Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Una bottiglietta vuota lanciata in segno di protesta contro i rappresentanti di uno Stato che, invece di mediare e dar voce ai cittadini, sceglie le forme di un controllo repressivo e violento, lesivo dei basilari diritti democratici. Intorno a questo oggetto fragile e trasparente si snoda il racconto realistico di una delle pagine più vergognose della nostra storia recente. Dal punto di vista dei documenti processuali e delle testimonainze delle vittime, per le quali, spesso, pare che non resti che il cinema a fare 'giustizia'. scheda tecnica durata: 120 MINUTI nazionalità: ITALIA anno: 2012 regia: DANIELE VICARI sceneggiatura: DANIELE VICARI, LAURA PAOLUCCI, ALESSANDRO BANDINELLI, EMANUELE SCARINGI fotografia: GHERARDO GOSSI montaggio: ALISA LEPSELTER scenografia: MARTA MAFFUCCI costumi: ROBERTA VECCHI, FRANCESCA VECCHI colonna sonora: TEHO TEARDO e BALANESCU QUARTET distribuzione: FANDANGO interpreti: CLAUDIO SANTAMARIA (max flamini), JENNIFER ULRICH (alma koch), ELIO GERMANO (luca gualtieri), DAVIDE IACOPINI (marco), RALPH AMOUSSOU (etienne), FABRIZIO RONGIONE (nick janssen), RENATO SCARPA (anselmo vitali), MATTIA SBRAGIA (armando carnera), ANTONIO GERARDI (achille faleri), PAOLO CALABRESI (francesco scaroni), FRANCESCO ACQUAROLI (vinicio meconi), ALESSANDRO ROJA (marco cerone), EVA CAMBIALE (donata stranieri), ROLANDO RAVELLO (rodolfo serpieri), EMILIE DE PREISSAC (cecile), IGNAZIO OLIVA (marzio), CAMILLA SEMINO (franci), AYLIN PRANDI (maria), MICHAELA BARA (karin), SARAH MARECEK (inga), LILITH STANGHENBERG (bea), CHRISTIAN (ralph), C. LETKOWSKI (rudy), E. ORTEGA (ines), P. RAGUSA (aaron), G. MASTRODOMENICO (sesto vivaldi). premi: Festival Internazionale del Cinema di Berlino (2012): Premio del pubblico nella sezione Panorama - Secondo posto DANIELE VICARI Daniele Vicari (Collegiove, 26 febbraio 1967) è regista e sceneggiatore. Si laurea in Storia e Critica del cinema presso l'Università di Roma La Sapienza e collabora dal 1990 al 1996 come critico cinematografico con la rivista Cinema Nuovo, e dal 1997 al 1999 con la rivista Cinema 60, interessandosi soprattutto di cinema d'impegno. La passione per questo genere si riverbera anche nelle sue prime produzioni di cortometraggi: Il nuovo, in 16 millimetri, seguito poi da Mari del Sud, che tocca anche temi socio-ambientali. Nel 1997, collabora con Guido Chiesa, Davide Ferrario, Antonio Leotti, e Marco Simon Puccioni, nel documentario Partigiani, che racconta la lotta al nazismo e al fascismo della cittadina emiliana di Correggio (Reggio Emilia). Il genere documentaristico d'impegno socio-politico diventa per Vicari un filone nel quale dirige nel 1998 diversi cortometraggi. Nel 2002, con Velocità massima, partecipa in concorso alla 59ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, e l'anno successivo vince il David di Donatello come miglior regista esordiente. Nel 2005, con L'orizzonte degli eventi, partecipa al Festival di Cannes nella sezione Semaine de la Critique. Nel 2007, con il documentario Il mio paese, riceve un secondo David di Donatello per il miglior documentario di lungometraggio. Nel 2012, con il film Diaz - Don't Clean Up This Blood vince ex aequo il Premio del pubblico al Festival di Berlino, insieme a Parada di Srdjan Dragojevic e al brasiliano Xingu di Cao Hamburger. È sposato con la regista Costanza Quatriglio I fatti e i processi L'agghiacciante sequenza di accuse per le quali alcuni membri delle forze delll’ordine presenti alla Diaz e/o a Bolzaneto sono stati processati può essere letta ai seguenti indirizzi web: http://www.processig8.org/Bolzaneto.html e http://www.processig8.org/Diaz.html. Di seguito, un resoconto dei due processi seguiti alle vicende narrate nel film. Come Vicari nel film, si è scelto anche qui di espungere la descrizione dei fatti più violenti e osceni descritti nelle carte processuali. Diaz: i fatti Dal 20 al 22 luglio 2001 a Genova si riuniscono gli otto grandi della terra per affrontare temi come lo scudo spaziale, il protocollo di Kyoto, la crisi in Medio Oriente e nei Balcani. Da tutto il mondo arrivano circa 300mila persone per fare un contro vertice, con lo slogan: “Un mondo diverso è possibile”. A Genova, nel 2000, si era costituito il Genoa Social Forum, un'aggregazione di movimenti, partiti e società civile che contesta i meccanismi della globalizzazione. Ad esso aderirono numerose associazioni italiane e straniere. Il presidente era Vittorio Agnoletto. Il complesso delle scuole Diaz è costituito da due edifici, assegnati tardivamente al GSF per realizzare il mediacenter (scuola Pascoli) e un centro di comunicazione (Pertini), dove vari gruppi potessero coordinare e preparare le loro iniziative. La Pascoli ospita al piano terra la sala stampa e una palestra/infermeria, al primo piano le stanza di coordinamento per l'attività legale, sanitaria, e gli uffici di comunicazione del GSF, al secondo Radio Gap e altre testate giornalistiche di movimento e al terzo piano Indymedia. Nella Pertini la palestra viene adibita a zona di training e vengono installati alcuni computer con pubblico accesso a internet. Da giovedì 19 luglio, diventa dormitorio per i manifestanti che non hanno trovato altro luogo dove alloggiare. Dopo le prime pacifiche manifestazioni, i cortei del 20 e del 21 luglio danno luogo a una vera guerriglia urbana. Carlo Giuliani è ucciso da un proiettile sparato da una camionetta dei Carabinieri. Si contano circa 1000 feriti, 280 persone arrestate, circa 50 miliardi di lire di danni, soprattutto a negozi, auto e banche. Sabato 21 luglio, pochi minuti prima della mezzanotte, oltre 300 poliziotti in tenuta antisommossa, divisi in due colonne giungono da entrambi lati di via Cesare Battisti e muovono all'assalto delle due scuole. Un giornalista inglese di Indymedia, Mark Covell, viene pestato a sangue davanti al cancello della Pertini. Lasciato a terra, subisce altri due pestaggi e viene ridotto in fin di vita. […] Covell ricorda che i poliziotti erano 'estremamente arrabbiati'. I computer vengono distrutti, i locali perquisiti, le persone fatte sedere contro il muro e con la faccia a terra e molte malmenate. Al termine dell'operazione vengono arrestati tutti i 93 presenti. I feriti sono circa 87, tre in condizioni gravissime, di cui uno in coma. In seguito, 75 persone vengono portate alla caserma di Bolzaneto, dove subiscono torture e umiliazioni. Un episodio di “fitto lancio di oggetti contundenti da parte di numerose persone, verosimilmente appartenenti alle Tute Nere" contro un pattuglione di poliziotti aveva legittimato secondo la polizia un intervento urgente presso la Diaz, finalizzato alla ricerca di armi e materiale esplosivo. Le testimonianze (anche dei poliziotti) hanno però portato a ridimensionare l'episodio del pattuglione: vi furono a quanto pare solo urla da parte di alcuni presenti ed il lancio di una singola bottiglia. L'irruzione alla scuola Diaz fu comunque decisa a seguito di questo episodio ‘gonfiato’, dai massimi vertici della polizia presenti a Genova per il G8, nel corso di due riunioni. A presiederle, il prefetto Arnaldo La Barbera, capo della polizia di prevenzione, incaricato dal Capo della Polizia di raggiungere la città di Genova proprio quel pomeriggio, quando il G8 volgeva al termine. Dopo l’irruzione e il pestaggio, tutte le 93 persone presenti nella scuola furono arrestate per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, come risulta dal verbale di perquisizione e sequestro che attesta il ritrovamento di armi improprie e di due molotov. La polizia dichiarò di aver trovato nella scuola persone già ferite. I giudici genovesi però non convalidarono gli arresti, anzi formalizzarono una denuncia sulla base delle dichiarazioni rese dagli arrestati che descrivono in maniera univoca una situazione di violenze indiscriminate contro persone inermi. Iniziarono così le indagini, che portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per soli 29 poliziotti. Diaz: il processo La svolta nelle indagini arriva nel novembre 2001. Il ritrovamento delle molotov suscita delle perplessità. Risulta infatti mancante il verbale di un ritrovamento di ‘altre’ due molotov nel corso della giornata. I PM, insospettiti, verificano che si tratta proprio delle due molotov 'ritrovate' alla Diaz. Nuove testimonianze e un filmato inchiodano la polizia: le due molotov sono state portate alla Diaz dagli stessi poliziotti. Inoltre, nei verbali le stecche degli zaini erano stati indicati come spranghe, armi improprie, e un ricco catalogo di altri oggetti atti a offendere era stato ricavato dagli attrezzi del cantiere che si trovava all'interno della scuola in un locale chiuso prima dell’arrivo della polizia. Il 13 dicembre 2004 sono rinviati a giudizio tutti i 29 indagati per tutti i capi di imputazione: una vittoria politica importante e niente affatto scontata. In seguito, le due molotov scompaiono. Secondo la difesa, senza il corpo del reato il processo potrebbe finire, ma il tribunale presieduto da Gabrio Barone ordina le prosecuzione del processo. Gli unici imputati che hanno deciso di sottoporsi all'esame davanti al Tribunale di Genova sono stati Vincenzo Canterini, allora comandante del I Reparto Mobile di Roma e Michelangelo Fournier, suo vice, che quella notte comandava il VII nucleo sperimentale antisommossa, che fornisce una versione diversa da quanto ammesso in precedenza: ammette di aver visto, al suo arrivo, alcuni poliziotti infierire contro manifestanti inermi a terra: «Sembrava una macelleria messicana». Aggiunge di non aver fermato gli agenti e di non aver potuto riconoscerli perché non facevano parte del suo reparto. Il 18 maggio 2010 la terza sezione della Corte d'Appello di Genova ha riformato la sentenza di primo grado condannando tutti i vertici della catena di comando della Polizia che erano stati assolti nel precedente giudizio. In totale sono stati condannati 25 imputati su 28, per una condanna complessiva ad oltre 98 anni e 3 mesi di reclusione. Il 14 luglio 2011 il quotidiano genovese Il Secolo XIX ha pubblicato un articolo dal titolo provocatorio Nessuno paghi per la Diaz in cui evidenziava sia la presenza di anomalie nelle notifiche degli atti relativi ai ricorsi degli imputati, sia alcuni errori nei ricorsi (secondo la tesi del quotidiano coscientemente voluti per allungare i tempi), che avrebbero portato il processo ad un rischio concreto di oltrepassare i limiti della prescrizione. L'articolo evidenziava anche come molti dei responsabili indagati, nonostante le condanne in secondo grado, avessero poi fatto carriera o fossero stati promossi. Bolzaneto Le dichiarazioni di due agenti di polizia penitenziaria effettuate nel 2004 hanno permesso di riaprire l'inchiesta sulle torture all'interno della caserma di Bolzaneto. I reati contestati sono: abuso d'ufficio, abuso d'autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico. Sono stati denunciati anche insulti di stampo fascista e imposizioni umilianti come gridare "viva il duce". Tra i 45 imputati, quattordici sono appartenenti alla Polizia Penitenziaria; dodici sono Carabinier; quattordici sono agenti e funzionari della Polizia di Stato; cinque sono medici e paramedici dell'amministrazione penitenziaria. L’esame delle parti offese si è svolto per tutto il 2006: racconti di violenze e umiliazioni. Dalle testimonianze sono emersi scenari come il benvenuto che veniva riservato ai fermati dal cosiddetto 'comitato d'accoglienza' (decine e decine di agenti che insultavano e picchiavano gli arrestati all'arrivo a Bolzaneto), le due ali di agenti schierati ai lati del corridoio, che prendevano a calci, schiaffi e pugni le persone costrette a passarvi in mezzo, la posizione imposta ai fermati in cella, compresi i feriti, costretti a tenere le braccia alzate appoggiate al muro, il volto rivolto alla parete e le gambe divaricate, per molte ore. Drammatica, in questo senso, la testimonianza di un arrestato disabile. In infermeria le persone dovevano spogliarsi completamente e fare flessioni davanti a numerosi agenti, con ulteriori violenze e umiliazioni, e la somministrazione di cure insufficienti. Nelle celle è stato spruzzato più volte gas urticante, spesso direttamente negli occhi degli arrestati. Anche chi chiedeva l’accompagnamento ai bagni ha subito umiliazioni di ogni tipo. Inoltre, non vennero per due giorni distribuiti generi alimentari, acqua o presidi sanitari. L’atteggiamento dei colleghi degli imputati, chiamati a testimoniare dai PM e dagli avvocati della difesa da inizio 2007, è stato invece in generale ‘ermetico’ e poco collaborativo Gli avvocati di parte civile hanno citato più volte il saggio della Arendt 'La banalità del male', sui crimini nazisti: proprio perchè le vessazioni poste in essere possono esser analizzate non come devianze personali, di alcuni esaltati violenti, ma come frutto di una ‘normalità’ di fondo inserite in un contesto collettivo deviato. Le difese richiedono l'assoluzione dei propri assistiti. Si cerca di 'smontare' l'impianto accusatorio soprattutto dimostrando che alcuni trattamenti ritenuti vessatori furono solo 'duri' ma necessari. Si nega inoltre la responsabilità dei vertici, che non possono "rispondere di tutto". Le condanne Soltanto 29 agenti sono stati processati per la Diaz e nella Sentenza di Appello in 27 hanno riportato una condanna per lesioni, falso in atto pubblico e calunnia. Le condanne per lesioni e calunnia sono ormai prescritte, le condanne per falso in atto pubblico andranno in prescrizione nel 2016, mentre il processo in Cassazione deve essere ancora istruito. Nel processo relativo ai fatti accaduti nel carcere/caserma di Bolzaneto sono stati imputati 45 tra poliziotti, carabinieri, guardie penitenziarie, medici e infermieri. Per questo processo “la mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di tortura ha costretto il tribunale a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali)”. Il giudizio di appello si conclude con 44 condanne per abuso di ufficio, abuso di autorità contro arrestati o detenuti, violenza privata. Anche in questo caso i reati di abuso nei confronti dei manifestanti sono già stati cancellati dalla prescrizione. Il parlamento italiano ha respinto per due volte la proposta di legge di istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta per i fatti di Genova. La parola ai protagonisti Intervista a Domenico Procacci (produttore) e Daniele Vicari Come commentate la recente circolare del ministero dell'Interno che invita gli agenti di Polizia a non rilasciare dichiarazioni su film che 'affrontano la ricostruzione storica di eventi relativi ad attività di polizia in situazioni ordinarie e straordinarie'? Daniele Vicari: conosco molti agenti di polizia che reputo incapaci di compiere quanto descritto negli atti del processo e mi auguro che gli uomini e le donne che vestono questa divisa vadano a vedere il film proprio per avere il giusto termine di paragone con la propria esperienza. Questo film deve essere considerato come un'occasione per riflettere sul ruolo che certi corpi hanno all'interno di una democrazia matura e non lo spunto per l'ennesima lite. In fondo il tema della pellicola è proprio questo, sapere quello che è una democrazia. In questi mesi Domenico ha fatto davvero di tutto per cercare un dialogo, un confronto con le autorità, che rispondono con assoluto silenzio. E non mi riferisco solo alla Polizia ma a tutte le istituzioni. Più che il singolo poliziotto ad esprimersi dovrebbero essere proprio loro e sarebbe bene che lo facessero prima che arrivi la sentenza della Cassazione, altrimenti non c'è da stupirsi se i cittadini smettono di credere in certi valori. A Genova la prima vittima è stata la civiltà, poi ci sono stati i corpi e le coscienze delle persone coinvolte. Domenico Procacci: era nella logica delle cose che si coordinassero per non lasciare spazio a prese di posizione singole e posso anche capirlo, ciò che non comprendo e che mi procura dispiacere è che si continua a seguire una linea ben precisa tracciata in questi undici anni. E' troppo comodo nascondersi dietro alla presunzione di innocenza, in realtà gli elementi per esprimere un giudizio ci sono tutti. Il comportamento degli agenti ha infranto la legge. Perché esiste una convenzione dell'Onu in cui si auspica che il reato di tortura sia inserito nell'ordinamento giuridico di un paese e da noi non è ancora successo? E' normale che se la polizia indaga su sé stessa, lo spirito di corpo sconfinerà nell'omertà, un atteggiamento che è più forte del senso dello Stato. Daniele, che esperienza è stata quella di leggere tutti gli atti del processo? E' stata un'esperienza umana prima che lavorativa. Leggere di seguito tutti gli atti ci ha permesso di ricostruire un tessuto narrativo, chiarendo meglio i destini di quelle persone a cui è stata sottratta la dignità in maniera coordinata e continuata. Sull'argomento avevo solo un'idea politica, cioè pensavo che con quell'azione in qualche modo si volesse fermare il movimento. Poi, studiando il materiale a disposizione, mi sono accorto che si è consumata una tragedia molto più grande. Ciò che è inaccettabile è far perdere ad una persona la dignità di essere umano. Un padre di famiglia che ti manganella e poi torna a casa de dà una carezza al figlio non è più un padre di famiglia, ma è un aguzzino che ti vuole togliere la vita e se hai la divisa non fa differenza. In che modo questo lavoro sui documenti vi ha aiutati dal punto di vista della scrittura della sceneggiatura? Abbiamo tirato fuori vicende di singoli personaggi che potessero intrecciarsi con i momenti più importanti. Molte di quelle persone le abbiamo incontrate, ma non per farci raccontare qualcosa in più, quanto per guardarli negli occhi e cercare di capire quale fosse il loro vissuto. Avete dovuto tralasciato qualcosa? Sì, ma era assolutamente naturale che succedesse, vista la vastità dei processi, assimilabili a quelli per mafia. Ciò che è successo a Bolzaneto lo raccontiamo attraverso le vicende di Alma, la ragazza tedesca, in quattro o cinque scene, ma in quella caserma sono state rinchiuse 200 persone e in quei giorni sono successe delle cose che non avrei neanche saputo come raccontare. Al termine della premiere genovese il Pubblico Ministero Enrico Zucca ha scritto un pezzo per Il Secolo XIX in cui spiega che nella realtà sono successe cose ben peggiori. Quindi avete limitato allo stretto indispensabile la finzione... Dall'irruzione alla Diaz, fino al termine del film non c'è stata una sola cosa inventata. Il livello di tradimento è stato legato a necessità drammaturgiche elementari. E' la prima volta che dirigi un film ispirato da una storia vera, qual è stata la sfida più grande per te? La cosa più importante e più difficile quando si gira un film ispirato a una vera vicenda è rispettare il fatto in maniera assoluta, senza costruire teorie. Quelle non competono al cinema, semmai ai cronisti che devono sviscerare l'argomento vino a cavare il sangue dalla rapa. Il cinema è un prodotto di fantasia, per questo ritengo inappropriato l'utilizzo dell'aggettivo 'civile'. In quanto regista devo restituire il senso degli avvenimenti, in questo caso il senso è nel modo in cui sono stati sospesi i diritti civili, nella devastazione fisica e spirituale delle vittime. Mi sono voluto sottrarre al meccanismo del cinema politico, certe pellicole invecchiano dopo tre minuti. Il mio obiettivo principale era quello di far porre agli spettatori una domanda radicale sul senso della democrazia evidentemente ancora non compiuta. Nel film ci sono poche immagini di repertorio... Circa 3 minuti di girato che comunque è stato fondamentale per ricostruire l'atmosfera e i costumi di quei giorni. Quello fu un evento mediatico eccezionale, ripreso in tanti modi soprattutto grazie ad alcuni documentaristi. E' naturale che le immagini di repertorio siano più belle di qualunque messa in scena. Come hai lavorato sulla durissima sequenza del blitz della polizia? L'assalto è durato 9 minuti, ho voluto dare spazio ai diversi punti di vista dei personaggi per restituire la sensazione di tempo dilatato. Per questo alla fine la sequenza dura il doppio del tempo reale. Come hai lavorato con un cast così ampio? Ho scelto gli attori oltre che per la bravura, anche in base al loro coinvolgimento emotivo nel racconto. Avevo bisogno di persone capaci di inventare un personaggio coerente con la storia raccontata, avendo talvolta poche scene a disposizione, pochi gesti. Già in fase di sceneggiatura abbiamo cercato di raccontare il senso di spaesamento che tutti coloro che hanno partecipato al G8 ricordano, una sorta di caos terrificante. Durante le riprese ho avuto vari momenti di difficoltà realizzando le scene più cruente, perché in quei momenti ho compreso fino in fondo l’inferno che si è sviluppato dentro quei luoghi. Mi sono chiesto in continuazione: fino a che punto posso spingermi nella rappresentazione di quella violenza? che senso ha questa violenza estrema e da dove viene? che democrazia è quella che mi spoglia, mi violenta, mi priva di identità e di diritti? Una delle cose che mi ha sempre colpito di più nei racconti delle persone che hanno partecipato a quel G8, è la sensazione di non poter sfuggire al proprio destino, come in un incubo. Questo elemento è filtrato prepotentemente nel film [...] La struttura narrativa del film sollecita queste domande, la circolarità del racconto intorno ad un accadimento marginale della giornata del 21 luglio 2001, di qualche ora precedente all’irruzione, cioè il passaggio di un “pattuglione” della polizia davanti la scuola Diaz, mette contemporaneamente in campo diversi livelli narrativi e sottolinea l’assurda ineluttabilità che ha portato agli esiti estremi raccontati nei processi. I diversi livelli narrativi si intrecciano con diversi punti di vista incarnati da alcuni personaggi che si muovono nei luoghi fondamentali della storia, inconsapevoli di ciò che sta per capitare loro. E io con loro mi chiedo cosa stia capitando, perdo ogni certezza, finisco in un labirinto senza via d’uscita. Recensioni Giancarlo Usai. Ondacinema A volte l'imparzialità, la giusta distanza, l'equilibrio nel raccontare una storia non sono necessariamente un elemento di merito. Ci sono fatti della nostra storia recente che hanno bisogno di una narrazione furiosa, una presa di posizione netta, un utilizzo spietato di documenti e reperti su cui basare la ricostruzione. È da qui, da questo assunto, che Daniele Vicari parte per dirigere il suo film più ambizioso, il lungometraggio che gli ha fatto riscoprire in pieno quella sua naturale vocazione per il cinema d'impegno civile con cui si era presentato all'attenzione di pubblico e critica con i suoi primi documentari. Poi, nella sua pur breve carriera da regista, il cineasta reatino si era dedicato anche ad altro, fino ad approdare a un "ritorno a casa" grazie agli eventi accaduti nella scuola Diaz di Genova in quella maledetta sera del 21 luglio 2001, poco più di un giorno dopo la morte di Carlo Giuliani e la guerriglia scatenatasi nel capoluogo ligure in occasione del G8. Impossibile che un autore così attento alla realtà come Vicari non si accorgesse dell'incredibile possibilità cinematografica che quel drammatico e infame capitolo della nostra recente storia offrisse a chi vi si avvicinasse. Il film che ne è venuto fuori è una spaventosa fusione a freddo tra i filmati dell'epoca e la loro prosecuzione "fittizia", sfruttando i racconti e le testimonianze processuali per costruire un vero film d'azione, imbrattato di sangue e di urla innocenti. Una pellicola in cui chi ha sbagliato e chi invece ha ricoperto il ruolo della vittima è ben evidenziato. Un aspetto che solitamente ci farebbe sottolineare l'eccessiva partigianeria della sceneggiatura, stavolta ci fa applaudire la scelta degli autori che non hanno paura di mostrare quanto accaduto e neanche di prendere una decisa posizione in merito. E peccato se il trucco di una bottiglia che va in frantumi più volte per raccontare, con "riavvolgimenti" del nastro, quella notte da vari punti di vista suoni un po' come un espediente posticcio per cercare di accontentare tutti, descrivendo le due ore di un black block che si nasconde, di una poliziotta che non sa che cosa fanno i suoi colleghi, di un rappresentante del Genoa Social Forum che per una ragazza si salva giusto in tempo. È vero, alcuni dialoghi, pochi in verità dato che Vicari punta sull'azione e riduce all'osso le parole, soffrono di eccessiva carica didascalica. Se il regista avesse avuto il coraggio di non curarsi di spiegazioni forse troppo verbose, l'opera avrebbe avuto una forza ancor più dirompente. Ma resta a ogni modo lo stile cristallino, deciso, curato nel minimo dettaglio con cui due ore di inspiegabile e irrefrenabile violenza vengono messe in scena. Il montaggio alternato di realtà vera e realtà fittizia è forse la scelta più convincente e la recitazione sommessa di tutti i protagonisti di questo folle racconto corale aiuta il film a centrare l'obiettivo. Vittorio Agnoletto. Il Manifesto […] Non c’è dubbio che le lunghe sequenze che mostrano le gravissime violenze agite dalla polizia alla Diaz e le torture praticate a Bolzaneto rendono visibile per la prima volta quanto è avvenuto nella scuola e nella caserma; su questo ha ragione Angelo Mastrandrea (il manifesto 7 aprile). Questo è senza dubbio un merito che di per sé può motivare la visione del film. Il rischio dell’oblio è forte e non c’è dubbio che i nostri governanti siano impegnati, da quasi undici anni, a cancellare dalla memoria collettiva quei fatti. Chiunque uscirà dalla proiezione si sentirà fortemente coinvolto e indignato dalla ferocia delle violenze istituzionali alle quali avrà assistito. E’ l’efficacia del film, un pugno nello stomaco che non si dimentica. Ma tale riconoscimento non può esimerci dall’esercitare, anche in questo caso, un’analisi critica, tanto più rigorosa quanto più il film tende a essere presentato come aderente alla verità storica e processuale. Ecco quindi le mie principali critiche: 1. Il film “sorvola sui nomi di chi allora quell’operazione condusse e giustificò” scrive su il Corriere della sera del 13 febbraio Giuseppina Manin dopo aver visto il film al festival di Berlino. [...] Eppure quei nomi sono scritti proprio negli atti giudiziari ai quali il film fa riferimento: si ritrovano nella lista dei condannati. Sono personaggi importanti, di potere, condannati in appello per gravi reati e che oggi ricoprono ruoli di primissimo piano nelle forze dell’ordine. Nemmeno nelle poche righe che precedono i titoli di coda compaiono i loro nomi e nemmeno si spiega che costoro sono stati tutti promossi. […] Mi domando qual è il motivo di tanta cautela e mi chiedo se sia in relazione con la scelta pubblicizzata dal produttore di inviare, ancora prima di cominciare le riprese del film, una copia della sceneggiatura all’attuale capo della polizia Antonio Manganelli. Manganelli, all’epoca vicecapo della polizia, è colui che, stando a quanto affermato dall’ex questore Colucci, in una telefonata intercettata durante l’inchiesta, avrebbe detto: “Dobbiamo dargli una bella botta a ’sto magistrato “, riferendosi al pm Zucca. Difficile capire che titolo avesse Manganelli per leggere in anteprima la sceneggiatura. 2. La responsabilità di quanto è accaduto nella notte della Diaz sembra venir scaricata sul personaggio giunto da Roma, che poi sarebbe Arnaldo La Barbera, deceduto da tempo per malattia. E’ esattamente una delle tesi sostenute a suo tempo dagli imputati. Nulla emerge dal film sulla figura dell’allora capo della polizia, oggi potentissimo capo dei servizi segreti, Gianni De Gennaro. […] Uno dei dirigenti di polizia, la controfigura di Michelangelo Fournier, il funzionario che aveva il comando operativo del suo reparto durante l’assalto alla Diaz, viene persino dipinto come una persona logorata da dubbi amletici al punto di scusarsi con le vittime. Resta da capire quali siano in questo caso le fonti documentali. Non si dice una parola invece sui due infermieri che per aver denunciato le torture di Bolzaneto hanno dovuto abbandonare l’amministrazione penitenziaria, sul poliziotto che per aver collaborato coi giudici si è trovato le quattro ruote dell’auto tagliate, sul vice capo vicario della polizia Andreassi che, per aver scelto di non partecipare all’operazione della Diaz, ha avuto la carriera stroncata. Tutti fatti, questi, ampiamente documentati. 3. Non una parola è detta sul ruolo dei politici coinvolti nei fatti di Genova: nulla su Fini, niente su Scajola. Un solo passaggio di repertorio, alla fine, su Berlusconi. Viene taciuta persino la visita che Roberto Castelli, allora ministro della Giustizia, fece alla caserma di Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. La politica sembra non aver avuto alcuna responsabilità. 4. Enrico Zucca nell’intervista citata, dopo aver ricordato la forte rimozione attuata dalla politica e dalle istituzioni sulle responsabilità, afferma: “Il film cautamente si adegua e non solo, in alcuni passi ricostruttivi sceglie la versione degli imputati (n.d.a. i poliziotti) rispetto a quella contrastante delle vittime. Se vogliamo l’unico messaggio netto che ha dato è che i black bloc erano – anche – alla Diaz”. Non è un fatto di poco rilievo. La destra ha costruito tutta la sua campagna di criminalizzazione del movimento sostenendo la contiguità tra Genoa Social Forum e Black Bloc. Su argomenti di simile importanza non sono ammesse licenze da romanzo, specie se si afferma di fare un film basandosi sulle inchieste giudiziarie. 5. Il racconto è completamente decontestualizzato; non viene mai spiegato perché 300.000 persone quel luglio 2001 si siano recate a Genova. Cosa può capirne un giovane che oggi ha vent’anni? [...] Se non si spiegano le ragioni del movimento diventa impossibile spiegare le ragioni della repressione. [...] In sintesi: lo spettatore resta sconvolto dalle violenze commesse dalla polizia, ma legittimato a pensare di trovarsi di fronte ad episodi isolati, appartenenti al passato e dovuti all’azione di alcune “mele marce.” […] Siamo di fronte a un film commerciale, costruito con astuzia, che riesce ad essere molto attento e rispettoso delle compatibilità politiche e degli attuali rapporti di forza negli apparati, senza pestare i piedi a nessuno, e nello stesso tempo capace di presentarsi come paladino dei diritti e solidale con le vittime. [...] Federico Gironi. Coming Soon Su una cosa dovrebbero tutti essere d’accordo, indipendentemente dagli schieramenti politici o cinematografici: che quanto accaduto a Genova durante il G8 del 2001, e in particolare alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, rappresenta ancora un ingombrante e vergognoso rimosso nella coscienza collettiva del nostro paese. Raccontare quei fatti al cinema, però, tendeva più di una trappola. E bisogna rendere atto a Daniele Vicari di averle evitate pressoché tutte in un film di grande impatto emotivo. Perché Diaz, prima di ogni altra cosa, e soprattutto prima di essere un pamphlet, un volantino di rivendicazione, è un film. Un film che ha voluto trovare prima di tutto nel cinema, nella struttura narrativa e nelle dinamiche di genere, e poi nei dati fattuali estrapolati dagli atti processuali, fondamenta solide abbastanza da poter resistere alle polemiche e alle partigianerie. Se poi quello di Vicari è un film militante, lo è in forme decisamente insolite per la tradizione del cinema italiano socialmente e politicamente impegnato: la sua militanza non è figlia infatti di una partigianeria politica, ma di un sincero e appassionato afflato democratico, e soprattutto rifugge ogni volontà più direttamente accusatoria e dietrologica, facendosi documento (e non documentario) il più possibile (s)oggettivo. Il racconto polifonico su cui si basa Diaz ha una funzione diretta ed esplicita: quella di moltiplicare i punti di vista, le opinioni, e quindi a cercare una verità, per quanto personale, nella complessità. Ma Vicari non adotta (solo) uno stile para-documentaristico, elaborando i dati fattuali e ricercando l’astrazione del e nel genere: ecco che allora questa terribile narrazione collettiva, dove gli sguardi e le voci (le lingue) si sovrappongono confuse e convulse, fanno del film un racconto allucinante e onirico. Vicari non si nasconde dietro un dito, non nega gli errori nel movimento e non demonizza aprioristicamente le forze dell’ordine. Si prende le sue responsabilità e azzarda anche narrativizzazioni rischiose ma meritevoli, rifugge la retorica e rimane attaccato ai volti (e ai corpi) dei suoi protagonisti, lasciando che l’intrecciarsi delle loro storie e dei loro sguardi si snodi come un tesissimo incubo sotto gli occhi degli spettatori. In questo quadro, è quasi ingeneroso, ma necessario, sottolineare come nei pochissimi momenti dove la sceneggiatura si fa sentire di più, in bocca a questo o a quell’attore, la nota suoni aspra e stonata. Ma Diaz è comunque cinema intenso, doloroso e potente. Straziante nel racconto di una violenza riguardo la quale, alcune volte, Vicari si è intelligentemente censurato. Opprimente e chiuso in sé stesso, senza vie d’uscita: un tunnel, come quello imboccato dal torpedone dei reduci alla fine del film. Un grido assordante, rabbioso, ma in un certo senso muto: metaforicamente parallelo al senso di mani legate e d’impotenza di allora e di oggi e al colpevole silenzio delle istituzioni. Non una denuncia, ma una testimonianza dell’orrore del reale. Simone Fortunato. Sentieri Selvaggi Film assai controverso. È una cronaca dei fatti della Diaz e non un romanzo o un'opera di fiction. La precisazione è importante sia da un punto di vista cinematografico che da un punto di vista storico. Il regista Daniele Vicari, non nuovo a film impegnati nella denuncia civile (è suo Il mio paese, un viaggio nell'Italia che soffre, povera e sfruttata), sceglie la strada di raccontare solo i fatti della Diaz e di basarsi nel racconto sugli atti processuali dei due processi di primo e secondo grado che hanno visto condannati 25 imputati su 28 per vari capi d'imputazione come lesioni gravi e calunnia. La scelta è comprensibile: la materia trattata è più che scottante, è stato aperto un ricorso in Cassazione e in generale si riesce a guardare con equilibrio a fatti di così grande impatto sull'opinione pubblica e sulla vita di tante persone solo dopo parecchi anni, molti più degli 11 che separano il G8 di allora da oggi. Cinematograficamente il taglio cronachistico comporta molti problemi: l'impossibilità di ricondurre a un unico o a pochi punti di vista la narrazione essendo centinaia le persone coinvolte da una parte e dall'altra; la rinuncia a qualsiasi tentazione romanzesca di dar corpo alle tante figure presenti su cui gli spettatori vorrebbero sapere di più: che storia hanno alle spalle, perché sono finiti alla Diaz, perché erano al G8. Vicari rimane coerente con il taglio cronachistico e cerca di risolvere le difficoltà della narrazione dando spazio a tantissimi punti vista e restituendoci una narrazione frammentata a cui dà unità solo il montaggio. Si assiste così alla vicenda di un uomo d'affari finito per caso nella scuola perché non aveva trovato alcun posto in albergo; o si rimane colpiti dalla storia del pensionato che si era fermato a Genova dopo la manifestazione per una visita al cimitero e si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. E ancora: un volontario responsabile del Genoa Social Forum responsabile della logistica, due ragazze tedesche che verranno massacrate senza pietà, alcuni ragazzi che trovano scampo in un bar vicino alla scuola. Rimangono però degli aspetti controversi: se infatti è un vero pugno nello stomaco la cronaca minuziosa del pestaggio nella scuola e alcune immagini sono molto forti, complice anche un buon uso dei meccanismi della suspense da parte del regista, manca totalmente, a parte un piccolo accenno a un'assemblea del Genoa Social Forum, la dimensione più ampia del contesto. Non si sa nulla di questi ragazzi (e a dire il vero neanche del perché i poliziotti faranno il blitz, a parte l'accenno a una vendetta nei confronti di una loro pattuglia presa d'assalto). […] La scelta di fare cronaca è quindi giustificabile perché mette regista e produttori al riparo da qualsiasi polemica ideologica ma è discutibile: perché le cose, anche più sanguinose, succedono sempre in un contesto. E a Genova [...] il contesto era difficilissimo. Da questo punto di vista l'abbandono di qualsiasi riflessione di natura politica è un punto debole: perché, raccontando della violenza della polizia, non fare nomi e cognomi, non puntare il dito sui mandanti della violenze? È corretto storicamente e anche un po' controcorrente mostrare che non tutti i poliziotti accettarono la violenza bruta. Va dato atto al regista il coraggio di porre l'accento nel proprio film sul caposquadra interpretato da Claudio Santamaria, l'unico poliziotto ad avere il volto scoperto nella Diaz, che presta soccorso ai feriti e impedisce ai propri uomini di compiere violenze all'interno; così come è significativo ricordare che nella riunione con i capi della polizia un funzionario chieda inutilmente ai propri vertici di intervenire nella Diaz con i lacrimogeni per evitare proprio spargimenti di sangue perché “io i miei uomini non li tengo più”. Perché avere questo coraggio di non strumentalizzare politicamente un fatto così grave ma non avere lo stesso coraggio facendo nomi e cognomi dei mandanti (che nel film ci sono, sono pezzi grossi della Polizia di Stato e forse anche del Ministero degli Interni ma non hanno nome e appaiono molto sfuggenti)? Perché non spiegare, magari solo attraverso uno stretto giro di immagini, come mai i poliziotti “non ce la facevano più” da che cosa e da chi erano stati provocati? Prendere una strada più problematica, avrebbe comportato probabilmente molti più guai a regista e sceneggiatore e forse il film sarebbe stato ostacolato dalle parti chiamate in causa e avrebbe fatto fatica a uscire, ma avrebbe dato un quadro più complesso e veritiero dei fatti. Così invece la forza delle immagini non si discute e crea sgomento e rabbia, ma il vuoto delle ragioni di una parte e dell'altra non aiuta a comprendere pienamente uno degli episodi più cupi della nostra storia recente. Paolo D'Agostini. La Repubblica Tutto quello che è contenuto nel film di Daniele Vicari Diaz - non pulite questo sangue lo sapevamo già, perché largamente documentato e testimoniato. Eppure il film provoca un'impressione enorme. Il cinema, nonostante la sua perdita storica di terreno come strumento di formazione e di maturazione delle coscienze, mantiene ancora una potenza straordinaria. Lo stiamo vedendo anche nel caso del film di Giordana Romanzo di una strage. Essere informati dal giornalismo, dalla tv, dai libri, non è la stessa cosa che veder rappresentati i più drammatici fatti della nostra vita civile da un racconto proiettato su un grande schermo. Naturalmente "un film è un film". Senza attribuire all'espressione un senso riduttivo o giustificativo delle eventuali mancanze, quando l'argomento è così reale e caldo, ma per dire che una finzione narrativa esprime uno sguardo e un'interpretazione. Non sostituisce lo studio e la conoscenza di tutti i fatti. Ma può agire da invito ad approfondire, da finestra aperta, da lampadina accesa per invogliare a saperne di più. Che la conformazione di Genova fosse inadatta a governare l'ordine pubblico e dunque ad ospitare i capi delle otto maggiori potenze, era stato oggetto di polemiche alla vigilia del vertice previsto tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001. Trascorso poco più di un mese dall'insediamento del governo Berlusconi. Le manifestazioni pacifiche iniziano giovedì 19. Nel corso dei quattro giorni i manifestanti coinvolti, provenienti da moltissimi paesi, saranno circa trecentomila. Nell'ordine di (forse) qualche centinaio quantificati (ma non identificati o puniti, prevenuti e isolati malgrado le segnalazioni e gli allarmi) i violenti che effettivamente mettono la città a ferro e fuoco nonostante eccezionali misure di sicurezza. Il venerdì pomeriggio viene ucciso in piazza Alimonda, dal carabiniere Placanica, il manifestante Carlo Giuliani. Ma verrà giudicata legittima difesa. Numerose manifestazioni hanno luogo l'indomani sabato 21. Dopo le 23 circa 350 poliziotti soprattutto del reparto mobile di Roma fanno irruzione negli edifici del complesso scolastico Diaz-Pascoli adibiti, con tutti i permessi, uno a dormitorio e l'altro a sede del media center e dell'assistenza legale dell'organismo promotore, Il Genoa Social Forum. [...] La "perquisizione" si risolve in un massacro, seguito da arresti e detenzione illegale. La caserma di Bolzaneto, dove i fermati vengono tradotti, è sede di abusi ancora peggiori. Non solo esponenti delle forze dell'ordine (in particolare guardie penitenziarie) ma anche addetti all'infermeria infieriscono con violenze fisiche e umiliazioni in particolare sulle donne. Amnesty International definirà i fatti come "la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale". Il film, che non ha un andamento lineare e didascalico, ha inteso comunicare soprattutto "il senso di spaesamento" (parole del regista), di confusione, di trappola inspiegabile e senza vie di uscita vissuto dalla massa dei partecipanti a quelle giornate. Lo fa (fondandosi su atti processuali, sentenze e sulla grande massa di testimonianze disponibili) seguendo i movimenti di una decina di persone. Giovani militanti in schiacciante maggioranza non violentio organizzatori, ma anche un pensionato accorso a Genova sotto la bandiera sindacale e capitato per caso alla Diaz in cerca di un ricovero, e un cronista (Elio Germano) venuto da Bologna per esclusivo interesse professionale. Tutti nel tritacarne del pestaggio. Quello che le autorità cercano di giustificare esibendo le false prove del ritrovamento di armi. Un elemento visivo ricorrente guida il percorso: l'immagine rallentata di una bottiglia che vola e, innocua, si schianta a terra. Testimonianza di un'aggressività diffusa, ma soprattutto richiamo ai pretesti accampati dalle forze dell'ordine per giustificare l'ingiustificabile. Il film ha una propria angolazione dalla quale si potrà lamentare la mancanza di una chiave più documentaristica, ma non c'è dubbio che si risolva in un pesantissimo atto d'accusa che amplifica il tanto che in un decennio è stato scritto sui giornali e detto nelle aule di tribunale. Il primo agosto 2001 scriveva su Repubblica Giuseppe D'Avanzo: "A Genova si è consumato uno strappo.Quelle scene di pestaggio su uomini e donne inermi hanno cancellato con un colpo di spugna la consapevolezza che tra i manifestanti c'erano gruppi di violenti, che quei violenti hanno aggredito la polizia, che la polizia si è difesa. Perché non è difendersi aggredire anziani, disabili, in alcuni casi padri con bambini al collo". Paola Casella. Europa È davvero difficile dare una valutazione critica di Diaz [...]. È difficile perché quei fatti sono così recenti e così ammantati di diniego (da parte delle autorità e della polizia) che nessuno di noi, al di fuori dei diretti interessati, può dire di sapere esattamente cosa sia successo là dentro, nella nottata del 21 luglio 2001 e nei giorni successivi. Vicari ha dichiarato di essersi basato interamente su «fatti accertati da sentenze» ma è con vero orrore e incredulità, non perché questi fatti non siano accaduti, ma perché sembra impossibile che nel Ventunesimo secolo in Occidente possano verificarsi episodi di brutalità così gratuita ed efferata, che noi spettatori assistiamo alle botte, le umiliazioni e le sevizie perpetrate dalla polizia sui trattenuti senza specifiche accuse, senza la possibilità di contattare familiari o legali e a G8 quasi concluso. Vicari racconta con energia da regista d’azione più che di impegno politico quelle ore di terrore e confusione, raffigurate dall’interno e nella visione soggettiva (nel senso cinematografico del termine) degli occupanti della scuola Diaz. La carica dei poliziotti mette l’adrenalina addosso, e si ha la sensazione che quell’adrenalina sia stata in parte responsabile degli eccessi di violenza delle forze armate, anche se le reazioni di alcuni poliziotti sembrano talmente sopra le righe, e quelle dei colpiti così ingenue, da far temere la convenzione cinematografica. Certo è che Diaz lascia nello spettatore una profonda inquietudine che non deriva solo dalla violenza sullo schermo ma dal senso di impotenza (degli attivisti colpiti) e impunità (di chi ha ordinato l’irruzione) che la storia comunica. Il terreno cinematografico è quello di Garage Olimpo e de La notte delle matite spezzate, entrambi ambientati nell’Argentina di Videla in un clima di totale privazione dei diritti civili dei desaparecidos. Se da un lato Diaz è molto efficace nel ricreare quel clima a livello di azione cinematografica, dall’altro è carente nel contestualizzare gli eventi all’interno del clima politico italiano del momento: solo una breve apparizione di Berlusconi in televisione, nel finale del film, ricorda che il governo appena insediato fu rapidissimo nell’accettare come verità la versione dei fatti data dalla polizia a proposito dell’irruzione nella Diaz. E nulla si dice sul fatto che il neo presidente del consiglio, con Fini vicepresidente, Scajola agli interni e Castelli alla giustizia, avesse contribuito a creare un’illusione di impunità, e anzi la speranza di un implicito sostegno, per chiunque si fosse fatto portavoce di quella linea dura con cui si intendeva prevenire i possibili disordini intorno al G8, per dimostrare al mondo che Genova non sarebbe stata un’altra Seattle. Senza raccontare quel clima, è difficile capacitarsi di come la «spedizione punitiva» inscenata dalla polizia abbia potuto avere luogo e del perché la dirigenza che ha ordinato l’irruzione e depistato le successive indagini sia rimasta impunita. Diaz resta comunque un film di forte impatto visivo ed emotivo, che racconta la storia recente «a ferro caldo» senza raggelarne la follia in un tentativo di razionalizzazione degli eventi (come fa Romanzo di una strage) ma restituendo l’incomunicabilità radicale fra forze dell’ordine e attivisti No global che ancora oggi caratterizza le due fazioni contrapposte, vedi il muro contro muro fra No Tav e polizia. Il film di Vicari ha vinto il premio del pubblico a Berlino, dove concorreva nella sezione Panorama, sia perché restituisce al pubblico la concitazione di quei giorni sia perché sceglie un cast internazionale per raccontare una storia che non ha confini geografici, ma ha forti confini ideologici. Il punto debole del film, lo ribadiamo, sta nel non aver sottolineato ciò che di specificatamente italiano, in quanto legato ad una filosofia di governo appena approdata alle stanze dei bottoni, ci fosse nella reazione eccessiva e fortemente simbolica del corpo di polizia, che più che demonizzato va contestualizzato, affinché ciò che è successo a Genova non si ripeta. Federico Pontiggia. Il Fatto Quotidiano Nel primo weekend in sala ha fatto 664.414 euro, buoni per il quinto posto del botteghino. Non sono pochissimi, ma sono pochi, perché Diaz di Daniele Vicari merita. Merita. Ecco 10 motivi per cui andarlo a vedere. 1) Perché a Daniele Vicari l’etichetta di cinema civile non piace, e si capisce: Diaz è civiltà, piena cittadinanza, fatta cinema. 2) Perché se i Vanzina esistono, se Woody Allen fa le cartoline de noantri, se Moccia farà un altro film, come potrebbe“la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la II Guerra Mondiale”(Amnesty International) non finire sullo schermo? 3) Perché è colpevole, colluso, ignorante e italianissimo l’oblio caduto sui fatti della scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto al G8 di Genova del 2001. 4) Perché dopo quello sulle stragi di Stato, Diaz speriamo possa inaugurare un filone sull’orrore di Stato, capace di “fare giustizia” laddove potrebbe non esserci in aula: vedremo tra qualche settimana… 5) Perché è un film per tutti, volutamente, decisamente popolare: punta sulle emozioni – il pugno allo stomaco dell’assalto della polizia alla Diaz – e trova insieme al genere horror anche il Salò di Pasolini con le torture a Bolzaneto. 6) Perché a differenza di Romanzo di una strage su Piazza Fontana, Vicari non racconta, non costruisce teorie, semplicemente, mostra i fatti meno – anzi, per niente: l’unico tape si è perso… – filmati di uno degli eventi, il G8, più filmati al mondo. 7) Perché riguadagna al cinema di finzione una capacità documentale e documentaria che il documentario stesso non ha potuto e non può avere. 8) Perché in qualche circostanza in mass media stat virtus, soprattutto in medio stat virtus: chiedete a polizia ed Agnoletto… 9) Perché Porco Diaz – il fatto, non il film – è la bestemmia laica che dovremmo imparare a scuola. 10) Perché il cinema italiano è tautologicamente quello che racconta l’Italia. Meglio se a testa alta e con gli occhi alzati sul mondo: Diaz è questo.