
partito unico e se stesso presidente a vita, o di edificare un costosissimo edificio per il terzo
vertice dell’Oua. Nkrumah sfuggì anche a due attentati. E nel 1966, mentre viaggiava tra Hanoi
e Pechino, venne spodestato. Si rifugiò nella Guinea di Sékou Touré, il paese che, primo fra le
colonie francesi, aveva rotto con Parigi. Ammalato di cancro, Kwame Nkrumah spirò a Bucarest
il 27 aprile 1972, senza che i suoi errori ne intaccassero il mito. «Il suo posto nella storia è
assicurato », avevano subito dichiarato i golpisti del ‘66. La sua salma venne traslata, pochi
mesi dopo la morte, nel suo paese. Ora riposa nel mausoleo eretto nel punto da cui fece
vibrare, quella notte, Accra e l’Africa intera con le sue parole. «L’indipendenza del Ghana è
priva di significato, se resta slegata dalla totale liberazione del continente africano».
LA MOGLIE BIANCA
La gente del Ghana inizialmente ci rimase male, quando seppe che l’Osagyefo del popolo nero,
pochi mesi dopo l’indipendenza, aveva preso in moglie una bianca, per quanto africana. Helena
Ritz Fathia era egiziana. «Si trattava di un’unione politica tra il Nord Africa - ha chiarito di
recente Gamal, uno dei tre figli della coppia (nella foto in basso a destra)- e il resto del
continente». Ma anche di un’unione di amore. Fathia era cristiana copta, di famiglia semplice. Prima del
matrimonio, Nasser in persona la mise davanti alle responsabilità e ai rischi di divenire la sposa
di un uomo tanto in vista. Fathia seppe inserirsi nel nuovo ambiente e stare al fianco di
Nkrumah più nello stile di una «schiva Diana che di un’imperiosa Eva Perón», secondo lo
stesso Gamal. Accra ha restituito a Fathia lo status diplomatico che le spetta nonché la sua
4/5
Kwame Nkrumah
residenza, solo l’anno scorso. La vedova di Nkrumah aveva abbandonato il Ghana per l’Egitto
dopo il putsch di Jerry Rawlings del 1981.
5/5