Economisti e accademici nel Settecento veneto. Una

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Economisti e accademici nel Settecento veneto. Una
Romano Molesti
ECONOMISTI E ACCADEMICI
NEL SETTECENTO VENETO
Una visione organica dell’economia
FrancoAngeli
PREFAZIONE
1. - Riteniamo che ripresentare alcuni scritti di economisti e accademici
veneti del Settecento possa essere interessante non tanto dal punto di vista di
un’erudizione fine a se stessa quanto per la metodologia e l’impostazione che
tali autori presentano nelle loro trattazioni. Al di là dell’esame di aspetti contingenti, di certe indicazioni, che indubbiamente hanno valore solo relativamente a certe situazioni di tempo e di luogo, riteniamo che la ripresentazione
di scritti dei nostri autori possa essere utile specie nel momento attuale in cui
la scienza economica si trova in una situazione di impasse e dimostra
l’esigenza di un mutamento di indirizzo.
Tale scienza manifesta grandi difficoltà nell’affrontare alcuni dei maggiori
problemi che oggi incombono: quello del progressivo degrado dell’ambiente,
della sovrappopolazione, del sottosviluppo, ecc. Si tratta di problemi per la cui
soluzione l’economia tradizionale o standard, di matrice neoclassica, risulta
inadeguata. Tal economia ricalca ancora pedissequamente lo schema meccanicista e determinista, che ebbe tre secoli addietro la sua sanzione sul piano
della fisica e della matematica nelle teorie di Cartesio, Galileo, Newton.
La rivoluzione scientifica di quest’ultimo secolo ha dimostrato
l’inconsistenza di tale paradigma meccanicista e determinista, sostituendo ad
esso una concezione finalistica, sistemica, volontaristica.
Il fatto strano è che gli economisti sono rimasti fedeli alla vecchia impostazione metodologica, anche dopo che la stessa fisica ha registrato un netto
mutamento di paradigma. Un nuovo indirizzo rispetto al passato è quello che
ha preso avvio dall’impostazione della bioeconomia, qual è stata delineata da
uno dei maggiori economisti del ‘900, Nicholas Georgescu-Roegen, in una
visione che supera il meccanicismo e il determinismo e che è pienamente in
armonia con il nuovo paradigma scientifico della complessità e del pensiero
sistemico.
Nel momento in cui la bioeconomia o economia ecologica, per opera del
suo fondatore, Nicholas Georgescu-Roegen, rileva la necessità di un profondo
mutamento metodologico, i nostri Autori del Settecento, a nostro avviso, possono avere molte cose da dire. Volontarismo, finalismo, aderenza alla realtà
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storica, pragmatismo sono alcune delle caratteristiche di tali autori, che furono
eclissati dagli esponenti della Scuola classica inglese e che invece oggi, anche
alla luce dei principi del nuovo paradigma della bioeconomia, meritano di essere riscoperti e valorizzati, potendo, in un certo senso, essere considerati una
sorta di precursori del nuovo pensiero bioeconomico.
Fra gli autori del passato più trascurati figurano gli economisti italiani del
Settecento, anche se il loro pensiero, spesso originale e precorritore, presenta,
per più di un aspetto, motivi di grande interesse. Di là dalla semplice conservazione della ricchezza tali autori si preoccuparono del migliore assetto distributivo, da loro considerato in un quadro storico ben preciso, in cui sono attentamente presi in esame aspetti storici, politici, demografici, territoriali ecc.
Tale complessa maniera degli economisti italiani di trattare il problema
economico è stata efficacemente messa a confronto da vari autori con
l’astratta analisi degli economisti classici inglesi, incentrata prevalentemente
sull’analisi del mero valore di scambio.
Per comprendere pienamente la portata del pensiero degli economisti italiani del Settecento, occorre tener presenti le condizioni nelle quali essi vissero. Si tratta d’autori che non scrissero, com’è stato messo in evidenza, per mero senso d’erudizione o per passione di cattedra, sebbene sotto lo stimolo
d’urgenti problemi sociali da valutare e da risolvere. Le gravi difficoltà in cui
versavano le varie regioni italiane nel secolo XVIII, sia per quanto riguarda la
vita economica che il mondo politico istituzionale, rappresentarono per i nostri scrittori uno stimolo a penetrare nel vivo della realtà, non soltanto per fini
conoscitivi ma per cercare di indicare in concreto gli strumenti mediante cui
avviare a soluzione i vari problemi economici e sociali dell’epoca.
Le considerazioni che valgono per la situazione generale della Penisola nel
Settecento possono essere ribadite anche per quanto riguarda lo Stato Veneto.
Crediamo che i saggi inediti d’alcuni autori – come Giovan Battista Gherardo d’Arco e Antonio Zanon – che sono riportati nel presente volume, possano darci ragione dell’importanza e della peculiarità di gran parte della pubblicistica veneta del Settecento. Si tratta di scritti di notevole rilievo, che sono
particolarmente rappresentativi di tutta una produzione che si va sviluppando
nella seconda metà del secolo, nel Veneto come negli altri Stati italiani.
Oltre alle opere d’autori indubbiamente importanti, come Gian Maria Ortes, Filippo Carli, Antonio Zanon, nella pubblicistica economica veneta del
Settecento rivestono notevole interesse le dissertazioni presentate in occasione
dei concorsi banditi dalle varie Accademie d’agricoltura, arti e commercio. Di
là dal linguaggio, talvolta aulico, si avverte in molti autori una genuina partecipazione al tema trattato, specie nel tentativo di indicare soluzioni il più possibile aderenti alla realtà. Dato il peculiare carattere di queste dissertazioni,
molte delle quali sono tuttora inedite, fin dal 1981 ci parve opportuno provve8
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dere all’individuazione e alla pubblicazione di alcune fra quelle che presentano maggiore interesse e che, in ogni modo, sono particolarmente rappresentative di un certo tipo di pubblicistica.
I primi saggi, pubblicati nel presente volume, quelli di Giovan Battista
Gherardo d’Arco, rispettivamente sul problema del lusso e sull’Annona, mettono in evidenza alcuni aspetti particolarmente rilevanti della situazione italiana nella seconda metà del XVIII secolo. Dall’inizio del Secolo XVI, periodo in cui le economie dei vari stati europei si vanno irrobustendo e fanno sentire la loro presenza minacciosa sul mercato internazionale, gli italiani, come
ricorda Gino Barbieri, anziché compiere tutti gli sforzi per non perdere quella
funzione d’intermediari cui per tre secoli avevano assolto, si ritirarono, non
appena cominciata la lotta, seguendo i nuovi ideali fioriti sui recenti blasoni
della nobiltà. Si abbandona la proficua attività dei traffici, mediante cui erano
state accumulate grandi ricchezze nei secoli passati e si dà inizio ad un graduale consumo del capitale raccolto, assumendo un nuovo tenore di vita pieno
di sfarzo e di lussuosità dilapidatrici d’ogni fortuna. Venuto meno il commercio internazionale, sarebbe stato opportuno per Venezia organizzare la vita
economica sul piano industriale, tanto più che le tradizioni manifatturiere italiane avevano spesso raggiunto livelli d’eccellenza. Invece i nuovi ideali della
nobiltà non consentirono il raggiungimento di tali obiettivi.
Su tale nuova mentalità, dedita al lusso e alla dissipazione delle ricchezze,
il mantovano G. Gherardo D’Arco esprime un giudizio nettamente negativo.
Mentre le definizioni che i vari economisti italiani del Settecento danno del
lusso sono assai variegate e talvolta sfumate, per D’Arco il giudizio è chiaro e
inequivocabile: lusso è quell’abuso di beni, che nuoce a colui che lo pratica
come nuoce all’interesse generale. In nessun caso può essere ammesso che il
lusso costituisca “il principio animatore dell’industria e del commercio”.
Segno di distinzione – afferma il D’Arco – non deve essere il lusso ma
l’eccellere nelle arti e nelle professioni. Il lusso deve essere combattuto con
tutti i mezzi possibili. Tali mezzi possono consistere anche nelle leggi suntuarie ma devono in ogni caso essere privilegiati gli strumenti indiretti, che combattono il fenomeno alla radice, come incoraggiare la nobiltà “alla milizia, al
magistero, alla magistratura” ed acuirne i desideri di gloria e di fama contro
quelli di fasto, dare la corte esempio di moderazione, effettuare leve militari
specialmente sugli abitanti delle città, favorire la moltiplicazione degli operai
delle terre, ecc.
Si tratta di suggerimenti che, seppure tipici di certa pubblicistica settecentesca, rivestono nell’opera dell’Autore importanza particolare. Si pensi al fervore con cui egli, ricco proprietario fondiario, prospetta l’opportunità di favorire la maggiore possibile moltiplicazione delle proprietà.
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L’altra dissertazione del D’Arco, che riguarda l’Annona, si distingue per
un sano realismo e per un attento esame delle circostanze di tempo e di luogo.
Tale pragmatismo risulta in tutta la sua evidenza laddove egli afferma che non
può essere accolto né il principio della proibizione dell’estrazione dei grani né
quello dell’ammissibilità ma qualunque decisione deve essere presa sulla base
delle circostanze concrete. Peraltro, dopo avere ricoperto per quattro anni
l’incarico d’Intendente a Mantova, la sua posizione subisce un certo mutamento d’accenti, giungendo, in genere, a privilegiare la libertà di commercio.
Sempre in tema di commercio dei grani, il veronese Bartolomeo Giuliari,
in una dissertazione sull’Annona, sembra far propria la concezione del Muratori, che vede con favore l’introduzione dei grani mentre raccomanda cautela
per l’esportazione, in un quadro politico in cui il Giuliari stesso reputa necessario l’intervento dello Stato, non ritenendo che una materia tanto delicata,
quale quella del commercio dei grani e delle farine, possa essere lasciata al
libero svolgimento delle forze del mercato.
2. - Se il testo del Giuliari denota in generale una visione alquanto ristretta
agli aspetti meramente tecnici del problema trattato, tutt’altro respiro si avverte nell’ampio manoscritto dello Zanon L’arte della seta. Com’è noto lo Zanon, uno dei pochi autori che il Baretti giudica in modo largamente positivo,
può essere considerato uno dei maggiori economisti veneti della seconda metà
del Settecento. Si tratta di un autore, dalla fama inferiore al merito che, nella
pubblicistica veneta del secolo dei lumi, riveste un ruolo di gran rilievo.
Che il problema della seta presenti, nell’opera dello Zanon, un’importanza
fondamentale, è confermato anche dal fatto che le prime opere dell’Autore,
che risalgono al 1737 e al 1738, e di cui si conserva copia manoscritta nella
Biblioteca del Seminario Arcivescovile d’Udine, riguardano, appunto, l’arte
della seta. Lo scopo che egli si proponeva di raggiungere con questo suo scritto giovanile, così come con le opere che egli scriverà nella sua maturità, era
essenzialmente pratico: indicare ai suoi connazionali gli strumenti pratici per
risollevare le sorti dell’economia friulana. La molla che mi ha spinto a scrivere
non è stata l’ambizione – egli afferma – ma il desiderio di giovare ai miei concittadini.
Così, per esempio, egli si chiede se il fatto che una gran parte del Friuli sia
sterile sia una fortuna o una disgrazia. L’Autore considera ciò una fortuna in
quanto il suolo friulano, asciutto e sabbioso, risulta particolarmente idoneo per
la produzione della seta. Male hanno fatto i friulani ad arrendersi di fronte alle
prime difficoltà, causate dalla diminuzione dei prezzi di tale prodotto. In realtà i vantaggi che la seta avrebbe potuto portare al Friuli, se la sua produzione
fosse stata sufficientemente sviluppata, avrebbero riguardato l’intera popolazione e non una singola categoria di produttori.
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L’Autore non si limita ad enunciazioni di principio ma indica concreti
provvedimenti da attuare. Un mezzo assai efficace per risollevare le sorti della
gelsicoltura consisterebbe nella concessione del permesso da parte del Principe di poter piantare gelsi nei pubblici fondi, con il diritto del più vicino confinante di diventarne il legittimo proprietario. “In tanti pezzi incolti, ed inutili in
terra, in tante strade ampie – egli scrive – se ne potrebbe piantare un numero
immenso senza danno alcuno, e senza recare il minimo pregiudizio a’campi”.
Altro strumento, che avrebbe potuto essere attuato per facilitare lo sviluppo
della bachicoltura, è quello che oggi potremmo definire del credito agevolato.
Infatti, posto il vantaggio generale che sarebbe derivato dall’estendersi di tale
industria, si sarebbe dovuta concedere la possibilità, a chi intraprende la bachicoltura, di ricorrere al Monte di Pietà.
Nella coltivazione del gelso e nell’allevamento dei bachi da seta l’Autore
non vede solo degli strumenti per sviluppare un settore dell’economia, ma ritiene che si tratti di un’attività produttiva che, se razionalmente intrapresa, avrebbe potuto risolvere i principali problemi dell’economia friulana, garantendo, fra l’altro, il pieno impiego del lavoro ed eliminando completamente
quella miseria che, com’è noto, colpiva gran parte del territorio del Friuli e del
Veneto in genere. Lo sviluppo della gelsicoltura avrebbe poi potuto agire con
un effetto moltiplicatore: varie attività collaterali avrebbero, infatti, tratto impulso da tale settore produttivo.
Nella parte della sua opera dedicata al setificio (dai due manoscritti citati
ai vari volumi delle sue Lettere), lo Zanon non indica un complicato modello
di sviluppo ma, sulla base del buon senso e dell’esperienza, doti che tutti gli
debbono riconoscere, offre alcuni suggerimenti che, se fossero stati accolti,
avrebbero portato indubbi vantaggi all’economia veneta.
3. - Come messo ampiamente in evidenza da Antonio Zanon il quadro che
presenta l’agricoltura veneta nella seconda metà del Settecento, risulta
tutt’altro che confortante. L’aumento della popolazione, senza che ad esso
faccia riscontro un sufficiente aumento del suolo coltivabile, porta ad un incremento considerevole del numero dei salariati e degli avventizi. A ciò si aggiunga la diminuzione del patrimonio zootecnico, la sproporzione tra i terreni
seminativi e quelli a prato o a pascolo, la distruzione dei boschi e il cattivo regime delle acque, la mancata coltura di piante arboree, un tempo diffuse, come l’olivo: tutti elementi, questi, cui sono fatte risalire le cause della decadenza dell’agricoltura veneta. Si consideri poi l’eccessivo sfruttamento cui è sottoposta la terra, i danni derivanti dall’uso del pensionatico, l’eccessiva brevità
delle affittanze, ecc.
Nelle campagne, a seguito della diseguale distribuzione della proprietà,
concentrata in gran parte nelle mani dei nobili, la situazione risulta ancora più
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grave mentre si presenta ancora più aspra la competizione per l’acquisto e la
conduzione di un lotto di terra.
Le condizioni dei braccianti erano particolarmente difficili. Ciò era dovuto
anche al fatto che il grosso fittanziere preferiva in genere abbandonare il subaffitto, essendo il guadagno offerto dalla semplice esazione dei canoni molto
inferiore a quello, che talvolta raggiungeva livelli molto alti, che si poteva ricavare dalla conduzione diretta. Purtroppo l’esubero della mano d’opera bracciantile faceva sì che i salari fossero permanentemente bassi. Con un salario
medio di venti soldi al giorno per 100-150 giorni l’anno, gran parte della popolazione delle campagne venete nel Settecento era condannata a soffrire
permanentemente la fame.
Sulla situazione delle basse mercedi degli operai delle campagne e sui
modi per migliorarle l’Accademia d’Agricoltura di Vicenza bandì un concorso nel 1778 che, ripetuto nel 1779, vide la presentazione di otto memorie.
Di queste, accanto ad alcune che presentano un quadro idilliaco della situazione, privo di ogni riscontro con la realtà, ve ne sono altre che penetrano
nell’essenza dei problemi e che suggeriscono concreti provvedimenti da attuare.
Interessanti sono le soluzioni prospettate allo scopo di migliorare le sorti
dell’agricoltura, tra cui quella di aumentare i giorni di lavoro, diminuendo il
numero delle feste, di introdurre forme di partecipazione, stimolare
l’allevamento del baco da seta, introdurre una specie di scala mobile, pagare i
salari parte in moneta e parte in natura, ecc.
A questo proposito meritano di essere ricordate le proposte avanzate dal
Creazzo, vincitore del suddetto concorso del 1779, il quale propone
l’assegnazione a ciascuna delle famiglie dei braccianti, da parte dei proprietari
terrieri, di “un discreto numero di campi del cui prodotto avessero a partecipare secondo una certa ragionevole proporzione”. Due terzi del reddito, secondo
il suggerimento del Creazzo, sarebbero dovuti andare al proprietario terriero,
un terzo al lavoratore. Anche l’autore dell’altra memoria Si quid novisti parla
di una “ragionevole divisione di prodotti” al posto del pagamento dell’affitto
in denaro. Ciò porterebbe ad un aumento sensibile delle entrate per i contadini
mentre anche il proprietario in definitiva verrebbe ad avere dei vantaggi in
quanto i villici metterebbero tutto il loro impegno perché la produzione agricola fosse la più abbondante possibile.
In aggiunta a questa proposta il Creazzo suggerisce una sorta di scala mobile, auspicando che la pubblica autorità stabilisca ogni cinque anni quale
debba essere considerato il prezzo massimo, il medio e il più basso dei prodotti primari in modo da adeguare a tali prezzi il livello delle mercedi degli operai. Questo metodo, a detta anche d’altri autori, potrebbe essere integrato dalla
corresponsione di un salario in natura.
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Si tratta di proposte concrete, generalmente ispirate al buon senso, che testimoniano la lucidità e l’aderenza alla realtà della maggior parte degli autori
delle suddette dissertazioni. Interessanti anche le indicazioni per migliorare le
sorti dell’agricoltura in genere: più diretto interessamento dei proprietari nella
conduzione della terra, introduzione di nuovi procedimenti produttivi e di
nuove colture, pulizia del frumento dalle erbe infestanti, scavo delle fosse, livellazione dei campi, costruzione dei letamai, raddrizzamento dei fossi tortuosi, interessamento dei contadini alla coltura dei bachi da seta, ecc.
Va segnalata soprattutto la notevole capacità di denuncia, che si coglie nelle suddette memorie, una denuncia che in molti casi, assume gli accenti di una
commossa partecipazione alle sorti degli abitanti delle campagne.
È stato scritto che, in genere, il limite delle memorie accademiche è quello
di considerare prevalentemente, per così dire, gli aspetti tecnico-economici
dei fenomeni indagati, senza cercare di giungere ad una visione più vasta dei
fenomeni stessi. D’altra parte tale allargamento avrebbe comportato tutta una
serie di problemi, anche di natura politica che i nostri autori, per più di un motivo, non erano preparati ad affrontare. Proposte concrete furono avanzate ma
se tali proposte, come è il caso anche di quelle prospettate con ben maggiore
autorevolezza dal succitato Antonio Zanon, caddero in gran parte nel vuoto,
ciò non si può imputare agli autori delle proposte stesse. La colpa del perdurare dello stato di crisi dell’agricoltura veneta deve essere attribuita in gran parte
al governo della Dominante, in genere sordo ad ogni puntuale richiamo, tutto
teso alla tutela degli interessi costituiti, seguace fino alla fine di una politica di
gretto conservatorismo.
In tale quadro resta da sottolineare il notevole contributo che le Accademie, con i loro periodici concorsi, dettero per cercare di migliorare le sorti
dell’economia veneta. Tali Accademie, incoraggiate dal Governo della Dominante, svolsero un utile funzione di ricerca e di stimolo, pur con tutte le difficoltà nelle quali si trovarono ad operare. Anche se dalle dissertazioni del concorso di Vicenza, come di altri, non presero avvio particolari iniziative, le dissertazioni stesse costituiscono una testimonianza viva di come il problema sia
stato visto e sentito in tutta la sua drammaticità, e di come alcuni uomini sensibili abbiano cercato di prospettare soluzioni, più o meno adeguate, per migliorare le tristi condizioni di vita degli abitanti delle campagne.
Se i problemi delle condizioni dell’agricoltura dettero luogo, come abbiamo visto, ad alcune interessanti dissertazioni accademiche, pure il tema del
mantenimento o meno delle arti o corporazioni, occupò buona parte della
pubblicistica veneta settecentesca.
In genere le memorie accademiche, che risultano più valide e convincenti,
sono quelle che propendono per lo scioglimento delle Arti. Le argomentazioni
maggiormente ricorrenti per sostenere la tesi dell’abolizione delle Arti sono
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quelle basate sui danni che le corporazioni avevano determinato nel tempo,
intralciando l’attività economica. Accanto a motivazioni d’ordine pratico non
mancano motivazioni di ordine più squisitamente teorico, sotto l’influsso delle
correnti del pensiero oltremontano. Specie dalla Francia, nella seconda metà
del Settecento, veniva un chiaro e continuo invito alla libertà economica e
quindi allo scioglimento delle Arti.
Più generiche risultano invece le motivazioni portate a favore della tesi del
mantenimento delle Arti e delle corporazioni. Si tratta soprattutto di valutazioni di ordine storico, morale e sociale, avanzate da diversi autori, favorevoli
al mantenimento dello status quo.
A questo riguardo rivestono notevole interesse alcune dissertazioni inedite
presentate all’Accademia di Verona nel 1890 e nel 1891. Siamo di fronte a
testi che affrontano l’argomento da vari punti di vista, offrendo un quadro abbastanza rappresentativo del livello e delle caratteristiche della produzione accademica del tempo.
Tale produzione dimostra comunque quanto fosse evidente la necessità di
abolire gli anacronistici privilegi delle Arti e delle corporazioni. Basti pensare
che, anche in dissertazioni che non trattano espressamente questo argomento,
sono posti chiaramente in evidenza i vantaggi che sarebbero potuti derivare da
una gestione delle attività economiche libera finalmente dalle pastoie burocratiche, dalle regolamentazioni e dalle chiusure tipiche delle corporazioni.
4. - Accanto alle dissertazioni accademiche contribuisce ad offrirci un
quadro vasto e variegato della società veneta del Settecento l’ampia produzione dei giornali e delle gazzette, che si ebbe nel Veneto specie nella seconda
metà del Settecento. In tale periodo si attua una sorta di rottura con la tradizione delle accademie arcadiche e si dà vita ad un giornalismo più impegnato,
attento alle condizioni della società e capace, in certi casi, anche di proposte
concrete. Aderenza alla realtà si nota nella “Gazzetta” di Gasparo Gozzi,
mentre “La frusta letteraria” del Baretti si pone come esempio ineguagliato
di capacità critica e di indipendenza di giudizio. Notevole l’asprezza polemica del giornale, che ebbe solo due anni di vita, ma che dimostrò quanto
acute e penetranti fossero le considerazioni del suo direttore.
Il Baretti dimostrò la sue doti precipue non soltanto nel campo letterario
ma anche in quello economico-sociale. A questo proposito risulta particolarmente significativo quanto da lui scritto sul friulano Antonio Zanon, autore
delle note Lettere di Agricoltura, Arti e Commercio. Riteniamo opportuno riportare qui per esteso tale giudizio in quanto – avendo compiuto specifici studi sull’opera dello scrittore friulano, cui abbiamo dedicato una monografia (R.
Molesti, Il pensiero economico di Antonio Zanon, ed. Giuffrè, 1973) e di cui
abbiamo pubblicato il manoscritto inedito della sua opera giovanile su L’Arte
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della Seta – abbiamo avuto modo di renderci espressamente conto di quanto
rispondente al vero fosse il giudizio del Baretti. Scrive, infatti, quest’ultimo:
“Oltre che molte delle sue idee sono affatto nuove, almeno rispetto alla comune delle varie nazioncelle che abitano la nostra penisola, quella sua mente attiva è andata rintracciando tutte le ragioni che possono servir di sostegno alle
sue idee, né si può dire con quanta industria e diligenza questo generoso amante della sua contrada abbia dappertutto cercato di corroborare quelle sue
idee con moltissimi esempi non meno paesani che stranieri e non meno antichi
che moderni”. Parole che denotano un marcato apprezzamento dell’opera dello Zanon.
Parallelamente alla fioritura di opere economiche, dal Carli, al Beccaria, al
Verri, anche per quanto riguarda la pubblicazione dei giornali e delle gazzette,
nella seconda metà del Settecento si registra un notevole cambiamento di indirizzo, con l’emergere di una produzione più impegnata. Anzi, in qualche caso,
si tratta di veri e propri colpi d’ala, specie per quanto riguarda “Il Giornale
d’Italia” del Griselini. Di fronte al dogmatismo e all’astrattezza di gran parte
dei giornali settecenteschi quello del Griselini presenta un carattere in gran
parte diverso: negli articoli pubblicati vi è il continuo richiamo alla reale situazione dello Stato veneto. Notevoli le critiche avanzate circa le condizioni
dell’agricoltura ed interessanti le soluzioni prospettate. Il quadro generale è
tutt’altro che confortante: l’aumento della popolazione, senza che ad essa faccia riscontro un adeguato aumento del suolo coltivabile, contribuisce a far
aumentare il numero dei salariati e degli avventizi. La diminuzione del patrimonio zootecnico, la sproporzione tra terreni seminativi e quelli a prato o a
pascolo, la distruzione dei boschi e il cattivo regime delle acque, la mancata
coltura di piante arboree, un tempo diffuse, quali l’olivo, sono tutti elementi
cui vengono fatte risalire le cause della decadenza dell’agricoltura veneta.
Non manca chi mette in evidenza l’eccessivo sfruttamento cui è sottoposta la
terra, i danni derivanti dall’uso del pensionatico, l’eccessiva brevità delle affittanze, la concentrazione della proprietà nelle mani dei nobili. ecc. La situazione risulta particolarmente grave nelle campagne, in cui si fa più aspra la
competizione per l’acquisto o la conduzione di un lotto di terra.
Accanto al “Giornale d’Italia” meritano di essere ricordati i giornali di
Domenico Caminer e della figlia Elisabetta Caminer Turra. Dal punto di vista
dei contenuti economici ancora più interessante dell’“Europa letteraria” risulta
“Il Giornale enciclopedico”. L’avvocato vicentino Giovanni Scola è tra i più
qualificati collaboratori del periodico, sul quale giunge a scrivere veri e propri
saggi, affrontando problemi di storia, filosofia, materie giuridiche, con interessanti scritti d’economia agraria e sui rapporti sociali nelle campagne, spesso fornendo proposte innovative. L’autore professa idee assai avanzate, specie
laddove affronta il problema delle condizione degli operai agricoli. È da se15
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gnalare l’attacco al principio di autorità, che lo Scola muove su tutti i fronti.
Le indicazioni che egli dà al fine di migliorare le condizioni dell’agricoltura
non derivano da motivazioni di ordine tecnico o produttivistico bensì affrontano il problema alla radice. Sono istanze di giustizia sociale, di riconoscimento della dignità del lavoratore agricolo, quelle che orientano i suggerimenti dello Scola nel campo dell’economia agraria.
In conclusione possiamo affermare che la produzione dei giornali veneti
del Settecento risulta particolarmente abbondante e interessante. Probabilmente nessuno dei vecchi stati italiani può vantare un così denso e specifico consuntivo di attività giornalistica o un’esperienza altrettanto vivace ed impegnata quale era stata quella dei giornali dei Caminer, dello Scola, del Fortis, del
Griselini. Fermenti culturali e varietà di iniziative, dunque, chiaramente espressi, cui fa riscontro, come scrive il Torcellan, la meschina e impacciata
realtà della prassi politica.
Gli autori citati e in primis Antonio Zanon misero chiaramente a fuoco le
debolezze del sistema economico e indicarono varie soluzioni, alcune delle
quali furono attuate, ma solo parzialmente, dal governo veneto. I risultati non
furono certamente soddisfacenti ma ciò fu dovuto non tanto all’insufficienza
delle proposte avanzate quanto all’inadeguatezza del governo stesso, che non
riuscì a modificare l’edificio istituzionale in modo da renderlo all’altezza delle
esigenze, appiattendosi anzi nella difesa intransigente di un sistema che, in sostanza, dava luogo a lentezza amministrativa e confusione politica.
In conclusione tra Accademie e giornali veneti settecenteschi si viene a
creare una sorta di sinergia. Le Accademie, per far conoscere le ricerche effettuate, per divulgare la conoscenza di nuovi procedimenti produttivi, si avvalsero notevolmente dei giornali veneti che, a loro volta, trovarono nei vari circoli accademici un humus fecondo per la loro diffusione e il loro sviluppo.
Il giudizio complessivo, che possiamo dare sulle Accademie e sulla produzione giornalistica veneta del Settecento, non può che essere variegato. Accanto alle luci vi sono indubbiamente le ombre. Gran parte della produzione
giornalistica veneta risulta frammentaria, tesa al particolare, rivolta talvolta
più all’anedottica che alla trattazione e alla soluzione dei gravi problemi in cui
si dibatteva l’economia. Non mancano, peraltro, notevoli esempi di impegno e
di proposta, come quelli cui abbiamo fatto riferimento più sopra.
A nostro avviso su tutti coloro che, nella seconda metà del Settecento,
hanno affrontato il problema della decadenza e delle disfunzioni
dell’economia veneta, cercando di prospettare opportuni rimedi, si stacca la
figura del friulano Antonio Zanon. Del giudizio estremamente positivo del
Baretti su di lui abbiamo già detto. Si tratta di un autore che, nelle sue opere,
mostra di conoscere i principi teorici e i risvolti pratici della realtà economica.
Un autore che affronta alla radice il problema della decadenza dell’economia
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veneta, individuandolo prevalentemente nel disprezzo in cui era tenuta ogni
attività produttiva da parte di una nobiltà neghittosa, che preferiva investire le
proprie sostanze in modo sicuro a basso reddito, disinteressandosi completamente della gestione di ogni attività economica, giudicata disdicevole per la
nobiltà stessa e per i suoi epigoni. In tutti i volumi delle Lettere è questo il
motivo ricorrente dello Zanon, il quale non manca di avanzare tutta una serie
di proposte concrete per risollevare le sorti dell’economia veneta, in primis
prospettando di incrementare il negozio della seta, per il cui sviluppo il territorio friulano offriva condizioni ottimali. Concetti, questi, che sono ampiamente sviluppati nella dissertazione sull’Arte della Seta, pubblicata in questo
volume.
5. - Dalle considerazioni che abbiamo svolto finora riteniamo di poter renderci conto di quanto possa essere considerata vasta e interessante la visione
che molti economisti e accademici veneti del Settecento ebbero dei fenomeni
economici. Il carattere organico della loro trattazione, fu già messo opportunamente in evidenza dal Pecchio, il quale, a proposito delle loro opere, parla
di “scienza complessiva”. Al Pecchio fa eco il Blanqui, il quale sottolinea la
loro “larga e complessa maniera di considerare le questioni”. Anche secondo
il Blanqui, “l’uomo è l’oggetto perpetuo della loro sollecitudine”.
Purtroppo l’avvento della scuola classica inglese tolse ogni spazio ai nostri
economisti. Nel nostro Paese, anziché cercare di continuare e sviluppare una
tradizione tanto illustre, che aveva posto gli italiani in una posizione di primo
piano in Europa, si attuò in breve un marcato mutamento d’indirizzo. Anzi,
quello che era stato uno dei principali pregi dei nostri autori, quello di affrontare in maniera globale i fenomeni economici, che non potevano essere considerati solo con il metro del mercato e dei valori di scambio, fu considerato
addirittura un difetto. Francesco Ferrara, che ha occupato una posizione di
primo piano nell’Ottocento, avanzò delle critiche molto severe, stigmatizzando il loro modo di trattare i fenomeni economici, giungendo a dire che essi
mancavano di “idee elementari” quali quelle proprie dei classici inglesi:
“l’economia intesa come scienza della ricchezza”, “considerazione esclusiva
del valore di scambio”, ecc.
Con l’Ottocento in Italia prese piede dunque un nuovo paradigma scientifico, di stampo determinista e meccanicista, che vide nell’economia classica
inglese il suo punto di riferimento.
Com’è noto nel Seicento la concezione aristotelica dell’universo organico,
fu sostituita da quella del mondo come macchina. Galileo bandì la qualità dalla scienza, prendendo in considerazione solo i fenomeni suscettibili di misurazione e di quantificazione. Cartesio, dal canto suo, può essere considerato il
fondatore del pensiero analitico, secondo il quale occorre dividere in pezzi i
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Estratto dal volume Economisti e accademici nel Settecento veneto.
Una visione organica dell’economia, di R. Molesti, Franco Angeli, Milano 2006.
fenomeni complessi, in modo da comprendere il comportamento dell’insieme
a partire dalle parti. Una conseguenza del meccanicismo cartesiano fu
l’assunzione delle leggi fisiche e chimiche in biologia. Dal momento che, secondo questa concezione, ogni fenomeno del mondo sarebbe determinato dalle leggi fondamentali della meccanica, lungo tutto il corso dell’800, anche gli
economisti considerarono la meccanica come punto di riferimento, come un
modello per ogni disciplina che aspirasse al carattere di scienza. Si tratta del
dogma meccanicistico, secondo cui l’economia deve essere assimilata alla
“meccanica dell’utilità e dell’interesse egoistico”, che permea l’opera di Jevons come quella di altri autori.
I quali autori si sono concentrati sulle loro ricerche dando vita ad una serie
di modelli ultrasemplificati e finendo con il perdere ogni contatto con le altre
discipline.
Si tratta di un’impostazione, quella che prese rapidamente piede, avulsa
dalla realtà, in cui il processo economico è considerato come un flusso circolare all’interno di un sistema completamente chiuso ed autosufficiente. Circolarità e reversibilità costituiscono le caratteristiche dell’economia tradizionale,
il cui sviluppo è basato principalmente sui principi della fisica, in una visione
statica della realtà, mentre i fenomeni economici possono essere meglio indagati sulla base dell’analogia biologica. Si rileva, infatti, che in biologia, come
in economia, non esistono leggi necessarie, predeterminate, ma una realtà in
continua evoluzione, con lo svolgimento di fenomeni l’uno diverso dall’altro.
Quello che intendiamo rimarcare è che, a seguito degli sviluppi della
scienza, passata dal determinismo all’indeterminismo, al finalismo, il concetto
di meccanicismo è stato da tempo superato. Ai principi della causalità meccanica e del determinismo sono subentrati quelli di complessità, d’organicità, di
sistematicità. Tutti concetti ai quali la scienza economica standard, di derivazione meccanicista, è rimasta sostanzialmente estranea, risultando tuttora basata sul vecchio paradigma di stampo galileiano, cartesiano, newtoniano.
In questi ultimi tempi le cose, anche nel campo della scienza economica,
almeno in parte, sono però andate mutando. Nel campo economico è sorta una
nuova corrente di pensiero, quella della bioeconomia o economia ecologica,
che risulta perfettamente allineata alla rivoluzione scientifica, che si è andata
delineando, con cui è stato superato lo schema meccanicistico. Tale nuova
impostazione si basa sulla analogia biologica, sulla interdisciplinarietà, sul carattere storico delle leggi economiche, sulla reversibilità, su una nuova visione
etica della vita associata.
A questo punto non è certo il caso che ci mettiamo ad illustrare tutte le caratteristiche di questa nuova disciplina, la bioeconomia. Quello che intendiamo dire è che, per più di un aspetto, essa sembra armonizzare con la visione,
ampia e articolata, che della vita economica ebbero gli economisti italiani del
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Settecento. Anche se sappiamo che, in ambito storico, parlare di precursori è
sempre pericoloso, pure non possiamo non notare il carattere, per molti aspetti, anticipatore che gli economisti italiani del Settecento presentano rispetto a
questa nuova impostazione.
In definitiva c’è un motivo di più per tornare a considerare attentamente il
pensiero dei nostri autori, al di là della notevole incidenza che esso ebbe nel
periodo in cui essi vissero. Un approccio interdisciplinare alla realtà, la globalità della loro impostazione, e altre caratteristiche precipue, fanno sì che gli
autori stessi denotino una notevole assonanza con i principi della bioeconomia. Ovviamente è questa un’asserzione che si dimostra suscettibile di ulteriori verifiche. Si tratta di ricerche che, comunque, a nostro avviso, potrebbero
dare luogo a risultati interessanti. Un motivo, questo, per farci apprezzare ancora di più i nostri economisti del Settecento e per considerare di notevole interesse lo studio e l’approfondimento delle loro opere.
Tutte le dissertazioni accademiche, riportate di seguito, furono pubblicate
per la prima volta, a cura del sottoscritto, nella rivista “Il pensiero economico
moderno”, nella rubrica “Fonti per la storia del pensiero economico”, dal n. 1
del 1981 al n. 4 del 1985. Tranne l’ultimo saggio (Editoria ed economia politica. I giornali veneziani del Settecento), i testi che seguono sono già apparsi
nel volume di chi scrive Idee economiche e accademici veneti del ‘700 (IPEM
Edizioni, Pisa 1986).
Desidero infine rivolgere il più vivo ringraziamento alla dott.ssa Federica
Molesti, al prof. Silvio Trucco e al dott. Stefano Zamberlan per la collaborazione nella revisione del presente volume.
Dedico questo libro alla memoria di mio padre, al quale tanto devo per il
suo costante stimolo ed incoraggiamento per i miei studi universitari.
ROMANO MOLESTI
Verona, Università degli Studi, ottobre 2006
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