primo rapporto sulla politica economica in italia

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primo rapporto sulla politica economica in italia
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PRIMO RAPPORTO
SULLA POLITICA ECONOMICA
IN ITALIA
FREE FOUNDATION
FOR RESEARCH ON EUAOPEAN ECONOMY
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L
r
PRIMO RAPPORTO
SULLA POLITICA ECONOMICA
IN ITALIA
luglio 2000
,
A L lo R A P P O R T O F R E E H A N N O C O L L A B O R A T O : R E N A T O
B R U N E T T A , L U C I A N O CAGLIOTI, G I U L I A N O CAZZOL~,
E R N E S T O FELLI, R O S A F I L I P P I N I , F R A N C O FRATTINI,
M I C H E L E LEPORE, F R A N C E S C O M A U R O , F I L I P P O
MAZZOTTI, M A R I O S I G N O R I N O , D O M E N I C O S U G A M I E L E ,
F E D E R I C O T I T O M A N L I O , S T E F A N O TORDA, G I O V A N N I
TRIA,
R OBERTO V A L E N T I N I .
/L MODELLO ECONOMEJRICO ì STATO
E R N E S T O FELLI
E
G
IOVANNI
REALIZZATO D A
TRIA.
U N R I N G R A Z I A M E N T O P A R T I C O L A R E A E N R I C O CISNETTO,
N ATALE F ORLAN I, M AURIZIO L E O,
G I A N F R A N C O POLILLO; M AURIZIO S A C C O N I E CLAUDIO
ZUCCHELLI P E R A V E R E L E T T O
E COMMENTATO L’INTERO RAPPORTO.
I TESTI
CARIOTI
E
E
L’EDITING S O N O S T A T I
M ARIA L UISA G RECO.
F ABIO S CHETTINI
COMUNICAZIONE.
HA CURATO
I
CURATI D A
F
AUSTO
SERVIZI GENERALI E LA
Parte prima: Previsioni e scenari per I’economia italiana
Pag.
9
1.1. Presentazione
1.2. Ceconomia italiana negli anni novanta
1.3. La congiuntura
1.4. Le previsioni (2000-2005)
1.5. Gli scenari
1.6. Il modello econometrico NEMO-New Millennium
Econometrie Mode1
Appendice
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
11
16
25
Parte Seconda: Tra riforme mancate e cattive riforme
Pag. 47
Il percorso di Finanza Pubblica: un risanamento fragile
2.2 La politica fiscale: molte ombre e poche luci
2.3 Privatizzazioni, concorrenza e interesse nazionale
2.4 Le riforme della pubblica amministrazione:
purtroppo tanto rumore per nulla
2.5. Sicurezza e sviluppo: un’occasione mancata
2.6. Lo sviluppo sostenibile
2.7. Le politiche per la ricerca: non siamo in Europa
Pag. 49
Pag. 57
Pag. 65
Parte Terza: Tra analisi e proposte: lavoro, Welfare e concertazione
Pag. 107
3.1.
3.2.
3.3.
3.4.
Pag. 109
Pag. 126
Pag. 129
Pag. 137
2.1
Globalizzazione, lavoro, educazione, formazione e Welfare state
Sanità: una riforma emblematica
Il metodo concertativo: dal circolo virtuoso al circolo vizioso
Conclusioni
29
33
Pag. 35
Pag. 38
Pag.
Pag.
Pag.
Pag.
6g
86
go
98
SI A M O
CADENZA
LIETI
DI
PRESENTARE
QUADRIMESTRALE
INTERNAZIONALE,
NONCHÉ
QUESTO
RA P P O R T O
PRIMO
A
L
PRODURRÀ
APPROFONDIMENTI
SI
EDI
PRIMA
ANALISI
AVVALE
E
SU
DI
UN
ZIONE
RA P P O R T O
DEL
FREE,
PREVISIONI
SULL’ECONOMIA
SELEZIONATI
ARGOMENTI.
MODELLO’ECONOMETRICO
NUOVO
CHE
CON
ITALIANA
,
ED
ANCORA
A L L O S T A D I O D I P R O T O T I P O , I L C U I O B I E T T I V O P R I M A R I O C O N S I S T E NELIA S P I E G A Z I O N E D E L
FUNZIONAMENTO
DEL
SISTEMA
ECONOMICO,
CON
PARTICOLARE
ATTENZIONE
ALLE
SUE
REA-
Z I O N I A DIFFERENT, TIP, D I S H O C K .
LA S U A C A R A T T E R I S T I U I D I S T I N T I V A - L A D E T E R M I N A Z I O N E D E L P/L D A L L A T O D E L L’OFFERTA
- HA
INDOTO
A
CONSIDERARE
ANCHE
IL
RILIEVO
DI
NUMEROSI
FATTORI
STRUT-
TURALI.
LE
NOSTRE
SIMULAZIONI
INDICANO
CHE
PER
RIMETTERE
L’ECONOMIA
ITALIANA
SUI
B I N A R I D E L L A C R E S C I T A E D E L L A C O M P E T I T I V I T À O C C O R R O N O M A N O V R E B E N PIo C O N S I S T E N T I RISPE770A L C O N T E N U T O ‘ N E U T R O ” V A N T A T O D A L L A P R O P O S T A D E L L ’ U L T I M O
DPEF
DEL
G O V E R N O , 2001-2004.
S I ,POT,ZzA,
DELLA
CHE
PRESSIONE
RENDA,
I N P A R T I C O L A R E , L A COMBINAIIONE D I U N A M A R C A T A RIDUIIONE
FISCALE
QUANTO
CON
UNA
R I F O R M A DEI
PIÙ, I SALARI
FUNZIONE
SISTEMI DI
CONTRATTAIIONE C O L L E T T I V A
DELL’EFFICIENZA
DEL
TERRITORIO
E
DELL’IM-
PRESA.
b NOSTRA SEVERA CRITICA ALLA CONTRATTAZIONE CENTRALIZZATA E ALLA CONCERTAZIONE
RUOLO
CONSERVATRICE
DELLE
RITROVATA
PARTI
DEGLI
SOCIALI,
VITALITA,
ULTIMI
MA,
AUTONOMIA
AL
E
ANNI
NON
SIGNIFICANO
CONTRARIO,
FIDUCIA
RESPONSABILITÀ
0;
SOTTOVALUTAZIONE
NEGLI
TUTTI
EFFETTI
GLI
VIRTUOSI
ATTORI
DEL
DEL
DI “NA
DIALOGO
SOCIALE.
FREE
D~D,CA
ANCORA
UNA
CONSISTENTE
PARTE
suo
DEL
PRIMO
RA P P O R T O
UNA SERIE DI ANALISI CRITICHE DELLE RIFORME MANCATE 0 MALFATTE, SU CUI 51
AD
APRONO
A L T R E T A N T I D O S S I E R C H E T R O V E R A N N O P R E S T O U L T E R I O R E A P P R O F O N D I M E N T O IN O C C A SIONE
DELLE
USCITE
PERIODICHE
DELLO
RA P P O R T O
STESSO
o
NELL’AM
BITO
DI
PRODOTTI
DEDICATI.
NEL
COMPLESSO
, LA
S C EL TA
DEI
TEMI TRA
T T A T I INDICA L A
ESPLICITA
VO
CA
ZIONE
DEGLI AUTORI AL METODO RIFORMISTA E Al CONTENUTI DI UNA MODERNA ECONOMIA
SOCIALE
DI
MERCATO,
SOCIALI
ED
AMBIENTALI,
COMPETITIVA
FONDATA
PERCHÉ
SULLA
FLESSIBILE
E
INSIEME
LIBERTd R E S P O N S A B I L E
SOSTENIBILE
DELLE
IN
PERSONE
TERMINI
E
DELLE
IN
TEMPI
IMPRESE.
QUESTO
PRIMO
PRODOTTO
DELL
A
NEONATA
FONDAZIONE
-
REALIZZATO
DAWERO BREVI - È STATO CONSENTITO DAL LAVORO DI COLORO CHE HANNO ELABORATO
I L M O D E L L O E D I T E S T I , NONCH6 D A I M O L T I C H E C l H A N N O S O S T E N U T O C O N L A C O N T I N U A
L E T T U R A C R I T I C AD E G L I E L A B O R A T I V I A V I A P R O D O T T I . U N A D O T A Z I O N E D I R I S O R S E I N T E R NE
ED
A
MICI
RE
ESTERNI
N A T O
B
CHE
R U N E T T A
FANNO
E
F
BEN
R A N C O
SPERARE
FRATTINI
NELLA
FUTURA
ATTIVIT
À
DI
FREE.
Patie Prima
Previsioni e scenari
per l’economia italiana
1. 1. Presentazione
Nel medio periodo, una dimensione a lungo trascurata dagli economisti e sottovalutata dall’opinione comune, occupa un ruolo cruciale l’interazione tra gli shock che colpiscono di tanto in tanto
sia l’offerta sia la domanda e le istituzioni che regolano,la vita dei mercati: il mercato del lavoro, il
mercato dei beni e il mercato dei capitali.
L’analisi macroeconomica dell’economia italiana, a cui è dedicata la sezione d’apertura del
primo RAPPORTO FRE, è largamente influenzata dal riconoscimento dell’importanza della suddetta
relazione. Non solo l’approccio analitico vi è ispirato, ma gli stessi strumenti utilizzati, come il modello econometrico NEMO, riflettono questo convincimento. Ciò ha richiesto un certo sforzo innovativo,
che essendo ancora agli stadi iniziali, potrebbe comportare delle limitazioni, di cui ci scusiamo con lettrici e lettori. In particolare, dovranno essere valutati con queste avvertenze gli scenari previsionali presentati nelle pagine successive.
L’evoluzione dell’economia italiana sino al 2005 prospettata dalle nostre simulazioni può essere riassunta nel modo seguente:
Sulla spinta dei fattori ciclici connessi alla ripresa europea e dei mercati globali,
l’Italia emergerà finalmente dallo stato di crescita anemka che ne ha caratterizzato la performance negli anni passati; quest’anno la crescita del pro2000: il ciclo spinge
la crescita.
dotto sfiorerà il 3 per cento, quasi un punto e mezzo in più del 1999 e
Pil + 2~3%; Occupazione anche l’occupazione complessiva risentirà della congiuntura favorevole
+ 1.0%; Inflazione + 2,5% (+1,1%); il tasso di disoccupazione si ridurrà di meno di un punto, non
scendendo in ogni caso al di sotto della elevata soglia dell’lo,7%. Il caro
- petrolio e il deprezzamento dell’euro riporteranno il tasso d’inflazione al di sopra del
2%. Il rapporto tra il saldo del bilancio pubblico e il PIL sarà leggermente inferiore all’1,5%.
l
Tuttavia, in assenza di interventi strutturali > non
_ ~~sarà assicurata la capacità di trasformare il miglioramento congiunturale in una crescita sostenuta e stabile, condivisa in modo più equilibrato tra le reRioni
2001-05: in assenza
e&a~j~~bifferenti strati della popolazione; la stessa evoluzione
di interventi strutturali,
prospettata sarà soggetta alle incertezze connesse con il posrallentamento della crescita.
sibile modificarsi dei fattori congiunturali menzionati. Nel
Pil + 2,5%
periodo 2001-2005,
la crescita media tendenziale del prodotto
Occupazione + 0~7%
sarà attorno al 2.5 per cento, ossia inferiore al risultato atteso
per quest’anno. Dal canto suo, l’occupazione registrerà un incremento medio annuo
inferiore all’uno per cento. La suddetta evoluzione sconta il graduale rallentamento
dell’impulso proveniente dai mercati esteri e il ritorno dell’euro sulle posizioni antecedenti al deprezzamento del biennio 1999-2000. Il risultato sarà il mantenimento dei
differenziali di crescita e di inflazione rispetto alla media UE.
l
l
Come conseguenza di questi andamenti, il -odi
po lentamente (ancora al 9,0% nel 2005).
disoccupazione scenderà trop:
.
La Tabella 1, che pone a confronto gli andamenti storici degli ultimi 30 anni con
le previsioni per il periodo 2000-2005, fornisce alcuni elementi utili a valutare la spiegazione fornita da FREE di questa prospettata dinamica. La difficoltà di trasformare in
boom le opportunità favorevoli determinate dal ciclo europeo ed internazionale dipende dagli ostacoli di tipo strutturale ed istituzionak~cheesano
sull’economia italiana
eche rallentano il dinamismo dell’offerta. Affinché la crescita possa tornare ai livelli
dei primi anni ‘70, occorre una -a ~tanto dell’accumulazione di capitale-quanto
wproduttività maggiore di quella che si realizzerebbe spontaneamente nel 2000 e
nel successivo quinquennio pur in condizioni cicliche vantaggiose.
.
Dalla Tabella 1 si evince anche che, viceversa, se fosse possibile realizzare degli
@r-venti strutturali, si avrebbero degli effetti largamente positivi: la crescita sarebbe
stabilmente_più
vivace in tutto il periodo della previsione. FREE ha preso in considerazione due possibili “shock”: una modifica permanente del carico delle tasse e dei
contributi (pressione fiscale) - “shock fiscale” . ed una riduzione del grado di centralizzazione del sistema di contrattazione salariale - “shock istituzionale”. l risultati di
simulazioni di questo tipo - il cui “disegno” preciso è illustrato nelle pagine successive - devono essere, di norma, accolti con cautela e presi in considerazione per gli spostamenti qualitativi suggeriti piuttosto che per le predizioni quantitative vere e proprie
. Nel nostro caso poi, l’uso di indicatori “inusuali”, come la centralizzazione del mercato del lavoro, accanto ad altri più tradizionali, come la pressione fiscale, o comunque direttamente osservabili e misurabili, come la copertura della contrattazione collettiva, richiede una prudenza maggiore del solito.
Tab.*. Passato e Futuro. Medie storiche e scenad previslvi
Tassi di variazione % e variazioni assolute
Mediestoriche
1971-82
Previsioni: media 2000-2005
1982-92
1992-99
TENDENZIALE
SHOCK
SHOCK
FISCALE
ISTITUZIONALE
ACCUMULAZIONE
4.5
2.3
2.1
1.7
1.2
1.5
2.6
PRODUTTIVITA
1.9
3.1
2.1
3.3
2.2
O C C U P A Z I O N E”
o.78
0.2
-0.6
0.7
1.0
1.2
8.1’
11.0
11.6
9.9
8.9
7.9
PRODUZIONE‘
3.2
UNITÀ
0.9
2.2
0.6
1.2
-0.2
2.6
614.6’
3.1
1170.c
3.4
1408.6’
29.0
37.3
42.6
42.0
37.5
37.3
77.0
1.7
83.6
1.8
82.0
2.1
81.8
2.1
81.8
2.1
70
1.5
DI CAPITALE
TASSO
DI DISOCCUPAZIONE
LAVORO~
DI
PRESSIONE
FISCALEi
COPERTURA~
C E N T R A L I Z Z A Z I O N E”
a Definizione Forze di lavoro; b Media 1977-82.
’ Valore aggiunto al costo dei fattori, prezzi costanti
d Definizione Contabilità nazionale
9ariazioni assolute cumulate, migliaia.
r Entrate tributarie + entrate contributive in rapporto al Pil
h Percentuale di lavoratori “coperti” da contrattazione collettiva. Fonte: nostre elaborazioni su OECD (1997).
Indice di centralizzazione del mercato del lavoro, compreso tra I e 3. USA = 1; Germania = 3. Fonte: nostre
rielaborazioni su Calmfors e Drifhl (lg88), OECD (1999).
l
In ogni caso, pur se alla luce di questi doverosi caveat, e a seconda che gli shock
siano dati in modo separato o congiunto, le simulazioni effettuate indicano che fl
mighoramento
dell’acwmulazione
di capitale e delle condizioni che determinano tanto
la domanda quanto l’offerta di lavoro, farebbe aumentare la~crescita in modo virtuoso,
ossia determinando un aumento simultaneo delt&produtlività
e dqll’occupa~z~. Il
tasso di crescita~della produzione ~sarebbe più alto di punto o &di punto in media
rispetto all’andamento tendenziale. A sua volta, la disoccupazione sarebbe in media più
bassa di uno o due punti percentuali, rispettivamente. Alla fine del periodo di previsione, come viene indicato più avanti, il -SO di disoccupazione sarebbe pari al 52%
nel&cenario dello shock istituz&&e(contro il 9.1% dell’andamento tendenziale). I
due grafici documentano nel dettaglio i suddetti risultati.Per apprezzare la dimensione
degli effetti menzionati occorre fare attenzione che, secondo la nostra previsbe di
controllo, la pressione fiscatedovrebbq ridursi, in media di un punto percentuale nel periodo 2000-2005 per effetto delle tendenze spontanee delle entrate tributarie~ e contributive.
Se si confrontano i risultati delle nostre simulazioni con il quadro macroeconomiprogrammatico esposto dal Governo nel Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF zooi-04), si può capire fino a che punto Palazzo Chigi abbia esercitato l’inclinazione all’ottimismo e alla (auto)consolazione.
Infatti, al cospetto di una
“manovra zero”, come lo stesso Governo ha ribattezzato il suo programma con involontaria autoironia, viene predetto un impetuoso e virtuoso processo di crescita, capace di generare (per incomprensibili motivi) più occupazione, meno disoccupazione, più
sviluppo, più competitività.
l
CO
I “numeri” che mancano dal DPEF (rimandati ad un aggiornamento di Settembre)
rendono il documento un esercizio di programmazione talmente
Il DPEF 2001-2004
fantasiosa ed evanescente da essere ai confini con la Mion. Anche
Esercizio di programmazione se non le si VUOI prendere alla lettera, le nostre simulazioni mostrao di fantasia?
no che ben altri “esercizi” sono richiesti per rimettere l’economia italiana sui binari dello sviluppo e della competitività. FREE predice sì
un milione e mezzo di occupati in più usolo-~a condizione di ridurre la pressione fiscale e ridimensionare il “tasso di corporativismo” del mercato del lavoro. Operazioni la cui
fattibilità non può certo essere presa alla leggera ma che non hanno ragione nemmeno di
essere evocate nel panglossiano migliore dei futuri mondi possibili del DPEF. Secondo il
Governo, infatti, tutto quello che serviva fare è stato già fatto, l’aggiustamento dei conti
è strutturale e “il risanamento della finanza pubblica realizza le condizioni che consentono al sistema produttivo italiano di beneficiare in pieno della ripresa economica in atto”.
l
Dopo anni di rigore fiscale, di moderazione salariale, di privatizzazioni, di deregolamentazioni
dei mercati finanziari, dei prodotti e del lavoro, all’inizio del nuovo millennio
l’eredità del passato
l’Europa sembra essersi lasciata dietro le spalle i momenti peggiori, quelli, per
Euroclerosi vs.
intenderci, che avevano suggerito di coniare il termine di Eurosclerosi. La
e-Economy
malattia, come si sa, av,eQa molte facce: elevata inflazione, elevata disoccupazione, elevata turbolenza finanziaria, elevati indebitamenti pubblici e, al contrario, scarsa crescita del reddito e della produttività, scarsa competitività, scarso dinamismo. Tuttavia,
nonostante i progressi compiuti, l’Europa non è guarita completamente da questa malattia a più dimensioni. In questo giudizio pesa il confronto con l’area anglo - sassone, in cui l’esplosione della eEconomy sembra aver determinato un periodo di straordinaria e prolungata prosperità, visto che
l’Europa non dà l’impressione di essere in grado di sfruttare con altrettanto prontezza e profondità le
promesse della “economia nuova”.
Nel corso degli anni novanta, alcuni dei mali più acuti sono scomparsi, anche per l’effetto delle
politiche di stabilizzazione macroeconomica e finanziaria e di alcune riforme strutturali e modifiche istituzionali. I disavanzi pubblici sono stati eliminati quasi completamente, l’inflazione è stata posta sotto
controllo, la stabilità finanziaria è stata coronata dalla realizzazione dell’unione monetaria. Tuttavia, la
crescita della produttività, dalla quale dipende la possibilità di aumentare in modo permanente il tenore di vita delle persone, è ancora insufficiente e, viceversa, la disoccupazione è ancora troppo alta,
soprattutto se si confronta la performance europea con quella statunitense.
I miglioramenti ottenuti sullo scorcio del millennio nel ritmo di crescita e nel livello di disoccupazione riflettono in gran parte fattori cHici.
La disoccupazione è diminuita in Europa di circa due punti negli ultimi quattro anni ma rimane
ad un livello ancora più che doppio di quello statunitense. Nella media dei quattro più popolosi paesi
dell’area - Germania, Francia, Italia e Spagna - il tasso di disoccupazione è ancora oggi superiore
all’l1%. Non si può certo dire che i presumibili frutti della new economy siano stati colti; non si può
sostenere che, in questo contesto, i governi di questi paesi abbiano fatto del loro meglio.
Paesi come L’Olanda e l’Irlanda sono riusciti ad abbassare il tasso di disoccupazione al di sotto
del 3 e dei 5% rispettivamente; alla metà degli anni novanta era ancora superiore al 10 e al 12%, rispettivamente; a metà degli anni ottanta il tasso di disoccupazione in Francia, Germania e Italia era inferiore sia a quello dell’Olanda sia a quello dell’Irlanda. Solo la Spagna aveva un tasso superiore al 20%!
La stessa Gran Bretagna ha fatto molto meglio; il suo tasso di disoccupazione era superiore all’11% nel
1985, oggi è inferiore al 6%.
A metà dell’anno 2000, le prospettive dell’economia europea sembrano più promettenti di
quanto è mai accaduto nel corso del passato decennio. La crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL)
nell’area dell’Euro dovrebbe attestarsi al di sopra del 3 per cento nel biennio 2000-2001 e il tasso di
disoccupazione scendere stabilmente al di sotto del IO%. Il problema che sta di fronte ad Eurolandia
è come trasformare la spinta della congiuntura favorevole in una crescita sostenuta e stabile.
All’interno di Eurolandia le performance, come in parte abbiamo visto, non sono omogenee. La
posizione dell’ltalia, da qualunque parte la si osservi, appare tra le meno rassicuranti.
Se consideriamo la disoccupazione, persino la Spagna, che vanta una tradizione poco brillante
in questo campo, è riuscita a far meglio negli anni più recenti, riducendo il tasso di disoccupazione,
bloccato sopra il 20% solo 4 anni fa, all’attuale 14,1%; in Italia, nello stesso periodo, la riduzione è
stata pari a poco più di mezzo punto percentuale!
Se prendiamo la crescita del PIL, l’Italia che, negli anni ‘70 vantava un tasso di crescita superiore alla media dell’area Euro e degli USA (3.4 contro 2.8 e 3.0 rispettivaGli ostacoli
mente), nel decennio 1982-92 era scesa poco sotto la media europea e ameallo sviluppo
riCatE! (2,2 Contro 2.4 e 2,6 riSpettiVamente).
Nel decennio 1992-99 l’Italia eSibisce la peggiore performance tra i paesi più sviluppati, se si eccettua il
Giappone: il tasso di crescita è solo dell’l,z% contro l’i,8 di Eurolandia e il 3.2 degli Stati Uniti.
Cosa spiega queste differenze?
Perché l’Italia, che si suppone abbia subito gli stessi shock aggregati che hanno colpito gli altri
paesi dell’Europa continentale - lo shock petrolifero e la forte riduzione della produttività totale dei
fattori (TFP) degli anni ‘70, che indussero le politiche restrittive degli anni ‘80, e gli shock di domanda negli anni ‘90 - ha reagito in un modo che sembra aver accentuato gli squilibri strutturali piuttosto che accorciato o reso transitori i divari?
Per quale motivo le imprese italiane di qualunque d,imensione o tradizione sembrano così riluttanti ad investire in nuovi mercati e nuovi prodotti e quin’di in nuovi clienti e nuovi lavoratori, stimolando la crescita dell’innovazione e, soprattutto, quella dell’occupazione, della capacità produttiva e
infine del reddito?
Cos’è che impedisce quel dinamismo e quell’ottimismo necessari ailo sviluppo delle nuove iniziative, all’allargamento di quelle già intraprese, alla sfida delle posizioni competitive dei rivali?
Il primo RAPPO/?TO FREE non ha la pretesa di dare una risposta definitiva e completa a queste fondamentali domande; più modestamente si sforza di fornire un approccio analitico ed una chiave interpretativa.
Il punto di vista sostenuto in questo Rapporto è che le differenti performance possono essere
spiegate dalla specificità dell’intreccio tra shock agRre.gati e (relativamente) simmetrici, di natura occasionale, e politiche e istituzion~i proprie di ciascun pae~s~e. Le differenze di performance tra i paesi europei e, più in generale, tra quelli appartenenti all’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo
Sviluppo (OECD), differenze ben documentate come si è sinteticamente visto, sono da attribuire alle
differenze nell’interazione tra il ruolo giocato dello stato nella regolamentazione dei mercati, nella
distorsione degli incentivi microeconomici e nella conduzione delle politiche macroeconomiche, da un
lato, e nelle regole de/ gioco e negli ambienti istituzionali sagomati dalle tradizioni e dai comportamenti degli agenti e dei gruppi di interesse, dall’altro. In altre parole, gli shock comuni che colpiscono un gruppo relativamente omogeneo di paesi hanno effetti più perversi e prolungati nei paesi che
possiedono le istituzioni più carenti, a cominciare da quelle del mercato del lavoro. La persistenza degli
effetti negativi provocati da questi shock occasionali comuni dipende perciò da particolari istituzioni
che, tuttavia, in assenza di quegli shock, ossia in periodi storici differenti, potrebbero non essere più
inefficienti di altre.
In questo contesto, molto interesse ha ricevuto lo studio delle istituzioni che regolano il mercato del lavoro e, in particolare, i sistemi di contrattazione collettiva.
Negli anni recenti si è assistito in un certo numero di paesi a grandi cambiamenti delle regole
della contrattazione, ispirati, almeno in parte, da considerazioni sui
meriti relativi di differenti sistemi di “wage setting”l. Programmi di
Le istituzioni
decentralizzazione della contrattazione collettiva sono stati avviati in
del mercato del lavoro
Regno Unito, in Nuova Zelanda, in Svezia ed in Austria. In altri paesi,
Centralizzazione e
contrattazione collettiva
come il Portogallo, la Norvegia, la Danimarca e la stessa Italia si è
denotata una tendenza opposta: decentralizzazione negli anni ottanta
e, a partire approssimativamente dal 1989, centralizzazione.
Il fattore cruciale della relazione tra sistemi di contrattazione e performance economica è la
capacità delle regole di organizzare la negoziazione tra i soggetti in modo che siano prese in considerazione le conseguenze macroeconomiche dei suoi risultati.
Nel modello NEMO usato per produrre le simulazioni presentate in questo Rapporto, sono stati
utilizzati due differenti indicatori tra quelli suggeriti dalla letteratura empirica sull’argomento: una misura cardinale - il tasso di copertura della contrattazione collettiva - ed una caratteristica qualitativa il grado di corporativismo del mercato del lavoro. Sebbene anche quest’ultimo potrebbe essere suscettibile di misurazione - ad esempio, il numero di organizzazioni sindacali potrebbe essere una proxy di
tipo cardinale - abbiamo utilizzato la nozione meno controversa di centralizzazione. Poiché la centralizzazione descrive il luogo della struttura formale della contrattazione. si distinguono di norma tre
livelli: il negoziato nazionale tra le organizzazioni di vertice che può coprire l’intera economia (contrattazione centralizzata); il negoziato di settore tra associazioni di categoria (contrattazione intermedia); il negoziato aziendale tra sindacati o individui e managment
(contrattazione decentralizzata).
COECD ha messo a punto un indicatore di centralizzazione tenendo conto delle istituzioni vigenti in
ciascun paese in relazione alle tre dimensioni elencate. Dal canto nostro, abbiamo costruito un indicatore aggregato che somma la centralizzazione con la copertura della contrattazione2.
Quali effetti avrebbe una modifica delle istituzioni della contrattazione in Italia nel prossimo
futuro? Come si è anticipato, il Rapporto Free propone una risposta a questa domanda basata sui risultati di una simulazione compiuta con il modello econometrico NEMO. In particolare, abbiamo ipotizzato che il grado di copertura della contrattazione collettiva, ossia la percentuale di lavoratori le cui relazioni di lavoro sono regolate da questo sistema,,‘fosse ridimensionato, in modo tale da non superare
il 70% dei lavoratori occupati, una percentuale inferiore di circa IO punti percentuali a quella stimabile attualmente. Simultaneamente abbiamo ipotizzato uno spostamento verso il livello intermedio e il
livello aziendale della contrattazione, ossia un ridimensionamento della centralizzazione. Ci rendiamo
conto, naturalmente, che la fattibilità e la credibilità stessa di questi cambiamenti dipendono dal modo
come vengono realizzati. Ovviamente, non c’è un unico modo per mettere a punto riforme strutturali
come questa. Anche se ta materia deve essere approfondita, un’ipotesi che piace a FREE è quella del
cosiddetto shopping contrattuale3. In pratica, è previsto un unico liollo contrattuale a scelta delle parti
tra i tre sopra menzionati, reversibile e integrato con &usole di salvaguardia per i casi di mancato
accordo.
L’altro grande e naturale candidato a spiegare la deludente performance italiana è lo stato, di
cui di solito si critica l’inefficienza e l’eccessiva invadenza. Al di là dei
rilievi scontati ma generici, vi è consenso generalizzato nell’attribuire
Il carico delle tasse.
una importante responsabilità di freno dello sviluppo della produzione
Gli effetti di una riduzione
e dell’occupazione all’elevato carico tributario e contributivo4.
media di 4 punti
e 1/2 della pressione fiscale. Caumento di questo peso, unito alle specifiche distorsioni del sistema
fiscale italiano, ha rallentato la crescita economica nel recente passato.
In un’ulteriore simulazione econometrica, F R E E prova a valutare gli effetti che una plausibile riduzione
&t carico fiscale a “bilancio in pareggio” avreb~be sull’economia italianada qui al 2005. In particolare,
abbiamo ipotizzato una progressiva riduzione della pressione fiscale sino a giungere al 38.3% nel 2005.
Come abbiamo anticipato sinteticamente nelle pagine iniziali e come commentiamo più in dettaglio in quelle successive, queste riforme strutturali avrebbero degli effetti largamente benefici.
1.2. L ’ e c o n o m i a i t a l i a n a negli
anni novanta
Il decennio passato iniziò con timori e speranze per L’Italia. Gli italiani scoprirono, o per lo meno
presero diffusa coscienza, del debito pubblico generato dal disequilibrio strutturale delle finanze pubbliche. Al contempo, vennero posti di fronte alla necessità di prepararsi rapidamente ad affrontare la
“sfida competitiva” che si apriva con la realizzazione del Mercato Unico Europeo, con quella, annunciata, dell’Unione Monetaria Europea, con i processi di transizmne al mercato dei paesi della ex-area
socialista europea e con la crescente inclusione nei mercati mondiali di importanti paesi asiatici, in
primo luogo la Cina. In termini generali, la sfida sarebbe venuta dai processi di gtobalizzazione ‘dei
mercati dei capitali, dei prodotti e dei fattori che avrebbero caratterizzato il decennio, anche se allora
non ne erano ancora chiare le dimensioni, le velocità e le implicazioni.
All’inizio degli anni novanta si andava, infatti, solo
dell’informazione, che della globalizzazione sarebbe stata la
luogo alla cosiddetta new economy. Molti di questi fenomeni
continentale, e soprattutto in Italia, un ritardo di percezione
profilando la rivoluzione della tecnologia
forza trainante e che avrebbe poi dato
erano ancora all’inizio e vi ‘fu nell’Europa
della loro potenziale portata dirompente.
Squilibrio finanziario dello stato e “sfida competitiva” rappresentavano, tuttavia, due problemi
non disgiunti, poiché il primo aveva rappresentato la risposta affannosa ai problemi di un paese che
aveva risposto prima con l’inflazione (anni settanta) e poi con la creazione di debito pubblico (anni
ottanta) alla perdita di dinamismo ed alla crescente debolezza strutturale della propria economia,
ingessata in mercati non competitivi del lavoro, dei prodotti, dei servizi pubblici e privati, del credito.
Le istituzioni, d’altra parte, avevano rafforzato regole e reti di protezione che intossicavano il
corpo dell’economia italiana, in un processo cumulativo a costi crescenti di maggiore dipendenza dal
pubblico e maggiore debolezza strutturale, a difesa degli interessi delle corporazioni, per loro natura
in cerca di crescente protezione e non di spazio per nuove imprese, capaci di innovare e di affrontare
le trasformazioni dei mercati mondiali, o di stimoli concorrenziali per le imprese esistenti.
Nel corso del decennio, le trasformazioni dell’economia mondiale sopra richiamate sono avvenute ad una velocità superiore al previsto. L’Italia si è invece mossa ad un passo inferiore al previsto,
rinunciando a perseguire congiuntamente i due obiettivi: quello del risanamento delle finanze pubbliche mirato all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e quello della liberalizzazione dei mercati e della
riforma delle istituzioni economiche, cioè del sistema di governante dell’economia. Il primo problema
è stato affrontato con decisione sotto la spinta dell’emergenza già agli inizi del decennio, poi con ritardo e male alla vigilia dell’ingresso nellUME. Il secondo problema è ancora oggetto di dibattito e di
scontro sociale e politico, ormai forse più politico che sociale, all’inizio del nuovo millennio.
Il risultato è che l’Italia, come altri paesi dell’Europa continentale, ha reagito male alle trasformazioni dell’economia mondiale ed all’innovazione tecnologica, non cogliendone le opportunità di crescita. Il decennio passato ha denunciato, infatti, un indebolimento strutturale dell’economia italiana
difficilmente spiegabile solo come effetto delle politiche di bilancio restrittive connesse all’ingresso
nellUME. La riduzione del saldo negativo dei conti pubblici nell’area euro ed in Italia in particolare,
pur di dimensioni eccezionali, ha certamente determinato un effetto negativo sulla domanda interna ,
ma non è stata la causa fondamentale di una incapacità di crescita che si è determinata principalmente
dal lato dell’offerta.
Dietro questa incapacità vi sono principalmente problemi strutturali legati ad una eccessiva ed
al tempo stesso inadeguata regolamentazione del mercato dei fattori e dei prodotti, all’arretramento
delle politiche pubbliche nei suoi compiti di adeguamento della formazione di base del capitale umano
e dello stock di infrastrutture fisiche e sociali del paese, ad istituzioni economiche inadatte ad un capitalismo moderno.
Questi problemi, che le politiche di aggiustamento fiscale hanno per alcuni versi acuito non
tanto e non solo per la loro entità ma per il modo in cui sono state condotte, hanno condizionato l’economia italiana frenando la sua capacità di accumulazione di capitale e lavoro e la crescita della produttività.
Una delle tesi che questo rapporto respinge è, quindi, quella che denomineremo “del bicchiere mezzo pieno”. Questa tesi è avanzata da coloro che invocano il riconoscimento dei risultati positivi raggiunti nel decennio in contrapposizione a quelle analisi, e tra queste il presente rapporto, che
rilevano il ritardo e l’arretramento accumulato nel frattempo dall’economia italiana, sia relativamente
al resto dell’Europa sia , per alcuni indicatori, in termini assoluti. I risultati positivi sono, essenzialmente, la stabilizzazione fiscale e la convergenza dell’inflazione e delle variabili monetarie verso la
media europea. Questi risultati innegabili ed importanti hanno consentito all’Italia di partecipare
all’Unione monetaria europea fin dalla prima fase, e con tale partecipazione si sono rafforzati.
Complementare alla tesi del “bicchiere mezzo pieno” è l’interpretazione del rallentamento dell’economia italiana negli anni novanta come l’effetto di un prolungato shock negativo di domanda
determinato dal forte aggiustamento fiscale che l’Italia ha dovuto effettuare per rientrare nei parametri di Maastricht, e prima ancora, all’inizio degli novanta, per evitare una crisi fiscale dello stato.
Dietro la disputa apparentemente definitoria si cela una differenza di analisi. Il problema non
è, infatti, quello di misurare di quanto il bicchiere sia stato riempito, e se poteva essere riempito maggiormente, ma, per continuare con la metafora, il fatto che la modalità e la sostanza con le quali si è
iniziato a riempirlo hanno determinato il mancato riempimento. In altri termini non c’è indipendenza
tra il vuoto ed il pieno: il primo è il prodotto del secondo. In altri termini, l’arretramento dell’economia reale, della sua capacità di crescita e della sua competitività è il risultato del modo in cui sono
stati raggiunti i risultati positivi, del modo in cui si è pensato al breve periodo in modo disgiunto dai
problemi di crescita, cioè di medio-lungo periodo.
La tesi di questo rapporto è che l’aggiustamento fiscale ha certamente contribuito a determinare le deludenti performances del decennio, ma i) che queste sono state soprattutto il risultato delle
mancate riforme della governante
dell’economia italiana a fronte del mutato contesto internazionale
di riferimento, ii) che la stessa entità, i modi ed i tempi dell’aggiustamento, e quindi i suoi effetti recessivi, sono stati fortemente condizionati dall’assenza o dalla parzialità o dal ritardo di attuazione di queste riforme. Infine, sosteniamo che anche il processo di convergenza dell’inflazione ai livelli compatibili con l’adesione allUME, nella misura in cui si è affidato troppo al metodo della concertazione, ha
avuto riflessi negativi sulla crescita reale perché ha rafforzato il grado di corporativismo dell’economia
italiana ostacolando il processo di liberalizzazione dei mercati e le riforme necessarie ad aumentarne
il grado di concorrenza e quindi la capacità di innovazione ad esso connessa. Una stabilizzazione fisca-
le fondata sull’aumento delle entrate e non sulla riduzione delle spese è, ad esempio, la prima e più
importante conseguenza del metodo della concertazione.
La chiarezza sulla diagnosi deve essere perseguita non per attribuire meriti o demeriti a chi ha
avuto un ruolo nelle policies seguite in questo decennio, attribuzione che non è di interesse degli
estensori di questo rapporto, ma perché senza’~diagnosi non c’è prescrizione di cura. Ed infatti la
domanda che oggi ci si pone è la seguente: in qual misura la ripresa che l’economia italiana sta attra:
versando - trainata da una impetuosa fase di espansione dell’economia mondiale, dal cambio debole
e da un periodo di tassi di interesse particolarmente bassi, l’uno e gli altri già ora in tendenza opposta - è di carattere ciclico ed in qual misura essa è l’inizio di un boom strutturale capace di rafforzare
la crescita nel medio-lungo periodo e quindi accompagnarsi ad una riduzione- strutturale del tasso di
disoccupazione? Se la risposta propendesse per la seconda ipotesi, allora basterebbe non operare altre
manovre restrittive di bilancio, in modo da non frenare dal lato della domanda la fase di espansione,
e saremmo nel migliore dei mondi possibili. Non è tuttavia quest’ultima l’opinione degli estensori di
questo rapporto. Dall’analisi di questo rapporto discende al contrario che sarebbe sbagliato ritenere
che la politica di bilancio possa essere oggi conservativa, attenta solo all’andamento dell’indicatore
riassuntivo rappresentato dall’indebitamento in rapporto al PIL, che sembra non porre grandi problemi per ciò che riguarda il rispetto del patto di stabilità, e non debba essere invece attiva con I’obiettivo di ridurre strutturalmente spesa pubblica e pressione fiscale per ridare spazio alla capacità di accumulazione e crescita dell’economia.
La crescita rallentata: le cifre di un decennio di arretramento
Il tasso di crescita medio annuo del PIL negli anni novanta è stato dell’1.4 per cento, contro il
2,4 per cento degli anni ottanta ed il 3.6 per cento degli anni settanta. Esso si è quindi dimezzato
rispetto alla media dei due decenni precedenti che pur avevano subito le difficoltà dei vari shock petroliferi (vedi figura 1 e tavola 1).
Questa tendenza negativa è stata comune all’area euro, ma nell’ultimo decennio si è affermato
un divario negativo a sfavore dell’Italia che ancora persiste (vedi tavola 2 ). Nella seconda metà del
decennio (1996-1999) i paesi dell’area euro sono cresciuti in media annua del 2.2 per cento, I’ltalia
dell’i,5 per cento. Il divario di crescita è stato particolarmente forte rispetto agli Stati Uniti: il tasso
medio annuo di crescita dell’Italia è stato la metà di quello degli Stati Uniti nel decennio 90-99 e poco
più di un terzo dopo il 96. Nel decennio precedente il tasso di crescita italiano è stato al contrario
superiore a quello della media europea.
Il rallentamento della crescita è stato la conseguenza di una caduta del tasso di accumulazione, cioè della propensione ad investire in stock addizionale di capitale fisso ed in nuovi occupati, in
conquista di nuovi mercati e clienti, in ricerca e sviluppo.
L’accumulazione de/ capitale fisso
Il tasso di crescita medio annuo dello stock di capitale fisso dell’intera economia si riduce da
quasi il 5 per cento negli anni settanta, al 3.2 per cento negli anni ottanta, a circa il 2 per cento negli
anni novanta. La caduta è particolarmente forte soprattutto dal 1993 in poi, anche per la flessione degli
investimenti pubblici. La caduta della domanda di capitale fisso addizionale si è riflessa nel rallentamento della dinamica degli investimenti. Negli anni novanta, il tasso di crescita degli investimenti fissi
lordi in Italia si dimezza rispetto ai due decenni precedenti5 passando dal 2 per cento circa all’i per
cento (nell’area euro è sceso allo 0,8 per cento, mentre negli Stati Uniti è arrivato vicino al 5 per cento).
Gli investimenti fissi lordi sono anche scesi come quota del PIL dal 24 per cento di media nei primi
anni settanta (1970.75), al 20 per cento circa alla fine degli anni ottanta e primi anni novanta, al 18
per cento circa nel periodo 1993-1999 (vedi tavola 3). La caduta della propensione all’investimento è
stata frenata nella media di quest’ultimo periodo dalle agevolazioni della legge Tremonti a metà del
decennio, poi con effetti più limitati negli ultimi due anni dalle agevolazioni della legge Visco.
Anche negli anni più recenti, tuttavia, secondo una inchiesta della Commissione europeao, gli
investimenti di sostituzione hanno rappresentato la quota prevalente degli investimenti fissi lordi.
Il rallentamento del tasso di accumulazione è condiviso dagli altri paesi continentali dell’area
euro e contrasta con il fenomeno inverso avvenuto negli Stati Uniti. dove il rapporto tra investimenti
fissi lordi e PIL si è quasi raddoppiato negli anni novanta.
Un significativo indicatore della redditività degli investimenti in Italia comparativamente al resto
del mondo è dato dalla progressiva marginalizzazione dell’Italia rispetto ai flussi internazionali di investimenti diretti all’estero.
,.I’
Nel quadro di un rapido aumento di queste attività, collegato al processo di globalizzazione,
l’Italia si trova in coda ai paesi più sviluppati per ciò che riguarda la capacità di attrazione. La media
annua degli investimenti diretti all’estero nel mondo è passata da go miliardi di dollari nel decennio
1980-89 a 363 miliardi di dollari nel decennio 1990-99, ma negli ultimi anni c’è stata una accelerazione che li ha portati ad un livello stimato (FMI) in 840 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti ne hanno assorbito in media nel decennio il 6g per cento, nel biennio 1998-99 intorno al 73 per cento. L’area euro
ne ha attirato (compresi quelli all’interno dell’area) il 23 per cento circa nella media del decennio, scendendo al di sotto del 20 per cento nell’ultimo triennio ed al 18.5 per cento nel 1ggg. La quota dell’Italia
è stata intorno al 2 per cento. In generale, c’è stato uno spostamento dei flussi di investimento da
Italia, Germania, Belgio, Spagna e Francia verso i paesi del nord America, del nord Europa e dell’Asia.
Nel 1998 Gli stati Uniti hanno avuto un afflusso netto di 60 miliardi di dollari salito a 130 miliardi di
dollari nel 1ggg. L’area Euro ha avuto un deflusso netto di 117 miliardi di dollari nel 1998 e di 146
miliardi di dollari nel 1ggg. Ugualmente vi sono stati forti deflussi netti in termini di investimenti di
portafoglio dall’area euro. Cindebolimento dell’Euro, e prima di esso delle valute che ne compongono
il paniere, è il riflesso di questo spostamento. L’Italia ha avuto permanentemente un saldo netto negativo dei flussi di investimenti da e per l’estero ( tranne che nel 1ggg soprattutto a causa della operazione
Olivetti-Telecom).
L'occupazione
Ancora più forte è stata la caduta nel decennio passato della propensione all’investimento in
nuovi occupati. Il numero degli occupati (misurati in termini di unità standard di lavoro) si è ridotto di
oltre 470 mila unità tra il 1991 ed il xggg (nonostante la creazione di circa 475 mila nuove posizioni
lavorative negli ultimi due anni). Nel decennio precedente, tra il 1980 ed il 1ggo erano stati creati oltre
un milione e 350 mila unità di lavoro.
Il tasso di disoccupazione è passato in Italia dal io,1 nel 1993 all’11,4 per cento nel 1ggg. nell’area euro è passato dal io,7 al g,2 per cento. Nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione passa dal
17.1 al 22,0 per cento (dal 13,3 al 17,3 quello maschile) mostrando un ampliamento del disequilibrio
territoriale.
Il tasso di occupazione complessivo, che misura la quota di occupati sulla popolazione in condizione lavorativa, è passato nello steso periodo dal 51,g al 52,3 per cento in Italia, mentre nell’area
euro è passato dal 5g,g per cento al 62,2 per cento (nel Regno Unito è passato dal 67.3 al 70,4 per
cento). Il divario a sfavore dell’Italia si è ampliato arrivando a IO punti percentuali. Il tasso di occupazione maschile è addirittura peggiorato in Italia dal 68,2 per cento al 66.5 per cento, nell’area euro
è passato dal 70.6 al 71,5 per cento.
Ciò che questi indicatori dicono è che la propensione ad investire in nuovi occupati da parte
di vecchie e nuove imprese è molto bassa: vi è stato in particolare un impressionante disinvestimento da parte delle grandi imprese che hanno nettamente ridotto il numero complessivo degli occupati.
Inoltre, emerge un probiema di offerta di lavoro oltre che di insufficiente domanda, come dimostra il fatto che il tasso di attività passa, sempre tra il 1993 ed il iggg, dal 57.8 al 59.3 per cento in
Italia (dal 73,g al 73,1 quello maschile), conservando in tal modo un divario costante di circa g punti
percentuali a sfavore dell’Italia rispetto alla media dell’area euro. Nel Mezzogiorno il tasso di attività,
già più basso, peggiora ulteriormente scendendo dal 44,1 al 43,8 per cento (dal 62,3 al 60,4 quello
maschile).
Caumento dell’occupazione degli ultimi due anni è attribuibile per il go per cento a contratti
atipici, a tempo determinato ed a tempo parziale. Il tipo di occupazione che si è creata in questi ultimi due anni porta a due riflessioni di segno opposto. La prima è che l’introduzione di nuove regole
relative a questo tipo di occupazione, frenata a lungo ed ancora timida e parziale, può generare maggiore occupazione e ciò richiama alla responsabilità delle parti che hanno ritardato ed ancora frenano
l’adeguamento delle regole del mercato del lavoro alle esigenze sia della domanda sia dell’offerta di
lavoro in una economia avanzata. La seconda riflessione è che l’assenza di una crescita equilibrata di
posizioni di lavoro a tempo indeterminato assieme a quelle cosiddette atipiche, indica che le imprese
sono ancora disincentivate dall’investire in nuovi posti di lavoro stabili, e quindi in formazione, da regole che impediscono la flessibilità del lavoro a tempo indeterminato. Ciò pone dei forti dubbi sul fatto
che ci si trovi di fronte ad un mutamento non temporaneo della propensione ad investire in nuovi occupati e quindi ad uno spostamento su un sentiero di crescita dell’occupazione più ripido.
La produttività
La caduta progressiva del processo di accumulazione si è riflessa nel rallentamento del tasso
di crescita del rapporto capitale-lavoro (4 per cento in media annua negli anni settanta, 1.8 per cento
negli anni ottanta, I,S negli anni novanta). Anche per questo motivo il tasso di crescita della produttività del lavoro ha continuato a seguire una tendenza decrescente di lungo periodo passando da un
tasso medio annuo del 2.8 per cento negli anni settanta, ah?,7 per cento negli anni ottanta ed ah’&4
per cento negli anni novanta (I,I per cento nel periodo IggS-gg). seguendo peraltro una tendenza
comune a molti paesi dell’area euro (vedi tabella). Tuttavia, anche rispetto ai paesi europei l’Italia si
è collocata tra i paesi meno dinamici, invertendo la situazione rispetto al decennio precedente quando la produttività del lavoro in Italia cresceva più che nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti.
Soprattutto, la crescita della produttività è stata bassa rispetto ai paesi, in primo luogo gli Stati Uniti,
che nel corso del decennio hanno progressivamente accelerato la crescita entrando in quel meccanismo definito come new economy che vede nell’elevata crescita della produttività, dello stock di capitale e dell’occupazione il motore di una crescita non inflazionistica.
Da cosa è dipeso il rallentamento strutturale della crescita?
Dobbiamo ora domandarci: da cosa dipende il rallentamento strutturale della crescita in Europa
e soprattutto il differenziale che Malia continua a mostrare, anche nel corso della attuale ripresa,
rispetto agii altri paesi europei? Ciò conduce ad una ulteriore domanda: cosa ha determinato la caduta del tasso di investimento in Italia ed in Europa rispetto agli Stati Uniti e ad altri paesi del nord
Europa? Perché sembrano esservi poche imprese italiane od estere disposte ad investire in macchinari, nuove tecnologie, innovazione e ricerca, e soprattutto in nuova occupazione in Italia, 0 perlomeno
sono meno disposte a farlo in Italia piuttosto che nei paesi che oggi si trovano alla frontiera della crescita e dell’innovazione? Una prima risposta sta nelle basse aspettative di crescita. Tuttavia questa
risposta non è interpretabile keynesianamente dal lato della domanda. Essa, pur contenendo parte
della verità, riporterebbe al punto di partenza, giacché il basso tasso di crescita della domanda è esso
stesso determinato dal basso tasso investimento. La risposta va cercata dal lato dell’offerta.
Al cuore della fase particolare di espansione degli Stati Uniti e dei paesi che mostrano una maggiore crescita vi è la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (IC?
Information and communication technologies),
anche se è ancora difficile misurare con certezza il loro
apporto alla crescita stessa. Recenti studi 7 mettono tuttavia in rilievo come le ICT stiano dando un
apporto di rilievo e crescente, almeno nei paesi alla frontiera di questa rivoluzione tecnologica, alla
crescita economica tramite la spinta che esse danno agli investimenti sia in ICT sia in altro capitale
fisso, alla creazione di occupazione addizionale ed all’aumento della produttività del lavoro, anche se
è difficile riscontrare un aumento della TFP (produttività totale dei fattori). Da questi studi empirici risulta anche che l’Italia è l’ultima in graduatoria tra i paesi avanzati in termini di spesa ed investimenti in
ICT e soprattutto è l’ultima in termini di apporto alla crescita ricevuto da queste tecnologie, con la conseguenza che anche l’accumulazione di capitale fisso non-ICT e l’occupazione ristagnano. Inoltre, il
divario sembra essersi accresciuto almeno fino alla seconda metà degli anni novanta. Ciò pone due
ordini di domande. La prima riguarda le possibili cause di questo ritardo, la seconda riguarda la possibilità per l’Italia di agganciarsi in tempi rapidi al boom strutturale trainato dalla rivoluzione tecnologia che il mondo, o parte del mondo, sembra stia vivendo. Non è nelle possibilità né nelle intenzioni
di questo rapporto di tentare di rispondere a queste domande, ma alcune riflessioni sono necessarie
per spiegare perché le previsioni di questo rapporto guardino alla fase di espansione che l’Italia sta
vivendo prevalentemente, anche se non completamente, come espansione ciclica trainata dalla crescita altrui.
Il ritardo accumulato dall’Italia nelle ICT nel corso del tempo e soprattutto nell’ultimo decennio
potrebbe far pensare che oggi si sia avviato un fenomeno di catching up capace di accelerare la cre-
scita e dare luogo ad una fase di boom strutturale. Le seguenti considerazioni ci spingono a dubitare
di questa visione ottimistica.
Primo. La rivoluzione delle ICT implica che i costi di aggiustamento relativi ai nuovi investimenti
ed i costi di apprendimento siano più alti che nelle vecchie tecnologie.
Secondo. E’ stato stimato che l’introduzione delle nuove tecnologie all’inizio non provochi
immediatamente una più alta produttività totale dei fattori. In altri termini, lo spostamento di risorse
verso le ITC sposta l’economia verso un sentiero di crescita più ripido solo dopo un possibile rallentamento. In molti casi, anche l’aumento dei profitti è prospettico. Il ritardo con il quale gli effetti delle
ITC si riflettono sulla crescita e sulla produttività dell’intera economia dipende dal fatto che l’impatto
maggiore sulla produttività sembra essere quello che si verifica nei settori della “vecchia economia”
grazie all’introduzione delle ICT ma solo dopo al termine dei processi di aggiustamento e di apprendimento che queste richiedono. La new economy manifesta le sue caratteristiche solo in questa fase.
Terzo. Indagini su un campione di imprenditori italiani che hanno avviato imprese nel settore
della cosiddetta e-economy
mostrano un livello medio di istruzione, soprattutto nel campo tecnico,
nettamente inferiore a quello riscontrato in indagini simile negli altri paesi europei, e ciò forse implica che anche queste imprese si basino meno su processi di innovazione tecnica. La carenza di manodopera qualificato nel campo delle ICT è più elevata in Italia che altrove.
Quarto. Per quanto rilevato sopra, una crescita trainata dalle nuove tecnologie richiede una alta
propensione al rischio ed all’innovazione, strutture finanziarie e del credito tali da supportare queste
propensioni, una forza lavoro qualificata ed un sistema di formazione in grado di sostenerla, un mercato del lavoro flessibile che incentivi l’offerta di lavoro con qualifiche adeguate e la partecipazione ai
processi di formazione, un ambiente competitivo che faciliti la nascita di nuove imprese ed incentivi il
rischio d’impresa, un sistema fiscale che faciliti tutto ciò riducendo quanto più possibile l’assorbimento di risorse dal settore privato.
Queste riflessioni ci spingono a prevedere che l’Italia avrà ancora qualche difficoltà a porsi tra
i paesi che sono alla frontiera della crescita e dell’innovazione, che in ogni caso i frutti in termini di
crescita di un tentativo di cafching up non sono immediati, che questo aggancio richiede una profonda e rapida riforma delle istituzioni economiche ed un massiccio intervento di liberalizzazione dei mercati e di riduzione della pressione fiscale.
D’altra parte, il divario di aspettative di crescita tra i paesi è di per sé una causa di riduzione
possibile del tasso di accumulazione in un contesto di integrazione dei mercati dei capitali.
La riduzione del tasso di accumulazione in Europa ed in Italia è stato anche l’effetto dello spostamento di capitali verso altri paesi dove il tasso di rendimento è atteso maggiore.
Nell’ultimo decennio tutte le fasi espansive dell’economia italiana, compresa quella in corso,
sono dipese da periodi di crescita sostenuta in altri paesi e da shock positivi sulle esportazioni conseguenti a deprezzamenti della lira nel corso degli anni novanta ed oggi dell’euro. I paesi interessati
da un boom strutturale dovuto alle aspettative di alti profitti derivanti dallo sviluppo della economia
dell’informazione attirano i capitali dai paesi europei che non sono ancora riusciti a cogliere queste
opportunità di sviluppo, o non sono riuscite a coglierle nella stessa misura. Il boom estero è quindi
una prima causa di perdita di risorse per i paesi che crescono meno, o la cui produttività è prevista
dagli operatori crescere meno, e quindi di deprezzamento reale della valuta di questi paesi. Questo
meccanismo che è alla base dell’attuale deprezzamento dell’euro ha consentito di aumentare le esportazioni ma l’aumento delle esportazioni ha spostato risorse dagli investimenti e quindi dalla formazione di nuovo capitale produttivo.
Ma quali sono state le cause specifiche che hanno allontanafo
i lavoratori dall’occupazione?
i capitali da un uso inferno ed
Una di queste è l’aumento impressionante, continuato anche negli anni novanta, dei redditi non
da lavoro - il complesso dei redditi da proprietà private, servizi di case in proprietà ed altri beni di
consumo, sicurezza ed assistenza sociale ed altri trasferimenti dovuti a programmi di Welfare o di riequilibrio territoriale - in rapporto al reddito complessivo. Questo squilibrio è stato certamente amplificato dall’aumento della pressione fiscale sui redditi da lavoro, determinato dalla necessità di finanziare l’aumento della spesa pubblica che sta dietro l’aumento della ricchezza sociale.
La crescita relativa di questi redditi non da lavoro derivanti da ricchezza privata o da ricchezza
sociale ( misurata come il valore presente dei diritti accum’ulati di varia natura a ricevere dalle amministrazioni pubbliche prestazioni future in natura, sanitarie e di altro tipo, o pagamenti in denaro, principalmente pensioni) sono, secondo una interpretazione strutturalista del mercato del lavoro*, una
causa di basso tasso di attività e basso tasso di occupazione, soprattutto nel mezzogiorno dove questa ricchezza relativamente ai redditi da salari è elevata. La,relazione tra alto tasso di disoccupazione
strutturale ed elevati redditi non da lavoro è alla base del consenso, almeno tra gli esperti, intorno a
riforme dei programmi di Welfare in direzione di un’ Welfare to work, cioè di programmi che sussidino
il lavoro e non programmi che consentano la permanenza al di fuori del lavoro9.
Questi fenomeni, in parte comuni a molti paesi europei, determinano effetti particolarmente
depressivi sull’occupazione in un contesto fortemente dualistico come quello italiano, che vede la
disoccupazione fortemente concentrata nel mezzogiorno. Essi, infatti, sommati alla centralizzazione
della contrattazione con l’eliminazione dei differenziali salariali, hanno ostacolato il riequilibrio territoriale e con esso la riduzione del tasso di disoccupazione.
In una situazione di divario dei tassi di disoccupazione tra il mezzogiorno ed il centro-nord,
possono operare due meccanismi per superare il disequilibrio. Il primo è l’aggiustamento salariale: i
tassi salariali dovrebbero scendere nelle aree ad alta disoccupazione rispetto a quelli con bassa disoccupazione in modo da compensare i divari di produttività, attirare investimenti, generare sviluppo locale e quindi occupare successivamente forza lavoro a salari più elevati. L’altro meccanismo di aggiustamento è la mobilità regionale del fattore lavoro. Una parte della forza lavoro delle regioni con alta
disoccupazione dovrebbe emigrare, attirata dai differenziali salariali! verso le regioni con carenza di
manodopera. In tal modo in queste ultime aree l’aumento della forza lavoro permetterebbe l’aumento
dell’occupazione ed una maggiore crescita non inflazionistica.
In Europa e soprattutto in Italia questi meccanismi non hanno potuto operare. L’emergere di differenziali salariali non è stato possibile a causa dei meccanismi centralizzati di contrattazione collettiva (ed i tentativi compiuti negli ultimi anni attraverso la cosiddetta programmazione negoziata hanno
consentito una differenziazione solo in via sperimentale e soprattutto come “eccezioni” alla regola), ed
allo stesso tempo non si è generato un flusso migratorio significativo per molti fattori. Elevati trasferimenti statali alle regioni più arretrate hanno consentito di generare sia redditi non da lavoro, che
sopra abbiamo chiamato ricchezza sociale, sufficientemente elevati, sia una ipertrofia del settore pubblico a bassa produttività e con salari generalmente più elevati che nel settore privato che hanno disincentivato l’offerta di lavoro al settore privato, consentito un basso tasso di attività ed al tempo stesso disincentivato i flussi migratori. Tutto ciò a contribuito a spingere in alto il tasso di disoccupazione
Lo sviluppo del settore informale ha consentito di ottenere una certa differenziazione salariale
ma al prezzo di degradare l’ambiente operativo delle imprese ed il grado di applicazione e rispetto
della legalità, di distogliere forza lavoro dall’esercitare una pressione competitiva nel settore formale e
di ridurre l’incentivo all’inclusione sociale mediante investimento in formazione ed il lavoro nel settore formale dell’economia. Altri fattori quali la regolamentazione del mercato delle locazioni ed il trattamento fiscale dello stesso mercato hanno poi contribuito a scoraggiare la mobilità territoriale.
Il risultato è il paradosso di una insufficiente crescita della forza ‘lavoro disponibile congiunta
ad alti tassi di disoccupazione e, nel mezzogiorno, un livello di benessere relativamente elevato rispetto ai redditi guadagnati. Questo implica che il tasso di disoccupazione strutturale, o di equilibrio, sembra attestato in Italia ad un tasso medio superiore al 10 per cento.
Rimane da considerare il ruolo che ha esercitato la legislazione di protezione dell’occupazione
che limita fortemente la flessibilità dell’uso della forza lavoro. In realtà, la garanzia offerta agli occupati
sulla conservazione del proprio posto di lavoro tende a deprimere l’incentivo a cambiare lavoro e può
avere anche un effetto benefico sulla produttività; in tal modo i costi per le imprese che non debbono
investire per avere la fedeltà dei lavoratori si riducono e l’occupazione ne ha beneficio. D’altra parte,
un’impresa viene scoraggiata dall’assumere un nuovo lavoratore quando sa che poi non potrà mai licenziarlo, o a costi molto elevati. In una economia dinamica ad alta propensione all’investimento ed all’innovazione, dove quindi è importante la nascita di nuove imprese, questo effetto negativo è probabilmente molto forte. Certamente lo e meno in una economia non dinamica, ed è stato naturalmente sottovalutato in un sistema fortemente corporativo come quello italiano dove il mantenimento della struttura produttiva esistente sembra essere stato per molto tempo un obiettivo ampiamente condiviso.
1
L’aggiustamento fiscale e la convergenza dell’inflazione
Dovremo ora dar conto dell’affermazione secondo la quale, a giudizio degli estensori del presente rapporto, è fuorviante interpretare il rallentamento non congiunturale dell’economia italiana nel
decennio passato attraverso spiegazioni legate al ciclo della domanda influenzato dalle politiche di
aggiustamento fiscale messe in atto per il conseguimento degli obiettivi di convergenza fiscale, del
Trattato di Maastricht.
La dimensione dell’aggiustamento fiscale operato dall’Italia tra il 1989 ed 1ggg è stato di circa
8 punti in percentuale del PIL: l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche è passato dal g,8
per cento del Pil nel 1989 all’1.g per cento nel iggg. Tuttavia, tra il 1992 ed il iggg il saldo del bilancio pubblico statunitense è passato da un disavanzo del 6.0 per cento del PIL ad un avanzo dell’i,4
per cento, l’aggiustamento è stato quindi di 7,,!, punti percentuali, una dimensione dell’aggiustamento comparabile a quella italiana (o a quella dell’area euro che nello stesso periodo ha conseguito un
aggiustamento di 6.8 punti percentuali). La differenza è che negli Stati Uniti l’aggiustamento è stato
conseguito mediante riduzione delle spese pari a 5 punti percentuali del Pil e per poco più di due
punti percentuali mediante aumento delle entrate, mentre in Italia l’aggiustamento è stato perseguito
attraverso un aumento di quasi 5 punti percentuali delle entrate, una riduzione di 2 punti della spesa
per interessi e di I,I punti percentuali della spesa primaria, determinata quest’ultima soprattutto dalla
riduzione della spesa in conto capitale. Alla fine del decennio negli Stati Uniti le entrate rappresentano il 31 per cento del PIL, in Italia il 46.9 per cento. Naturalmente, l’altra differenza è che negli Stati
Uniti l’aggiustamento è stato perseguito in una fase di forte crescita dell’economia ed in Italia in una
fase vicina alla stagnazione. Ciò non dimostra che il modo differente di perseguire l’aggiustamento sia
stata la causa, o la causa principale, delle differenti performances delle due economie, ma è altrettanto
difficile sostenere che il rallentamento della crescita italiana sia solo ascrivibile ad una carenza di
domanda effettiva determinata dall’aggiustamento fiscale.
Il modo, tuttavia, con il quale l’aggiustamento è stato perseguito in Italia non è stato neutrale nel determinare i cattivi risultati conseguiti nel decennio. Due punti si vogliono qui ricordare.
Un primo punto da mettere in rilievo è che l’aggiustamento fiscale non è stato conseguito attra- ’
verso una riduzione del ruolo delle amministrazioni pubbliche nella formazione e distribuzione del reddito. Le spese correnti non si sono ridotte dall’inizio del decennio in percentuale del Pil se non marginalmente, e soprattutto per la componente relativa agli interessi, mentre sono state le entrate ad adeguarsi all’alto livello delle spese, in particolare la pressione fiscale è aumentata di circa quattro punti
percentuali del Pil dai livelli già alti raggiunti all’inizio del decennio. Nel breve periodo, è ovviamente
abbastanza illusorio pensare di poter correggere in tempi rapidi la spesa legata a meccanismi che richiedono riforme complesse ed è abbastanza naturale che sia necessario ricorrere ad un inasprimento fiscale nelle situazioni di emergenza. Ciò è quanto avvenne tra il 1989 ed il 1993, anni in cui fu affrontata
una situazione di potenziale crisi fiscale dello stato. Al forte inasprimento fiscale, che servì a conseguire l’arresto della crescita dell’indebitamento netto di fronte alla crescita accelerata della spesa per
interessi e prestazioni sociali, sarebbe dovuta tuttavia seguire l’azione di riduzione della spesa e, compatibilmente con questa, una discesa successiva della pressione fiscale. Una rilettura del dibattito di
politica economica del tempo sarebbe utile a ricordare come questa necessità fosse già allora all’ordine del giorno nella consapevolezza che l’alta pressione fiscale condizionava negativamente l’attività di
investimento e lo sviluppo economico. Ciò tuttavia non accadde. Dopo la prima riforma del sistema
previdenziale del iggz, furono operate solo ulteriori correzioni parziali nel 1995 e la riforma complessiva dello Stato sociale è rimasta nei rapporhscritti
da varie commissioni governative di esperti.
La difficoltà di attuazione di riforme strutturali della spesa pubblica rese particolarmente onerosa l’azione di aggiustamento per vari motivi. In primo luogo si determino una incertezza sulla capacità dell’Italia di soddisfare i parametri per la partecipazione allUME, e questo ritardò la discesa dei
tassi di interesse e con essi la spesa pubblica per interessi. A tale ritardo contribuì anche l’incertezza
politica che si determinò quando dopo la caduta del governo di centro destra si attese un anno e
mezzo, per scelte istituzionali, per arrivare a nuove elezioni e quindi ad un governo che potesse porsi
l’obiettivo concreto dell’entrata dell’Italia nell’Unione monetaria europea fin dalla prima fase. Poiché la
riduzione dei tassi è stata la principale determinante del processo di risanamento successivo, questo
ritardo ha comportato un ulteriore accumulo di debito che ha influenzato la pesantezza dell’aggiustamento del disavanzo primario che si rese necessaria nel 1997.
La seconda conseguenza negativa di questa incertezza fu quella di creare aspettative di continui inasprimenti fiscali. L’incertezza sull’evoluzione dei redditi al netto dei prelievi fiscali determinò
effetti recessivi superiori al necessario deprimendo le aspettative sul reddito permanente e quindi riducendo la spesa per consumi e scoraggiando gli jnvestimenti. Le aspettative di ulteriori inasprimenti
fiscali furono peraltro confermate con la nuova ‘azione di inasprimento fiscale condotta dal 1997 per
conseguire l’obiettivo di portare l’indebitamento netto al di sotto del 3 per cento necessario all’adesione all’unione monetaria in assenza di riforme strutturali della spesa. La pressione fiscale salì di altri
due punti percentuali e l’avanzo primario arrivò al 6,7 per cento.
L’obiettivo fu centrato grazie alla discesa dei tassi di interesse favorita nel 1996 dalla discesa
dell’inflazione e poi dal rafforzarsi delle aspettative di ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria.
to:
to
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in
Dopo il 1997. l’aggiustamento proseguì grazie al progressivo ridursi dell’onere medio sul debiciò consentì un leggero aumento delle spese correnti, una riduzione della pressione fiscale rispetal picco del 1997 e la riduzione ulteriore dell’indebitamento netto in percentuale del Pil. Va rilevache l’unica voce delle spese correnti, oltre agli interessi, che si sia ridotta in rapporto al Pil dal 1995
poi è quella delle retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Il secondo punto da mettere in rilievo è che il modo in cui è stato ottenuto il riequilibrio finanziario del settore pubblico non è indipendente dal modo in cui è stato ottenuto l’altro risultato positivo del decennio: la convergenza dell’inflazione alla media europea.
L’aggiustamento della dinamica dei prezzi, e quindi della dinamica delle retribuzioni nominali,
al livello richiesto dal trattato di Maastricht è stata conseguita fondamentalmente grazie alla conduzione di una politica monetaria diretta alla formazione presso gli operatori di aspettative di riduzione
dell’inflazione e mediante una moderazione salariale conseguita attraverso accordi di politica dei redditi presi poi a modello per le cosiddette politiche di concertazione.
Non si nega che un accordo di predeterminazione salariale serva in una fase in cui è necessario interrompere comportamenti degli operatori determinati da aspettative indotte da passate dinamiche nominali dei prezzi e dei salari, ma la concertazione, cioè l’aver fatto assurgere la concertazione a
“metodo” di governo, ha rappresentato il contrario della politica che sarebbe stata necessaria. Ciò che
la teoria economica di base suggerisce è che la dinamica dei salari reali è essenzialmente determinata nel medio-lungo periodo dalla crescita della produttività, mentre il livello dei prezzi, in una economia aperta ed integrata con i mercati mondiali dei prodotti, è essenzialmente determinato dal grado
di concorrenza dei mercati, soprattutto quando la politica monetaria è fuori del controllo nazionale. Il
metodo della concertazione ha favorito il rapido rallentamento della crescita dei salari nominali, e quindi del tasso di inflazione, ma ha aumentato il tasso di corporativismo dell’economia italiana rendendo
quasi impossibili o molto lente le riforme delle istituzioni economiche,.la
liberalizzazione del mercato
del lavoro, la riforma delle istituzioni dello Stato sociale, la riduzione della spesa pubblica e della
pressione fiscale che alle prime riforme è legata. Il metodo della concertazione è diventato di fatto un
elemento di paralisi dell’attività decisionale dei governi e di distorsione nel delineare regole chiare di
governante dell’economia, rafforzando la struttura di contrattazione centralizzata, estendendola ad
ambiti che non dovrebbero essere di natura contrattuale ed introducendo un sistema di discrezionalità
nelle regole che sono diventate esse stesse oggetto di contrattazione continua.
Solo negli ultimi anni, infine, si è avviata la liberalizzazione dei mercati di alcuni servizi di pubblica utilità, i cui primi effetti sui prezzi si sono avuti soprattutto nel settore della telecomunicazioni.
La conseguenza del ritardo che ancora l’Italia ha nella liberalizzazione dei mercati è che il tasso
di inflazione italiano rimane strutturalmente ancora più elevato di quello degli altri paesi europei.
D’altra parte, se la concertazione ha consentito di frenare la dinamica dei salari nominali - e
quindi di conseguire il risultato positivo della discesa del tasso di inflazione, dei tassi di interesse e
della spesa pubblica per l’onere del servizio del debito - essa non ha impedito la netta riduzione delle
retribuzioni reali al netto delle imposte dirette e dei contributi sociali a carico dei lavoratori. Secondo
l’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, tra il 1989 ed il 1998 le retribuzioni reali
nette si sono ridotte mediamente dell’8.6 per cento, quelle dei lavoratori a tempo pieno del 5 per
cento circa.
La riduzione dei redditi reali al netto di tasse crescenti, necessarie a sostenere una spesa pub-
blica crescente per prestazioni sociali, è stato un fenomeno negativo per la crescita,*e non tanto perché ciò ha contribuito a deprimere i consumi e la domanda effettiva, quanto perché ha contribuito a
deprimere il tasso di attività, l’interesse al lavoro ed alla formazione per il lavoro, a disincentivare la
mobilità della forza lavoro e quindi ad aumentare il tasso di disoccupazione.
1.3. La congiuntura
La crescita dell’economia italiana nel primo trimestre 2000 è andata oltre le attese per quanto
concerne sia l’offerta (produzione) sia, soprattutto, la domanda. Nel primo trimestre del 2000, il PIL
ha fatto registrare uno degli incrementi congiunturali più sostenuti (+I% rispetto il trimestre precedente) degli ultimi sette anni (solo nel primo trimestre 1995 e nel secondo 1997 era andata meglio).
Lo stesso aumento tendenziale (+3% rispetto al corrispondente trimestre del ‘99) si colloca ai livelli
più elevati degli ultimi sei anni (solo nel primo trimestre del 1995 era stato superiore).
Anche se il confronto è lievemente distorto a causa dei due giorni lavorativi in più rispetto al primo
trimestre del ‘99, l’incremento del Pil già acquisito per il 2000 sulla base di tale risultato è pari al 2%
(sarebbe questo, infatti, l’aumento medio annuo se la variazione congiunturale nei tre trimestri successivi al primo dovesse risultare pari a zero). Al contrario, se i prossimi tre trimestri ripetessero la
stesso incremento congiunturale del primo, si avrebbe una crescita vicina al 4%; come mostra la prima
colonna della Tabella 1, questa ipotetica dinamica situerebbe l’Italia nel novero delle economie più
vivaci in questa fase espansiva che il ciclo economico sta vivendo. Sulla base di queste considerazioni, la stima della crescita del PIL nel 2000 può essere collocata tra il 2,5 e il 3 per cento; se si guarda alla media delle previsioni dei vari centri specializzati, la revisione al rialzo sospinge la crescita dell’economia italiana più verso l’estremo superiore che verso quello inferiore.
Tab. 2. Tasso di crescita del PIL, Tasso di Disoccupazione e Tassi di interesse %
PIL
D ISOCCUPAZIONE
TASSI DI INTERESSE
A BREVE TERMINE0
PREVISIONI*
3 MESIA
STATI UNITI
G.BRETAGNA
G ERMANIA
EURO 11
FINLANDIA
I RLANDA
1 ANNOB
1999
4.2
4.8
6.2
11.3
10.5
11.7
3.4
16.1
10.1
13.3
5.8
4.1
4.8
5.7
9.8
9.6
11.2
2.9
14.1
9.2
11.9
4.6
2000
2001
1999
2000
2001
MAG.
4.2
4.8
5.4
9.6
8.2
10.5
2.9
13.5
7.9
9.3
4.3
5.4
0.2
6.7
0.3
7.3
0.7
2.95
-
4.6
5.1
A PR .
A PR .
APR.
A PR .
GEN.
MAG.
APR.
A PR .
MAG.
,",AG.
a crescita congiunturale annualizzata (ultimo trimestre su trimestre precedente x 4).
b I trimestre 2000 su I trimestre 1999; c IV trimestre 1999; d Ill trimestre 1999.
* The Economist Poll.
O Stati Uniti: Titoli del Tesoro a ymesi; Giappone: CD a j-mesi; Area Euro: tassi interbancari a 3-mesi
Fonti: Oecd, The Economis
Da cosa è dipesa questa inattesa accelerazione? I fattori interni ed internazionali su cui questa
dinamica si poggia sono sufficientemente robusti e stabili per assicurare un prolungamento di questo
ritmo di crescita anche per il prossimo anno e per quelli successivi? La prima patte di questo rapporto è dedicata alle risposte a questi interrogativi.
La domanda
Sebbene l’evoluzione dell’economia italiana sia trainata, dal lato della domanda aggregata,
dalle esportazioni nette - l’incremento tendenziale dell’export di beni e servizi è stato addirittura del
11,3% rispetto al 5,4% dell’import - e, in misura minore, dagli investimenti fissi lordi (+6,0%), la prin-
cipale sorpresa è rappresentata dall’andamento dei consumi delle famiglie. La spesa delle famiglie sul
territorio nazionale è cresciuta del 2,4%, con un incremento congiunturale pari all’l.l%, ossia ha
mostrato un andamento in contrasto con altri segnali congiunturali, come le vendite al dettaglio (diminuite in termini reali nel primo trimestre 2000). la, produzione manifatturiera di beni di consumo (-I%),
e la stessa fiducia delle famiglie rilevata dall’indbgine ISAE, il cui indicatore, risalito in gennaio, è nuovamente sceso nel bimestre successivo. Nel periodo iggq.I-2ooo.lV un aumento congiunturale così
forte non si era mai verificato, con l’eccezione del Il trimestre del ‘97 (+1.6%).
Tab. 3. Tasso di inflazione % e Tassi di cambio
INFLAZIONE AL CONSUMO
T A S S O DI CAMBIO
PoNDERnros
PREVISIONI
STATI UNITI
G IAPPONE
G.BRETAGNA
FRANCIA
G ERMANIA
I TALIA
OLANDA
SPAGNA
EURO 11
F INLANDIA
IRLANDA
3 MESI*
1 ANNO
4.6
MAGGIO
3.1
-0.8
-0.8
6.4
2.5
2.0
3.0
6.2
3.8
3.1
5.9
5.6
3.1
1.5
1.4
2.5
2.4
3.1
1.9
2.9
5.9
2000
3.1
-0.2
2.4
1.2
1.6
2.2
2
2.7
1.8
2001
2.6
0.1
2.4
1.1
1.4
1.8
2.4
2.3
1.6
-
1999
110.4
129.9
104.1
104.3
101.8
74.4
100.3
75.8
85.9
79.6
91.1
G IUGNO
2000
109.2
155.4
104.2
101.8
98.5
72.6
97.9
74.2
79.8
77
87.8
T A S S O DI
N OMINALE
1999
CAMBIO
PER
$
G IUGNO
2000
122
0.63
6.36
1.9
1878
2.14
161
0.97
5.77
0.76
106
0.67
6.93
2.07
2047
2.33
171
1.06
6.2
0.82
a crescita congiunturale annualizzata (ultimo trimestre su trimestre precedente x 4).
’ indice quote commerciali, 1990 = 1000.
Fonti: Vedi Tabella precedente.
Stando agli indicatori anticipatori della produzione e all’andamento del clima di fiducia delle
imprese, la fase espansiva non dovrebbe arrestarsi nei prossimi mesi. Le prospettive di una prosecuzione della ripresa, con un suo diffusci rafforzamento, trovano conferma nelle più recenti inchieste
dell’lsae; esse continuano, infatti, a mostrare giudizi favorevoli sull’evoluzione dell’economia, soprattutto nel settore dei beni d’investimento e nelle attività collegate, che sembrano avere particolarmente beneficiato dell’accelerazione della domanda e dell’ancora modesto costo del denaro, sempre vicino ai suoi minimi storici Tuttavia, queste condizioni sono destinate a svanire dopo le recenti decisioni della Banca Centrale Europea che stanno determinando un riallineamento verso l’alto dei tassi d’interesse. Questa tendenza non è l’unica zona d’ombra che permane nel quadro congiunturale, il cui stato
è di norma improntato alle attese sull’evoluzione degli ordini, sia dall’interno sia dall’estero. Le imprese appaiono ancora riluttanti a espandere la capacità produttiva e ad aumentare ulteriormente la produzione. Questo atteggiamento permane a dispetto del migliorato andamento della domanda, delle
basse giacenze di magazzi~no e del grado di utilizzazione degli impianti produttivi, che, secondo l’indagine ISAE, nel corso del 2000 si sta riportando verso i livelli di fine’ ‘97.inizio ‘98, dopo la pronunciata caduta tra il Il e il IV trimestre del 1998. Il fatto è che non risulta semplice spiegare questi comportamenti facendo riferimento esclusivamente alle componenti della domanda, come ad esempio quella relativa ai beni di consumo. Il problema è rappresentato, evidentemente, dalle deludenti aspettative delle imprese circa l’evoluzione futura, come risulta fra l’altro dalla più debole dinamica produttiva
proprio nel comparto dei beni destinati al consumo finale.
Tab. 4. Commercio internazionale e bilancio pubblico
B ILANCIA
MILIARDI
COMME RCIAL E
DI
$
BILANCIA CONTO CORRENTE
M ILIARDI DI $
,7
ULTIMI
ST A T I UN I T I
G IAPPONE
G.BRETAGNA
FRANCIA
GERMANIA
ITALIA
O LANDA
S PAGNA
EVRO 11
FINLANDIA
I RLANDA
ULTIMO
MESE
36.91°
12.90
-2.97*
12 MESI
ULTIMI
12 MESI
-389.4
0.310
4.920
0.7*
1.01*
-3.3*
2.4*
0.76'
1.8#
126.6
-41.8
14.7
65.1
11.2
-367.24.8
I TRIM
117.2 I TRIM
-20.7 IV TRIM
35.5
M AR
-22.6
APR.
5.3
M AR .
11.8
23.6
-36.7
46.1
11.3
25.1
-13.7
17.4
7.3
1.3
I TRIM
FEB.
I TRIM
A PR .
Ill TRIM
BILANCIO PUBBLICO
% PIL
PREVISIONI
% PIL
P REVISIONI
2000
-4.5
2.6
-1.9
2.4
-0.6
1.1
4.5
-1.2
0.7
2001
-4.4
.
.
2.9
-2.1
2.3
-0.3
1.2
4.5
-1.0
0.8
1999
1.0
-7.0
1.1
-1.8
2000
0.0
-7.7
0.9
-1.6
2001
0.1
-7.3
0.i
-1.3
-1.1
-0.9
-1.3
-1.9
0.5
-1.1
-1.2
2.3
1.7
1.5
1.1
ND
Nc
-0.6
-
-0.:
O aprile; * marzo; # febbraio
Fonti: Vedi Tabella 1.
Dove trovano origine e alimento queste aspettative? Una risposta sbrigativa e rassicurante -.
ma a nostro giudizio fuorviante - a questa domanda consiste nel fare riferimento ad un ipotizzabile
meccanismo di aggiustamento dell’offerta, che si adatta alle variazioni della domanda secondo una
prefissata struttura di ritardi, a sua volta dipendente dai costi e dai vincoli tecnici. Secondo questa
visione del funzionamento di un sistema economico, esiste un breve periodo durante il quale l’offerta finisce per seguire l’andamento della domanda con una velocità che varia da economia ad economia. Allora, secondo questo punto di vista, data la tendenza in atto alla riduzione delle scorte di prodotti finiti e la divaricazione tra l’andamento della domanda e quello dell’attività produttiva (manifat-~
turiera, in primo luogo), confermata appunto dal calo delle scorte, sarebbe prevedibile che questo~
“potenziale” di domanda accumulata si traduca, prima o poi, in livelli di produzione più elevati. Gli
autori del Rapporto FREE non condividono questa “visione” ed in particolare una divisione troppo schematica tra un breve periodo (che non si capisce mai bene quanto “breve” sia) durante il quale è la
domanda a determinare il livello della produzione (e quindi del reddito) e un lungo periodo in cui, viceversa, la domanda non conta più niente e la produzione dipende solo dall’offerta, ossia dalla disponibilità di risorse (capitale e lavoro in primo luogo), dal progresso tecnologico, dal capitale umano e
dalle regole istituzionali. Oltretutto, come abbiamo già notato nella presentazione, da questa suddivisione schematica restano fuori elementi importanti per comprendere il funzionamento dei sistemi economici. Nel medio periodo contano gli shock occasionali che colpiscono sia la domanda e, pur se transitori, hanno effetti che durano nel tempo, sia la struttura dell’offerta e, soprattutto, il meccanismo
attraverso il quale tali shock interagiscono con le regole istituzionali proprie di ciascun paeselo. Di conseguenza, diventano rilevanti le politiche in grado di influenzare gli incentivi che dettano le decisioni
delle persone (imprenditrici, lavoratrici, consumatrici, risparmiatrici, etc.). I modelli formali, le statistiche e gli stessi schemi mentali che non tengono conto di questi fattori, delle relazioni a volte complicate che li legano fra di loro, e delle regole istituzionali che forniscono il fondo e, allo stesso tempo,
la cornice a tale intreccio rischiano di fornire interpretazioni fuorvianti e, quindi, “ricette” sbagliate.
In conclusione, il risultato messo a segno dall’economia italiana nel trimestre iniziale del
zooo è, ovviamente, un fatto positivo, ma in sé non autorizza slanci di ottimistica attesa circa le
prospettive future.
/ prezzi
La precedente conclusione è rafforzata dall’osservazione di quanto sta avvenendo sul fronte
dei prezii. Le statistiche dell’Istat mettono in rilievo l’accumulo di un certo potenziale inflazionistico:
ad Aprile la variazione tendenziale dei prezzi alla produzione ha segnato un valore del 5,3%; a mag-
gio i prezzi al consumo sono cresciuti, rispetto allo stesso mese del ‘gg, del 2.5%.
Le indicazioni provenienti dall’indagine mensile dell’lsae” sulle intenzioni di revisione dei prezzi di vendita delle imprese industriali mostrano, sin dalla seconda metà dell’anno scorso, aspettative
di rialzo dei listini, rafforzate dai dati di gennaio e febbraio di quest’anno; l’ultima inchiesta di aprile
conferma le spinte inflazionistiche. Un’evidente ripresa dell’inflazione, con diffuse aspettative di aumento dei prezzi, emerge a partire dai dati del luglio ‘gg (+g). L’impennata si verifica, poi, nei mesi da gennaio (+21) ad aprile (+17). Il rialzo delle quotazioni del petrolio si trasmette, dunque, sui listini industriali e sembra estendersi dai beni intermedi a quelli d’investimento
Il rialzo del prezzo del petrolio avrà come effetto un’inflazione media annua per il 2000 vicina
al 2 _ per cento, oltre 2/3 di punto percentuale in più del risultato (1,7%) conseguito nel 1ggg. I timori di una dinamica dei prezzi al consumo fuori controllo sono esagerati; tuttavia, poiché le quotazioni
internazionali del petrolio continuano ad essere volatili e non lasciano presagire una stabilizzazione del
prezzo del barile di greggio attorno a qualche livello “normale” (e tantomeno sotto i 30 dollari), la prevedibile inversione di tendenza nell’evoluzione dei prezzi continuerà ad essere differita nel corso del
corrente anno. In queste condizioni, lo stesso moderato andamento delle retribuzioni pro capite dei
lavoratori non può più essere dato per scontato e, di conseguenza, si potrà rendere indispensabile un
drastico intervento governativo sulle tariffe allo scopo di non spingere oltre il 2000 il riavvicinamento
dell’inflazione ai valori programmati e, soprattutto, a quelli dei competitori.
Tuttavia, difficilmente sarà centrato l’obiettivo del 2% indicato dal Governo nell’aggiornamento
di marzo-aprile della Relazione previsionale. E ciò per il solo effetto dell’effetto di trascinamento avuto
in lascito dall’anno passato, che ha lasciato all’anno in corso un’inflazione già “acquisita” pari aIl?%,
a cui si sono aggiunti gli elevati incrementi mensili del trimestre iniziale. I margini di manovra di qui a
dicembre appaiono, pertanto, molto ristretti e occorrerebbe un aumento medio in ciascuno dei prossimi mesi di appena lo o,I%, che ha ben scarse probabilità di essere rispettato.
L’attuale crescita tendenziale dei prezzi del 2.3.2.5% è il risultato di una progressiva accelerazione del processo inflazionistico, che da un minimo dell’l,3-1.4% del periodo marzo-giugno ‘99 si è
via via portato al livello più elevato degli ultimi tre anni, da quando è incominciata la marcia di rientro nella soglia dei valori previsti dai parametri di Maastricht. All’effetto petrolio si sono, poi, aggiunte nei mesi scorsi una serie di tensioni sul fronte delle materie prime industriali, che hanno soprattutto risentito dell’indebolimento dell’euro (e quindi della lira) rispetto al dollaro.
La finanza pubblica
Anche se nel 1999 il surplus primario è stato inferiore alle attese (4,9% del PIL anziché il programmato 5,5%), il saldo complessivo è stato pari al -1,9% del prodotto interno, ossia un decimale
in meno dell’obiettivo originale. Il programma di stabilità aggiornato prospetta un’ulteriore riduzione di
questo rapporto sino al raggiungimento negli anni a venire di un sostanziale stato di bilancio in pareggio (- 0.1% nel 2003). Un risultato simile dovrebbe essere raggiunto attraverso un rigido controllo della
spesa che consentirebbe anche una riduzione del carico fiscale. Con un surplus primario stimato per il
2000 al 5,o per cento del PI1 (circa 100 mila miliardi di lire) dovrebbe essere raggiunto un saldo di
bilancio vicino al -1.5% del prodotto e un rapporto debito/PIL di poco inferiore al 114 %. Tuttavia, l’orizzonte di medio periodo del bilancio pubblico non è privo di rischi, anche a causa dell’impatto sul
servizio del debito dell’aumento dei tassi di interesse.
Mentre nei giorni in cui redigiamo questo Rapporto si aspetta di conoscere i contenuti del
Decreto di Programmazione Economica e Finanziaria (DPEF), ci si può chiedere come il Governo intenda fronteggiare gli elementi problematici del conti pubblici. Secondo l’OECD12 lo stato di tali conti fornisce un “bilancio in chiaroscuro” e secondo la Direzione Generale per gli Affari Economici e Sociali
della Commissione delle Comunità Europee’3 richiede il perseguimento di obiettivi ancora più ambiziosi di quelli stabiliti sia per l’anno in corso sia per il prossimo dal governo italiano. I fattori problematici sono costituiti, come è noto, dalla spesa sociale (pensioni) e dalla pressione tributaria, ma un
ulteriore problema risiede nella difficoltà di controllare la spesa di Regioni ed Enti locali e nell’applicazione a tal fine del patto interno di stabilità. Il più elevato indebitamento delle amministrazioni
decentrate dello Stato, rilevato nelle statistiche finanziarie per il 1999. indica che la spesa locale ha
superato i limiti programmati.
Nonostante che il 1999 si sia concluso per i conti pubblici con un bilancio positivo, come viene
argomentato in altra parte del Rapporto, e le prospettive appaiano incoraggianti, le spinte provenienti dalla spesa per previdenza e assistenza potrebbero rendere necessaria la previsione di un u’lteriore
margine di sicurezza in termini di avanzo primario. Questa prospettiva è fatta propria dalla
Commissione Europea, come si è già detto, e da alcuni organismi internazionali, quali il FMI e I’OECD,
e si traduce nell’avvertimento di evitare ogni minimo scostamento dagli obiettivi prefissati, utilizzando in via prioritaria eventuali maggiori entrate fiscali per accelerare la riduzione dello stock di debito.
È indubbio,tuttavia, che i previsti introiti derivanti dal programma di dismissioni, ed in particolare quelli relativi alle concessioni delle licenze UMTS, contribuiscono a rendere meno pressante l’attenzione (e
la tensione) su questi pericoli e le implicate correzioni.
1.4. Le previsioni (2000-2005)
Le previsioni sull’evoluzione futura dell’economia italiana sono condizionate dalle risposte non
facili alle seguenti domande.
Qual è la natura dell’accelerazione congiunturale del tasso di crescita del Pil in Italia? Essa riflette essenzialmente uno shock di domanda dovuto alla maggiore crescita europea, alla continuazione
del lungo ciclo di espansione dell’economia americana ed all’effetto congiunto del deprezzamento del
cambio e dei bassi tassi di interesse europei oppure siamo di fronte ad un segnale di rafforzamento
dei fondamentali dell’economia italiana, e cioe ad un aumento del tasso di crescita della produttività
e quindi delle prospettive di profitto di lungo periodo che possano sostenere un ciclo positivo di
espansione caratterizzato da un aumento del tasso di accumulazione e dell’occupazione? Nel primo
caso, più che la manifestazione di un atteso catching up rispetto al tasso medio di crescita europeo,
la crescita dell’economia italiana, maggiore delle attese, è spiegabile principalmente dalla crescita della
domanda mondiale e dalla elevata elasticità di prezzo delle esportazioni italiane che verrebbero beneficiate più di quelle dei paesi concorrenti dalla svalutazione dell’euro sui mercati extraeuropei (si ricordi che l’apporto positivo degli scambi con l’estero alla crescita del Pil si è avuto nell’ultimo decennio
solo dopo i deprezzamenti della lira che allora erano anche nei confronti degli altri paesi europei).
Nel secondo caso, saremmo di fronte principalmente ad un miglioramento del quadro di fiducia degli operatori sui rendimenti attesi degli investimenti che genererebbe un aumento degli investimenti e dell’occupazione, e quindi una crescita sostenuta anche dall’aumento della domanda interna
come risultato di uno shock di offerta. Ci troveremmo, quindi, di fronte al manifestarsi delle caratteristiche della new economy in Europa e, pur con qualche ritardo, in Italia. In altri termini, quello che
nessun centro revisionale si aspettava fino ad alcuni mesi or sono, sembrerebbe, secondo quest’ultima interpretazione, che stia accadendo.
La risposta a questi quesiti, come si è già discusso nelle parti precedenti, non è facile perché
incorpora una previsione relativa a break strutturali, ma condiziona pesantemente la rilevanza da attribuire ai possibili elementi critici delle previsioni prevalenti.
Ovviamente la verità può anche stare nel mezzo, ma le previsioni di FR& riflettono prevalentemente, anche se non completamente, la prima interpretazione. Ciò implica che ancora per i prossimi anni il tasso di crescita di lungo periodo dell’economia italiana rimarrà inferiore a quello medio
europeo e degli Stati Uniti, anche se sarà di un punto percentuale superiore a quello medio del decennio scorso, almeno nell’ipotesi che non vi siano mutamenti significativi nei fattori strutturali ed istituzionali che secondo l’interpretazione di FREE sono stati di ostacolo alla crescita negli anni passati.
Migliori risultati dipenderanno dall’intensità del sostegno offerto dalla positiva congiuntura estera e
dalla evoluzione del tasso di cambio, senza che tuttavia ci si possa aspettare una netta inversione di
tendenza rispetto alle difficoltà incontrate nel recente passato dall’Italia nel mantenere quote di mercato mondiali.
Al centro delle previsioni relative all’evoluzione di questa congiuntura vi sono le incognite relative all’economia americana. Al di là dei dati congiunturali relativi al primo trimestre dell’anno, che non
mostrano ancora alcun rallentamento della crescita, è opinione condivisa che l’economia americana
non possa continuare a crescere ai ritmi attuali per l’impossibilità di aumentare ancora l’occupazione
in modo rilevante e che quindi essa debba scendere entro i limiti del tasso di crescita della produttività. Il tasso attuale non può essere considerato quindi quello di lungo periodo e quindi dovrà rallentare. D’altra parte, la crescita dell’occupazione, del reddito disponibile e della ricchezza continuano
a rafforzare la domanda interna ed il clima di fiducia nella crescita della domanda complessiva. In altri
termini, anche eliminando le punte di euforia collegate alle esplosioni delle quotazioni di borsa, questa contraddizione di fondo, che si manifesta nel deficit crescente della bilancia commerciale, comporta che permarranno negli Stati Uniti tensioni sui prezzi e sui tassi di interesse. Il differenziale tra i tassi
di interesse americani ed europei che ha già superato i tre punti percentuali rischia di divaricarsi ancora di più.
Tab. 5. Soluzione di controllo: scenario tendenziale
1999
1.4
2000
2.8
2001
2.4
2002
2003
zooq
2.5
2.4
2.5
2005
2.7
STOCK DI CAPITALE
OccuPnzloNE DIPENDENTE
1.5
1.5
2.5
1.2
2.6
0.5
2.7
0.7
2.7
0.2
2.8
0.3
2.8
0.5
DOMANDA AGGREGATA (1)
SPESA DELLE
FAMIGLIE
INVEST. FISSI LORDI
0.9
1.70
4.30
2.4
1.87
4.56
4.92
3.32
2.7
2.25
5.32
5.60
4.43
2.3
2.07
4.30
5.11
4.75
2.5
2.32
4.52
4.95
4.96
2.6
2.61
5.15
5.18
5.14
PIL
E SPORTAZIONI ( 2 )
-0.10
(2)
3.30
3.0
2.36
4.59
6.77
4.82
I NFLAZIONE (3)
R E T R I B U Z I O N I PROCAPITE
MARKUP (4)
1.70
2.1
1.5
2.50
3.6
1.4
1.63
2.7
1.4
2.20
3.1
1.4
1.87
2.7
1.4
1.82
2.6
1.4
1.48
2.3
1.4
TASSO
TASSO
60.2
11.5
60.3
10.6
60.8
10.6
61.0
10.1
61.2
9.8
61.4
9.4
61.8
9.1
S ALDO P.A./PIL (5)
DEBITO/PIL
P RESSIONE FISCALE
-2.3
114.9
43.3
-1.5
112.4
43.2
-1.0
106.9
42.4
-0.6
103.6
42.1
-0.2
99.9
41.4
-0.1
97.0
41.4
-0.1
95.0
41.2
TASSO DI CAMBIO f/$ (6)
P RIME R A T E ( 6 )
C OMMERCIO
MONDIALE
1798
2068
7.2
10.4
1801
8.0
8.3
1801
8.1
8.0
1801
8.0
6.7
1801
8.0
6.7
1801
8.0
7.5
hPORTAZIONI
DI A T T I V I T À
DI
DISOCCVPAZIONE
5.9
6.1
(1) Al netto delle scorte
(2) Beni e servizi
(3) indice generale prezzi al consumo
(4) Prezzo dell’output/costo medio variabile
(5) Rapporto tra indebitamento delle AP e PIL nominale (+ att. - dis)
(6) Livelli
Senza qui addentrarci in ipotesi relative al tipo di atterraggio, morbido o duro, che la Federa1
Reserve imporrà all’economia americana, certamente Ia~BCE dovrà continuare in una politica meno
accomodante del recente passato per difendere il valore dell’euro e smorzare le spinte sull’inflazione.
E’ quindi prevedibile sia un apprezzamento dell’euro rispetto ai valoro attuali sia tassi di interesse più
elevati. Il mix quantitativo della correzione dei due tassi dipenderà anche dall’entità della correzione
nella crescita degli Stati Uniti e quindi da quanto la BCE sarà costretta ad intervenire sui tassi di interesse europei..
In sintesi, le previsioni FREE relative all’evoluzione dell’economia italiana, descritte nel cosiddetto scenario di controllo, sono condizionali all’ipotesi che:
nei prossimi anni permangano gli ostacoli alla crescita di tipo istituzionale che operano dal lato
dell’offerta, determinando scarsa propensione delle imprese ad investire in nuovi occupati, in espansione dello stock di capitale fisso, in nuovi mercati, ed anche basso tasso di partecipazione della forza
lavoro e basso tasso di occupazione;
la pressione fiscale si riduca tendenzialmente in misura molto limitata: poco più di un punto
percentuale fino al 2002 ed intorno a due punti percentuali nell’intero quinquennio di previsione;
l’attuale fase di espansione della domanda mondjale (ancora alimentata dal treno statuniten+
se, a cui si sono agganciati alcuni vagoni di Eurolandia) si prolunghi fino al 2002 ma non ai ritmi attuali, per poi rallentare ulteriormente negli anni successivi;
l’euro si apprezzi progressivamente nel corso di quest’anno e del prossimo fino a tornare su
valori superiori alla parità con il dollaro;
la Banca Centrale europea sia costretta ad aumentare ancora i tassi di interesse per impedire
un ampliarsi del differenziale con i tassi americani e per contrastare le spinte inflazionistiche, soprattutto se in media il tasso di crescita nell’area euro si attesterà stabilmente su livelli superiori al 3 per
cento. I tassi sugli impieghi sono previsti quindi aumentare in media annua di oltre un punto nell’anno in corso e di un altro punto nel 2001 per poi ridiscendere successivamente. Nella media del quinquennio è atteso, quindi, un livello più elevato di quello prevalso nel 1999, quando l’attività nell’area
euro toccò il punto di svolta della fase ciclica negativa.
In questo quadro, la previsione FREEsul tasso di crescita del PIL per il 2000, + 2,8%, non è molto
lontana da quelle degli altri centri, sia italiani sia internazionali. Tuttavia, il Rapporto prevede un rallentamento nel 2001 (+2,4 contro, ad es., il 3.1 dell’OECD e il 2,8 del CSC), e una crescita media intorno al
2.6% nel quadriennio successivo, ossia inferiore di circa _ punto a quella prevista dagli altri istituti.
L’attesa decelerazione del ritmo di crescita dell’economia italiana dovrebbe condurre, quindi,
ad un mantenimento del differenziale tra la crescita italiana e quella media dell’area euro. Negli anni
successivi non prevediamo significativi cambiamenti in questa tendenza.
In altre parole FREE non scorge quel graduale ma inarrestabile rafforzamento della nostra economia intravisto dalla gran parte degli altri Istituti. In corrispondenza del 2000, FREE individua una
“gobba“ (rivolta verso t’alto: 2,8-3% il tasso di crescita nel PIL), da cui la nostra economia ridiscenderà negli anni successivi (circa mezzo punto in meno di media nel tasso di crescita), in assenza di
interventi strutturali. D’altra parte una riduzione del tasso di crescita nel 2001 rispetto a quello dell’anno in corso è previsto per tutta l’area euro. Come si è detto sopra se tale rallentamento non ci
sarà è probabile che anche l’economia italiana possa conseguire risultati migliori anche se ancora non
in linea con quelli dei paesi più dinamici.
Come si spiega questa previsione?
l
La differenza tra il profilo di crescita disegnato della nostra previsione, basata su un modello che stima il PIL dal lato dell’offerta, e quelle degli altri osservatori è in buona parte ascrivibile all’andamento stimato per l’occupazione.
Per la generalità degli altri istituti, la dinamica dell’occupazione è fornita da una sorta di trend
(una crescita annua costante intorno all’i per cento), che proietta in avanti la tendenza del biennio
1998.99. Viceversa, in assenza di ulteriori stimoli e modifiche strutturali, la nostra previsione sconta
un probabile effetto di rimbalzo (all’ingiù) nell’evoluzione stimata per l’occupazione, visto che tale
dinamica è stata largamente dominata dalla crescita dell’occupazione “atipica”, favorita dalla nuova
legislazione, ed ha seguito un periodo di forte riduzione in termini assoluti del numero di unità di lavoro nel corso del decennio precedente.
Il Rapporto FREE prevede una crescita tendenziale nel 2000 di oltre 1>1 per cento dell’occupazione dipendente e di poco meno dell’I% dell’occupazione complessiva. Negli anni successivi viene
previsto un affievolimento progressivo di questa tendenza. Il suddetto indebolimento contribuisce a
spiegare anche il rallentamento previsto per il 2001 nel ritmo di crescita dell’economia italiana.
Il tasso di disoccupazione dovrebbe scendere in media annua di circa un punto percentuale,
per poi proseguire in una discesa molto lenta. Secondo le nostre attese dovrebbe scendere al di sotto
del IO per cento tra due o tre anni.
D’altra parte, la previsione sull’accumulazione di capitale, ossia sull’altro fattore che, insieme
al lavoro, determina il volume di risorse a disposizione della crescita economica, risente per l’anno in
corso e quelli successivi della prevalenza degli investimenti di sostituzione su quelli addizionali che determinano un ampliamento della capacità produttiva
Per ciò che riguarda la domanda, FREE si aspetta un sensibile aumento dell’apporto della componente estera soprattutto nell’anno in corso ma ura riduzione progressiva dal prossimo anno in poi in linea
con il rallentamento della congiuntura mondiale.
La domanda interna sarà sostenuta ancora da un ciclo relativamente positivo degli investimenti e
da una ripresa dei consumi superiore alle attese per l’anno in corso, mentre nel prossimo anno ci spettiamo che il tasso di crescita dei consumi torni su livelli più vicini al recente passato una volta esaurita
la spinta ciclica sui consumi soprattutto di durevoli descritta nel capitolo sulla congiuntura.
Nel complesso la domanda aggregata dovrebbe essere particolarmente sostenuta nell’anno in
corso e poi rallentare negli anni successivi. Ciò implica che vi sarà un decumulo di scorte e che si possa
creare l’ambiente favorevole per il persistere di un tasso di inflazione superiore a quello programmato.
La previsione FREE sul tasso di inflazione è alquanto più pessimistica di quelle della generalità
degli altri istituti, sia per quest’anno sia per il prossimo.
Prospettiamo infatti una modalità più acuta del processo di aggiustamento, quando sui prezzi al
consumo si scaricheranno le tensioni accumulate sinora (e trattenute) dai prezzi alla produzione, anche
se la rivalutazione dell’euro dovrebbe ammorbidire il rientro, riducendo le aspettative di inflazione. Il processo di convergenza dipenderà anche dalla strategia seguita dalla BCE e dall’andamento delle retribuzioni, che nel nostro modello anticipano all’anno in corso la risposta al più alto tasso di inflazione attesa. Le nostre previsioni spostano per questo motivo agli anni successivi al 2002 la convergenza verso la
media europea del tasso di inflazione. Quindi, FREE non scarta l’ipotesi di una possibile ulteriore perdita
di competitivi6 rispetto all’area euro.
Candamento degli indicatori di finanza pubblica riflettono le nostre ipotesi condizionali relative ad
una sostanziale invarianza della politica di bilancio, peraltro confermata dal governo con la presentazione del nuovo DPEF. In sintesi essa prevede che il tine dei governo è quello di mantenere gli indicatori di
bilancio entro i parametri fissati dal patto di stabilità ritenendo risanata la finanza pubblica una volta raggiunto un pareggio di bilancio e non quando le entrate e le spese in rapporto al Pil saranno discese ad
un livello compatibile con una crescita sostenuta dell’economia.
Le nostre previsioni sono quelle di un sostanziale rispetto del patto di stabilità anche se le nostre previsioni relative all’andamento dei tassi di interesse e sulla crescita del Pil meno ottimistica di quella del governo ci fanno ritenere che l’azzeramento del deficit complessivo non sia colto ancora il prossimo anno.
In sintesi FREE intravede per l’economia italiana nei prossimi anni uno sviluppo maggio& rispetto al passato recente, m-fLrenat-Q rispetto al resto dell’Europa per i motivi già detti e quindi inferiore a
quello che sarebbe possibile se fossero realizzati i cambiamenti strutturali e istituzionali necessari.
Naturalmente in certe fasi congiunturali non ci sono (cattive) istituzioni che tengano e un boom
può realizzarsi anche in condizioni avverse; a patto che sia sufficiente il traino congiunturale fornito da
un contesto univocamente espansivo e magari che sia all’opera un qualche shock strutturale. Nella situazione presente, un simile tipo di impulso potrebbe derivare dal propagarsi degli effetti della e - economy.
Tuttavia, una convergenza naturale della capacità di crescita italiana non tanto a quella degli Stati Uniti,
quanto a quelle presenti in Eurolandia non sembra alla portata del nostro paese. Non solo paesi come
l’Olanda , l’Irlanda e la Finlandia, giustamente additati ad esempio di scelte coraggiose e vincenti, ma le
stesse Francia e Spagna mostrano un dinamismo, che si riflette sulla capacità di ridurre il tasso di disoccupazione, che l’Italia non sembra ancora capace di esprimere.
Quali sono i motivi di questa incapacità, quali le ragioni dei ritardi? Rispondere nel modo giusto
a queste domande significherebbe anche individuare gli interventi di policy che direttamente e indirettamente potrebbero favorire l’eliminazione (graduale) o, quantomeno, l’attenuazione di questi divari.
Senza avere la pretesa di suggerire diagnosi e ricette definitive, una possibile, provvisoria risposta a queste domande, da valutare con tutte le solite cautele suggerite dagli esercizi di questa natura, è
data dalla simulazione compiuta con il nostro modello econometrico degli effetti di due differenti shock,
uno di tipo fiscale e l’altro di tipo istituzionale. In comune essi hanno la sfera d’azione: le distorsioni che
caratterizzano l’ambiente in cui gli agenti prendono le loro decisioni.
Secondo le nostre simulazioni una più decisa riduzione della pressione fiscale, (circa quattro
punti e mezzo in meno in medio nel periodo di previsione e naturalmente a parità di indebitamento
cioè riducendo anche le spese) assicurerebbe il raggiungimento e il mantenimento di un “sentiero di
crescita” stabilmente più elevato rispetto a quello che si percorrerebbe in assenza di shock. I risultati di questa simulazione sono contrassegnati con l’etichetta “shock fiscale”. Un risultato ancora più virtuoso si avrebbe unendo alla riduzione della pressione fiscale una modifica del grado di centralizzazione del mercato del lavoro ed in particolare delle “regole” della contrattazione. Come si vedrà nel
prossimo paragrafo, è stata ipotizzata una riduzione della percentuale di lavoratori dipendenti le cui
relazioni di lavoro sono “coperte” dai contratti collettivi e del livello della centralizzazione. I risultati
di questa simulazione sono riportati sotto l’etichetta “shock istituzionale”.
1.5. Gli scenari.
Ceconomia italiana, dopo anni di risultati deludenti e prospettive deprimenti, sta godendo di
una straordinaria opportunità favorevole determinata dalla evoluzione congiunturale, legata alla ripresa europea ed internazionale, e dai cambiamenti strutturali, legati alla diffusione della e-Economy.
Tab. 6. Scenari a confronto: Tassi di variazione
7002
A
PIL
1.5
1.0
0.9
1.7
2.1
60.2
11.5
43.3
81.5
2.3
CAPITALE(l)
LAVORO(Z)
DOMANDA(3)
hFLAZIONE(4)
SALARIO(S)
ATTIVITÀ(6)
DISOCCUPAI.
TASSE(~)
CONTRATTAZIONE(Y)
CENTRALIZZAZIONE
2.5 2.5
1.0 1.6
3.0 3.1
2.5 2.5
3.6 3.7
60.3 60.3
10.7 10.5
42.2 42.1
81.0 81.0
2.3 2.3
I
I
PIL
A
1
2.5
0.5
2.4
1.6
2.7
60.8
10.6
42.4
81.0
2.3
I
2004
CAPITALE(~)
LAVORO(Z)
DOMANDA(3)
iNFLAZIONE(4)
SALARlO(5)
ATTIVITÀ(~)
DISOCCUPAZ.(7)
TASSE(g)
C ONTRATTAZIONE( ~ )
CENTRALIZZAZIONE
2.5
1.6
3.1
2.5
3.7
60.3
lo.0
42.1
79.0
1.5
2.5
2.7
0.4
2.5
1.8
2.6
61.4
9.4
41.4
81.0
2.3
CI
C
A
B
C
2.5 3.0 3.2 2.4
2.7
3.4
2.6 3.2 3.2
2.7
3.3
3.6
0.7 0.6 1.2 0.5
0.5 1.0
2.7 3.1
3.2 2.3
3.4
2.9
2.2 2.4 2.2
1.9
1.9
1.7
3.1 3.4 3.2 2.7
2.8
2.7
61.0 61.4 61.4 61.1
61.6 61.7
10.1 9.7 8.6 9.8
8.8
7.7
42.1 37.4 37.5 41.4 35.8 35.6
81.0 81.0 70.0 81.0 81.0 65.0
2.3 2.3 1.5 2.3
2.3
1.5
1
, I
2005
B
2.9 2.9
1.3
1.0
2.8 3.0
1.8
1.8
2.9
2.9
60.9 60.9
10.0 9.2
38.4 38.4
81.0 75.0
2.3 1.5
2003
B
A
B
Al=
A SoLuz~m~
DI
CONTROLLO ( T E N D E N Z I A L E )
B= SHOCK FISCALE -4.3
P"NTI*V~
~1 PRESSIONE FISCALE CON BILANCIO IN PAREGGIO. MEDIE
DEL PERIODO DI PREVISIONE
2.9
3.5 1 2.7
2.9
3.4 3.7
2.8
3.3
0.8
0.5 0.8
0.5
2.6
3.1 3.5
3.1
1.8 1.3
1.5
1.2
2.6 2.2
2.3
2.0
1.4
62.3
62.5
62.1 62.2 61.2
8.0 6.7
9.1
6.9
5.2
35.5 35.2 41.2
35.5
35.1
81.0 70.0 81.0 81.0 65.0
2.3 1.5
2.3
2.3
1.5
c= B+5HOCK ISTITUZIONALE RIDUZIONE DELL’INDICE DI CENTRALIZZAZIONE DEL MERCATO
DEL LAVORO (DAL 23 a~~‘1.5)
E DELLA COPERTURA DELLA CONTRATTAZIONE
COLLETTIVA (DALL’E0 AL 70%)
(1) Stock di capitale fisso, prezzi costanti
(2) Unità di lavoro complessivive, definizione di contabilità nazionale
(3) Domanda aggreta al netto delle scorte, prezzi costanti
(4) Indice gnerale prezzi al consumo
(5) Retribuzioni nominali pro-capite
(6) Rapporto tra le forze lavoro e la popolazione in età lavorativa
(7) Tasso di disoccupazione: rapporto tra disoccupati e forze di lavoro
(8) Pressione tributaria e contributiva
@) Percentuale di lavoratori dipendenti le curi relazioni di lavoro sono regolate dalla contrattazione collettiva
(IO) Indice di centralizzazione: 3 7 livello massimo (negoziazione nazionale tra sindacati di vertice); I = livello minimo (contrattazione aziendale tra rappresentanze o individui e management).
Per sfruttare una simile opportunità non basta mettersi a favore di vento, lasciarsi trasportare
e fare qualche piccolo scatto di tanto in tanto, stando attenti a non sudare troppo. Questa sembra
essere la filosofia del DPEF elaborato a Luglio dal Governo Amato.
Come si è già detto, FREE non la condivide e ritiene che siano necessari degli sforzi ulteriori,
dei cambiamenti strutturali, delle modifiche di regole e istituzioni. La fase di ripresa ciclica è caratterizzata in Italia, non diversamente dagli altri paesi di Eurolandia, dal traino della componente estera.
Come mostrano i risultati della previsione tendenziale illustrata nel paragrafo precedente, questa spinta farà crescere il prodotto dell’Italia più che negli anni passati ma ad un ritmo ancora insoddisfacente e, probabilmente, inferiore a quello della media europea. Allo stesso tempo, saranno maggiori che
negli altri paesi le pressioni inflazionistiche.
Tuttavia, la ripresa può facilitare l’adozione delle riforme strutturali che FREE ritiene indispensabili per permettere uno sviluppo più sostenuto, più equilibrato, più stabile.
Poiché la minore crescita dell’economia italiana è dovuta alle carenze della risposta dell’offerta
e delle regole istituzionali, mentre la dinamica della domanda interna è rimasta allineata a quella degli
altri paesi di Eurolandia, è in questa direzione che vanno ricercati i cambiamenti da fare. Come è stato
detto nelle pagine precedenti, gli shock occasionali di domanda e di offerta comuni ai paesi di una
stessa area hanno effetti più perversi e duraturi nei paesi che hanno le istituzioni più carenti. Abbiamo
anche notato che le implicazioni macroeconomiche di questo intreccio non dipendono tanto dalla caratteristiche intrinseche delle regole istituzionali ma da come queste si adattano ai diversi tipi di shock.
In altre parole, una certa regola che può aver accompagnato armonicamente una certo stadio di sviluppo, ad esempio la fase espansiva del dopoguerra, si rivela inadatta in un altro momento, ad esempio nella fase successiva ai primi shock petroliferi e alla caduta della produttività totale dei fattori negli
anni settanta ed ottanta, o ad periodo, come quello attuale, nel quale i cambiamenti richiesti dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione impongono non soltanto innovazioni organizzative.
Negli anni recenti si è assistito in un certo numero di paesi a grandi cambiamenti delle regole
della contrattazione, ispirati, almeno in parte, da considerazioni sui meriti relativi di differenti sistemi
di “wage setting”. Programmi di decentralizzazione della contrattazione collettiva sono stati avviati in
Regno Unito, in Nuova Zelanda, in Svezia ed in Austria. In altri paesi, come il Portogallo, la Norvegia,
la Danimarca e la stessa Italia si è denotata una tendenza opposta: decentralizzazione negli anni ottanta e, a partire approssimativamente dal 1989, centralizzazione.
Il fattore cruciale della relazione tra sistemi di contrattazione e performance economica è la
capacità delle regole di organizzare la negoziazione tra i soggetti in modo che siano prese in considerazione le conseguenze macroeconomiche dei suoi risultati.
Nel modello NEMO usato per produrre le simulazioni presentate’in questo Rapporto, sono stati
utilizzati due differenti indicatori tra quelli suggeriti dalla letteratura empirica sull’argomento: una misura cardinale - il tasso di copertura della contrattazione collettiva - ed una caratteristica qualitativa - il
grado di corporativismo del mercato del lavoro. Sebbene anche quest’ultimo potrebbe essere suscettibile di misurazione - ad esempio, il numero di organizzazioni sindacali potrebbe essere una proxy di
tipo cardinale - abbiamo utilizzato la nozione meno controversa di centralizzazione. Poiché la centralizzazione descrive il luogo della struttura formale della contrattazione, si distinguono di norma tre livelli: il negoziato nazionale tra le organizzazioni di vertice che può coprire l’intera economia (contrattazione cenkalizzata);
il negoziato di settore tra associazioni di categoria (contrattazione intermedia); il
negoziato aziendale tra sindacati o individui e management (contrattazione decentralizzata).
COECD ha
messo a punto un indicatore di centralizzazione tenendo conto delle istituzioni vigenti in ciascun paese
in relazione alle tre dimensioni elencate. Dal canto nostro, abbiamo costruito un indicatore aggregato
che somma la centralizzazione con la copertura della contrattazione.
Quali effetti avrebbe una modifica delle istituzioni della contrattazione in Italia nel prossimo
futuro? Come si è anticipato, il Rapporto Free propone una risposta a questa domanda basata sui risultati di una simulazione compiuta con il modello econometrico NEMO. In particolare, abbiamo ipotizzato che il grado di copertura della contrattazione collettiva, ossia la percentuale di lavoratori le cui relazioni di lavoro sono regolate da questo sistema, fosse ridimensionato in modo significativo.
Simultaneamente abbiamo ipotizzato uno spostamento verso il livello intermedio e il livello aziendale
della contrattazione, ossia un ridimensionamento della centralizzazione. Ci rendiamo conto, naturalmente, che la fattibilità e la credibilità stessa di questi cambiamenti dipendono dal modo come sono
realizzati. Ovviamente, non c’è un unico modo per mettere a punto riforme strutturali come questa.
Anche se la materia deve essere approfondita, un’ipotesi che piace a F R E E è quella del cosiddetto
shoppinp contrattuale. In pratica, è previsto un &o livello contrattuale a scelta delle parti tra i tre
sopra menzionati, reversibile e integrato con clausole di salvaguardia per i casi di mancato accordo.
L’altro grande e naturale candidato a spiegare’la deludente performance italiana è lo stato, di
cui di solito si critica l’inefficienza e l’eccessiva invadenza. Al di là dei rilievi scontati ma generici, vi è
consenso generalizzato nell’attribuire una importante responsabilità di freno dello sviluppo della produzione e dell’occupazione all’elevato carico tributario e contributivo. L’aumento di questo peso, unito
alle specifiche distorsioni del sistema fiscale italiano, ha rallentato la crescita economica nel recente
passato. In un’ulteriore simulazione econometrica, FREE prova a valutare gli effetti che unapIa*
riduzione del carico fiscale a “bilancio in pare.<eio” avrebbe sull’economia italiana-da qui al 2005. In
particolare, abbiamo ipotizzato una progressiva riduzione della pressione fiscale sino a giungere al
38,3% nel 2005.
Per consentire di valutare le conseguenze di riforme di questa natura, il periodo di simulazione è stato prolungato sino al 2005. Sono state disegnate due differenti simulazioni: la prima - i cui
risultati sono sotto l’etichetta “shock fiscale” - ipotizza una riduzione graduale della pressione fiscale
a parità di bilancio, ossia sottraendo una posta di eguale entità alle uscite e alle entrate delle
Amministrazioni Pubbliche in modo da non appesantire in alcun modo il bilancio pubblico. La secondo simulazione - denominata “shock istituzionale” - oltre a mantenere la riduzione del peso delle
tasse, ipotizza una riduzione della centralizzazione del sistema di negoziazione salariale. In particolare, si è ipotizzata una riduzione della copertura della contrattazione collettiva - la percentuale di lavoratori “regolati” da questo sistema si riduce dall’ottanta al settanta per cento - e una riduzione del
grado di centralizzazione del sistema di contrattazione. L’indicatore del livello della contrattazione, pari
a tre per i paesi più “corporativi” (Austria e Germania) e ad uno per quelli meno corporativi (Stati
Uniti), è pari a 2.3 per l’Italia, che si trova in una situazione intermedia. Nella simulazione dello “shock
istituzionale” l’indicatore è stato abbassato a 1,5.
Gli effetti di queste simulazioni sono riassunti nella Tabella. Benché, rispetto all’andamento tendenziale, lo shock fiscale determini un avanzamento nell’evoluzione di tutte le grandezze macroeconomiche - la crescita dell’accumulazione di capitale, dell’occupazione e quindi della produzione è maggiore - gli incrementi di produttività e il miglioramento delle condizioni operative dell’offerta (costi ed
incentivi) non sono sufficienti a determinare una discontinuità profonda. La domanda aggregata continua ad evolversi ad un ritmo leggermente superiore a quello dell’offerta, sebbene, naturalmente il
tasso di crescita del PIL sia di circa mezzo punto superiore a quello dell’andamento spontaneo, in
assenza di shock.
Una vera e propria discontinuità si determina solo quando anche le regole della contrattazione sono modificate. Nell’ultimo anno della simulazione, che è importante considerare per cogliere gli
effetti di medio periodo tipici di questo tipo di shock, il PIL cresce ad un tasso del 3,6%, quasi un
punto di più che nell’evoluzione spontanea e il tasso di disoccupazione si è ridotto al 5,2%, oltre quattro punti in meno rispetto alla situazione tendenziale. Il tasso di inflazione è sotto l’uno per cento
(contro l’uno e _ ). Caccumulazione di capitale è nettamente più vivace (3,8 contro 2,8) e anche il
tasso di partecipazione, ossia la proporzione di persone attive sul mercato del lavoro, aumenta in
modo significativo.
1 . 6 . Il modello econometrico NEMO - New Millennium
Econometk Mode1
NEMO è un modello econometrico allo stadio di prototipo. Motivi di opportunità e considerazioni di carattere sia statistico sia teorico hanno consigliato l’uso di dati a periodicità annuale e un
livello di aggregazione corrispondente al paese. Nel futuro FREE progetta un maggiore grado di disaggregazione sia spaziale (all’interno e all’esterno del paese) sia temporale (osservazioni di frequenza
più elevata).
Attualmente, la versione aggregata del modello contiene 40 equazioni di cui 14 stocastiche a
cui vanno aggiunte altre IO equazioni (di cui 4 stocastiche) del modello-satellite relativo al mercato
del lavoro.
L’obiettivo-a& di NEMO consiste -spiegazione del funzionm del sistema eco-
& ed in particolare delle sue reazioni a differenti tipi di shock: simmetrici o asimmetrici (nel senso
che determinano effetti comuni o no tra le diverse componenti, aree, branche, etc.), transitori o permanenti (strutturali), derivanti dalle azioni di policy, e così via.
Pertanto, fornire previsioni, ossia usare tutte le possibili informazioni esogene allo scopo di predire l’evoluzione ciclica delle principali variabjti endogene non è unnostro interesse primario.
Naturalmente, poiché qualsiasi “buon” modello econometrico “deve” commettere un errore accettabile
quando è rivolto alla simulazione al di fuori del campione statistico in uso, ossia al futuro, anche
NEMO fornirà, come naturale sottoprodotto, le tradizionali previsioni.
La caratteristica distintiva di NEMO è di determinare il PIL dal lato dell’o&& Al contrario, nei
modelli econometrici tradizionali, il PIL, di solito, è determinato dal lato della domanda ossia come
somma delle differenti forme di impiego del reddito: consumi, spesa pubblica, investimenti, esportazioni nette, scorte (variazioni). Dietro questa “chiusura”, vi è naturalmente un punto di vista teorico,
una spiegazione di come funziona un’economia moderna. Nel breve periodo le imprese non hanno un
grande vantaggio a ritoccare i loro listini ogni qualvolta varia la domanda. Poiché, quindi, i prezzi sono
relativamente vischiosi, ogni spostamento della domanda aggregata (fatta di consumi, investimenti,
spesa pubblica, esportazioni nette), determina un cambiamento del livello del prodotto, ossia del reddito. La curva dell’offerta aggregata è piatta: l’offerta si adegua alle oscillazioni della domanda senza
particolari contraccolpi, attraverso la gestione delle scorte e dell’utilizzo di addetti e impianti. Ogni fattore, come la politica monetaria e la politica fiscale, in grado di influenzare le componenti della domanda e di far spostare la relativa curva nella direzione voluta, avrà un impatto rilevante sul livello del reddito (prodotto).
I modelli basati su questa impostazione hanno fornito una performance scadente soprattutto
quando non hanno saputo prevedere la fase di stagflazione conseguente ai primi shock che hanno colpito le economie reali degli anni ‘70, a cominciare da quello petrolifero. Da allora sono stati fatti numerosi tentativi per migliorare la capacità .predittiva di questi grandi modelli, integrando in vario modo
nella loro struttura elementi di offerta.
Nel modello NEMO, l’offerta non si adegua passivamente alla domanda: il prodotto viene generato dal volume, dall’intensità e dalle modalità con le quali i fattori produttivi - stock di capitale e lavoro, in primo luogo - sono combinati e impiegati nel processo produttivo.
L’efficienza di tale processo dipende dalle conoscenze tecniche utilizzate e dal livello del capitale umano. Naturalmente, nel prendere decisioni su quanti e quali fattori produttivi impiegare, le
imprese tengono conto non soltanto dei prezzi e delle produttività relative di tali fattori, ma anche della
domanda dei loro prodotti - materiali o immateriali che questi ultimi siano - che si aspettano di ricevere dalle altre imprese e dai consumatori in genere. Gli scarti non programmati tra la produzione e la
domanda aggregate determinano un accumulo o un decumulo di scorte a seconda che si sia verificato un eccesso di offerta o di domanda.
In altre parole il reddito non dipende dagli impieghi che se ne fanno (consumi, investimenti,
etc.), ma in primo luogo dalla produttività delle risorse utilizzate.
Un’impostazione del genere non è ovviamente nuova: essa riflette la visione consolidata degli
economisti sul funzionamento dell’economia nel lungo oeriodo, quando sia i prezzi sia i fattori sono
pienamente flessibili e ogni impianto, ogni industria, ogni paese si può appropriare dei frutti del progresso tecnico. La novità di NEMO consiste nel modo in cui questa impostazione è stata trasformata
in una specificazione econometrica che tiene conto dell’importanza del medio periodo (di cui si è già
parlato nelle pagine precedenti). Nel medio periodo assume rilevanza centrale l’aggiustamento di un’economia, colpita da shock occasionali sia di domanda sia d’offerta, nel contesto delle specifiche rego:
le istituzionali di cui è dotato ciascun sistema. In altre parole, sono le implicazioni macroeconomiche
di tali regole a far si che le oscillazioni cicliche che contraddistinguono la vita tipica di tutte le economie più sviluppate e che spesso hanno origini e caratteristiche comuni, abbiano effetti più o meno
profondi sulla crescita e sulla disoccupazione, determinando differenze nella performance dei vari paesi.
Nel modello NEMO, perciò, la crescita della produttività non dipende solo da quella delle risorse disponbili, dal progresso tecnico e dall’efficienza del capitale umano e delle infrastrutture pubbliche
ma anche dalle istituzioni che regolano i mercati dei prodotti, dei capitali e del lavoro.
Inoltre, è stato modellato l’impatto dei markup delle imprese sulla domanda di lavoro e la loro
preferenza a pagare salari-incentivo
ai lavoratori impiegati. Per assicurarsene la lealtà e la diligenza
nello svolgimento dei compiti assegnati, ma, soprattutto, per stimolarne la produttività, le imprese
sono inclini a pagare al personale specializzato salari più elevati di quelli dei concorrenti. Poiché l’aumento del salario fa aumentare la produttività, le imprese scelgono quel livello di remunerazione che
1
minimizza il costo del lavoro per unità di prodotto - che è superiore al livello di massimo profitto, corrispondente all’eguaglianza tra salario reale e produttività marginale.
Naturalmente, sono stati modellati in NEMO tutti gli altri canali tradizionali di trasmissione degli
shock, ed in particolare quelli che hanno a che fare con le po/icy._
Il modello econometrico NEMO è un “work in ~progress”; i loro autori, animati dalla consueta
tender loving care, gli dedicano continui sforzi di miglioramento, affinamento e aggiornamento.
Tuttavia, il prototipo attualmente all’opera ha dato buona prova di sé e pertanto è stato impiegato
nelle simulazioni presentate in questo primo Rapporto FREE.
note
1 Employment Outlook”, OECD, 1997. “Economie performance and the strutture of collettive bargaining”, pp. 63-92.
2 Per i dettagli vedi E. Felli e F. Padovano, “Labor and Credit Market Institutions and Produttive
Efhciency”, che sarà presentato alla XLI riunione annuale della Società Italiana degli Economisti,
Cagliari - 26-28 ottobre 2000.
3 Vedi R. Brunetta, Economia del Lavoro, Utet 1999.
4 Da ultimo vedi la testimonianza del Governatore di Bankitalia alla Commissione Bilancio, Tesoro e
Programmazione della Camera dei Deputati - A. Fazio, Recupero della competitività e sviluppo dell’economia italiana, Roma, 27 giugno 2000.
5 Secondo un recente studio (Caselli, Pagano e Schivardi, “lnvestment and Growth in Europe and in
the United States in the Nineties”, in Temi di discussione, Banca d’Italia, number 372, March 2000)
vi è stato nel corso degli anno novanta un break strutturale che ha ridotto il coefficiente che lega gli
investimenti alla crescita della domanda nell’area euro ( il cosiddetto acceleratore) mentre al contrario esso è aumentato nei paesi anglosassoni. Secondo questo studio una possibile spiegazione di
questo fenomeno è l’aumento dell’incertezza della domanda, aumentata nei paesi euro e diminuita in
quelli anglosassoni.
6 Vedi Relazione della Banca d’Italia per l’anno 1999, Roma , maggio 2000, ,pag.85.
7 Per una ampia rassegna dello stato delle ricerche sulla cosiddetta “economia della conoscenza” sull’impatto delle ICT sulla crescita vedi i papers presentati al recente XII Villa Mondragone International
Economie Seminar su “Knowledge Economy, Information Technologies and Growth”, Rome, 26-28 giuno 2000 (CE/5 Università di Tor Vergata).
i Vedr, per un’ampia discussione sui motivi del rallentamento della crescita italiana ed europea alla
luce dell’approccio strutturalista, E.S.Phelps, A Survey of Causes and Remedies for /ta/y’s Economie
froblem, 6th Semi-annua1 Advisor’s Report, May 2000, CNR Strategie Project: Italy in Europe.
9 Vedi E.S.Phelps, Rewarding Work, 1997 (ed. italiana Sussidiare il lavoro, Laterza , Roma, 1999) e
T.Boeri, R.Layard e S.Nickell, Welfare-to-work and the Fight Against Long-term Unemployment, February
2000, (Report to Prime Ministers Blair and D’Alema).
lo Il rinnovato interesse per la spiegazione strutturalista delle fluttuazioni economiche si deve a E.
Phelps, Structural Slumps, Harvard UP, 1994. Esempi di applicazione di un approccio sensibile al medio
periodo e all’interazione shock di domanda-shock strutturali-istituzioni è in: O.Blanchard, “The Medium
Run”, Brooking Papers On Economie Activity, 2.1997, ancora Blanchard con 1. Wolfers, “The Role of
Shocks and Institutions in the Rise of European Unemployment: The Aggregate Evidente”, NBER
Working Paper 7282, August 1999; R. Caballero e M. Hammour, “lnstitutions, Restructuring, and
Macroeconomie
Performance”, NBER Working Paper 7720, May 2000.
l1 L’inchiesta condotta dall’lsae rileva la differenza tra le percentuali di risposte in aumento e di risposte in diminuzione sulla tendenza dei prezzi a 3-4 mesi
l2 Economie Outlook No.67 May 2000.
l3 Commission of The EC, Directorate General Economie and Financial Affairs, Commission
Recommendation, Brussel, 11.04.2000.
Le tavole e i grafici del Rapporto
2
Parte 10
Tab. I Tassi di crescita.
Pil reale. Stock di capitale, Occupazione, produttività e prezzi
PERIODO
PIL
al consumo
PREZZI AL
CAPITALE OccuPnzloNE
PRODUTTIVITÀ
CONSUMO
1970-79
3963
4.95
0,91
13,13
2.80
1980-89
2,37
2,44
0,67
11.20
1976
1990-99
1,29
1,44
-0,06
4,04
1,35
F ONTE:
E LABORAZIONI su
DATI
ISTAT
Tab. 7 Pil reale - USA, Italia, Area Euro (Variazioni percentuali medie)
PIL
70-79
STATI UNITI
G IAPPONE
G ERMANIA
F RANCIA
I TALIA
R EGNO U N I T O
CANADA
T O T A L E DEi p~It4clpAL1
AUSTRIA
BELGIO
D ANIMARCA
FINLANDIA
G RECIA
S PAGNA
S VEZIA
TOTALE OECD
U NIONE E UROPEA
A R E A EURO
3.0
4,3
284
2,9
PAESI
F ONTE: ECONOMIC OUTLOOK
3.2
4,O
2,o
2S
90-99
256
1,5
294
1.8
1.3
198
2,o
3,4
1.6
4,O
392
3,l
2.5
3,5
3,l
3,l
2,3
2,9
1,9
2,1
285
2.1
294
L9
24
3,7
1,5
m
1.8
2.4
3,4
4,0,
3,o
1,9
3,4
297
298
2000
80-89
3,3
2.4
1,2
3,2
23
296
2,o
2,5
2.0
,’
Graf.1 Pil reale - USA, Italia, Area Euro - Variazioni percentuali medie
PI1 - Variazioni percentuali medie
4,O
3,5
n
n
r-7
70-79
80-89
90-99
3,O
2S
LO
L5
LO
0,5
0.0
q
:ONTE:
ECONOMIC
q
STATI UNITI
OUTLOOK
ITALIA
n AREA
EURO
2000
Graf. 2 Pil, Capitale fisso e Occupazione (tassi di crescita %)
TASSO
DI
CRESCITA
DEL
PIL, C APITALE E
OCCUPAZIONE
0,08
0,06
0,04
2 0,02
x
0.00
-0,02
-0,04
f( 1
F ONTI:
75
E LABORAZIONI su
80
DATI
85
ISTAT
90
95
Graf.3 Tasso di attivi& e di occupazione
Tassi di attivita’ e occupazione
(MEDIA 1993’99)
Y”,”
70,o
60,O
50,o
40.0
30,o
20,o
10.0
0,o
G ERMANIA
FRANCIA
n
F ONTE: ECONOMIC
OUTLOOK
I TALIA
ATTIVITA’
R EGNO U N I T O A REA DELL’EURO
0 OCCUPAZIONE
2000
Graf. 4 Capitale per unita di lavoro (tasso di crescita)
CAPITALE PER UNITA’ DI LAVORO
(TASSO DI CRESCITA)
0,08
0,06
)
F ONTI:
72
74
76
78
80
E LABORAZIONI su
DATI
82
84
ISTAT
86
88
90
92
94
96
98
Graf. 5 Spesa Pubb. Ammin. totale, al netto degli interessi e interessi (quota sul PiI)
S PESA TOTALE,
AL
NE TT O
DE GL I
INTERESSI,
DELL A PUBBL ICA
A~h41NwRAziordE
0.6,
S PESA TOT. P.A.
0,5.
o,o>,
70
SS
80
75
90
9'5
F ONTI: E LABORAZIONI S u DATI ISTAT DI CONTABILITÀ
N AZIONALE
NB: LA SERIE HA “NA DISCONTINUITÀ NEL 1995 DOVUTA AL PASSAGGIO
AL NUOVO SCHEMA SEC95
Graf. 6 Retribuzioni reali natte mensili
Retribuzioni reali nette mensili
2400
2200
2000
1860
1600
1400
1200
1000
11’1
89
90
91
92
93
n CENTRO-NORD n
F O N T I: BANCA VITALIA, A P P E N D I C E
STATISTICA
96
97
MEZZOGIORNO 0 I TALIA
98
,’
Graf. 7 Prezzi al consumo - USA, Italia, Area Euro
(Variazioni percentuali medie 90-99)
Prezzi al consumo
(variazioni % medie)
14,o
12,o
10,o
850
6.0
4,o
2.0
RO
80-89
70-79
q
F ONTE: ECONOMIC
90-99
STATI UNITI 0 ITALIA
OUTLOOK
n
AREA EURO
2000
Graf. 8 Tasso di crescka del Pi1 reale
TASSO DI CRESCITA DEL ,'IL REALE
8.
6
4
\
\
‘\
2
0
-2
-4
86
82
84
- FRANCIA
_ _ _ GERMANIA
ITALIA
F ONTI :
88
EUROSTAT, YEARBOOK
90
-~_~2000
92
94
REGNO
USA
UNITO
96
98
,’
Graf. 9 Tasso di disoccupazione - Italia, Francia, Genania, Spagna, Danimarca, UK
T ASSO
DI DISOCCUPAZIONE
25,
15.
~~~
5,
1993
1994
~ DANIMARCA
- A R E A EURO
- FRANCIA
G ERMANIA
1995
---.
-----.
1996
1997
1998
- S PAGNA
._..~~~~~.
ITALIA
-~.-. R E G N O U N I T O
F ONTI: BANCA D’ITALIA
Tab. 3 Tasso di attività, di occupazione e di disoccupazione
F ONTI: BANCA D%ALIA
1999
,j
Graf. 10 Retribuzioni medie reali
RETRIBUZIONI
MEDIE REALI
FONTI : ELABORAZIONI su DATI ISTAT DI CONTABILITÀ NAZIONALI
l RETRIBUZIONI hwOIE TOTALE ECONOMIA DEFLAZIONATE
CON L’INDICE DEI PREZZI AL CONSUMO
Graf. ii Debito Pubblico/Pil
‘3.8
0.6
02
70
75
80
FONTI : ELABORAZIONI su
85
DATI
90
95
00
ISTAT DI CONTABILITÀ NAZIONALE
05
,’
Tab. 4 Prezzi al consumo - USA, Italia, Area Eura fJJariazioni
percentuali medie 90-99)
PREZZI AL CONSUMO
PAESE
70-79
80-89
90-99
STATI UNITI
7.2
G IAPPONE
9.1
GERMANIA
F RANCIA
ITALIA
5.0
9.2
13,o
13,2
73
893
5,5
295
2,9
7,4
11,3
7,4
635
5.5
3,1
1,4
2.7
2.1
4,3
33
233
298
3.8
4.9
6.9
7.2
19,5
10.2
890
8,8
7,1
2,6
23
2,l
2.3
12.0
4.4
3.9
5.2
3,3
R EGNO U N I T O
CANADA
T O T A L E DEI P R INCIPA L I
PAESI
AUSTRIA
B ELGIO
62
7,4
9.6
11.0
13.2
15.2
8.7
DANIMARCA
FINLANDIA
G RECIA
SPAGNA
SVEZIA
TOTALE OECD
U NIONE E UROPEA
9.2
10,l
F ONTI: EUROSTAT, YEARBOOK
200
Graf. 12 Indice dei prezzi al consumo e tassi a breve
hDICE DEI PREZZI AL CONSUMO E TASSI A BREVE
25,
01,
72
-
74
76
78
80
GPC95-2
F ONTI: E LABORAZIONI su
82
84
86
DATI
ISTAT
88
90
IBIR
E
B ANCA D’ITALIA
92
94
96
98
,’
e Pil per occupato
Graf. q Tassi di crescita del Pil, Pi1 procapita
TASSI
DI C R E S C I T A DE L
PIL, PIL PROCAPITE
E PIL P ER O CCUPAT O
0,oe
0,06
0.04
0,02
0,oci
-0,02
-0,04
a PIL
F ONTI:
-
E LABORAZIONI su
DATI
PIL/occuPnrI
ISTAT
DI
- PI,,POPOLAZIONE
C ONTABILIT À
N AZIONALE
Parte S e c o n d a
Tra riforme mancate
e cattive riforme
2.1.
Il percorso di finanza pubblica: un risanamento kagi/e
L’arco temporale che viene preso in considerazione, relativamente a questa sezione dedicata
alla gestione dei conti pubblici, comprende il periodo 1997-99.
,,;
Tale fase è stata interessata da un imponente pkocesso di risanamento, le cui vicende, notoriamente connesse al soddisfacimento dei parametri di convergenza del Trattato di Maastricht, hanno
conosciuto una forte eco nel dibattito politico e nell’opinione pubblica.
E’ evidente come, sull’onda del successo dal quale questo sforzo è stato coronato, tale dibattito stia andando gradualmente spegnendosi, con la tendenza a considerare come acquisito un miglioramento strutturale dei conti e come scontata la prosecuzione di questo processo.
L’attualità di un simile tema, tuttavia, è da considerarsi tutt’altro che superata, e questo non
solo per il generale rilievo che i comportamenti del soggetto pubblico dispiegano sull’andamento dell’economia.
Vi sono, innanzitutto, gli ulteriori vincoli posti dal Patto di stabilità e crescita, stipulato anch’esso in sede europea, che disegna una graduale ma intensa tabella di marcia verso il pareggio del Conto
economico delle Amministrazioni Pubbliche da raggiungersi nel 2003.
Vi è, inoltre, l’esigenza di riportare i riflettori sugli aspetti qualitativi ed espansivi delle politiche pubbliche. Tale scopo necessita, però, di un margine di manovra nell’impiego delle risorse che presuppone una effettiva solidità strutturale dei conti.
Questa è la prospettiva in cui si inserisce l’analisi che verrà sviluppata in queste pagine.
Le grandezze di finanza pubblica, infatti, costituiscono la risultante di una vasto insieme di
norme e vincoli “stratificati” nel tempo che ne determinano l’andamento tendenziale. Il varo di manovre che sappiano incidere in maniera selettiva e qualitativa su tale andamento richiede una mappa del
quadro tendenziale attuale e delle sue prospettive future che non può essere costruito senza tenere
conto delle gestioni degli anni più recenti e dei loro risultati.
Occorrerà prendere in esame, per prima cosa, le grandezze di maggior rilievo, come i saldi del
Conto di cassa del Settore statale e del Conto economico consolidato delle Amministrazioni Pubbliche
nella loro evoluzione nel periodo considerato. Tali grandezze hanno, infatti, conosciuto un innegabile
e vistoso miglioramento. Per meglio valutarne, tuttavia, le prospettive future e l’impatto sul sistema
economico sarà utile esaminare gli strumenti con cui tali risultati sono stati conseguiti soffermandosi,
in particolare, su fattori specifici quali la spesa corrente al netto degli interessi, la spesa per interessi
passivi e la pressione fiscale e contributiva che rappresentano gli elementi più significativi, sia in senso
positivo che negativo.
Una specifica attenzione sarà, in questa prospettiva, dedicata ai singoli fattori che hanno caratterizzato il percorso del risanamento, avendo cura di sottolinearne il grado di “strutturalit%‘, la loro
maggiore o minore propensione, cioè, a produrre effetti in grado di dispiegarsi su di un arco temporale ampio e di garantire, dunque, benefici anche sugli esercizi futuri.
// percorso di rientro nei parametri di Maastricht nel corso de/ 1997. Un’analisi critica
E’, dunque, opportuno fare una panoramica sulle linee seguite dalla politica di bilancio negli
anni 1997. 1998 e 1999. per meglio comprendere il quadro attuale.
Ciò assume tanto più rilievo in considerazione del fatto che si tratta di anni in cui si è svolta
una notevole azione di contenimento del fabbisogno pubblico, culminata, nel 1997, con il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica connessi con i parametri del Trattato di Maastricht, e proseguita anche nel igg8 e nel iggg.
Al termine dei relativi e,sercizi finanziari, il saldo di cassa del settore statale si è attestato su
valori negativi rispettivamente per 52.602 miliardi, per 58.453 miliardi e per 31.000 (pari al 2,7%, al
2.8% e 55% del PIL negli anni di riferimento). Si è trattato, dunque, di un considerevole miglioramento
del valore del fabbisogno rispetto al 1996, quando si registrò un fabbisogno di 128.852 miliardi, come
,’
è illustrato nella tabella 1.
Tab. i Fabbisogno del sett. statale e Indebitamento netto della PA 1996-1999 (Val. ass. in migliaia di lira)
1996
PIL
FASE. DEL SETT. STATALE (v. CORR.)
FASS. DEL SETTORE STATALE (%PIL)
INDEB. NETTO DELLA PA (VAL . CORR.)
INDEB.
N ETTO
DELLA
PA (%PIL.)
1.902.275
1997
1998
1999
1.983.850
52.602
2.128.165
31.000
l,5
40.511
1.9
63
2.7
135.047
7,l
53.718
2.067.703
58.453
2,8
58.344
2.7
298
128.852
Negli stessi anni, il conto economico della Pubblica Amministrazione, che rappresenta l’aggregato di riferimento in sede europea ed internazionale, ha fatto registrare saldi negativi per 53.718
miliardi, 58.344 miliardi e 40.511 miliardi (pari rispettivamente al 2,7%, al 2,8% ed all’i,g% del PIL).
Nel 1996 l’indebitamento era stato, invece, pari a 135.047 miliardi.
Passando, ora, ad esaminare più nel dettaglio quanto accaduto nel 1997, va rilevato come in
tale anno si sia svolta una operazione di riduzione degli squilibri di finanza pubblica priva di precedenti recenti nella conduzione della politica economica da parte dei governi. E’, però, doveroso rilevare che tale performance è stata frutto di una serie di fattori, non tutti riconducibili ad effettivi miglioramenti strutturali dei conti pubblici.
Il calo del fabbisogno del Settore Statale e dell’indebitamento netto della PA sono ammontati
a circa 76.000 miliardi, nel primo caso, e a circa 81.000 miliardi, nel secondo. La differenza fra i due
valori sarà più chiara in seguito quando si vedrà come vi siano alcuni fattori chi si ripercuotono positivamente solo sul secondo aggregato.
Questa consistente opera. di riduzione avvenuta, inoltre, nel corso di un solo esercizio, è imputabile, per grandi linee, ad alcune componenti principali quali:
- una riduzione degli oneri per interessi per circa 32.000 miliardi;
ulteriori riduzioni di spesa, ottenute attraverso politiche di contenimento delle autorizzazioni di cassa
ma
non di competenza) in bilancio nel settore dei trasferimenti alle Regioni, agli Enti locali, al Servizio
i
sanitario nazionale, all’ANAS, alle Università. Questa “stretta di cassa” ha costretto tali Enti decentrati
di spesa ad attingere alle proprie disponibilità liquide presso la Tesoreria statale, al cui prelievo erano,
però, stati posti per legge rigidi vincoli. il fatto, però, che non siano stati parallelamente ridotti gli stanziamenti di competenza implica che non si sia inciso a sufficienza sui diritti di tali Enti a beneficiare di
trasferimenti a loro favore;
- un considerevole aumento delle entrate. Tale incremento è stato, però, conseguito in buona parte non
attraverso misure strutturali, ma con entrate aventi carattere “una tantum” quali PEurotassa (4.800
miliardi di gettito), l’anticipo dell’imposta sul TFR a carico delle imprese (6.500 miliardi) e l’anticipo di
alcuni versamenti di imposta da parte delle imprese e dei concessionari della riscossione (3.000 miliardi), le maggiori entrate IRPEG dovute ai versamenti effettuati dall’Ufkio Italiano Cambi a seguito delle
plusvalenze derivanti dalla cessione di oro alla Banca d’Italia (3.500 miliardi);
una operazione tecnica di riclassitìcazione delle voci di spesa in bilancio, volta ad escludere dal calcolo del saldo le spese per l’ammortamento dei mutui delle FF.SS., dei mutui per il finanziamento delle
politiche di intervento nelle aree depresse ed altre voci. L’effetto di riduzione del fabbisogno di tale
operazione è stato calcolato ufficialmente in 15.000 miliardi. Ad un esame più analitico è ipotizzabile
che tale importo possa essere considerevolmente superiore;
- inoltre, per centrare più agevolmente l’obiettivo fissato a Maastricht, si decise in sede di redicontazione della PA per il 1997 di addossare al solo esercizio 1995 i debiti che lo Stato aveva contratto per
ripianare gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale del 1996 che obbligava I’INPS a corrispon-
1
dere gli arretrati sui trattamenti minimi di pensione, che erano stati oggetto di un lungo contenzioso.
L’importo, che si sarebbe altrimenti dovuto corrispondere scaglionato nell’arco di alcuni anni,
ammontava complessivamente a 17.500 miliardi, e l’onere su base annua sarebbe dovuto ammontare
a 2.500-3.000 miliardi. L’addossamento all’esercizio iggf garantiva, in tal modo, un beneficio in termini contabili di una certa consistenza e destinato ad estendersi agli esercizi successivi, per un certo
numero di anni.
Le risorse occorrenti furono reperite dal Tesoro attraverso l’emissione di titoli nel corso
del 1995, ma con un ammortamento per capitale ed interessi destinato a protrarsi, appunto, per
alcuni anni.
Tale circostanza ha fornito l’occasione di considerare gli esborsi per l’ammortamento negli anni
successivi alla stregua di un rimborso di prestiti che, come tale, secondo le norme della contabilità
nazionale, si colloca “sotto le linea” ovvero non concorre al calcolo dell’indebitamento netto;
- un altro accorgimento che è stato adottato riguarda il rinvio del pagamento dei crediti d’imposta il
cui stock ammonta ad alcune decine di migliaia di miliardi, vantati dai contribuenti e, soprattutto, dal
sistema delle imprese nei confronti dell’erario. Questa posta contabile, avendo natura di regolazione
debitoria, viene presa in considerazione dal solo conto della PA.
Per dare una idea dell’ordine di grandezza, basti ricordare che nel 1996 la quota rimborsata fu di 5.363
miliardi. Nel 1997. al contrario, non venne effettuato alcun rimborso. Si può anticipare che nel 1998
tali rimborsi sono stati riattivati ma solo per 3.000 miliardi circa. Per smaltire l’intero stock occorrerebbero quote annuali di importo senz’altro più elevato.
In sintesi, elencati i fattori che hanno determinato una caduta verticale del fabbisogno del
Settore statale e dell’indebitamento della PA pari ad oltre 4 punti percentuali in termini di PIL, va osservato come il ruolo svolto dalla riduzione delle spese al netto degli interessi sia stato molto limitato e
si sia incentrato, da un lato, su misure di carattere ben poco strutturale e duraturo, dall’altro, su una
forte restrizione di cassa nella gestione del bilancio, in modo da indurre al prosciugamento da parte
degli Enti decentrati di spesa delle notevoli disponibilità da essi detenute presso la tesoreria centrale.
Tale politica non ha effetti immediati (eccetto che per
corso dell’esercizio) dal momento che, anche in presenza di
Enti decentrati rimangono comunque relativamente liberi di
facendo così peggiorare la componente del saldo del settore
i vincoli posti con legge al prelievo nel
decisioni di bilancio molto restrittive, gli
attingere alle disponibilità di tesoreria,
statale relativa a questo settore.
Per chiarire l’impatto che questa politica ha determinato sulle due diverse gestioni che compongono il settore statale basti ricordare che, nel 1997. la gestione del bilancio ha registrato un avanzo di circa 22.000 miliardi (a fronte di un disavanzo di circa 133.000 miliardi nel 1996). A sua volta, la
tesoreria ha segnato un fabbisogno di circa 74.000 miliardi (rispetto all’avanzo di circa 1.000 del 1996)
vanificando, in parte ed inevitabilmente, la estrema restrittività della gestione di bilancio.
Una volta, però, realizzato il graduale “svuotamento” della tesoreria, ciò consentirà alle decisioni di bilancio di aumentare la propria efficacia, potendo produrre più direttamente effetti sul saldo
statale.
Va, inoltre, segnalato che, fino al 1996, era garantita da parte del Ministero del Tesoro la pubblicazione, con cadenza trimestrale. del quadro di costruzione del conto consolidato di cassa del settore statale, disaggregato nelle sue diverse componenti: gestione del bilancio, della Cassa depositi e
prestiti (facente capo alla tesoreria ma evidenziata a parte) e delle altre operazioni di tesoreria. Tale
pubblicazione, anche se di ermetica lettura per quanto riguarda la tesoreria, permetteva una più chiara interpretazione della formazione del fabbisogno di cassa e della sua composizione fra le varie
gestioni.
A partire dal marzo 1998 (Relazione trimestrale sulla situazione di cassa al 31-12-1997 e sulla
stima del fabbisogno per il 1998, documento la cui presentazione venne anticipata poichè doveva passare al vaglio della UE ai fini del controllo del rispetto dei parametri del trattato di Maastricht), tale
pratica è cessata, per essere sostituita dalla pubblicazione del conto di cassa solamente nella sua versione consolidata.
Ciò rende, di fatto, molto difficile la ricostruzione dell’impatto delle singole componenti, e comporta un passo indietro sulla strada della traspaqenza dei conti pubblici passata, purtroppo, inosservata a livello parlamentare, nella stampa specializzata e nei settori più attenti dell’opinione pubblica.
Si sono potute individuare alcune operazioni di tesoreria effettuate a fine anno allo scopo di
ottenere un effimero miglioramento dei conti al 31 dicembre. Operazioni simili, di un certo rilievo, erano
avvenute anche alla chiusura dell’esercizio 1990, registrando tra gli incassi il corrispettivo dei mutui
contratti dalle Regioni per il ripiano dei disavanzi delle UU.SS.LL.. Accorgimenti analoghi si erano ripetuti anche nel 1995, concentrando nel mese di dicembre afflussi di fondi provenienti dal bilancio comunitario.
Come detto. si è verificato un anomalo afflusso di fondi in tesoreria anche alla chiusura dell’esercizio 1997, per un importo di oltre 7.000 miliardi a fronte di una media di 2-3.000 miliardi degli anni
precedenti. Anche in questo caso si trattava di fondi provenienti dal bilancio comunitario.
La gestione 1998 e gli aspetti connessi alla riconferma dei risultati dell'anno precedente.
Il 1998 si è chiuso con un fabbisogno statale di 58.453 miliardi corrispondente al 2.8% del PIL,
a fronte di un obiettivo di 52.500 miliardi formulato per quell’anno nel DPEF iggg-2001. Si è registrato, quindi, un peggioramento di circa 6.000 miliardi rispetto alle previsioni. L’indebitamento netto della
Pubblica Amministrazione è stato, invece, di 58.344 miliardi (2,8% del PIL) rispetto ad un obiettivo
anch’esso d i 52.500.
L’esercizio finanziario era stato, già in partenza, impostato sulla base di una manovra molto più
contenuta rispetto all’anno precedente. Se, infatti, nel 1997 si trattava di centrare un obiettivo estremamente impegnativo quale l’abbattimento del fabbisogno di oltre 4 punti percentuali sul PIL, nel
1998, invece, il, compito era quello di riconfermare sostanzialmente i risultati ottenuti. Il problema, quindi, era soprattutto quello di far fronte all’insidia derivante dal venir meno di alcune voci di entrata di
carattere straordinario che avevano contribuito al raggiungimento degli obiettivi nel 1997.
Veniva quindi decisa una azione correttiva che, ufficialmente, doveva ammontare a 25.000
miliardi, equamente distribuiti fra maggiori entrate e minori spese.
In effetti, la manovra si B concretizzata, piU che altro, sul lato delle misure relative alle entrate, tra le quali vanno ricordate l’accorpamento delle aliquote IVA che ha fornito un incremento del gettito di circa 7.000 miliardi, ed altre misure minori come l’aumento della ritenuta d’acconto IRPEF e delle
aliquote contributive previdenziali sui redditi da lavoro autonomo (+1.500 miliardi).
Molto minore rispetto alle previsioni è stata la portata sostanziale delle misure di riduzione
della spesa contenute nella manovra. Un effetto di stabilizzazione (ma non riduzione) della spesa è
venuto, invece, dalla reiterazione anche per il 1998 dei vincoli ai prelievi sulle disponibilità di tesoreria da parte degli Enti decentrati di spesa.
Notevoli effetti riduttivi della spesa sono, poi, derivati da fattori estranei alla manovra: in particolare la decisione di mensilizzare il pagamento delle pensioni dell’lNPS (in precedenza erogate con
cadenza bimestrale) ha avuto l’effetto di traslare, per un consistente numero di assistiti, la mensilità
di gennaio (precedentemente pagata insieme a quella di dicembre) all’esercizio successivo. Ciò ha provocato un miglioramento di circa 7.000 miliardi del fabbisogno dell’lNPS e, quindi, una eguale diminuzione di anticipazioni all’Istituto da parte della tesoreria statale.
E’ chiaro come, in questo caso, non si tratti certamente di una misura idonea ad incidere strutturalmente sull’andamento della spesa pensionistica, dal momento che i suoi effetti positivi si dispiegano su di un solo esercizio e derivano da operazioni di carattere puramente contabile.
E’ importante rilevare che l’unica voce della spesa corrente che ha registrato una netta, e reale,
contrazione è stata, ancor più che nel 1997, quella per interessi passivi che, relativamente al Settore
statale, è diminuita di circa 27.000 miliardi in valori assoluti. Un po’ inferiore è stata la riduzione degli
interessi riguardante il conto della PA che, in virtù dei nuovi standard europei del SEC 95, è ammontata a 19.000 miliardi. A riprova di ciò, si consideri comela spesa corrente comprensiva degli interessi si è incrementata solamente dello 0.4% sul 1997, diminuendo, così, sensibilmente la propria incidenza sul PIL; se, al contrario si prende in considerazione la spesa corrente al netto degli interessi, si
nota un incremento del 3.1% rispetto all’anno precedente.
Inoltre, le spese per prestazioni sociali, sulle quali le pensioni incidono per il 70% circa, si sono
incrementate del z,1%. Senza l’effetto della ricordata mensilizzazione, la loro crescita sarebbe stata di
oltre il 4%.
Sul lato della spesa si può, in conclusione, affermare che i fattori che ne hanno favorito il contenimento, quale il calo generalizzato dei tassi di interesse, sono di natura, più che altro, esogena.
Non vengono, invece, intaccate aree di spesa, quali le prestazioni pensionistiche e previdenziali, il cui
contenimento necessita di misure di carattere permanente e strutturale.
Passando, ora, ad analizzare il lato delle entrate, si constata come si sia verificato un aumento dello 0.8% rispetto al 1997 degli incassi complessivi della Pubblica Amministrazione, un valore, questo, molto inferiore alla crescita del PIL nominale e che ha, quindi, determinato una riduzione di 1,5
punti dell’incidenza della pressione fiscale e contributiva sul PIL stesso.
A questo calo della pressione fiscale hanno contribuito, da un lato, il venir meno di alcuni dei
tributi “una tantum” introdotti nel 1997 e, dall’altro, un andamento molto inferiore (per ben 12.000
miliardi) al previsto dell’lRAP, imposta entrata in vigore proprio a partire dal 1998 e sostitutiva dei contributi per l’assistenza sanitaria, dell’ILOR, dell’imposta patrimoniale sulle imprese e di altre voci minori di entrata.
Tornando,
damento di circa
esame dei flussi
tale sfondamento
più specificamente, al settore statale, si è già detto sopra come vi sia stata uno sfon6.000 miliardi rjspetto alle previsioni. E’ da rilevare come, in base ad un più attento
di tesoreria, si siano individuate operazioni di aggiustamento in assenza delle quali
avrebbe potuto essere anche più consistente.
La gestione lggg
La panoramica deve essere ora completata con una analisi degli aspetti di rilievo della gestione
1999.
E’ da sottolineare come, anche in questo ultimo anno, i fattori migliorativi, che hanno portato
l’indebitamento netto della PA da 58.344 miliardi a 40.511 miliardi, si collochino ancora una volta, in
misura pressoché esclusiva, sul lato dell’entrata, mentre, per la spesa, l’unico fattore in effettiva contrazione strutturale sono stati, ancora una volta, gli interessi.
Al netto di questi ultimi, infatti, la spesa corrente è aumentata del 4,4% rispetto al 1998, accelerando il suo ritmo di crescita rispetto all’anno precedente. La spesa corrente totale, invece, grazie al
beneficio dei minori oneri per il servizio del debito, ha segnato un incremento pari all’1,3%.
Le entrate correnti, parallelamente, hanno fatto registrare un aumento del 4,2% sul 1998, con
una ulteriore crescita della pressione fiscale riferibile principalmente alle imposte dirette (+8,3%).
Sul lato della spesa, invece, si registrano dei peggioramenti in alcune voci che, pur non essendo tali per dimensione da compensare l’incremento delle entrate, possono destare una certa preoccupazione sia per la loro appartenenza alla parte corrente, sia per la loro natura che, lungi dal rimandare a particolari fattori contingenti, appare essere di carattere strutturale. Si tratta, in primo luogo,
della spesa sanitaria che, nel 1999. risulta sensibilmente superiore rispetto all’anno precedente, con
un incremento di oltre il 6%.
Caltro settore critico coincide con le prestazioni sociali che, dopo l’effimero ed artificioso railentamento del 1998, riprendono invariata la loro dinamica espansiva (+5,5% rispetto al 1998. La componente che si è rivelata, ancora una volta, la più problematica P quella delle pensioni (+6,6%).
Di ben maggiore portata, come anticipato:‘ sono gli incrementi in buona parte imprevisti, verificatisi sul lato dell’entrata. SI tratta di un tema che merita qualche approfondimento maggiore, oltre
che sulle dimensioni di questi flussi finanziari, anche sulla loro natura, sui fattori che li hanno determinati e sull’impatto economico che possono dispiegare.
L’area maggiormente interessata, in particolare, 6 stata quella delle imposte dirette. Le voci alla
base di tale incremento risultano essere I’IRPEF (+8,8% rispetto al 1998) e, soprattutto, I’IRPEG
(+39,9%).
Tale crescita, perlomeno per quanto riguarda I’IRPEG, sembra, però, potersi imputare solo in
parte ad un aumento dei redditi sui quali tale imposta grava.
Non sono tanto i redditi, infatti, ad essere cresciuto quanto la base imponibile, la quota, cioè,
di quei redditi sottoposta ad imposizione. Si tratta, in questo caso, di un fenomeno connesso con l’introduzione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).
Come è noto, I’IRAP ha sostituito, fra l’altro, i contributi per l’assistenza sanitaria i quali sono
stati soppressi contestualmente alla sua introduzione. Ciò doveva avvenire “a pressione fiscale e contributiva invariata”. CIRAP doveva, in altre parole, garantire un gettito pari a quello che si sarebbe avuto
a contributi sanitari ancora vigenti.
Se è vero che tale circostanza si è, nella sostanza, verificata ed anzi I’IRAP ha garantito un gettito inferiore alle attese, è altrettanto vero, però, che i contributi sanitari, a differenza dell’lRAP, erano
detraibili ai fini IRPEG. Di qui l’aumento di base imponibile, quantificabile in circa 50.000 miliardi; di
qui, inevitabilmente, anche l’aumento di pressione fiscale complessiva.
Considerazioni conclusive sulla politica de/ risanamento ne/ triennio
Una volta esaminati nel dettaglio gli aspetti caratterizzanti delle gestioni ‘97. ‘98 e ‘gg. è ora possibile ‘svolgere qualche riflessione d’insieme sull’andamento dei conti pubblici nel periodo preso in
considerazione e sui principali fattori che hanno influito su tale andamento. Accanto all’analisi delle
singole gestioni annuali è, in altre parole, opportuno prendere in esame le variazioni intercorse, per
le voci di maggior rilievo, nell’intero arco temporale considerato. Ciò dovrebbe consentire di tracciare un quadro abbastanza chiaro della effettiva natura del risanamento e dei reali fattori che lo
hanno propiziato.
Comparando i dati di finanza pubblica registrati nel 1999 con qdelli del 1996 emerge, innanzitutto, un vistoso miglioramento dei saldi.
Tab. 2 Conto economico consolidato Delle Amministrazioni Pubbliche: Saldi 1996-1999
(%PIl)
1996
1997
1998
1999
‘99-‘96
differenza
?_I
-3,7
4.4
-7,l
-0,2
67
-2,7
0,3
5,3
-2,8
1,s
4,9
-1,9
0:;
5.2
SAL,DO CORRENTE
SALDO PRIMARIO
INDEBITAMENTO
NETTO
Per ciò che riguarda l’indebitamento netto, il valore assunto a parametro tanto per Maastricht
quanto per il Patto di stabilità e crescita, si assiste ad un calo dell’incidenza sul PIL di oltre cinque
punti percentuali. Va notato, inoltre. come la parte più cospicua di questa riduzione sia stata concentrata nell’arco di un solo anno, il 1997. quando venne registrato un indebitamento di 53.718 miliardi,
pari al 2,7% del PIL, con una riduzione di 4.4 punti percentuali rispetto all’anno precedente.
Innegabile è, perciò, lo sforzo che è stato compiuto (e richiesto al Paese ed al suo sistema economico), soprattutto in considerazione della brevità del lasso temporale in cui si è sviluppato. Rispetto
ad esso i valori registrati nel 1998 e nel 1999 assumono l’aspetto di, più o meno leggeri, aggiustamenti.
,’
Su valori simili a questi risulta
sati da un valore negativo per 71.020
ziale pareggio, ad un valore positivo
prima volta a partire dagli anni ‘70,
anche la dinamica.del saldo corrente riguardo al quale si è pasmiliardi (3,7% del PIL) nel 1996, attraverso due anni di sostanper 32.398 miliardi (1.5%) nel 1999 configurando, così, per la
una situazione di risparmio pubblico.
Si tratta, in questo caso, del ritorno ad una situazione fisiologica per cui si cessa di attingere,
attraverso l’indebitamento, al risparmio privato per finanziare la spesa corrente. Un saldo corrente positivo può costituire, anzi, una importante forma di “autofinanziamento” della spesa pubblica in conto
capitale, sostitutiva dell’indebitamento o, in parte, aggiuntiva ad esso.
In parte diverse sono, invece, le indicazioni che emergono se si esamina la dinamica del saldo
primario, ovvero del saldo generale al netto della spesa per interessi passivi. Questo, infatti, dopo aver
raggiunto un valore positivo all’inizio degli anni ‘90, si è attestato su di un livello di avanzo estremamente alto, con un picco del 6.7% del PIL nel 1997.
Se ciò è reso, da un lato, necessario dall’esigenza di ridurre lo stock di debito pubblico, dall’altro, questo imponente assorbimento di risorse dispiega un effetto di compressione della domanda.
Da questo punto di vista la dinamica decrescente del “primario”, che ha preso il via successivamente
al citato “picco” del 1997, può avere l’effetto di “concedere respiro” al sistema economico. Questa stessa dinamica, tuttavia, mette in luce come le grandezze di finanza pubblica, se considerate al netto
degli interessi, siano tuttora sottoposte a tensioni che, originate in alcuni settori della spesa corrente,
rischiano di determinare una spinta al deterioramento.
E’, dunque, utile esaminare l’andamento delle principali componenti della spesa considerando,
in primo luogo, l’incidenza sul PIL, come illustrato dalla tabella 3, riportata sotto.
Tab. 3 Conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche: Uscite 19964999 (%PIl)
USCITE CORRENTI AL NETTO INTERESSI
INTERESSI
PASSIVI
USCITE CORRENTI
USCITE IN CONTO CAPITALE
37,6
11,5
49,l
3,8
USCITE COMPLESSIVE AL NETTO INTERESSI 41,4
US C I T E
COMPLESSIVE
52,9
PRESTAZIONI SOCIALI IN DENARO
16,9
PE N S I O N I
14.0
37,9
94
47,3
3,5
41,5
50,9
17,3
14,5
37,5
8,l
45,6
3,8
41,3
49,4
17,o
14,l
38,0
6.8
44,9
3,9
42,0
48,8
17,4
1496
'99-'96
differenza
0,4
-4,7
-4,2
O,l
‘36
-4,l
0,5
005
I
La prima di tali componenti è, naturalmente, proprio quella degli interessi passivi per il servizio del debito pubblico. Nel periodo 1996-1999 questa area di spesa ha potuto godere dell’azione congiunta dei benefici derivanti dal vistoso calo dei tassi e della riduzione (in termini di PIL) dello stock
di debito che pure ha proceduto in modo lento ed in maniera più contenuta di quanto le numerose
privatizzazioni avrebbero potuto permettere.
Il miglioramento, in termini di incidenza sul PIL, è ammontato a 4.7 punti percentuali. Si tratta, dunque, della componente del conto della PA i cui progressi hanno registrato le dimensioni maggiori, tali da poter spiegare quasi per intero il calo dell’indebitamento netto che come si è visto è stato
di 5.2 punti percentuali rispetto al PIL.
Si tratta, inoltre, della sola componente il cui aggiustamento può dirsi dotato di caratteristiche
strutturali. Il fenomeno, d’altra parte, possiede una natura quasi del tutto esogena rispetto alla gestione dei conti pubblici.
Proprio in tale esogeneità si nasconde un*fattore potenzialmente insidioso per la stabilità finanziaria della pubblica amministrazione. Essa, infatti, ha ben poca possibilità di influire su di una eventuale nuova crescita dei tassi, di cui già si colgono le prime, consistenti, avvisaglie. E’ chiaro che ciò
determinerebbe un nuovo aumento della spesa per interessi che, in assenza di riforme di altre componenti strutturali di spesa, finirebbe per danneggiare seriamente i conti pubblici.
Se si guarda, infatti, alla spesa complessiva tanto di parte corrente quanto nel suo valore totale, si nota un calo, in entrambi i casi, di poco superiore al 4% del PIL a fronte del - 4,7 degli interessi passivi. Se ne deduce I’esistenza di fattori di spesa che mantengono una dinamica di crescita supe-
riore a quella del PIL e che erodono, in parte, i benefici arrecati dal calo dei tassi.
Uno sguardo più attento, tuttavia, rivela come tali fattori non siano da cercare nella spesa in
conto capitale che si mantiene, nel periodo considerato, su livelli di sostanziale stabilità, passando dal
3.8% del PIL nel 1996 al 3,9% del 1999.
Al fine di individuare le “aree a rischio” che permangono all’interno dei conti pubblici è, piuttosto, opportuno, guardare alla spesa di parte corrente che, fra il 1996 ed il 1999. ha fatto registrare
un incremento dello 0.4% rispetto al PIL. Se si tenta di esaminare quali componenti della spesa corrente siano alla radice di questa dinamica non si può non prendere in considerazione la voce riguardante le prestazioni sociali che, anche limitatamente alle sole prestazioni erogate in denaro, rappresentano da sole ormai oltre il 45% delle uscite correnti al netto degli interessi.
Questa voce ha conosciuto nel periodo ‘96.‘99 una crescita della sua incidenza pari allo 0,5% del PIL
stesso. Si tratta, tuttavia, di un aggregato che comprende una eterogeneità di politiche pubbliche riconducibili alla sfera previdenziale ed assistenziale ma, in base al SEC 95, non più a quella della spesa
sanitaria.
E’ ovvio come la crescita del peso delle prestazioni sociali non sia riconducibile ad una dinamica omogenea di tutte le sue componenti. Le politiche assistenziali, infatti, oltre ad alcuni istituti previdenziali appaiono, anzi, in sostanziale stabilità (quanto alla loro incidenza sul PIL) oppure in, più o
meno consistente, contrazione.
Quella che, invece, determina (da sola) l’espansione dell’intero aggregato delle prestazioni
sociali è la componente pensionistica della previdenza. Questa voce ha fatto registrare, nel triennio,
una crescita in termini di PIL dello 0,6%, nonostante la riduzione del 1998, legata alla mensilizzazione
delle pensioni INPS, riguardo alla quale si è sottolineato sopra il carattere puramente contabile e, dunque, effimero nei suoi effetti.
E’ chiaro come, in questo caso, si tratti di una tendenza in atto da lungo tempo e rispetto alla
quale appare, dunque, fallito l’intento, proprio della “riforma Dini”, di stabilizzare il rapporto fra la
spesa pensionistica ed il PIL.
E’ in questo settore, perciò, che risiedono i principali fattori di sofferenza dei conti pubblici. Ed
è questo, di conseguenza, il fattore che attenua i benefici connessi al calo dei tassi di interesse. Si tratta di una circostanza, oltretutto, che può dirsi ben scarsamente riferita ad esigenze di protezione sociale di fasce in condizioni disagiate, la cui tutela assistenziale, anzi, ne risulta come abbiamo visto penalizzata.
Per comprendere, quindi, come si sia potuti giungere, per l’indebitamento netto, a simili risultati, accanto agli interessi passivi occorre fare riferimento, puntualmente, al lato dell’entrata.
Tab. 4 Conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche: Entrate fiscali e contributive 1996.1999 (%PIl)
1996
1997
1998
1999
42.0
11.8
15.3
0,3
14,6
44,2.'
12,5
16,l
0,7
15,0
42,7
15,4
14,4
0,4
12,5
42,9
15,3
15,l
61
12,4
'99-'96
differenza
0,9
3,5
-0,2
-0,2
-2,3
Il triennio ha visto una crescita della pressione fiscale e contributiva molto vicina all’I%. Questa
espansione non si è, tuttavia, distribuita con un ritmo omogeneo sull’intero arco temporale. Vi è stato,
anzi, un vistoso ridimensionamento nel 1998, dopo il picco dell’anno precedente, anno in cui le note
ragioni di urgenza avevano richiesto le misure eccezionali su cui ci si è soffermati nel relativo paragrafo.
Il calo del igg8 è, dunque, riferibile soprattutto al venir meno di quelle stesse misure, che avevano collocato la pressione fiscale su livelli ben difficilmente sostenibili a lungo dal sistema economico.
Come si vede, però,
ricorso a questo strumento,
Patto di stabilità e crescita,
sufficientemente compensate
meno ad attenuarsi.
nel lggg la pressione fiscale ha ripreso, gradualmente, a salire. Senza il
infatti, sarebbe molto difficile garantire il rispetto del percorso segnato dal
visto il persistere di spinte espansive della spesa corrente che non sono
dalla dinamica virtuosa degli interessi passivi destinata, inoltre, perlo-
2.2. La politica fiscale: molte ombre e poche luci
La politica fiscale dell’ultimo quinquennio si è distinta per l’adozione di una serie dì misure che
hanno profondamente e radicalmente innovato l’assetto vigente fino al 1995.
Il sistema tributario, ideato e realizzato negli anni settanta, è stato incisivamente modificato
dalla cosiddetta riforma Visco, il cui progetto si è concretizzato non nella sostituzione degli istituti che
compongono l’ordinamento tributario bensì nell’affiancamento
ad esso di nuovi modelli impositivi e di
nuovi meccanismi procedimentali in materia di accertamento e riscossione delle imposte.
Il quadro che n’è derivato risulta abbastanza confuso e frammentato, con la conseguenza che
appare indispensabile riportare ordine nel sistema cercando, nel contempo, di non disperdere quanto
di buono si è prodotto nel suddetto lasso temporale.
A tal fine è opportuno prendere le mosse da quelle che sono le linee direttrici della Riforma
Visco con l’obiettivo di analizzarle, di verificarne le disfunzioni e le anomalie e di individuare possibili prospettive future, di breve e di medio-lungo periodo, mirate a dar vita a un sistema tributario organico ed armonioso.
La riforma Visco
I capisaldi fondamentali della riforma fiscale realizzata da Visco sono rappresentati:
4
b)
da alcuni interventi diretti a favorire le imprese che si capitalizzano (D.1.T) e che, contestualmente, acquisiscono beni strumentali nuovi (legge Visco), nonché da agevolazioni connesse al
trasferimento di aziende (ristrutturazioni aziendali);
dall’istituzione dell’imposta Irap sul valore della produzione e dalla soppressione di una serie di
tributi (Ilor, Imposta sul patrimonio netto delle imprese, tassa sulla salute, Iciap, tassa di con-
0
4
el
9)
hl
il
il
cessione governativa per l’attribuzione del numero di partita Iva, contributi sanitari);
dall’approvazione degli studi di settore da utilizzare come strumento di accertamento nei confronti dei contribuenti con volumi di affari non superiori a IO miliardi;
da strumenti deflattivi del contenzioso, quali l’accertamento con adesione, la conciliazione giu/
diziale, l’autotutela, ecc.;
da nuove modalità di presentazione e trasmissione della dichiarazione dei redditi e dell’Iva (fisco
telematico) e dall’attribuzione di un ruolo attivo al mondo delle professioni nella cosiddetta certificazione tributaria (visto di conformità formale della dichiarazione, asseverazione dei dati contabili ed extracontabili ai fini degli studi di settore, visto pesante);
dalla compensazione tra debiti e crediti d’imposta allargata a tributi diversi e dalla rateizzazione
delle imposte;
dalla revisione della disciplina dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria
(capital gains);
dall’allineamento delle basi imponibili fiscali e previdenziali del lavoro dipendente;
dalla revisione del sistema sanzionatorio tributario amministrativo e penale;
da altre misure di contorno (nuova disciplina degli enti non commerciali e delle ONLUS, ridefinizione del concetto di esigibilità dell’Iva e fissazione di nuovi criteri di detrazione dell’imposta,
nuove regole per i cosiddetti regimi speciali Iva, ecc,..).
Dalla vastità degli interventi sopra riportati era facile arguire che l’assenza di un’integrale soppressione del sistema previgente e la conseguente introduzione dei nuovi assetti avrebbero comportato una situazione di confusione generale. Inoltre era facile preconizzare che si sarebbero generate
enormi difficoltà operative e gestionali fra gli addetti al lavori (imprese, lavoratori autonomi, professionisti che assistono i contribuenti, amministrazione finanziaria) e preoccupanti ripercussioni sull’andamento del gettito tributario il quale, per effetto delle modifiche introdotte e degli inevitabili errori
causati dai cambi di disciplina, avrebbe presentato delle sofferenze.
Quest’ultimo effetto si è solo in parte verificato, soprattutto con riferimento all’introduzione
dell’lrap. mentre si sono addirittura registrati casuali incrementi del gettito stesso da imputare, in principal modo, al nuovo meccanismo di tassazione del risparmio gestito delle rendite finanziarie che, con
il metodo di imposizione sul maturato, ha prodotto risultati positivi non strutturali.
Ma le disfunzioni e le anomalie del nuovo sistema tributario meritano di essere analiticamente
segnalate avendo riguardo ai diversi interventi evidenziati.
Le disfunzioni e le anomalie de/ nuovo sistema. Gli incentivi alle imprese
Come già detto le agevolazioni per le imprese si sostanziano nell’introduzione della D.I.T., nella
riduzione della tassazione sul reddito di impresa connessa all’investimento in beni strumentali (legge
Visco) e nell’adozione di un imposta sostitutiva, con aliquota del 27%, per le plusvalenze emergenti
da ristrutturazioni aziendali.
La D.I.T. consente di tassare al 19% una certa percentuale dell’imponibile Irpef Irpeg (cosiddetto C.R.O. attualmente pari al 7%) dell’incremento dei conferimenti o degli utili realizzati dall’imprenditore.
La rimanente parte dell’imponibile Irpef - Irpeg continua ad essere tassata al 37% in un sistema duale di tassazione (c.d. Dual - Income Tax).
L’imprenditore viene premiato con l’aliquota del 19% solo in proporzione al capitale impiegato e al profitto ricavato: è virtuoso l’imprenditore unicamente se rischia e mette a frutto il proprio capitale.
Una diversa concezione, da un lato meno classista, e dall’altro più ancorata alla realtà economica del nostro paese ci porta ad osservare che esistono anche gli imprenditori che abilmente riescono a produrre ricchezza con scarse o talvolta nulle risorse di capitale proprio.
L’attuale struttura della D.I.T. non consente dunque di favorire l’imprenditore che produce ricchezza ma solo quello più capitalizzato.
seguenti
al
b)
4
L’introduzione della D.I.T. non ha dunque prodotto i risultati sperati soprattutto per i
2
fattori:
limitazione dell’agevolazione alle sole imprese che si capitalizzano e non a quelle tisiologicamente indebitate perché, ad esempio, subiscono ritardi nella riscossione dei crediti ma che, tuttavia, sono operative;
esclusione dal beneficio per le imprese in contabilità semplificata;
conoscenza del coefficiente di remunerazione del capitale investito applicabile alla variazione in
aumento del patrimonio netto rispetto a quello esistente nel 1996, solo dopo la chiusura del
periodo di imposta. Questa situazione comporta incertezza dei vantaggi fiscali derivanti dall’investimento di risorse in aziende e preferenza per l’acquisizione di strumenti finanziari (obbligazioni,
derivati ecc.).
La legge Visco (consistente nell’applicazione al reddito di impresa dell’aliquota del 19% per la
parte corrispondente al minor ammontare tra la capitalizzazione e l’acquisto di beni strumentali nuovi)
si è, invece. dimostrata uno strumento estremamente complesso, irto di difficoltà (soprattutto collegate alla riduzione dagli investimenti delle cessioni, dismissioni e ammortamenti concernenti i beni
della stessa tipologia) e di scarso interesse per le imprese, le quali avrebbero preferito la riproposizione della detassazione del reddito d’impresa per la parte corrispondente agli investimenti in beni
strumentali nuovi, previsto dalla cosiddetta legge Tremonti del 1994.
Solo la riduzione della tassazione sulle plusvalenze derivanti da ristrutturazioni aziendali (cessioni di aziende, cessioni di partecipazioni dì controllo o di collegamento, utilizzo dei disavanzi di
fusione e scissione) hanno suscitato apprezzamenti da parte dei contribuenti, anche se non va sottaciuto che la disciplina normativa recata dal D.Lgv.358 del 1997 non risulta di facile ed immediata applicazione.
L ‘Irap
Clstituzione dell’lrap
rappresenta, forse, l’aspetto più contrastato della riforma Visco.
Tale tributo, che non ha eguali nel mondo (eccezion fatta per due stati americani che, peraltro,
si accingono a sopprimerla), è di una complessità enorme. Inoltre l’imposta penalizza le imprese di
modeste dimensioni ed i lavoratori autonomi favorendo, nel contempo, le imprese di grandi dimensioni. E’ del tutto ingiustificata, infine, l’esclusione dalla base imponibile del costo del lavoro atteso
che quest’ultimo rappresenta un elemento determinante ed indefettibile del valore della produzione.
Clrap è stata ripetutamente tacciata di incostituzionalità e di iniquità per aver aggravato il carico fiscale dei piccoli operatori economici in favore di grandi operatori, in particolare banche e assicurazioni che si sono avvantaggiate dell’abolizione dell’imposta patrimoniale.
Al di là di ogni polemica, in quanto il Ministero delle Finanze non riesce a fornire dati certi al
riguardo, sicuramente ha mancato l’obiettivo previsto di assicurare un maggiore gettito rispetto ai tributi sostituiti con la sua introduzione (in particolare Ilor e imposta patrimoniale).
Gli studi di settore
Questo meccanismo di accertamento, già studiato fin dal 1993 (Decreto legge n. 331 del 1993).
costituisce un utile ed interessante strumento ai fini della cosiddetta catastizzazione del reddito delle
imprese e dei lavoratori autonomi di non elevate dimensioni.
Capplicazione di tale strumento si è tuttavia dimostrata difficoltosa soprattutto con riferimento all’acquisizione degli elementi contabili ed extracontabili che il contribuente deve fornire, attraverso appositi questionari, all’Amministrazione finanziaria.
Inoltre le imprese che esercitano più attività o che hanno più punti di vendita devono tenere
la contabilità separata ai fini dell’applicazione dei diversi studi di settore con enormi complicazioni
amministrative insostenibili per i piccoli/medi operatori ai quali sono rivolti gli studi di settore stessi.
Strumenti deflattivi del contenzioso
1.
L’accertamento con adesione, la conciliazione giudiziale e gli altri strumenti deflattivi del contenzioso, già contenuti in disposizioni normative introdotte fin dal 1994. durante il governo Berlusconi,
costituiscono un ottimo strumento per comporre o prevenire le liti con il fisco. Tuttavia l’aspetto che
suscita maggiore perplessità riguarda la concreta attuazione amministrativa di tali istituti.
Infatti, come è stato rilevato anche dal Secit, c’è la tendenza a definire gli accertamenti sulla
base di ammontari inadeguati alle pretese originarie contenute negli atti di accertamento medesimo.
L’istituto dell’autotutela, inoltre stenta a decollare in quanto l’attuale sistema di norme grava di
pesanti responsabilità, per potenziali danni all’Erario, i funzionari degli uffici.
Gli adempimenti dichiarativi e il fisco telematico
La riforma Visco ha completamente ristrutturato gli adempimenti dichiarativi: è stata introdotta
la dichiarazione unificata che lungi dal ridurre gli adempimenti li ha solo concentrati in un unico monstrum dichiarativo che facilita i compiti dei verificatori, ma complica oltremodo quelli dei contribuenti
meno attrezzati ovvero dei piccoli imprenditori e professionisti.
Il fisco telematico rappresenta una buona intuizione. Con tale strumento si acquisiscono in
tempo reale le dichiarazioni all’anagrafe tributaria, si elimina il procedimento di liquidazione delle stesse e si liberano, nel contempo, risorse umane dell’amministrazione finanziaria utilizzabili nell’attività di
accertamento, i cui termini decadenziali sono stati ridotti di un anno.
Si rileva tuttavia che tale metodo di presentazione e trasmissione delle dichiarazioni comporta
notevoli problemi ai contribuenti in considerazione della mole enorme di termini, tra loro disomogenei, per effettuare i connessi adempimenti.
La
certificazione
tributaria
Nell’attività di certigcazione tributaria i professionisti abilitati devono attenersi non solo alle
disposizioni normative e regolamentari ma anche alle interpretazioni che di esse ha dato l’amministrazione, finanziaria. Accade spesso che l’amministrazione adotti soluzioni contestate e non perfettamente in linea con il dettato della legge.
In questi casi il professionista, se vuole apporre alla dichiarazione del contribuente il cosiddetto visto pesante, deve adeguarsi alle interpretazioni ministeriali errate.
Pertanto la mancata previsione normativa dell’apposizione del visto pesante con riserva di non
accettare le posizioni interpretative ministeriali non condivise, comporterà che difficilmente i professionisti si avvarranno di tale istituto.
La compensazione tra debiti e crediti d’imposta
La compensazione tra debiti e crediti di diverse imposte aveva come obiettivo l’eliminazione
del fenomeno dei rimborsi d’imposta effettuati con notevole ritardo dall’Amministrazione finanziaria.
Questa lodevole iniziativa è peraltro stata enormemente complicata per effetto dei numerosissimi codici tributo da adottare per eseguire gli adempimenti compensativi (da effettuare utilizzando il
cosiddetto modello Fz4).
Inoltre la difficoltosa gestione amministrativa comporta errori e disfunzioni nel pagamento delle imposte.
La revisione della disciplina dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria
La riforma delle rendite finanziarie è forse il migliore esempio delle complicazioni introdotte dal
Ministro Visco.
,’
La continua ricerca dell’imponibile annidata nei nuovi strumenti finanziari ha spinto il legislatore fiscale all’emanazione di un corposo D.Lgs e di numerose norme di modifica e integrazione che
già ad oggi ne rendono difficile la lettura agli addetti ai lavori.
In particolare, per quanto riguarda i redditi diversi, i soggetti che possiedono partecipazioni o
altri strumenti finanziari hanno la possibilità di assoggettare a tassazione le plusvalenze, relative a
detti beni, attraverso le seguenti modalità:
1.
2.
3.
dichiarazione su UNICO;
metodo del risparmio amministrato, attraverso intermediari abilitati che applicano le imposte al
momento della cessione delle partecipazioni;
metodo del risparmio gestito, attraverso gli intermediari di cui al punto b) che applicano le imposte man mano che i proventi maturano.
Per allineare la tassazione al realizzo (dichiarazione e risparmio amministrato) con quella alla
maturazione (risparmio gestito) è stato pensato il cosiddetto equalizzatore.
Questo meccanismo, estremamente complesso, rende più onerosa la tassazione al realizzo e
sovverte il criterio fondamentale del capita/ gains, in base al quale le plusvalenze relative alle cessioni di partecipazioni si tassano fisiologicamente e senza aggravi nel momento in cui beni vengono ceduti (cioè quando le plusvalenze stesse vengono realizzate) e non quando i proventi stessi maturano.
L’allineamento delle basi imponibili fiscali e previdenziali de/ lavoro dipendenfe
L’unificazione delle basi imponibili fiscali e previdenziali del lavoro dipendente rappresenta un
importante obiettivo realizzato con il decreto legislativo n. 314 del 1997.
Tuttavia questo provvedimento ha apportato talune modifiche al precedente quadro normativo che
generano incertezze e perplessità.
Sono stati inoltre modificati i criteri di determinazione della base imponibile per i cosiddetti
fringe benefits.
Infatti, mentre in precedenza detti proventi in natura erano tassati sulla base del cosiddetto
costo specifico sostenuto dal datore di lavoro (concetto quest’ultimo che pur con qualche difficoltà iniziale era stato, tuttavia, assimilato dalla prassi operativa), la nuova disciplina normativa assoggetta ad
imposizione i fringe-bene& con riferimento al valore normale dei beni. Va da sé che la reintroduzione del criterio del valore normale costituisce un ritorno al passato e ripropone i problemi che ne avevano consigliato il superamento nella nuova nozione di costo specifico e, segnatamente, la difficoltà
di pervenire ad una obiettiva valutazione di mercato, eccezion fatta per taluni beni o servizi espressamente individuati dalla norma (autoveicoli, fabbricati, prestiti) per i quali il legislatore ha specificamente stabilito i criteri di determinazione dell’imponibile stesso.
Inoltre particolare enfasi è stata riservata alle cosiddette azioni ai dipendenti (stock options). Tale strumento viene utilizzato nella prassi aziendale per frdelizzare solo talune categorie di dipendenti.
Nel nuovo contesto normativo vengono specificamente trattati sia i meccanismi di assegnazione delle azioni alla generalità dei dipendente (aspetto questo abbastanza raro nella vita aziendale),
sia quelli riguardanti particolari categorie di lavoratori (dirigenti), per i quali è stato stabilito che non
è imponibile la differenza tra costo sostenuto dal dipendente, se quest’ultimo è almeno pari al valore
delle azioni alla data dell’offerta, e al valore della partecipazioni al momento dell’assegnazione.
La rarità del beneficio, in quest’ultima ipotesi, evidenzia l’urgenza di flvedere organicamente
l’anzidetta disciplina, estendendo il trattamento di favore ad altri personaggi che assolvano un ruolo
importante nella vita aziendale (amministratori. per i quali si stanno introducendo delle norme nel provvedimento collegato alla finanziaria per il 2000, attualmente all’esame del Parlamento; agenti, ecc.).
// nuovo sistema sanzionatorio tributario
,’
Anche sul versante sanzionatorio tributario sono state introdotte rilevanti modifiche, sia con
riferimento al comparto amministrativo (si vedano i decreti legislativi numeri 471, 472 e 473 del lgg7),
sia con riferimento a quello penale (si veda il decreto legislativo n. 74 del 2000).
Per quanto riguarda il settore amministrativo, si rileva che lo stesso è stato modellato sulla falsariga di quello penale. E’ da osservare che tale riforma è intervenuta in un settore in cui gli operatori sentivano effettivamente il bisogno della messa a punto di un meccanismo giuridico riconducibile al
concorso e alla continuazione che realizzasse l’attenuazione delle sanzioni rispetto al semplice cumulo. Tale riforma è stata tuttavia realizzata sacrificando le esigenze di semplicità a quelle della coerenza giuridica.
Pertanto per applicare una sanzione tributaria I’ufticio finanziario dovrà valutare la sussistenza dell’elemento psicologico (dolo o colpa) al momento della violazione, dovrà verificare se si configura un concorso di persone nella violazione, se c’è un autore mediato, se si configura un reato continuato.
La verifica della descritta situazione rende evidente che l’irrogazione di una sanzione da parte
dell’ufficio risulta in molti casi più complessa del recupero dell’imposta, con notevole ed improduttivo
dispendio di energie da parte dell’Amministrazione finanziaria.
La riforma della riscossione
La riforma Visco ha accentuato il rapporto di sudditanza dei contribuenti nei confronti dello
Stato. L’introduzione delle dichiarazioni unificate, dell’invio telematico non hanno arrecato alcun beneficio ai contribuenti che sono stati obbligati invece a nuovi e complessi adempimenti. Tali riforme hanno
invece consentito di liberare ,importanti risorse umane degli uftici finanziari.
I contribuenti si aspettano esattamente il contrario ovvero che lo Stato si organizzi sempre
meglio sollevandoli dagli adempimenti e dagli oneri.
La vicenda delle cartelle pazze dell’estate ‘gg. che sta per ripetersi nel zooo, palesa I’arroganza dello Stato centrale che non solo colpisce il cittadino con pretese tributarie infondate, ma pervicacemente insiste, obbligandolo finanche al contenzioso e alle relative spese.
La sudditanza del contribuente è poi massima se l’arroganza del potere, complice la riforma
della riscossione realizzata dal ministro Visco, obbliga il contribuente a pagare imposte non dovute,
perché gli uffici non accordano la sospensione della riscossione e l’esattore arriva immancabilmente
prima di poter ottenere il giudizio delle commissioni tributarie.
Le prospettive di breve periodo (da realizzare con interventi indicati ne/ dpef e realizzati con la finanziaria 2001)
Nell’impossibilità, nel breve periodo, di ipotizzare una radicale e profonda revisione del sistema al fine di eliminare le disfunzioni e anomalie sopra illustrate, si ritiene che, in questo ambito temporale, possono tuttavia essere adottati correttivi mirati a rendere più razionale il sistema stesso.
al
b)
Innanzitutto, per quanto riguarda gli incentivi alle imprese, si potrebbe:
estendere la D.1.T alle imprese di minori dimensioni (in contabilità semplificata) prendendo a base
di riferimento per l’agevolazione i beni strumentali ed il magazzino;
prorogare per il 2001, elevando, eventualmente, l’aliquota per non provocare conseguenze sul
piano della copertura finanziaria, la cosiddetta legge Visco, ma semplificando il meccanismo
applicativo (eliminando, cioè, le riduzioni da operare sull’ammontare degli investimenti in beni
strumentali nuovi e, magari, il requisito della capitalizzazione dell’impresa in modo da “tremontizzarla”);
4
ridurre, dal 27% al 19%, l’aliquota dell’imposta sostitutiva delle ristrutturazioni aziendali (come
si tenta di fare con il collegato alla finanziaria per l’anno zooo) lasciando tuttavia invariato il
meccanismo di versamento dell’imposta (in 5 esercizi) a differenza di quanto stabilisce il collegato medesimo nel quale si dispone che il versamento sia fatto in unica soluzione.
,s
Con riferimento all’lrap occorrerebbe modificare
base imponibile del tributo il reddito assoggettabile a
aumentato, per non sconvolgere notevolmente la filosofia
be essere fatto), degli oneri finanziari e delle spese per
al
b)
4
4
4
f)
iI meccanismo applicativo, assumendo come
tassazione ai fini delle imposte sui redditi,
ispiratrice dell’imposta (anche se ciò dovrebil personale dipendente ed assimilato.
Inoltre si dovrebbe:
unificare i termini di presentazione delle dichiarazioni e di trasmissione telematica delle stesse,
al fine di evitare inutili e complesse incombenze, ai contribuenti ed ai soggetti che li assistono;
semplificare le tipologie dei codici tributo e conseguentemente il modello F24, prevenendo, in
tal modo, che si verifichino errori nei versamenti e nelle compensazioni;
consentire, nelle ipotesi in cui I’orientamento ministeriale si pone in contrasto con la prevalente dottrina e con la prassi contabile ed aziendale, di escludere dal visto pesante gli aspetti sui
quali vi è divergenza di posizione, fermo restando l’apposizione del visto medesimo nei casi in
cui la posizione ministeriale è condivisa;
eliminare il cosiddetto equalizzatore, salvaguardando il principio da sempre seguito che, se la
tassazione dei capita/ gains avviene al momento del realizzo, nessun ulteriore aggravio fiscale
deve prodursi, atteso che è naturale e fisiologico che la tassazione del provento avvenga in tale
momento;
disciplinare organicamente la determinazione dell’imponibile del fiinge-benefit
con riferimento
alle azioni concesse a coloro i quali operano per l’azienda (dipendenti, amministratori, agenti),
reintroducendo un effettivo beneficio per le categorie più meritevoli a giudizio dei soci
semplificare il sistema sanzionatorio amministrativo eliminando le complessità scaturenti dall’utilizzo di modelli dal codice penale.
Gli interventi sopra evidenziati darebbero coerenza al sistema e assicurerebbero, nel contempo, una più corretta osservanza degli adempimenti da parte dei contribuenti ed un miglior funzionamento della macchina fiscale.
Lineamenti per una riforma fiscale
Irap
Abolire l’lrap fout-court, sostituendola con un incremento dell’addizionale regionale attualmente (anno 2000) variabile fra lo 0,9% e 1’1.4%.
Il contribuente verrebbe sollevato dall’onere di determinare una diversa base imponibile, per
di più iniqua rispetto a quella Irpef - Irpeg.
D. 1. T.
Si tratta di riformare radicalmente il meccanismo di tassazione duale applicando l’aliquota
ridotta del 19%, anziché su una parte di reddito proporzionale al capitale investito e ai profitti, su una
parte del reddito pari o proporzionale agli investimenti realizzati (come già la legge Tremonti), o alle
spese per personale dipendente neoassunto, in modo da favorire lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione.
Accertamento e dichiarazioni
E’ urgente redigere un testo unico dell’accertamento, per raggruppare e sintetizzare il fiume di
disposizioni normative (DPR 322/98 - 542/99). circolari di tutti i tipi, finanche della SOGEI, e risposte
ai quesiti formulati nelle sedi più disparate sugli adempimenti dichiarativi.
Detassazione dei piccoli operatori economici
Poiché gli adempimenti dichiarativi, se si considerano anche gli studi di settore, sono allo stato
un onere eccessivo per i piccoli operatori economici, è opportuno prevedere l’introduzione di un vero
regime forfettario, che consenta ai contribuenti più piccoli (es. con volumi di affari Iva inferiori ai 360
milioni per i servizi a 1.ooo.ooo.ooo per cessioni dei beni) di corrispondere Iva e imposte dirette attra,s
verso calcoli semplici.
Potrebbe ad esempio essere esteso alla detta platea di contribuenti l’attuale regime forfettario
(art. 3, c. 171-185, L. 662/96) che consente di determinare Iva e imponibile Irpef in una percentuale oscillante fra il 60% e 1’84% del volume di affari, pur mantenendo scritture contabili molto semplificate.
In alternativa si potrebbe prevedere una specie di imposta fissa (sul modello della tax d’abbonement lussemburghese) pari ad una certa percentuale del fatturato elaborato sulla base degli studi di
settore, ovvero introdurre un vero regime fiscale sostitutivo per i piccoli operatori con volume di affari inferiore ad un certo importo, come già previsto per le nuove iniziative produttive dal D.L. 357/94,
convertito in L. lo/o6/lgg4 n. 357 (c.d. legge Tremonti).
In tal modo i piccoli operatori pagherebbero un importo fisso parametrato a certi indici ricavabili con gli studi di settore.
Le sanzioni tributarie
Per evitare che il contribuente resti in balia delle opinioni del funzionario di turno sarebbe
opportuno introdurre in ogni caso la presunzione relativa di colpa lieve, salvo la prova contraria fornita dall’ufficio e contestabile dal contribuente dinanzi alle commissioni tributarie.
Sempre nel senso di semplificare i calcoli delle sanzioni ed eliminare la discrezionalità degli
uffici, potrebbe essere introdotta una presunzione relativa di concorso e/o continuazione, sulla
base della quale tutte le violazioni accertate con riferimento ad un medesimo tributo, anche per
diversi periodi d’imposta, purché consecutivi, si presumono comunque in concorso e/o continuazione salvo prova contraria.
In tal caso il conteggio delle sanzioni potrebbe essere semplificato determinandole nella media
aritmetica di tutte le sanzioni applicabili in luogo dell’attuale misura stabilita in un range variabile da
- al doppio delle sanzioni più elevate; l’eventuale prova contraria fornita dall’ufficio potrebbe essere
.
contestabile dinanzi alle commissioni tributarie.
La riscossione
Occorre riformare il D.LGS 46/99 istituzionalizzando l’invio di lettere/comunicazioni
da patte
degli esattori, di concerto con gli uffici delle entrate / centri di servizio che procedono all’emissione
delle cartelle di pagamento, evitando così l’insorgere del contenzioso e/o la riscossione illegittima in
danno del contribuente.
Prevedere inoltre che la cartella di pagamento non può essere emessa se il contribuente chiede chiarimenti per iscritto.
In tal caso presso l’ufficio si deve instaurare una fase precontenziosa sul modello dell’attuale
procedimento di adesione ex D.LGS x8/97 ove il contribuente, anche in via informale, possa esporre
le proprie ragioni.
Tale fase precontenziosa si deve chiudere con un provvedimento scritto di diniego dell’ufiicio
cui sia subordinata l’emissione della cartella di pagamento.
a
Un’eventuale riforma dovrebbe prevedere la riscossione delle sanzioni solo con il passaggio in
giudicato dell’eventuale contenzioso tributario.
Fiscalità
internazionale
Occorre intensificare i negoziati a livello Comunitario per evitare che paesi U.E. con regime fiscale privilegiato non attraggano nei loro ambiti territoriali imprese italiane che intendano solo ottenere,
in Italia, risparmi d’imposta (si pensi alla cosiddetta disc+lina delle società madri - figlie di cui all’art.
g6.bis del Testo Unico delle imposte sui redditi).
2.3. Privatizzazioni, concorrenza e interesse nazionale
Dallo Stato al mercato
Il processo di privatizzazione ha interessato e sta tuttora interessando soprattutto il settore
dei servizi di pubblica utilità. Il mercato delle telecomunicazioni, dei servizi postali, dell’energia elettrica e del gas, sono alcuni tra quelli che più rapidamente ed in profondità vedono mutare il relativo
contesto evolutivo e competitivo.
È proprio in virtù di tale accentuato grado di dinamismo che tali settori risultano caratterizzati da alti tassi di crescita attuali e prospettici, anche se, in verità, gli stessi appaiono talvolta regolati da norme forse adeguate a modelli tecnologici e di consumo non più validi ed ormai evolutisi.
Naturalmente l’ambiente normativo di riferimento e gli indirizzi di politica industriale ad esso
sottostanti non possono non avere un impatto diretto sul grado di contendibilità dei mercati stessi,
nonché sul livello dei prezzi e sulla qualità dei servizi erogati.
Un esame complessivo delle principali operazioni di privatizzazione che hanno avuto luogo
in Italia consente l’individuazione di taluni punti di criticità che vanno evidenziati. Da un punto di
vista strettamente “accademico”, come è stato recentemente ribadito dal Presidente della Autorità
garante della concorrenza e del mercato, le privatizzazioni non conducono necessariamente alla concorrenza, anche qualora le stesse si accompagnino ad una estesa opera di liberalizzazione, ma possono addirittura favorire la formazione di monopoli privati, la cui maggiore efficienza rispetto alla
situazione preesistente non è automatica.
Quindi, anche volendo attenersi ad una visione della realtà economica rigidamente incentrata sui modelli teorici, occorrerebbe valutare attentamente in che termini occorra pianificare il processo di privatizzazione, dato che i vantaggi e gli svantaggi associati alle soluzioni adottate non mancheranno di influire - anche in maniera rilevante - sullo sviluppo futuro dei settori interessati.
In particolare bisognerebbe considerare la possibilità che le imprese operanti nei settori di pubblica utilità si trovino ad operare in mercati a monte o a valle degli ambiti di monopolio naturale; tale
circostanza difficilmente può non influire sulla formazione e sullo sviluppo di comportamenti di natura “ostruzionistica”, tesi cioè ad evitare ovvero ad ostacolare, per quanto possibile, I’ingresso di nuovi
competitori su tali mercati.
La necessità di un’analisi preventiva de/ mercato
La corretta implementazione di processi di privatizzazione non dovrebbe prescindere da un’attenta e preventiva analisi dell’ambiente economico-strutturale nel quale si trova ad operare la società
privatizzanda. Secondo l’approccio che stiamo descrivendo, un tale tipo di analisi dovrebbe essere funzionale, tra l’altro, a stabilire se ed in quale misura si renda necessario procedere - preliminarmente
alla fase di privatizzazione propriamente detta - ad operazioni di ristrutturazione societaria anche radicale, provvedendo per tale via a costituire le precondizioni per una possibile separazione proprietaria
(cosa diversa, tra l’altro, da una mera separazione contabile) delle società eventualmente risultanti dal
processo di scissione.
Tra l’altro - anche se le privatizzazioni in Italia sono state più di una volta, almeno a parole,
caratterizzate da un liberismo ancorato a visioni teoriche probabilmente un po’ schematiche ed inneggiante alla concorrenza quale bene supremo raggiungibile soltanto tramite la dismissione, in taluni casi
forse un po’ “affrettata”, delle aziende possedute dallo Stato - sembra proprio che non sempre le considerazioni sin aui svolte siano state tenute nel dovuto conto.
La privatizzazione di Telecom Italia
Ad esempio, non ci si può astenere dal ricordare come Telecom Italia sia stata privatizzata senza
che avesse luogo un adeguato dibattito concernente i pro ed i contro di una eventuale separazione
verticale delle relative attività. Anzi, a ben ricordare, la privatizzazione della Telecom nasce con un tentativo abortito di creare un ibrido tra una public Company ed una azienda il cui controllo sia costruito
sul modello del “nucleo stabile”. Ciò che invece nacque da tale tentativo fu quello che molti hanno
definito un “nocciolino molle”, per di più in mano ai “soliti noti”, adusi ad esercitare il controllo assoluto della società anche quotate senza impegnare capitali oltre il minimo necessario.
Per inciso, probabilmente non è inutile rammentare anche che, in seguito alle vicende che
hanno portato alla dissoluzione del “nocciolino” di controllo ed alla scalata di Telecom Italia, i pezzi
pregiati del gruppo Olivetti - Infostrada ed Omnitel - sono passati di mano e non sono più sotto il
controllo di società italiane. Tra parentesi, oggi come oggi nessuno può dire di conoscere con esatta
precisione quale sia il corrente assetto proprietario “ultimo” della stessa Telecom.
/ “campioni nazionali” e gli interessi dei consumatori
Per tornare al discorso principale, è vero che in talune occasioni un certo dibattito sull’assetto
da dare ai gruppi in via di privatizzazione ha invece avuto luogo, come nel caso dei mercati dei settori del gas e dell’energia elettrica. I risultati di tale dibattito sono stati sottoposti a critiche di diversa natura, ma più che entrare nel merito dei singoli episodi, interessa qui approfondire in maniera un
po’ più approfondita i punti di forza o di criticità di talune visioni teoriche sottostanti i processi di privatizzazione
medesimi.
In particolare, ci si dovrebbe chiedere se si possa davvero esprimere la certezza che i benefici
che rendono preferibile la separazione di un ex-monopolio siano tali da sopravanzare le ragioni che
potrebbero indurre a ritenere vantaggioso il mantenimento dell’integrazione verticale. Cerchiamo di
analizzare quale sia il pensiero, in proposito, dei rappresentanti di due delle più autorevoli istituzioni
coinvolte nel dibattito.
Di recente, qualche commentatore ha sostanzialmente equiparato le posizioni del presidente
dell’Antitrust e del governatore della Banca d’Italia in materia di rilancio della competitività del sistema Italia.
In realtà, a ben vedere il Governatore ed il Garante sono rappresentanti di due scuole economiche estremamente diverse. Infatti, se si analizzano in maniera approfondita le rispettive relazioni, ci
si può senza eccessiva difficoltà rendere conto che essi sono portatori di concezioni e di una gamma
di valori non propriamente coincidenti, ma anzi caratterizzate da più di una diversità.
la posizione dell’Antitrust
Il capo della Autorità di controllo sulla concorrenza ha infatti delineato a chiare lettere uno scenario basato sulla convinzione che la teoria dei “campioni nazionali” - ovvero quell’orientamento di
politica industriale che vede con favore la creazione ovvero il mantenimento di aziende di riferimento
nazionali in ciascun settore, capaci di sostenere adeguati volumi di investimenti e di giocare un ruolo
di player effettivo almeno a livello continentale - è non solo pericolosa, ma rappresenterebbe addirittura la principale fonte delle persistenti tendenze monopolistiche e corporative che ancora allignano
nel nostro sistema-paese.
Tale giudizio riflette una pur legittima concezione giuridico-formale, che non può e non deve
però costituire l’unico punto di vista, ma è solo una delle possibili chiavi di lettura adottabili. La base
di tale modo di ragionare risiede nell’assunto - che in questa sede non si intende certo mettere in
discussione - che il binomio privatizzazione-liberalizzazione deve significare lo sviluppo di una piena
1
concorrenza, e che quanto più gli interessi delle imprese presenti in un dato settore entrano in conflitto tra di loro, tanto meglio sarà per il consumatore-utente, considerato in quanto portatore del preminente interesse generale, in termini di rapporto prezzo-qualità dei beni o dei servizi offerti.
Un siffatto ragionamento appare non già errato,.‘ma piuttosto incompleto. Infatti, il costrutto
logico evidenziato non considera che lo stesso cittadino-utente non rappresenta soltanto un consumatore con il proprio bagaglio di comportamenti e di interessi, ma anche un soggetto economico i cui
interessi dipendono invece, più in generale, dal complessivo grado di sviluppo del sistema capitalistico, anche al di là di considerazioni di brevissimo o di breve termine.
Il sostenere, ad esempio, che Enel ed Eni debbano essere smembrate al di là di ogni altra considerazione, può forse essere il risultato di argomentazioni un po’ “accademiche” sul tema della modernizzazione dell’azienda Italia, ma è una posizione che rischia di innescare una serie di “conseguenze
inintenzionali di azioni intenzionali”.
La posizione de/ Governatore
Come è ampiamente noto, il nostro modello capitalistico soffre di un nanismo congenito. Il
Governatore della Banca d’Italia Fazio lo ha ricordato più volte, in particolare quando ha parlato del
persistere di “nodi strutturali come la frammentazione dell’apparato produttivo”, legato alla mancanza
di investimenti, alla poca ricerca e quindi alla scarsa applicazione delle nuove tecnologie.
Del resto, il presidente della Confindustria D’Amato descrive un capitalismo diviso tra il più elevato tasso di imprenditorialità del mondo e il più basso numero di grandi imprese, affermando in
sostanza che piccolo non è sempre bello.
Se il problema, dunque, esiste ed è sentito dagli stessi rappresentanti del mondo industriale,
ne consegue che forse il Governatore della Banca d’Italia non ha del tutto torto a ritenere - lo ha affermato in relazione alla situazione del sistema bancario, ma non vi sono ragioni per le quali la cosa non
dovrebbe valere anche per il settore industriale - che va in qualche modo inserita, nel vettore degli
obiettivi da perseguire, anche la difesa dei soggetti nazionali.
Tale difesa, del resto, è in qualche modo giustificata dalla preoccupazione che quei sistemipaese in cui forme protezionistiche più o meno scoperte ed evidenti hanno consentito di creare dei
“campioni nazionali” ora vogliano rafforzare la propria presenza su alcuni mercati come, ad esempio,
quello italiano, sfruttandone le debolezze correlate ad un ritardo nei processi di concentrazione e ad
una conseguente relativa fragilità dei poli produttivi.
Un’ottica di lungo periodo
E’ chiaro come, oramai, non si possa più ragionare in nessun campo avendo presenti solo gli
angusti confini nazionali, ma che bisogna al contrario allargare i propri orizzonti mentali perlomeno al
più ampio ambito dell’Unione Europea. Ma forse, a ben vedere, è proprio il pensare in chiave europea
che deve rendere consapevoli gli attori della politica industriale che in settori quali quelli dell’energia
e delle telecomunicazioni non può essere un solo paese, e tanto meno uno dei paesi relativamente
più “deboli” come l’Italia, a decretare un aprioristico, e forse anche “utopistico”, regime incentrato su
un liberismo “estremista”. Basti pensare un attimo a quanto, nei settori citati, accade in Francia o in
Germania, dove gli incumbent sono ancora sotto il controllo dello Stato.
Si afferma talvolta che l’esperienza dimostrerebbe come le ragioni che rendono preferibile il break-up
di un ex-monopolio pubblico siano in genere più forti di quelle che inducono a ritenere vantaggioso
il mantenimento dell’integrazione verticale o non. In realtà, tale affermazione non è univocamente
dimostrata e andrebbe presa per quel che è, ovvero uno dei possibili punti di vista sull’argomento.
In altre parole, non sempre è detto che, soprattutto in un’ottica di più lungo periodo che consideri i processi complessivi di sviluppo di un sistema capitalistico, politiche industriali volte a creare
o a rafforzare eventuali “campioni nazionali” confliggano con l’efficienza dei mercati cui si riferiscono
o con la necessità di favorire la concorrenza.
Adottare una politica liberale VUOI dire anche mantenere la capacità di muoversi sul mercato
globale, mentre non implica assolutamente la necessità di rinunciare completamente a perseguire la
propria identità e a difendere gli interessi nazionali. Adottare politiche liberali non VUOI dire non soltanto e semplicisticamente adottare una visione accademica del mondo, ma anche definire una politica industriale, occuparsi attivamente delle imprese, creare le precondizioni affinché il sistema favorisca
lo sviluppo di quelle esistenti e la nascita di nuove.
fast but not least, i paesi veramente liberali e liberisti supportano le industrie nazionali nella
loro attività di proiezione all’estero tramite un’intensa attività diplomatica, ed allo stesso tempo le proteggono dalla pressione degli interessi esteri, anche se non in una logica di commistione e di piccolo
cabotaggio economico.
Le privatizzazioni, insomma, non devono soltanto dare una risposta alle necessità del Tesoro di fare
cassa per i ben noti motivi, ma devono rientrare nell’ambito di un disegno più ampio, di politiche il
cui vettore di obiettivi sappia andare al di là della mera contingenza economica.
Gli esempi europei
Forse non è un caso, tanto per richiamare ancora una volta l’esempio del
tore delle telecomunicazioni, che in Francia ed in Germania si sia stati ben attenti a
trollo dei rispettivi “campioni nazionali” di settore, ancorché non si sia rinunciato
cato una quota degli stessi. Non ostante ciò, in questi paesi il mercato è stato
zato, ed i consumatori hanno potuto comunque trarre dei benefici in termini di
dei servizi e di relativo rapporto prezzo-qualità.
più volte citato setnon perdere il cona mettere sul merugualmente liberalizampiezza dell’offerta
Se è vero, invece, che il Regno Unito ha aperto il mercato ed ha privatizzato British Telecom sin
dagli oramai lontani anni Ottanta, bisogna comunque considerare che la società, cui in verità non sono
stati posti ostacoli sostanziali sulla via della crescita dimensionale e dello sviluppo, non risulta concretamente scalabile proprio in virtù delle proprie dimensioni e del supporto, sin dal momento della
privatizzazione, che le ha potuto fornire un mercato finanziario spesso ed ampio, in cui la presenza di
investitori istituzionali abituati ad costituire uno degli elementi di stabilizzazione del controllo azionario delle public Company non risultava certo rara.
I limiti de/ modello misto “public Company”-“nocciolo
duro”
Nel nostro paese la scelta di privatizzare di Telecom Italia secondo un modello misto “public
Company”-“nocciolo duro” (in realtà, come già evidenziato, non tanto duro da potersi definire un nucleo
stabile di controllo), è avvenuta in assenza di un mercato dei capitali adeguatamente sviluppato e
maturo; nell’ambito di tale mercato, risultava ancora insufficiente la componente di investitori istituzionali che avrebbe dovuto costituire il nerbo di una società a capitale diffuso, interagendo con un
management capace di sottoporsi al giudizio del mercato e con un mercato tanto sviluppato da poter
compiutamente esprimere tale giudizio. E, giova. ricordarlo, uno dei motivi per cui i mercati finanziari
non risultavano - e non risultano ancora - sufficientemente sviluppati risiede proprio nel ritardo registrato dai processi di concentrazione all’interno del settore.
Ne è risultata un’0pa - quella Olivetti - che può agevolmente essere letta come una conferma
indiretta della debolezza dell’impianto azionario costruito al momento della privatizzazione, in conseguenza della quale il numero dei piccoli azionisti, lungi dal crescere rispetto al milione e mezzo iniziale, si è quasi dimezzato.
In conclusione, bisogna avere il coraggio di effettuare scelte decise, anche se le stesse sembrano, almeno in apparenza, andare contro corrente rispetto un “comune sentire mediatico”, nella consapevolezza che l’inflazione e le rigidità che affliggono il sistema economico si combattono più agendo a fondo sui lacci e lacciuoli imposti al paese dalle ancora molteplici e potenti corporazioni, che compromettendo le possibilità di sviluppo delle poche società capaci di ricoprire un ruolo a livello internazionale.
Piccolo, lo si ribadisce, non sempre è bello. E’ vero che le PMI italiane possono meglio affron-
tare l’ambiente esterno facendo rete fra di loro, ma non bisogna dimenticare che altrove i sistemi capitalistici si sviluppano perché a fare rete con il tutto vi sono, soprattutto nei settori innovativi dell’lCT,
dei grossi player, capaci di sostenere programmi di ricerca applicata e di base a lungo termine e di
generare benefici effetti di ricaduta sull’intera economia.
,s
Regolare
senza
“ingessare"
Un’ultima osservazione: naturalmente, il “regolare” resterà per l’appunto compito precipuo del
regolatore, il che comporta certo farsi carico di responsabilità che possono forse essere gravose, ma
che non per questo non devono essere gestite, utilizzando gli opportuni strumenti che le leggi già mettono a disposizione, ovvero creandone dei nuovi. Ad ogni modo, l’obiettivo che deve forse rivestire la
maggiore importanza resta individuabile nel non ingessare ulteriormente il mercato, dettando norme
che, oltre a vincolarne le potenzialità espansive, non raggiungano nemmeno gli scopi per i quali sono
state emanate.
E’ il caso, ad esempio, della ricorrente proposta di fissazione di quote di mercato soglia sotto
forma di tetti cogenti, in nessun caso superabili dagli operatori presenti in un dato settore. La fissazione di tali quote, infatti, presenta numerosi inconvenienti in primo luogo legati alla “meccanicità”
dello strumento.
Infatti, definire la posizione dominante in termini di superamento di una quota di mercato predeterminata a tavolino significa, tra l’altro, mettere in difficoltà gli stessi organismi preposti alla tutela della concorrenza, in quanto tutti gli operatori rientranti all’interno del limite si vedono automaticamente attribuire quella che è stata definita una vera e propria “patente di liceità” in relazione ai propri comportamenti, con ciò rendendo involontariamente possibile turbative al normale svolgersi dei
processi concorrenziali.
Addirittura, qualora ai tetti in esame non venga esplicitamente attribuita una valenza temporanea, si potrebbe finire con l’incentivare la formazione di accordi e comportamenti di natura collusiva, stante la potenziale artificiosa segmentazione dei mercati in tal modo regolamentati, derivante
dalla perdurante impossibilità della eventuale impresa dominante di operare al di sopra della quota di
mercato ad essa assegnata.
In tal caso, com’è ovvio, lungi dallo stimolare una sana concorrenza nel settore, si finirebbe
invece con il provocare, riduzioni anche significative del grado di concorrenza, con tutte le conseguenze
che da ciò possono derivare.
2.4. Le riforme della pubblica amministrazione: purtroppo tanto rumore per nulla
Nell’ultimo decennio ha preso forma nel nostro Paese la riforma della pubblica amministrazione: un cammino lungo, complesso, tormentato, a volte contraddittorio.
Ma la partenza e la destinazione sono nel comune sentire dei cittadini: da un’Amministrazione
ostile, burocratica ed autoritaria, minuziosamente regolata da complessi procedimenti, pesante nei
costi e negli obblighi sulle persone e sulle imprese, che non sa decidere e frena la vitalità della società
senza colpire il malaffare, a un’Amministrazione amica, autorevole e “leggera”, concentrata, con efhcacia ed efficienza, sugli obiettivi primari che rendono più competitivo il sistema Paese; da un’amministrazione autoreferenziale che tiene sotto tutela una società immatura, ad un’amministrazione di servizio che applica a se stessa ed a cittadini maggiorenni il principio basilare della libertà e dell’autonomia responsabile.
Dieci anni sono un tempo abbastanza lungo perchè i cittadini abbiano diritto ad un primo,
spassionato consuntivo ed alla chiara definizione delle prospettive di un processo cruciale per il risanamento e lo sviluppo del Paese nel contesto interno ed internazionale.
/I cammino della riforma
Nel 1990 si approvano la legge no142 e la legge n’3q. due provvedimenti che affermano per
la prima,volta alcuni principi “sovversivi” per la burocrazia: trasparenza, semplificazione, maggiori competenze delle autonomie locali e minore dipendenza dalle amministrazioni centrali. Si tende così a
superare il concetto di Stato-autorità a favore dello Stato-funzione.
La legge n”24i. fra l’altro, rivitalizza l’autocertificazione, introdotta già nel 1968, ma che
richiederà ulteriori aggiustamenti.
La pietra miliare viene posta dal Presidente del Consiglio, Amato e dal suo sottosegretario con
delega alla Funzione Pubblica, Sacconi con il decreto legislativo n029/1993. di cui è ancora vigente il
buon impianto di principi ispirati all’idea guida dell’autonomia responsabile, in base al quale le pubbliche Amministrazioni devono rispondere dei risultati, più che del rispetto formale dei procedimenti,
responsabilità separatamente attribuita alla funzione politica e a quella tecnico-amministrativa. A tal
fine i dirigenti devono poter liberamente organizzare le risorse umane e finanziarie; il sindacato non
può più esercitare poteri di veto o di cogestione sull’organizzazione; il controllo si deve esercitare non
sulla Forma ma sulla sostanza della gestione, per risultati, efficienza e costi.
Il decreto legislativo n0zg/1gg3 stabilisce per la prima volta criteri universalmente accettati nella
gestione d’impresa, mettendo in discussione il concetto di “specialità” della funzione pubblica che
comporta un diritto “speciale”, rapporti di lavoro e sindacali “speciali”, controlli “speciali”. Ma anche
risultati “speciali” in termini di inefficienze e di sprechi, e, purtroppo, anche di malaffare, all’ombra della
congerie dei formalismi.
Così la riforma intese avviare il più esteso ricorso alla normativa comune avviando il passaggio del rapporto di lavoro pubblico dalla regolazione del diritto amministrativo a quella del diritto privato, prevedendo l’introduzione altresì di tecniche e strumenti (controllo di gestione, informatizzazione) larghissimamente impiegati nel settore privato.
La dura avversione dell’opposizione alla riforma Amato-Sacconi, e la breve durata dei governi
successivi dal g3 al 95 impediscono, salvo alcune piccole modifiche, di realizzare un piano organico di
riforma, pur essendo mantenuta dai governi Ciampi, Berlusconi e Dini la medesima direzione avviata
in precedenza.
Occorre arrivare al 1997 quando il Ministro Bassanini sviluppa le innovazioni dei principi di
responsabilità e di flessibilità organizzativa della riforma Amato-Sacconi muovendosi anche sui due versanti della semplificazione delle procedure e del decentramento delle competenze.
La legge n”S9/1997 si articola in quattro punti:
1. conferimento di funzioni alle Regioni ed agli Enti locali, tranne nelle materie che si ritengono fondamentali per l’unità della Repubblica, quali esteri, difesa, ordine pubblico, giustizia, moneta, previdenza sociale ed altre: il cosiddetto “federalismo amministrativo” a Costituzione invariata;
2. riforma delle amministrazioni centrali. degli enti pubblici e delle istituzioni scolastiche: riorganizzazione dei ministeri e della Presidenza del Consiglio, autonomia scolastica;
3. delegificazione e semplificazione dei procedimenti amministrativi: individuazione di 112 procedimenti da semplificare subito, successivamente disegno di legge annuale di semplificazione;
4. completamento della riforma del pubblico impiego: privatizzazione del rapporto di lavoro estesa ai
dirigenti.
E’ una legge di delega, attuata mediante l’emanazione di numerosi decreti legislativi e regolamenti fra cui di particolare rilievo il decreto legislativo n0m/qq3, un intervento complesso che individua per grandi temi le materie oggetto del decentramento, indicando le funzioni che dovranno essere trasferite con gradualità (entro tre anni) e stabilendo i meccanismi normativi, organizzativi e finanziari. Dalla politica industriale, alle opere pubbliche, ai trasporti, alle prestazioni sociali e ai beni culturali lo Stato trasmette funzioni vecchie e nuove alle Regioni e queste, secondo il principio di sussidiarietà, passano agli Enti locali quelle che non richiedono un esercizio unitario. Lo Stato si impegna
a trasferire le risorse necessarie finanziarie, umane, organizzative e strumentali, ma si riserva di inter-
venire se le Regioni non provvedono ad adeguare le loro normative entro le scadenze previste.
Fa parte del processo di decentramento una serie di altri provvedimenti che riguardano settori
come i trasporti, l’agricoltura, la sanità, il collocamento, le attività economiche e industriali e soprattutto il potenziamento dell’organo di coordinamento rappresentato dalla Conferenza Stato-Regioni.
Nell’attuare il decentramento si annuncia un’ampia opera di semplificazione, (per esempio la
creazione di uno sportello unico per le attività produttive), per rendere più economico ed efficiente l’esercizio delle funzioni. Lo stesso vale per altri importanti decreti legislativi come quello che rivoluziona la normativa sul commercio.
La delega al Governo per il completamento della privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, tra i quali anche i dirigenti generali ed equiparati produce il decreto legislativo
n”80/lgg8 che porta a conclusione la flessibilità contrattuale per le assunzioni, la mobilità diretta in
caso di esuberi e di decentramento amministrativo, il superamento del meccanismo di rilevazione dei
carichi di lavoro, e prevede il contenimento del contenzioso, facendo leva sugli strumenti della conciliazione e dell’arbitrato, e la redistribuzione del carico giudiziario tra il Tar e il giudice ordinario.
La flessibilità fa il suo ingresso nella Pubblica amministrazione grazie al lavoro interinale, ai contratti di formazione (anche se l’accesso prioritariamente continuerà ad avvenire per concorso e tutto
dovrà essere concordato con i sindacati), al telelavoro (previsto dalla successiva legge igl/g8) e alla
possibilità di modificare le dotazioni organiche sulla base dei criteri di programmazione previsti dalla
Finanziaria.
I dirigenti generali, che saranno licenziabili e avranno incarichi a tempo, potranno nominare
anche i “direttori” dei singoli uffici. Il decreto legislativo introduce poi un criterio di forte collegamento con I’Esecutivo per capi dipartimento e segretari generali dell’amministrazione centrale. Il trattamento economico sarà “onnicomprensivo” per tutte le funzioni assegnate dall’amministrazione di
appartenenza.
Viene riordinata I’Aran, L’Agenzia di contrattazione del pubblico impiego, che diventa un organismo tecnico ai servizio di tutti i datori di lavoro pubblico.
Al Dipartimento della Funzione pubblica viene affidato il compito di definire un codice di comportamento dei dipendenti della Pubblica amministrazione, che deve essere in armonia con la responsabilità disciplinare prevista dai contratti collettivi. Ogni singola amministrazione potrà adottare un proprio codice di comportamento e dovrà costituire un. organismo di controllo e consulenza per l’applicazione dei codici.
La successiva legge n0xz7/lgg7 (Bassanini bis) incide su diversi fronti: rafforzamento dell’azione
di semplificazione amministrativa di ministeri ed enti pubblici; riorganizzazione dei controlli svolti sugli
enti locali; revisione delle competenze dei segretari comunali; nascita di un nuovo manager pubblico;
accelerazione della fase deliberatoria della Conferenza dei servizi sulla realizzazione delle grandi opere,
completamento del processo dell’autonomia universitaria.
I certificati personali (nascita, morte, titoli di studio) avranno durata illimitata. Viene semplificato lo strumento dell’autocertificazione e la validità degli atti sostitutivi sarà prolungata da tre a sei
mesi. Anche i concorsi pubblici si semplificano: viene soppressa l’autenticazione della firma e abolito
il vincolo del limite d’età per accedere alle prove. Decolla la carta d’identità magnetica sulla quale verranno inseriti i dati anagrafici e il codice fiscale ed il gruppo sanguigno.
La legge n”igdigg8 (Bassanini-ter), inserisce dei correttivi ad entrambe le leggi precedenti e
introduce nella pubblica amministrazione la possibilità del telelavoro. Prevede inoltre un vasto programma di formazione per il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni all’interno dell’attività del Formez e contempla l’ingresso della telematica nella burocrazia per razionalizzare I’organizzazione del lavoro e realizzare un impiego flessibile delle risorse umane.
i
La legge rF’So/lggg. nasce in attuazione della norma già citata che contempla annualmente un
disegno di legge per la delegificazione e la semplificazione amministrativa. Essa individua altri 57 procedimenti amministrativi da semplificare e delegificare e 5 procedure strumentali da disciplinare in
modo uniforme.
;
settori
Si dispone altresì l’accorpamento della normativa (leggi e regolamenti) in testi unici redatti per
omogenei.
La legge introduce poi t’analisi dell’impatto della regolamentazione sulla pubblica amministrazione, sulle imprese e sui cittadini (AIR), istituisce, presso la Presidenza del Consiglio, l’Unità per la
semplificazione, una task force di 25 esperti e prescrive la relazione annuale sulla semplificazione.
I principi ispira@ri
della riforma
Prima di affrontare e proporre alcuni spunti e rilievi sullo stato e l’efficacia della riforma della
pubblica amministrazione, sembra utile rammentare, sintetizzandoli, quali siano, o dovrebbero essere,
nei fatti e nel comune sentire ancor prima che nelle costruzioni della dottrina, i principi ispiratori della
riforma della pubblica amministrazione e la loro concreta rispondenza nelle normative approvate.
// principio de/ decentramento
Il decentramento ha senza dubbio per obiettivo primario la realizzazione di uno Stato leggero
e snello, più vicino ai cittadini. Il principio al quale fa riferimento tale linea d’azione è quello della SUSsidiarietà, orizzontale e verticale.
La sussidiarie6 orizzontale è criterio d’equilibrio tra le esigenze di autonomia degli individui e quelle
della società nel suo complesso, tra quelle del mercato e quelle della pubblica regolazione, della solidarietà sociale e della coesione nazionale. Essa ha costituito l’aspetto più appassionato e appassionante di tutto il dibattito, in quanto centrato sul grado di fiducia nella persona umana e nella sua capacità di svolgere attività di rilievo pubblico.
La pratica attuazione richiede prioritariamente di stabilire quali funzioni debbano continuare ad
essere svolte da strutture pubbliche e quali debbano essere dismesse perché inutili e superflue, o affdate a soggetti privati.
All’esigenza della ridetìnizione delle funzioni pubbliche vuole rispondere in primo luogo il riordino degli enti pubblici nazionali operanti in settori diversi dalla previdenza e dalla assistenza, da realizzare attraverso una serie di interventi specificamente indicati dall’articolo 14 delta citata legge n05g.
Proseguendo nel processo Cosi delineato, la legge no lz7/1gg7 prevede una disciplina volta a
favorire la costituzione di società rniste per la gestione dei servizi pubblici locali e per la realizzazione
delle opere necessarie al corretto svolgimento dei servizi stessi. La legge no 142/iggo concedeva già la
facoltà di gestire servizi pubblici locali attraverso società per azioni con partecipazione di enti territoriali, nonchè attraverso forme di gestione in concessione a terzi, a mezzo di aziende speciali oltre che
ovviamente in gestione diretta.
In questa ottica la legge n0447/1gg7 ha previsto la possibilità per le amministrazioni e gli enti
di costituire, per l’esercizio delle attività dismesse, società miste con la partecipazione del personale e
di altri soci scelti secondo procedure concorsuali aperte. La partecipazione pubblica alle società non
potrebbe avere durata superiore a cinque anni e dovrebbe concludersi con la completa privatizzazione
della società.
La sussidiatieta verticale è criterio di delimitazione del legittimo intervento della formazione
sociale superiore e delle esigenze di autonomia ed autogoverno territoriale.
Una volta individuate le funzioni pubbliche, sulla base del principio della sussidiarietà orizzontale, si rende necessario ripartire tali funzioni tra i diversi livelli di governo.’
Il decreto legislativo n%z/igg8, ha affermato un altro importante principio, quello della pari
dignità istituzionale degli enti coinvolti, mediante l’affidamento diretto a regioni, province e comuni di
competenze specifiche sulle singole materie oggetto di conferimento, senza bisogno di passaggi intermedi, nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione.
,’
L’attuazione delle deleghe contenute nella legge no 5g/lgg7 richiede l’intervento, anche a livello normativo, degli enti territoriali, con particolare riguardo al conferimento da patte delle regioni agli
enti locali delle materie di esclusiva competenza e di quelle delegate dallo Stato.
Al fine di evitare una mancata attuazione da parte delle regioni, come in passato si è spesso
verificato, e garantire l’attuazione del processo di riforma, la medesima legge ha previsto un potere
sostitutivo dello Stato nel caso di inerzia da parte delle regioni.
Nel sistema previsto dalla legge n+,g/igg7 ed attuato dal decreto legislativo n%2/ig8, al fine
di garantire agli enti locali la possibilità concreta di gestire le competenze ad essi conferite, è stato
previsto il differimento della gestione delle funzioni ripartite fino alla emanazione di appositi decreti
del Presidente del Consiglio dei Ministri di individuazione delle risorse economiche, strumentali ed
umane da trasferire.
Il riordino delle amministrazioni centrali comporterà un accorpamento funzionale dei dicasteri,
al fine di realizzare una maggiore efficacia dell’azione amministrativa. Nell’ambito di una siffatta revisione, che dovrà riguardare prioritariamente anche la Presidenza del Consiglio, assumerà grande rilevanza la funzione di indirizzo e coordinamento che in questi anni non è stata in grado di operare correttamente, in quanto ha dovuto fare i conti con i vari livelli di governo e di responsabilità che operavano su una medesima materia, e che è destinata a rafforzarsi, in considerazione del conferimento
agli enti locali delle funzioni più spiccatamente gestionali.
L’attuazione del principio di sussidiarietà in entrambe le indicate accezioni rende necessario, in
virtù del principio d’autonomia sul quale si regge, definire un politica dei controlli seria e rigorosa che
non si ponga in antitesi con la riconosciuta autonomia. Da qui l’opportunità e la necessità di individuare strumenti di controllo diversi, impostati sulla autonomia e sulla responsabilità degli organi e dei
soggetti chiamati ad operare, controlli largamente da costruire.
// principio della semplificazione
La semplificazione come valore nel quadro del processo di riforma è riconosciuta nelle leggi
no5911997 e no 12711997.
Pubblica
Infatti entrambe le citate leggi forniscono la chiave operativa per l’attuazione del riordino della
amministrazione attraverso norme di delegificazione e semplificazione.
La disposizione più rilevante è quella prevista all’articolo 20 della legge @,9/1997 che consente al Governo di presentare annualmente un disegno di legge di delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi; di attuazione dei criteri di semplificazione dei procedimenti nell’ambito dell’emanazione dei rispettivi regolamenti; di emanazione di norme di delega dirette alla compilazione di testi unici.
Di converso, con la legge n”127/1g97, il legislatore da una parte ha delegificato l’intera materia della documentazione amministrativa demandandola a fonti regolamentari, dall’altra ha adottato
disposizioni immediatamente operative in tema di snellimento dell’attività amministrativa e di semplificazione dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. E’ stato attivato un processo di trasformazione dell’autocertificazione temporanea in definitiva.
// principio della autonomia responsabile nel pubblico impiego
Un ordinamento non “speciale” del pubblico impiego è condizione essenziale per la riforma dell’amministrazione pubblica. La riconduzione a modelli normativi, contrattuali e comportamentali del
personale pubblico quanto più simili a quelli ordinari della società civile è fattore essenziale per il raggiungimento degli obiettivi di decentramento. di semplificazione e di efficienza.
Sulla base degli indirizzi della legge rPSg/lgg7, il decreto legislativo n080/1gg8 ha richiamato e
rivisto il decreto legislativo rPzg/lggS completando il processo di estensione al lavoro pubblico delle
disposizioni del codice civile e delle normative che regolano il settore privato.
Viene abbandonato lo schema rigido e precostituito della pianta organica mediante il vincolo
imposto alle amministrazioni di rivedere periodicamente le dotazioni organiche, avvicinando così le prerogative del privato datore di lavoro.
La diffusa
cui è affidata la
all’organo politico,
spetta organizzare
esigenza di managerialità viene assecondata dal nuovo ruolo assegnato ai dirigenti
totale responsabilità della gestione: spetta ai dirigenti la formulazione delle proposte
l’adozione di piani, programmi e delle direttive generali definite dal Ministro. Ad essi
e gestire il personale e le risorse.
All’autorità politica è viceversa demandata l’emanazione di atti normativi, la definizione di indirizzi, obiettivi, priorità, programmi, direttive generali e la destinazione delle risorse, la determinazione
di tariffe, canoni, oneri a carico di terzi ed,il potere di fare designazioni e nomine.
La responsabilita di gestione deve comportare che il dirigente, una volta scelto ed incaricato,
sia libero dai condizionamenti politici, o di altra natura, e valutato in base ai risultati.
Coerente con il principio della separazione è, inoltre la contrattualizzazione della dirigenza, inserita in un ruolo unico, articolato in due fasce, indipendentemente dalla struttura ministeriale di assegnazione.
La legge n%.7/igg7 introduce per gli enti locali una maggiore autonomia: su di essi vengono
fortemente attenuati i controlli interni (parere del segretario comunale) ed esterni (Coreco) e si attribuisce loro la potestà regolamentare in materia di organizzazione degli uffici e dei servizi, la determinazione delle piante organiche del personale e le modalità di conferimento degli incarichi. Alla contrattazione collettiva compete la disciplina dello stato giuridico e del trattamento economico del personale; al Consiglio comunale è attribuita la funzione di indirizzo e programmazione sulla base delle
risorse; a Giunta e Sindaco l’attuazione degli obiettivi prefissati in sede consiliare; ai dirigenti la realizzazione di obiettivi e programmi definiti dall’organo politico.
/ risultati della riforma
La riforma della pubblica amministrazione in Italia sta funzionando? Dopo dieci anni dai
primi provvedimenti sotto il segno del decentramento e della trasparenza; dopo sette anni dalla
riforma Amato-Sacconi; ma soprattutto dopo quattro anni dall’avvio della grande costruzione
Bassanini, è prematuro chiedersi se sono visibili e percepibili dai cittadini e dalle imprese almeno dei primi segni concreti di cambiamento che comprovino la ragionevole probabilità di essere
nella giusta direzione di marcia?
sotto gli occhi di tutti che nella communis opinio la parola “burocrazia” ha accezione
negativa, che intere aree economicamente più sviluppate moltiplicano i segni d’insofferenza verso
i palazzi romani: che è crescente il disagio e la protesta della generalità dei cittadini, al nord come
al sud, nei confronti della pubblica amministrazione a tutti i livelli; che i media dedicano larghissimo spazio ad episodi di malaburocrazia e ad eventi grandi e piccoli comunque riconducibili a
cattiva amministrazione; che questo “animus” collettivo è una delle cause principali della crescente disaffezione dalla politica.
È
Diamo atto agli autori della riforma che si sono succeduti nel tempo, e anche al Ministro
Bassanini che ne è stato il principale artefice negli ultimi anni, dei risultati che sono stati raggiunti,
ben cosci del fatto che, per il completo dispiegarsi dei loro effetti positivi. occorreranno molti anni.
Ma appare di tutta evidenza che la riforma della pubblica amministrazione, anziché procedere,
ha dinanzi a sé gli ostacoli insormontabili delle politiche e degli interessi contrari nello stesso Governo,
dell’assenza di coordinamento, della mentalità giuridicistica. dell’alluvione normativa; che vi è tuttora
una larga percentuale di personale pubblico poco qualificato, demotivato, frastornato e spaventato;
che, purtroppo, è stata incompleta, o del tutto mancata~, !>applicazione dei buoni principi ispiratori del
decentramento, della semplificazione, dell’autonomia responsabile del pubblico impiego; che nulla è
stato fatto in termini di gestione della riforma, soprattutto attraverso il coinvolgimento della dirigenza pubblica.
La mancata applicazione de/ principio di decentramento
Soprattutto vi è una carenza macroscopica: la timidissima applicazione del principio di sussiorizzontale.
Se dovessimo elencare gli ambiti di ingiustificata presenza del settore pubblico all’inizio della
riforma ed ad oggi non troveremmo grandi differenze fra le due liste.
diarietà
Lo Stato continua a regolare minuziosamente la vita del cittadino e a fare il medico, il postino, il ferroviere, il controllore di volo, l’insegnante, a gestire il trasporto pubblico, il patrimonio immobiliare, ad erogare elettricità, gas, acqua e... si potrebbe continuare per molte pagine. E ad introdurre
ovunque burocrazia, inefficienze, lentezze, sprechi.
Addirittura si tende ad applicare una sussidiarietà “all’italiana”, introducendo per legge moduli di gestione di tipo privatistico in strutture ed enti che rimangono sostanzialmente a carico dello
Stato, o che rimangono nella sostanza monopolisti pubblici, attuando così un perfetto mix d’assenza
di controlli amministrativi e d’elusione del giudizio del mercato. Peggio ancora, dette strutture ed enti,
forti di tali nuovi moduli di gestione e di posizioni dominanti, soprattutto nel settore delle utilities,
allargano il loro raggio d’azione facendo concorrenza spietata alle aziende private.
Per quanto riguarda la sussidiarietà verticale, i primi passi effettuati dalla riforma destano
preoccupazioni in quanto al semplice criterio di trasferire o delegare tutto ciò che non è espressamente
riservato allo Stato - che pure era un significativo caposaldo della riforma - si è preferito un complesso intarsio di funzioni e sembrano restare in vita funzioni centrali.
listica,
Nell’ultima legislatura poi numerosi provvedimenti, ispirati ad una cultura vincolistica e centrahanno esplicitamente contraddetto le buone intenzioni decentratrici e federaliste.
Nel fisco, non si è sciolto il nodo del federalismo fiscale e del connesso “patto di stabilità”
interno per cui regioni, province e comuni debbono concorrere agli obiettivi di finanza pubblica: si avvicina così il rischio di peggioramento dei servizi e di ulteriore crescita della spesa pubblica in occasione della devolution.
Nell’ambiente, non si operato alcun decentramento effettivo, aggiungendo al contrario complessità a complessità ed incoraggiando l’amministrazione ad esasperare la tradizionale vocazione
inquisitoria e punitiva in luogo del conclamato ruolo di servizio all’utenza.
Nella sanità, atteggiamenti autoritari hanno sottolineato, a colpi di polemiche, di amministrazioni straordinarie e di commissariamenti, le disfunzioni delle strutture, la mortificazione del personale sanitario e lo scontento dei pazienti. Una riforma che coniuga centralismo esasperato, vincolismo
burocratico e sfiducia nell’autonomia, addirittura criticata all’interno della stessa maggioranza.
Nei beni culturali, al rafforzamento finanziario e normativo delle strutture burocratiche del ministero, hanno corrisposto politiche centralistiche e d’immagine.
Nella politica industriale, la legge 488, con le sue “forche caudine” centralistiche, privilegia l’impresa medio-grande a scapito delle piccole imprese locali.
Nel Mezzogiorno, è stato in pratica ripristinato l’intervento straordinario, da cui eravamo fati-
cosamente e dolorosamente usciti nel 1993-94, attraverso il nuovo carrozzone di Sviluppo Italia e il
Dipartimento delle politiche di coesione del Tesoro.
E’ opportuna poi una riflessione sul finto decentramento della nuova fase consociativa dei Patti
territoriali, che mette in rete i vari livelli istituziohali e le parti sociali della concertazione, determinando sul territorio veri e propri fenomeni di patronaggio e di limitazione della concorrenza, peraltro con
scarsi risultati in termini di occupazione e di sviluppo effettivo.
Vi è poi un aspetto, forse il più delicato, che in questa fase di attuazione della riforma sta rallentando l’effettiva assunzione delle funzioni decentrate da parte degli enti territoriali. Salvo due o tre
settori di non particolare rilevanza, non sono stati adottati i decreti presidenziali per il trasferimento
delle risorse occorrenti per l’esercizio delle funzioni attribuite alle Regioni. Queste ultime hanno di fatto
sospeso l’iter di assunzione delle nuove competenze, mentre neppure i rimedi in corso di studio al
Tesoro per recuperare il gravissimo ritardo sembrano oggi efficaci per gli enti territoriali.
Tale situazione, oltre alla tradizionale diffidenza delle Regioni a decentrare proprie funzioni agli
enti locali, sta conseguentemente rallentando anche l’assunzione di nuove competenze da parte di province e comuni: il che rappresentava una delle novità istituzionali più interessanti della cosiddetta
“legge Bassanini”.
La mancata appkazione
del principio di semplificazione
Una macroscopica contraddizione al principio di semplificazione consiste nella ormai immensa
mole della produzione della riforma stessa: cento, forse centocinquanta provvedimenti fra leggi, decreti e regolamenti, emanati negli ultimi tre anni al livello nazionale, senza contare la sterminata normativa che viene generata di conseguenza al livello regionale e locale.
Nessuna amministrazione può resistere ad una tale alluvione normativa con l’impatto che essa
comporta non soltanto in termini d’applicazione di nuove procedure, ma anche della correlata inesauribile necessità di chiarimenti interpretativi, spesso contraddittori, e addirittura della mera cognizione
di numerosissime nuove disposizioni.
Si obietterà che non si poteva fare diversamente, ma occorrerebbe dimostrare che tutto ciò non sia
piuttosto il frutto di una visione burocratica, giuridicistica e di sfiducia nelle amministrazioni e negli
individui.
Ed è, viceversa, un fatto incontrovertibile che ben poche energie sono state dedicate alla gestione del processo di riforma: al coinvolgimento dei dirigenti, dagli alti livelli; alla organizzazione di un
efficiente sistema di monitoraggio; al controllo d’impatto amministrativo di ciascun provvedimento; ad
investimenti in tecnologie. in dotazioni e in formazione.
Come se gli azionisti di un’impresa in crisi, anziché inserire nuovo management con pieni
poteri, motivare il personale, fare investimenti, si preoccupassero soltanto di rivedere statuti e
regolamenti!
Esaminando poi il processo dal punto di vista dei cittadini e delle imprese, la semplificazione
appare prevalentemente formale perché non sono diminuite le amministrazioni competenti, non si sono
ridotte le procedure, permane il dualismo fra organi tecnici ed amministrativi.
Per l’autocertificazione, prendendo per buono il dato che circola, sia pure al livello esclusivamente giornalistico, della riduzione del 30% della massa cartacea. questo sembra un risultato tutto
sommato modesto nell’epoca dei computer e delle reti informatiche. La conclamata volontà di promuovere lo sviluppo economico locale attraverso lo sportello unico si è infranta contro le resistenze e
le inefficienze delle Amministrazioni.
Considerando poi che molte delle politiche più recenti, soprattutto nel fisco, nella sanità e nell’ambiente, oltre che in netta controtendenza al principio di decentramento, lo sono ancor di più rispetto a quello di semplificazione, si spiega a sufficienza la mancata soddisfazione dei cittadini e delle
imprese.
1
Per la sola vicenda privacy, i cittadini italiani, a vario titolo ed ad ogni piè sospinto, riempiono milioni di moduli e appongono milioni di firme, ampiamente e concretamente ripagando i presunti vantaggi semplificatori della “Bassanini”.
La mancata applicazione de/ principio di autonomia respgnsabile
Se è vero che la riforma della pubblica amministrazione cammina sulle gambe dei dipendenti
pubblici, la piena realizzazione del principio di autonomia responsabile nel pubblico impiego è condizione essenziale per il successo dell’intera riforma..ln proposito, anzichè avanzare, si è arretrato.
Ciò è stato determinato da alcuni motivi ben precisi: la già ricordata alluvione delle norme; la
frantumazione del potere amministrativo;la mancata risoluzione del problema del controllo penale,
contabile, interno; la responsabilità non accompagnata da adeguata autonomia e lo stato di subalternità della dirigenza; la mancata effettuazione di investimenti ad hoc.
Innanzitutto è stata deliberatamente operata una frantumazione dei luoghi d’esercizio della funzione amministrativa. Si è voluto costituire, con leggi ordinarie e decreti legislativi, talvolta con semplici regolamenti di delegificazione, una miriade d’organismi di gestione: agenzie, autorità così dette
indipendenti, comitati, task force, gruppi di lavoro, commissioni, nuclei, “‘tavoli” e via discorrendo,
secondo un’inesauribile fantasia lessicale. I componenti sono stati normalmente scelti fuori degli organici dei dirigenti della P.A., ricorrendo a persone di sicura fedeltà, spesso tratte dal mondo universitario, dai corpi dello Stato o semplicemente dai partiti. In particolare, con riferimento all’istituto delle
agenzie, è stato previsto il succ@ssivo ricorso a convenzioni con società così dette “di servizi” di natura privata, la nomina dei cui organi di vertice, per la loro stessa natura, sfugge a qualunque sindacato amministrativo, giurisdizionale, politico.
In tal modo, si è creata, di fatto, una classe dirigente svincolata dai sistemi di reclutamento
previsti dalla legge, operante in luogo ed in vece dei legittimi organismi della pubblica amministrazione e rispondente solo al partito ed al Ministro che ne hanno decretato la nomina.
Ciò determina due conseguenze principali: il ritorno del potere di gestione nell’organo politico, attraverso il totale controllo della scelta e nomina dei soggetti interessati, nonché in virtù dell’esclusivo rapporto fiduciario, che assicura fedeltà assoluta e ricambio ad arbitrio e lo svuotamento progressivo, e per talune amministrazioni totale, delle funzioni proprie deV’amministrare”.
Di particolare gravità il ritardo nella revisione dei controlli: sòltanto tre mesi fa è stato superato, e ancora soltanto “sulla carta”, un sistema ossessivo, punitivo ed imponderabile di controlli e
sanzioni che induce i pubblici funzionari a comportamenti rigidi e cauti, al rispetto esasperato delle
procedure, alla ricerca minuziosa dalla diluizione e “copertura” della responsabilità, senza per questo
contenere il malaffare.
Circa la responsabilità penale, dopo anni di discussioni e di annunci, poco è stato in concreto fatto
per risolvere l’ambiguità e l’arbitrarietà insite nel reato di abuso d’ufficio, di abuso di potere, di peculato, e per meglio identificare i reati di corruzione e concussione.
Sul terreno contabile-amministrativo si è rinunciato ad affrontare fino in fondo la questione
della Corte dei conti. Il mancato chiarimento fra il concetto di controllo come referto al Parlamento,
oppure come accertamento di responsabilità, ha fatto sì che, con l’abolizione del controllo preventivo,
si sia determinata per i pubblici funzionari una situazione di incertezza e pericolosità: difatti, mentre
il controllo preventivo ,generalmente impediva di proseguire in caso di rilievo, il controllo successivo
pone una spada di Damocle sulla testa di chi ha la responsabilità del procedimento già concluso.
Sul piano dei controlli interni si è fatto poco e quel poco è stato affidato a magistrati e altri
funzionari di cultura ed estrazione giuridica, perdendo così l’occasione di introdurre nell’amministrazione le moderne tecniche di auditing e di controllo di gestione; le procedure di rilevazione della customer satisfaction
continuano poi a rimanere sostanzialmente estranee all’amministrazione.
Ai dirigenti pubblici sono pertanto imposte pesanti responsabilità, peraltro non effettivamente
accompagnate da adeguata autonomia nella flessibile organizzazione delle risorse umane e finanziarie.
La riforma del bilancio dello Stato non ha attribuito alla dirigenza la reale disponibilità del budget assegnato, in quanto tuttora condizionato dalla spesa storica e rigidamente segmentato in molti capitoli di
spesa; la debole contrattazione di parte pubblica ripropone inoltre vincoli impropri all’utilizzo delle
,’
risorse umane.
Lo stato di subalterni6 della dirigenza si è aggravato. E’ vero che la precarizzazione della dirigenza, entro certi limiti, è il necessario completamento di un’amministrazione orientata ai risultati,
tanto quanto la sua inamovibilità era funzionale al ruolo di garante della legalità del procedimento. Si
deve però contemperare il giusto superamento della inamovibilità con i pericoli connessi al mandato
a termine, alla genericità dei criteri per l’assegnazione, alla possibilità amplissima di scelta nell’ambito di un ruolo unico così esteso, all’inefficienza ed inefficacia del circuito obiettivi-controlli e delle conseguenti valutazioni.
Ciò ha condotto ad un assoluto arbitrio nella scelta dei dirigenti di vertice, estratti spesso fuori
dai ranghi dell’amministrazione interessata e nella revoca delle funzioni per i dirigenti già precedentemente incardinati, ma non, o non più, graditi.
In breve, è stato realizzato uno spoils system all’italiana, su larghissima scala, fondato sull’appartenenza politica ed ideologica e non sul merito.
Si è Cosi riaffermata, in misura assai maggiore che nel passato, una centralità del partito nella
gestione delta cosa pubblica.
Infine, come usuale espressione dell’indifferenza per i valori personali, un siffatto spoils system
ha dei tutto pretermesso e travolto le situazioni personali, calpestando e violando la dignità delle persone, la loro professionalità e la loro stessa sicurezza economica.
gine
Si è poi proseguito nell’introduzione spuria e non sistematica di elementi amministrativi di orianglosassone.
Le authorifies con competenze a volte ridondanti, confuse oppure ultraregolatrici, sono state
lottizzate e gonfiate di personale con stipendi doppi e tripli di quelli “statali”, ma con procedure incomplete e insoddisfacenti sotto il profilo della trasparenza delle regole.
Le agenzie, sorte nel mondo anglosassone sulla scorta della suddivisione fra attività pubbliche
“prezzabili” e “non prezzabili”, stanno invece nascendo da noi sotto la pressione di spinte corporative.
Il risultato pratico è che sulle nuove strutture si sono concentrati tutti i vantaggi e tutte le flessibilità, mentre svantaggi e rigidità, normativi e retributivi, sono rimasti in capo ai ministeri che dovrebbero assolvere alle più elevate funzioni dell’indirizzo, del coordinamento e del controllo.
Che cosa fare
Si applichi con rigore la sussidiarietà orizzontale: le funzioni pubbliche siano svolte da amministrazioni pubbliche soltanto quando non possano essere rimesse alla responsabilita della persona, fisica o giuridica, o quando un mercato regolato non sia in grado di farvi fronte in modo efficiente.
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Privatizzazione “vera” d’imprese ed aziende pubbliche o parapubbliche, al livello nazionale e locale.
l
Affidamento di servizi a gestioni alternative (privati, fondazioni pubblico-private, associazioni di
categoria, non-profit e volontariato), con controllo pubblico degli standard di prestazione.
l
Estesa ricognizione delle eliminazioni di procedure, delle abrogazioni e delle delegificazioni, con
l’obiettivo della riduzione netta della sfera dell’intervento pubblico.
I/ federalismo compiuto
l
1
A Costituzione invariata, affidamento alle Regioni dei poteri in tutte le materie ad eccezione di quel-
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le che restano fuori della delega prevista dalla legge n05q/1qq7, con la conseguente soppressione
d’uffici centrali e trasferimento immediato delle risorse relative.
Facoltà per le regioni di darsi gli assetti istituzionali analoghi, per ampiezza di funzioni, a quelli
delle attuali regioni a statuto speciale mediante statuti dell’autonomia recepiti dalla Costituzione.
Ulteriore decentramento agli enti locali, in particolare ai Comuni, delle competenze amministrative
e gestionali già previste, più tutte quelle idonee a consentire loro la piena operatività sul territorio, come strumenti d’attuazione sostanziale delle linee di sviluppo economico e sociale orientate
e coordinate al livello regionale.
Individuazione delle materie da sottrarre definitivamente alla sfera pubblica anche in ambito regionale e locale.
Aumento, insieme con l’autonomia finanziaria connessa alle accresciute competenze, della responsabilità degli amministratori regionali e locali in materia di finanza e d’indebitamento, mediante un
forte “patto di stabilità interno”. In caso contrario sarebbe concreto il rischio di una ulteriore dilatazione della spesa pubblica, ancor più grave oggi alla luce dei vincoli europei e delle pressioni
competitive. La sanzione di questo “fallimento politico” può consistere nel ritorno alla decisione
degli elettori.
II principio di semplificazione senza deroghe
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1)
2)
3)
Sostanziale) moratoria legislativa e rigorosa coerenza negli interventi normativi non evitabili.
Applicazione preventiva alle norme d’iniziativa governativa, nessuna esclusa, dei principi previsti
dalla legge n0y,q/1qq7 in tema di semplificazione.
Applicazione in chiave di semplificazione e di customer satisfaction del disposto dalla legge
n050/1qqq in tema d’analisi dell’impatto della regolamentazione.
Radicale semplificazione delle procedure secondo i seguenti criteri:
il procedimento è strumento del risultato, perciò derogabile dal dirigente responsabile ove sia
evidente la compromissione del risultato stesso.
Il sistema delle amministrazioni è una banca-dati unitaria che non deve richiedere all’utente
informazioni che sono già nel suo seno, se non attraverso dichiarazioni che esauriscono la fase
del procedimento (con eventuale verifica successiva a campione).
I rapporti fra cittadino ed amministrazioni si definiscono con assoluta precisione ed effetto “tombale” entro date certe: la certezza diffusa ha valore superiore rispetto alle patologie rare ed incerte.
La piena autonomia responsabile de/ pubblico impiego
Appare necessario perseguire due obiettivi:
1) Assicurare una gestione della cosa pubblica, rispettosa degli indirizzi politici espressi dal
Parlamento e dal Governo, ma allo stesso tempo condotta nell’assoluto rispetto dell’articolo 97
della Costituzione: imparzialità ed efficienza.
2) Restituire alla P.A., ed ai suoi dirigenti in particolare, la dignità del loro ruolo fondamentale in un
moderno Stato di diritto: né servi né padroni del potere politico, ma protagonisti della funzione
insostituibile
dell’amministrare.
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E dunque:
Riorganizzazione dei controlli interni secondo una cultura economica, più che giuridica, in funzione d’ausilio e motivazione, più che repressiva, e d’idoneità alla misurazione dei risultati e non
quale instrumentum regni.
Riforma dei controlli esterni contabili-amministrativi secondo la priorità della vigilanza sulla effcienza-obiettività dei controlli interni e del referto al Parlamento.
Esatta identificazione delle fattispecie costitutive dei reati connessi alla pubblica amministrazione,
nel senso della chiara e non discrezionale definizione della responsabilità penale.
Autodisciplina della funzione politica in sede di prima assegnazione degli incarichi dirigenziali, data
la mancanza o l’insufficienza dell’indicatore dei risultati; successivamente, rilevanza del risultato
non soltanto ai fini della risoluzione anticipata dell’incarico, ma anche ai fini della riconferma al
termine del periodo.
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Rigore nell’attività negoziale con l’impegno ad evitare soluzioni che reintroducano di fatto o di diritto forme di veto o di cogestione.
Ricognizione e revisione della miriade di nuovi organismi, per ricondurli nel giusto alveo della P.A.
centrale o locale o della sussidiarietà orizzontale.
Riforma dell’istituto del ruolo unico, oggi ridetto a “cimitero degli elefanti”. Esso deve divenire una
sorta di “albo” aperto dei dirigenti, con possibilità d’ingresso ed uscita, a determinate condizioni,
anche verso il mondo privato. Ciò contribuirà, tra l’altro, alla creazione di un vero e proprio “mercato” simile, nella struttura, a quello nel quale i dirigenti privati trovano la loro collocazione e la
loro valorizzazione.
Tipizzazione del contratto della dirigenza, assumendo dalla disciplina privata e da quella pubblica
gli aspetti qualificanti di un rapporto che rimane pur sempre pubblico quanto all’oggetto della prestazione.
Opportuna definizione della contrattazione dei dirigenti, sottratta all’influenza di organizzazioni sindacali non realmente rappresentative dei dirigenti stessi.
Congruo investimento in formazione ed aggiornamento dei dirigenti, con piani di rotazione e stage
non fittizi o formali presso la SSPPA, Amministrazioni estere, università etc.
Adeguata remunerazione dei dirigenti, in misura consistente ancorata a obiettivi certi di razionalizzazione dei costi, ora consentiti dal sistema di contabilità economica.
Si costituisca una vera “cabina di regia” della riforma.
Affidamento del ruolo di cabina di regia, con poteri reali e fondi adeguati, al Ministero della
Funzione Pubblica, per delega del Presidente del Consiglio.
Adeguato impegno nella gestione della riforma, attraverso sistemi organici di monitoraggio e di
misurazione della customer satisfaction e forme di coinvolgimento e di formazione specifica, dei
dirigenti e del personale.
Quantificazione degli obiettivi e dei tempi dell’ammodernamento: numero di leggi, di procedimenti, di pratiche arretrate, di standard di soddisfazione dell’utenza, di dirigenti e di dipendenti, di
mezzi e strumenti, al livello nazionale, regionale e locale.,
Approfondimento 1:
LO SPORTELLO UNICO
Lo Sportello Unico, istituito dal D.P.R. 447/98 in attuazione delle /eggi Bassanini rappresenta la risposta alla domanda delle imprese di semplificare le procedure necessarie per le autorizzazioni di nuovi
impianti produttivi o per /‘ampliamento di quelli esistenti.
A due anni dalla loro istituzione una stima sulla reale copertura degli Sportelli Unici non ha dato risultati confortanti. Infatti si è rilevato (al dicembre 1999) come un maggior impegno nell’attivazione degli
sportelli sia stato dimostrato da/ Centro Nord rispetto al Centro Sud e come si siano privilegiate, sotto
il profilo della localizzazione, le aree a più forte industrializzazione nonché i Comuni di più rilevanti
dimensioni (superiori a 10.000 abitanti). La difticoltà per i Comuni più piccoli si può collegare all’onerosità dell’iniziativa che richiede ingenti risorse finanziarie ed umane. // problema della formazione de/
personale da adibire alle funzioni proprie dello sportello è apparso particolarmente significativo.
Per quanto concerne le modalita secondo le quali le strutture sono state realizzate, i Comuni hanno
attivato gli sportelli prevalentemente in forme singoole. Le uniche eccezioni sono riscontrabili nelle aree
dove esistono “patti territoriali” nelle quali già si è in presenza aggregazioni tra enti
/oca/i.L’associazionismo
tra Comuni è stato favorito, in alcuni casi, da specifici provvedimenti legislativi emanati dalle Regioni, con la previsione di appositi stanziamenti regionali (contributi a fondo perduto) per la copertura delle spese di costituzione degli sportelli.
L’istituzione degli sportelli unici non ha, in concreto, determinato, soprattutto per gli impianti più complessi, una reale semplificazione e razionalizzazione dell’attuale sistema di competenze e di procedure che le imprese si trovano ad affrontare al momento dello start up. Infatti la nuova disciplina introdotta dal D.P.R. 447198 non ha disposto la semplificazione, /‘accorpamento o l’eliminazione dei preesistenti procedimenti amministrativi ma si è /imitata, invece, ad unificarli e raccordarli nell’ambito della
nuova ed ulteriore procedura autorizzatoria facente capo ad una struttura unitaria gestita da/ Comune.
// regolamento produce quindi notevoli incertezze perché esso si innesta sull’intreccio delle vecchie e
delle nuove competenze, mancando non solo la razionalizzazione e l’accorpamento delle procedure
settoriali (secondo i quattro filoni ambiente, sanita, urbanistica e sicurezza) ma anche l’individuazione
espressa dalle norme sottostanti ad ogni procedimento, che variano comunque di volta in volta, in
relazione al tipo di impianto, alla sua destinazione, alle sue dimensioni ed alla sua collocazione ne/
territorio.
Vi è inoltre /‘assenza di forme di coordinamento istituzionalizzate tra le diverse Amministrazioni coinvolte motivate dalla mancanza di precise disposizioni emanate dai Ministeri competenti. Le difficoltà
di coordinamento con le altre Amministrazioni rendono anche incerta la responsabilità dei singoli enti
verso il responsabile de/ procedimento che attualmente non è in possesso degli strumenti per rendere incisivo il proprio ruolo.
Ne consegue che, mentre la responsabilità dell’intero iter procedimentale è stata formalmente attribuita alla struttura unica, quest’ultima non è stata contestualmente dotata di poteri e mezzi necessari per assicurare il rispetto dei termini procedurali.
/ tempi di conclusione de/ procedimento unico, in materia di localizzazioni industriali, saranno quindi
inevitabilmente condizionati da quelli disposti in altri procedimenti strumentalmente ad esso connessi e/o collegati. Infatti, pur essendo stato individuato un unico soggetto coordinatore delle procedure,
non si è contestualmente introdotta alcuna disposizione volta a ridurre le amministrazioni coinvolte o
ad accorpare le procedure.
Sono sempre necessarie per la realizzazione di un medio impianto industriale circa 15 pronunce da
parte della Pubblica Amministrazione (nelle varie forme dell’autorizzazione, nulla osta, pareri, licenze,
etc.) con un coinvolgimento diretto di circa IO autorità diverse (Ministeri dell’Ambiente, Industria,
Lavori pubblici, Beni culturali, Finanze, Comune, Provincia, Regione, ASL, Vigi/i de/ Fuoco).
Inoltre va sottolineato che il nuovo iter procedimentale è stato realmente semplificato solo per gli
impianti più semplici, che non richiedono di essere assoggettati alle procedure ambientali (rifiuti, VIA,
rischi di incidenti rilevanti, produzione e raffinazione e stoccaggio di oli minerali). Per questi infatti I’attività istruttoria della struttura è completamente subordinata alle conclusioni delle altre numerose
istruttorie procedurali che le normative ambientaali richiedono.
Non potendo ricorrere */la procedura con autocertificazione (prevista solo per le situazioni più semp/ici,I, gli impianti più complessi sono soggetti alla procedura mediante Conferenze di servizi, per la
quale vige ancora il principio consensuale e non quello maggioritario. Per cui, la determinazione negativa di una delle Autorità competenti è in grado di vaniticare le altre determinazioni di segno opposto.
Un’ultima considerazione riguarda il mancato coordinamento in sede legislativa tra le nuove procedure in corso di predisposizione (es.: nuove norme in materia di VIA e rischi di incidenti rilevanti, recepimento direttive sull’approccio integrato de//‘~riquinamento)
e l’impianto complessivo delle leggi
Bassanini e le relative attuazioni. Ciò determina evidentemente incertezza e difficoltà applicative, giacchè alle vigenti norme si continua ad aggiungerne di nuove, e non aiuta il raggiungimento degli obiettivi di semplificazione che le leggi Bassanini si propongono.
Approfondimento
2:
LE NORME COMPLESSE PER LA SICURUZA
DEL LAVORO
Secondo recentissimi dati forniti dal/‘/NPS e da//‘/NA/L negli ultimi anni gli infortuni e i morti su/ /avoro sono aumentati significativamente.
In particolare, nei primi tre mesi del zooo, g/i infortuni sul lavoro sono aumentati de/ 5% rispetto allo
stesso periodo de/ lygg, e i morti sono stati 235. ossia 57 in più rispetto allo stesso periodo di un
anno fa.
// settore maggiormente coinvolto è quello dell’edilizia; anche in agricoltura il fenomeno infortunistico
è un problema grave rappresentato da circa 1oo.000 infortuni e 150 morti ogni anno.
Tali incrementi paradossalmente si verificano nonostante che tra il 1994 e il 1999 siano stati emanati
numerosi e rilevanti decreti legislativi in attuazione delle Direttive europee.
Va sottolineato che si tratta di un’incongruenza, assai significativa, poiché secondo una logica di razionalità socio-giuridica, l’entrata in vigore delle nuove leggi avrebbe dovuto comportare, al contrario, progressivi e considerevoli miglioramenti, ne/ senso di una diminuzione de/ tasso infortunistico SiJ in valori assoluti, sia secondo gli indici di frequenza relativa. Tale pJrJdOSS0 è tanto più sconvolgente, se si
pone mente al fatto che con il recepimento delle Direttive Europee, avvenuto col DLgs 15 agosto 1991
n. 277 e con i Decreti /egis/ativi 19 settembre n. 626 e 19 marzo 1996 n. 242, il quadro normativo
avrebbe dovuto subire importanti innovazioni, soprattutto sotto il profilo degli obblighi di valutazione
dei rischi, di formazione e informazione, dei poteri dei rappresentanti dei lavoratori e, infine, de//a
gestione tecnica delle attività di prevenzione attraverso l’istituzione dei servizi di prevenzione e protezione. Inoltre, doveva entrare in opera una grande rivoluzione concettuale, nel modo di concepire il
rapporto di autorità tra datore di lavoro, dirigenti e preposti da un lato, e lavoratori dall’altro. Infatti
il decreto n. 626 doveVJ introdurre una nuova concezione dinamica dell’apporto del lavoratore, coinvolto attivamente a co/laborare per il conseguimento sia degli obiettivi generali aziendali di sicurezza,
sia dell’obiettivo particolare di autotutela.
La tecnica legislativa ha invece stravolto le principali novità di derivazione europea; anziché renderle
operativamente importanti le ha ridotte a minuziosi compiti burocratici. Di fatto, fa legislazione è stata
COmp/iCJtJ e burocratizzata, tanto che nella sua pratica attuazione non porta più alcun beneficio concreto ed anche i documenti sono chiusi nei cassetti. Tutto questo ha favorito anche un altro fenomeno negativo: un aumento de/ lavoro sommerso, perché gli adempimenti di sicurezza sono tali e tanti
che si preferisce eluderli e lavorare in nero.
La nuova normativa sulla sicurezza è stata interpretata più in chiave repressiva che preventiva consulenziale, di reale aiuto alle imprese e per migliorare l’organizzazione di lavoro.
Approfondimento 3:
JNFRASTRLUJURE
E PROCEDURE
Il processo autor/uator/o.
L’insoddisfacente livello di spesa delle amministrazioni pubbliche nel settore delle infrastrutture non è
soltanto dovuto alle scarse risorse finanziarie (è comunque significativo il calo degli ultimi anni dovuti all’ingresso dell’ltalia nell’Euro, con il conseguente rispetto dei parametri di Maastricht) quanto all’in-
capacità delle strutture amministrative di mobilitare le risorse disponibili.
Appare urgente una riconsiderazione dei correttivi di carattere procedurale (sportello unico, accordi di
programma, conferenza dei servi@ capaci di accelerare i tempi troppo lunghi ricorrenti tra /‘approvazione dei progetti e /‘affidamento
dei /avori.
Le leggi per Italia 90, Roma Capitaale, Colombiadi, Metro$o/itane
sono solo alcuni esempi di normative speciali nate per superare la fitta rete di veti incrociati e di contrasfi tra autorità centrali e amministratori comunali, grandi gruppi nazionali e imprese locali, associazioni ambientalistiche
e fautori
dello sviluppo delle infrastrutture.
Ancor’oggi, nonostante una profonda revisione legislativa, si cerca di porre rimedio a questo problema. Un esempio viene dalla legge, fresca di approvazione, che prevede /‘organizzazione de/ G8 a
Genova: viene istituita una speciale commissione per /‘individuazione e approvazione degli interventi
da effettuare; sono abbreviati i termini per la scelta de/ contraente; è consentito il ricorso a//‘appa/to
integrato con progettazione esecutiva e realizzazione dei /avori in unica gara.
In Parlamento sono inoltre in discussione due proposte di legge che vanno nella direzione descritta.
La prima (/egge di semplificazione 1999) prevede la riforma della conferenza dei servizi.
// provvedimento rende obbligatorio il ricorso a conferenze quando sia necessario il parere di altre
amministrazioni; istituisce una conferenza preliminare per acquisire le intese di massima; obbliga alla
motivazione /‘amministrazione dissenziente e definisce i casi in cui anche con un “no” si può procedere; fissa un termine conclusivo per la conferenza; estende ai privafi la possibilità di accettare autocertificazioni. Nell’elenco delle procedure da semplificare sono inserite anche le norme per il collaudo
la Via e le concessioni edilizie.
In questi giorni, è sotto i riflettori anche la cosiddetta “proposta Berlusconi’: Si tratta de/ provvedimento in discussione alla Camera che prevede la “realizzazione di infrastrutture e insediamenti industria//’ strategici”. Viene definita come legge-obiettivo, nel senso che prevede un regime giuridico speciale per le grandi opere. Viene disposto, in particolare, che ogni anno il governo, su proposta delle
regioni, indichi nella Finanziaria quali infrastrutture realizzare classificandole come “strategiche”. Per
tali infrastrutture scatta /‘esonero dalla normativa italiana sugli appalti e vale la sola applicazione,
sopra soglia, delle direttive comunifarie.
Project finance.
La legge 415/1998 [Merloni-ter)
ha introdotto la figura de/ promotore (art. 37 bis e seguenti). Questa,
in sintesi, la procedura: il Comune individua ne/ programma triennale le opere realizzabili in P.F.
(manca a tutt’oggi il decreto con lo schema-tipo), / soggetti dotati di requisiti fissati da/ regolamento
(anch’esso da definire) presentano le proposte entro il 30 giugno. La valutazione avviene entro il 31
ottobre successivo. Scelto il promotore, si pone il progetto a base di una gara da indire entro il 31
dicembre. le due migliori offerte sono sottoposte a procedura negoziale insieme al progetto de/ promotore. Segue aggiudicazione di concessione di costruzione e gestione.
In concreto, la situazione evidenzia una /unga fase di sperimentazione. // meccanismo non è ancora
entrato a regime. Sono circa 70 le opere “pensate” per il p.f. Per la maggior parte, si tratta di opere
di importo limitato (20/30 mld) con prevalenza di iniziative dei piccoli comuni. Ad oggi, 18 gare sono
state avviate e 4 concessioni aggiudicate, con vittoria de/ promotore.
Occorre sottolineare come molte iniziative non riguardino infrastrutture di trasporto, bensì interventi
di riqualificazione urbana, complessi turistico-alberghieri, impianti sportivi e polifunzionali, ospedali,
depuratori, inceneritori e cimiteri.
In deFinitiva, appare ancora difficoltoso il dia/ogo promotore- P.A., sia per la Farraginosità della procedura sia per la mancanza, nella stessa P.A., di un soggetto dotato di adeguate competenze tecnicofinanziarie.
Qualificazione delle imprese e SOA.
Logica vuole che la stazione appaltante si intesti la titolarità della qualificazione, per garantirsi il risultato della capacità dell’impresa. La via percorsa da/ legislatore è di segno opposto.
Le SOA, pensate come strumenti a disposizione delle stazioni appaltanti per assisterle nella qualificazione dei concorrenti sono invece messe a disposizione delle imprese per una sorta di “autoqualificazione”, non assimilabile alla certificazione dei bilanci.
Si fratta di un istituto che in alcune zone dei Paese può determinare alterazioni concorrenziali. // meccanismo stesso è congegnato in maniera ta/e da creare disparità di trattamento, perché addossa alla
imprese nazionali oneri che le imprese comunitarie non debbono sopportare. Di fronte all’incapacità
della pubblica amministrazione di leggere i bilanci delle imprese, appare più coerente fare delle stesse SOA i consulenti della Pubblica Amministrazione, con riferimento alle singole gare o in generale, per
tutta /‘attività contrattuale della Pubblica Amministrazione.
;
Performance band.
La discussione che da tempo ruota intorno al nuovo sistema di qualificazione sembra ignorare che nella
Merloni-ter è stato introdotto uno strumento in grado di effettuare una selezione automatica dell’offerfa.
E’ il performance-band, oggi circoscritto ai soli /avori di importo superiore ai zoo miliardi e quindi relegato ad una mera esercitazione accademica.
L’esperienza maturata all’estero dimostra, al contrario, che si tratta dell’unico strumento in grado di
contrastare il fenomeno delle offerte anomale e appare incongruo /‘averlo /imitato ad una ristrettissima fascia di /avori.
Approfondimento 4:
LA
PROGRAMMAZIONE
NEGOZIATA
Nata successivamente alla chiusura dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, da una intuizione del
CNEL per mobilitare risorse pubbliche sulla base dell’accordo tra soggetti locali (patti territoriali) e, in
un secondo momento, come risposta concertata tra le parti sociali alle ripercussioni innescate dallo
smantellamento de/ sistema delle partecipazioni statali (contratti d’area), la programmazione negoziata è divenuta rapidamente lo strumento attorno al quale hanno ruotato le politiche di sviluppo territoriale adottate da/ governo.
Il successo iniziale.
L’ampio consenso riscosso dalle prime esperienze di patti territoriali ha avuto riscontro in quella che
il Cnel ha definito la “istituzionalizzazione” della programmazione negoziata, operata sia mediante il
suo riconoscimento in sede normativa, sia attraverso il rilievo da questa assunto nei documenti di programmazione economica e finanziaria.
// primo recepimento in via legislativa della programmazione negoziata risale all’aprile de/ 1995, con
/‘emanazione di un decreto legge di ordinamento dei patti territoriali. Da allora sono stati emanati
numerosi ulteriori provvedimenti (12 tra atti normativi e deliberazioni Cipe) che hanno costantemente
aggiornato e modificato il complesso delle disposizioni.
Ancora di più de/ recepimento normativo, /‘inserimento nei documenti di programmazione economica
e finanziaria ha valorizzato il ruolo della programmazione negoziata e ne ha promosso /‘utilizzo.
Già ne/ Dpef1998-2000
questa viene individuata come lo strumento più eficace per realizzare gli impegni assunti da/ governo nei confronti delle parti sociali in materia di creazione di nuove imprese e
nuova occupazione. Ma è con i/ Dpef 1999-2001 che /a programmazione negoziata Compie i/ sa/tO di
qualità, assumendo una funzione centrale nella programmazione dei nuovi modelli di sviluppo territoriale basati su/ partenariato e la promozione delle risorse locali.
Nell’ultimo documento di programmazione, il Dpef 2000-2003, la concertazione e la programmazione
negoziata sono tra i punti di riferimento intorno ai qua/i viene costruito il Piano di Sviluppo del
Mezzogiorno ed impostata la strategia de/ Quadro Comunitario di Sostegno 2000-2006.
Partita quasi in sordina come laboratorio di sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo locale, la programmazione negoziata, nel giro di appena un biennio da/ suo primo recepimento normativo, diviene
dunque la modalità di riferimento per le politiche di sviluppo economico ed occupazionale.
,Concorrono a tale risultato due ordini di fattori: la forte attenzione alle tematiche dello sviluppo territoriale, la presenza di, un più coerente quadro normativo e di un rinnovato assetto dell’intervento centrale a sostegno delle aree in ritardo di sviluppo.
// primo fattore è la conseguenza della nuova impostazione delle politiche di coesione della Unione
Europea che, modificando il vecchio sistema di aiuti alle imprese, puntano sulla valorizzazione economica dei sistemi locali per aumentare la capacità di integrazione delle aree marginali e comprimere i
rischi di distorsione della concorrenza.
// secondo è frutto, da un lato della razionalizzazione dell’impianto della programmazione negoziata
operato dal collegato alla legge finanziaria 1997 che ne ha fissato g/i obiettivi e disciplinato i vari strumenti, dall’altro de/ nuovo assetto istituzionale scaturente dalla fusione dei Ministeri de/ tesoro e de/
bilancio e dalla istituzione de/ Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione cui sono afidate
le competenze in materia di programmazione, coordinamento e verifica degli interve&& sviluppo economico.
// ridisegno dell’intervento è completato dall’istituzione della nuova agenzia de/ governo Sviluppo Italia
che, sulla falsariga di esperienze di successo maturate a livello internazionale, costituisce il braccio
operativo de/ DfS ne/ valorizzare la capacità di offerta territoriale organizzata, principalmente, tramite
gli strumenti della programmazione negoziata (attrazione investimenti, marketing localizzativo, geme//aggio Nord -Sud).
L’attuazione delude le aspettative.
Dotata di risorse finanziarie, supportata da governo e parti sociali, in linea con le politiche di coesione della Unione Europea, agevolata da un rinnovato assetto dell’amministrazione centrale e dalla presenza di una agenzia incaricata di assistere lo sviluppo economico del territorio, pubblicizzata come
la risposta più efficace e flessibile alla domanda di valorizzazione delle risorse locali, la programmazione negoziata attraversa una fase di profonda crisi.
Le motivazioni sono molteplici, fuffavia tutte riconducibili alla inapplicazione dell’impianto programmatorio, alla bassa qualità degli interventi, alla scarsa operatività dei previsti forti elementi di nessibilità, in particolare amministrativa.
La mancata attuazione dell’impianto di regole, improntato sul principio della sussidiarietà, che chiariva /‘ambito di intervento della programmazione negoziata, determinava le finalità degli strumenti, innescava principi di estrema f7essibilità:
l
ha fatto saltare il quadro di obiettivi ed indirizzi fissati da/ collegato alla finanziaria 1997;
l
ha creato difficoltà alla azione dalle Regioni, messa in discussione dalla diffusione, a macchia di
leopardo, di iniziative non coordinate con la programmazione operata da tali enti (a tale problema si è tentato di dare rimedio, con risultati non ancora apprezzabili, nell’ambito delle intese istituzionali Stato - Regione);
l
ha agevolato la proliferazione di patti territoriali e contratti d’area (peraltro stimolata da/ governo:
basti ricordare /‘obiettivo fissato nel DPEF 1999 - ZOOI di attivare ulteriori 40 patti territoriali e contratti d’area) anche quando non ricorrevano le condizioni per un loro efficace utilizzo.
Per porre rimedio a tale situazione sono state emanate nuove disposizioni che, sebbene legate alla
esigenza di disciplinare strumenti innovativi e facilitarne /‘attuazione, hanno dato luogo ad un eccesso di regolazione, divenendo spesso fonte di confusione sull’utilizzo degli strumenti e di difficoltà in
sede di attuazione.
La bassa qualità e lo scarso impatto economico degli interventi attivati ha fatto evolvere i patti territoriali ed i contratti d’area (p-i istituti più diffusi ed utilizzati della programmazione negoziata) dalla
iniziale funzione di fattori propulsivi dello sviluppo territoriale, a strumenti di agevolazione sul modello della legge 488, privi, però, della selettività sulle iniziative presente nella 488: in pratica bastava
rientrare nel processo di concertazione per avere la certezza delle agevolazioni.
Infine, la mancata operatività dei meccanismi di flessibilità ha gravemente rallentato (e talvolta impedito) la realizzazione degli interventi.
Ciò ha condizionato, in maniera particolare, /‘attuazione dei contratti d’area che nella flessibilità
(soprattutto amministrativa) identificavano lo sfrumento fondamentale per agevolare la realizzazione
di un ambiente economico favorevole all’attivazione di nuove iniziative imprenditoriali ed alla creazione di nuova occupazione.
Di fatto, gli imprenditori disponibili ad investire si sono trovati di fronte a meccanismi amministrativi
non supporfati dai requisiti di snellezza e velocità promessi, con tempi e procedure resi incerti dalla
produzione parallela di innovazioni normativa (basti pensare ai settori dei /avori pubblici e dell’ambiente).
Di conseguenza, moltissime imprese, soprattutto le più qualificate per fatturato e mercato, pur in presenza di forti incentivazioni finanziarie e di buoni accordi sindacali hanno abbandonato i contratti d’area, spesso per andare ad investire all’estero (nel caso di Manfredonia assommano ad oltre il 50% le
imprese de/ nord est che hanno rinunciato agli investimenti).
Alcuni possibili correttivi.
Sebbene negli ultimi mesi si sia assistito ad una decisa accelerazione de/ t7usso dei pagamenti, le ero-
gazioni per patti e contratti già approvati da/ CIPE sono pari al solo 16% delle risorse impegnate.
// futuro della programmazione negoziata appare condizionato dalla introduzione di alcuni correttivi,
alcuni dei quali già emersi lo scorso anno in sede di definizione de/ Programma di Sviluppo de/
Mezzogiorno.
Si tratta, in particolare di:
. valorizzare la programmazione regionale, contemporaneamente procedendo alla piena responsabilizzazione dei governi regionali nei processi di finanziamento
. innalzare la qualità dei progetti, separando nettamente la fase di programmazione e valutazione da
quella di selezione degli interventi ammessi alla incentivazione
. ricorrere con decisione al mercato per l’acquisizione dei servizi di assistenza alla valutazione e progettazione
. superare il modello di concertazione adottato, sostituendolo con modalità di partenariato in cui sia
chiara la distinzione dei ruoli
. innalzare /‘efficienza della struttura amministrativa, anche tramite una maggiore responsabilizzazione dei titolari del procedimento
.
chiarire, definitivamente, il ruolo di Sviluppo Italia.
2.5. Sicureua e sviluppo: un’occasione mancata
La sicurezza è uno dei valori sociali di maggiore importanza. Si tratta di uno dei temi che preoccupano maggiormente i cittadini. Nello stesso tempo, tutti i sondaggi dimostrano che i cittadini hanno
ancora grande fiducia nelle forze di polizia ed, anzi, considerano le istituzioni preposte alla sicurezza
come quelle maggiormente affidabili, in un momento in cui la politica e la stessa magistratura rappresentano ed evidenziano, nelle considerazioni degli italiani, una fase di particolare crisi.
La richiesta di sicurezza
Si può ritenere che, di fronte alla Stato, le minacce criminali più preoccupanti si collegano a
tipologie di delitti ormai caratterizzati da forti connessioni trans-nazionali;
in particolare, occorre una
forte strategia complessiva di prevenzione e contrasto nei confronti del terrorismo in tutte le sue forme,
del traffico di droga, dell’immigrazione illegale collegata al racket della prostituzione, dei delitti commessi attraverso strumenti tecnologici e telematici, del riciclaggio di denaro sporco, della criminalità
organizzata di tipo mafioso, ormai ramificata da e verso molti paesi anche extraeuropei.
La preoccupazione dei cittadini, invece è fortemente orientata verso tipologie di reati diversi,
per i quali la legge prevede sanzioni meno gravi e che spesso (oltre il 90% dei casi) restano impuniti; tuttavia è gravemente erroneo, e frutto di una sottovalutazione culturale continuare ad indicare come
“micro-criminalità” la diffusa e pervasiva aggressione criminale contro i cittadini nella libera espressione della loro vita quotidiana.
Si tratta invece di criminalità che determina in modo grave il senso di insicurezza ed alimenta
la domanda di sicurezza rivolta alle istituzioni.
Parliamo di delitti come il furto e la rapina, la violazione di domicilio, il danneggiamento ed il
furto di autoveicoli, lo spaccio di droga e le diverse forme di violenza urbana, presso gli stadi, nelle
periferie, ecc.
La risposta delle istituzioni non potrà limitarsi al primo livello di delitti, dimenticando invece la
prevenzione ed il contrasto ai reati della criminalità urbana.
I cittadini chiedono alle istituzioni anzitutto maggior presenza delle forze di polizia sulle strade: uomini in divisa che rappresentino un simbolo tangibile dello Stato.
Chiedono poi una comunicazione più continua e più forte tra la comunità civile e le forze di polizia.
Chiedono ancora una qualità del servizio di polizia più elevata. Sia per quanto riguarda la fase della
raccolta delle denunce; sia per la rapidità della risposta alle richieste di intervento: insomma un servizio
qualitativamente più elevato con poliziotti meglio informati anche al proficuo rapporto con la cittadinanza.
-
Ed infine chiedono di essere informati anche sui risultati degli interventi compiuti dalle forze
di polizia in relazione alle denunce presentate.11 cittadino vuole sapere dove è andata a finire la sua
denuncia; quali attività le forze di polizia hanno compiuto; che cosa in sostanza è emerso. Quali sono
dunque i risultati di attività che si svolgono a seguito di una rapina, di un furto, di una denuncia per
,I
un qualsiasi reato subito.
Sviluppo e legalità
La riflessione che qui vogliamo sviluppare parte dall’analisi dei dati sulla criminalità e soprattutto sulla criminalità urbana, quella criminalità che colpisce gravemente la vita quotidiana dei cittadini e costituisce un attentato gravissimo ad uno dei fondamentali diritti della persona, il diritto di scegliere liberamente che cosa fare della propria vita quotidiana, il diritto a non avere paura.
Riteniamo che si debba. riflettendo sul costo sociale della criminalità, ribaltare il tradizionale
paradigma che le analisi criminologiche e sociologiche hanno finora sviluppato, un tradizionale paradigma che si riassume nell’equazione sviluppo = IegalitL
Un’analisi economica più moderna ci dimostra che quel paradigma è superato e può essere
addirittura rischioso e controproducente: si cercherà di dimostrare che la legalità è il presupposto alla
realizzazione di un sistema imprenditoriale equilibrato.
Quindi, non c’è sviluppo d’impresa senza legalitk
/ dati
l
l
l
Partiamo allora dai dati.
Negli ultimi 25 anni è più che raddoppiata la frequenza dei delitti.
I furti sono triplicati: da 1.000 a 3.000 in media per ogni IOO.OOO abitanti.
Le rapine, Le estorsioni ed i sequestri di persona sono passati addirittura da 6 a IOO delitti per ogni
IOO.OOO abitanti.
Gli omicidi sono aumentati da da 2 a 5 ogni 1oo.000 abitanti.
Non vi è soltanto una moltiplicazione in senso qualitativo della criminalità; vi è, anche in Italia,
una specificità qualitativa rappresentata in sostanza dallo sviluppo di forme di criminalità organizzata
che ormai caratterizzano pressoché ogni ambito del territorio nazionaLe, pur se particolarmente radicate originariamente in alcune zone del mezzogiorno.
Evidentemente la diffusione ed il carattere ormai transnazionale della criminalità organizzata
impedisce di continuare a definirla come fenomeno tipicamente meridionale.
Ancora per rimanere ai dati: nel 1998 sono stati denunciati all’autorità giudiziaria ben 253.000
reati contro la persona, 12.800 reati contro la famiglia, 2.260.000 reati contro il patrimonio.
Ebbene, di questi reati, se valutiamo soltanto quelli contro il patrimonio, il 94% è rimasto impunito: si tratta di reati per i quali gli autori sono rimasti ignoti.
Se poi aggiungiamo i reati contro l’economia, che sono stati, sempre nel 1998, 4og.ooo, nonché
i 68.000 reati contro lo Stato, arriviamo ad oltre 3.000.000 di reati denunciati, per la precisione
3.091.000 reati; di questi, per 1’83.4% gli autori sono rimasti ignoti.
E’ evidente che ciò indica, da un lato, la straordinaria proliferazione del numero dei reati; dall’altro la risposta debolissima, in senso oggettivo, delle istituzioni preposte alla sicurezza.
Un ulteriore dato può apparire significativo: le condanne definitive per reati al 31/12/98 sono
state 302.666.
Solamente il 2.2% di queste condanne ha riguardato delitti perpetrati nell’anno di riferimento.
Analizzando i dati e le statistiche giudiziarie si può valutare che occorrono in media tra i quattro ed i cinque anni per giungere alla sentenza definitiva per un delitto denunciato.
Questo è un altro elemento che si aggiunge all’analisi dei dati sulla risposta alla criminalità ed
,I
alla criminalità diffusa in particolar modo.
Per quanto riguarda le tipologie dei reati, se analizziamo il dato degli ultimi due anni (‘98 - ‘gg)
possiamo registrare, da un lato, una riduzione importante degli omicidi di mafia, in misura pari al 40%
rispetto all’anno precedente.
Dobbiamo riscontrare invece un aumento dell’il% delle rapine, un aumento del 5% dei furti, un
del 24,5% degli Scippi.
aUIW?ntO
Possiamo quindi riscontrare che la criminalità diffusa, urbana, registra un aumento ed un incremento importante, mentre, fortunatamente, in questi due anni sono rimasti invariati gli omicidi (c’è anzi
un calo nel ‘gg dello 0.8% rispetto al ‘98 ed un calo, questa volta consistente, degli omicidi di mafia,
tra il ‘98 ed il ‘ gg).
Un altro elemento importante riguarda il volume d’affari della criminalitk
Canno scorso, nell’ottobre del ‘gg. la Confcommercio ha diffuso dei dati secondo i quali la criminalità trarrebbe un profitto di non meno di 40 mila miliardi annui dall’usura, 25mila miliardi dal traffico della droga. 14mila miliardi dallo sfruttamento della prostituzione, zomila miliardi dal contrabbando di merci (tabacchi in particolare) e dall’immigrazione clandestina, circa lomila miliardi dal traffico
delle armi e 18 mila miliardi dalle scommesse clandestine.
Dai dati che abbiamo indicato emergono i seguenti principali elementi dinamici: aumento esponenziale della criminalità diffusa, aumento esponenziale dei profitti e quindi della diffusione di denaro
frutto di traffico e di proventi illeciti, riduzione del tasso di definitività dei procedimenti e quindi della
capacità, in percentuale ovviamente, di risposta all’attacco delle organizzazioni criminali.
Alla fine del 1998,
cedimenti.
nei tribunali italiani erano pendenti, solamente per il penale, 5.200.000 pro-
Un ultimo dato può essere interessante; gli italiani affrontano per la sicurezza dei propri beni
spese largamente inferiori a quelle che sono affrontate dai cittadini degli altri paesi europei.
Recentemente la federazione nazionale delle imprese elettroniche ed elettrotecniche ha diffuso
dei dati secondo cui un italiano spende ogni anno in media solo 17mila lire per i sistemi di sicurezza,
mentre un cittadino tedesco ne spende 74mila, un cittadino inglese 62mila, un cittadino svedese
38mila ed un cittadino francese 28mila.
Quindi, in pratica, la percezione della possibilità di rimediare alla sicurezza e quindi, per così dire,
la cultura della sicurezza sono ancora poco diffuse nel nostro paese: le possibilità di apprestare delle
difese, dei sistemi di allarme o di prevenzione, sono tali da scongiurare, se questi fossero installati,
almeno il 65.70% dei furti nelle abitazioni.
La metà circa dei furti in appartamento si verifica, secondo dei dati statistici recenti, nel primo
pomeriggio, tra le 14 e le 18: ciò comporta un ulteriore fattore di rischio, cui si potrebbe rimediare con
opportune difese passive, che negli appartamenti siano presenti le persone maggiormente esposte
all’attacco della criminalità, come giovani, bambini, anziani, essendo quelle ore tipicamente lavorative
per i cittadini adulti.
Altri dati interessanti sono quelli che riguardano la criminalità internazionale: un rapporto della
Confcommercio del ‘gg fornisce una serie di numeri purtroppo davvero impressionanti: il denaro sporco riciclato ogni giorno è pari ad 1 miliardo di dollari; lo spaccio della droga porta alla criminalità internazionale ogni anno 450 miliardi di dollari; il commercio di armi, materiale atomico vale goo miliardi
di dollari; lo sfruttamento della prostituzione, il gioco d’azzardo e l’immigrazione clandestina portano
500 miliardi di dollari; 800 miliardi di dollari sono poi i proventi da attività finanziarie illegali.
Criminalità e sviluppo
Occorre ora riflettere sul rapporto tra la criminalit3
e delle attività produttive.
e la possibilità di sviluppo degli investimenti
Ribaltando, come si diceva prima, le tradizionali analisi sociologiche e seguendo le più moderne riflessioni sull’analisi economica del costo sociale della criminalità, noi dobbiamo anzitutto osservare che gli investimenti pubblici o privati e, quindi, la diffusione di ricchezza sul territorio costituiscono un effettivo impulso di rilancio di ciascuna area territoriale, quando sono preceduti da una seria
ricostituzione di condizione di legalità ed efficienza delle istituzioni per la sicurezza.
Altrimenti, vi è addirittura il rischio che i flussi di risorse vadano dispersi, male utilizzati, o peggio, costituiscano un apporto alla criminalità diffusa sul territorio.
E’ evidente che soltanto la forte risposta delle istituzioni alla domanda di sicurezza può contribuire alla costituzione delle regole che fanno ben funzionare un’economia di mercato.
Le precondizioni per le regole e le procedure che permettono produzione e scambio efficiente
delle risorse sono la sicurezza e la fiducia degli operatori. Se le regole del gioco non sono rispettate,
se non vi è una garanzia delle istituzioni pubbliche a che le regole del gioco siano rispettate, che le
condotte sleali siano sanzionate, è evidentemente impossibile pensare ad un equilibrato sviluppo e
quindi ad una possibilità di ritorno degli investimenti che vengano in qualche maniera diffusi in ciascun ambito territoriale.
Seguendo questa prospettiva, occorre osservare che la violazione delle regole del mercato, in mancanza di una garanzia delle istituzioni rispetto alla legalità, può determinare due differenti profili di rischio:
1.
2.
la violazione in sé;
la creazione di regole alternative a quelle legali con cui la criminalità organizzata, investendo i
flussi notevolissimi di risorse di cui dispone, può creare meccanismi di decisione autonomi e
alternativi rispetto alle regole del mercato.
Questo, è evidente, costituisce la fine del mercato legale. La fine in senso proprio, perché, evidentemente, rispetto al funzionamento di un mercato che richiede competizione e trasparenza emerge
un mercato dominato dall’illegalità e dalla devianza che impedisce qualsiasi realizzazione degli obiettivi di sviluppo equilibrato.
Ecco perché noi non possiamo immaginare che criminalità e risposta alla criminalità da parte
delle istituzioni siano a tali fini indifferenti ed, anzi, dobbiamo dire che sono fattori di cui tener conto
prioritariamente ai frni di immaginare qualsiasi programma di sviluppo, soprattutto per le aree meridionali o per quelle maggiormente colpite dall’attacco della criminalità.
Occorre quindi immaginare tre diversi filoni di risposta alla domanda di sviluppo del sistema
imprenditoriale nella legalità:
1. garanzia alla competizione effettiva sui mercati;
2.
ricerca di una sempre maggiore efficienza della amministrazioni pubbliche (e nel concetto di amministrazioni pubbliche è in primo luogo la risposta del sistema giudiziario, non soltanto per la giustizia penale, ma altrettanto per quella civile); il fenomeno della cosiddetta supplenza amministrativa mafiosa non si contrasta senza una svolta culturale ed ordinamentale nei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione;
3. una seria politica di prevenzione come presidio del territorio che richiede ovviamente degli investimenti collegati ai diversi tassi di rischiosità delle diverse zone del paese ed accompagnata ad
una seria analisi di costi-benefici di quel presidio del territorio.
E’ evidente che anche la dislocazione sul territorio della forze di polizia deve nascere da una
programmazione, sulla scorta dei dati statistici e di valutazioni rimesse non soltanto alla determina-
zione dello Stato centrale, ma anche degli enti territoriali.
E’ evidente che, nella strategia di occupazione del territorio e di prevenzione sul territorio, il
coinvolgimento dei sindaci, dei presidenti della province ed ancor più dei presidenti delle regioni dovrà
significare che dai responsabili del governo delterritorio dovranno venire contributi decisivi ed indispensabili; solo chi ha il governo del territorio e delle autonomie locali può conoscere dove i fattori di
rischio si saldano alla penetrazione ed alla pervasività della criminalità, filone per filone.
Ci sono aree in cui la criminalità si diffonde con determinate tipologie, altre aree
no dei radicamenti che portano alla prevalenza di altre diverse tipologie di reati e quindi
la prevenzione da parte delle istituzioni si deve commisurare non solo alla quantità dei
tipologia di reati diffusa in quel territorio ed alle tecnologie che le organizzazioni dedite
sione di ciascuna tipologia di reati utilizzano.
in cui esistola risposta e
reati, ma alla
alla commis-
Perché ovviamente a seconda delle tecnologie, della potenzialità di organizzazioni criminali,
deve variare la risposta. La risposta deve essere calibrata anche in termini preventivi dalle istituzioni
preposte alla sicurezza.
Le iniziat!ve de/ Governo
Le recenti iniziative, amministrative e normative, del Governo sono orientate verso una direzione contraria rispetto ai principi che sinora si sono delineati.
Ed infatti:
a) il “pacchetto sicurezza” del Governo, dopo oltre un anno di esame parlamentare, giunge per la
prima volta in aula alla Camera senza alcuna disposizione concernente la prevenzione, il controllo del territorio, gli strumenti operativi per avvicinare ai cittadini, sin dai quartieri, il presidio istituzionale a tutela della sicurezza;
b) nessuna iniziativa è stata adottata per adeguare alle nuove esigenze operative lo status giuridico
ed economico del personale delle forze di polizia, ad iniziare dalla valutazione adeguata dei
risultati per t’attribuzione di incentivi;
c) la politica di erogazione della risorse per il Mezzogiorno si è caratterizzata per interventi “a pioggia”, sempre avulsi da un piano di finanziamento preceduto da articolate verifiche sulla presenza
di condizioni di legalità sul territorio sui territori interessati, con riferimento ai livelli di pressione
e di oppressione della criminalità.
Ciò ha determinato, come i dati diffusi dimostrano, un arricchimento delle organizzazioni criminali presenti sul territorio.
2.6. Lo sviluppo sostenibile
Una questione aperta
C’è un conto aperto nella cultura di governo, in Italia, su una questione che impegna energie
crescenti in tutte le sedi sovranazionali e comunitarie. La comunità internazionale la definisce “sviluppo sostenibile” ed è, in poche parole, un approccio innovativo a un intreccio di problemi - crisi ambientale, sviluppo, impatto delle nuove tecnologie, riforme economiche, modernizzazione - cui tutti i paesi
devono trovare risposte.
Trascurata e mal conosciuta in Italia nei suoi elementi fondamentali, viene richiamata inconsapevolmente dai media con delle cronache movimentiste che indirettamente la riguardano. Come tutte
le questioni mature ma controverse, infatti, essa travalica le sedi istituzionali e alimenta anche proteste di piazza, quale quella di Seattle in occasione dell’avvio del Millennium Round della World Trade
Organization (Wto). Ma Seattle è solo un episodio, un sintomo da decifrare, in cui l’eterogeneità delle
istanze e il conservatorismo di molte di esse, l’anticapitalismo e l’ostilità alle innovazioni tecnologiche.
contano meno dell’onda lunga che le trascina. Vale a dire, l’emergere sulla scena internazionale, al di
fuori delle sedi istituzionali, di istanze “non negoziabili” di carattere etico e culturale che finora ave-
1
vano agito prevalentemente all’interno degli Stati.
La Wto è solo il segmento terminale di una questione irrisolta: che non è la globalizzazione,
ma l’esigenza di revisione delle tradizionali politiche economiche mediante l’integrazione in esse di
obiettivi di qualità ambientale, culturale e sociale. I colori del movimentismo, dunque, non devono
fuorviare: la protesta è l’avvisaglia di un processo profondo in cui sono formalmente impegnati da
quasi un decennio i maggiori attori internazionali. dall’onu all’Unione europea. E sono loro che la legittimano.
È importante capire dove può portare questo processo e come si posiziona in esso il nostro paese.
Sia per la rilevanza strategica dei problemi, sia per una migliore qualificazione della presenza internazionale dell’Italia. Incalzano due scadenze importanti: quella, già in corso, del varo del sesto
Programma dell’Unione europea per lo sviluppo sostenibile, che verrà adottato nel 2001; e quella prossima (2002) della verifica dei risultati del negoziato internazionale a dieci anni dalla Conferenza di Rio
de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo (Unced). È tempo che quel conto aperto venga definito.
Valenza politica di Rio
Sarebbe un errore dare una valutazione riduttiva del processo avviato a Rio de Janeiro o attribuire ad esso una valenza più moralistica che politica. Quella che può essere considerata il precedente
di Rio . la Conferenza Onu di Stoccolma del 1972 sull’ambiente umano - ha avuto effetti di grandissimo rilievo. Dopo Stoccolma, in tutto il mondo democratico la questione ambientale è stata incardinata nelle politiche pubbliche, sono stati istituiti ministeri dedicati e agenzie tecniche, la normativa
ambientale è diventata un filone permanente di regolamentazione delle attività produttive, la spesa
ambientale è notevolmente aumentata, il negoziato internazionale ha prodotto decine di trattati e convenzioni e, alla fine, è approdato all’Unced.
È improbabile che, nella lunga prospettiva, la Conferenza di Rio produca effetti meno imponenti. A Rio la comunità internazionale prende atto dei risultati raggiunti. ma constata anche che essi
non incidono sulle cause dei problemi né, soprattutto, sugli aspetti globali della crisi. La preoccupazione universalmente condivisa è che lo sviluppo dei paesi oggi sfavoriti, se attuato con le stesse
modalità dei paesi di vecchia industrializzazione, porterà a pressioni dalle conseguenze incontrollabili
sulle risorse naturali. D’altra parte non è possibile convincere con esortazioni virtuose le economie più
arretrate a seguire modelli diversi da quello storicamente realizzato nei paesi sviluppati.
Con Rio si chiude dunque la fase iniziata con Stoccolma e se ne avvia una nuova. L’attenzione
politica si sposta dalle misure ambientali settoriali alle prestazioni dei sistemi economici, siano essi
nazionali o regionali. L’obiettivo è il cambiamento del sistema delle convenienze economiche che regolano i mercati, mediante riforme strutturali che, oltre ad essere virtuose dal punto di vista ambientale, siano convenienti e appetibili per il Nord e per il Sud. L’indirizzo di sviluppo sostenibile, nato nell’ambito ambientale, punta così a modificare l’insieme’delle politiche di governo, a cominciare da quelle economiche. In tal senso, va accolta con favore la portata innovativa del Protocollo di Kyoto sui
cambiamenti climatici, che per la prima volta impone limiti quantitativi ai sistemi economici nazionali.
La
leadership dell’Unione
L’Europa rappresenta l’ambito regionale in cui appare più avanzato e organico’il tentativo di
dar corso agli indirizzi di Rio. Due elementi contraddistinguono in questa fase il ruolo dell’Unione: la
volontà di assumere la leadership del processo avviato dall’llnced (come avvenne per gli Stati Uniti ai
tempi di Stoccolma) e l’attenzione ai problemi attuativi.
Al Quinto Programma d’azione (“Per uno sviluppo durevole e sostenibile”, Bruxelles, maggio
1992). predisposto in contemporanea alla Conferenza di Rio ma formalmente deliberato nel 1993, si
affianca l’inserimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile nei Trattati dell’Unione, che ne fanno tosi
un impegno vincolante. Nel corso degli anni, oltre ai documenti di revisione del Quinto Programma,
numerose elaborazioni programmatiche definiscono le linee guida per l’integrazione degli obiettivi di
sostenibilità ecologica e sociale nelle politiche dell’Unione. Il processo è ancora parziale, ma nell’insieme prende forma il disegno di una modernizzazione di ampia portata, che sommariamente è der?
nita nel seguente modo:
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politiche macroeconomiche robuste;
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politiche occupazionali che migliorino il funzionamento dei mercati del lavoro;
. riforme economiche che promuovano la competitività, t’imprenditorialità e la concorrenza, favoriscano uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ecologico, siano di beneficio ai consumatori, riducano gli oneri amministrativi, rendano più efficienti i sistemi fiscali e previdenziali;
. riforme strutturali nei settori chiave: industria, trasporti, energia. agricoltura, turismo, consumi.
Una “Europa sostenibile”
Cobiettivo di una “Europa sostenibile” non porta a un nuovo statalismo. L’Unione enfatizza il
ruolo primario del mercato, della libera concorrenza e dell’imprenditorialità come strumenti di sviluppo e valori da garantire; ma con la stessa forza formale indica obiettivi che vanno al di là di un elevato livello di protezione ambientale, pur considerato “un prerequisito dello sviluppo sostenibile”, per
dare risposta a questioni cruciali: le dimensioni globali della crisi ambientale e la creazione di condizioni per uno sviluppo sostenibile su scala planetaria; il recupero dei ritardi della politica rispetto alle
grandi trasformazioni tecnologiche ed economiche in atto; la correzione delle distorsioni strutturali
delle economie europee dal punto di vista ambientale e sociale.
La sfida si gioca sulla capacità d’inserire una prospettiva di lungo periodo nelle politiche quotidiane, senza cadere in un dirigismo vecchia maniera, in contrasto con le posizioni liberalizzatrici consolidate all’interno dell’Unione. Di qui la preferenza per strumenti di governo “leggeri”, di orientamento - in primo luogo, strumenti volontari e di mercato - al posto degli strumenti “pesanti” delle politiche di comando e controllo. Di qui l’accantonamento della “illusione normativa”, che individuava nella
legge lo strumento principe per la soluzione dei problemi, e un rilancio del primato della politica intesa come progetto, con un ruolo più leggero e delimitato rispetto al passato ma, insieme, più forte e
penetrante, soprattutto nelle sue funzioni base di orientamento e controllo.
Si tratta dunque, non di un ampliamento della presenza pubblica nell’economia, ma di una revisione delle misure d’intervento sul mercato, al fine di correggere le due maggiori distorsioni presenti
nelle economie europee: il sottoutilizzo della risorsa lavoro e l’uso eccessivo di risorse naturali.
L’obiettivo intermedio - in cui si realizza l’integrazione tra la sostenibilità ecologica e la promozione di
nuova imprenditorialità e occupazione - è costituito da un sostanziale mutamento del sistema delle
convenienze economiche, mediante:
. una ristrutturazione del sistema degli incentivi che penalizzi le attività a maggiore intensità materiale e a forte impatto ambientale;
. una riforma in senso ecologico della fiscalità, con un progressivo spostamento del carico dalla produzione di valore aggiunto e dall’utilizzo di lavoro al consumo di risorse naturali, a invarianza di
gettito complessivo.
Nell’ultimo decennio si è molto sviluppato il dibattito sulla valutazione monetaria dei costi
esterni e sugli strumenti migliori per ridurli, internalizzandoli nei prezzi di mercato. Particolarmente
importante il programma di ricerca denominato ExternE, avviato nel 1990 dalla Commissione europea.
Da un certo punto di vista, la valutazione dei costi esterni, considerata uno degli strumenti base della
strategia di sviluppo sostenibile, alimenta l’ipotesi più conseguente ed estrema di libera concorrenza.
L’incontro tra i due tradizionali nemici - l’ambiente e il mercato - ha dunque trovato anche solidi strumenti scientifici.
Il “Fattore Europa”
L’Unione ha definito il quadro strategico di riferimento e avviato l’opera di riscrittura delle politiche d’intervento e la predisposizione di strumenti scientifici adeguati, puntando soprattutto all’integrazione delle politiche. Risultano coinvolte, oltre naturalmente all’ambiente, le principali politiche d’intervento, anche quelle attualmente delegate alla sussidiarietà: industria, agricoltura, energia, trasporti,
turismo, consumi, mercato unico, riforme economiche, fiscalità, politiche occupazionali, appalti pubblici, aiuti di stato, cooperazione allo sviluppo, ampliamento dell’Unione, commercio internazionale, strumenti volontari, ricerca e innovazione, sicurezza alimentare, e così via.
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In tutti questi ambiti è in corso il lavoro d’integrazione degli obiettivi generali di “sostenibilità
dello sviluppo”. Si è ancora agli inizi, permangono aree scoperte e nodi importanti irrisolti, molte sono
le contraddizioni: il processo sarà condizionato anche dal modo in cui saranno risolte le questioni istituzionali che emergono all’interno dell’Unione. Non reggerà a lungo, ad esempio, la rigida separazione tra l’ambito delle politiche comunitarie - in primo IuogO, il mercato unico, l’armonizzazione fiscale,
la libera circolazione delle merci - e quello della sussidiarietà, almeno nei modi in cui oggi è intesa,
specie per quanto riguarda l’integrazione delle politiche. Ma con il Quinto Programma e con le successive elaborazioni programmatiche I’Ue si è spinta molto oltre l’ambito delle normative, per entrare
direttamente nel merito delle politiche: un ritorno al passato non appare probabile.
Occorre tener presente un altro elemento: il quadro di riferimento delle politiche, che individua
obiettivi, linee guida e modalità dei processi decisionali costituisce una decisione formale e consolidata negli anni. Ci sono dunque tutti gli elementi per concludere che si è in presenza di un processo
irreversibile, che nel prossimo futuro innoverà profondamente le materie politiche che oggi sono dominio degli Stati membri. Lo stesso mercato unico, in cui finora t’integrazione degli aspetti ambientali è
stata limitata all’applicazione uniforme della normativa, potrà diventare il volano decisivo delle strategie di sviluppo sostenibile.
Molte delle cose che avverranno nell’ambito delle politiche economiche europee sono già scritte nelle carte di Bruxelles. Il peso del Fattore Europa, insomma, è destinato a crescere enormemente
anche, è ovvio, nelle cose italiane.
Italia: un processo incompiuto
In passato, caso unico tra tutti i paesi maggiormente industrializzati, l’Italia ha sostanzialmente ignorato la Conferenza di Stoccolma del 1972. Un dato fornisce la misura del disimpegno: l’istituzione di un ministero dedicato. A parte alcuni tentativi privi di seguito (nel 1973
viene nominato un Ministro per l’ambiente senza portafoglio, le cui funzioni sono trasferite l’anno dopo al Ministero per i beni culturali; nel 1979 viene istituito un “Comitato interministeriale
per la protezione dell’ambiente”), solo nel 1983, con il primo Governo Craxi, viene nominato un
Ministro per l’ecologia senza portafoglio e, nel 1986, istituito il Ministero dell’ambiente.
Il ritardo accumulato nei confronti dei paesi più avanzati è di un quindicennio; sale a
vent’anni se si considera l’istituzione di un’agenzia tecnica per l’ambiente (1994). Per di più, quest’ultimo atto non è l’effetto di un’evoluzione istituzionale ma di un’iniziativa referendaria e poi
parlamentare promossa da una associazione ambientalista; viene a lungo osteggiato dal
Ministero dell’ambiente e oggi segna sviluppi significativi soprattutto nelle regioni meglio attrezzate; al centro, invece, il completamento del processo di istituzionalizzazione segna il passo, il
problema di una qualificazione tecnica dell’azione amministrativa rimane irrisolto.
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Non è identificabile una politica di governo.
Manca l’attrezzatura di base necessaria per l’elaborazione e la verifica delle politiche, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza dello stato dell’ambiente. Il sistema dei controlli non
garantisce né conoscenza né certezza del diritto.
Le procedure autorizzatorie, burocraticamente ridondanti e barocche, opprimono le imprese
senza tutelare seriamente l’ambiente.
Le stesse normative ambientali, che pure rappresentano il risultato più consistente, presentano problemi enormi di semplificazione, armonizzazione, efficacia.
Tra le diverse aree del paese esistono gravi squilibri in termini di gestione del territorio, di
attività sommerse ed abusivismo, di elusione normativa.
Gli amministratori pubblici, nei diversi ambiti e ai diversi livelli, si muovono in modo separato, al di fuori di qualsiasi progetto condiviso.
A questi vecchi problemi, si aggiungono oggi quelli posti dal nuovo indirizzo di sviluppo
sostenibile.
Un attivismo senza conseguenze sul piano interno
In molti casi, sia a Rio che nel successivo negoziato internazionale, l’Italia ha assunto un ruolo
di punta, aggregandosi in genere agli Stati più avanzati. Ma, ad una verifica di qualità ed efficacia, l’attivismo italiano appare povero di contenuti concreti; gli impegni internazionali non hanno significative
conseguenze all’interno. Ne deriva una sorta di asimmetria tra teoria (gli impegni formalmente assunti) e prassi, che pone problemi più complessi di quelli affrontati in passato in relazione ai ritardi nel
recepimento della normativa comunitaria.
Poco adeguato anche il ruolo dell’Italia nei confronti dell’Unione. Sono stati fatti molti progressi
nel recepimento della normativa comunitaria, ma nessun passo avanti sul piano più impegnativo delle
politiche. L’elaborazione che ha portato al Quinto Programma del 1992 si è sviluppata senza nostri
apporti significativi, come peraltro dimostra la mediocrità e la disomogeneità del Piano nazionale di
sviluppo sostenibile approvato dal CIPE nel dicembre 1993. E alla scadenza della verifica del Quinto
Programma e dell’elaborazione del nuovo, l’Italia si presenta priva di idee, di esperienze e persino di
studi.
È in discussione la capacità di governo. Non è pensabile di ottemperare agli impegni internazionali e comunitari - che costituiscono ormai un complesso imponente - e neanche di perseguire
obiettivi specifici di sostenibilità (ad esempio gli impegni di Kyoto) a sistema invariato, con l’amministrazione e l’economia orientate in modo difforme, interpretando quegli impegni come costi aggiuntivi
da far pagare alle imprese.
Malgrado il moltiplicarsi dei tavoli interministeriali, le politiche di governo non rispondono a criteri d’integrazione; ancor meno i singoli provvedimenti. Ciò vale per i diversi livelli e settori dell’amministrazione. Nessun elemento d’integrazione neanche nell’attività delle Autorità indipendenti, in particolare
per la libera concorrenza e l’energia. Ma, d’altronde, come integrare politiche inesistenti?
Preoccupa~ancor più che ai riferimenti rituali allo sviluppo sostenibile - ridotto al rango di giaculatoria - si accompagni un vuoto di dibattito, di confronto tra istituzioni e società su ipotesi concrete di obiettivi, strategie, risorse, strumenti e tempi; in modo da sollecitare anche quelle attività conoscitive, di approfondimento e ricerca che finora sono mancate. Gli enti scientifici nazionali, su questi
punti, sono di fatto fuori del circuito internazionale, improduttivi.
Analoghe carenze si riscontrano nella valutazione dell’impatto delle nuove tecnologie, su cui lo
Stato non è attrezzato per giungere a posizioni fondate e su cui nulla investe in ricerca e nulla progetta, con la prospettiva di una sostanziale rimozione che metterebbe a rischio, sia gli obiettivi di
sostenibilità, sia la competitività del sistema nazionale.
Tutto ciò è favorito, oltre che dalla storica incapacità di immaginare ed attuare politiche di
ampio respiro, da un inspiegabile regime di separatezza tra gli indirizzi programmatici comunitari e
l’ambito politico nazionale. E’ come se i governanti italiani lasciassero in valigia le carte che sottoscrivono a Bruxelles. Molte delle più accese controversie politiche nazionali si sviluppano su questioni che
a livello comunitario sono decise da anni e che il nostro Governo non può rimettere in discussione, si
tratti degli indirizzi per le riforme economiche o degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Qualunque sia
la chiave interpretativa - arretratezza culturale, tradizione provinciale, scelta deliberata quel che conta
evidenziare è il problema politico di una disomogeneità di fondo tra gli indirizzi di governo nazionali
e le strategie comunitarie.
Una strategia adeguata al rango del paese
Anche a causa di questa separazione, il nostro paese appare dominato da pratiche e culture
arretrate. Delle novità più importanti contenute negli indirizzi comunitari - tra cui spicca un’ambiziosa
riforma fiscale - discutono pochi addetti ai lavori; mentre il dibattito politico le ignora e s’irrigidisce
nella contrapposizione - che si dovrebbe tentare di superare - tra iniziativa economica e difesa dell’ambiente. In tal modo, dentro le istituzioni e nella società prevalgono i portatori d’interessi particolari e i faziosi. La scena del dibattito tra ambiente e sviluppo è occupata da un antagonismo che non
lascia spazio a un confronto ragionato e alla ricerca di soluzioni innovative.
Da una parte ci sono quegli ambientalisti che dicono sempre e comunque “no”. Dell’indirizzo
di sviluppo sostenibile, costoro accettano solo alcuni elementi; sviluppo-e capitalismo sono il male
assoluto, l’era preindustriale il paradiso perduto; risolvere problemi non è compito loro. Sono contro
il trasporto su gomma, ma combattono strenuamente i progetti di alta velocità che sono indispensabili per un rilancio della modalità ferroviaria; s’indignano per lo smaltimento abusivo dei rifiuti, ma
contrastano gli impianti di termodistruzione; protestano contro qualunque iniziativa produttiva, anche
quando migliora le condizioni di sicurezza di un’area. Ci sono poi, fenomeno nuovo degli ultimi anni,
gli ambientalisti che praticano la protesta a seconda del colore politico di un governo, di una regione,
di un comune, dando luogo di volta in volta a denunce indignate o a rispettosi silenzi. Sembra di parlare dei primordi, ma l’analisi riporta fedelmente le tendenze oggi prevalenti nell’ambientalismo.
Dall’altra parte e in modo speculare, la cultura diffusa in gran parte della classe dirigente e
nelle istituzioni porta a concepire la dissipazione delle risorse naturali e del patrimonio culturale come
una condizione inevitabile dello sviluppo economico. Gli “istinti animali” di molti amministratori pubblici portano fatalmente al cemento, ai cantieri. alle grandi opere: “realizzate non perché servissero o
indipendentemente dal fatto che servissero”, affermava due anni fa il Ministero dei lavori pubblici, riferendosi impropriamente al passato. Sovrano è poi il disprezzo per i paesaggi italiani, che agli occhi di
molti valgono ancor meno dei beni artistici e culturali. Ne deriva un costante impoverimento culturale
ed ecologico come effetto delle opere pubbliche e degli insediamenti produttivi e civili, compresi quelli turistici che traggono la loro ragione economica dalla fruizione di quel patrimonio che spesso contribuiscono a distruggere. Tutto questo può trovare comprensione quando si verifica in un paese
dell’Europa orientale attanagliato da problemi tremendi; ma non è consono alla posizione internazionale del nostro paese - al vertice della gerarchia degli Stati sviluppati - né al livello culturale e di
benessere dei cittadini.
Questi residui di mentalità di tipo pauperistico e fazioso ostacolano la costruzione di una politica adeguata al rango dell’Italia. Un paese altamente sviluppato del G7 e dell’Unione europea ha delle
responsabilità cui non può rinunciare: tener fede agli impegni internazionali, dare il proprio contributo alla soluzione delle crisi globali e, all’interno, orientare il sistema nazionale verso ambiziosi obiettivi di qualità ambientale e sociale. Un paese che ha superato da mezzo secolo il problema della
povertà di massa può e deve perseguire tali traguardi. I due elementi - la responsabilità internazionale e la qualità interna - non rappresentano finalità separate, ma si unificano nell’orientamento europeo verso lo sviluppo sostenibile, che peraltro i nostri Governi sottoscrivono senza riserve nelle sedi
comunitarie. Le vecchie contrapposizioni possono essere superate solo con un progetto nazionale di
buongoverno, fondato sulla condivisione di un sistema coerente di obiettivi e di regole.
Primi elementi di un’agenda
La lista delle questioni aperte è talmente lunga da imporre una drastica selezione. In questa
sede, come prima annotazione di un’agenda provvisoria, si accenna a quella che appare più controversa ed attiene alla governabilità, alle realizzazioni e alla loro compatibilità con le istanze ambientali: ambiente uguale indecisione, stallo, inerzia?
Sarebbe grave se, su questo quesito antico, si pensasse di provocare una sorta di prova di
forza definitiva. L’Italia non ha bisogno di ritorni al passato, che l’allontanerebbero irrimediabilmente
dagli orientamenti comunitari. L’inerzia danneggia tutti, fa male all’economia e non risolve alcun problema ambientale. Gli obiettivi dello sviluppo e della sua-sostenibilità ecologica richiedono politiche
attive, forti e innovative.
Il punto è proprio questo. C’è certamente un problema di dissenso ambientalista, che assume anche
forme strumentali, o irresponsabili; ma basta questo a paralizzare lo Stato? Molti osservatori mettono
piuttosto in evidenza l’inadeguatezza, lo scarso rendimento, l’arretratezza dell’azione amministrativa e
di governo, come cause strutturali dell’incapacità di governare i problemi e di comporre in modo lungimirante i conflitti.
Una domanda crescente di politica ambientale
Il problema del consenso non è riducibile a quello delle proteste organizzate, né alla cifra elet-
torale di un partito, ma va rapportato al protagonismo crescente dell’opinione pubblica, ai suoi orientamenti, agli interessi e valori che essa considera indisponibili e sovraordinati rispetto alla politica. Tra
questi (tutti i sondaggi lo confermano) l’ambiente, i beni culturali, il territorio sono stabilmente nella
fascia alta delle preoccupazioni. In prospettiva, I’agorà telematica renderà questo protagonismo ancora più invasivo e porterà ad ulteriori limitazioni della discrezionalità delle decisioni politiche, insieme
con una richiesta sempre più stringente di trasparenza a fini di conoscenza e controllo. Lungi dal tentare di rimuoverle, l’uomo di governo deve saper monitorare queste tendenze positive e offrire gli
opportuni sbocchi politici. La semplicità del comando/controllo
è finita per sempre.
e
La ricerca del consenso richiede innanzitutto che si migliori la qualità delle decisioni politiche
dell’azione amministrativa.
Applicabilità della normativa
Una prima questione riguarda la credibilità della normativa ambientale. Sin dalla legge Merli
sulle acque (legge 319/76), la cui applicazione subì numerosissime proroghe e deroghe, l’effettiva applicazione delle leggi ambientali e la loro efficacia sono sempre state un problema. Tipico il caso dei rifiuti, una delle maggiori emergenze nazionali, la cui prima regolamentazione quadro risale al 1982 (DPR
915182); a questa legge, dopo una macchinosa decretazione attuativa, seguono la legge 441187, la
legge 475/88 e, in ultimo, il D.lvo 22/97. Passato un ventennio, si è ancora impegnati nell’attività di
applicazione della normativa; mentre, come sempre avviene quando gli ambiti legali sono incetti, limitati o troppo costosi, lo smaltimento abusivo continua.
Altro caso è quello degli impianti industriali pericolosi. La prima regolamentazione viene approvata dodici anni dopo t’incidente di Seveso (DPR 175/88); le attività di controllo non decollano e nel
‘94 comincia una serie di decreti-legge mai approvati dal Parlamento e reiterati per tre anni, fino all’approvazione della legge 137/97. A un quarto di secolo da Seveso, l’attività di controllo registra un arretrato notevolissimo; e la nuova legge la potenzia ulteriormente, senza che vengano indicate misure
attuative.
Entrambi questi casi ci dicono che c’è un difetto perdurante di qualità della legislazione, di concretezza, di efficacia, cui porre con urgenza rimedio. C’è anche un fenomeno esteso di elusione che
getta discredito su tutta la normativa in quanto, paradossalmente, non è imputabile solo alle imprese
e ai cittadini ma, in misura straordinaria, alla stessa pubblica amministrazione. Basti per tutti il caso
della depurazione delle acque, che presenta vistosi vuoti anche nelle aree più avanzate del paese. Ci
sono inoltre problemi di ridondanza, di incomprensibilità, di disomogeneità (si tratta in generale di normative di settore che si sono stratificate nel tempo, indipendentemente t’una dall’altra), che impongono uno sforzo intenso di armonizzazione, semplificazione, aggiornamento; e di tagli. Cesperienza ci
dice infine che assai difficilmente un problema complicato si risolve con una legge, con un comando.
Una legge serve a poco, se manca una politica.
Semplificazione burocratica e federalismo amministrativo
Un’altra questione assolutamente prioritaria è la semplificazione amministrativa, che riguarda
l’efficienza dello Stato, la vita delle imprese e dei cittadini ed è condizione di efficacia delle politiche
e quindi anche di tutela dell’ambiente. Essa deve andare molto al di là della pur meritoria riforma
Bassanini, attuare pienamente t’indirizzo federalista, riprogettare i processi decisionali e quelli attuativi, l’azione amministrativa nel suo insieme e la stessa produzione legislativa. Occorre in particolare
sveltire drasticamente le procedure di autorizzazione e controllo, fondare la garanzia di conformità su
autodichiarazioni certificate da terzi, riprogettare i controlli ambientali in modo da garantirne I’effettività e l’efficacia ai fini, sia della vigilanza, sia della conoscenza.
Occorre rilevare alcune distorsioni dei procedimenti autorizzatori che vanno sanate.
Normalmente gli aspetti ambientali, come quelli relativi ai beni culturali ed alla sicurezza, non vengono considerati in modo adeguato all’interno della decisione economica e nella stessa fase attuativa,
compresa la progettazione delle opere. A queste carenze, sul piano amministrativo, si è risposto con il
vincolo (ad esempio, archeologico) e con la valutazione d’impatto ambientale, due strumenti di tipo
difensivo che dovrebbero apportare correzioni end-of-pipe. Cesperienza ha chiarito i limiti della loro
efficacia ma, nel caso della VIA, anche la probabilità di un uso improprio.
In un sistema ottimale, la VIA dovrebbe essere integrata fin dall’inizio nella progettazione e sottoposta alla verifica di un’autorità scientifica (in passato,‘< è tentato di attribuire la verifica alle Agenzie
ambientali istituite dalla legge 61/g4), nell’ambito di un procedimento autorizzatorio unitario. Nella
realtà, l’istituzione della VIA non ha portato a una modifica del procedimento di autorizzazione, ma ha
aggiunto una procedura parallela. In tal modo, in assenza di un confronto preventivo sul merito delle
politiche, la conflittualità si scarica di norma sul singolo progetto e sull’unico strumento disponibile la VIA cui vengono attribuite valenze improprie ed eccessive fino a renderlo, nei casi di acuto conflitto, del tutto incerto. Diventa così il collo di bottiglia del procedimento amministrativo. Ne risulta
modificata anche la sua natura, che da tecnica si tramuta in un ibrido tecnico/politico, in cui il parere
scientifico viene soverchiato dalla discrezionalità politica. È opportuno che queste distorsioni vengano
corrette.
I/ ruolo de/ servizio scientifico
Altro problema da risolvere, ai fini del consenso, dell’efficacia e della semplificazione delle politiche, è quello di un ruolo appropriato del servizio scientifico. Si tratta di un elemento essenziale delle
moderne politiche, che dovrebbe essere potenziato e posizionato in modo corretto all’interno del processo che si conclude con la discrezionalità della decisione politica. Come già avviene nelle materie
economiche, tale discrezionalità va esercitata sulla base di elementi tendenzialmente obiettivi, quali
quelli derivati da una valutazione scientifica espressa da soggetti autorevoli e credibili, cioè competenti, indipendenti ed orientati all’efficienza. Cindipendenza è anche un elemento di garanzia per l’opinione pubblica ed è funzionale quindi all’acquisizione del consenso.
// nodo politico
Tuttavia la questione centrale è di natura politica e non si risolve con mezzi tecnici né burocratici. Gli assetti istituzionali non sono orientati alla soluzione dei problemi - oggettivamente conflittuali, connotati cioè dalla competizione tra usi e attività diverse che insistono su matrici fisicamente
limitate: insomma, non tutto si può fare - ma li riflettono passivamente. razione amministrativa si sviluppa in ambiti separati, tra i quali di norma non c’è convergenza di obiettivi e indirizzi, né coordinamento, né collaborazione, ma piuttosto rivendicazioni di poteri e competenze, comportamenti dissonanti, esasperata pratica dell’interdizione; in breve, una conflittualità che investe tutti gli ambiti e livelli di governo e produce un vero e proprio scollamento istituzionale. Al centro, la materia ambientale è
gestita e rappresentata da un Ministero in competizione forzata con quasi tutti gli altri, la cui azione
istituzionale produce pressioni sull’ambiente. In questo assetto sono praticabili solo cedimenti, ma
nessuna sintesi.
Non sono i tavoli interinali e le conferenze di
un punto di equilibrio dinamico, sostenibile nel tempo,
nel superamento del carattere residuale delle istanze di
culturali, mediante l’integrazione di esse in un sistema
tiche di governo.
servizio che possono permettere di individuare
tra esigenze conflittuali. Una prima risposta sta
tutela dell’ambiente, del paesaggio e dei beni
unitario di obiettivi che regoli le diverse poli-
Nessuno degli obiettivi prioritari - sviluppo economico, sostenibilità ecologica di esso, qualità
sociale e culturale, sicurezza - è subordinato agli altri, ma questo non porta necessariamente all’immobilismo. La responsabilità della politica è la decisione. E la combinazione tra elementi diversi può
essere trovata al livello della decisione complessiva di compatibilità - possibile solo se si condividono gli stessi obiettivi e le stesse regole - da cui discende l’individuazione di quello che si può e di
quel che non si deve fare. Pensare di trasferire ciò sulla singola opera o iniziativa non sana ma amplifica il conflitto, in quanto riduce le opzioni all’alternativa secca tra vittoria e sconfitta, e induce squilibri nel sistema degli obiettivi, siano essi ambientali, economici o culturali. Inoltre, rimettendo in
discussione un processo decisionale ormai arrivato al suo sbocco finale, è fonte d’incertezza.
Ciò è ancor meno giustificabile da un punto di vista ambientale. In un determinato territorio,
una singola opera, uno scarico, un camino possono andar bene, cento no. La motorizzazione privata
è una conquista di mobilità e, quindi, di libertà; ma 30 milioni di auto in Italia rappresentano un grave
problema economico, ambientale e sanitario e, a causa della congestione, impediscono la stessa libertà
di movimento. Si può certo discutere di una tratta
, autostradale, di un asse ferroviario, di un manufatto; ma se non si dice se e come s’intende affrontare, ad esempio, il problema della crescita abnorme
del trasporto su gomma e a quali investimenti alternativi si dovrà rinunciare, in base a quali criteri si
prenderà posizione? Non c’è nel paese un confronto serio su simili problemi: perché non tentarlo?
2.7. Le politiche per la ricerca: non siamo in Europa
Premessa
Nel documento Murst che accompagna la stesura della legge sul riordino della ricerca, n. 297
del luglio 99, si può leggere che “nell’ultimo decennio si registra una sistematica emarginazione di settori produttivi ad alta intensità di conoscenza, con il conseguente abbassamento di specializzazione
tecnologica del sistema industriale nazionale aggravato peraltro dai nuovi assetti delle grandi imprese
operanti nei settori dell’energia e delle telecomunicazioni. Inoltre i settori che specializzano il sistema
industriale nazionale esplicitano una domanda di ricerca da due a quattro volte inferiore alla media
europea”. Ed anche che “i dati e le tendenze dell’ultimo decennio, riferiti alla capacità scientifica e tecnologica necessaria per innovare evidenziano una vera e propria deriva del nostro Paese dall’Europa e
più in generale dal contesto dei paesi industrializzati con i quali dobbiamo competere”. Affermazioni
che corrispondono a quanto da sempre pensano e dicono coloro che vivono nel mondo scientifico. Non
a caso il rapporto Cnr per il ‘98 si apre affermando che “Se ci fosse una Maastricht della sola ricerca,
il nostro paese non sarebbe entrato in Europa”.
Cause ed effetti della mancanza di preparazione tecnologica
Se è vero che la accelerazione dello sviluppo economico che si sta verificando è legata soprattutto alla tecnologia, non siamo preparati per una serie di motivi che vengono dal passato.
Il primo motivo è legato al fatto che per decenni è prevalso, nella cultura e nella politica, un
atteggiamento, se non antiscientifico,
quanto meno ascientifico. La scienza non ha mai fatto parte degli
interessi dei cosiddetti intellettuali italiani. Con un importante paradosso: il progresso produttivo ed
economico del mondo è stato creato in consistente parte da scienziati italiani che sono emigrati, non
trovando le condizioni idonee per esprimersi in Italia.
Prima di ogni altra cosa, quindi, una questione di mentalità, mentalità radicata. solida, piena
di certezze e per questo difficile da rimuovere. Un esempio fra tanti: nell’immediato dopoguerra, e per
alcuni decenni successivi, l’Italia non prevedeva la brevettazione dei farmaci. Per una serie di motivazioni ideologiche del tipo “non si può creare profitto sulla salute”. È servito a stroncare sul nascere
una solida ricerca, e di conseguenza una solida industria italiana. È servito a dipendere dall’importazione, rinunciando ad una attività nella quale gli altri creavano ricchezza.
I risultati parlano chiaro. Qualche dato:
1) Finanziamento della ricerca: nel decennio ‘90.‘98 si registra un tasso di crescita negativo in termini reali. Con 1’1.03% del PIL(1,3 nel ‘90) siamo fra gli ultimi in Europa, insieme a Spagna, Portogallo
e Grecia che tuttavia presentano una tendenza positiva e ci stanno superando
2) Il numero di ricercatori su IOOOO lavoratori è la metà rispetto agli altri paesi. Fra il ‘90 e il ‘97 esso
è aumentato del 6%,contro il 22% della Francia, il 50% della Spagna (che ci supera), il 25% del
Giappone, il 100% della Finlandia. L’età media dei ricercatori è assai alta: 45, 55 e 60 anni per ricercatori, associati ed ordinari universitari, 48 anni per CNR ed ENEA.11 che significa che non vi è stata
la necessaria immissione di giovani, e che nei prossimi 5 anni il 30% degli addetti andrà in pensione.
3) Per ricerca di base si spende lo 0,24% del PIL contro lo 0.50% della Francia, lo 0,42% degli Stati
Uniti, lo 0,35% del Giappone. Nelle imprese, tale valore in Italia è fermo allo O,OI%, contro lo 0.06%
in Francia, lo 0.11% negli Usa, lo 0.13% in Giappone.
4) Il livello di istruzione universitaria nei giovani sotto i 35 anni è la metà dei paesi Ocse. Nella fascia
1
5)
6)
7)
8)
g)
io)
vità
fra 25 e 64 anni su IOO individui 8 hanno livello di istruzione universitaria contro 13 per la media
Ocse, ig per la Corea del Sud, 13 per Germania ed Inghilterra, IO per la Francia.
La spesa per studente universitario è circa un ferzo della media Ocse.
La Pubblica Amministrazione esprime scarsa domanda,,& ricerca, a conferma di una generale arretratezza.
È scarsa la presenza di spin-off della ricerca. Ciò è dovuto (MURST) a carente normativa brevettuale, inadeguatezza del sistema finanziario e bancario, carenza di incubatori nelle università.
Fra i paesi industrializzati, L’Italia si colloca agli ultimi posti per quanto concerne la frazione di valore aggiunto hi-tech sul totale manifatturiero (con un regresso, mentre gli altri progrediscono), la
frazione di export hi-tech sull’export manifatturiero, l’incidenza dei sistemi computerizzati sull’efficienza del lavoro, l’incidenza della spesa R&D sul valore aggiunto della produzione.
Nel panorama brevettuale l’Italia esporta il 3,5% dei brevetti europei contro il 6,g% della Francia,
il 1g,6% della Germania, il 4,8% della Gran Bretagna.
Il numero degli utenti Internet su IOO abitanti è pari al 34% della Germania, 17% della G.B., ah’8
degli USA.
Un discorso a parte merita la burocrazia. Questa non colpisce solo un settore, ma tutta I’attinazionale.
Se ci riferiamo alla ricerca ed all’innovazione, non possiamo non sottolineare che in nessun
altro settore il fattore tempo è altrettanto vitale. Nei nuovi prodotti, nei nuovi mercati, o si arriva primi
o è inutile arrivare. La burocrazia scoraggia soprattutto le nuove iniziative, proprio quelle più interessanti sotto il profilo delle alte tecnologie.
In questo contesto certo non incoraggiante, vi sono poi alcuni elementi negativi tipici della
ricerca. Dei finanziamenti si è detto, ma vi è una aggravante: se si considera che per ottenere questi
finanziamenti, e poi per spenderli, occorre cimentarsi con infiniti vincoli burocratici, si deve concludere che oltre ad essere scarsi i nostri fondi hanno una efficacia minore di quanto dovrebbero e potrebbero.
Una situazione grave, costruita in decenni di sottovalutazione del problema. A tutto questo non
è estraneo il sistema bancario italiano, che lavora sul patrimonio e non sul rischio. Questo penalizza
fortemente le nuove iniziative, quelle che hanno bisogno di capitale di rischio, di investitori che puntano il loro denaro su una idea, su un ragazzo in uno scantinato o su un professore che fonda una
impresa su una idea. Il meccanismo, per intendersi. che ha dato inizio all’elettronica ed alle biotecnologie negli Usa.
I/ ruolo dei gruppi stranieri
In questo quadro certamente non allettante né positivo è sopraggiunto per l’Italia un periodo
certo non felice, nel quale - accanto a tutta una serie di problematiche ed accadimenti che non riguardano ricerca ed innovazione -si è sviluppato ed esteso il fenomeno delle acquisizioni dall’estero delle
principali imprese dei settori trainanti dell’economia. Sono passate in mani straniere le industrie della
siderurgia, della chimica. della farmaceutica, auto, alimentari, molte società di ingegneria, società di
servizi. Spesso i centri di ricerca vengono ridimensionati o soppressi, con centralizzazione della ricerca nella casa madre. Questo ha diminuito la già scarsa presenza della ricerca industriale, sia applicata, sia di base. Inquietante quanto si è verificato nei centri industriali di ricerca farmaceutica: ora che
le conquiste sul genoma aprono prospettive formidabili, i ricercatori industriali del settore sono calati
da seimila a cinquemila negli ultimi anni. Con qualche eccezione ed esempi in controtendenza, fra i
quali, importantissimo, l’annunciata costituzione in Italia di un centro di ricerca dalla Lucent Tech.
Rimuovere g/i ostacoli
Cosa fare? Non esistono ricette magiche, che consentano di mutare all’istante una situazione
così radicata nel tempo, che la maggior parte dei Ministri della Ricerca che si sono succeduti (alcuni
dei quali provenienti dal mondo scientifico), salvo alcune eccezioni, hanno cercato di modificare in
meglio. Ma evidentemente, come sopra sottolineato, il contesto non era ricettivo. La legge 297 del
luglio oo ha modificato in senso positivo una serie di punti normativi, e si è agito sul piano normativo anche in termini di autonomia delle università. È ovvio che un aumento delle spese di ricerca, previsto e di recente annunciato per i prossimi cinque anni, se realizzato, sarebbe salutare, così come è
ovvia la necessità di una drastica rivoluzione .,
nel groviglio di normative. Tre punti sono certamente da
perseguire. Il primo riguarda l’innovazione del sistema delle piccole . medie imprese: occorre verticalizzare in senso innovativo le produzioni. Le piccole imprese, proprio in quanto piccole., sono generalmente sprovviste di strutture di ricerca. Per le medie va un po’ meglio, ma non tanto. E solo attingendo alla ricerca pubblica che si può fornire alle Pmi il necessario supporto di operatori della ricerca. Il
Cnr ha prodotto una base dati sui ricercatori pubblici. Essa consta di circa gSoo esperti, un vero e proprio catalogo di “chi fa che cosa “ nelle Università, nel Cnr, nell’Enea ecc. Un patrimonio consistente,
ad alto livello internazionale, che non è ancora intervenuto come potrebbe nell’innovazione del Paese.
Tutto ciò che può favorire i contatti fra mondo imprenditoriale e ricercatori pubblici è benvenuto: scambi, stages, consorzi, programmi misti, formazione, soprattutto fondi spendibili senza troppi vincoli.
Il secondo punto riguarda le novità tecnologiche. Una consistente frazione della ricchezza
moderna è creata da iniziative di spiri-off: Si tratta di attività che vengono create da una idea, molte
falliscono poco dopo la nascita, alcune determinano svolte colossali. Queste iniziative vanno assolutamente incoraggiate, in due diversi modi : eliminare ostacoli, e stimolare i possibili attori. Sugli ostacoli, di natura burocratica e di natura bancaria, abbiamo detto. Vi sono tuttavia anche ostacoli di natura fiscale, che scoraggiano il venture capita/. Secondo dichiarazioni Aifi il provvedimento contenuto nelt’allegato alla Finanziaria 2000 che ha alzato dal 12,5 al 27% la tassazione dei “fondi comuni che investono in partecipazioni qualificate” ha effetti molto gravi: “Da una parte vengono colpiti gli investitori
istituzionali italiani, come i fondi pensione e le fondazioni bancarie, a cui i nuovi fondi chiusi erano
rivolti. Dall’altra parte, per l’ennesima volta abbiamo perso credibilità verso gli operatori esteri che,
sconcertati dai continui cambiamenti di regime fiscale, hanno sospeso ogni progetto di creare propri
fondi italiani”.
Vi sono poi aspetti che riguardano le leggi sulle società che sono troppo rigide. Il fallimento è
ovvio nell’hi-tech, e se qualche autorità finanzia uno spin-off che poi fallisce, questa autorità non deve
essere chiamata in causa dalla corte dei conti per danno erariale come potrebbe tranquillamente accadere con le norme attuali. Un discorso ovvio riguarda la flessibilità del lavoro, indispensabile in un
sistema basato su coraggio, rischio, iniziativa. Occorre anche stimolare gli scienziati, spingerli verso una
considerazione attenta di attività rischiose, ma che possono permettere di realizzare e di realizzarsi,
anche in termini economici oltre che scientifici. Più attenzione agli aspetti applicativi, ai brevetti, che
devono essere considerati, anche in sede di valutazione, come pubblicazioni. È nello spin-off la chiave del futuro, di quella che viene chiamata “nuova economia”.
Una osservazione: l’ottica che ancora prevale è legata ad una logica nazionale. Ma si va facendo strada un’ottica globale, che vede sempre più spesso aziende che delocalizzano ricerca, produzione, commercializzazione in più paesi. Il terzo punto riguarda la collaborazione intraeuropea e con i
paesi mediterranei. Non sono ancora sfruttate a pieno, sia a livello generale che a livello regionale, le
possibilità che l’Europa mette a disposizione della ricerca, sia in termini di fondi, sia in termini di scambi culturali. Così come lo sviluppo dei paesi della costa sud del Mediterraneo può fornire serie possibilità.
È necessario curare la formazione di un sistema di ricerca, monitoraggio, formazione ed informazione che veda in prima linea la scienza, un sistema che costituisca una sponda credibile, delegata
a controllare, a verificare, che meriti e generi fiducia, che possa permettere il progresso garantendo su
solide basi scientifiche e tecnologiche che il beneficio di un prodotto, di una tecnologia, di uno strumento, comporta un rischio minimo, accettabile, inevitabile, che tutte le misure sono state prese.
Tav. i
I docenti e ricercatori in Italia per anno di nascita
14000
z
cj 12000
:
u 10000
E
Y 8000
c
5 6000
3
g 4000
Ca
g 2000
z
2
0
1921-25
Tab. 5 La ricerca in Italia
Confronto ItaliJPaesi U.E. (Fonte: OCSE)
Italia
Media nei maggiori paesi UE
(Francia, Germania, Inghilterra)
Spesa totale settori pubblico
e privato
22,000
42,000
Spesa media per ricerca
per abitante (in lire)
371,000
735,000
76,400
133.000
3.3
5.7
Numero di laureati
all’anno
120,000
400,000
Numero di dottorati
all’anno
4,000
10,000
Attivita’ di ricercatore
(anniluomo)
Numero di ricercatori ogni
1000 lavoratori
L ’INVES TIMENTO
& Sviluppo (% SUL PIL) NEI PAESI
V A R I A Z I O N E 1990-1998
(F ONTE: OECD E C OMMISS IONE E UROPEA)
IN RICERCA
INDU S T R I A L I Z Z A T I:
1
-4,0
-2,0
0.0
2,0
4,0
6,0
8.0
10.0
12,O
14,O
16,O
Tav. 3
L ’ I N V E S T I M E N T O IN RIC E RCA & S V I L U P P O (% SUL PIL)
N E I P A E S I I N D U S T R I A L I Z Z A T I ( ANNO 1 9 9 8 )
(F ONTE: OECD E C OMMISSIONE E UROPEA)
Approfondimento 5:
L’ATTITUDINE ALLE NUOVE TECNOLOGIE INFORtWITlCHE
Solo dopo le straordinarie performance borsistiche di alcuni titoli legati alle fecnologie dell’informazione e dopo la straordinaria eco data a molte di queste realtà dalla stampa internazionale, i Governi
europei, il consiglio d’Europa e, infine anche il Governo italiano hanno iniziato a programmare interventi di sostegno alla new economy. Un incredibile ritardo, se si pensa che negli Stati Uniti, sin dal/‘inizio degli anni Novanta, il Governo, le Università, il National Resercb Council con il sostegno delle
più importanti aziende statunitensi de/ settore, hanno elaborato piani e attuato “‘policies” per cogliere per tempo le grandi opportunità derivanti da/l’lnformation Technology. Lo stesso piano per ìa riforma della pubblica amministrazione statunitense, “Reinventing Government”, basava la sua principale
azione sulla diffusione delle tecnologie informatiche nelle amministrazione pubbliche. Ed era il 1993.
Da allora /‘economia statunitense ha visto rapidamente ridurre la sua disoccupazione, le nuove tecnologie sono entrate prepotentemente nella vita dei cittadini, la formazione informatica si è diffusa,
l’uso di Internet è divenuto preponderante consentendo la nascita di nuove imprese, di nuove attività
che hanno contribuito in modo sostanziale a quella apparentemente inarrestabile crescita economica
statunitense, che non ha precedenti per la sua durata. Le recenti proiezioni predisposte
da/l”‘Occupationa/
Outlook Quarter/y” offrono il quadro di un importante cambiamento nel mondo de/
lavoro negli Usa nei prossimi IO anni, che accompagnerà una crescita occupazionale di circa 20 milioni di posti di lavoro. Tali cambiamenti derivano soprattutto dalla introduzione della Ite, che non condurrà tanto alla crescita di professionalità tradizionali legate al mondo dell’informatica, quanto a cambiamenti de/ modo di lavorare in tutti i settori dell’economia con un positivo impatto sia sull’occupazione che sulle professionalità necessarie.
Mentre tutto ciò accadeva, qui in Italia si organizzavano dibattiti, si consumavano in interminabili
discussione parlamentari per giungere a fare /‘unica Authority lottizzata d’Europa, si ritardava all’infìnito l’apertura alla concorrenza de/ settore delle TIC, non si investiva in formazione, si continuava a
spendere male, molto male, le risorse per l’informatizzazione nella Pubblica Amministrazione. Intorno
ai grandi temi: il possesso della Telecom Italia, /‘ingresso dell’Ene/ nella telefonia prima e nella televisione poi, gli assetti de/ sistema radiotelevisivo, lo sviluppo de/ satellite, la gara per I’Umts continuano a svilupparsi guerre di pofere fra correnti, partiti e partifini con /‘unico scopo di ritardare, bloccare, rinviare.
A dire il vero, nel 1995 Palazzo Chigi elaborò un proprio piano. Lo fece chiamando a parlarne tutte le
grandi aziende e associazioni nazionali. Poi il susseguirsi dei Governi, la scarsa sensibilità o la sottovalutazione de/ tema, hanno generato questo incredibile ritardo.
Dopo tutti questi anni finalmente Giuliano Amato vara il “Piano d’azione per la nuova economia”. Si
legge con piacere che non sono necessarie nuove leggi. Dunque non si dovrà attendere un infinito
dibattito par/amentare.
Basti pensare quanto tempo i/ parlamento ha discusso della liberalizzazione
dell’energia elettrica o delle telecomunicazioni. // ritardo accumulato è drammatico, non si può aspettare ancora. Dunque il Paese può iniziare a operare per rendere più rapido lo sviluppo della Società
dell’lnformazione e, soprattutto, per cogliere tutte le potenzialità di sviluppo, economico, occupazionale e di qualità dei servizi che esso comporta. I/ documento punta su alcune importanti azioni che
sembrano de/ tutto condivisibili.
Ma quello che qui preme sottolineare è che in Italia ancora mancano le condizioni di contesto per
poter assicurare una crescita dell’ltc. Non si tratta tanto di elaborare un piano di sostegno alla nuova
economia, quanto di rimuovere gli ostacoli che in Italia frenano il suo sviluppo.
Innanzitutto le regole che sovrintendono al mercato de/ lavoro non possono non essere riviste. La
nuova economia vive di start-up, di aziende che nascono e muoiono, di atfività che crescono rapidamente e che possono altrettanto rapidamente ridimensionarsi. Vi è dunque un problema di adattabilità del lavoro alle esigenze della nuova economia. Se da un lato vi è un forte gap formativo che il
documento del Governo sembra voler affrontare, dall’altro vi è un problema di r7essibilità necessaria
che non può essere lasciato ai tempi e alle disponibilità delle parti sociali ifaliane. // tempo determinato, il part-time,
sistemi di partecipazione dei lavoratori al capitale delle imprese, devono essere favoriti in modo più massiccio. La nuova economia non può partire con basi fragili, con collaborazioni coordinate e continuative usate per eludere le rigide regole del nostro mercato del lavoro.
La stessa discussione sulla partecipazione sembra essere arretrata rispetto alle esigenze di questo settore. In Italia siamo ancora fermi ad attendere il permesso di una cultura sindacale che sembra anco-
ra ispirasi alla /otta di classe e che non vuole vedere che le nuove forme di retribuzione sono già
abbondantemente e surrettiziamente utilizzate. Se a questo si aggiunge un sisfema fiscale ispirafo alla
stessa cultura, si comprende perché in Italia, le stock option sono viste ancora come un arricchimento eccessivo e le retribuzioni sotto forma di equity sono ritenute una usanza di dubbia moralità.
// documento de/ Governo coglie un’altra azione-strategica indispensabile: quella della scuola. Bisogna
investire in un “intervento-crash” nelle scuole per portare il grado di alfabetizzazione informatica dei
giovani italiani al livello dei /oro colleghi europei e stafunitensi. Per fare ciò è pero indispensabile
affrontare un problema di risorse, di infrastrutture, di formazione degli insegnanti e dell’editoria scolastica.
Bisogna poter investire di più. Ma fino a che la spesa per /‘istruzione in Italia (63.000 miliardi) è destinata per il 98% a pagare le retribuzioni degli insegnanti e del personale non docente, non si potranno mai liberare risorse per l’information tecnology. Oggi, secondo i dati de//‘Autorità per I’informatizzazione della Pubblica amministrazione, le risorse per /‘informatizzazione disponibili per il Ministero
della Pubblica Istruzione non superano i 300 mld l’anno. In Italia vi sono troppi insegnanti e assolutamente non preparati per l’uso delle nuove tecnologie. Si avrà il coraggio di affrontare questo problema? Di ridurre il numero degli insegnanti, formarli e dirottare risorse consistenti sugli investimenti
in informatica?
L’ltc nelle scuole non può essere /‘aula d’informatica dove gli studenti passano un’ora alla settimana,
magari con un insegnante che ne sa meno di loro. L’informatica deve essere pervasiva della vita scolastica, deve segnare tutti momenti formativi, di rapporto tra studenti, con gli insegnanti, anche dei
rapporti organizzativi ed amministrativi tra la scuola e le famiglie. L’informatica non è una materia d’insegrwmento, è un tool. E dunque tutti g/i insegnanti devono saper usare questo strumento per stare
al passo con gli studenti che lo sanno già usare, ma che non sono stimolati a farlo per motivi didattici. Dunque non si tratta di mettere un computer in ogni scuola ma di cablare tutte le scuole con la
banda larga e farle vivere nella rete. Cambiano g/i strumenti didattici e dunque anche /‘editoria scolastica deve riconvertirsi. / contenuti oggi sono ancora su libri costosi e pesanti. Sarà in grado il Governo
di rompere questo giro d’interessi e creare nuovi content provider dell’educazione?
Anche nella pubblica amministrazione si devono registrare gravi ritardi. E’ de/ 2993 la nascita de//‘Aipa.
L’obiettivo era quello di riqualificare la spesa pubblica in questo campo. In tutti questi anni I’amministrazione dello Stato ha speso ingenti somme di denaro con risultati ancora deludenti. Dal ‘92 ad oggi
sono stati spesi circa 2.000 mld /‘anno secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato. Al 1998
vi erano 119.000 posti di lavoro informatizzati, IIO.OOO persona/ computer installati. Tutto questo
ingente sforzo non ha prodotto un miglioramento percepito dei servizi ai cittadini e alle imprese, se
non in sporadici casi, Non si è realizzata, se non parzialmente, quella stretta integrazione tra le diverse amministrazioni per rendere veramente interoperabili le banche dati, i servizi e i flussi di informazione. L’unicità dell’amministrazione nei confronti dei cittadini e delle imprese la si realizza solo mettendo in rete le diverse amministrazioni. Perché qualunque pubblica amministrazione possa disporre,
in qualunque punto vi si accede, dei dati che sono in possesso de/ sistema pubblico e che interessano g/i utenti. L’autocertificazione non è un successo; è la consapevolezza che /‘amministrazione non
riesce a comunicare al suo interno e deve, dunque, affidarsi alla buona fede dei cittadini per avere
informazioni che sono al suo interno ma alle quali non riesce ad accedere.
L’informatizzazione de//a Pubblica Amministrazione è uno straordinario strumento di sviluppo e di
penetrazione delle tecnologie informatiche. E’ un vero e proprio investimento infrastrutturale che da
vantaggi diretti (meno inefficienza e più qualità dei servizi) e indiretti (domanda qualificata che genera un’offerta qualiticata). Fino ad oggi questa occasione è mancata.
Approfondimento 6:
LE BIOTECNOLOGIE
Malgrado i non trascurabili impegni in Ricerca & Sviluppo - pubblici e privati - degli anni Ottanta,
/‘haalia è oggi prevalentemente consumatrice piuttosto che produttrice di innovazione biotecnologica,
in particolar modo ne/ settore della cura della salute umana ed animale. // mercato - nei settori in cui
è stato attivato - è in larghissima misura appannaggio di prodotti importati, fuori dalla portata com-
petitiva della debole consistenza industriale de/ nostro Paese. In effetti le innovazioni biotecnologiche
sono il risultato di ricerche scientifiche complesse, lunghe ed onerose nell’iter da/ laboratorio al mercato e il progressivo disimpegno delle grandi imprese ha privato il tessuto accademico, finanziario e
imprenditoriale italiano di un importante effetto di “trascinamento”, la cui essenziale presenza è invece de/ tutto evidente in Usa ed in alcuni Paesi dell’Unione europea.
.
// fatturato italiano dei prodotti derivati dall’uso delle biotecnologie innovative è stato dell’ordme di
I.ZOO milioni di dollari nel 2997. Secondo stime di fonte imprenditoriale esso è destinato ad un notevole incremento, raggiungendo i 2.800 milioni di dollari nell’anno 2000, fino a toccare i 7.000 milioni
di dollari ne/ 2005.
La parte preponderante de/ mercato biotech italiano è rappresentata da/ settore della cura della salute,
la cui quota ammonta al 60% de/ fatturato biotecnologico complessivo, nonché al 7% dell’intero mercato farmaceutico nazionale. // contributo della bioindustria italiana è molto /imitato, e dovuto principalmente a vaccini e diagnostici (ovvero ai prodotti a minore valore aggiunto).
// mercato dei prodotti agricoli ed alimentari costituisce il 25% de/ fatturato biotecnologico. In Italia così
come in tutti i Paesi membri dell’Unione europea, difficoltà di ordine regolamentare ed incertezze di
orientamento agricolo - con ampi riflessi in Italia sull’atteggiamento di minoritari ma importanti settori
della politica nazionale - non hanno finora consentito una sostanziale introduzione delle coltivazioni di
piante transgeniche, né tantomeno lo sviluppo di lavorazioni alimentari ad esse collegate.
Benché il numero di imprese interessate alle biotecnologie appaia in crescita costante dal 2989, l’incremento maggiore si è avuto tra il 1989 ed il 1994 con un tasso pari a 15 imprese all’anno, mentre tra
il 1994 ed il 1997 il tasso è calato sensibilmente. Ne/ 1997 sono state censite 240 imprese in qualche
modo coinvolte nelle biotecnologie (tra cui va rilevato l’elevato numero - ben il 30% - di imprese di
distribuzione di prodotti biotecnologici nei vari segmenti produttivi, soprattutto in quello farmaceutico).
Di esse, il 40% opera ne/ settore sanitario, il 24% in quello agricolo, il 16% in quello chimico-ambientale ed il 20% nella produzione di impianti e strumenti.
Solamente il 22% delle imprese attive ne/ 1997 era costituito da nuove imprese biotecnologiche (Nib),
ovvero società di nuova fondazione dedicate alle biotecnologie, mentre in altri Paesi europei e negli
Usa il numero di Nib è pari a circa la metà dell’imprenditoria biotecnologica complessiva. La scarsità di
Nib italiane scaturisce dalla mancanza di condizioni favorevoli alla loro nascita ed al /oro sviluppo,~ caratteristica tipica dell’ltalia rispetto a tutti gli altri Paesi de/ G7 fin cui /‘industria biotecnologica ha invece
goduto de/ sostegno economico necessario a consentirne l’espansione). Attualmente, benché sia in atto
un parziale mutamento di tale situazione sfavorevole, permangono ancora notevoli ostacoli.
In effetti lo sviluppo di nuove imprese necessita di alcune condizioni che in Italia non si sono mai
verificate tutte insieme in modo adeguato, e in particolare modo la possibilità di raccogliere sostegni finanziari mediante mercati azionari appositi oppure corporate partnerships. // valore complessivo del capitale di rischio investito nelle biotecnologie ammonta in Italia a circa 30 milioni di dol/ari da/ 1998 ad oggi, ovvero un insignificante 0,5% de/ capitale di rischio gestito in Italia nello
stesso periodo: la quota si è ridotta proprio negli anni più recenti, in cui gli investimenti del capitale di rischio in attività biotecnologiche non hanno raggiunto il milione di $/anno.
Tra le molte motivazioni “tecniche” della latitanza di capitali disponibili sono da segnalare le
modalità di tassazione de/ capita/ gain (identiche per gli investimenti ad alto rischio rispetto a quelli in settori conso/ida@, la mancanza di un mercato borsistico alternativo, adatto alle piccole imprese innovative, nonché la mancanza di incentivi fiscali alla spesa in ricerca ed innovazione da parte
delle imprese.
Evoluzione delle normative nazionali e dell’Unione europea
Le moderne tecnologie biologiche sono portatrici di un complesso intreccio di aspettative e inquietudini, rispecchiato dagli atti regolamentari - messi in atto sia da Stati sovrani, sia da Organkmi internazionali - volti in parte ad assicurare un adeguato sostegno dell’innovazione tecnologica, ma anche,
ed in maggiore misura, destinati a sorvegliare e garantire la sicurezza de/ loro impiego e quella dei
prodotti da esse derivati. Per quanto concerne Malia, tutta la normativa vigente e/o in fieri deriva da
iniziative dell’Unione europea oppure dall’adeguamento a disposizioni delle Convenzioni internazionali.
In materia di sicurezza le misure sono tutte di natura precauzionale e fanno costante appello alla
necessità di accurate valutazioni di rischio prima di intraprendere attività di Ricerca & Sviluppo, di produzione e/o commercializzazione di prodotti biotecnologici. Inoltre, tutti gli impieghi di organismi
viventi ottenuti con tecniche di trasferimento di informazioni genetiche sono soggette a severe proce-
dure di notifica ed autorizzazione, sotto il controllo di Autorità pubbliche.
In materia di promozione dell’innovazione tecnologica la legislazione dovrebbe essere in particolare
orientata sulla necessità di adeguare gli strumenti di protezione de/a proprietà intellettuale di invenzioni collegate ad organismi viventi e/o a mater/a/i biologici. Poiché la progressiva identificazione di
geni umani, animali e vegetaali rende potenziahnente
possibile sviluppare un’infinita gamma di prodotti e processi per le produzioni agricole e industriali, chi investe talento, passione e denaro in questo
tipo di innovazione si attende dalla normativa un’adeguata protezione dei propri investimenti.
// vuoto normativo in materia di brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche ha creato negli anni
numerosi problemi per /‘applicazione e la difformità di trattamento delle domande depositate presso
/‘Ufficio europeo dei Brevetti di Monaco, istituito in seno alla Convenzione su/ Brevetto europeo de/
1973, cui hanno aderito 15 Paesi comunitari oltre ad altri tre Paesi extracomunitari (Norvegia, Svizzera
e Liechtenstein).
Oltre ad alcuni gravi /imiti di applicabilità ed estensione territoriale dei brevetti rilasciati nell’ambito
della Convenzione, questa non era in grado di fornire una tutela alle invenzioni biotecnologiche delle
industrie europee nei confronti di quelle meglio protette giuridicamente degli Usa e de/ Giappone.
In questo contesto si definisce ne/ 1988 la prima proposta di direttiva della Comunità europea sulle
“invenzioni biotecnologiche”, proprio per armonizzare le norme in materia (Art. IOOA de/ Trattato).
La direttiva sulla “Protezione giun’dica delle invenzioni biotecnologiche
Dopo una lunga discussione al Parlamento europeo (che tra /‘altro porta alla presentazione di una
seconda direttiva in materia) durata due legislature, nel luglio 1997 viene approvata la direttiva sulla
“Protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche” con il 75% di voti favorevoli tra cui la grande
maggioranza dei gruppi Ppe, Pse, Eldr, Upe, Ni e il 21% di voti contrari, tra cui quelli dei parlamentari de/ gruppo dei Verdi.
Nel novembre 1997 anche il Consiglio dei Ministri Ue ha approvato la direttiva con la procedura a maggioranza qualificata con IZ voti a favore, il voto contrario dell’Olanda e /‘astensione dell’ltalia e de/
Belgio. L’ltalia, che aveva lavorato fino a quel momento per /‘approvazione della direttiva, ha deciso
di astenersi solo nell’ultima fase perché non è stata concessa dalla presidenza lussemburghese una
moratoria per ulteriori approfondimenti.
La direttiva è stata definitivamente approvata il IZ maggio 1998 con la seconda lettura de/ Parlamento
europeo (Dir. 98/44/CE). Essa prevede la brevettabilità di microrganismi, piante ed animali geneticamente trasformati, con /‘esclusione delle varietà vegetali e le razze animali, e la non brevettabilità di
alcuni procedimenti contrari all’ordine pubblico e al buon costume.
// Governo italiano, se da una parte ha avviato la procedura di recepimento della direttiva con un apposito disegno di legge delega e non con la legge comunitaria annuale, che è lo strumento istituzronale
tipico per la trasposizione ne/ diritto italiano delle direttive comunitarie, dall’altra ha affiancato i Paesi
Bassi in un’azione di opposizione alla direttiva presso la Corte di Giustizia delle Comunità europee, in
cui si contesta la base giuridica.
Tale ricorso risponde alla logica seguita dal Governo olandese ne/ corso della discussione durante I’iter di approvazione della direttiva di privilegiare in ambito comunitario la protezione delle piante per
selezioni naturali piuttosto che per tecniche di ingegneria genetica tramite brevetti di invenzione.
Gli o/andesi hanno così inteso tutelare i/ proprio primato mondiale nella selezione naturale di piante
ed animali (negli ultimi tre anni essi sono risultati titolari di oltre il 35% dei depositi presso /‘Ufficio
comunitario per la protezione delle varietà vegetali).
Che si tratti di attrarre investimenti stranieri, di favorire investimenti nazionali oppure di incentivare
una nuova imprenditorialità, è de/ tutto prioritario che si instauri in halia un chma politico esplicitamente favorevole allo sviluppo produttivo delle moderne tecnologie biologiche. A questo proposito l’iniziativa de/ Governo volta all’annullamento della direttiva e /‘assenza di stimoli alla discussione in
Parlamento de/ disegno di legge di recepimento sono “segnali” po/itici fortemente negativi per investitori e ricercatori.
Parte Terza
Tra analisi e proposte
lavoro, Welfare e concertazione
3.1. Globahazione, lavoro, educazione, formazione e Welfare State
La ricerca e l’attuazione di politiche sociali (lavoro, educazione, formazione, previdenza, sanità)
idonee ad accompagnare le trasformazioni dell’economia globale impegnano oggi tutte le istituzioni
nazionali ed internazionali. Cobiettivo finale rimane q’tfello di contrastare tanto la concorrenza sleale
del dumping sociale quanto il protezionismo, affinché mercati e società aperte, integrati da politiche
sociali coerenti, producano vantaggi fruibili da tutti. Mentre l’economia mondiale continua a crescere
ad un ritmo superiore al 4% e l’aumento del commercio di beni e servizi sembra destinato a raggiungere 1’8% nel 2000, permangono elevati i divari di reddito, i fenomeni di disagio sociale, i rischi di
instabilità finanziaria. Le cifre segnalano fenomeni ben chiari. Lln miliardo di lavoratori, cioè un terzo
della forza lavoro mondiale, è ancora disoccupato o sotto-occupato; 60 milioni di giovani tra i 15 e i
24 anni sono alla ricerca di un lavoro che non riescono a trovare; 250 milioni sono i minori, tra 5 e 11
anni, al lavoro, di cui la metà a tempo pieno, mentre tra i 50 e i 60 milioni sarebbero i minori di 11
anni costretti a lavorare in condizioni di immanente pericolo per la loro incolumità fisica o psichica.
Secondo le stime fornite dall’Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro) ogni anno si verificano oltre
un milione di decessi legati al lavoro mentre sono almeno 250 milioni gli incidenti sul lavoro e 160
milioni le malattie causate dal lavoro. Infine, circa il 90% della popolazione in età di lavoro nel mondo
non sembra destinata a godere di una pensione adeguata, mentre rilevante è la percentuale di popolazione esclusa dalla effettiva fruizione dei servizi sanitari (ad esempio 1/3 della popolazione in America
Latina e nella regione caraibica) e fragile si presenta la struttura dei sistemi di protezione del reddito,
come la recente crisi finanziaria ed occupazionale asiatica ha dimostrato.
Questi dati evidenziano come un sentimento di incertezza e di avversione al mercato e alla globalizzazione possa trovare terreno favorevole non solo tra i poveri e i diseredati ma anche nei ceti
medi, e non solo nei Paesi poveri ma anche in quelli industrializzati. Per questo motivo il processo di
globalizzazione del mercato deve avere una legittimazione sociale universale, che oggi non possiede,
attraverso la costruzione di un Welfare globale, che, da una parte, riconosca alcune regole essenziali i cosiddetti diritti fondamentali nel lavoro e protezione sociale minima per tutti - e, dall’altra, si traduca in politiche attive del lavoro, formazione continua, miglioramento dei servizi sanitari, implementazione della previdenza complementare privata.
// mercato de/ lavoro
In questo quadro, il lavoro rappresenta la prima, fondamentale risposta alla povertà e all’esclusione sociale e deve essere considerato come lo strumento per politiche di inclusione sociale e non
di mero risarcimento ai perdenti. Un lavoro che, così come definito recentemente dall’Oil, deve essere
“decente”, concetto questo che evoca insieme un criterio universale e contenuti relativamente diversi
in coerenza con il livello di sviluppo locale. Questo concetto di lavoro è parte integrante della nuova
dimensione del Welfare, il “Welfare to work”, che si traduce in un complesso di strumenti, tra i quali in
primo luogo l’educazione e la formazione permanente, rivolti a produrre il continuo adattamento degli
individui ai cambiamenti tecnologico-organizzativi e alla domanda del mercato del lavoro nonché a
favorire il rapido inserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro. Al mercato, e ai suoi meccanismi di
corretto funzionamento, viene data piena cittadinanza, in netta contrapposizione alle precarie soluzioni assistenziali che hanno caratterizzato per molti anni le politiche sociali dei Paesi industrializzati. Nel
mercato, la flessibilità del lavoro deve essere interpretata come un’opportunità offerta al lavoratore per
accrescere le sue capacità, soprattutto quando viene sostenuta da politiche di tutela e di garanzia, quali
la riqualificazione professionale, il rispetto dei diritti fondamentali nel lavoro e la garanzia di reti protettive essenziali per tutti.
L’adozione di politiche del lavoro attive, che si combinano con il Welfare to work, e che considerano azioni prioritarie quelle volte a promuovere l’inclusione nel mercato del lavoro, deve trovare
pieno sviluppo a livello internazionale, per fare fronte ai crescenti problemi di tensione sociale e per
accrescere il tasso di occupazione. Politiche del lavoro inclusive combinano un efficace sistema educativo e formativo - orientato dalla domanda e non dalle corporazioni dell’offerta - con un mercato del
lavoro trasparente e con moderni servizi di orientamento e di impiego, pubblici e privati, in modo tale
che la vera tutela per il contraente debole, il lavoratore, sia garantita dalla sua occupabilità e dalla
rapida conoscenza delle possibilità e delle alternative occupazionali. Soltanto in questa maniera si
garantisce il passaggio dal tradizionale “Welfare del risarcimento” al nuovo “Welfare delle opportunità”,
Fondamentali elementi di tutela e garanzia continuano ad essere assicurati dalle politiche più
tradizionali del Welfare, quali sanità, assistenza e previdenza, per le quali i processi di riforma sono
tenuti a garantire la sostenibilità finanziaria nel medio-lungo periodo, l’attuazione di principi di sussidiarietà orizzontale e verticale ove compatibili, una moderna ridefinizione delle prestazioni secondo criteri di equità. Moderati e controllati elementi di mercato, tanto dal lato della domanda, quanto da quello dell’offerta, possono garantire costi più contenuti e qualità migliore. Lo spostamento della politica
dei redditi, della concertazione e della contrattazione a livello periferico dovrà comportare che, nel
medio periodo, le politiche del lavoro e gli istituti del Welfare si spostino nella stessa direzione.
Strumenti quali il Welfare previdenziale, il complesso di ammortizzatori sociali e le politiche del lavoro e della formazione dovranno essere organizzati in maniera sempre maggiore su base locale, così
come l’offerta di assicurazioni contro gli infortuni. Spetterà all’Unione Europea, in un’ottica di federalismo corretto, il compito di fissare un insieme di regolazioni minime, provvedendo alla fissazione di
standard minimi di Welfare, di paga oraria, di sicurezza su lavoro, di ammortizzatori sociali.
II quadro europeo: fatti stilizzati
In Europa la disoccupazione rappresenta la maggiore sfida per la politica economica. Il traguardo della moneta unica rende necessario un rafforzamento del governo dell’economia a livello europeo, per garantire un sentiero di crescita e di sviluppo che sia, nel contempo, robusto ed equo.
Nell’area dell’euro i dati rimangono alquanto preoccupanti: il tasso di occupazione, utilizzato sempre
più frequentemente quale indicatore di performance economica, non si discosta significativamente dal
60 per cento; il tasso di disoccupazione si è ridotto significativamente al 6,9 per cento alla fine del
1999 (Ocse, 1999; Ocse, 2000). Nonostante questi progressi, l’Europa si presenta in grave ritardo rispetto a Stati Uniti e Giappone (Tab.1); il tasso di occupazione nell’area dell’euro è inferiore di circa 15
punti a quello dei due Paesi sopra citati; il tasso di disoccupazione rimane elevato; alta è la percentuale di disoccupazione di lunga durata; il tasso di dispersione della disoccupazione mostra una leggera tendenza alla risalita nell’ultimo biennio, nonostante la sostanziale e continua discesa registratasi fino al 1997. Con riferimento a quest’ultimo indicatore, nei Paesi “piccoli” la disoccupazione è bassa
e si situa tra il 2,5 e il 4,5%, mentre nei “grandi” Paesi, specialmente in Italia e Germania (con la
Spagna che fa registrare valori ben più elevati), la “forchetta” si posiziona tra 9 e 11%. Questi valori
sottolineano una dispersione molto più pronunciata rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, molto più
persistente, riflettendo una più bassa mobilità di capitale e lavoro e salari più rigidi. Tale più elevata
dispersione nell’area deil’euro, o all’interno dei Paesi, comporta un rischio più elevato di crescenti
pressioni inflazionistiche nelle aree a bassa disoccupazione, soprattutto nelle fasi di fluttuazione.
Queste pressioni potrebbero propagarsi alle regioni con un mercato del lavoro meno in tensione, come,
in parte, avviene in Italia, dove i risultati della contrattazione nazionale tendono a riflettere le condizioni di bassa disoccupazione presenti nel Nord. Si deve tenere presente che per un dato tasso di
medio di disoccupazione, una maggiore dispersione tende ad accrescere i costi sociali della disoccupazione.
Nell’ultimo triennio degli anni novanta la crescita dell’occupazione si è rivelata più robusta di
quella registratasi durante la fase espansiva degli anni ottanta, anche in presenza di una crescita del
Pil meno vigorosa. L’elasticità dell’occupazione alla crescita del PIL reale appare essersi quasi raddoppiata nell’intervallo tra due fasi del ciclo. Questo risultato dipende, come dimostrano alcune recenti
analisi nazionali ed internazionali, dal combinarsi di due diversi effetti: da un parte, il progressivo cambiamento dei meccanismi di utilizzo del lavoro da parte delle imprese; dall’altro, il diffondersi con sempre maggiore efficacia di forme flessibili e atipiche di lavoro. Dato il potenziale di assoluto rilievo esistente per l’espansione dell’occupazione in Europa, azioni di politica economica più efficaci sono
necessarie sia sul lato della domanda che sul lato dell’offerta, con l’obiettivo di creare lavoro e di
rimuovere le barriere allo sviluppo dell’occupazione. Le politiche per accrescere la base occupazionale dell’Europa devono essere basate, come più volte sostenuto dai Consigli Europei della Ue (Consiglio
Europeo, 1997; Consiglio Europeo 1999). su una strategia integrata di politica economica, volta a favorire una ripresa del tasso di accumulazione e degli investimenti privati e pubblici ed ad intervenire sul
funzionamento dei mercati dei prodotti e dei fattori. A questo fine sono indirizzate politiche di rilancio dei grandi progetti infrastrutturali, politiche coordinate di carattere fiscale, politiche per la ricerca
e lo sviluppo, politiche regionali, politiche del lavoro che favoriscano l’occupabilità nonché I’adattabilità dei lavoratori e delle imprese.
Tab.1 La disoccupazione strutturale nei Paesi dell’ocse (1986,‘;990, 1995. 1998)~
I
Paesi
Finlandia
Svezia
Svizzera
Grecia
Germania
Francia
Giappone
Italia
Austria
Belgio
Portogallo
Norvegia
USA
Canada
Australia
Spagna
Nuova Zelanda
Regno Unito
Danimarca
Paesi Bassi
Irlanda
Tasso di
disoccupazione
strutturale Ocseb
Tasso di
disoccupazione
corrente Ocseb
199.5
1998
11,8
635
3s
9.7
7.9
IO,4
3.6
IO,1
595
8,l
5.5
4.0
5.4
8.5
8,l
18,6
5,8
7,7
56
5.0
8,O
499
2.2
0.6
7.6
634
836
235
897
4*4
9.7
7*9
3.0
693
9.3
739
192
4.7
1094
697
891
16,~
62
294
039
830
691
9s
2.4
9.0
580
853
597
4v5
5.9
991
8,6
7.4
790
15.5
12,3
5.8
3.2
9.4
723
IO,4
299
IO,1
5.0
8.2
5.5
4.8
557
9.4
990
20.4
66
8.1
7.0
690
n,6
7.0
6s7
7,1
68
7.7
60
6.0
7,2
19,6
6.8
980
La situazione italiana
In Italia, come in Europa, politiche del lavoro e riforma dello Stato Sociale non possono non muovere dagli stessi presupposti ed obiettivi. E’ sufficiente qui ricordare alcune delle particolarità della
struttura sociale italiana:
il tasso di occupazione tra i più bassi dei Paesi industrializzati, con evidenti conseguenze in termini di entrate contributive e fiscali. Solo il 52% della popolazione tra i 16 e i 65 anni lavora (il
38% delle donne), mentre la media U.E. è pari al 61% e negli USA lavora il 74 %;
il tasso di disoccupazione di lunga durata (più di un anno senza opportunità di lavoro o di formazione) tra i più alti dell’Unione Europea: 8,3% in Italia. 4,9% nella media europea, 0,4% negli
USA;
la disoccupazione, concentrata nel Mezzogiorno (22%). nei giovani alla ricerca del primo impiego, nei gruppi adulti con bassa scolarità, tra le donne:
la partecipazione alle attività educative o formative dei giovani italiani tra i 15 e i 19 anni di oltre
6 punti inferiore alla media europea; tra i 20 e i 24 anni di oltre z punti inferiore;
l’economia sommersa, che potrebbe rappresentare sino al 27,3% del PIL contro il 14,5% nella
U.E. e il 15% nei Paesi Ocse;
le retribuzioni nette del complesso dei lavoratori dipendenti, che hanno perso mediamente nel
decennio trascorso 1’8.7% (il 16,2% nel Sud);
l’invecchiamento della popolazione, più rapido che altrove, al punto che entro il 2030 gli anzia-
.
.
ni saranno il 75% dei cittadini in età di lavoro, con prevedibili effetti sulla spesa sanitaria e previdenziale;
il tasso di povertà, stimato al 13% (più che doppio nel Mezzogiorno) ed in aumento dai primi
anni ‘90;
il risparmio delle Famiglie, dimezzatosi in’meno di vent’anni passando da un quinto a un decimo del reddito disponibile.
Questi dati evidenziano tanto le ragioni dell’esclusione sociale quanto le cause e gli effetti di
quel circolo vizioso che combina alta pressione fiscale, basso tasso di crescita, debito pubblico, disavanzo dello stato sociale. Politiche del lavoro e nuovo stato sociale devono quindi essere tanto efficaci nel contrastare l’esclusione sociale quanto funzionali a quel circuito virtuoso che pu0 generare
uno sviluppo duraturo, nel rispetto dei vincoli di stabilità finanziaria.
La crisi degli anni Novanta
Il mercato del lavoro in Italia, nel corso dell’ultimo decennio, ha mostrato tutte le sue difficoltà
non risolte, contraddistinte, come evidenziato, da bassa crescita dell’occupazione, deboli tassi di partecipazione, persistenza della disoccupazione, continua segmentazione della forza lavoro.
Il dato emblematico della crisi degli anni Novanta è rappresentato dalla crisi perdurante che ha
colpito il mercato del lavoro del nostro Paese. Per lunghi anni l’occupazione subisce una drastica riduzione, mentre aumenta il numero delle persone in cerca di lavoro. Tutto questo agisce in modo negativo su quadro occupazionale già di per sé non incoraggiante. Solo sul finire del decennio si manifesta qualche cenno di ripresa, con un’occupazione che - sia pur sospinta dalle forme di lavoro atipiche
- sembra finalmente sul procinto di avviarsi lungo un sentiero di crescita e un tasso di disoccupazione che, sia pur lentamente, tende a flettere.
L’avvio di un ciclo occupazionale positivo non sembra tuttavia poter colmare il ritardo accumulato in questi anni. Una parte rilevante delle difficoltà sperimentate dal mercato del lavoro italiano
deriva non origina infatti da problemi di ciclo economico, ma dalla cattiva regolazione a cui esso è
sottoposto e dagli effetti perversi che una serie di regole vecchie e di matrice corporativa genera sulle
grandezze occupazionali del Paese.
Nel corso degli anni Novanta, come indicato dal recente Rapporto Annuale dell’Istat (Istat,
l’occupazione italiana ha fatto registrare una modesta crescita dell’occupazione (+0,8%) a fronte di una media europea ben più consistente (+5,7% Ue-II), con un divario che si è andato accentuando (Tab. 2). La scarsa performance dell’economia italiana è riflessa nel valore del tasso di occupazione, che. a sua volta. risulta uno tra i più bassi in Europa, collocandosi intorno al 50%, IO punti
percentuali inferiore alla media europea, e presentando un andamento tra i meno dinamici in tutta l’area. Si tratta, peraltro, di una situazione che tende a peggiorare nel tempo. Nel periodo lgg3-zooo, a
fronte di una dinamica della produzione non troppo dissimile da quella degli altri paesi europei, l’evoluzione del tasso di occupazione in Italia (+0.4%) è stata nettamente inferiore di quella rilevata dalla
media europea (+2.5%). La divergenza esistente all’inizio del periodo è andata dunque allargandosi,
amplrficando una situazione di partenza già di per sé grave. Nettamente inferiore alla media europea
è soprattutto la presenza delle donne sul mercato del lavoro. Il tasso di occupazione femminile è pari
a circa il 37%. contro una media europea superiore al 50%.
zooo),
Molto marcate sono poi le differenze che si rilevano quando si mette a confronto la struttura
occupazionale del nostro paese con quella media europea. L’analisi dei tassi di occupazione per settore evidenzia infatti come, a fronte di una sostanziale somiglianza tra i tassi di occupazione medi
europei e quelli italiani relativi al settore primario e al settore industriale, marcata è la divergenza nel
terziario. Il numero di occupati che risulta presente nel settore dei servizi alle imprese e alle famiglie
è pari, in Europa, al 31% del totale delle persone che lavorano. In Italia, invece, lo stesso rapporto
risulta essere pari a poco più del 25%. Da notare, come sia a questa divergenza nel settore dei servzi che debba essere ricondotta quasi per intero l’asimmetria del nostro paese, già segnalata in precedenza, a proposito del tasso di occupazione complessivo.
Il tasso di attività, che misura la capacità economica di utilizzare il potenziale di lavoro esistente, risulta, stabilmente, uno dei più bassi in Europa (nel lggg pari al 47.7%), nonostante un graduale innalzamento nel corso degli anni novanta. Tale valore è determinato dal mutuo combinarsi di
due fenomeni complementari: da un lato, il ritardato ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, dall’altro, il ritiro anticipato degli adulti dall’età lavorativa. ,tientre per gli adulti questo fenomeno deriva
da pensionamento anticipato o da riduzioni “pilotate” della forza lavoro in occasioni di ristrutturazioni produttive, i giovani, invece, oltre ad una difficoltà strutturale di inserimento, subiscono l’effetto
dovuto ad una maggiore scolarizzazione. Infatti, essi ritengono di potersi posizionare nel mercato del
lavoro in una situazione più vantaggiosa, avendo qualifiche professionali più elevate, sia in termini di
salario sia in termini di carriera. Se dal tasso di attività aggregato passiamo a quello per genere, i dati
evidenziano una chiara penalizzazione delle donne, che si traduce in un gap di circa 15 punti percentuali rispetto ai maggiori Paesi europei. Appare evidente, come la letteratura suggerisce, che il grado
di partecipazione è fortemente influenzato dalle condizioni del mercato del lavoro, dagli incentivi istituzionali e da fattori culturali.
Il tasso di disoccupazione è cresciuto in Italia quasi ininterrottamente a partire dai primi anni
Novanta, dopo che il periodo finale degli anni Ottanta era stato caratterizzato da una moderata ripresa occupazionale. Rispetto ad una media europea che registra una quota di persone in cerca pari a
circa il IO% dell’intera offerta lavoro, i dati lggg relativi all’Italia indicano un tasso medio di disoccupazione pari all’ii.z% ed incide prevalentemente su giovani (del Mezzogiorno), donne e lavoratori scarsamente qualificati, in parte replicando il resto dell’Europa ma con livelli che sono, mediamente, più
elevati di quelli europei. Il tasso di disoccupazione nella fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni è
superiore, in Italia, di 13 punti percentuali a quello europeo, attestandosi su un valore superiore al
32%. Meno elevato del tasso di disoccupazione continentale è invece il tasso di disoccupazione delle
classi di età comprese tra i 55 e i 64 anni, laddove il dato italiano risulta inferiore alla media degli altri
paesi di oltre 3 punti percentuali. Divari evidenti permangono relativamente alle fasce giovanili, soprattutto in alcune regioni del Mezzogiorno, dove si continuano a registrare tassi superiori al 30 per cento.
Esercizi empirici riguardanti la segmentazione per età recentemente condotti (lsae, 2000)
hanno segnalato come questa rimanga una caratteristica importante della disoccupazione in Italia, seppure in presenza di una riduzione del differenziale con le classi di età adulte. Questa caratteristica, se da un lato
riflette un fenomeno di ingresso ritardato dovuto all’aumento della durata del ciclo di studi, dall’altro
evidenzia una difficoltà di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro ed una crescita della disoccupazione nelle fasce adulte. Entrambi questi eventi mostrano i limiti in cui è costretto il mercato del
lavoro italiano ed indicano il possibile manifestarsi di problemi di carattere sociale ed economico.
Molto diverso dagli altri paesi industrializzati è poi il quadro relativo alla disoccupazione di
lunga durata. Rispetto a una media europea in cui la quota delle persone che sono alla ricerca di un
lavoro da altre 6 mesi ammonta a circa il 67% del totale, e in cui coloro che sono alla ricerca da altre
un anno rappresentano circa la metà dell’aggregato, i dati relativi al nostro paese segnalano delle
quote pari, rispettivamente, al1’81.6% e al 66.7%. Da notare che le percentuali riferite all’Italia risultano essere le più elevate, non solo dell’intera Unione Europea, ma dell’insieme dei paesi OCSE. Anche
in questo caso, appaiono determinanti regole e istituzioni del mercato del lavoro italiano, che contribuiscono a creare un mercato ad alto grado di rigidità. La solidificazione (isteresi) della disoccupazione dovuta agli shock economici, nonché l’effetto disincentivante che deriva dalla composizione dei sussidi di disoccupazione, sono le cause che hanno un effetto più diretto sul permanere, ed anzi sulla crescita, della disoccupazione di lunga durata.
Infine, in Italia appare emergere una relazione inversa tra livello del titolo di studio e tasso di
disoccupazione come quella che caratterizza con sempre maggiore frequenza gli Stati Uniti e il resto
dei Paesi europei. Accanto ai fenomeni di cosiddetta “disoccupazione intellettuale”, che tanta parte
delle analisi del mercato del lavoro hanno costituito negli scorsi decenni, si consolida progressivamente
un deterioramento degli adulti con bassa scolarità e basse qualifiche professionali, che vedono ridotte le loro possibilità di re-ingresso nell’occupazione.
Tab. 2. Variazione dell’occupazione in alcuni Paesi Ue (19934999)
Tab. 3. Il mercato del lavoro: Italia e Resto del Mondo
ITALIA
-~
51,7
12.2
1299
83
7,3
836
MAX 1
77.9
2015
38.6
10,4
38,4
34,l
~
Fonte: Commissione Europea (1999)
Il basso livello di qualificazione della nostra manodopera risulta inadeguato rispetto a quelli
che sono i fabbisogni delle imprese anche per effetto dell’inefficienza e dei ritardi del sistema scolastico-formativo. Il livello formale di istruzione e di formazione professionale della nostra forza lavoro
risulta mediamente inferiore a quello dei nostri partner europei. In Germania, in Danimarca e nel
Benelux oltre il 20% degli individui con più di 25 anni presenti nella forza lavoro nel ‘91 aveva completato un corso di laurea o un programma equivalente. In Italia la stessa percentuale era invece pari
al IO%. Differenze più marcate si riscontrano poi se si considera l’istruzione successiva alla scuola dell’obbligo. In Germania e in Danimarca, nel 1991, oltre 1’80% degli individui attivi con oltre 25 anni aveva
completato un corso di istruzione o di formazione professionale successivo alla scuola dell’obbligo. In
Italia invece La percentuale di soggetti nella stessa condizione risultava essere inferiore al 40%.
/I
recupero
dell'occupazione: la
flessibilità fa
bene
Un fattore importante di espansione dell’occupazione nel corso dell’ultimo triennio è dovuta
alla diffusione dei contratti di lavoro atipici. Lavoro a tempo parziale, contratti a termine, contratti di
collaborazione coordinata e continuativa hanno rappresentato le nuove realtà dell’occupazione. Tutte
le analisi empiriche prodotte concordano nel mostrare come l’occupazione atipica cresca sensibilmente (oltre 5 punti percentuali nel periodo 1993-1999) mentre l’occupazione permanente a tempo pieno
subisca una progressiva erosione in termini di incidenza, soprattutto per quel che attiene all’occupazione dipendente (Tab.4). Appare dunque evidente come, pure in presenza di una normativa che è
ancora fortemente restrittiva, il ricorso a forme flessibili di impiego, controbilanci sostanzialmente il
deterioramento occupazionale, con un contributo sempre positivo nei confronti dell’occupazione dipendente, anche quando questa presenta una dinamica negativa. La restrittività delle norme viene evidenziata anche dal fatto che il divario tra Italia e Europa in tema di diffusione di forme flessibili, misurato come contributo alla crescita dell’occupazione, nel medesimo arco temporale non si riduce, anzi,
al contrario, è in aumento.
Forti divergenze nella struttura dell’occupazione emergono inoltre dall’analisi delle tipologie dei
rapporti di lavoro. In Italia l’occupazione Pan-time e quella a tempo determinato hanno infatti un peso
inferiore rispetto agli altri paesi europei. Mentre in Europa la quota di lavoratori assunta con contratti
Pan-time è superiore al 15%, in Italia questo tipo di contratti interessa poco più del 6% degli occupati. Simile la situazione relativa ai contratti a termine, laddove la media Europa è pari a circa 1’11% e il
dato italiano
nonostante il
e il gennaio
aumentato di
al 7.3%. Da notare, come queste differenza rispetto agli altri paesi europei permanga
forte incremento di queste forme di lavoro registrato negli ultimi anni. Tra l’ottobre 1992
zooo il numero di persone inserite nel mondo del lavoro con contratti atipici è infatti
circa il 45%.
,’
I confronti temporali consentano peraltro di evidenziare il forte effetto di spiazzamento determinatosi nel mercato del lavoro tra contratti regolari e contratti atipici. Se si mettono a confronto i dati
dell’ottobre 1992 e quelli del gennaio 2000, è possibile verificare come l’incremento di 0.7 punti percentuali registrato nel periodo dall’occupazionale sia frutto del combinarsi:
.
di una riduzione dell’occupazione autonoma che contribuisce in misura pari al - 0.4% alla crescita dei posti di lavoro;
.
di una parallelo calo dell’occupazione regolare che, ugualmente, contribuisce alla crescita delI’aggregato in misura pari a -2.4%;
.
di un forte aumento dei rapporti atipici che, da solo, è in grado di generare uno sviluppo delPoccupazione pari al 3.4%.
Nel solo 1999. la crescita di 256 mila unità fatta registrare dall’intero aggregato occupazionale
deriva per circa 240 mila unità (per circa il 93%) dallo sviluppo di questo tipo di prestazioni. Nello stesso anno, il 57% delle nuove assunzioni ha interessato queste forme di contratto.
La scarsa propensione ad un uso esteso delle forme contrattuali atipiche si accompagna a una
forte spinta ad aggirare gli obblighi contrattuali attraverso il ricorso al lavoro sommerso. I più recenti
dati di contabilità nazionale stimano che l’insieme delle attività svolte da occupati irregolari o nondichiarati ammonta a oltre 2,5 milioni di unità di lavoro. Se a queste si sommano le attività prestate
in regime di secondo lavoro (1,s milioni di unità di lavoro) e le attività svolte irregolarmente dagli stranieri non residenti (683 mila unità), l’insieme degli impieghi generati dall’area del sommerso può essere stimato produrre una domanda di lavoro di circa 5 milioni di unità.
Il fenomeno risulta essere in aumento durante tutti gli anni Novanta, con una
lavoro regolare che passa dal 86.2% del 1992 al 84.9% dei 1998. Particolarmente
sto fenomeno sono i settori dell’agricoltura, il settore delle costruzioni e quello dei
le, delle riparazioni, dei trasporti e delle comunicazioni, per i quali si registrano tassi
rispettivamente, al 30%. al 16.5% e al 19%.
quota di unità di
interessati da queservizi commerciadi irregolarità pari,
Al di fuori della media europea è inoltre il peso che, nel nostro paese, ha l’occupazione indipendente. Questa componente del mercato del lavoro ha infatti un peso superiore di quasi 10 punti
alla media europea, arrivando a pesare per oltre il 30% dell’intera occupazione. All’interno di questo
gruppo, un peso di grande rilievo è quello svolto dalle prestazioni di collaborazione coordinata e continuativa che, da sole, ammontano a circa 750 mila unità.
Tab. 4. Contributo alla crescita dell’occupazione per posizione professionale e carattere dell’occupazione
(ottobre 1992 - gennaio zooo)*
OCCUPATI
AUTONOMI
D IPENDENTI
1) TIPICI
APRILE 1995
su OTTOBRE 1992
OTTOBRE 1997
su APRILE 1995
GENNAIO 2000
su OTTOBRE 1997
GENNAIO 2000
su OTTOBRE 1992
-3,2
-0,5
-2,7
-2,7
L3
02
L1
-0,l
x2
298
04
67
-0,4
23
OS5
23
-2.4
3,4
2 ) A T I P I C I o,o
* Dati destagionaliuati
Fonte: Istat
L1
I/ ruolo delle regole
L’insieme dei dati fino a qui illustrati evidenzia come, sul mercato del lavoro italiano, sia
andata strutturandosi nel tempo una situazione di marcato dualismo in cui:
.
sul fronte dell’occupazione, accanto a un modello formale, che interessa la componente maggiormente dinamica e moderna del mondo del lavoro, si sono sviluppati in modo del tutto
complementare e funzionale i segmenti occupazionali collegati alla piccola impresa e all’artigianato, nei quali il confine col lavoro irregolare e il sommerso sono spesso sfumati, e in cui
le regole applicate sono ben diverse da quelle previste;
l.
sul fronte della disoccupazione, si è determinata una netta disgiunzione tra i segmenti forti
e i segmenti deboli dell’offerta di lavoro, con i primi contraddistinti da una situazione di
sostanziale piena occupazione, e i secondi dalla presenza di forti elementi di squilibrio, testimoniati dagli alti tassi di disoccupazione e dall’esistenza di diffusi fenomeni di disoccupazione di lunga durata.
D’altro canto, un tasso di occupazione basso è la testimonianza di come, nel nostro paese, il
sostegno dell’intero sistema gravi sulle spalle di un numero limitato di “produttori”: e questo, sia direttamente, attraverso le retribuzioni, sia indirettamente, attraverso il fisco e la contribuzione sociale.
Mentre la presenza di livelli non adeguati di formazione del nostro capitale umano produce quella mancanza di competenze, quel ritardo nelle capacità di ricerca, quella bassa reattività al cambiamento che
tanto negativamente incidono sulla capacità del sistema a rispondere alle sfide indotte dall’introduzione di nuove tecnologie.
Le difficoltà di ordine strutturale che caratterizzano il quadro economico e occupazionale
del nostro paese necessitano dunque di interventi che vadano ben al di là delle politiche fino a
oggi intraprese.
Quel che è necessario è promuovere un’azione di profondo ridisegno del sistema di regole che
presiede al funzionamento del mercato del lavoro. Va infatti risolta la dicotomia che oggi separa il
modello formale dalia realtà del Paese. Essa è fonte di cattiva informazione. Essa produce dubbi e
incertezze per gli operatori. La stessa cattiva regolazione aumenta il grado di opacità dei meccanismi
amministrativi, amplificando il rischio di soprusi da parte dell’operatore pubblico. Di qui il diffondersi
di un generalizzato atteggiamento prudenziale nell’uso del fattore lavoro e la ricerca, da parte delle
imprese, di forme di flessibilità esasperata.
Numerosi approfondimenti analitici hanno dimostrato che una normativa sul lavoro contraddistinta da forti rigidità agisce sugli aggregati occupazionali attraverso due distinti processi causali:
inducendo le imprese ad adottare una politica molto attenta a non variare i livelli di occupazio1)
ne a fronte di variazioni cicliche della produzione;
producendo effetti perversi sulle politiche salariali che si riflettono in un aumento delle retribu2)
zioni pagate ai lavoratori coinvolti nei processi di produzione e in una parallela ricerca di crescenti livelli di produttività.
Il problema del lavoro nel nostro paese va dunque risolto introducendo nuove regole che siano
in grado di superare la farraginosità e la non-attualità del modello normativo esistente, prevedendo
condizioni semplici e chiare, capaci tanto di rispondere alla domanda di regolazione che viene dalla
parte maggiormente dinamica del sistema, quanto di favorire l’emersione - e la possibilità di regolarizzazione di quel tessuto di piccola e microimpresa che in alcune aree del paese rappresenta l’elemento centrale dei nuovi processi di sviluppo in atto.
Una misura dell’insufficienza del sistema di regole oggi operante sul nostro mercato del lavoro
è data dal sistema di monitoraggio e di comparazione dei sistemi normativi predisposto dall’ocse.
Secondo queste analisi la legislazione italiana in materia di lavoro può
più restrittive. Messa infatti al confronto con quella degli altri ventisei paesi
insieme di indicatori sintetici, essa si colloca infatti al ventitreesimo posto,
sicuramente molto meno sviluppati della nostra sotto il profilo del reddito e
essere classificata tra le
membri sulla base di un
seguita solo da nazioni
della capacità di produr-
re come la Grecia, la Turchia e il Portogallo.
Da notare, inoltre, come la situazione di relativa arretratezza tenda a non migliorare nel tempo:
il confronto con la situazione in essere alla fine degli anni ‘80 consente infatti di rilevare come le modifiche introdotte nel corso degli ultimi anni, specie per quanto riguarda i lavori atipici, se da un lato
sono servite a migliorare la situazione interna, dall’altro ‘non sono invece risultate sufficienti a colmare il ritardo accumulato dal nostro Paese in questo campo. Interventi in questo settore sono stati infatti promossi in quasi tutti i sistemi. Così come alla fine degli anni ‘80, l’Italia continua dunque ad essere uno dei fanalini di coda del gruppo dei paesi Ocse.
Una lettura più approfondita degli indicatori consente inoltre di rilevare come gli aspetti particolarmente critici della regolazione del mercato del lavoro italiano riguardino soprattutto il modo in cui
sono normati i contratti regolari e i procedimenti di licenziamento collettivo. Nel primo caso, le regole
operanti nel nostro Paese sono giudicate simili, quanto a rigidità, a quelle vigenti di tradizione sovietica come la Repubblica Ceca e meno restrittive solo di quelle operanti in Corea e in Portogallo. In particolare, sono ritenute particolarmente inadeguate le norme inerenti le modalità di licenziamento e i
vincoli posti alle dismissioni che non originano da “giusta causa”. In entrambi i casi la situazione italiana si presenta come una delle maggiormente critiche all’interno del gruppo Ocse.
Quanto ai licenziamenti collettivi, la posizione relativa del nostro Paese si colloca al ventiquattresimo posto dei ventisette della classifica. Il giudizio deriva dal sovrapporsi di più fattori di criticità:
dalla estesa definizione data a questo tipo eventualità, agli obblighi di notifica previsti dalla normativa, alla frequenza con cui questi fenomeni si accompagnano a forme di compensazione di natura assistenziale volte a ridurne i costi sociali.
La normativa incide sulle dinamiche del mercato del lavoro. Pur in assenza di evidenze empiriche conclusive sul legame tra legislazione del lavoro e disoccupazione (ma maggiore sono le evidenze riguardanti il tasso di occupazione o la creazione di occupazione) è altrettanto incontrovertibile che
una rigidità di tale legislazione aumenti la durata media della disoccupazione, riduca la partecipazione della forza lavoro e non determini la necessaria capacità di aggiustamento di fronte ai mutamenti
del contesto economico. Welfare to work significa anche prevedere una modifica sostanziale della legislazione del lavoro, mediante la promozione di una vasta gamma di rapporti di lavoro, utili a garantire l’emersione del sommerso, il primo accesso al lavoro, l’impiego delle donne, dei più anziani e delle
basse qualifiche. Complementare a questo sistema è una ridefinizione negoziata delle regole di ingresso e di uscita che possa accrescere le possibilità occupazionali e, comunque, consenta una più equa
distribuzione dello stesso carico di lavoro su un numero più ampio di persone. Appare poi evidente
che politiche del lavoro attive debbano essere considerate complementari ad una contrattazione che
correli la retribuzione al territorio e soprattutto ai risultati aziendali.
Politiche attive del lavoro e Welfare to work: una nuotqstagione
Il problema italiano, al di là delle recenti dinamiche congiunturali, consiste nel come affrontare
il problema della disoccupazione e come favorire una crescita dell’occupazione. Recenti analisi condotte in sede Ocse riguardanti la popolazione in età lavorativa hanno mostrato che i Paesi caratterizzati da un tasso elevato di disoccupazione presentano anche una bassa percentuale di occupati e
una bassa partecipazione alla forza lavoro. Appare dunque necessario aumentare la quota di occupati rispetto al totale della popolazione attiva, poiché esiste un ampio potenziale di lavoratori che
deve essere attivata mediante politiche che facilitano le transizioni, l’inserimento lavorativo, I’emersione dal sommerso. L’azione di politica economica deve risolvere quei nodi di carattere strutturale
che rendono rigido il mercato del lavoro italiano e che possono essere identificati negli inadeguati
incentivi al lavoro, fondati sul combinarsi di un elevato cuneo fiscale-contributivo e su un sistema
di sussidi alla disoccupazione a carattere passivo; nel costo del lavoro sostanzialmente più elevato
rispetto agli altri Paesi europei, a causa del peso rilevante dei contributi sociali; nel crescente
mismatch tra quatifiche e aree regionali.
Politiche attive del lavoro e Welfare to work possono essere considerate una strategia di mediolungo periodo per riportare le nostre dinamiche vicine a quelle della media europea. Come anche rico-
nosciuto dal recente documento congiunto anglo-italiano Blair-D’Alema - in parte disconosciuto per la
cieca resistenza di una parte delle forze sociali e politiche - qualsiasi politica che abbia come obiettivo la riduzione della disoccupazione deve combinare una politica “restrittiva” e selettiva di ammortizzatori sociali con una politica espansiva attiva di incontro di domanda e offerta, che possa facilitare il
,>
reinserimento dei lavoratori.
In questo quadro, una prima linea d’azione deve interessare il meccanismo di incontro tra
domanda e offerta di lavoro, ora affidato in maniera crescente alle regioni e dunque più vicino alle
necessità dei singoli sistemi locali. Tale meccanismo, che deve essere aperto ai privati in maniera completa, può contribuire alla crescita dell’attività economica e alla riduzione della disoccupazione.
In secondo luogo occorre agire sul sistema di incentivi alla disoccupazione che possono avere,
e hanno avuto in Italia, l’effetto di incoraggiare l’inattività dei soggetti interessati.
La riforma degli ammortizzatori sociali rappresenta la riforma chiave del sistema di Welfare to
work che si intende introdurre. Una riforma che deve ridurre le forme di protezione dell’impiego eccessive ma che deve anche offrire un sistema di assicurazione “decente” contro il rischio della disoccupazione. Il sistema di protezione deve spostarsi dal posto di lavoro al mercato, con adeguate penalizzazioni per chi rifiuta lavoro o formazione. Ulteriori elementi di “sicurezza” possono e devono essere riformati, rafforzati o aggiunti ma nello stesso tempo occorre intervenire affinché strumenti idonei
ad un Welfare state di assistenza non siano mutati in strumenti di puro assistenzialismo. Interventi di
“sicurezza” sono quelle politiche attive del lavoro che, lungi dal costruire forzosamente posti di lavoro fittizi, promuovono la responsabilità dell’individuo accompagnandolo a forme di auto-impiego e si
rivolgono in particolare alle fasce svantaggiate, per offrire ad esse percorsi formativi più mirati o utili
esperienze
professionali.
Questa combinazione di politiche può rappresentare
mento della mobilità regionale, dal momento che il mercato
colare maggiori informazioni sui posti vacanti. In questo
mismatch che sorgono a causa della esistenza di squilibri
un incoraggiamento esplicito ad un incrediventa più trasparente e che possono cirmodo si possono superare i problemi di
geografici.
Una rinnovata attenzione deve essere poi prestata alle condizioni di igiene e sicurezza nel lavoro che non sono necessariamente garantite da norme complesse e oneri burocratici cui può fare da
pendant un diffuso e pericoloso sommerso...
Devono essere promossi, in tutte le forme possibili, la partecipazione e t’azionariato dei lavoratori e
la condivisione del rischio e dei benefici dello sviluppo delle imprese. Va dunque promosso un sistema economico e giuridico dove la fine della contrapposizione tra capitale e lavoro venga riconosciuta
e favorita dalla legislazione. In primo luogo, va favorito l’accesso dei lavoratori al capitale azionario,
attraverso fondi pensione realmente volontari, gestiti secondo le regole dei mercati finanziari. In secondo luogo, va favorita la possibilità da parte dei dipendenti di partecipare al capitale della propria azienda. Nella ricerca del complesso equilibrio tra flessibilità e sicurezza gioca un ruolo determinante la
ricerca di nuove forme di partecipazione dei lavoratori dipendenti nonché il dialogo sociale tra le parti
direttamente e tra queste e le istituzioni, nel rispetto dell’autonomia dei ruoli. I lavoratori devono poter
responsabilmente assumere diritti partecipativi che consentano loro:
1)
2)
il controllo sulla trasparenza di bilanci da cui dipende buona parte delle retribuzioni;
una adeguata consultazione in relazione alle fondamentali scelte strategiche.
Educazione e formazione
L’educazione, l’istruzione e la formazione assumono un ruolo fondamentale per lo sviluppo
socio-economico e per l’occupabilità. La maggior parte dei paesi industrializzati ha realizzato politiche
economiche e di ridisegno dello stato sociale in cui la riforma dei sistemi di istruzione e formazione,
il tema della valorizzazione delle risorse umane, degli investimenti in risorse immateriali, sono stati
centrali sia nella definizione delle condizioni di partecipazione e di crescita democratica dei cittadini
sia come elemento di competitività dell’economia e del sistema produttivo.
Inoltre, il piano di sviluppo sociale dei paesi comunitari sarà sempre più condizionato dai problemi indotti dal processo di ampliamento dell’Unione Europea, da una società che è sempre più organizzata in modo policentrico e diffuso e da un sistema produttivo ed economico che travalica gli spazi
nazionali per approdare a dimensioni regionali che di fatto superano lo “Stato nazione”.
;
C’è, infine, nel nostro Paese la necessità di adeguare il sistema d’istruzione e di formazione al
nuovo assetto federalista dello Stato, invertendo la logica centralista e burocratica che lo pone in una
condizione di ritardo ed inefficienza e che lo relega agli ultimi posti fra i paesi europei ed Ocse.
A fronte di questo scenario non sono state avviate riforme capaci di modificare l’ossificazione
burocratica del sistema di istruzione e di formazione; si sono amplificati, invece, i ritardi e le inefficienze.
Ritardi determinati anche dalla precarietà di molte strutture istituzionali del governo locale nei
confronti del sistema scolastico e ciò rappresenta, in particolare, un fattore di ritardo nello sviluppo e
nelle condizioni di vita delle regioni del Mezzogiorno, anche a seguito di una distorta concezione della
funzione e dei compiti dell’istruzione. In Italia, contrariamente a quanto avviene nei paesi a democrazia avanzata, si è consolidata l’idea che il sistema di istruzione pubblico debba coincidere con il sistema statale e ciò ha ingenerato fenomeni di distorsione della funzione dello Stato sia come gestore del
sistema sia come “monopolista” della politica di offerta d’istruzione. C’è, infine, nelle scelte di questa
maggioranza l’idea che l’offerta di istruzione e formazione determinerà sviluppo e crescita economica.
È innegabile che una società più istruita sarà sicuramente capace di comprendere meglio i processi di
sviluppo ma è fondamentale comprendere che lo sviluppo economico e del sistema produttivo sono i
motori della crescita e dei bisogni di istruzione e di formazione. Così come è successo nell’immediato
dopoguerra quando in lialia nascevano e si sviluppavano, nel tessuto delle piccole imprese artigiane
e fuori dalla scuola e dai centri di formazione professionali, capacità progettuale e ricerca di nuove
soluzioni tecnologiche ed imprenditoriali che hanno fatto crescere il nostro Paese e hanno fatto sviluppare l’istruzione e la formazione professionale. Il sistema di istruzione e di formazione cresceva,
cioè, per dare risposta alle domande dell’economia e della società.
Invece, anche a seguito degli accordi neo-corporativi di concertazione si tende a utilizzare l’istruzione e la formazione come strumenti di sostegno alle politiche del lavoro e di conservazione autorefenziale dell’attuale struttura del sistema formativo: un’istruzione e una formazione professionale
finalizzate al mantenimento dei posti di lavoro piuttosto che come fattori di sviluppo, come elementi
di anticipazione e di sostegno ai processi di crescita della società e del sistema produttivo. Ne è un
esempio la gestione politica della formazione professionale regionale attivata sulla ripetitività dei corsi,
costruiti sulle professionalità (spesso molto scarse) del personale in servizio, piuttosto che sulla innovazione dei percorsi formativi, così come l’utilizzo dei finanziamenti pubblici e del fondo Sociale
Europeo come “incentivo” alle imprese o come una sorta di “sussidio di disoccupazione” per le migliaia
di formatori del settore e per gli stessi corsisti - in particolare nelle regioni del Mezzogiorno si attivano corsi di formazione su qualifiche professionali che non hanno alcuna corrispondenza con le esigenze
del Mercato del lavoro, e nei quali gli iscritti ricevono un rimborso (sussidio) mensile ingenerando il
“mestiere” del corsista, oltre a quelli ormai storici del disoccupato e del lavoratore socialmente utile.
Il sistema di istruzione, d’altro canto, imperniato soprattutto sulla politica di gestione del personale, è in grande ritardo rispetto ai processi evolutivi sia del quadro economico sia di quelli scientifico - tecnologico e socio - culturale.
Tale ritardo è determinato principalmente da una politica basata esclusivamente sul monopolio
dell’offerta statale, centralizzata e poco attenta ai bisogni e ai processi di sviluppo socio-economico;
esso, in particolare, si confronta con: bassi livelli qualitativi di istruzione della popolazione; carenza di
infrastrutture (laboratori tecnologici, aule, servizi) e in formazione del personale; carenza del raccordo
istruzione/formazione/lavoro;
inadeguatezza dei processi di orientamento che determinano da un lato
elevati indici di dispersione scolastica e universitaria e, dall’altro, anche a causa dell’arretratezza del
sistema di formazione professionale regionale, fenomeni di “sovraqualificazione dequalificata” (nel
Mezzogiorno, il 31,2% di disoccupati di 25/34 anni con laurea sta a dimostrare che c’è poca rispondenza fra i livelli formali di istruzione e la domanda del sistema produttivo); difficoltà di portare a regime un quadro di riforma e di innovazione coerenti con gli attuali assetti sociali; difficoltà di avviare
politiche contrattuali e di definizione delle funzioni del personale docente coerenti con la necessità di
valorizzarne il ruolo e di riconoscerne le diverse ed articolate professionalità.
Queste considerazioni avrebbero richiesto ai Governi che si sono succeduti nell’ultimo decennio una capacità innovatrice che è mancata e che, negli ultimi quattro anni, è stata inficiata sia da una
incapacità a cogliere gli elementi fondamentali di un moderno processo di riforma sia dalla politica
contrattuale.
Il processo riformatore avviato negli ultimi anni ha avuto, infatti, i suoi elementi di definizione
più cogenti al di fuori del Parlamento in accordi di concertazione neo-corporativa con quelle organizzazioni, sindacali e datoriali, che sono state e sono la causa principale delle sfascio dei sistemi di istruzione e di formazione professionale. Tutto è stato improvvisato e piegato agli interessi neo-corporativi della “concertazione”. La spinta alla conservazione e al mantenimento dei poteri degli apparati burocratici nazionali ha prodotto, infatti, l’avvio di un processo di autonomia senza trasferimento di poteri. Nel progetto di autonomia varato non si modificano le fonti di finanziamento, il sistema di reclutamento e di contrattazione del personale, non si ridefiniscono il ruolo ed i poteri delle famiglie.
1 dati comparativi con i paesi Ocse mostrano come l’Italia sia il paese che ha sviluppato maggiormente la concezione dello stato centrale nelle politiche educative, rendendo residuale la partecipazione delle comunità locali. Se si analizzano le fonti di finanziamento ci si rende conto come il peso
dello Stato sia opprimente rispetto alle autonomie locali. In Italia, infatti, il finanziamento del sistema
di istruzione è erogato per l’83,1% a livello nazionale, solo per il 3.6% a livello regionale e per il 13,2%
a livello locale (comunale e provinciale) contro il 51,4%, il 27% e il 23,6 rispettivamente della media
dei paesi Ocse. I dati relativi alle fonti di finanziamento in Germania (3,5% nazionale, 76,g% regionale e lg,6% locale) ed in Spagna (4o,g% nazionale, 53% regionale e il 6,1% locale) sono elementi utili
per una riflessione sul modello federalista dello Stato.
Inoltre, le spese di investimento sono residuali rispetto a quelle di funzionamento e quest’ultime coprono principalmente gli stipendi. Anche in questo caso il dato comparativo con paesi Ocse è
sconfortante: le spese di funzionamento sono il 97,3% contro il 91% della media Ocse e il 91.5% se
ne va in stipendi a fronte dell’B~,B% della media Ocse.
Va considerato, infine, che un dimensionamento ottimale delle sedi scolastiche, per la concessione dell’autonomia, dovrebbe comportare una ridetìnizione del processo di “razionalizzazione” della
rete scolastica. Questo processo, avviato agli inizi degli anni ottanta e determinato per ottimizzare la
spesa per l’istruzione, anche a seguito dell’avvio della fase di riduzione della spesa pubblica, non ha
comportato cambiamenti significativi nella struttura e nel dimensionamento della scuola italiana.
Infatti, il numero di alunni per classe è aumentato da 19.5 del 19989/90 a 20,3 del 1g98/99 mentre,
nello stesso periodo, il numero di alunni per insegnante è rimasto pressoché identico, da 10,2 a 10.3.
In Italia abbiamo il più basso rapporto alunni per insegnante, rispetto ai paesi Ocse.
Se si raffrontano questi dati a livello europeo, dove il rapporto alunni/insegnanti
è all’incirca
pari a 17. se ne deduce che nel nostro paese abbiamo almeno 15o.ooo insegnanti in più. È evidente
che il dominio sindacale, frutto del patto consociativo fra Amministrazione e amministrati, ha posto al
centro la difesa ad oltranza dei posti di lavoro - la protezione assistenzialista - inficiando qualsiasi
spiraglio riformatore. Cossificazione consociativa ha prodotto una serie di provvedimenti sul reclutamento del personale, gli ultimi sono dell’agosto del 1999, che consentono a masse di precari di entrare in ruolo “ope legis”, tramite corsi di formazione gestiti principalmente dalle stesse organizzazioni
sindacali, e che nei prossimi anni bloccheranno di fatto qualsiasi spiraglio di rinnovamento del corpo
professionale dei docenti. Si mantengono posti di lavoro professionalmente dequalificati con bassi
salari, pochi doveri e tanti privilegi corporativi che nuocciono ai docenti più motivati e preparati.
Le recenti modifiche al Decreto Legislativo 2g/93
cato i poteri impropri del sindacato. Le riforme era nata,
esigenza di favorire l’ammodernamento della Pubblica
dalle “incursioni legislative” delle lobby parlamentari e
tato è in contrasto con le aspettative: il nuovo modello
e alcune pratiche contrattuali hanno amplifialmeno dalle dichiarazioni dei promotori, dalla
Amministrazione liberando la contrattazione
dalla consociazione politico-sindacale. Il risulcontrattuale ha portato spesso ad una inver-
sione dei ruoli e, almeno nella scuola, ha amplificato l’ingerenza dei sindacati nelle funzioni e nelle
responsabilità della politica, estendendo le distorsioni della vecchia contrattazione pubblica. Basti
pensare che il cosiddetto secondo livello contrattuale, il Contratto Integrativo appunto, si negozia a
Roma. Un duplicato del Contratto Nazionale rispetto al quale cambia soltanto l’interlocutore di parte
pubblica: dall’ARAN (agenzia indipendente) al Ministro della Pubblica Istruzione. In esso, per quanto
riguarda il personale amministrativo, così come nel contratto dei ministeri, riaffiorano vecchi vizi del
consociativismo: “promozioni del personale” amministrativo, dopo un breve corso di formazione, con
le quali si distribuisce il fondo di incentivazione (doveva essere legato alla produttività). Il dato interessante riferito al solo personale amministrativo è il seguente: le “funzioni complesse” (così definite
dal Contratto Nazionale Integrativo) da riconoscere sono determinate dal corso di formazione e dalla
consistenza del salario accessorio da ripartire, e queste, una volta riconosciute, determineranno a loro
volta il modello di organizzazione dell’amministrazione. È chiaro che questo modello va invertito.
L’autonomia delle scuole e un’articolazione regionalista dello Stato sono gli strumenti che potranno
modificare questa ossificazione centralista, burocratica e consociativa.
Il conferimento dell’autonomia alle singole scuole con l’alleggerimento del peso e del ruolo dei
livelli centrali e periferici dell’amministrazione, con un maggiore ruolo delle famiglie nella scelta educativa dei tigli e con la responsabilizzazione delle comunità locali nella definizione dei servizi, è fattore decisivo per lo sviluppo qualitativo e democratico del sistema di istruzione. Affinché l’autonomia
non si riduca solo a strumento amministrativo ed organizzativo, sembra necessario coinvolgere le
comunità locali nelle scelte scolastiche delle popolazioni che esse rappresentano ed è contraddittorio
voler assicurare una gestione pedagogica nazionale - storicamente manifestatasi come imposizione e
omologazione al potere dominante - e allo stesso tempo adattarla alle realtà locali.
Un’articolazione regionale dell’istruzione - che non è sinonimo di decentramento - presuppone uno Stato leggero, meno invadente ed opprimente, che si fonda sulla liberalità e sulla sussidiarietà. Passare, cioè dallo Stato gestore alla Repubblica, per consentire alle comunità locali, alle famiglie, alle istituzioni sociali di esercitare il valore costituzionale di responsabilità nel campo educativo
che non può essere delegato alle burocrazie statali.
Ciò comporta una grande responsabilità dello Stato nel fissare gli elementi essenziali che
garantiscono, da un lato, l’apporto di culture diverse e, dall’altro, l’eguaglianza dei cittadini rispetto
alla scuola. Si tratta di un modello di scuola che sia consono a soddisfare i bisogni educativi di una
società caratterizzata da una crescente differenziazione e che sia capace di valorizzare le diversità individuali rispettando, da un lato, le identità culturali delle singole comunità e, dall’altro, garantendo gli
elementi costitutivi della nostra cultura nazionale. Non la semplificazione di una cultura unica in cui le
altre si confondono né la finzione della “compresenza” di culture che non interferiscano e non si contaminino fra loro.
Per questo lo Stato deve definire le finalità generali dell’istruzione, l’organizzazione dei corsi
di studio, i curricoli nazionali che coprano solo una parte dell’attività didattica (60.70%), la formazione iniziale dei docenti, gli standard di certificazione e istituire un Servizio di Valutazione, completamente indipendente dal Ministero della Pubblica Istruzione: una Autorità indipendente, controllata dal
Parlamento, capace di verificare i risultati del sistema e di facilitare il processo di programmazione e
di autovalutazione delle scuole.
Gli altri aspetti quali: il finanziamento, il reclutamento e la formazione in servizio del personale docente, una parte dei programmi, la gestione del personale e la contrattazione vanno assegnati
alle istituzioni locali.
Le scuole dovranno avere: capacità di spesa e di reperire risorse aggiuntive sia pubbliche che
private, responsabilità nella gestione del personale, capacità negoziale. Questo quadro comporta la
rideterminazione del dimensionamento delle unità scolastiche che va definito con parametri coerenti
con le funzioni che dovranno svolgere le scuole autonome e comparabili a quelli degli altri paesi avanzati. È realistico pensare alla organizzazione delle scuole comprendenti più sedi e quindi alla riduzione di alcune migliaia di unità amministrative. Le scuole di piccole dimensioni oon si giustificano, infatti, sia dal punto di vista economico (una pletora di Dirigenti scolastici e Direttori amministrativi) che
organizzativo (gestione del personale, reclutamento di parte del personale e di esperti, contratti per
forniture, acquisto di beni, etc).
La libertà di insegnamento e il pluralismo delle scuole, la libertà di scelta delle famiglie, la competizione e l’autofinanziamento sono gli strumenti fondamentali per voltare pagina.
Per il personale docente va fatto un discorso a parte. La funzione dei docenti va innanzitutto
rivitalizzata liberandola dal torpore e dal modello impiegatizio in cui è stata relegata dalle politiche
contrattuali degli ultimi decenni. I contratti di lavoro hanno spinto ad uniformare l’orario di lavoro - le
lezioni frontali - verso un modello che si ispira, da un lato, ad un tempo ridotto di lavoro e, dall’altro,
a dilatare gli organici: bassi salari, poco orario e responsabilità, facilità di reclutamento, nessuna verifica professionale. La riforma della scuola elementare è l’esempio concreto di questa politica: con la
struttura di tre insegnanti su due classi si è praticamente ridotto l’orario di insegnamento diretto dei
maestri elementari a 17-18 ore settimanali (era di 24 ore) uniformandolo, in un certo senso, a quello
dei docenti della secondaria.
Con l’ultimo contratto si è operato, infine, un ulteriore appiattimento contrattuale del personale docente con il personale amministrativo. Questo è stato determinato anche dall’anomalia tutta italiana che vede un contratto di comparto che tenta di rappresentare contemporaneamente il lavoro
amministrativo (dal bidello al direttore amministrativo), le prestazioni dell’insegnamento, peraltro
appiattite sull’anacronistico principio dell”‘unicità della funzione docente”, e le funzioni dei dirigenti.
Si è consolidata, in questo modo, nella maggior parte del personale docente un modello di
lavoro privo di senso, di natura impiegatizia non professionale e, per di più, a “tempo parziale”. D’altro
canto l’avvio del processo di autonomia, in particolare negli istituti tecnici e professionali, ha determinato un impegno professionale ed orario differenziato fra i docenti. In molti istituti si sono di fatto
costituiti team professionali di supporto alla gestione della scuola; questa organizzazione continua a
basarsi, purtroppo, sulla disponibilità dei singoli e le diverse articolazioni delle prestazioni professionali non sono in alcun modo riconosciute né giuridicamente (definizione di profili) né contrattualmente (salario ed orario).
Gli investimenti sul personale docente vanno concentrate, quindi, sulla definizione di articolazioni delle funzioni della docenza, che si concretizzino nel riconoscimento di un diverso impegno professionale sia rispetto al tempo di lavoro sia in relazione all’arricchimento del profilo professionale. In
questo senso, definendo una separata area contrattuale per il personale docente e riportando il rapporto alunni. insegnanti su parametri comparativi a livello europeo, si potrà operare una scelta economica differenziata e coerente con il riconoscimento professionale e sociale di questa professione. Ferma
restando la necessità di riqualificare tutto il personale, non si tratta di individuare chi è più bravo, con
quiz o altri strumenti, ma di preparare dei docenti più esperti che decidono di impegnarsi a tempo
pieno nella scuola, lasciando ad altri la possibilità di scegliere per un impegno professionale ed orario meno gravoso.
Lo sviluppo sociale ed economico delle moderne società richiede alle persone capacità di adattamento alle modifiche dei sistemi produttivi e pone la necessità di ridefinire le finalità dell’istruzione
e della formazione.
La formazione finalizzata (utilitaristica) quasi esclusivamente in funzione delle politiche del lavoro - concezione che nel nostro paese è cresciuta negli ultimi anni principalmente per garantire le lobby
sindacali dei centri di formazione - rischierebbe di non cogliere appieno le esigenze delle moderne
società. La sequenza di vita: studio da giovani, lavoro da adulti, riposo da anziani è ormai superata.
Questa concezione era coerente con una società in cui la vita dell’uomo era riempita completamente
dal lavoro. Oggi c’è sempre meno tempo di lavoro nel tempo di vita degli uomini e il tempo liberato
dal lavoro può essere anche strumento di partecipazione e di crescita democratica delle persone. Se si
associa a ciò il fatto che le tecnologie, la possibilità di accesso consapevole ai moderni canali di comunicazione e di informazione determineranno nuove emarginazioni sociali e culturali si deduce che la
sequenza formazione iniziale-formazione continua (prevalentemente sul lavoro) ha fatto il suo tempo
e che bisogna immaginare dispositivi di formazione “lungo tutto l’arco della vita” al di fuori della scuo-
la e dello stesso lavoro.
Un obiettivo strategico è quello di attivare politiche di sviluppo basate sull’innovazione e sulla
conoscenza che siano in grado di aumentare i livelli di crescita economica. Lo sviluppo delle tecnologie e della società dell’informazione sono, in questo senso, elementi di abbattimento delle frontiere e
possono essere i motori di un nuovo modello di integrazione. È sempre più evidente, però, che per la
società dell’informazione non è soltanto questione di informazione, ma soprattutto è questione di
sapere, di innovazione e di sviluppo economico e sociale. Cinnovazione e la conoscenza diventano, in
questo quadro e in misura sempre crescente, la fonte determinante di ricchezza nonché possibile causa
di divario con rischi di esclusione sociale. Le politiche per l’occupabilità dovranno basarsi, quindi, su
una popolazione più istruita, capace di cogliere i mutamenti sociali ed economici, di adattarsi ai cambiamenti, favorendo processi di mobilità professionale. Cazione preventiva rispetto all’esclusione dai
processi produttivi e del lavoro dovrà essere nei prossimi anni al centro dell’agenda politica.
Il nuovo quadro deve essere messo in relazione con la richiesta di elevati standard formativi e,
pertanto, serve un sistema educativo che innalzi i livelli di istruzione e formazione di base e consenta
alle persone di continuare ad apprendere e a formarsi. Per queste ragioni il sistema formativo dovrà
svilupparsi da un lato in un percorso liceale - il canale dell’istruzione dopo la scuola di base - per
favorire livelli di formazione generale più ampia ed in stretto rapporto con l’istruzione superiore universitaria e in un sistema avanzato di formazione professionale - per l’obbligo formativo fino a 18 anni.
Il sistema di formazione professionale andrà riformato radicalmente per rispondere alla domanda di professionalità intermedie e medio-alte indirizzate, essenzialmente, su due fronti: nuove professioni che richiedono professionalità altamente specializzate; modifica delle attività tradizionali e delle
professioni intermedie. Non serve, per questo, l’attuale formazione professionale che, da un lato, propone iniziative frammentate di “formazione aziendale” e, dall’altro, funge da canale di recupero per i
giovani espulsi dal sistema di istruzione. La formazione professionale dovrà avere la dignità di percorso formativo, parallelo a quello di istruzione, che interessa i giovani dai 14 ai 21 anni - formazione di
base fino ai 18 anni e formazione professionale post secondaria-.
Il percorso liceale, organizzato in grandi ambiti disciplinari, deve puntare a fornire ai
una istruzione di base qualificata, capace di interpretare correttamente le sfide poste dallo
della società dell’informazione. I linguaggi di comunicazione, la cultura scientifica e lo studio
guaggi logico-formali, l’economia dovranno essere inseriti in una nuova organizzazione della
e dei curricoli.
giovani
sviluppo
dei lindidattica
La cultura scientifica in Italia non ha avuto un adeguato supporto pedagogico e le si è negato
spazio e ruolo riducendola spesso a “‘tecnica”. Bisogna sciogliere questo nodo che porta a semplificazioni che non risolvono il tema della “gerarchizzazione” dei saperi, e rischiano di riproporre processi
di omologazione del sistema di istruzione. Eliminare il liceo classico e con esso genericamente gli studi
classici e focalizzare l’attenzione sulla “modernità tecnologica” nonché sulla storia dell’ultimo secolo,
non è sufficiente per avere una scuola qualificata, interprete delle moderne società.
Il dibattito sull’insistenza dell’introduzione delle nuove tecnologie porta con sé l’equivoco della
riduzione della scienza a tecnica. Le “nuove tecnologie” viste in modo riduttivo negano la creatività
che deriva dall’uso dei linguaggi formalizzati con il rischio che un’attività critica, come quella nel campo
delle scienze logico - matematiche, sia snaturata a passivo adeguamento a schemi predefiniti. In questo contesto l’uso delle tecnologie non può sostituire l’uso dei linguaggi verbale e scritto e bisogna
evitare di assecondare le “tendenze alla moda” che rischiano di snaturare i processi e gli stili di apprendimento dei giovani senza possedere, peraltro, adeguati strumenti di controllo.
Si pensi al grande contenitore della rete internet così come alla televisione e più genericamente agli altri mezzi di comunicazione di massa. La crescente asimmetria tra scuola ed extra-scuola, intese come fonti formative, e l’evidente contrasto tra la staticità della prima e il dinamismo della seconda pongono problemi di ridefinizione dell’organizzazione della didattica. La scuola rischia di essere
spiazzata di fronte a un mondo giovanile che è sempre più esposto all’azione degli strumenti dell’elettronica e delle telecomunicazioni. Preoccupa, in questo contesto, l’emergere di un discorso pedago-
gito “buonista” e fittiziamente orientato agli studenti, che tende a trasformare la scuola in “luogo di
accoglienza” svuotando i piani disciplinari e favorendo modelli di apprendimento che negano la selezione e la differenziazione. Si tende ad omologare ed uniformare su livelli di apprendimento mediobassi, favorendo nei giovani illusioni e aspettative che saranno smentite nel rapporto con la realtà effettiva (mondo del lavoro o accesso agli studi universitari).
In particoLare, nel segmento secondario bisogna valorizzare la differenziazione dei percorsi individuali sia come modello di competitività positiva, di emulazione alla crescita culturale, sia come strumento che risponda alle esigenze di orientamento e di valorizzazione delle attitudini e delle propensioni personali dei giovani. Le differenze sono un valore ed una ricchezza per la società. Garantire I’eguaglianza delle opportunità formative significa superare l’idea per cui tutti, negli stessi tempi e con
gli stessi strumenti, possano raggiungere risultati identici. Cuniformità non è eguaglianza e rappresenta una falsa concezione del diritto allo studio che garantisce solo l’accesso e non il successo negli studi
e nella vita.
In questo modo saranno proprio le fasce più deboli - che hanno nella scuola l’unico luogo di
apprendimento - a subire l’esclusione dai livelli più alti della conoscenza. Gli altri, i ceti privilegiati,
potranno accedervi anche al di fuori della scuola.
Tab. 5. Fonti di finanziamento pubblico In alcuni paesi Ocse
(insegnamento primario e secondario)
per livelli di amministrazione.
( Tab.~6. Spese pubbliche per l’insegnamento nelle
scuole primarie e secondarie, si ia rwbbliche che private. per categoria di spesa m ialCIuni paesi Ocse.
T?IPanrlzloNE SPESE
t
PAESE
- ~.
STATI UNITI
G IAPPONE
GERMANIA
BELGIO
S PAGNA
F RANCIA
I TALIA
R EGNO U N I T O
MEDIA PAESI
OCSE
I
jTIPENoI
47,7
75,v
76.9
94,3
53
11.3
336
79.5
87
87,2
84.1
19,6
5.7
6.1
13
13,2
92.5
23,6
27
81
78,6
91,5
7297
81,8
20,5
13
12,8
15,v
19
21,4
8,5
27.3
18,2
Fonte: dati Ocse 1997
Tab. 7. Rapporto studentilpersonale
alcuni paesi Ocse.
docente per livello d’istruzione (Calcolo basato sugli equivalenti a tempo pieno) in
I SbF
Istruzione secondaria 1Istruzione secondaria / Tutta I’istruzione
-Pa-/
inferiore
IPWiOE
secpndada
1
I-
STATI UNITI
N. 0.
G IAPPONE
G ERMANIA
BELGIO
S PAGNA
F RANCIA
ITALIA
R EGNO U N I T O
MEDIA P A E S I
OCSE
19,2
20,4
13.2
17,6
19,3
9.9
21,7
17s
N. 0 .
19.2
2b;5
13,3
19,2
19,6
10,2
20.7
17,9
PUBBLICO
-~
N. 0.
16,3
15,7
PUBBLICO
E PRIVATO
N. 0.
l6,2
15,7
‘VBBLICO
N. 0.
14,v
12,4
‘UBBLICO E
PRIVATO
N. 0.
15,8
12
17,l
18,2
13,7
14,8
8
i7,a
8
1699
16
9.2
12,v
12,9
83
15,l
13.2
15,8
l
_
I-1
.~_
Tab. 6. Evoluzione del numero degli alunni. delle classi e dei posti del personale docente negli ultimi di4 ar m i
1
I dati relativi all’anno scolastico 1998/99 degli alunni sono tifedti agli iscritti, mentre per gli altri anni viene
riportato il numero degli alunni che hanno frequentato. Quelli relativi ai docenti sono riferiti ai posti di ruolo: a
questi vanno aggiunti circa 80.000 precali.
Fonte: elaborazione su dati del Ministero Pubblica Istruzione
Graf. I
ANDAMENTO
ALUNNI ,
CLASSI
E
DOCENTI
105
ALUNNI
95
CLASSI
e-y.--,
INSEGNANTI
85
80
FONTI : ELABORAZIONI
su
DATI
MPI
PAESE
LIVELLO DI ISTRUZIONE
NUMERO ANNUO DI
D’INSEGNAMENTO
ORE
1537
1537
1537
1230
1230
1230
41
37
Fonte: elaborazione su dati Commissione Europea - EURIDYCE.
Corario di lavoro comprende sia le attività di insegnamento sia le attività collaterali. Queste ultime variano dalla
partecipazione agli Organi collegiali ad interventi di assistenza e tutoraggio degli studenti, ad attività di
programmazione e progettazione.
Calcolo medio su tutti i livelli di istruzione.
Il carico di lavoro annuo degli insegnanti non è stabilito né dal contratto né da regolamenti.
Esiste un solo modello di orario.
Nella scuola elementare I’orario di insegnamento è organizzato su moduli di 4 insegnati su tre classi o tre
insegnanti su due classi. Corario prevede inoltre I’insegnamento della religione cattolica (z ore settimanali) che
viene svolto nella maggior parte dei casi da personale esterno. In questo caso, l’orario di insegnamento si
riduce ulteriormente.
In Inghilterra, nel Galles e nell’Irlanda del Nord gli obblighi di lavoro non sono distinti in insegnamento e altre
attività.
3.2. Sanità: una riforma emblematica
La sanità è uno dei terreni su cui si sono cimentati i progetti riformatori dei governi di centrosinistra. Ci sono voluti almeno tre anni per portare a termine la riforma ter (decreto legislativo n.
zzg/199g) fortemente voluta dal Ministro Rosy Bindi, fino al punto di imporla ad un governo che all’ultimo momento aveva avuto dei ripensamenti, ma che era stato costretto al varo del provvedimento a
causa del sopraggiungere della scadenza della delega. Ma i dubbi non sono scomparsi del tutto, se è
vero che a questa riforma sono stati attribuiti gli insuccessi elettorali della maggioranza e che, nell’esecutivo presieduto da Giuliano Amato, è stato completamente azzerato il vertice del Dicastero (tanto
il Ministro quanto i Sottosegretari) che della riforma avevano la paternità. Attualmente, è in atto un
cauto disegno di rivisitazione di alcuni aspetti del riordino, ad opera del Ministro Umberto Veronesi, il
quale ha un mandato ad agire in direzione di una modifica senza poterlo dichiarare esplicitamente. Ma
è sempre più evidente che la riforma ter giace inapplicata nei suoi contenuti ordinamentali e che finirà
nel dimenticatoio in cui si ripongono i processi che compiono percorsi a ritroso rispetto a quelli della
storia di un paese.
La stessa sorte ha avuto il “sanitometro”, un marchingegno che, col pretesto di sancire i requisiti per l’accesso alle prestazioni, pretendeva di mettere in opera un sistema parallelo di accertamento fiscale. La sua pratica irrealizzabilità e i suoi assurdi costi amministrativi sono stati criticati, al dunque, da tutte le Regioni.
Fin dall’inizio il progetto Bindi è stato requisito dalle problematiche dei medici, è diventato un
affaire tra il Ministro e i sindacati della categoria; mentre nessuno si è occupato dei più gravi ed impor-
tanti assetti istituzionali. Anche ora la questione dei medici (esclusività del rapporto di lavoro, full time
ed attività intramoenia) domina la scena politica, ma per fortuna le altre parti della legge sembrano
essere accantonate.
1)
2)
3)
4)
5)
Alla riforma ter si possono rivolgere le seguenti critiche:
un effetto pratico destabilizzante del sistema sanitario. Una revisione a raggio tanto vasto, con
inevitabili ricadute applicative a livello nazionale, regionale e locale era destinato a gettare il
Servizio nel caos, costringendolo a riaprire percorsi appena definiti in base alla vigente legislazione e alle modifiche recate - ripetutamente - negli ultimi anni. Un riordino tanto ampio sarebbe stato giustificato nel caso in cui fosse cambiata l’impostazione di fondo a cui P approdato il
Servizio sanitario nazionale (Ssn) dopo gli interventi succedutisi dal 15192 in poi (aziendalizzazione delle USI a conduzione manageriale, governante a dimensione regionale, parziale autonomia finanziaria prima con la devoluzione dei contributi sociali riscossi nel territorio della regione, poi attraverso l’lrap, conseguente modificazione del ruolo del Fondo sanitario nazionale,
introduzione del parametro della quota capitaria (la somma riconosciuta a ciascun cittadino)
come metro di misura degli apporti da conferire, eccetera). Invece, il dlgs n.zzg/lggg mantiene
nei suoi contorni questo impianto, salvo modificarne i pochi aspetti maggiormente innovativi,
affogandoli in un mare di mezze misure;
la separazione tra risorse disponibili e servizi resi. La normativa previgente tentava una difficile
quadratura del cerchio (nel senso di legare le prestazioni al parametro della quota capitaria, per
cui non veniva attribuito ai sottosistemi regionali un finanziamento superiore (in proprio e tramite il riparto del Fondo nazionale) all’ammontare derivante (con alcune compensazioni) dal prodotto tra la quota capitaria e il numero degli abitanti nella regione. Questa impostazione, tuttavia, avrebbe dovuto indurre Le Regioni a contenere le spese o a ricercare in proprio le risorse
mancanti. La riforma Bindi ha fatto saltare questo vincolo, nel senso di legare il finanziamento
alla definizione di livelli di assistenza congrui ed essenziali (che poi non sono stati definiti). E’
evidente che tale impostazione può determinare una perdita di controllo sui flussi di spesa.
Soprattutto quando vengono meno - come è previsto nella riforma ter - anche le forme sperimentali di finanziamento delle unità ospedaliere sulla base delle prestazioni effettuate;
la ripresa di un processo di forte centralizzazione. Al di là delle enunciazioni P evidente che un
disegno esplicito di centralizzazione emerge da un assetto legislativo che eccede di strumenti,
nazionali e uniformi, di regolamentazione, per cui le Regioni finirebbero per dover organizzare
aspetti regolati compiutamente- in una logica a canne d’organo - a livello nazionale e ministeriale. Questa impostazione è in netta contraddizione sia con un diverso assetto di poteri ispirati al federalismo, sia con una maggiore responsabilizzazione delle Regioni nel governo delle risorse. Diventa praticamente impossibile organizzare in sede regionale il servizio sanitario se si devono amministrare apparati e strutture le cui regole ed oneri sono definiti da un diverso soggetto,
in sede nazionale;
la negazione di misure efficaci di sussidiarietà orizzontale. La riforma Bindi prende le mosse da
una impostazione apparentemente razionale: la distinzione dei ruoli tra la copertura pubblica e
l’intervento privato, nel senso che vengono incoraggiati (anche con agevolazioni fiscali) fondi
sanitari integrativi (la normativa di attuazione non è ancora stata emanata) definiti doc, in quanto chiamati a fornire le prestazioni non assicurate dalla mano pubblica. La scelta sarebbe positiva se corrispondesse ad un reale passo indietro del pubblico che dovrebbe attestarsi sulla linea
delle prestazioni essenziali. Invece, all’autotutela dei cittadini vengono lasciati aspetti marginali, difficilmente riconducibili ad un disegno organico, quali il rimborso dei ticket, le prestazioni
professionali intramoenia, i servizi alberghieri, le cure termali, odontoiatriche ed alternative, nonché le prestazioni eccedenti i livelli congrui ed uniformi (che rimangono l’oggetto misterioso);
la creazione di un livello di sanità privata all’interno del sistema pubblico. La problematica del
rapporto esclusivo dei medici, affrontata con furore ideologico, ha portato il Servizio sanitario ad
impegnarsi per garantire l’effettuazione della libera professione dei medici optanti (la differenza
dai non optanti è solo a livello stipendiale) all’interno delle strutture ospedaliere. A conti fatti,
il governo Amato si è reso conto che un’operazione siffatta avrebbe un onere di 3.4mila miliardi. Ovviamente, tale sistema creerebbe due livelli qualitativi di assistenza (medica ed “alberghiera”) all’interno del servizio pubblico.
Come si vede da queste considerazioni di carattere generale, la riforma Bindi è ispirata al prin-
cipio del primato etico del modello pubblico: un “valore” da cui discendono tutte le altre scelte. In
Italia, già la riforma del 1978 ha ricondotto il sistema privato all’interno della regia dello Stato, al punto
di renderlo debole e assistito, costretto a cercarsi degli spazi di supplenza del Ssn, a vivere delle sue
disfunzioni e riceverne i finanziamenti. Ora, nel disegno che l’ex ministro della Sanità ha contribuito a
trasFormare in legge dello Stato, il settore privato diventa un’offerta del sistema pubblico a più caro
prezzo. E’ una logica, questa, che ricorda il sistema sovietico, in cui vi erano strutture pubbliche che
fornivano servizi migliori alla “nomenclatura” di regime.
La soluzione dei “mali” del sistema sanitario passa da una reale sinergia tra il settore pubblico e quello privato, una volta che ne siano ripartiti i compiti e le funzioni. Occorre stabilire cioè quali
sono le prestazioni e i servizi essenziali di cui i cittadini devono poter fruire. Ne definire questo “pacchetto” non sono affatto necessari criteri universalistici, nel senso che ad alcune aree delta popolazione si può riconoscere di più o di meno, a seconda di loro specifiche condizioni di età, di salute, di reddito. L’importante è che tutti cittadini siano tutelati a fronte dei grandi rischi in cui possono incorrere
e che siano salvaguardate, a carico delle strutture pubbliche, le funzioni di interesse collettivo: dalla
prevenzione all’igiene e profilassi pubblica. Lo Stato deve regolare tutti gli aspetti attinenti alla salute
dei cittadini e accreditare le strutture abilitate ad erogare servizi e prestazioni, ma deve incoraggiare il
più possibile l’autotutela privata, collettiva ed individuale. a provvedere a quelle quote di assistenza
non garantite dal sistema pubblico (ovviamente per quanti tali garanzie non operano). La situazione
italiana dimostra che è questa la strada da seguire, dal momento che la spesa privata è elevata, ripetitiva, assai poco organizzata. Vediamo in particolare ognuno di questi aspetti:
.
la spesa privata è elevata. Si stima che si tratti di circa 4Smila miliardi, con un aumento del IO%
in un decennio. E con la prospettiva di arrivare a 6omila miliardi nel prossimo quinquennio. La
spesa sanitaria privata è pari al 30% di quella totale e al 40% di quella pubblica. Si veda la
seguente tabella 20;
.
la spesa sanitaria privata è ripetitiva. Depurando questa cifra dagli importi riferiti alla compartecipazione dei cittadini e alle prestazioni completamente a pagamento in quanto non fornite dal
Ssn, rimane pur sempre una spesa a carico delle famiglie nell’ordine di 3omila miliardi. Un
ammontare che porta l’Italia ai vertici dei maggiori paesi europei quanto a quota privata della
spesa sanitaria totale. Si veda, in proposito, la seguente tabella 21, dalla quale emerge che i cittadini sanno scegliere cosa affidare al sistema pubblico e cosa accollarsi direttamente. Le dimensioni del fenomeno portano a ritenere che l’attitudine sia ampiamente diffusa in tutte le classi
sociali.
Tab. ao. Incidenza % sul Pil della spesa sanitaria pubblica e privata nei maggiori paesi europei (1996)
Fonte: Ocse 1998
Spesa privata
(totale)
Spesa privata/totale
ka 9,6
283 1095
293 7.6
2,o 8,6
1st 68
0 7.7
19.3
2197
30,l
23s
699
l4,2
(%)
.
la spesa sanitaria privata è poco organizzata. E’ molto debole, infatti, la mediazione delle forme
individuali e collettive (rispettivamente, polizze malattia, mutue, casse e fondi sanitari) per un
ammontare di risorse prudenzialmente stimato i circa 5mila miliardi l’anno.
Dalle considerazioni svolte emergono spunti per una diversa organizzazione della politica sanitaria del paese, attraverso - come enunciato - una diversa divisione dei compiti e dei ruoli che metta
i due sistemi migliorando l’efficienza e l’efficacia di entrambi ed inducendo - a regime - un risparmio
di spesa da collocare (come dimensioni tendenziali) nell’ambito degli interventi che abbiamo definito
“ripetitivi”, dal momento che essi saranno erogati una sola volta da uno stesso soggetto. La strada da
percorrere, paradossalmente, è già tracciata dalla riforma Bindi se solo si ha la saggezza di spostare
indietro la copertura di mano pubblica. Il problema non è dato dall’impianto (i fondi integrativi assicurano le prestazioni non garantite dal sistema pubblico e perciò ricevono benefici fiscali), ma la ripartizione dei ruoli. L’assistenza pubblica non ha compiuto un solo passo indietro nonostante che il principio di sussidiarietà (orizzontale) richieda che lo Stato intervenga laddove il cittadino non è in grado
di fare da sé.
negli ultimi tempi, poi, sono sorte preoccupazioni sulla tenuta dei conti pubblici in materia di
sanità. Tali preoccupazioni si sono riflesse sul confronto in atto tra Governo e Regioni, nel quadro del
completamento e dell’avvio dell’impianto di “federalismo possibile”. A parte le autocritiche del Governo
rispetto alla correttezza dei dati (in che paese viviamo se non ci si può più fidare neppure dell’Istat!),
la questione sanità si colloca in una snodo critico essenziale. Se si deve passare ad un sistema di
“autosufficienza” regionale, nel senso che ogni Regione dovrà fare fronte alle spese con le proprie
entrate, va da sé che la sanità è in condizione di affondare l’operazione fin dal suo inizio. Nel lggg vi
è stato un passivo di 7.500 miliardi, che si ripeterà, a stare ai primi dati, nell’anno in corso in cui è
prevista una spesa pubblica per lzomila miliardi. E’ noto (anche se non si conoscono fino in fondo i
termini esatti) l’ammontare dei debiti delle Asl, ripianati solo in parte.
Come potranno le Regioni ricevere sic et simpliciter una situazione siffatta ? E d’altro canto la
loro conclamata esigenza di autonomia non può escludere la sanità, che è comunque il comparto più
consistente delle loro competenze. Si tratta, allora, di accompagnare il trasferimento alle Regioni delle
competenze in tema di sanità, con un piano straordinario di risanamento, fortemente collegato ad un
riordino nei senso di un rafforzamento della sussidiarietà tra pubblico e privato, nell’ambito di un reale
decentramento di funzioni e poteri. Ciò comporta che i maggiori aggregati di spesa (personale, farmaceutica e convenzioni) non debbano più essere sottratti alla gestione delle Regioni, le quali non
possono continuare a dover organizzare apparati e strutture secondo costi che altri hanno deciso per
loro, sulla base di criteri uniformi per tutto il paese.
3.3. II metodo concertativo: dal circolo virtuoso al circolo vizioso
Il pieno raggiungimento dell’Unione Monetaria e la progressiva importanza acquisita dalla
Banca Centrale Europea hanno determinato l’avvio di una nuova fase ciclica in Europa, caratterizzata
da bassa inflazione, sane finanze pubbliche e crescita sostenuta. Nonostante ciò, e pure in presenza
di recenti sensibili miglioramenti, grave rimane il problema costituito dal combinarsi di basso livello di
occupazione ed elevato tasso di disoccupazione, soprattutto quando ad essi sono associati vasti e
polarizzati fenomeni di esclusione sociale. Il nuovo quadro istituzionale ed economico produce, in tutti
i Paesi dell’euro, un mutamento sostanziale nel processo decisionale della politica economica. Tale quadro incide in maniera rilevante anche sulla costituzione economico-sociale dell’Italia. Moneta unica e
stabilità dei prezzi rendono obsoleto l’impianto’ economico-istituzionale fino ad oggi modellato sul
binomio
inflazione-svalutazione.
Il sistema decisionale basato sulla concertazione sociale e la politica dei redditi, che ha caratterizzato la politica economica italiana degli ultimi venti anni, è messo fortemente in crisi e necessita di una
profonda revisione. Infatti, le esperienze concertative degli anni ottanta e dei primi anni novanta, sino al
“doppio” Protocollo del 31 luglio 1992-23 luglio 1993, hanno avuto come obiettivo esplicito quello della
lotta all’inflazione (a due cifre) che minava l’economia italiana agli inizi degli anni ottanta, ed hanno conseguito risultati positivi, riavvicinando l’Italia alle maggiori economie industrializzate, garantendo un
periodo di sviluppo e promovendo nuova creazione di occupazione. Al contrario, a partire dal 1993, quando il vincolo di Maastricht ha costretto la politica economica ad intervenire sui nodi strutturali del sistema Italia, determinando un sostanziale cambiamento di obiettivi, concertazione sociale e politica dei redditi non hanno più contribuito all’azione di rilancio di competitività e di sviluppo dell’economia italiana
come negli anni precedenti (Tab.1). Le politiche di deflazione della domanda interna, che hanno comportato la diminuzione del reddito disponibile per le famiglie, per via dell’ulteriore crescita della pressione
fiscale e della diminuzione dei rendimenti sui titoli sul debito pubblico, nonché le resistenze delle parti
sociali (e delle forze politiche), hanno determinato che il circolo virtuoso divenisse circolo vizioso.
Nel corso della fase virtuosa del modello di confronto triangolare, le date chiave che qualificano la concertazione sociale e la politica dei redditi sono due: l’accordo di S. Valentino (14 febbraio
1984) e il Protocollo sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione ed il costo del lavoro (31 luglio 1992).
Accanto ad essi si registrano altri episodi di concertazione, certamente non meno efficaci, ma sicuramente meno significativi. quali il lodo Scotti (1983). l’accordo bipartito Governo-sindacati sulla neutralizzazione del fiscal drap (26 gennaio 1989). l’accordo sul costo del lavoro e sulla scala mobile (6 luglio iggo).
Definire quale fase virtuosa il periodo 1983-1992,
dipende dai risultati economici conseguiti
nonché dal combinarsi di due elementi di carattere istituzionale: da un lato, la presenza di un Governo
a forte capacità decisionale, in grado di imporre le proprie decisioni nelle situazioni di incertezza e di
veti contrapposti. Dall’altro lato, la situazione di grave emergenza economica e sociale, contraddistinta da un processo inflazionistico che mina pesantemente la competitività dell’Italia, deteriorando la
condizione dei lavoratori, che costringe gli attori al confronto e che, dunque, li pone disponibili ad una
logica di scambio. Il concatenarsi di questi due fattori determina un sostanziale mutamento nelle strategie delle organizzazioni sindacali, le quali, accettano di partecipare all’azione del Governo, scambiando la moderazione salariale (ottenuta tramite la centralizzazione della contrattazione) con un’azione di risanamento, a patto di lasciare sostanzialmente inalterata la quota di spesa corrente del Welfare
(pur con significativi interventi sulla sua dinamica e modificandone il peso in favore delle pensioni). Il
sindacato si mostra incline a modificare gli obiettivi tradizionali della contrattazione, discostandosi
dalla sola salvaguardia del salario e, invece, ponendo al centro della propria azione i meccanismi di
deindicizzazione del salario, l’introduzione di elementi qualitativi nelle retribuzioni, la necessità di una
nuova politica economica in grado di correggere gli squilibri geografici e settoriali.
L’elemento di innovazione e nello stesso tempo di forza della politica dei redditi e della concertazione sociale avviata negli anni ottanta è l’elevata qualità dello scambio “rientro dall’inflazioneredistribuzione dei vantaggi”, scambio che determina non pochi problemi nel comportamento delle
parti sociali, soprattutto nel movimento sindacale, data la scarsa maturità delle parti sociali ad un esercizio di concertazione sociale, la mancanza di unità sindacale sia rispetto agli obiettivi della politica
dei redditi sia rispetto al rapporto con il potere esecutivo, le fotti interferenze dell’assetto politico,
soprattutto sull’autonomia delle scelte del maggiore sindacato, la Cgil.
Il primo episodio del circolo virtuoso è il cosiddetto accordo di S. Valentino (14 febbraio lg84),
resosi necessario a seguito del deteriorarsi della situazione economica generale nei primi anni ottanta, nonostante gli effetti positivi derivanti dall’accordo dell’anno precedente (lodo Scotti, 1983). Il mutato quadro economico spinge il Governo a passare da un accordo di carattere difensivo, mirato alla sa\-
vaguardia del costo del lavoro e basato su misure deflazionistiche, ad un accordo di carattere offensivo, con l’obiettivo di ridurre in maniera più decisa la pressione inflazionistica, al fine di accrescere
la ripresa e le esportazioni e di avviare azioni di riforma strutturale in materia di tassazione, politiche
industriali, sviluppo del Mezzogiorno, politiche del mercato del lavoro. Con l’accordo di S. Valentino.
Governo e parti sociali, attraverso il blocco del meccanismo di indicizzazione della scala mobile e, conseguentemente, della spirale salari-prezzi, consentono all’Italia di affrontare la seconda metà degli anni
ottanta con un deciso rallentamento del processo inflazionistico, un reddito in crescita ed una sostenuta creazione di posti di lavoro.
Il secondo episodio della fase virtuosa ne rappresenta anche il punto finale: il Protocollo del
1992 (e. in parte, quello successivo del 1993). Anche in questo caso alla base del successo vi sono
la situazione di emergenza economico finanziaria e il ruolo fotte del Governo. Agli inizi degli anni
novanta la dinamica del PIL subisce un forte rallentamento a causa dei riflessi negativi della crisi
internazionale del 1991 e, successivamente, della crisi finanziaria nel 1992, con l’uscita temporanea
della lira dal Sistema monetario europeo. L’impegno preso dall’Italia di partecipare pienamente al processo di unificazione monetaria europea previsto dal Trattato di Maastricht, impongono un percorso
di aggiustamento economico che comporta manovre di carattere restrittivo e un deciso ripensamento del sistema di relazioni industriali e di contrattazione. Per questo motivo, il Governo, approfrttando del rinnovato clima di dialogo avviato tra le parti sociali, decide di assumere un ruolo più incisivo, avviando un confronto serrato in merito alle politiche necessarie a rafforzare la crescita e ridurre
le pressioni inflazionistiche. La sigla del Protocollo, avvenuta il 31 luglio 1992, permette l’adozione di
una politica dei redditi implicita, fondata sul blocco sostanziale della dinamica salariale, con l’obiettivo di abbattere le pressioni inflazionistiche, di garantire il potere di acquisto di salari (e pensioni)
e di accrescere la competitività delle esportazioni. La politica dei redditi e della concertazione viene
istituzionalizzata, prevedendo due sessioni di politica dei redditi, in contemporanea con l’elaborazione dei documenti economico-finanziari, al fine di controllare il grado di conseguimento degli obiettivi e di verificare i comportamenti.
Con il Protocollo del 1992 il modello economico italiano attua il definitivo passaggio da un
modello conflittuale di distribuzione del reddito ad un modello di tipo cooperativo, nel quale alcune
variabili economiche vengono definite quali beni pubblici da tutelare, gli automatismi vengono progressivamente eliminati e maggiore rilevanza assumono la contrattazione e il confronto tra Le parti. Il
23 luglio 1993 l’impianto costruito in una fase di emergenza dall’Accordo del 31 luglio 1992 viene “ordinato” nel “Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo”, che sancisce la definitiva abolizione dei meccanismi di indicizzazione automatica ed il riconoscimento della concertazione-contrattazione quale
metodo principale per il processo decisionale della politica economica.
La fine dell’indicizzazione e il nuovo clima di pace sociale conseguiti dalla firma dei due
Protocolli permettono all’economia italiana di sopportare la svalutazione del 1992 senza innescare una
spirale inflazionistica; anzi, il deprezzamento del cambio si traduce in un vantaggio netto di competitività, decisivo per superare la crisi che nel frattempo investe tutta l’Europa.
Venute meno le caratteristiche di emergenza della situazione economico-finanziaria, cessata la
necessità delle “riforme di sopravvivenza”, perdurante l’assenza delle forze politiche, a cui spetta il
wa\o di inrKzz0 programmatico, termina i\ Ck\o virtuoso oe\\a concertazione. Da\ 1993 \a concertazione sociale mostra evidenti segni di sofferenza e si avvia verso un progressivo circolo vizioso. Questo
è anzitutto dovuto all’ “occupazione”, da parte delle parti sociali, di spazi decisionali impropri e all’assunzione di un ruolo di indirizzo nelle scelte e nelle decisioni di politica economica, al quale esse non
sono chiamate né sono strutturalmente idonee. Il Patto di Natale del 1998, l’ultima grande concertazione sociale del decennio, che tenta di formalizzarla anche dal punto di vista istituzionale, identifica
pienamente il circolo vizioso a cui si iscrive l’esperienza della concertazione nel periodo 1993-1998,
poiché non riesce ad essere efficace in termini di risultati economici. Lo stesso cambiamento della
ragione sociale della concertazione, non più traguardata sull’obiettivo della lotta all’inflazione bensì su
quello della riduzione della disoccupazione, evidenzia questa progressiva involuzione, dovuta al crescente grado di interdizione delle parti sociali nonché al difficile raccordo tra linee strategiche della
concertazione e interventi legislativo-normativi.
Nel corso del periodo lgg3-1gg8. la pratica concertativa, fondata su patti tripartiti o accordi
sociali, è, in sostanza, sostituita da una contrattazione tra Governi e parti sociali sulle decisioni di politica economica e soffre dell’azione di Governo deboli ed indecisi. Non è certamente casuale il fatto che
nessuno dei Governi succedutisi dal 1993, e che hanno sempre sostenuto la concertazione sociale quale
strumento di intervento della politica economica’, si è dimostrato capace di svolgere un ruolo efficace
nella costruzione della politica dei redditi e deila concertazione né ha saputo adempiere agli impegni
che ne sono derivati. I soli impegni realizzati, pienamente o parzialmente, ed indipendentemente dal
giudizio di merito, sono stati quelli direttamente dipendenti dall’azione delle parti sociali.
Il ciclo virtuoso della politica dei redditi e della concertazione sociale ha permesso di contenere gli andamenti dei prezzi e dei salari, garantendo in questo modo un processo di risanamento della
finanza pubblica e del debito pubblico nonché la creazione di occupazione. La coerenza complessiva
delle scelte di politica economica (politiche monetarie, politiche fiscali e di bilancio, politiche del lavoro, politiche industriali) ha consentito di conseguire risultati immediati, esercitando un impatto positivo sulle aspettative e sui comportamenti economici e sociali dei differenti attori.
Il ciclo vizioso della concertazione ha fatto esplodere le sue criticità e debolezze: i condizionamenti che subiscono gli attori, in particolare il sindacato; l’inefficace implementazione dei principi della
concertazione, a causa dell’instabilità politica, del ruolo svolto (consapevolmente o inconsapevolmente) dal Parlamento, di una complessa mediazione, anche a livello di norme secondarie, tra parti sociali e Governo; i limiti evidenti nel conseguire obiettivi di crescita dell’occupazione; i risultati insoddisfacenti sul versante dello sviluppo del Mezzogiorno, delle attività produttive, dell’innovazione tecnologica.
Anche quello che era apparso, nel breve periodo, il merito principale della concertazione sociale, compensare e rimediare limiti e vuoti di un sistema politico e di una classe dirigente in transizione, si è rivelato, nel lungo periodo, il suo limite più pesante. L’efficacia strutturale della concertazione
si è rivelata assai circoscritta, poiché gli attori della concertazione hanno trovato forti difficoltà ad assumere una visione di cambiamento strutturale di lungo periodo ed hanno preferito un processo di concertazione continua. La mancanza di una chiara capacità di leadership ha prodotto patti sociali nei quali
una minoranza di insiders ha imposto oneri agli outsiders, originando una frattura tra coloro che sono
rappresentati, perché patte del sistema decisionale, e coloro che, invece, non sono nel circuito decisionale attuale (e hanno interessi di medio periodo). La carenza di rappresentanza nel processo concertativo di queste categorie (giovani, ceti più professionalizzati, risparmiatori, nuove imprese) è un
segnale evidente di difficoltà e può generare la tentazione di far gravare oneri su generazioni future
che non siedono al tavolo della concertazione.
Il modello concertativo attuale si dimostra inadeguato e penalizzante per affrontare le prossime sfide dello sviluppo e della competizione economica nonché le esigenze di modernizzazione economica e sociale. Questo perché se l’azione sindacale ha mostrato di conseguire risultati positivi nel
comprimere le spinte corporative, innovando culturalmente l’approccio al rapporto salario-inflazione,
essa trova un limite rilevante nella impossibilità ad intervenire su aree importanti della rappresentanza sindacale (pubblica amministrazione, servizi) o su aspetti che sono considerati come “baluardi” del
sistema di Welfare
(pensioni e ammortizzatori sociali). L’avvento della moneta unica europea comporta, da un lato, lo spostamento delle politiche monetarie in una sede sovranazionale (e, quindi, l’impossibilità di compensare i deficit di competitività tramite le svalutazioni); dall’altro, la conseguente
esigenza di interventi su tutti i fattori della competizione che in via diretta (salario, contributi, fisco) o
in via indiretta (servizi, pubblica amministrazione, Welfare, infrastrutture, formazione) influiscono sulla
formazione dei prezzi e della domanda interna.
A testimonianza della correttezza di queste valutazioni, appare importante qui sottolineare che
anche un recente studio della Commissione Europea avanza seri dubbi sulla coerenza del dialogo sociale italiano ai tini delle prossime scelte di politica economica. Infatti, pur riconoscendo il ruolo importante assunto dalle parti sociali nel processo di convergenza europeo, risultato che difficilmente si
sarebbe potuto ottenere senza tensioni sociali se le organizzazioni sindacali non avessero accettato la
prospettiva indicata dal Governo, tuttavia si avanzano serie perplessità sulla capacità delle stesse ad
intervenire sugli ostacoli strutturali dell’Italia. L’esperienza degli ultimi anni mostra con molta chiarez-
za che la concertazione “può complicare il processo decisionale quando partner deboli esercitano un
reciproco potere di veto” e questo non può essere accettato se si vogliono cogliere le opportunità
offerte dalla piena partecipazione all’Unione Monetaria e se si vuole profittare del cosiddetto “bonus
di convergenza”. Ogni attore è ora chiamato, nel perseguimento di interessi generali, a svolgere il proprio ruolo ed “... è essenziale evitare che la concertazione diventi fattore di ritardo di decisioni inevitabili o di indebolimento del processo di riforme strutturali” poiché le autorità politiche non riescono
ad esercitare il loro ruolo. Questo non significa negare validità e legittimità al sindacato nei rapporti
sociali quanto sottolineare come la concertazione sociale non deve ritardare o rallentare la necessaria
azione di riforma strutturale né condizionare in modo determinante la sua qualità.
La dinamica salariale negli anni Novanta
La politica dei redditi attuata negli anni novanta ha inciso profondamente sul processo di distribuzione del reddito, determinando una ripartizione delle risorse che ha favorito in modo crescente l’impresa, indirizzando a suo vantaggio una parte consistente dei guadagni di produttività che si andavano progressivamente realizzando. Questo fenomeno ha assunto un rilievo maggiore quanto più l’inflazione si è ridotta -in periodi di alta inflazione l’importanza è minore-, determinando quella caduta progressiva dei consumi alla quale viene attribuita una parte crescente di responsabilità nel processo di
scarsa crescita dell’Italia.
Nei primi anni ottanta, in presenza di tassi di inflazione mediamente superiori al 17% (1981.
1983). più della metà degli incrementi di produttività realizzati dal sistema produttivo era destinato
alla crescita dei salari reali, con un conseguente sensibile rallentamento dei margini delle imprese.
L’accordo di S. Valentino (14 febbraio 1984) prima ricordato, modifica in maniera sostanziale tali dinamiche, contenendo la dinamica salariale e rallentando in questo modo l’andamento dell’inflazione (che
scende sotto al 10%). In presenza della crescita della produttività, meno della metà della maggiore produzione pro-capite va a vantaggio dei salari, che crescono quindi di circa un punto percentuale all’anno, mentre i margini delle imprese aumentano e le performance del bilancio pubblico migliorano.
Nel periodo 1992-1998 l’effetto sulla distribuzione del reddito degli accordi in materia di contrattazione e relazioni industriali siglati nel 1992-93 è immediato e si traduce in un arresto della crescita dei salari reali mentre la produttività continua ad aumentare. Poiché le retribuzioni lorde hanno
mantenuto un ritmo di crescita nel complesso dell’economia che è sostanzialmente in linea con il tasso
di inflazione, l’intera produttività del sistema economico è stata destinata ad altre voci, in particolare
pressione fiscale e profitti, producendo una perdita consistente nelle quote del reddito’distribuito al
lavoro, stimabile attorno a circa cinque punti percentuali. I margini a favore delle imprese crescono,
mentre le manovre di risanamento delle finanze pubbliche si riflettono in una maggiore incidenza della
quota di reddito assorbita dal sistema fiscale.
La ridotta capacità di acquisizione da parte dei salari dei guadagni di produttività è stata confermata dai dati prodotti nell’ultima Relazione del Governatore della Banca d’Italia, derivanti dall’indagine campionaria sui bilanci della famiglie (Tab.2). Nel periodo 1989-1998,
considerando l’aggregato composto dal totale dei lavoratori dipendenti, le retribuzioni reali nette medie mensili, depurate
quindi di imposte dirette e contributi e dell’incidenza dell’inflazione, sono diminuite del 8,7 per cento.
La riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni appare più pronunciata fino alla metà del decennio mentre successivamente questa riduzione risulterebbe meno accentuata. Nello stesso periodo, inoltre, si è andata vieppiù allargando la quota dei lavoratori a basso salario, i cosiddetti woorking poor
e non solo tra i lavoratori con contratti di lavoro atipici ma anche tra quelli a tempo pieno. L’analisi
condotta sui redditi reali familiari disponibili ha poi mostrato che vi è stata una diminuzione di detto
reddito nel periodo 1989-1995 (-3.7 per cento) mentre esso è aumentato nel periodo 1995-1998 (+7,5
per cento). A questo andamento si deve aggiungere la crescita nella disuguaglianza della distribuzione, particolarmente pronunciata per aree geografiche. In generale, peraltro, quest indicatori hanno
mostrato un sensibile deteriorarsi della situazione delle regioni del Mezzogiorno rispetto a quelle del
C entro-Nord, con un progressivo allargamento dei divari già esistenti.
Anche in questo caso, nonostante il perdurare di un aumento significativo della produttività
per addetto, i salari reali fanno segnare una sostanziale invarianza, anzi una lieve tendenza alla dimi-
nuzione, mentre la maggiore capacità del sistema di produrre ricchezza va a vantaggio sia dei profitti,
sia soprattutto del bilancio pubblico.
La compressione dei salari nel corso degli anni novanta non costituisce un evento di difficile
spiegazione, quanto il logico risultato del sistema di contrattazione derivante dal Protocollo del 1993,
articolato in due autonomi e distinti livelli contrattuali: il primo, a livello nazionale, con funzione di
difesa del potere d’acquisto dei salari; il secondo, a livello aziendale o territoriale (secondo la prassi) finalizzato a contrattare gli aumenti retributivi legati alle performance d’impresa e all’aumento della
produttività. Tale sistema contrattuale è stato modellato in una situazione di elevati tassi di inflazione, con ampi spazi retributivi di recupero dell’inflazione a livello nazionale e conseguenti limitati spazi
decentrati di recupero della produttività. Ne è derivato un mancato sviluppo della contrattazione di
secondo livello e, quindi, della capacità dei salari di acquisire una parte dei guadagni di produttività.
Peraltro, obiettivo frnale di questo modello è la discesa dei tassi di inflazione ottenuta mediante
moderazione salariale. Il contenimento della dinamica salariale è necessario per assicurare la piena
efficacia delte politiche di risanamento dei conti pubblici, e si configura quale elemento rilevante dello
scambio tra moderazione salariale e sostanziale invarianza della quota della spesa corrente nel bilancio pubblico (con contemporanea crescita della spesa previdenziale). In questo modo l’azione di risanamento si concentra (consapevolmente) sulla spesa per interessi, sull’andamento della pressione
fiscale e sulla diminuzione degli investimenti pubblici mentre vengono affrontate due esigenze immediate. La prima è quella rappresentata dalla necessità di comprimere il rapporto tra andamento dell’inflazione e spesa per interessi sul debito pubblico. La seconda consiste nel ricondurre le politiche
salariali ad un maggiore controllo, poiché esse non solo riassorbivano abbondantemente la produttività (con un aumento dei costi del lavoro per unità di prodotto compensato, ai fini della competizione economica, con periodiche svalutazioni della lira) ma presentavano anche vistose iniquità distributive al proprio interno.
Relazioni industriali e contrattazione
La teoria economica ha evidenziato come un sistema di relazioni industriali caratterizzato da un
alto grado di neo-corporativismo garantisce una relativa facilità nell’adottare politiche dei redditi e nell’assicurare un loro elevato grado di riuscita. Al contrario, un sistema di relazioni industriali caratterizzato da un basso grado di neo-corporativismo presenta forti difficoltà per attuare una politica dei redditi che non si basi soltanto su provvedimenti coercitivi saltuari. Le analisi empiriche, sia pure in maniera non conclusiva, hanno poi fatto emergere una “curva ad U” dei sistemi di relazioni industriali dove
i risultati peggiori sarebbero ottenuti da Paesi che si trovano in una situazione “intermedia”, caratterizzati cioè da gruppi di interesse abbastanza forti nel processo di contrattazione ma non tali da essere in grado di sostenerne i costi. Tuttavia, recenti sviluppi empirici ed analitici hanno sottolineato come
risultati ottimali di politica dei redditi si possano ottenere anche coniugando integrazione con decentralizzazione della contrattazione collettiva. Tali sviluppi si accompagnano ad un’evoluzione dei sistemi di relazioni industriali verso un maggiore grado di deregolazione e di decentralizzazione. Questo
processo garantisce una maggiore capacità di reazione efficace al prodursi di shock microeconomici,
con effetti di miglioramento delle performance del mercato del lavoro e di maggiore raccordo tra tassi
di incremento salariale e situazioni regionali, settoriali o di impresa.
Il quadro macroeconomico dei prossimi anni sarà caratterizzato da moneta unica e bassa inflazione. Il cambiamento del regime monetario derivante dall’adesione all’Unione Monetaria influisce, nel
medio periodo, sul processo di contrattazione collettiva, poiché la moneta unica accresce la trasparenza dei sistemi e la comparabilità dei livelli salariali nei singoli Stati Membri. La minore pressione
esercitata dai prezzi determina una riduzione degli spazi di contrattazione di primo livello, volti a recuperare il potere d’acquisto dei salari, ed aumenta il ruolo giocato dalla contrattazione di secondo livello, basata sulla produttività e redditività. Le parti sociali, che prima dell’Unione Monetaria dovevano
tenere conto degli effetti della negoziazione su variabili nazionali (inflazione), si trovano ora confrontate a variabili europee e, conseguentemente, più facilmente potranno sviluppare comportamenti imitativi, con conseguenti effetti sulla competitività non solo delle imprese ma anche dei territori (nazionali, regionali, distrettuali). La probabilità che si riducano gli shock di carattere “macro” e diventino
potenzialmente più rilevanti gli shock a livello “micro economico” assegna un ruolo di forte rilevanza
alla flessibilità di prezzi e salari e, di conseguenza, alla struttura della contrattazione (e delle sue istituzioni).
1)
2)
3)
L’attuale sistema italiano di contrattazione salariale e normativa soffre di tre limiti evidenti:
il legame estremamente stretto tra dinamiche del salario e indicatori esogeni (quali l’inflazione),
rispetto ai parametri reali che condizionano le realtà produttive;
l’assoluta indifferenza alle dinamiche delle economie e dei mercati del lavoro territoriali, negando in questo modo le relative specificità;
il collegamento marginale con l’evoluzione dei modelli organizzativi delle imprese e di coinvolgimento dei lavoratori nei processi. Ne deriva che il cambiamento del sistema di contrattazione
deve avvenire su due piani: da una parte, sulle caratteristiche del modello, operando un ridimensionamento del peso della contrattazione nazionale; dall’altra, sui contenuti della contrattazione, flessibilizzando quantitativamente e qualitativamente quote crescenti di salario, legandole alla produttività ed ai risultati, e assicurando una maggiore partecipazione dei lavoratori nei
processi aziendali.
In questo nuovo assetto, l’azione del contratto nazionale va ridimensionata verso obiettivi di
regolazione-quadro e di definizione di minimi salariali inderogabili; la contrattazione decentrata va
potenziata (sia nelle aziende che nella pubblica amministrazione), concentrando su di essa la politica
redistributiva (con eventuali periodiche ricostruzioni dei minimi); la contrattazione territoriale va diffusa, introducendo una maggiore sensibilità alle dinamiche del mercato del lavoro locale.
Questo rinnovato assetto della contrattazione deve contribuire a garantire un equilibrio distributivo coerente con le dinamiche della produttività e funzionale alla loro massimizzazione, tenendo
anche presente che la realtà produttiva dell’Italia è disomogenea e che esistono realtà settoriali diverse e di cluster di una pluralità di distretti locali, in cui gli aumenti di produttività si manifestano in
modo altrettanto frammentato. Pertanto, il mantenimento al centro delle regole distributive rischia di
produrre nuove tensioni, creando pericolose ripercussioni sulla dinamica dei prezzi.
Esistono le condizioni di base per percorrere una nuova stagione delle relazioni industriali.
Politiche dei redditi centralizzate e contrattazione nazionale, basate sul ruolo di mediazione del sindacato confederale, non sono più in grado di affrontare la nuova realtà economica e la prospettiva di
tassi di inflazione vicini allo zero impone un profondo ripensamento delle modalità in cui si esercita il
confronto tra le parti sociali. I positivi risultati conseguiti dalla contrattazione salariale derivante da un
sistema di relazioni industriali con organizzazioni altamente centralizzate, superate le esigenze dettate dalla necessità di una terapia di emergenza, stanno originando una serie di distorsioni sia di carattere macroeconomico sia sul mercato del lavoro. Appare evidente la crescente sovrastrutturalità dell’attuale sistema di contrattazione salariale rispetto alle dinamiche reali delle retribuzioni. Nelle aree
economicamente forti sono in rapida crescita gli slittamenti salariali, e cioè le retribuzioni di fatto, per
segmenti del mercato del lavoro sottoposti alle tensioni del rapporto domanda-offerta. Nelle aree
deboli, e che hanno pagato la caduta degli investimenti pubblici, della domanda interna e della scarsa efficienza amministrativa, è in rapida crescita il sommerso.
Assenza di inflazione e moneta unica richiedono lo sviluppo di un policentrismo concertativo
e contrattuale, mirato ai luoghi di formazione degli incrementi di produttività (azienda o territorio). Tale
policentrismo ha l’obiettivo di attuare una politica di sviluppo in base a scelte di distribuzione del reddito coerenti con la massimizzazione della crescita e secondo quella regola secondo cui i salari devono crescere unicamente in ragione della produttività. Policentrica deve divenire la gestione delle macrovariabili nonché delle tematiche dello sviluppo e della coesione sociale (politiche di sviluppo locale,
Welfare,
trattamenti pensionistici, politiche attive del lavoro e della formazione, servizi all’impiego).
Nel contempo, il processo di interlocuzione tra le parti sociali deve attuarsi su un solo livello
ed in una sede che sia la più vicina possibile ai luoghi in cui avviene la realizzazione effettiva degli
incrementi di produttività. Le parti devono essere in grado di recuperare un maggiore grado di autonomia, passando daha reciproca invadenza di campo che ha caratterizzato gli ultimi anni ad un rispetto delle reciproche prerogative. Un sistema di relazioni sano, che dia luogo a convergenze ma anche
a forti elementi di dialettica, non richiede particolari azioni di supporto legislativo: la rappresentanza
verrebbe esercitata in base alle reali condizioni di rappresentatività di fatto senza che essa subisca alterazioni per effetto di interventi legislativi.
Approfondimento I:
Il “Patto di Milano”
Tra le priorità di governo locale vi sono indubbiamente la promozione dello sviluppo economico del
territorio, della coesione sociale, della qualità della vita dei cittadini e dell’ambiente urbano.
L’Amministrazione milanese, con l’obiettivo di intervenire per perseguire i suddetti fini, e sulla base di
una preventiva analisi delle condizioni e delle esigenze de/ territorio, ha individuato tra le priorità di
azione un intervento a favore dell’occupazione (aumento degli occupati, riduzione de/ lavoro sommerso e stabilizzazione di rapporti di lavoro) che, al contempo, risponda anche alle esigenze di manutenzione e riqualificazione della città e di integrazione degli immigrati.
Nell’area milanese la disoccupazione è sostanzialmente fenomeno circoscritto alle cosiddette fasce
deboli. // mercato de/ lavoro si presenta cioè segmentato in due classi di lavoratori: da una parte una
fascia che non conosce disoccupazione (o si attesta sul cosiddetto tasso naturale di disoccupazione),
dall’altra una fascia che conosce forti difficoltà all’inserimento ne/ mondo de/ lavoro ed è caratterizzata da condizioni di disagio e di esclusione sociale. Non solo, spesso è proprio in questo contesto di
disagio, esclusione e difficoltà di inserimento occupazionale che si annida la piaga de/ lavoro nero.
Questa realtà di divario, in un’area economicamente prospera, presenta connotati di instabilità, anche
a causa de/ costante intensificarsi de/ fenomeno migratorio.
Al contempo, esiste una domanda inevasa di servizi a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità
di lavoro, tipicamente lavori di manutenzione e cura della città (manutenzione delle aree verdi, pulizia
dei graft%i, servizi alla persona ecc.). Si configura dunque una situazione in cui, pur in presenza di
disoccupazione e di opportunità di impiego, vi sono frizioni sul mercato de/ lavoro e domanda ed offerta non si incontrano, soprattutto a causa delle caratteristiche dell’offerta e delle rigidità de/ mercato
de/ lavoro. Non solo, molto spesso, anche a causa di taali rigidità, le necessità di manodopera vengono coperte con lavoro irregolare.
La volontà di affrontare e risolvere tale situazione si è concretizzata con la realizzazione di un accordo tra istituzioni locali, organizzazioni sindacali e associazioni imprenditoriali che mette a disposizione dei datori di lavoro e dei lavoratori strumenti contrattuali in grado di rispondere alle sopra citate
esigenze, cui il normale funzionamento del mercato e il quadro normativo e contrattuale esistente non
sembrano in grado di rispondere con efficacia. Nei primi mesi del 1999 /‘Amministrazione Comunale ha
avviato contatti con le parti sociali. In data z febbraio 2000 è stata sottoscritta un’intesa tra Istituzioni
(Comune di Milano, Provincia di Milano, Regione Lombardia), associazioni di categoria (Assolombarda;
Unione Commercio; Apa Confartigianato; Api Milano; Claai Unione Provinciale di Milano; Cna; Cispe/
Lombardia; Agci Federazione Regionale; Confcooperative; Lega cooperative) e organizzazioni sindacali
(Cisl; /li/; Cisa/; Ug/j finalizzata ad incentivare la creazione di nuova occupazione e a contrastare fenomeni di lavoro irregolare e clandestino.
Uti/izzando il potere di deroga concesso da/ legislatore rispetto ai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale (art. 23, legge n. 56/1987), le parti firmatarie
dell’accordo hanno individuato una serie di casi di legittimo ricorso al contratto a termine, ulteriori e
diversi rispetto a quelli indicati dalla legislazione nazionale (art. 8 dell’intesa) con /‘obiettivo di contribuire all’emersione de/ lavoro nero e alla creazione di nuova occupazione. Sempre in questa prospettiva vengono valorizzati i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, i contratti di formazione lavoro, i tirocini aziendali e le cosiddette borse lavoro (artt. 9 e IO). L’operatore economico
che intenda usufruire di tali forme contrattuali di gestione della forza lavoro è tenuto a presentare ad
una Commissione di concertazione tripartita, in cui sono rappresentate tutte le parti firmatarie
dell’intesa ed appositamente costituita (artt. 3 e 4) un “progetto” contenente indicazioni relative al
piano economico dell’intervento e al relativo impatto in termini occupazionali, tenendo conto dell’opportunità di impiegare, in via prioritaria, soggetti a rischio di esclusione da/ mercato de/ lavoro come
specificamente individuati (art. 2). L’approvazione de/ progetto da parte della Commissione di concertazione è condizione per poter accedere alla flessibilità resa disponibile dalle parti sociali. Inoltre, al
tine di favorire I ‘incontro tra domanda ed offerta di lavoro viene istituito, sulla base di una convenzione tra Comune e Provincia di Milano, uno Sportello Unico, deputato a realizzare un rapido ed eficiente coordinamento dei servizi per /‘impiego (art. 5); un accordo Comune-Questura interviene per facilitare le pratiche di regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari (art. 5); infine, viene predisposto un
coordinamento delle iniziative formative volto a migliorare le possibilità di uno stabile inserimento ne/
mercato de/ lavoro dei soggetti interessati dai singoli progetti (art 6). Per favorire ulteriormente I’emersione de/ lavoro sommerso e la stabilizzazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro costituitisi, l’accordo dispone espressamente che, in caso di presentazione di un nuovo
progetto da parte di uno stesso operatore economico, la $mmissione di concertazione, ai tini dell’approvazione, prenda in considerazione, prioritariamente, tra i diversi elementi, i criteri dell’investimento
formativo reakzzato e della quota di contratti temporanei trasformati a tempo indeterminato (art. 7).
Con lo strumento de/ “Patto per il Lavoro” l’Amministrazione intende intervenire per rispondere alle
rilevate situazioni di disagio, per promuovere /‘incontro tra domanda ed offerta di lavoro e per rimuovere le situazioni di impiego irregolare, con un’azione su due fronti: da un lato qualificando / ‘offerta,
dall’altro favorendo la domanda e la regolarizzazione dei lavoratori irregolari.
La soluzione adottata va oltre il concetto di mera flessibilità e, con riferimento alle più recenti indicazioni della Commissione Europea sul concetto di adattabilità de/ mercato de/ lavoro, prevede /‘utilizzo
di tutti g/i strumenti, innanzitutto la formazione, ma anche quelli utili a promuovere un più efkiente
incontro tra domanda e offerta di lavoro, diretto, senza /‘intermediazione dello Stato. A forme di adattabilità si accompagnano forme confrattua/i
rispondenti sia alle esigenze produttive delle imprese sia
alle peculiarità ed alle esigenze delle diverse categorie di lavoratori.
Contestualmente
alla sottoscrizione dell’intesa, il mondo delle imprese ha presentato progetti per circa
ZOOO nuovi posti di lavoro con gli strumenti contrattuali resi disponibili ne// ‘intesa’dalle parti sociali.
La Commissione di Concertazione, che ha il compito di validare i progetti e dunque autorizzare il ricorso agli strumenti contrattuali dell’intesa, li sta verificando insieme a numerosi altri progetti per nuova
occupazione successivamente pervenuti e che aumentano il potenziale impatto dell’attuazione
dell’intesa sull’occupazione.
Considerato che i progetti imprenditoriali che prevedono nuove assunzioni molto spesso concernono
attività di manutenzione della città, di servizio ai cittadini e alle imprese, i risultati atfesi dall’atfuazione dell’intesa, oltre all’aumento dell’occupazione, prevalentemente tra i lavoratori appartenenti alle
cosiddette “fasce deboli” (immigrati, disoccupati con più di quarant’anni, soggefti in condizioni di disagio psico-fisico) e all’integrazione socio-economica dei cittadini immigrati da paesi extra Ue, sono
anche la riqualificazione della città attraverso un incremento quali-quantitativo degli interventi di
manutenzione, pulizia, riqualificazione ambientale.
.4. Conclusioni
L‘insieme delle considerazioni fino a qui illustrate mette in rilievo come i problemi del mercato del lavoro italiano non possano essere ricondotti solo a cause di natura macroeconomica. C’è sì un
problema di ciclo economico; la riduzione della spesa pubblica ha sì avuto conseguenze negative sull’occupazione. Lo stato di difficoltà strutturale che affligge il nostro mercato del lavoro può tuttavia
essere ricondotto solo in parte a questi elementi.
La causa principale degli squilibri occupazionali del Paese è la cattiva regolazione a cui il nostro
mercato del lavoro è sottoposto e alle distorsioni che essa produce sui comportamenti degli operatori.
E’ perciò necessaria un’azione di innovazione profonda. Intervenire solo sui lavori atipici, così
come hanno fatto i governi in questi anni, non basta. E’ invece necessario intervenire lì dove i problemi appaiono essere maggiori, ovvero sulla disciplina che governa i rapporti di lavoro regolari e sulle
clausole di licenziamento.
Perché questo si realizzi è necessario introdurre quelle riforme di flessibilità, di sviluppo e di
sicurezza sociale che i Paesi europei più avanzati hanno già adottato. D’altro canto sono la
Commissione europea e le altre autorità internazionali a chiedere al nostro Paese di intraprendere questo tipo di iniziative.
C’è un solo modo per sconfiggere la disoccupazione: far crescere la produttività del lavoro e la
produttività del capitale. E la produttività del lavoro cresce attraverso la flessibilità, la formazione e la
riduzione dei costi previdenziali.
L’attuale regolazione del mercato del lavoro determina l’esclusione di chi potrebbe e vorrebbe
fare di più. Questa situazione deve essere ribaltata perseguendo un modello di società attiva, fondata
sulla partecipazione e sulla responsabilità. A partire dalla partecipazione dei lavoratori alla vita delle
imprese in forme nuove rispetto al lavoro salariato.
: ,’
Serve una maggiore flessibilità salariale a livello territoriale e settoriale, servono incentivi efficaci per l’emersione dei lavoratori in nero e dell’economia sommersa, servono incentivi a favore di comportamenti contrattuali che colleghino le retribuzioni alla effettiva produttività aziendale. Debbono
essere introdotte forme di regolamentazione innovative che rendano agevole ed economicamente conveniente da parte delle imprese assumere personale.
Va dunque fatto funzionare il mercato del lavoro, deregolamentando tanto i flussi d’entrata quanto
quelli d’uscita ed eliminando quelle rigidità normative funzionali alla grande impresa, che, nelle piccole realtà produttive, ostacolano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Come già indicato dalla Commissione europea, l’azione di riforma da promuovere per ridare
slancio al mercato del lavoro italiano deve essere in grado di imprimere una accelerazione al processo di riforma della regolamentazione, nella direzione di una più alta protezione “sul mercato” (cioè
creando un sistema adeguato di indennità di disoccupazione ed efficaci politiche attive del lavoro) e
di una minore protezione “sul posto di lavoro” (vale a dire meno legislazione restrittiva a tutela delI’occupazione).
Devono essere promossi, in tutte le forme possibili, la partecipazione e l’azionariato dei lavoratori e la condivisione del ischio e dei benefici dello sviluppo delle imprese. Va dunque promosso un
sistema economico e giuridico dove la fine della contrapposizione tra capitale e lavoro venga riconosciuta e favorita dalla legislazione. In primo luogo, va favorito l’avvicinamento dei lavoratori al capitale azionario, attraverso fondi pensione realmente volontari, gestiti secondo le regole dei mercati
finanziari. In secondo luogo, va favorita la possibilità da parte dei dipendenti di partecipare al capitale della propria azienda.
Un tale approccio, se da un lato, può ridurre le conseguenze sociali ed economiche prodotte
dall’attuale segmentazione del mercato del lavoro, dall’altro, necessita del passaggio verso un modello più decentralizzato di negoziazione salariale che-sia in grado di rendere più coerenti salari e produttività, nel rispetto delle diverse condizioni del mercato presenti in sede locale. Quel che serve è la
creazione di un federalismo contrattuale. Si deve puntare su di un unico livello di contrattazione, a
scelta delle parti, di durata annuale o biennale. In questo livello andranno messi insieme componenti
salariali con componenti di partecipazione.
E’ poi necessaria una decisa riorganizzazione del sistema di Welfare. Le riforme degli anni passati hanno migliorato la stabilità finanziaria del sistema. Considerazioni di giustizia sociale e di rigore fiscale suggeriscono tuttavia di distribuire più equamente la distribuzione del carico tra le diverse generazioni. Allo stesso tempo, considerazioni di efficienza richiedono di accrescere il ruolo della previdenza integrativa e fornendo incentivi a un “invecchiamento attivo” che siano in grado di incoraggiare il rinvio delle
decisioni di pensionamento e la possibilità di svolgere attività lavorativa durante la pensione.
Mercato del lavoro e “Welfare State” sono due facce della stessa medaglia. Se funziona il primo
per qualità, quantità. flessibilità, tassi di sviluppo, efficienza, libertà, non può non funzionare per stabilità, equità e copertura il secondo. Occorre dunque invertire la tendenza attuale e creare un circolo
virtuoso continuo: più partecipazione, più occupazione, più gettito, meno tasse, ancor più occupazione, meno sprechi in “Welfare” assistenzialistico, più investimenti in capitale umano.
La riforma del sistema previdenziale deve fondarsi sui principi della libertà e della responsabilità: lo Stato deve limitarsi ad assicurare e ad organizzare una tutela obbligatoria essenziale, oltre la
quale il lavoratore deve avere la piena libertà di scegliere livelli di protezione ulteriore.
Il miglioramento del quadro occupazionale deve poi passare per la riduzione del carico fiscale,
collegandolo a misure di riduzione della spesa pubblica. La riduzione del carico fiscale deve essere
ancorata a un processo di consolidamento della legislazione fiscale, volto a ridurne le incertezze circa
i parametri che più interessano gli investitori nazionali e stranieri. Inoltre una riduzione generale del
carico fiscale viene ritenuta preferibile a incentivi “ad hoc” che, come il recente passato dimostra producono un rafforzamento temporaneo della crescita, ma generano distorsioni, effetti ritardati e allocazione inadeguata delle risorse.
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Tutto questo non può tuttavia prescindere da un’azione di miglioramento del funzionamento di
tutti i mercati. Nel lungo termine questo contribuirà a rendere l’Italia meno vulnerabile alle crescenti
pressioni competitive dei Paesi in via di sviluppo. Si tratta di un’azione particolarmente importante nel
caso dei servizi che, in molti casi, appaiono ancora sottosviluppati, anche a causa dello Stato che agisce più come produttore che come regolatore del mercato.
Infine va ricordato che il futuro del Paese si gioca sul capitale umano. È necessario introdurre profonde revisioni nei meccanismi della formazione, che oggi è un sistema clientelare e ineffrciente. La formazione che vogliamo prevede un aggiornamento continuo, lungo tutto l’arco della vita lavorativa, sia per i disoccupati sia per chi lavora. Vogliamo che la formazione sia prodotta da tanti soggetti in competizione sul mercato, per garantire la libertà di scelta dei lavoratori e la qualità del servizio offerto.
In ogni caso, il fondamentale stimolo alla modernizzazione non può non venire dalle istituzioni, rispetto alle quali ogni supplenza sarebbe ben difficile. A questo riguardo è interessante l’esperienza
di quei Paesi nei quali riforme essenziali quanto difficili per l’impatto sulle aspettative consolidate sono
state realizzate sulla base di accordi bi-partisan affinchè ne traesse beneficio il Paese intero, da chiunque governato.
Nel contesto di un quadro politico virtuoso, il ruolo responsabile delle parti sociali si esalta.
La normale dialettica tra di esse può ora liberamente svolgersi in quanto si sono esaurite - e
da tempo - quelle condizioni di emergenza che ne hanno giustificato la sospensione in nome della
concertazione
centralizzata.
D’altra patte il contraente debole - quello attuale come quello potenziale, l’insider come l’outsider - ha bisogno di un sindacato moderno, dinamico, rappresentativo che sa opporre all’insicurezza
e all’esclusione risposte credibili perchè non effimere, quella vera sicurezza che nelle condizioni
oggettivamente mutevoli di oggi significa continua capacità di adattamento e remunerazione efficiente della prestazione. Questo sindacato è però utile più in generale al mercato, alla competitività e quindi alla crescita. Le stesse organizzazioni imprenditoriali devono riappropriarsi del proprio mandato
esprimendo senza reticenze le ragioni dell’impresa attraverso un trasparente lobbing. Le società europee hanno consolidate tradizioni con riferimento al ruolo di partiti, sindacati, associazioni di categoria in quanto corpi intermedi tra il cittadino e le istituzioni. Nello Stato Sociale delle opportunità la
loro funzione trova rinnovata vitalità.