N. 2 del 2007 - IPASVI Pavia

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N. 2 del 2007 - IPASVI Pavia
Registrazione presso il Tribunale di Pavia n. 355 del 08.02.1989. Sped. in abb. postale - Comma 20/C 2 L. 662/96 - Fil. di Pavia - IN CASO DI MANCATO RECAPITO RESTITUIRE AL MITTENTE CHE SI IMPEGNA A PAGARE LA RELATIVA TASSA - REINVIARE ALL’UFFICIO PAVIA-FERROVIA
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Infermiere
P A V I A
ISSN 1722-2214
DITORIALE
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Infermiere a Pavia
12 maggio
Giornata Internazionale
dell’Infermiere
Infermiere a Pavia
Rivista trimestrale del Collegio IP.AS.VI. di Pavia
Anno XIX n. 2/2007 marzo-aaprile 2007
Editore Collegio Infermiere professionali,
Assiatenti Sanitarie, Vigilatrici d’Infanzia
della Provincia di Pavia
Direttore Responsabile Enrico Frisone
Capo Redattore Giuseppe Braga
Segreteria di Redazione G. Braga
Comitato di Redazione O. Bonafè, G. Braga, M. Cattanei,
S. Conca, S. Giudici, R. Rizzini,
A.M. Tanzi
Hanno collaborato S. Baratto, N. Greco, C. Maraschi, M. Massaro,
a questo numero: F. Poma, P. Ripa, E. Rossi
Impianti e stampa Gemini Grafica snc - Melegnano (MI)
Direzione, Redazione, V'ia Volta 25 - 27100 Pavia
Amministrazione Tel. 0382/525609, Fax 0382/528589
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non saranno restituiti.
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La rivista è inviata gratuitamente agli iscritti al Collegio IP.AS.VI. di
Pavia. Finito di stampare nel mese di maggio 2007 presso
Gemini Grafica snc di S. & A. Girompini, Melegnano (MI)
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tica e assistenza infermieristica un binomio indivisibile verso il cittadino e la comunità. In occasione della giornata
internazionale dell’Infermiere, Sabato 12 maggio,gli infermieri della Provincia di Pavia riuniti a convegno presso la Sala
Rossa dell’ASL di viale Indipendenza, hanno affrontato un momento di importante riflessione e confronto su temi Etici e deontologici con la presenza di illustri relatori. Esperti di Etica, Filosofi,
Dirigenti e Ricercatori a livello europeo hanno discusso gli spinosi
temi dell’etica in sanità. “Il nostro obiettivo, è quello di consolidare il contributo che gli infermieri offrono alla società ogni giorno,
ma soprattutto intendiamo riflettere su come migliorare l’efficienza, l’efficacia e l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie erogate
ai cittadini.
Un aperto confronto tra più voci e correnti di pensiero su temi
di attività e responsabilità, nel rispetto della salute del cittadino.”
Questa assise, ha avuto l’intento di evidenziare come la professione infermieristica, sia stata l’unica figura che in sanità, abbia
avuto il coraggio di mettersi in discussione, ripensando il corso di
studio, i contenuti professionali, l’ organizzazione, senza mai perdere di vista i cambiamenti della domanda di salute e le grandi
trasformazioni che hanno coinvolto le persone e la governabilità
del sistema.” La giornata del 12 maggio appena trascorsa riflette
queste esigenze e pone sotto i riflettori dubbi, incertezze e contraddizioni di un sistema sanitario che basandosi sul modello delle
Regione Lombardia, deve necessariamente fondare la propria riorganizzazione su fatti concreti e non su mere illusioni propagandistiche.
“Il tema sul quale sarà necessario pensare alla riorganizzazione,
dovrà prevedere anche una riflessione più ampia sul rapporto tra
medici e infermieri, considerando formazione e numeri, per una
presa in carico assistenziale più adeguata e una concreta realizzazione della continuità assistenziale integrata. Gli infermieri Pavesi sono in grado di rispondere con i fatti alla richiesta della società di prendere in carico i pazienti e i temi affrontati nel convegno
sono la perfetta riprova del valore delle loro affermazioni.
Il Presidente
Enrico Frisone
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La c omunicazione è . . .
* Annamaria Tanzi
“...Tutto ciò che non si realizza nella comunicazione non
esiste e le persone si manifestano a loro stesse comunicando con altre persone”.
Jaspers
è
… tra le attività della vita quella, a
cui dedichiamo più tempo eppure,
la COMUNICAZIONE è un termine di difficile definizione. Jaspers, uno dei pensatori moderni, riconosce che “tutto ciò che
non si realizza nella comunicazione non
esiste e che le persone si manifestano a
loro stesse comunicando con altre persone”. La psicologia riconosce nella comunicazione il processo attraverso cui il comportamento di un organismo costituisce
uno stimolo per un altro. La sociologia
contemporanea mette l’accento sulla
comunicazione come elemento fondamentale dell’interazione sociale e tenta
l’integrazione con molte delle altre scienze
umane e non solo: la psicologia, la semiologia, l’informatica, la linguistica, la comunicazione non verbale o analogica. La teoria dell’informazione, sostiene che vi è
informazione solo quando è annullata o
ridotta una situazione di incertezza.
Ebbene per alcuni la comunicazione è
…, per altri invece per comunicazione si
intende … e per altri ancora la comunicazione c’è quando …; insomma! Non è facile collocare in modo preciso e “assoluto”
questo termine. Conviene allora capire
che idea abbiamo sul significato di comunicazione, in relazione al tipo di lavoro che
svolgiamo e la professione infermieristica
avviene (deve avvenire) necessariamente
all’interno di una complessa attività interpersonale perché l’infermieristica è scienza dell’Uomo per l’Uomo, essere Unico e
Irripetibile.
è… tutto il mondo intorno
La Comunicazione comincia dovunque,
media tutti i rapporti umani, è onnipresente e onnicomprensiva, coinvolge direttamente tutti e ciascuno e, anche se implica
degli scopi, non ha fine. Nelle società
umane (nondimeno nel mondo animale,
vegetale e nell’intero cosmo), la comunicazione è un processo continuo e, anche
se può presentare distorsioni, patologie e
fraintendimenti, non si può mai dire che
essa si interrompa realmente. La comprensione della comunicazione include le
attività non verbali accanto a quelle verbali. Talora si continua a limitare la comunicazione alla comunicazione conscia:
“Oh, ma io non volevo dire …”, dichiarazioni del genere confermano, con l’atto
della negazione, l’osservazione di quel primo specialista della comunicazione linguistica che fu Sigmund Freud, secondo cui
“vogliamo sempre dire ciò che diciamo, e
intendiamo sempre ciò che comunichiamo, lo si riconosca consapevolmente o
no. Comunque, anche allargandolo fino a
comprendere la comunicazione non verbale e quella inconscia, il rapporto di
comunicazione fra esseri umani sarà il più
delle volte implicitamente o esplicitamente
limitato ai messaggi intercorrenti fra “due
o più” soggetti reali e presenti. Questa
definizione non lascia spazio alla codificazione ed alla mediazione dei discorsi sia
verbali sia non verbali. Da questo punto di
vista rimane inesplicabile che gli esseri
umani comunichino continuamente con
un onnipresente “altro”, o con fantasie ed
immagini relativa ad “altri” reali. E’ ugualmente inesplicabile che molti messaggi
siano mediati da persone che non sono
presenti, o dalle strutture informative e dai
codici dei rapporti esistenti nella società in
generale. Inoltre, l’idea che la comunicazione implichi soltanto due o più persone
(EMITTENTE-RECETTORE), ha il risultato
di tagliar fuori, da ciò che viene consapevolmente riconosciuto come comunicazione, la quasi totalità dell’informazione che
in realtà si riceve e si elabora ad ogni istante. Ogni messaggio, anche se indirizzato
genericamente, è organizzato in funzione
di un obiettivo o mediato da un rapporto.
Si potrebbe trovare conveniente credere
che “i monologhi” e il “parlare con se stesso” siano attività che coinvolgono solo una
persona, in realtà i messaggi sono sempre
diretti da qualche persona a qualche
aspetto dell’ambiente, o a qualche “altro”,
reale o immaginario, presente o no.
La COMUNICAZIONE non è un processo che gli esseri viventi ed umani possono
scegliere di mettere in atto o no a loro piacimento. Il SILENZIO costituisce di per sé
una comunicazione e, se si può scegliere
se parlare o restare in silenzio,
nessun organismo vivente può in realtà
scegliere di non comunicare.
La comunicazione è un elemento costitutivo dell’ecologia dell’individuo in un
determinato ambiente, perché l’Uomo, un
insieme di desideri, bisogni, pensieri, istinti unici ed irripetibili, non è separato dall’ecosistema comunicazionale semmai, è
I n d i c e
S p a z i o concentrato
La comunicazione è . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .3
Voglia di tenerezze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .10
I valori etici della nuova relazione all’interno dell’Azienda Ospedale .13
La comunicazione con l’anziano: come promuovere un’auspicata
e mitigante serenità attorno alla persona che invecchia . . . . . . . . .17
Il conflitto delle emozioni nel “prendersi cura” . . . . . . . . . . . . . . . .19
Rinnovo degli Organi Collegiali dell’ENPAPI . . . . . . . . . . . . . . . . . .30
L’esercizio Libero Professionale in forma associata . . . . . . . . . . . .32
Aggiornamento
Aggiornamento in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .34
Norme editoriali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .31
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proprio questo che gli fornisce il suo
potenziale vitale, la sua sfera di individualità ed il suo campo di significazione.
Nella teoria dell’informazione la comunicazione è definita come l’utilizzazione di
un codice per la trasmissione di un messaggio, tale da permettere che un emittente ed un ricevente possano entrare in rapporto. E’ evidente che ogni comportamento e condizionamento intersoggettivo può venire considerato in termini comunicativi, sulla base magari di uno schema
del tipo stimolo-risposta, tenuto conto, fra
l’altro, delle differenze che esistono tra
animale e UOMO, dei diversi meccanismi
psicofisici e di coordinate generali, come
l’opposizione analogico/digitale che
sembra regolare le varie forme di comunicazione.
La funzione comunicativa è assolta, in
primo luogo, dalle lingue storico-naturali,
articolate nei loro livelli, forme, strumenti
operativi (fonetica, grammatica, semantica, lessico, orale/scritto, ascolto, lettura
…), regole e realizzazioni (dicibile/indicibile, discorso…). Vari tipi di produzione
artistica hanno alla base della loro comunicazione la lingua, che funge da sistema
modellizzante primario (letteratura, narrazione…); anche però per le ARTI che sembrano non contemplare tale caratteristica,
si può parlare di processo di comunicazione, quello, ad esempio, che lega l’artista e
fruizione dell’opera.
A tal proposito, le ATTIVITA’ ESPRESSIVE (gli atelier di pittura e disegno, i laboratori di musicoterapia, la teatroterapia, la
danza-movimento terapia, le attività pratico-manuali, il gruppo giornale, i giochi di
ruolo e lo psicodramma) entrate nella pratica istituzionale sanitaria, per esempio
nell’ambito della riabilitazione psichiatrica,
non sono direttamente legate alla parola
ma rappresentano un momento di riappropriazione della soggettività a livello sociale
rendendo possibile la comunicazione fra il
“dentro” di sé” e il “fuori” di sé. Si tratta di
una esperienza che ha un ruolo importante nella ristrutturazione della personalità,
favorisce un contatto con il reale, da spazio all’immaginario … ricrea la capacità di
comunicare.
La COMUNICAZIONE è… alla base
stessa del funzionamento di una cultura e
dei suoi tipi di linguaggio, ognuno dei
quali è organizzato in simboli e segni d un
codice. Si può dunque dire che le credenze, gli oggetti, ad esempio, della cultura
materiale, la festa, il gioco, i sistemi di
parentela comunichino, così come l’abbigliamento, il mito, il rito. Tutti dati che forniscono indicazioni sia su se stessi sia sul
tipo di logica della cultura che esiste all’interno di ogni società.
Ogni comportamento dunque rappre-
Infermiere a Pavia
senta un messaggio per gli altri divenendo
una “comunicazione” anche quando non
esiste intenzionalità o volontà a farla. Gesti
e movimenti del corpo, posture, sguardi
ed espressione del volto, vocalizzazioni,
contatto corporeo, componenti dell’aspetto esteriore, parole e silenzi influenzano il
mondo intorno a noi, un mondo che
risponde a queste sollecitazioni. La comunicazione è retta da semplici regole che è
necessario conoscere per stabilire relazioni efficaci ed armoniose soprattutto con gli
Altri da noi, le persone malate, le persone
sane cioè i soggetti dell’assistenza infermieristica. La conoscenza delle regole della comunicazione permetterà di valutare,
analizzare ed eventualmente cambiare il
proprio sistema comunicativo e/o le strategie comunicative che dipenderanno sempre dai contesti agiti e dal qui ed ora della
relazione.
Saper Comunicare
(Saper Ascoltare)
la conditio sine qua non dell’assistenza infermieristica. Implica,
l’apprendimento e l’esercizio della capacità comunicativa perché elemento chiave di
ogni relazione umana. La capacità di
comunicare è il fondamento di ogni programma di cura individuale, centrata sul
paziente.
Il comunicare è un’attività della sfera
dell’anima e dello spirito, con il linguaggio
verbale e non verbale l’individuo esprime il
suo modo di essere, l’Uomo usa il linguaggio come mezzo di forza creativa e terapeutica ed espressione della propria personalità.
Il comunicare è un’attività dell’organismo perché attraverso gli organi della
fonazione che producono i suoni ed i centri cerebrali che li dirigono, si realizza la
costruzione, il controllo e l’emissione del
linguaggio (VERBALE), poi c’è il linguaggio del corpo (NON VERBALE).
Il comunicare è un’attività sociale: per
mezzo del linguaggio l’individuo è in relazione con l’ambiente circostante. Così
l’Uomo si relaziona con gli altri, con le forme viventi, con quelle inanimate, nella trascendenza,con sé stesso.
Comunicare significa trasmettere ad
altri qualcosa, renderli partecipi, mettere
qualcosa in comune.
L’azione di comunicare è una caratteristica fondamentale dell’esistenza umana.
… un processo di scambio di
informazioni e di influenzamento
reciproco che avviene in un determinato
CONTESTO. E’ un’esperienza di relazione
con gli altri che influenza sempre reciprocamente. Nella comunicazione umana gli
elementi fondamentali sono: l’emittente, il
ricevente, la relazione, il contenuto, il
contesto. Solo la coesistenza di questi
è
è
cinque elementi garantisce il processo di
comunicazione quale presupposto fondamentale di una relazione intersoggetiva.
L’emittente è colui che invia un messaggio, il ricevente è invece colui che è chiamato nella posizione di interlocutore,
entrambi partecipano con un proprio mondo interno (conoscenze, atteggiamenti,
valori, aspettative), entrambi sono in un
contesto (secondo la teoria della comunicazione “il CONTESTO è un insieme di
comunicazioni che definiscono una relazione e che è a sua volta definito da essa)
che è tutto ciò che sta intorno, agiscono
messaggi all’interno di questo contesto
(ambiente) e in un fluire di codifica e decodifica dei messaggi stessi. Mondo Interno
e Contesto inev stabilmente condizioneranno le risposte.
Pertanto due sono i livelli della comunicazione: un livello di contenuto (cosa
diciamo) e un livello di relazione (come lo
diciamo). Il “come” dispone di diversi
canali:
- Paralinguistica
- Prossemica
- Mimica
- Cinesica.
Canali che rimandano alla tonalità emozionale di un discorso; all’uso dello spazio
fisico (definire, conquistare, difendere il
territorio individuale) inteso come una specifica
elaborazione
della
cultura;
all’espressione del viso e lo sguardo; alla
gestualità, ai movimenti e alle posture del
corpo e non meno carichi di significato si
devono considerare i contatti fisici fra le
persone; i segnali prosodici della voce
(timbro, pause, tono, cadenza, enfasi) e
infine, l’abbigliamento e le decorazioni del
corpo.
La comunicazione non verbale è potente (più potente del linguaggio), attendibile
(perché poco controllata), più espressiva
del linguaggio perché oltrepassa i limiti
semantici e comunica senza necessità di
decodifica dei contenuti, rapida: per esempio uno sguardo esprime immediatamente
un desiderio o uno stato d’animo.
L’approdo a questa introduzione è stato costituito da una possibile DEFINIZIONE di COMUNICAZIONE:
Una comunicazione che si voglia
definire vera è possibile solo se riusciamo ad individuare il motivo alla base del
comportamento dell’altro, e se siamo in
grado di superare i blocchi emotivi di
cui siamo spesso prigionieri.
Una comunicazione che si voglia definire tale è possibile solo se riusciamo a far
comprendere il nostro contenuto.
La comunicazione è importante in
generale non soltanto per lavorare in gruppo. Alla base deve esserci l’ASCOLTO
senza il quale non può aversi un dialogo
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ma soltanto un monologo.
Non ci sono formule miracolose per
comunicare in modo efficace anzi, si incontrano numerose difficoltà nello studio della
comunicazione per almeno due motivi:
1. APPARENTE OVVIETA’
2. MILLE SFACCETTATURE
COMUNICARE deriva da COMMUNIS
che ha tre declinazioni: CUM munia (vincoli coniugali), CUM moenia (mura che circondavano le città) CUM munus (indicavano i regali).
Quindi comunicare implica:
• Essere legati insieme
• Essere collegati dall’avere comuni doveri
• Essere legati per condividere comuni
sorti
• Essersi scambiati un dono.
Comunicare è una compartecipazione,
non è possibile creare un modello di
comunicazione perché ognuno di noi ha
un suo piccolo mondo, quando si interagisce sono almeno due mondi a comunicare.
Molta importanza è assunta dal CONTESTO in cui la comunicazione avviene e
rispetto ai contesti se ne possono individuare almeno tre:
• Famiglia, Scuola, Università, Lavoro che
rappresentano contesti quotidiani
• Insieme dei valori, delle norme e delle
credenze
• Istituzioni Politiche Economiche e Sociali.
Nell’interazione tra due o più persone
intervengono nell’ordine le seguenti
dimensioni:
a. Dimensione del sé
b. Dimensione del sentire
c. Dimensione dell’identificazione
d. Dimensione del rappresentarsi
e. Dimensione del pensare
f. Dimensione dell’agire comunicativo.
La comunicazione è spesso un atto
orientato al conseguimento di determinati obiettivi, cioè teso all’ottenimento
di qualcosa da parte di qualcuno.
Ogni COMUNICAZIONE
è una AZIONE è un AGIRE
Le funzioni della comunicazione:
1. Soddisfazione dei bisogni psicologici, intellettuali, esistenziali, socio-affettivi
2. La risposta a richieste e aspettative
altrui, anche lo svolgimento di ruoli perché
il concetto di ruolo implica un concetto di
aspettativa.
Le abilità comunicative non sono un formulario di pronta efficacia, non si imparano sui libri o sentendone parlare ma sono
la nostra capacità di reagire al meglio;
sono la nostra esperienza di comunicare
con le persone; sono la nostra ricerca di
un uso più appropriato del linguaggio.
E’ importante acquisire una COMPETENZA COMUNICATIVA che consiste nel:
• Saper parlare una lingua
• Saperla utilizzare nelle modalità appropriate
• Saperla utilizzare nelle situazioni adeguate.
In EQUIPE inteso come quel gruppo
durevole di professionisti che condividono
obiettivi e percorsi di lavoro comune, “allenarsi” a ben comunicare significa esercitarsi il più possibile a affettuare comunicazioni assertive.
Per quale motivo?
Perché la COMUNICAZIONE ASSERTIVA è:
• Diretta, il messaggio è chiaro e non
ambiguo
• Onesta, il messaggio è coerente, i
segnali non verbali della comunicazione
corrispondono alle parole dette.
• Appropriata, il messaggio è rispettoso
dei diritti di tutti (colleghi e capi)
• Interattiva, si danno e si ricevono feedback.
Comunicare in modo assertivo significa
anche esprimere opinioni e desideri:
• Sostenere il diritto a esprimere la propria
opinione senza scusarsi
• Formulare in modo chiaro il proprio punto di vista
• Non sottostimarsi o sovrastimarsi
• Rendere chiaro agli altri le proprie
necessità o aspettative.
Comunicare in modo assertivo significa
dire di sì, dire di no:
• Prendere una posizione chiara, evitando
di suscitare equivoci
• Argomentare in modo conciso ma esau-
stivo il motivo della decisione
• Essere fermi sulla propria decisione di
fronte a una resistenza o ad argomenti
manipolativi.
Le qualità fondamentali per comunicare
assertivamente sono quelle di padroneggiare l’attività di pensiero ed essere consapevoli delle proprie emozioni e controllarle.
Un ruolo importante nella relazione
interpersonale (comunicazione) è quello
giocato dalle EMOZIONI.
Il termine emozione si riferisce ad una
classe molto estesa e non ben definita di
comportamenti, caratterizzata da reazioni
più o meno intense.
L’emozione, in condizioni normali dà
luogo a comportamenti integrati che ben
rispondono, sia per direzione che per
energia, alla situazione che l’ha provocata.
In questo caso l’emozione va considerata
come REAZIONE AGGIUSTATIVA.
L’emozione diviene una RISPOSTA
DISORGANIZZATA, che impedisce all’organismo di aggiustarsi effettivamente, solo
quando è eccessiva.
L’aspetto motivazionale dell’emozione
corrisponde all’energia e alla direzione
significativa del comportamento e si manifesta nelle diverse situazioni che provocano l’emozione.
Un altro concetto importante riguarda
l’INTELLIGENZA EMOTIVA cioè la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di
gestire positivamente le emozioni, tanto
interiormente, quanto nelle nostre relazio-
NOTE DI SEGRETERIA
Ricordarsi di far pervenire in Collegio, di volta in volta, copia dei crediti formativi
ECM inerenti i corsi di aggiornamento effettuati per l’aggiornamento della banca dati
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ni.
La competenza emotiva è la traduzione
della nostra potenzialità in reali capacità
lavorative.
L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE IN UNA RIUNIONE DI LAVORO
Gli scopi delle riunioni devono essere
lette su almeno due piani:
• Piano del contenuto – Condividere
informazioni di lavoro, portare alla superficie problemi di lavoro, fissare obiettivi di
lavoro, programmare l’attività di lavoro
• Piano del processo – Migliorare la
comunicazione, aumentare il senso di
appartenenza al gruppo, impegno e
responsabilità verso le decisioni prese,
risolvere conflitti.
Ogni riunione si compone di tre aree:
• Area del contenuto
• Area del metodo
• Area socio-emotiva.
Si tratta di aree interdipendenti che si
influenzano reciprocamente, sia in senso
funzionale che in senso disfunzionale:
a. Area del Contenuto: si compone di
tutto ciò che attiene ai CONTENUTI dell’attività di lavoro come informazioni, problemi, soluzione di problemi, verifiche
b. Area del Metodo: riguarda tutto ciò
che attiene a come il lavoro, nell’ambito
della riunione stessa viene svolto, struttura
formale del gruppo, modalità di lavoro
dichiarate, ruoli, regole
c. Area socio-emotiva: comprende tutto ciò che attiene ai soggetti che compongono la riunione di lavoro come atteggiamenti, competenze, motivazioni, ruoli informali, regole implicite di funzionamento.
Una riunione è efficace quando:
• L’ordine del giorno è chiaro e comunicato a tutti in anticipo
• Si conosce il tempo dedicato l’ambiente
è idoneo
• Gli scopi della riunione sono noti a tutti
• Il metodo di lavoro è stato esplicitato
• Il clima è supportivo
• I problemi si affrontano apertamente
• Il leader viene percepito come giusto e
imparziale
• Ogni partecipante sente di poter parlare
• Viene accolto il dissenso
• Tutti si sentono responsabili del risultato
• Si ottengono i risultati desiderati
Alla fine della riunione, il conduttore
effettua una valutazione rispetto a cosa è
stato prodotto e a come il gruppo ha lavorato.
Quando si perdono di vista gli scopi per
cui la riunione è stata indetta, non si raggiungono i risultati sperati e soprattutto si
è consapevoli di non averli raggiunti, il
metodo di lavoro non è chiaro cioè non si
sa chi deve fare e che cosa, il leader
manipola la riunione per propri scopi non
Infermiere a Pavia
dichiarati, quando ci si ripete continuamente la RIUNIONE risulterà INEFFICACE.
A rendere inefficace una riunione sono i
problemi di COMUNICAZIONE:
• Non si ascolta
• Ci sono forti pregiudizi
• Ci sono difficoltà a inserirsi nella comunicazione
• Si attaccano le persone anziché le idee
• Si litiga.
Una riunione è inefficace, quando tutti
vanno in direzioni diverse nello stesso
tempo (Sindrome dell’animale a molte
teste).
La Comunicazione
… un elemento costitutivo ed
essenziale per stabilire relazioni
con le persone malate o sane e per questo
è necessario impossessarsi di ancoraggi
teorici che, integrati alla prassi, assicurino
risorse e strumenti conoscitivi per un agire
professionale qualificato e appropriato nel
padroneggiare l’interazione. La COMUNICAZIONE UMANA possiede uno straordinario potere su emozioni, rappresentazioni, comportamenti, aspettative.
La relazione con la persona che usufruisce dei servizi sanitari sul territorio (extraospedalieri) è andata acquisendo negli
ultimi decenni un’importanza sempre
maggiore perché maggiore è l’afflusso di
persone che vi afferiscono, persone che
richiedono risposte rapide e di qualità.
I comportamenti dell’Operatore Sanitario possono condizionare la qualità del
lavoro con l’Utenza, diventa necessario
acquisire alcune semplici tecniche relazionali sia per una comunicazione efficace
con l’Utenza sia per “conservare” il benessere dell’Operatore.
Partendo dal presupposto che la comunicazione è una condizione ineludibile per
la vita umana, nell’approccio sistemico la
comunicazione e il comportamento diventano praticamente sinonimi: le parole e i
loro significati da una parte, i messaggi
non verbali e il linguaggio del corpo dall’altra, concorrono, all’interno di un dato
contesto, allo svolgersi del comportamento personale.
In ambito, per esempio psicoterapeutico (mio particolare campo operativo), la
teoria dei sistemi fu una vera e propria
rivoluzione copernicana, l’interesse infatti,
fu rivolto al contesto in cui il soggetto problematico vive, alle relazioni che instaura e
è
alle dinamiche che si muovono intorno a
lui.
L’approccio sistemico propone una
visione globale di una realtà complessa e
l’Uomo è un essere complesso inserito in
un altrettanto realtà complessa.
Il nostro contesto operativo è l’ambito
sanitario e l’efficacia di un intervento sanitario deve passare attraverso la qualità
della relazione interpersonale: l’obiettivo
finale è quello di favorire un atteggiamento
di apertura e di fiducia nell’interlocutore
(l’utente nella fattispecie ma direi anche il/i
colleghi di lavoro) attraverso il linguaggio
che assume un ruolo fondamentale nello
scambio relazionale (il peso o il potere o
l’assenza delle parole). E’ importante
sapere che nello scambio relazionale tra
Operatore e Utente in un dato contesto,
entrano in gioco nello stesso momento,
vissuto (storia personale), punto di vista
(come l’Utente interpreta la propria realtà e
come l’Operatore interpreta la propria realtà e quella dell’Utente), attribuzione di senso (senso e significato offerto dall’esperienza della malattia per l’Utente e senso e
significato offerto all’esperienza di malattia, alle proprie spinte motivazionali, al proprio agire professionale per l’Operatore)
per entrambi e poi abilità del
Ricevente/Utente (spazio e tempi personali ossia ciò che l’Utente può e vuole dalla
relazione), competenza comunicativa dell’Operatore finalizzata alla costruzione del
rapporto terapeutico; la relazione terapeutica e la compliance per l’Utente rispetto
agli obiettivi terapeutici dell’Operatore
sanitario.
In ambito infermieristico, la RELAZIONE
non può mai perdere di vista gli aspetti
legati alla sofferenza psico-sociale oltre
che fisica. Agenti propulsori del piano
assistenziale sono i BISOGNI delle persone, il cui riconoscimento e soddisfacimento attraverso gli interventi assistenziali
creano lo spazio per la relazione.
L’agire infermieristico ha possibilità
privilegiate per entrare in contatto con gli
altri e per stabilire relazioni significative.
L’infermiere è simbolicamente un “contenitore” speciale per qualsiasi genere di
richiesta, aspettative, dubbi, incertezze
dell’Utenza. Il prendersi cura è una modalità complessa che rispetta la diversità e le
caratteristiche delle persone che hanno
richieste di aiuto che a loro volta si affidono alle cure anche con vissuti di diffidenza,
NOTE DI SEGRETERIA
I certificati d’iscrizione possono essere prenotati anche telefonicamente. Il ritiro
può essere direttamente o effettuato da una terza persona debitamente delegata,
anche concordando, con l’impiegata, il giorno del ritiro.
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paura, umiliazione, vergogna, dolore …
dolore mentale. Ebbene, il riconoscimento
e la comprensione di questi sentimenti
all’interno di un clima empatico, aggiungono valore all’interazione (intesa – alleanza
– cooperazione) tra Operatore e Utente.
Riconoscere emozioni, pensieri, immagini, sensazioni e in una parola INTUIRE lo
STATO D’ANIMO dell’Altro (Empatia) è
un’operazione problematica e non è così
sicuro che il linguaggio di cui noi Operatori della salute disponiamo, sia adeguato,
idoneo e sufficiente per esprimere questi
contenuti e che sia al tempo stesso efficace sotto il profilo terapeutico (che permetta dunque di raggiungere lo stato di
benessere possibile in una determinata
situazione).
E’ basilare costruire un linguaggio che
sappia sempre tener in considerazione
che ogni persona costituisce un universo
di senso a se stante, che le stesse parole
per due persone corrispondono a immagini e sentimenti diversi, che i nostri assunti
non sono quelli dell’Altro, che l’Altro è un
Altro unico e irripetibile e che infine … con
l’aiuto dell’empatia è possibile superare il
gap comunicativo.
In ogni atto comunicativo è il modo in
cui diciamo le cose che viene percepito e
valutato dal/dagli interlocutore/i per cui è
stato valutato che sono i gesti che occupano la percentuale maggiore, ben il 55%
contro il 38% del tono e appena il 7% delle parole.
Questo evidenzia che nella relazione
con l’Altro in generale risulta fondamentale la comunicazione sia essa verbale sia
essa non verbale, e che proprio per il valore e la forza di quest’ultima è impossibile
non comunicare perché si comunica sempre qualcosa, allo stesso modo è difficile
non rispondere e il messaggio una volta
trasmesso non è modificabile.
Una lettura della Comunicazione alla
luce dell’Analisi Transazionale può fornire all’Operatore Sanitario alcune conoscenze per capire meglio il tipo di utenza
che ha di fronte e gli strumenti operativi
per una comunicazione efficace e funzionale.
L’Analisi Transazionale è una forma di
psicoterapia ideata agli inizi degli anni ’60
da Eric Berne. Si tratta di uno strumento
teorico che aiuta ad analizzare il tipo di
relazione che si instaura tra gli individui.
Berne ipotizza che le relazioni (transazioni)
che le persone instaurano con gli altri si
fondano su parti della personalità chiamate “stati dell’IO”. Le tre parti presenti in ciascuno di noi sono: il GENITORE, l’ADULTO, il BAMBINO. Queste agiscono inconsapevolmente nella nostra vita quotidiana
e sono sempre compresenti nelle persone. Le transazioni che si possono verifica-
re fra gli individui sono infinite. Possono
essere: simmetriche (es. Adulto-Adulto) e
complementari (es. Adulto-Bambino).
Esaminiamo gli stati dell’IO:
IL GENITORE
Riguarda la registrazione, dentro di noi,
di eventi esterni assorbiti durante l’infanzia, soprattutto nelle relazioni con persone
dotate di autorità: genitori, insegnanti, fratelli maggiori.
Le informazioni dentro di noi sono state
assorbite in via diretta dal bimbo e sono
costituite da Ammonizioni, Regole, Leggi.
Si parla di Genitore Normativo e di
Genitore Affettivo.
Il Primo negli atteggiamenti fisici assume un contegno severo. La rigidità del suo
corpo rimanda alla sua naturale inclinazione alla valutazione ed al giudizio. Ha
l’aspetto di una persona fredda e dominatrice. Rispetto al tono del linguaggio, è
deciso e autoritario. La voce è energica,
tagliente e dura. Le espressioni più frequenti utilizzate sono: “questo è bene e
questo è male”; “ridicolo”; “difetto”; “qualità”; “responsabile”; “incompetente”,
“competente”; “devi”, “non devi”.
Ci sono dei vantaggi riguardo al fatto
che il Genitore Normativo trasmette quei
principi morali che fanno parte della sua
cultura, facilitando l’integrazione dell’individuo all’ambiente sociale. Imponendo poi
dei limiti, insegna anche ad evitare i pericoli e può diventare rassicurante. L’inconveniente è che la sua rigidità può inibire e
censurare la creatività e l’immaginazione.
Nel Genitore Affettivo, i gesti sono
generosi e invitanti: braccia aperte, colpetti sulla schiena in segno di incoraggiamento. Sorveglia e protegge, circondando l’altro della sua sollecitudine. La sua voce è
calda, dolce, rassicurante e tranquillizzante. Le espressioni utilizzate: “va molto
bene”; “ci riuscirai”; “magnifico”; “non preoccuparti”; “ti aiuto io”; “sta attento”;
“rischi di farti male”.
I vantaggi sono che proteggendo il
bambino, il Genitore Affettivo crea quelle
condizioni indispensabili per un naturale e
sicuro sviluppo della sua personalità ma
l’inconveniente è rappresentato dall’iperprotezione che può soffocare e inibire
qualsiasi iniziativa.
L’Utente “Genitoriale” è colui che, nel
rapporto con il Professionista, spesso non
abdica al suo ruolo normativo e di controllo,
nonostante sia nella posizione di colui che
“domanda” ad altri (da profano) una prestazione (specialistica) compensativa del suo
bisogno di Assistenza Infermieristica.
IL BAMBINO
E’ la parte dell’IO che registra e fissa gli
avvenimenti interni e le reazioni a ciò che il
piccolo vede e sente. Anche il Bambino
contiene al suo interno numerose sfaccet-
tature compresenti, con la prevalenza dell’una o dell’altra a seconda degli eventi.
Lo Stato Bambino si suddivide in quattro parti che corrispondono a diversi comportamenti, la cui origine risale ai primissimi stati di vita:
• Bambino Adattato: è l’atteggiamento del
bambino docile, sottomesso che si comporta sempre in funzione delle attese di
quanti lo circondano. Non si ribella, non
contesta, obbedisce ed esegue gli ordini
ricevuti.
• Bambino Ribelle: è caratterizzato da tutta una serie di manifestazioni negative e
polemiche, aggressività, desiderio di
indipendenza, volontà di farsi notare
dicendo “no”, speranza di attirare l’attenzione altrui opponendosi a tutti indistintamente.
• Piccolo Professore: è l’individuo curioso
di sapere, capire e cercare di risolvere i
problemi che gli si presentano. Ha fiducia nelle proprie capacità ed è sempre
convinto di aver trovato la soluzione
migliore.
• Bambino Spontaneo (Naturale): è il
bambino che esprime in modo spontaneo tutte le sue emozioni, gioie e pene.
Manifesta desideri, bisogni, soddisfazioni, insoddisfazioni. E’ l’espressione dell’entusiasmo, della collera, della paura,
dello sconforto.
L’Utente “Bambino” è solitamente
quello che, nelle situazioni di incertezza o
di malattia – presunta o conclamata – è
timoroso e timido e mette in atto atteggiamenti e comportamenti derivanti da questi
stati d’animo o ad essi reattivi:
TIMIDEZZA
TIMORE
DIFFICOLTA’ A PARLARE
oppure
AGGRESSIVITA’
PRETENZIOSITA’
INCAPACITA’ A DILAZIONARE LA
SODDISFAZIONE DEL BISOGNO
L’ADULTO
Crescendo, l’essere umano è in grado
di intervenire sui dati esterni, grazie all’interpretazione e alla critica.
I dati pervengono all’Adulto sia dall’interno (Bambino) che dall’esterno (Genitore). L’Adulto presenta le caratteristiche
della razionalità, indipendenza, capacità di
decidere, capacità di valutare.
L’Adulto negli atteggiamenti fisici ha
uno sguardo diretto ma neutro; assume un
portamento eretto pur mantenendo un
contegno disinvolto. Nel tono del linguaggio, la voce è regolare e neutra; si esprime
con chiarezza senza lasciar trapelare alcuna emozione. Le espressioni utilizzate: “è
possibile che”; “penso”; “ho parecchie
soluzioni”; “i risultati sono i seguenti”;
“che cosa ne pensa”, “è d’accordo”. Ci
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sono vantaggi legati al fatto che l’Adulto
elabora e gestisce tutte le informazioni.
Ragiona con la massima obiettività. Ci
sono altrettanti inconvenienti e cioè che
l’Adulto può rivelarsi freddo e privo di
emozioni, paragonabile a un robot e
sprovvisto di sensibilità.
L’Utente “Adulto” è colui che è in grado di analizzare la situazione (sia interna
sia esterna), apportarvi il proprio contenuto “razionale”, e comportarsi in modo da
sfruttare al meglio la situazione.
Come è allora possibile conoscere lo
Stato dell’IO attivo nell’interlocutore?
Gli strumenti indispensabili alla conoscenza dell’altro sono due:
• l’Osservazione (della Comunicazione
Non Verbale – CNV)
• l’Ascolto Attivo.
Per il primo punto, in un contesto interattivo, il riconoscimento dell’importanza
della comunicazione corporea (CNV),
come veicolo attraverso il quale può essere traslato anche ciò che è inibito alla parola e al pensiero cosciente, può diventare
fondamentale per la costruzione e lo svolgersi della relazione (un esempio proviene
dall’ambito della psichiatria quando la
comunicazione è interrotta per una sofferenza mentale). La capacità di saper
osservare è dimostrare attenzione, totale
interesse per l’altro e questo può favorire
l’instaurarsi di un clima “adatto” affinché la
comunicazione terapeutica possa svolger-
Infermiere a Pavia
si e realizzarsi.
L’ASCOLTO ATTIVO è empatico perché permette di esprimere sentimenti ed
emozioni e di costruire il rapporto di fiducia; è analitico perché tende a chiarire il
contenuto del messaggio e a confermare i
fatti percepiti.
Per essere empatico bisogna saper
ascoltare i sentimenti prima del messaggio, mostrare il proprio interesse per l’interlocutore, evitare interruzioni e commenti lunghi, mettersi in secondo piano rispetto all’interlocutore.
Per essere analitico è necessario saper
ascoltare senza interrompere, ripetere
quanto compreso, chiedere i dettagli per
approfondire, dare un feedback sul messaggio, definire i passi successivi.
Ascolto Empatico significa vedere le
cose dal punto di vista dell’altro, senza filtri (paure di non capire e pregiudizi), senza selettività (ascoltare solo ciò che interessa), senza dialogo interno (pensare già
a ciò che si dirà), senza interruzioni (è più
importante ciò che si sa), senza ignorare e
quindi ascoltare solo per dovere.
In qualità di RICEVENTE, l’Operatore
può affinare, tramite l’allenamento
all’Ascolto Attivo, la capacità di decodifica
del messaggio proveniente dall’Utente e
dal proprio mondo interno. Di conseguenza, come EMITTENTE, l’Operatore sarà
meglio attrezzato per rispondere all’Utente
con un messaggio opportuno, sia dal pun-
to di vista formale sia di transizione.
Una buona Comunicazione Verbale
osserva quattro norme (Grice - Principiodi
Cooperazione):
• Della QUANTITA’ (informatività)
• Della QUALITA’ (verità)
• Della RELAZIONE (pertinenza)
• Della MANIERA (facilità).
La Comunicazione con l’Utente
secondo l’Analisi Transazionale può fornire qualche “attrezzo” da affinare per una
comunicazione efficace con alcuni tipi di
utenza, dall’utente aggressivo all’utente
che ama parlare, l’utente timido, l’utente
autoritario e l’utente seduttivo.
L’Utente Aggressivo è una persona che
si presenta intollerante, arrabbiato, accusatorio: l’Operatore ha a disposizione due
tipi di comunicazione per rapportarsi, la
Comunicazione Emotiva che tende a
rispondere con lo stesso stato d’animo
dell’Utente e che è orientata a dare sfogo
immediato alla tensione; la Comunicazione
Funzionale orientata a Empatia, Controllo
della Relazione, Soluzione del Problema.
L’Utente che Ama Parlare si presenta
con un eloquio fiume, segno di un tratto
caratteriale, un modo di sedare l’ansia o
l’espressione di un bisogno di controllare
il processo comunicativo. E’ un Utente che
si dilunga in spiegazioni inessenziali,
risponde alle domande in modo prolisso e
poco esaustivo, può diminuire il livello di
attenzione dell’interlocutore, può provoca-
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re insofferenza e abbandono relazionale.
Le tre tecniche utilizzabili con l’Utente
che Ama Parlare sono:
• Uso di Domande Chiuse
• Il Controllo dello Spazio nella Comunicazione
• L’Utilizzo di Risposte Concise.
L’Utente Timido è spesso passivo, laconico, forse timoroso. Lo si può aiutare fondamentalmente in due modi: fare domande per coinvolgerlo; metterlo a proprio
agio ed essere estremamente gentili.
L’Utente Autoritario è di solito una persona dogmatica, che ha l’esigenza di
un’azione immediata. Davanti a questo
tipo di persone è importante evitare una
comunicazione passiva, improntata a scarsa decisione, incertezza, difficoltà espressive; ascoltare con attenzione quello che
dice; capire le sue esigenze; assumere un
tono più specifico e diretto (COMUNICAZIONE ASSERTIVA).
La Comunicazione è… funzionale
quando il messaggio è chiaro, completo e
corretto, quando il codice specialistico viene spiegato all’interlocutore, quando viene
osservata e rispettata la retroazione o
risposta di ritorno, quando la diversità del
ruolo (l’infermiere ha un ruolo diverso
rispetto al paziente) non conduce alla
dipendenza ma alla massima autonomia
possibile. Nella relazione d’aiuto, la
comunicazione svolge funzioni importanti
e quindi, quanto più acremo una comunicazione qualitativamente elevata, tanto più
sarà di alto livello anche la relazione.
Le funzioni che la comunicazione svolge nelle relazioni di aiuto possono essere:
• Funzione catartica – favorisce il deflusso delle cariche emotive presenti nella
relazione d’aiuto.
• Funzione di riconoscimento – dimostrare considerazione e accettazione.
• Funzione di conoscenza – acquisire
informazioni e dati per poter poi svolgere un intervento adeguato.
• Funzione di rinforzo – agire sul comportamento per ottenere un migliore risultato di aiuto.
La Comunicazione è… una realtà molto
complessa e non sempre facile da realizzare in pienezza. Ci sono diversi ostacoli
materiali, fisici, psicologici e socio-relazio-
nali, ostacoli a cui spesso si da relativa
importanza e si cerca ugualmente di far
funzionare la comunicazione, non tenendo
conto che la carenza o la superficialità delle informazioni rea nel malato e/o nei suoi
familiari un senso di insicurezza e disorientamento a prescindere da tutte le problematiche etiche e giuridiche connesse.
“Egocentrismo, Taciturnismo, Logorrea,
Falsità, Superiorità, Inferiorità, Fretta, Invadenza, Incoerenza, Recitazione, Evasione,
Disattenzione, Non Considerazione incidono in senso negativo sulla qualità della
relazione […] Rendere la relazione d’aiuto
ricca dal punto di vista degli scambi comunicativi è […] necessario, non solo produrre comunicazioni proprie, bensì anche
agevolare e stimolare l’altro a produrre
proprie comunicazioni”.
(Mambriani S., La comunicazione nelle
relazioni d’aiuto, Cittadella Editrice, Assisi, 1994).
Potrebbero divenire importanti alcune
modalità agevolanti la comunicazione:
• Creare un ambiente non ostacolante
• Stimolare l’Altro con domande discrete
• Comunicare con calma e disponibilità
di tempo
• Favorire la comunicazione
• Favorire il processo di relazione …
Una RELAZIONE fondata sul rispetto
della persona dal saper conoscere l’Altro
(almeno nelle linee essenziali) e riconoscere nell’Altro dei valori, saper accettare
l’Altro, saperlo stimare.
La complessità dell’attività infermieristica è data dal fatto che la stessa non ha
solo NATURA TECNICA ma, anche, RELAZIONALE ed EDUCATIVA e per Essere
Infermieri non basta essere Bravi Tecnici, per Essere Infermieri deve crescere la
cultura della relazione, che è un’arte, con
precise caratteristiche e regole,che va
acquisita fino a diventare una competenza.
Perchè?
Perché nella vita di una persona, l’evento malattia rappresenta un cambiamento,
un’esperienza destabilizzante, che può
riproporre contenuti emozionali intensi
legati alla propria storia personale; la
malattia ti spoglia, talora ti lascia solo con
te stesso, ti dà il senso della finitezza e del-
Il Collegio IPASVI di Pavia
ricorda che, da Gennaio 2006, è attivo lo
SPORTELLO DI COUNSELING
gratuito, a supporto di tutti gli iscritti agli Albi professionali
che ne facciano richiesta.
L'attività di Counseling, svolta da un Counselor professionista,
verrà effettuata esclusivamente previo appuntamento telefonico
al n. 3391205536 dalle ore 9.00 alle 18.00
la fragilità della vita.
Naturalmente ogni persona reagisce e
affronta tale esperienza (l’esperienza del
bisogno di assistenza, di qualunque bisogno di assistenza e di informazione anche
quello che può sembrare banale, assurdo,
ripetitivo, incredibile, incomprensibile, esagerato eppure …) con le proprie risorse,
tante o poche, ma con modalità specificatamente personali.
E’ questa individualità che l’Operatore
Sanitario deve saper accogliere, riconoscere, cercando di dare risposte più adeguate al bisogno specifico d’aiuto. Dare
indirizzi, dettagliare ciò che è buono e
terapeutico in un contesto relazionale non
è semplice, proprio per la soggettività di
coloro che partecipano all’interazione
(Operatore e Utente, Emittente e Ricevente).
Lo studio dei processi comunicativi e
delle dinamiche relazionali è fondamentale e deve essere realizzato all’interno di un
“percorso” formativo e personale a cui
dedicarsi per sviluppare capacità, attitudini, competenze che possono permettere
di scrivere le linee guide per dettagliare
comportamenti idonei ad affrontare la relazione interpersonale d’aiuto.
La complessità dell’agire infermieristico
si delinea ogni giorno di fronte alla molteplicità di situazioni e incontri a cui l’Operatore deve saper offrire la massima disponibilità.
Solo la consapevolezza dell’unicità di
quella relazione può dare valore aggiunto
al nostro agire, l’interesse e la disponibilità
a crescere personalmente e professionalmente sono poi … gli ingredienti giornalieri per non spegnere la motivazione per
sapere, per fare, per essere e per divenire.
Bibliografia
AA.VV., Enciclopedia sulla “Comunicazione”, Vol. III Pagina 601. Einaudi
Canevari e A. Chieregatti, La Relazione
D’Aiuto, Carocci Editore
O. Bassetti, Lo specifico relazionale infermieristico, Rosini Editrice Firenze
L. Juchli, L’Assistenza Infermieristica di
base, Rosini Editrice Firenze
A. Ferrata-T. Galli-N. Loiacono, Uno spazio
condiviso, Editore Borla
V. Delfino, La comunicazione paziente
infermiere, Centro Scientifico Editore
L’autore
* Infermiera
Polo Psichiatrico Torchietto – A.O. Pavia
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Infermiere a Pavia
Voglia di tenerezza
vi invitano a scoprire una dimensione
della comunicazione:
** Mauretta Cattanei
** Annamaria Tanzi
Messaggio della Tenerezza
Questa notte ho fatto un sogno
ho sognato che ho camminato sulla
sabbia
accompagnato dal Signore
e sullo schermo della notte erano proiettati
tutti i giorni della mia vita.
Ho guardato indietro ed ho visto che
a ogni giorno della mia vita, proiettato
nel film,
apparivano orme sulla sabbia:
una mia e una del Signore.
Così sono andato avanti, finchè
tutti i miei giorni si esaurirono.
Allora mi fermai guardando indietro,
notando che in certi posti c’era solo un
orma …
Questi posti coincidevano con i giorni
più difficili della mia vita:
i giorni di maggior angustia,
di maggior paura e di maggior dolore
…
Ho domandato allora:
“Signore, Tu avevi detto che saresti
stato con me
in tutti i giorni della mia vita,
ed io ho accettato di vivere con te,
ma perché mi hai lasciato solo proprio
nei momenti
peggiori della mia vita?”
Ed il Signore rispose:
“Figlio mio, io ti amo e ti dissi che sarei
stato
con te durante tutta la camminata
e che non ti avrei lasciato solo neppure
per un attimo,
e non ti ho lasciato …
I giorni in cui tu hai visto solo un’
orma sulla sabbia,
sono stati i giorni in cui ti ho portato in
braccio.
POESIA BRASILIANA
IL BISOGNO DI TENEREZZA
In un contesto sanitario dove la tecnologia ha sempre più spazio, sembra anacronistico e “pericoloso” parlare di tenerezza.
Le nostre relazioni con i pazienti sono
sempre più improntate dalla fretta e dall’impersonalità, proprio per questo la
“cura” della persona, sia essa malata o in
difficoltà, deve riscoprire e mettere in atto
una dimensione più vera e matura della
relazione.
Per farlo occorre interrogarci su cosa
scatena dentro di noi la relazione con il
paziente e sulla natura delle nostre emozioni, l’analfabetismo emotivo a cui ci
costringe la vita frenetica che viviamo ci
porta ad avere relazioni asettiche, distaccate, ma frustranti.
Sia gli operatori sanitari che i pazienti
hanno bisogno, oltre che della tecnologia,
anche di relazioni, di sostegno, di sicurezza e la relazione ha a che fare con emozione e ragione, se queste componenti non
sono bilanciate (troppa ragione o troppa
emozione) la relazione non può essere
positiva.
Per raggiungere una buona competenza emotiva occorre capire quali sono le
radici e le dinamiche che coinvolgono la
ragione e l’emozione. L’emozione è fondamentale nella nostra vita, ma essa porta ad
agire, fronteggia esperienze ed esprime
reazioni, è attiva, ma mette fretta e vuole
immediatezza.
Invece le radici dell’Io risiedono nella
tenerezza e le nostre relazioni sono, in un
modo o nell’altro, condizionate dalla quantità di tenerezza ricevuta nella nostra infanzia e più in generale nella nostra vita. La
tenerezza è un’espressione dell’emozione.
L’emozione è una dimensione complessa, istintiva e va educata.
La nostra mente è duplice, è razionale
quando attiva coscienza, riflessione, giudizio e opera scelte; ma è anche emotiva, è
un radar che capta immediatamente le
emanazioni emotive degli altri, si attiva
automaticamente, è quindi un segnalatore
d’allarme e una sentinella psicologica.
La mente emozionale, non educata è
rapida ma imprecisa e si basa su di una
realtà simbolica (quindi infantile, non adulta), essa passa all’azione senza riflettere (Il
termine “Emozione” sembra venire dal latino e-motus: movimento da), sacrifica
accuratezza a vantaggio della velocità, è
essenziale per l’elevato tenore adattivo,
inoltre, nella percezione, arrivano prima i
sentimenti e solo dopo i pensieri.
Di solito, l’emozione, agisce con una
logica associativa (le cose sono come mi
appaiono, piego la realtà alle mie percezioni) e usa un suo linguaggio, ovvero:
similitudini, metafore, immagini, processi
primari, la mente che si lascia sopraffare
dalle emozioni è una mente infantile, caratterizzata dal pensiero dicotomico, o bianco o nero, senza sfumature, è autoconvalidante, vale a dire che considera solo le
proprie convinzioni e sottovaluta le prove
contrarie. Nel momento in cui vengono
attivati i sentimenti, prima che i pensieri,
scatta la logica del cuore che induce sentimenti intensi e involontari (“L’amore è
una febbre che va e viene indipendentemente dalla nostra volontà” Stendhal),
mentre quando la percezione è più lenta il
pensiero articolato precede il sentimento.
Le emozioni che proviamo si possono
distinguere in:
• Sentimenti elementari: soddisfazione,
insoddisfazione, tipici dei bimbi.
• Emozioni antiche: collera, tristezza, paura, gioia, amore/tenerezza, disgusto,
vergogna, esse sono molto intense, ma
spariscono velocemente.
• Umori: sono meno intensi delle emozioni antiche e sono più duraturi.
• Temperamenti: sono le predisposizioni, i
tratti innati che esprimono stati d’animo
ed manifestazioni della vita emotiva con
componenti anche fisiche. Il temperamento e le tendenze vanno educate perché nello spazio della libertà individuale
deve esserci anche lo spazio per la
responsabilità.
• Disturbi emotivi: sono stati d’animo alterati che possono sfociare nella patologia.
Le configurazioni emotive, determinate
dalla biologia, possono essere modificate
dall’esperienza, non è vero che il cambiamento sia impossibile, se si decide di
compiere il viaggio della vita imparando
sia dal proprio interiore, sia dal mondo
esterno, il cambiamento sarà possibile,
anzi, inevitabile.
Ognuno di noi nasce caratterizzato da
un tipo di temperamento, tipi fondamentali a cui fare riferimento si possono riassumere in: spavaldo, timido, allegro, malinconico; se non educato, il temperamento
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innato del bambino produrrà un adulto
timido, spavaldo, ecc…fino all’eccesso.
Il temperamento è ciò che “nomina” le
emozioni e le emozioni non educate sono
caratterizzate dalla logica del “faccio solo
ciò che mi piace”; questo modo d’essere
viene definito “analfabetismo emotivo” ed
è caratterizzato dalla mancanza di controllo, da assenza di consapevolezza. Nella
persona vengono a mancare gli allarmi
automatici, determinati dall’elaborazione
delle esperienze passate, perciò l’individuo continua a ripetere gli stessi errori e
ricrea, ovunque vada, le stesse situazioni.
Questa mancata elaborazione crea una
barriera tra emozione e ragione che, di
solito porta all’aumento della violenza, a
gravi difficoltà di relazione, all’aumento del
pensiero negativo, a debolezze, alla critica, o meglio, all’ipertcriticismo. Nello stesso tempo la mancanza di analisi ed autoanalisi produce una persona dipendente,
che vive rapporti simbiotici, che si aggrappa all’altro temendo l’abbandono, che non
è in grado di dare spazi di libertà, è logico
supporre che prima o poi i rapporti si deteriorano e le persone di riferimento si allontanino.
La persona dipendente è oppressa dal
desiderio di piacere agli altri (a tutti gli
altri), è dominata dalla volontà di potere,
però manca d’amore, è caratterizzata dalla nevrosi, è resistente al cambiamento,
ma pretende che gli altri cambino, non sa
mettersi in gioco, è compiacente, rinunciataria e ostinata, in pratica non capisce le
ragioni del cuore.
La persona dipendente è dominata da
emozioni negative, ovvero:
• Considera la critica personale come un
“attacco globale” che innesca la sfiducia
di sé, la reazione consiste nel caricare le
proprie critiche facendole diventare
“attacchi globali” verso gli altri.
• Si manifesta con la collera e il disprezzo.
• Mette in atto l’ostruzionismo (specie i
maschi) attraverso il silenzio e l’impassibilità.
• È dominata da pensieri “tossici” che alimentano la collera e il risentimento.
LA COMPETENZA EMOTIVA
Per acquisire la competenza emotiva
occorre educare le emozioni secondo
strategie specifiche attraverso l’acquisizione di:
1. Un obiettivo esistenziale: cioè ricercare l’autorealizzazione, distinguendola
dall’autoaffermazione, che si può realizzare solo in un determinato settore (il lavoro,
lo sport, gli affetti ecc..). L’autorealizzazione è essenziale e integra tutte le componenti dell’individuo.
2. Abilità introspettiva: si consegue
attivando un osservatore interno che guarda anche i lati nascosti, senza lasciarsene
spaventare.
3. Controllo degli impulsi negativi: si
può attuare attraverso il raffreddamento
psicologico, ovvero: reinquadrare le esperienze disturbanti attraverso attività sublimatorie e tecniche di rilassamento.
4. Instaurare relazioni positive.
Se questo discorso vale per gli operatori d’aiuto, ancor di più deve essere preso
in considerazione nel momento in cui una
persona si ammala. In quel momento l’individuo passa dall’illusione dell’invulnerabilità, fisica ed emotiva, ad una fragilità ed
ad una tempesta emozionale che contribuisce all’indebolimento del sistema
immunitario e lo devasta, togliendo risorse
al processo di guarigione.
Valutando nostro sistema e modello
assistenziale, si può verificare che manca totalmente di intelligenza emotiva; la
fretta, la sottovalutazione dei bisogni e delle reazioni emotive, l’accentuazione dei
bisogni corporei, fa si che ci si curi della
patologia ma si trascuri l’esperienza della
malattia.
Gli atteggiamenti mentali delle persone,
secondo la loro formazione e la loro naturale inclinazione, volgono o all’ottimismo o
al pessimismo; ma, secondo Seligman è
possibile “Imparare l’ottimismo”, come
titola il suo libro, ed è possibile educare la
persona a mettere in atto gli atteggiamenti positivi così da ribaltare un’esperienza
negativa come la malattia in un’occasione
di crescita.
I sentimenti positivi portano alla speranza e al realismo e si sviluppano attraverso:
• l’aiuto di amici e professionisti, in questo
modo si attivano buone relazioni;
• ricercando sostegno psicologico, per
avere la possibilità di esprimere i propri
sentimenti;
• attivando le protezioni naturali più semplici ovvero:
- umorismo
- autoironia (accettando i difetti detti
dagli altri e restando a galla usando
le mie virtù)
- sublimazione
MODALITÀ PERCETTIVE EMOZIONALI
Ogni persona ha il suo modo di percepire le emozioni, le modalità si possono
esprimere in quattro tipi:
• Gli autoconsapevoli, hanno una buona
percezione delle proprie emozioni e le
sanno esprimere.
• I sopraffatti, le loro emozioni sono nel
caos totale.
• I rassegnati, sono consapevoli ma non
reagiscono.
• Gli alessitemici, sono detti “sordomuti
emotivi” perché non sentono, o rifiutano
di sentire, le emozioni e non le riconoscono.
Educare l’intelligenza emotiva porta
vantaggi indubbi che ci aiutano a capire la
natura della Felicità. Infatti:
1. favorisce l’ottimismo, aumentando così
le difese immunitarie, attiva una maggiore attenzione per la salute, determina un maggiore adattamento alle nuove
condizioni, favorendo l’accettazione
della malattia.
2. protegge le buone relazioni; l’isolamento affettivo raddoppia le probabilità di
malattia, i legami stretti e positivi proteggono dallo stress e dalla depressione.
3. migliora l’assistenza sanitaria e la integra:
• offre maggiori informazioni
• insegna a porre domande efficaci
• progetta strutture più adeguate
• prepara professionisti alla competenza empatica.
Queste metodiche possono essere
applicate anche in ambito aziendale e possono intervenire nello stato di salute della
struttura intesa come insieme di persone
(operatori sanitari e non, pazienti famiglie
ecc..). Dai famigerati DRG si può arrivare,
educando le emozioni, ad una qualità totale e avere più salute se si mette in atto:
• una logica della programmazione che
vada a rilevare i bisogni attraverso degli
indicatori sia esterni che interni (es:
com’è il personale, lo stato della motivazione, se gestisce efficacemente lo
stress ecc..).
• un cambiamento culturale associando la
relazione alla tecnica.
LA TENEREZZA
Secondo Fromm la parola tenerezza
proviene dalla parola ebraica “rachemin”
ovvero: grembo; essa è la carica interiore
dell’amore, non quello sdolcinato, che
divampa e inaridisce in breve tempo, bensì quello vero, basato sull’accettazione
dell’altro nella sua interezza, che vuole il
bene dell’altro ed è “forte come la morte”.
Ma il termine può derivare anche dal
latino tenerum = tenere, tendere verso, è
un modo di essere, di stare con l’altro, di
andare verso l’altro, di tenere ciò che l’altro mi comunica.
La tenerezza è la carica interiore dell’amore, è l’energia che emana l’Amore, è
rispetto della libertà e della diversità altrui,
è cogliere l’altro nella sua globalità ed è
una sfida per migliorare.
La tenerezza richiede empatia, capacità
di stupirsi, essa desidera conoscenza e
comprensione, pazienza e fatica, discrezione, passione, controllo.
L’aspetto esteriore della tenerezza è la
carezza.
La carezza è dialogo tattile, è l’espressione corporea della tenerezza, è fonte di
benessere e di rassicurazione, ma esige
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coerenza e congruenza e deve sempre
valorizzare l’altro, la carezza favorisce
l’equilibrio e l’autoaccettazione.
Si manifesta correttamente la tenerezza
attraverso:
• Il tocco rassicurante: quando si soffre,
il contatto fisico, è una necessità per
ritrovare un, seppur minimo, benessere
fisio-psichico, secondo i ritmi e i tempi
individuali.
• Il contatto fisico: il contatto terapeutico
è riconosciuto come strumento essenziale per guarire e per stimolare la volontà di vivere. La stimolazione della pelle è
indispensabile.
• L’utilizzo delle mani è lo strumento privilegiato per una palpazione attenta ed
accurata, le mani devono essere educate ed esercitate a stimolare le percezioni.
• La stimolazione della pelle: la pelle è il
contenitore e il contenuto del corpo e fa
da filtro alle nostre percezioni. La pelle è
il nostro rivestimento e rappresenta
spesso le nostre emozioni attraverso
rossori, pallori ecc…
L’ARTE DELLA CAREZZA
Imparare l’arte della carezza richiede
tempo, sensibilità, empatia. Il gesto deve
essere delicato, lento, non frenetico.
Le carezze vanno pensate, attuate e
individualizzate in base ai sentimenti e alla
sensibilità altrui.
Occorre essere affettuosi e rispettosi
del corpo che si sta toccando, qualsiasi
età esso abbia.
Il tocco deve essere rassicurante, mentre si toccano le guance, la fronte, le falangi delle dita, la pelle…
Nel dialogo tattile occorre sapere quale
tipo di sensibilità hanno i vari recettori e
come stimolarli.
Le guance e la fronte sono sensibili alle
percezioni termiche, una mano fresca o
calda posata sulla fronte o sulle guance
danno sensazioni diverse.
La mano esplora, osserva, stimola, palpa, sfiora, soppesa, pizzicotta.
Toccare un corpo significa osservarlo
con le mani (la scienza della Semeiotica
usava molto le mani per cogliere i sintomi
meno evidenti provenienti dal corpo),
mani che si muovono lentamente e comprimono leggermente, favoriscono percezioni più vivide.
Le persone, e gli operatori sanitari
(medici, infermieri ecc…), possono avere
stili diversi nel toccare l’altro. Possiamo
definirli con le seguenti descrizioni:
• Il lottatore: considera il corpo dell’altro
come un oggetto, la carezza è violenta e
frenetica.
• Il corridore: ha sempre fretta, è veloce, i
suoi ritmi, i tempi e gli spazi non sono
sintonizzati sull’altro.
• L’inesperto: ha l’attenzione, ma ha biso-
Infermiere a Pavia
gno di tirocinio e di formazione per educarsi
alla carezza empatica.
• Il tenero: coniuga tecnica e relazione, rispetto
e con-crescita.
L’espressione del toccare si differenzia anche
in base al modo di essere
del professionista.
Il professionista arido
ritiene che la relazione
non sia necessaria e
quando deve relazionarsi
è istintivo e conflittuale. Il
suo metodo di lavoro si basa sulla logica
della quantità o su di una qualità parziale.
Non ha capacità d’autocritica e non accetta critiche, si crede infallibile, non lo si può
rimproverare, altrimenti vive l’osservazione
come un attacco personale e risponde di
conseguenza. Le sue prestazioni sono
perciò generiche o massificanti, superficiali e frettolose, tende a creare dipendenza nell’altro, a voler essere indispensabile,
e non rispetta lo specifico professionale
invadendo i campi altrui.
Il professionista tenero, al contrario,
ritiene che la relazione sia indispensabile,
essenziale, che sia frutto d’educazione,
che sia una competenza, pensa che debba essere empatica e rassicurante.
Il suo metodo di lavoro cerca la qualità
totale. È in grado di mettersi in discussione, riconosce gli errori e coglie le occasioni per migliorare. Le sue prestazioni sono
personalizzate sull’altro, è sollecito e
responsabile, favorisce le autonomie e
rimane all’interno del suo ruolo.
Una buona relazione professionale è
sempre frutto della ragione e dell’analisi
degli errori. È un rapporto tra un professionista e un paziente e deve dare protezione
e benessere senza dimenticare gli spazi
d’autonomia e di responsabilità.
La carezza è una parte importante della
relazione professionale, specie per gli
infermieri, la cui quotidianità porta a toccare molto spesso i pazienti.
La qualità e l’effetto della carezza
dipendono dalle disposizioni di chi la
dispensa; più si prova tenerezza verso chi
è in difficoltà, più si è in grado di aiutare.
Per contro più il professionista della
salute è chiuso in se stesso ed è schermato, più tende a rifugiarsi dietro il tecnicismo, teme la relazione, quindi crea difficoltà, conflitti e mette in atto difese che lo isolano ulteriormente.
La tenerezza è perciò una modalità di
vivere, un modo di essere, un atteggiamento, che può facilitare l’evoluzione personale e professionale, aiutandoci ad
essere più felici come persone, come pro-
fessionisti, come pazienti.
Relazionarsi con tenerezza significa
riconoscere che ogni essere umano si
manifesta in un corpo, in una sensibilità, in
una intelligenza, ed ha bisogno di una
straordinaria acutezza per distinguere le
componenti fisiche, psicologiche ed intellettuali dello stesso nella sua realtà concreta.
Dedicato a tutte le persone sane e
malate.
Dedicato a tutti gli infermieri che hanno
saputo privilegiare la relazione, ma
anche agli infermieri che si sono
accorti prima della tecnica.
Dedicato a tutti gli infermieri che sanno
aspettare,
aspettare l’Altro che a volte è più
difficile che prendere in braccio.
Bibliografia
O. Bassetti: “Lo specifico relazionale infermieristico”; Rosini, Firenze.
Fromm: “Dalla parte dell’uomo”; Astrolabio. Roma.
D. Goleman: “Intelligenza emotiva”; Bur,
Milano.
G. La Mura: “Comunicare dal cuore alle
mani”; Paoline editoriale libri, Milano.
K. Keating: “La terapia dell’abbraccio”;
Gribaudi editore, Milano.
K. Keating: “La terapia dell’amore”, Gribaudi editore, Milano.
V.F. Birkenbihl: “Segnali del corpo. Come
interpretare il linguaggio corporeo”,
Franco Angeli, Milano.
Gli autori
* Infermiera
Poliambulatori - A.O. di Pavia
** Infermiera
Polo Psichiatrico Torchietto - A.O. Pavia
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I valori etici della nuova relazione
all’interno dell’Azienda Ospedale
** Maura Cattanei
** Francesca Poma
Negli ultimi anni, in Italia, si è verificato
un cambiamento di filosofia intorno alla
gestione della Salute dei cittadini. Nel tentativo di limitare gli sprechi e amministrare
meglio le risorse, umane e strumentali,
presenti e future, il Governo e le Regioni,
hanno introdotto, in modo sempre più
pesante, le logiche dell’aziendalizzazione,
cercando di far diventare i Servizi, che
dovrebbero ridare o mantenere la Salute
del cittadino, fonte di guadagno e non di
perdita come era fino ad oggi.
A prescindere dal fatto che, per definizione, un Servizio è tale quando si mette a
disposizione dell’Uomo in modo disinteressato, il cambiamento d’indirizzo a cui
stiamo assistendo ha innescato meccanismi, modi di pensare e modi di essere
che stanno deteriorando la qualità del
“Servizio Salute”, anziché portarlo ad un
livello superiore.
La logica che “non può essere tutto
gratuito”, la determinazione di Livelli
Essenziali di Assistenza (L.E.A.) e la esasperazione dell’agire secondo le regole
dell’evidenza scientifica, che vorrebbe
incrementare l’Eccellenza nel lavoro, stanno portando un aspetto della vita, importante come quello della Salute, a diventare
serbatoio di opportunità economiche e
non occasione di miglioramento della qualità della vita sia di chi usufruisce sia di chi
eroga il servizio.
Da sempre gli infermieri sono attenti
alla gestione delle risorse economiche del
sistema sanità: il risparmio, l’oculatezza,
sono insiti nel nostro background perché
siamo l’ultimo anello della catena sanitaria, quello che unisce la persona malata a
tutto il resto del sistema.
NOTE DI SEGRETERIA
Si ricorda a tutti gli iscritti che, a inizio anno, è stato inviato il bollettino MAV per
il pagamento d’iscrizione all’Albo. Il pagamento doveva essere effettuato entro il
28/02/2007. Chi non ha ancora provveduto al pagamento è invitato a effettuarlo nel
più breve tempo possibile, onde evitare sanzioni. Si ricorda che il mancato pagamento della quota annuale comporta l’impossibilità da parte della segreteria al rilascio di alcuna certificazione eventualmente richiesta. Chi non avesse ricevuto il
bollettino MAV per l’anno 2007, o l’avesse smarrito, deve rivolgersi immediatamente alla segreteria del Collegio per l’emissione del MAV sostitutivo.
Se mancano risorse economiche e di
materiali, siamo noi a risentirne di più e
siamo costretti ad ingegnarci al fine di evitare che questa mancanza danneggi il
malato.
Evitare che il Paziente risenta di qualunque carenza, economica e di risorse, è
talmente importante per gli infermieri che
si è ritenuto etico specificarlo nel nostro
Codice Deontologico ( capitolo n° 6 “Rapporti con le Istituzioni”).
Purtroppo si è rilevato da più parti che
questa tendenza all’aziendalizzazione sta
determinando un malessere generalizzato
nelle persone che lavorano in Sanità, a
partire dagli infermieri.
Mentre si pone sempre più l’attenzione
sull’aspetto economico, la parte che
riguarda le relazioni umane, che non è mai
stata prioritaria, subisce un ulteriore deterioramento e questo, secondo noi, è un
grosso errore perché nessuna azienda
diventa grande se non realizza buone e
soddisfacenti relazioni con e tra i suoi
dipendenti; inoltre lo sfruttamento delle
risorse e la competitività non sono le uniche condizioni che fanno di un’azienda
UNA GRANDE AZIENDA: le aziende veramente grandi, quelle che superano ogni
sfida del mercato, sono quelle che basano
la loro gestione su di un etica radicata nelle buone relazioni tra i suoi dipendenti e
tra dipendenti e clienti.
Ognuno di noi è a conoscenza, molto
più che nel passato, di chi produce un certo prodotto o eroga un certo servizio, sa
mettere a confronto produttori diversi, non
solo a seconda dell’immagine che i mezzi
di informazione, primo fra tutti la pubblicità, lasciano più o meno fedelmente, trasparire, ma anche perché cerca, prova, e
cambia se le promesse sbandierate non
vengono mantenute e questo discorso
vale anche per le prestazioni sanitarie.
Anche il Cliente-Paziente è oggi molto più
informato e consapevole di ciò che deve
ricevere dal sistema sanità, pretende di
essere curato al meglio, coglie le incongruenze del sistema e fa sentire la sua
voce di protesta.
La determinazione del passaggio tra
un mercato che “soddisfa le esigenze” ed
un mercato che “dà un vantaggio” a chi
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usufruisce del servizio (tempi d’attesa
minori, più cortesia, ambienti più confortevoli etc..) dà una visione cambiata del consumo, che obbliga le organizzazioni aziendali, siano esse di produzione o di servizio, a vedersela con una nuova economia
“dello scopo” (Foa e Ranieri, citato da Forti e Varchetta), in cui sono vincenti le
aziende che propongono prodotti o servizi
dedicati e personalizzati.
Oggi qualsiasi azienda, per essere
competitiva (e usiamo apposta questo termine, anche se non ci piace) deve mirare
alla Qualità Totale, ma per arrivare a questo obiettivo occorre capire i termini in cui
questa affermazione è stata formulata nell’accezione che ne dava il suo maggiore
teorico (P.B. Crosby) e che recita che la
Qualità Totale è“la tensione, insita nell’uomo, verso l’Eccellenza, alla scoperta della
ricchezza di qualità individuali e al superamento di sé fino alla trascendenza”.
Cosa significa questo termine e come
è possibile metterlo in pratica è un discorso complesso, ma le relazioni tra i soggetti coinvolti ne sono il fondamento.
Lo sviluppo della persona, la sua evoluzione, è indispensabile allo scopo di
instaurare relazioni che portino ad una
maggiore soddisfazione sia del Cliente
che dell’operatore.
Nel nostro settore non può essere il
denaro il metro della soddisfazione (le
nostre retribuzioni sono quelle che sono e
non aumenteranno ancora per molto); il
nostro appagamento deve venire dal clima
in cui lavoriamo e dalla qualità del servizio
che riusciamo ad erogare.
La professione infermieristica è basata
sulla soddisfazione dei bisogni del Cliente:
questo aspetto della relazione ci è chiaro,
la filosofia di Virginia Henderson e Abraham Maslow è alla base della nostra preparazione professionale.
Meno chiaro è il concetto che non si
può avere una buona relazione con l’altro
(Cliente) se non si ha una buona relazione
con se stessi (persona); al contrario, se si
ha una buona relazione con se stessi si
possono avere relazioni soddisfacenti con
tutti i soggetti con cui si entra in contatto,
siano essi malati, colleghi, altre figure professionali con cui si collabora, superiori,
familiari, amici etc., trasformando la professione, e più in generale tutta la nostra
vita, come la “chance” per la costruzione
e l’espressione del Sé, l’opportunità di
affermazione della propria identità e la
sede della propria autorealizzazione.
Per ottenere questo è necessario aiutare le persone a scoprire dentro di sé le
risorse necessarie non solo alla soluzione
di problematiche inerenti l’esistenza o
aspetti di essa, ma soprattutto al raggiungimento dei propri obiettivi e alla realizza-
Infermiere a Pavia
zione dei propri sogni e desideri, esprimendo liberamente e con creatività le proprie migliori qualità ed abilità, sia cognitive
che emotive.
In questo modo si può vivere l’attività
professionale con impegno, passione,
creatività e responsabilità, fini ad arrivare
alla “Qualità Totale”, all’Eccellenza.
In questo contesto il Servizio cambia
aspetto e può essere inteso come la capacità di costruire relazioni “buone e durature” (P. Crosby) con il Cliente, in un’ottica di
“partnership” fondata sull’ascolto, la conoscenza, la cooperazione, la condivisione.
“Considerare” il Cliente diventa allora
un imperativo categorico: non “presunzione” da parte di chi produce, ma “attenzione” alle sue necessità e alle sue richieste
che si manifesta innanzitutto con un ascolto teso a conoscere il Cliente, a cogliere il
suo “vero” bisogno, il “significato” profondo e il “vantaggio” che lui, e lui solo, vede
in quel prodotto o servizio per il successo
di se stesso nella sua vita personale e nel
suo lavoro.
Questo è l’orientamento delle Aziende
illuminate, delle multinazionali più importanti che hanno capito che il Cliente non è
un soggetto da sfruttare, bensì la risorsa
più preziosa.
Per noi infermieri il “Cliente-Paziente”
è, è stato e sarà sempre il centro del
nostro agire, pensare, lavorare: cito ancora il Codice Deontologico (secondo capitolo).
Ed è il recupero dell’etica come “elemento competitivo essenziale” (P. Spirito)
che nel nuovo contesto socio-economico
diventa vantaggio per tutte quelle organizzazioni che se ne vogliono appropriare e
che dimostrano con intelligenza di volersi
davvero mettere a “ servizio” del Cliente
“con una “doppia presenza”: quella della
produzione, tipica, nella nostra cultura,
dell’universo maschile, e quella della riproduzione, con le attività autenticamente
di cura e abilità sperimentate quasi solo
esclusivamente dall’universo femminile, riproduzione che induce ad esperienze di
stupore e di interrogazione continua. La riproduzione infatti, in quanto attività di
cura, si realizza in una prestazione individualizzata che, in quanto tale, non può
non essere unica, sorretta com’è dall’ascolto e dalla creatività” (Forti e Varchetta).
La relazione con il Cliente e tra i soggetti dell’equipe curante diventa lo spazio
creativo nel quale poter acquisire le conoscenze necessarie sui bisogni e i desideri,
espressi e latenti, cercando di scoprire,
dietro la necessità di un prodotto, di un
servizio, di una collaborazione, quali dei
suoi bisogni, e quindi dei suoi desideri (A.
Maslow) di sicurezza, di appartenenza, di
stima, di realizzazione si possano nascondere e a quali si possa rispondere, proponendo il prodotto o servizio come vantaggio.
Lo sviluppo, l’autorealizzazione, lo
sforzo di raggiungere la “sanità”, la ricerca
dell’identità e dell’autonomia, il desiderio
di eccellere ed altri modi di esprimere lo
sforzo di ascendere devono essere
ammessi come una tendenza umana diffusa ed universale. La natura istintuale dei
bisogni fondamentali costituisce il fondamento di un sistema di valori intrinseci,
una gerarchia di valori che devono essere
reperiti nella stessa natura umana.
La possibilità di essere sani, di autorealizzarsi, di utilizzare le proprie intelligenze, essendo insita nell’Uomo, non può
essere repressa o rimossa pena l’alienazione e la perdita di senso, il più delle volte inconsapevole ed esteriorizzata in psicopatologie o in malattie psicosomatiche.
Al contrario, la tendenza attualizzante,
il bisogno, il diritto alla autorealizzazione,
vanno promossi, incentivati, aiutati ad
esprimersi e ad essere gratificati.
Il lavoro offre l’occasione di apprendere continuamente dall’esperienza, di agire
per cambiare e per raggiungere i propri
obiettivi, di provarsi, di assumersi la
responsabilità delle decisioni.
È una manifestazione di quello che siamo, di ciò che ci portiamo dentro, e, come
dice Luigi Pagliarani, filosofo e teorico della psicosocioanalisi in Italia, “è momento
di connessione tra mondo interno e mondo esterno attraverso la mediazione del
principio di realtà”. La possibilità, cioè, che
il lavoro diventi lo spazio in cui dimostrare
le proprie abilità, in cui esercitare la capacità di prendere decisioni entro limiti stabiliti dal proprio ruolo e compito, e che offra
l’opportunità di operare delle scelte in cui
ci sperimentiamo, in cui creiamo qualcosa
che deriva da noi, che sia frutto del nostro
pensiero, della nostra capacità progettuale, del nostro impegno, della nostra passione, della nostra cura, della nostra fede.
Chi scrive ha sperimentato nella vita
professionale che lasciare “fuori” dalle attività lavorative la fede, la speranza, l’entusiasmo, il coraggio, la cura, la passione,
l’impegno, la vocazione, la creatività,
l’amore per il proprio lavoro, per la propria
Azienda, per i propri colleghi, per se stessi, significa, per le persone, maggiore frustrazione, noia, insoddisfazione, demotivazione, critica, cinismo, malattia.
Siamo convinte che, al contrario, lavorare possa davvero essere una esplosione
di noi, possa davvero rappresentare l’ambito del proprio sviluppo, della propria
autogenerazione, della piena realizzazione
di tutte le proprie doti, realizzazione percepita come bisogno imprescindibile per il
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raggiungimento del benessere e della felicità.
Se, per quanto detto precedentemente, il nuovo assetto socio-economico è
caratterizzato dal crescente peso dei bisogni, dei desideri, delle scelte del Cliente,
ne deriva che, per rispondere efficacemente ad ogni singolo Cliente in modo
continuativo, tutta l’Azienda abbia l’esigenza di coinvolgersi con il Cliente stesso.
È attraverso transazioni complete, che
si evidenziano in relazioni buone e durature con il Cliente e con gli operatori, che
l’organizzazione aziendale può pensare di
raggiungere i propri scopi; e dato che le
relazioni non si costruiscono tra prodotti,
ma tra persone, ne risulta che la risorsa
umana diventa la principale fonte di ricchezza delle organizzazione economiche
contemporanee.
Non solo perché la risorsa umana continua ad essere l’artefice della produzione,
ma perché sempre di più diventa la protagonista, all’interno dell’Azienda, di relazioni che determinano un clima atto ad agevolare i processi aziendali, a dare continuità alla produzione e, all’esterno dell’Azienda, di relazioni che costruiscono, attraverso “partnership”, il benessere degli stakeholders che ruotano attorno all’Azienda,
primi fra tutti i Clienti, creando di conseguenza le condizioni per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Una risorsa umana che diventa pienamente “soggetto”, capace quindi di scambiarsi conoscenza e di acquisire conoscenze nuove, attore principale delle transazioni, generatore di valore, e contenitore
mai colmo del patrimonio culturale dell’Azienda.
Una tale richiesta, che va ben oltre il
compito prescrittivo legato al ruolo aziendale, e che implica responsabilizzazione e
partecipazione psicologica dei soggetti al
progetto e agli obiettivi dell’Azienda, mette
necessariamente in moto un meccanismo
ansiogeno, più o meno conscio, legato
alla capacità e alla volontà di una risposta
affermativa, meccanismo che conduce
drammaticamente a vedersela con i propri
obiettivi di vita, con i propri valori, con il
desiderio, magari rimosso o represso da
tempo, di riprendere il filo del discorso della propria vita e di ridare la possibilità al
proprio “puer” di seguire la via della propria vocazione.
È una richiesta alla quale gli individui
possono anche rispondere con resistenze
e rifiuti, perché necessariamente induce
ad una profonda conoscenza di sé, perché implica la necessità di acquisire nuove
conoscenze, di dimostrare abilità e capacità forse da tempo non esercitate, di
prendere decisioni; e tutto questo genera
incertezza, nonostante sia sentito da tutti,
come abbiamo visto e dimostrato, il bisogno di realizzarsi, di seguire la verità del
proprio Sé, la certezza del proprio sentire,
quando si sia liberi di seguire il proprio
flusso creativo.
In questo conflitto, tra “l’angoscia dell’incertezza” e “l’angoscia della certezza”
(L.Pagliarani), tra paura e coraggio, tra
voglia di prendersi il rischio e meccanismi
di difesa, si genera un disagio all’interno
dell’organizzazione che, se intelligentemente e creativamente gestito, può essere
il territorio del cambiamento e della trasformazione.
La “doppia presenza del compito primario dell’Azienda” (Forti e Varchetta), da
una parte degli obiettivi istituzionali che
l’organizzazione in sé riceve dai propri stakeholders, dall’altra degli obiettivi individuali che, consciamente o meno, le donne
e gli uomini che operano nelle organizzazioni ritornano a sentire nei confronti di se
stessi e del proprio progetto di autosviluppo, fa nascere la necessità del cambiamento rispetto al passato, cambiamento
che determina quanto l’organizzazione
aziendale possa rispondere a tali nuove
richieste e, in ultima analisi, sappia raggiungere i propri obiettivi e risultati.
Nel momento in cui la necessità del
cambiamento assume il significato dell’esistenza stessa dell’Azienda sul mercato, allora si devono verificare delle trasformazioni, delle metamorfosi nel pensiero
stesso delle persone appartenenti
all’Azienda, qualsiasi sia il loro ruolo ma, a
maggior ragione , nel management e nei
leader.
È infatti da loro che ci si aspetta una
capacità particolare di coinvolgere e motivare le persone all’interno dell’Azienda,
specialmente la periferia organizzativa
che, da una parte ha maggior contatto con
il Cliente, dall’altra è inserita nel ciclo della
produzione.
“Per un verso esiste la necessità di
acquisire nuove idee e nuove competenze,
per altro verso c’è l’esigenza di disimparare vecchi valori e atteggiamenti superati.
A questo si aggiunge la generale esigenza di essere migliori pensatori, alla
ricerca di possibilità e nuovi concetti e
migliori decisori, alla ricerca dei tempi
congruenti ai diversi contesti competitivi in
cui si opera, enfatizzando l’importanza di
capacità e abilità spesso dimenticate nel
dibattito sulla leadership.
I nuovi modelli di leadership non parlano più solo di compito, ma anche di valori,
politiche, relazioni, energia e motivazione,
di slancio e di passione che produce contagio e induce attivazione di alta energia e
animazione.
Questa nuova cultura della leadership
evolve in virtù di reali cambiamenti delle
persone.
La trasformazione personale è parte
fondamentale del processo di cambiamento generale.
Le competenze di tipo comunicativo e
argomentativo e di dialogo diventano indispensabili, perché se le organizzazioni si
possono leggere come “reti conversazionali” all’interno delle quali la parola è fonte
e strumento di gestione, il discorso dei
leader, sia nei suoi aspetti decisori, sia in
quelli didattici diventa una delle fonti di
gestione dei processi operativi e della cultura.
Del leader allora conta l’esempio ed il
comportamento, la visione, il modo di porgere e non solo il contenuto, la congruenza” (Giovanni Testa in prefazione a Robert
Dilts)
I nuovi leader, insieme alla proprietà,
devono identificare i valori, la visione e la
missione dell’Azienda, crederci e coinvolgere i collaboratori sapendo creare, attraverso una conoscenza profonda delle proprie persone, un terreno comune di condivisione in cui tutti si sentano coinvolti emotivamente e psicologicamente, motivati a
fare meglio, partecipi degli obiettivi dell’Azienda come se fossero propri.
Saper creare un terreno di condivisione di valori significa saper leggere e rispettare la cultura dell’Azienda, significa conoscere a fondo i propri collaboratori ponendosi in una relazione in cui, ascoltando
empaticamente, si sappia riconoscere nell’Altro la sua visione del mondo, le cose
che per lui sono importanti, i suoi valori di
riferimento, il suo sistema di credenze, la
sua vocazione, le sue capacità, le sue attitudini naturali, le sue eccellenze, le sue
aspettative, i suoi sogni. Si sappia cioè
confermare le sue migliori qualità e se ne
faciliti la crescita personale, il cambiamento e la trasformazione motivando, trascinando, guidando.
I nuovi Principi di Gestione per la Qualità ( ISO 9000:2000) offrono alle organizzazioni economiche contemporanee la
struttura del cambiamento necessario per
rispondere alle nuove sfide del mercato e
alle richieste di realizzazione dei soggetti
umani.
Vediamoli come riepilogo di tutto
quanto detto finora:
• Organizzazione orientata al Cliente
• Leadership
• Coinvolgimento del personale
• Approccio basato sui processi
• Approccio sistemico della gestione
• Miglioramento continuo
• Decisioni basate su dati di fatto
• Rapporti di reciproco beneficio con i fornitori.
Il nuovo processo di certificazione
richiede quindi una maggiore attenzione
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ed ascolto non solo del Cliente esterno,
ma anche del Cliente interno, dei soggetti
umani all’interno dell’Azienda (macrosistema), che vengono inseriti, con maggiori
responsabilità rispetto al passato, in processi aziendali che vedono coinvolte più
persone in maniera trasversale, persone
che si debbono ascoltare, che debbono
parlarsi, che debbono essere tutte sensibili e sensibilizzate al raggiungimento di un
obiettivo comune.
Per primi i leader dell’Azienda devono
avere capacità relazionali ma devono
anche saper trasmettere il proprio modello
a tutte le persone con responsabilità , che
devono quindi essere formate per integrare le competenze tecniche (sistemiche e
strategiche) con competenze sociali, psicologiche, di ascolto e comunicazione efficace.
Competenze che permettano a se
stessi e ai propri collaboratori di vivere il
ruolo professionale davvero come spazio
di espressione di sé e di integrazione.
Per quanto detto, le organizzazioni
economiche contemporanee si trovano
nella necessità di gestire il cambiamento
attraverso l’apprendimento di nuovi
modelli comportamentali:
• I leader aziendali devono acquisire nuove competenze di relazione, di ascolto,
di supporto, di motivazione del personale, di gestione integrata dei gruppi di
lavoro
• La comunicazione deve diventare strumento di relazione sempre più efficace
• Il personale tutto deve acquisire consapevolezza dei principi di Gestione per la
Qualità, deve acquisire modalità comunicative improntate alla costruzione di relazioni che agevolino l’approccio sistemico
della gestione per processi, e deve essere
sensibilizzato verso il Cliente esterno e il
Cliente interno
• Il personale tutto, insieme con i leader
dell’Azienda, deve acquisire modalità
comunicative, di ascolto e di relazione che
creino un clima aziendale facilitante lo
scambio di esperienze, la definizione di
strategie, il problem solving creativo
(microsistema), la decisione condivisa e,
come risultato, una efficacia ed efficienza
ottenute come fine di un processo virtuoso
• Il personale tutto deve avere compiti
precisi ma deve essere formato, stimolato,
Infermiere a Pavia
motivato ad interpretare il proprio ruolo
professionale con creatività intensa, identità personale e professionale, forte identificazione con il progetto dell’Azienda
• Il personale esterno, tipicamente l’area
commerciale dell’Azienda, deve saper
creare, mantenere e sviluppare relazioni
con il Cliente esterno e deve saper proporre il prodotto dell’Azienda come vantaggio
e soluzione ai problemi e bisogni del
Cliente
I soggetti all’interno dell’organizzazione aziendale sentono e hanno il diritto di vivere la professione come spazio
della propria autorealizzazione.
L’Azienda, se vuole cogliere gli obiettivi offerti dalla “doppia presenza del compito primario” deve saper offrire questa
opportunità alle proprie risorse umane
attraverso valutazioni condivise, compiti
che offrano l’opportunità di sviluppare
specifiche qualità riconosciute, percorsi di
carriera che stimolino l’apprendimento di
nuove conoscenze, apprendimento canalizzato e facilitato da strumenti quali formazione, coaching, tutorship, mentoring, con
cui sviluppare le potenzialità e facilitare
l’empowerment.
L’Azienda deve anche consentire al
soggetto di poter integrare la propria personalità, deve permettere al soggetto di
esprimere tutte le sue qualità, riconoscere,
confermare e preservare l’individualità e la
soggettività nella socializzazione.
Deve saper riconoscere e facilitare l’allineamento dei livelli in ogni persona: la
visione e la finalità di ognuno, il proprio
ruolo e missione, i propri valori, le capacità sia sistemiche che strategiche, i comportamenti e le relazioni con gli altri soggetti coinvolti nello stesso contesto e nello
stesso ambiente formano un tutt’uno, una
“Gestalt” che non può essere misconosciuta.
Deve anche saper facilitare le relazioni
e i possibili conflitti non solo interpersonali ma anche intrapsichici, che, come abbiamo visto, possono sorgere di fronte alle
nuove richieste di responsabilità, coinvolgimento e discrezionalità.
In conclusione, siamo convinte che il
nuovo contesto economico, globalizzato e
concorrenziale, dove il Cliente-Paziente
giudica e sceglie, non debba necessariamente essere demonizzato ma che solo la
fedeltà alla visione etica finora sostenuta e
ai valori su cui è fondata possa generare il
benessere atteso e auspicato anziché l’insoddisfazione di tutti i soggetti coinvolti nel
“Sistema Sanità” e, di conseguenza, il fallimento della “mission” delle Aziende
Ospedale, delle Aziende Sanitarie Locali,
delle Fondazioni, delle Cliniche.
Bibliografia
-
NOTE DI SEGRETERIA
Qualora un iscritto cambi indirizzo, recapiti telefonici, posto di lavoro o consegua
dei titoli accademici, deve segnalarlo in segreteria per l’aggiornamento dell’Albo
professionale di appartenenza. La comunicazione può essere inviata tramite via fax,
e-mail, posta tradizionale, oppure personalmente in Collegio compilando l’apposito modulo.
Gli autori
* Infermiera - Azienda Ospedaliera Pavia
** Counselor e formatrice aziendale
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La comunicazione con l’anziano:
come promuovere un’auspicata e mitigante
serenità attorno alla persona che invecchia
* Silvia Giudici
Il termine comunicazione deriva dal
latino “communio” e indica, letteralmente,
l’azione del mettere in comune.
Si può affermare, congiungendo più
definizioni, che la comunicazione è partecipazione, trasmissione, diffusione, scambio diretto o integrale, messa in comune di
un contributo, effettuato per ragioni informative, organizzative, direttive, affettive.
Un processo sempre bilaterale, contrattato
tra le parti, sebbene spesso avvenga in
modo non pienamente consapevole.
I dati relativi all’invecchiamento della
persona consentono di affermare che in
età avanzata la comunicazione verbale
mediante parole pronunciate e scritte, può
essere difficoltosa ma relativamente conservata. L’anziano può fisiologicamente
continuare a comunicare e se non lo fa è
perché viene spesso isolato ed emarginato. A parte gli interventi protesici o chirurgici, che devono essere messi a disposizione di tutti gli anziani che ne necessitano, e non soltanto degli appartenenti agli
strati sociali più fortunati, è pertanto fondamentale che le persone che invecchiano
da un lato vengano messe nelle condizioni di comunicare, dall’altro lato siano aiutate ad esempio nella comprensione acustica dei messaggi, attraverso la formulazione degli stessi, con modalità che facilitano
la loro comprensione e soprattutto che
vengano inseriti in un contesto che renda
la comunicazione carica di significato.
E’ però da considerare anche il valore
che assume in età senile la comunicazione
non verbale, in cui l’anziano funge sia da
emittente che da ricevente della comunicazione. I messaggi espressi attraverso la
mimica, la postura, gli atteggiamenti,
assumono spesso un significato di rilievo,
perché possono sostituire quelli trasmessi
verbalmente, ribadirli o contraddirli, fornendo così una serie di elementi conoscitivi.
Nella nostra cultura, quando si parla di
comunicazione si pensa in primo luogo
alla comunicazione verbale, cioè organizzata in parole e suoni. Ma è necessario
riconoscere che nella vita quotidiana han-
no grande rilievo altre forme di espressione e di significato. La comunicazione è
infatti un sistema complesso, in cui la
dimensione verbale e non verbale si compenetrano. Esiste il non verbale linguistico
come l’intonazione, il ritmo, la velocità,
l’accento ed il timbro della voce. C’è il linguistico non verbale come nella comunicazione gestuale che si propone come
segno, dove i gesti non hanno significato
in sé ma stanno per qualcos’altro. C’è poi
il non verbale extralinguistico. Gli atti
comunicativi non verbali si sostanziano
nelle caratteristiche fisiche (identità dell’emittente), sia naturali (lineamenti, colore
della pelle o degli occhi), sia artefatte
(taglio dei capelli, trucco); nella postura;
nei movimenti del corpo; nella mimica facciale; nei fenomeni paralinguistici (riso,
pianto, sbadiglio, cambiamenti nel tono
della voce, pause, silenzi); nella gestualità
che accompagna, rafforza, completa o
contraddice il contenuto verbale.
Nell’anziano, l’espressione mimica
molto spesso comunica qualcosa di profondo e sostanziale di quello che le parole
possono significare: è quindi necessario
osservare e cogliere questi messaggi che
talvolta rappresentano un segnale di allarme e una richiesta di aiuto.
Un peculiare tipo di comunicazione
non verbale è la comunicazione “fisica”,
che avviene per contatto. E’ sufficiente
pensare alla semplice e comunissima
stretta di mano, ai modi diversi che le persone hanno di salutarsi o di presentarsi,
alle informazioni che la stretta di mano ci
può suggerire. Occorre molta accortezza
e molto rispetto nella comunicazione fisica
con la persona sofferente, specie se anziana. Si possono trasmettere involontariamente contenuti che disturbano, che infastidiscono, soprattutto quando il messaggio viene interpretato come aggressivo,
invadente.
Nell’anziano, la comunicazione non
verbale a volte esprime la difficoltà a
comunicare direttamente situazioni negative. E’ una comunicazione sofferta di esperienze dolorose che si tende a dimenticare
e a rimuovere. Diviene indispensabile la
qualità dell’ascolto, il rapporto, il clima di
fiducia che consenta l’espressione verbale
della sofferenza. Spesso ci vuole tempo,
molta pazienza per aiutare un anziano a
parlare di sé. L’anziano può manifestare
titubanza e perplessità nei confronti della
comunicazione interpersonale, soprattutto
se deve rapportarsi con persone molto più
giovani di lui. Un atteggiamento di accoglienza, di rispetto e di fiducia da parte dell’interlocutore può sciogliere dubbi e resistenze.
Il linguaggio verbale presenta nell’invecchiamento modificazioni relativamente
limitate.
La grande maggioranza degli anziani è
solita riferire difficoltà a recuperare nomi
nel corso della conversazione e in particolare quelli di persone note e di familiari.
Tale fenomeno viene chiamato anomia.
I diversi studi svolti sulle capacità lessicali nell’invecchiamento riportano risultati
relativamente divergenti. Alcuni hanno evidenziato un progressivo disturbo della
capacità di recupero lessicale. Tale deficit
si accompagna spesso a un fenomeno
che viene detto della “punta della lingua”,
tale per cui, nonostante l’anomia, la persona è in grado di riferire alcune informazioni sulla parola che non è in grado di recuperare, come il numero di sillabe, la sede
dell’accento, la lettera iniziale o la struttura
morfologica. L’anomia della persona
anziana coinvolgerebbe tanto la produzione di nomi che di verbi, e per quanto
riguarda i nomi, tanto quelli propri (di persona, di luogo, ecc.) che quelli di oggetti.
Le capacità fonologiche sembrano
invariate rispetto a quelle di persone più
giovani. Pur con qualche discordanza, tale
stabilità è confermata anche per le capacità lessicali e semantico-lessicali. Le capacità sintattiche sono a loro volta sostanzialmente stabili e la loro apparente riduzione
è eventualmente da attribuire ad una diminuita capacità di memoria a breve termine.
Le modificazioni del contenuto informativo, riferite da alcuni studi, paiono più da
spiegare con l’insorgenza di modificazioni
di ordine sociale e comportamentale più
che primitivamente linguistico.
In età inoltrata la capacità di apprendimento si riduce. Prevale un apprendimento fondato sull’azione (by doing) e non sulla memorizzazione (by memorizing).
L’anziano in condizione di benessere
psico-fisico è in grado di imparare a conoscere allo stesso modo del giovane e dell’adulto, sebbene talvolta le nuove acquisizioni, specie di avanzata tecnologia,
richiedono tempi più lungi di assimilazio-
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ne. Nei processi di apprendimento o di
recupero di acquisizioni smarrite, a ogni
età e a maggior ragione in vecchiaia, riveste un ruolo preminente la motivazione. La
nascita, lo sviluppo e la diffusione delle
università della terza età testimoniano in
molti anziani la riuscita combinazione
creativa tra capacità e volontà di apprendere e di ricordare.
Le ricerche più recenti hanno dimostrato che anche i longevi possono continuare
ad apprendere, purchè siano messi in grado di utilizzare una procedura fondata più
sul fare concretamente che sul memorizzare.
La memoria è la funzione psichica preposta all’organizzazione dell’aspetto temporale del comportamento e determina le
concessioni casuali fra l’evento attuale e
uno precedentemente accaduto. Si riconoscono una memoria sensoriale, iconica,
di brevissima durata (0,1-0,5 sec); una
memoria a breve termine che contiene
una prima interpretazione degli eventi (1-2
ore); una memoria a lungo termine che
rappresenta il sistema più complesso di
raccolta, organizzazione e archiviazione
delle informazioni.
La memoria presenta una certa diminuzione in funzione dell’età. Generalmente
sono più coinvolte nel processo di declino
fisiologico la memoria a breve termine e di
lavoro rispetto a quella a lungo termine,
più la memoria attuale che la memoria
passata. Tale riduzione non comporta
necessariamente una perdita di efficienza
nella vita quotidiana ed è fortemente
influenzata dal valore che i contenuti del
ricordo presentano per l’anziano: quelli
che interessano particolarmente la persona tendono ad essere ricordati in modo
migliore rispetto a quelli per i quali viene
avvertito un sentimento di indifferenza.
La comunicazione con il vecchio spesso risente dei pregiudizi di una cultura
dominante impostata sull’efficientismo e
sull’apparenza. I canoni diffusi dall’estetismo e dall’edonismo, all’insegna dei “sani
e belli”, archiviano l’anziano nel mondo
dell’obsoleto, del superato.
Numerosi sono i pregiudizi nei suoi
confronti; uno dei più diffusi e discriminanti definisce il vecchio come involuto e
decadente, dimenticando i molti anziani e
longevi che sono o sono stati particolarmente attivi sul piano creativo in ogni
ambito artistico e professionale.
La coercizione del pregiudizio investe
un’ampia popolazione di anziani; più o
meno inconsapevolmente si ritiene ancora, in vari settori della vita sociale, che essi
siano inutili, improduttivi, ripetitivi, depressi, passivi, superati, inariditi di idee, sentimenti, interessi e desideri.
Vecchiaia e malattia costituiscono un
antico preconcetto binomio. La riduzione
del margine di sicurezza, la fragilità, l’au-
Infermiere a Pavia
mentata vulnerabilità agli agenti patogeni
nell’anziano continuano diffusamente a
nutrire la pregiudiziale concezione della
vecchiaia come predisponente, inesorabile condizione di malattia.
Da numerose ricerche, risulta che le
persone anziane temono in particolare la
malattia e si augurano per il futuro di continuare a godere di una soddisfacente
salute o di poterla recuperare. La malattia,
specie se prolungata, dischiude l’indesiderato e preoccupante scenario dell’invalidità, della perduta autonomia, della dipendenza, della compromissione della propria
libertà di movimento e di quanto ne consegue. In alcuni anziani la comparsa di un
disturbo fisico non grave scatena talvolta
paure ad angosce di un annunciato, progressivo declino.
Saper comunicare ed ascoltare costituiscono gli atteggiamenti più corretti dell’infermiere moderno. La comunicazione
con l’anziano deve tener conto delle
modalità relazionali che si vengono delineando in età senile.
Spesso, infatti, il linguaggio personale,
nel corso del tempo e attraverso le esperienze, si arricchisce di un nuovo lessico
che sostituisce precedenti modalità
espressive. I livelli, i modelli, i percorsi della conoscenza di un individuo si evidenziano nello stile, nella scelta e nell’uso delle
parole. Le espressioni verbali si modulano
ed emergono dalla storia personale e possono anche caratterizzare la contestualità
ed il vissuto dell’attuale fase esistenziale.
Peculiari tipologie linguistiche connotano un’epoca, un periodo della storia.
Spesso gli anziani, soprattutto longevi e di
sesso femminile, non hanno potuto usufruire di un sistema educativo-scolastico
appropriato e tendono ad esprimersi attraverso l’impiego di un idioma di impronta
dialettale, la loro “lingua madre”, e faticano a formulare e talora anche a comprendere frasi nella corretta forma italiana. Il
crescente fenomeno dell’immigrazione e
della multietnicità concorre a rendere più
difficile la comunicazione. Già nella comunicazione verbale corrente può accadere
che si utilizzino vocaboli con significati
diversi o parole differenti per intendere i
medesimi contenuti a discapito della fluidità dell’interazione. Il dialogo e la comprensione possono risultare più difficili se si
ascoltano espressioni idiomatiche, dialettali a cui corrispondono peculiarità semantiche.
Ascoltare l’anziano significa inevitabilmente sapersi ascoltare, un atteggiamento
diradato nella società dei consumi e dei
rumori. Il silenzio è la premessa condizionale all’intimità di un ascolto profondo e
partecipato e talora forse alcuni silenzi
professionali rappresentano il vuoto di un
silenzio inascoltato. Soprattutto l’anziano
morente necessita di sguardi che si soffer-
mano, di parole misurate, di atteggiamenti
di paziente attesa, di sensibile accoglienza.
La comunicazione con l’anziano malato richiede i requisiti del rispetto e della
conoscenza personale, i binari entro i quali ciascun processo comunicativo si fa
diverso da un altro, differente per ogni persona, in rapporto al variare della storia personale e della evoluzione clinica.
Il problema della comunicazione investe anche i familiari del paziente, coinvolti
sul piano emotivo ed esperienziale.
Anch’essi necessitano di modulate informazioni, di un linguaggio appropriato, di
rispetto degli affetti che sono in gioco, di
sensibilità nei confronti della loro sofferenza che talora inconsapevolmente si esprime con atteggiamenti non sempre adeguati. La comunicazione efficace corretta
con i congiunti ricade a sua volta, per la
circolarità dei processi interattivi, sullo
stesso paziente e contribuisce a creare un
clima relazionale di reale accettazione,
modalità comportamentale consone a promuovere un’auspicata e mitigante serenità
intorno alla sofferenza dell’anziano ed al
suo ultimo passaggio esistenziale.
L’autore
* Infermiera
Neuroriabilitazione I e II
Fondazione Salvatore Maugeri - Pavia
Bibliografia
- Antonini F.M., Magnolfi S. (2003). L’età
dei capolavori. Venezia. Marsiglio Editore.
- Barucci M. (2000). Psicogeragogia:
mente, vecchiaia, educazione. Torino.
UTET Libreria.
- Cefis F. (2005). Il mestiere di vivere. L’arte di invecchiare. Treviglio (BG). IKONOS Editore.
- Cesa Bianchi G., Cesa Bianchi M., Cristini C. (2000). Anziani e comunicazione
tra salute e malattia. Milano. Mediserve
Editore.
- Eliopoulos C. (1998). Assistenza all’anziano. Firenze. USES Edizioni.
- Hersen M., Van Hasselt V.B. (2001).
Trattamenti psicologici nell’anziano.
Milano. McGraw-Hill Editore.
- Tammaro A.E., Casale G., Frustaglia A.
(2000). Manuale di Geriatria e Gerontologia. Milano. McGraw-Hill
- Vergani C. (2002). La nuova longevità.
Milano. Mondadori Editore.
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Numero 2/2007
Il conflitto delle emozioni
nel “prendersi cura”
* Paola Ripa
** Cristian Maraschi
*** Michela Massaro
“Nel momento di maggiore solitudine,
con il corpo spezzato sulla soglia
dell’infinito,
subentra un altro tempo,
che non può essere misurato con i nostri
criteri.
In pochi giorni, con l’aiuto di una
presenza che permette alla disperazione
e al dolore di esprimersi,
i malati comprendono la loro vita,
se ne appropriano,
ne manifestano la verità.
Scoprono la libertà di aderire a sé stessi.
Come se, quando tutto sta finendo,
tutto si liberasse finalmente dal groviglio
di pene e di illusioni che ci impediscono
di appartenere a noi stessi.
Il mistero di esistere e di morire non è
affatto chiarito,
ma è vissuto pienamente.
La morte può far si che un essere diventi
ciò che era chiamato a divenire;
può essere, nella piena accezione del
termine un compimento”.
Francois Mitterrand
Abstract
Il lavoro parte dall’analisi degli elementi costitutivi dell’uomo che vive il termine della
vita, tratta le emozioni provate in questa fase da parte del malato, dei familiari e dell’operatore, ritrae la relazione d’aiuto e gli strumenti con i quali essa può essere realizzata nel
vissuto di malattia della persona. Lo scopo principale è quello di ricercare e provare a
leggere una serie di situazioni che si presentano in questa condizione. Il tutto al fine di
riflettere rispetto a quello che potrebbe essere il “senso” di essere infermieri nel contesto
delle cure palliative e, una volta capito, possa divenire il riferimento del pensiero e dell’azione degli infermieri che si approcciano ad un aspetto infermieristico centro di un
vortice di emozioni. L’infermiere può osservare, misurare e quantificare nei vari momenti assistenziali; può intravedere il risultato del conoscere il senso ed il significato di essere il professionista che presta attenzione, osserva, entra in empatia. Ascolta l’altro riconoscendone l’unicità, ascolta se stesso ricordando le analoghe esperienze vissute, accettando e affrontando ciò che ha creato problemi nel proprio intimo.
La relazione d’aiuto alla fine della vita
La parola relazione, tra i vari significati
che può evocare, ne assume uno che ha
un senso più profondo, ovvero quello che
indica la creazione di legami 1. Se tra due
o più persone, che intendono costruire
una relazione, non si creano legami, diminuisce in modo sensibile la possibilità di
comprendersi e di darsi aiuto. Una relazione prima di tutto è una relazione umana,
una esperienza in comune, una condizione che comporta sempre reciprocità. Una
dimensione ben diversa da una visione
oggettivante che spesso contribuisce a
creare solo rapporti di dipendenza tra chi
“aiuta” e chi è “aiutato”, dove non ci si
aspetta nulla di più da ciò che è preventivato e programmato e che di molto si
allontana da quel atteggiamento di amorevole cura che invece è lecito aspettarsi.
Alcune delle definizioni più conosciute sull’argomento citano:
“la relazione esprime un modo di essere”
“attraverso il rapporto con l’altro prendo
consapevolezza di me stesso”
“tanto più sono consapevole, tanto più si
realizza l’incontro con l’altro”.
Carl Rogers definisce così la relazione
d’aiuto:
”una relazione in cui uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro
la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato; una situazione in cui
uno dei partecipanti cerca di favorire, in
una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del
soggetto e una maggiore possibilità di
espressione”2 . Queste frasi e molte altre
ancora, possono suggerire che condividere una relazione con un’altra specifica persona che ha un suo modo di essere, significa generare un qualcosa di unico ed irripetibile, come ad indicare che ogni relazione è diversa dalle altre. Questa premessa può aiutare a capire, che nessuna relazione d’aiuto può assumere un valore davvero significativo se non è fondata su una
base costituita da una relazione umana.
Chiarito cos’è una relazione umana, bisogna fare un passo avanti per iniziare a
comprendere, quali sono i presupposti
perché si crei una relazione d’aiuto. Questo obiettivo permette di sviscerare quelle
che sono le motivazioni di chi si pone nella posizione di aiutare l’altro, di comprendere come queste inducono a scegliere le
professioni d’aiuto e soprattutto a che tipo
di bisogni rispondono. Spesso può essere
fatta una scelta di questo tipo sulla spinta
di fattori casuali, che magari, ad un certo
punto della vita, fanno si che ci si trovi
all’interno di una situazione nuova, tale da
suscitare necessità interiori fino a quel
momento mai provate, oppure può manifestarsi un desiderio istintivo mai maturato
prima. Viceversa, la relazione d’aiuto
richiama a delle associazioni con la solitudine, la fiducia, il senso di appartenenza, il
far parte di un certo mondo. Nei testi di
riferimento ,si apprende che secondo
alcuni studi, le motivazioni principali di chi
fa la scelta verso le professioni d’aiuto
sono 1 , 3 :
- Altruismo
- Generosità
- Il sentirsi utile
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Sentimento di solidarietà
Alto sentimento sociale
Identificazione con l’altro
Negazione dei propri desideri e bisogni
Realizzazione di sé attraverso l’appagamento dei sentimenti degli altri.
Se di fronte a questi dati ci si pone con
un atteggiamento analitico, si può tentare
di dare diversi significati alla motivazione,
oppure cercare di dividerla nelle sue diverse componenti. Una di queste, sembra
proprio essere quella parte che è legata
all’altro, ossia alla prospettiva di svolgere
un “compito” che è indirizzato verso un
qualcosa di diverso da se stessi. Altre
dichiarazioni, se prese in considerazione,
suggeriscono che altre parti della motivazione, portino la stessa ad essere legata al
proprio io e ad un bisogno personale.
Dopo aver parlato di cosa spinge una persona a fare la scelta verso una professione
d’aiuto, che può essere quella di insegnante, infermiere, sacerdote, medico,
maestro, avvocato, assistente sociale, psicologo, ecc…,è necessario chiedersi cosa
renda possibile una scelta così ampia tra
le varie professioni. La risposta più immediata che viene in mente, è che a tanti
diversi professionisti ricorrano altrettante
persone che maturano specifici bisogni di
diversa natura. Concetto semplice, intuitivo e quasi scontato, che fa capire come
l’altro grande protagonista che si trova
all’interno del contenitore “relazione d’aiuto”, sia proprio la persona bisognosa che
giustifica l’esistenza del professionista.
Quindi si può trovare una prima chiusura
del cerchio a questa presentazione introduttiva, sostenendo che, nella relazione
d’aiuto deve sempre essere mantenuta
una condizione di reciprocità, che giustifica la presenza dei protagonisti, uno rispetto all’altro. Continuando con l’analisi del
titolo della premessa dell’elaborato, non
rimane che focalizzarsi sulla parte che
contestualizza il tipo di relazione che è stata presa come riferimento e che le affida
una collocazione precisa e particolare: la
fine della vita. Precisa, perché si tratta di
una fase che nel vissuto di ogni essere
umano assume una posizione puntuale,
rispetto a quell’evento che rappresenta
l’unica certezza che ognuno di noi ha della propria esistenza : la morte. Mentre
descriverla come particolare sta ad indicare che anche se la morte è un evento certo per tutti , non significa però che sia
accettabile. La paura della morte è quasi
inevitabile 4, viene alimentata dal rischio di
veder cancellarsi tutto quello che si è giudicato prezioso, e ciò a cui si è dedicata la
propria vita. Riconoscere però l’origine
naturale della morte, significa darne un
senso di appartenenza alla vita stessa, che
prima cresce e matura e poi si dissolve.
Infermiere a Pavia
Ogni persona fa esperienza della morte
degli altri e non della propria, esperienza
che si fonda sulla base di legami e sulla
relazione tra il morente e chi lo assiste. Un
rapporto straordinario spesso fondato sul
vissuto del tempo passato condiviso insieme, ricordi e pensieri che confermano
l’unicità di quella relazione. Si crea un confronto quasi paradossale, dove c’è un protagonista che parte per un viaggio misterioso e tanto più si allontana, tanto più
spinge l’altro in un viaggio a ritroso nel
passato alla ricerca dei momenti più significativi quasi ad impedirne il distacco.
Si presuppone che una buona opportunità, sia ricercare gli strumenti necessari, per imparare a conoscere se stessi, prima di proporsi come “aiutanti” degli altri.
Quindi di essere nella condizione di saper
creare ed impostare la relazione d’aiuto,
ma anche di saperla sostenere attraverso
le conoscenze di base che:
• contribuiscano a formare nel professionista le capacità tecniche, necessarie
per fronteggiare le inevitabili sofferenze
fisiche causate dalla sintomatologia della malattia.
• permettano all’infermiere di mettere la
persona assistita nella condizione di
poter esprimere le proprie esigenze spirituali e quindi di soddisfare le stesse.
• consentano di occuparsi dei problemi di
natura sociale che aggravano la situazione della persona già colpita dalla
malattia.
• aiutino l’infermiere a coinvolgere la famiglia dell’assistito nel piano assistenziale.
Caratteristiche del malato terminale e
analisi delle varie componenti
Secondo le definizioni internazionali, la
fase terminale è riferita agli ultimi 3-6 mesi
di vita. L’obiettivo fondamentale delle Cure
Palliative (CP) è il miglioramento della qualità di vita residua sino alla morte, e ,
secondo la classica definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Le CP
sono rappresentate dall’insieme d’interventi terapeutici ed assistenziali finalizzati
alla cura attiva, totale di malati la cui malattia di base non risponde più a trattamenti
specifici. Fondamentale è il controllo del
dolore e degli altri sintomi e, in generale,
dei problemi psicologici, sociali e spirituali. L’obiettivo delle CP è il raggiungimento
della migliore qualità di vita possibile per i
malati e le loro famiglie. Molti aspetti dell’approccio palliativo sono applicabili
anche più precocemente nel corso della
malattia” 5. Uno degli aspetti fondamentali
che incidono sul benessere psicologico
del malato terminale, è disporre delle informazioni necessarie per raggiungere un
grado, individualmente variabile, di consapevolezza della propria malattia. L’offerta
di un’informazione veritiera (nel senso di
quella “verità” che il malato desidera
conoscere in quel tempo) è un dovere etico dell’équipe curante ed è, al tempo stesso, la precondizione per condividere la
pianificazione delle terapie attuali e future,
per aiutare il malato a dare al tempo che
precede la morte il senso che meglio si
adatta alla sua condizione fisica, psicologica, sociale e spirituale.
L’altra peculiarità del malato terminale
è l’evoluzione variabile del grado di consapevolezza e della sua esternazione; questo determina un andamento individuale
del processo decisionale, che risulta poco
standardizzabile nel tempo e nelle forme
in cui esso si viene progressivamente
manifestando. Gli orientamenti decisionali
in merito a questioni fondamentali quali: la
sospensione dei trattamenti chemioterapici o radioterapici, il passaggio più o meno
graduale alle CP, lo sviluppo di un piano di
cure palliative condiviso, il luogo ove ricevere tali cure e trascorrere le ultime settimane o giorni di vita (ad esempio domicilio o hospice), avvengono in tempi e modi
strettamente connessi con le caratteristiche individuali del malato e del suo nucleo
familiare. E’ in questa “intimità di fine vita”
che il malato, circondato dai suoi familiari
e supportato dall’èquipe di Cure Palliative,
inizia a percorrere un cammino dove è
presente una forte valenza emozionale
che si respira giorno per giorno con l’aggravamento della condizione generale e la
difficoltà nel controllo dei sintomi. Nel
nucleo familiare, le emozioni fanno parte
del vissuto di quel momento, mentre per
gli operatori quelle emozioni sono una delle caratteristiche del proprio lavoro, della
propria attività professionale. Infatti già
dalla presa in carico, gli operatori dell’èquipe raccolgono tutto il peso emozionale accumulato dal malato e dai suoi cari,
a partire dai primi sintomi e dalla diagnosi,
fino a quando si arriva alla cura di “quando non si può guarire” 6.
AREA FISIOLOGICA
Nella persona che non può guarire, la
malattia che progredisce comporta un
profondo cambiamento del fisico e la conseguente comparsa dei segni e sintomi
che la caratterizzano, con il trascorrere del
tempo, la rendono sempre più grave. Nella sua ultima fase, 7 la malattia, se non viene affrontata in modo adeguato con il più
idoneo trattamento terapeutico, oltre a
consumare il corpo e privarlo della propria
vitalità, spesso induce la persona colpita a
vivere l’esperienza del dolore fisico che è il
sintomo principale, il più disarmante, che
toglie ogni voglia di essere, che demolisce
qualunque aspettativa, che rende difficile
anche le attività fisiche più semplici. Esso
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si manifesta come un evento incessante,
che può durare giorni, a volte anche mesi
se non controllato adeguatamente con i
farmaci necessari, capace di togliere ogni
senso alla vita del malato. Tutti sono consapevoli che il dolore è sempre un’esperienza multidimensionale in cui esistono
due fattori: quello sensitivo, descritto dall’interessato con una relativa facilità e legato alla nocicezione, e quello emotivo che
comprende in sé tutte le risposte negative
per gli eventi emotivi rappresentati, come
la sofferenza che può scaturire dalla paura
per l’ignoto, dall’ansia, dall’isolamento 8.
La persona viene così travolta anche nella
sfera psichica dove si creano emozioni
negative che accompagnano il dolore
stesso ed una serie di altri sintomi, più o
meno gravi, che concorrono a generare
uno stato di “dolore totale” dove la sfera
fisica e quella psichica si confondono in
una totalità annientante. I sintomi più ricorrenti ai quali è associato il dolore fisico
sono la dispnea,la tosse, la nausea, il
vomito, l’inappetenza, la stipsi, il dimagrimento, l’astenia, problemi del cavo orale,
stomatiti, disfagie, lo stato confusionale 7.
Spesso se controllati, si assiste ad una
rinascita, anche se temporanea, che consente al malato di proseguire con più fiducia. Un’analisi più profonda di questi eventi, aiuta a capire in modo concreto, come
lo stato di avanzamento di malattia si
manifesta nel suo decorso fisiologico e ad
intuire , come la persona colpita lo viva
nella sua componente fisica.
• Sintomi legati all’alimentazione. Il malato
grave, spesso vive questo tipo di difficoltà.
Tra quelli già citati, dopo il dolore, nausea e vomito sono tra i sintomi più disturbanti. Il vomito, se insorge in seguito al
trattamento farmacologico con utilizzo di
chemioterapici, tende a regredire con la
sospensione della cura. Lo stesso sintomo
però, insieme alla nausea può essere conseguente al trattamento farmacologico
con utilizzo di oppioidi, soprattutto dopo i
primi giorni di somministrazione. Altre cause scatenanti sono da ricercare, nel tipo di
patologia da cui la persona è affetta (patologie del tratto gastrointestinale) ,nei gravi
stati di disidratazione, nei coinvolgimenti
del sistema nervoso centrale (metastasi
compressive sia a livello centrale che a
livello midollare). Anche i disturbi del cavo
orale, sono frequentemente legati all’utilizzo di chemioterapici o a trattamenti di
radioterapia, o all’uso di corticosteroidi
che in tale situazione possono favorire la
sovrapposizione di agenti infettanti batterici, virali e micotici. I sintomi che si possono manifestare sono le alterazioni del
gusto (disgeusie, ipogeusie), xerostomia,
stomatiti con ulcerazioni della mucosa del
cavo orale.
• Sintomi legati alla respirazione.
Tra i più gravi la dispnea, la sensazione
di fame d’aria, la difficoltà di ventilazione,
la tosse. La dispnea può originare da un
aumento della frequenza respiratoria
dovuta a ipercapnia, acidosi metabolica,
ipossiemia, anemia; può essere conseguenza di patologie ostruttive o restrittive
delle vie respiratorie, dello stato di cachessia o dell’ ipotonia della muscolatura scheletrica. La percezione della dispnea è soggettiva e non sempre è indicativa di un’alterazione del quadro diagnostico, essa
può essere correlata anche a stati di disagio psicologico, quali l’ansia e le crisi di
panico. La dispnea contribuisce ad aggravare lo stato di malattia, pur essendo una
sensazione soggettiva, induce la persona
ad associare la situazione vissuta all’idea
di morte. Uno stato capace di far insorgere un’angoscia pressante che genera nel
malato la paura di morire soffocato, la difficoltà ad addormentarsi per la paura di
non risvegliarsi. Ne consegue che la persona fatichi a recuperare durante il sonno
notturno, le energie necessarie ad affrontare l’insieme di “ostacoli” che riempiono
questa fase della vita. Situazione che induce un’alterazione del ritmo sonno-veglia,
che favorisce il riposo nei momenti in cui il
malato ha accanto a sé una figura famigliare, amica, che veglia sul proprio sonno. In questa fase anche gli altri sintomi
elencati come le alterazioni della meccanica ventilatoria e la tosse persistente contribuiscono al peggioramento delle condizioni di un quadro generale che è già precario.
• Stipsi. Il termine indica l’ evacuazione di
feci dure accompagnata alla difficoltà ed
alla diminuzione della frequenza di tale
funzione.
Le cause possono essere di natura
ostruttiva per la presenza di masse tumorali, di natura farmacologica, ,per uso di
oppioidi che diminuiscono il tono e la
motilità intestinale o di alcuni chemioterapici che presentano tossicità a livello del
sistema autonomo vegetativo; può essere
anche conseguente ad alterazioni di origine neurologica, metabolica, o a stato di
disidratazione, inappetenza , ridotta mobilizzazione, allettamento. Tutti questi sintomi, associati al dolore, concorrono nel
generare sofferenza nella persona che
vive la malattia in fase finale. Sofferenza
che colpisce l’uomo in uno qualunque dei
suoi elementi costitutivi: biologico, psichico, relazionale. Elementi che normalmente
mantengono un certo equilibrio ed insieme creano la globalità dell’uomo. Ne consegue che la sofferenza ed il dolore sono
in grado di creare rotture a vari livelli e
quelli che sono più facilmente riconoscibili agli occhi di chi si avvicina al sofferente
sono i segni che la malattia produce sul
corpo. Tracce oggettive che non possono
non essere viste, e che devono far pensare anche ai segni che la stessa scalfisce
nell’anima e nella mente.
AREA PSICOLOGICA
Dolore e sofferenza come già visto, nel
malato sono in grado di creare rotture a
vari livelli, oltre che con il proprio corpo,
anche con la propria psiche. ”La vita, invece che essere vissuta come un dialogo,
diventa un monologo che, in qualche
modo, trova la sua causa nel timore della
debolezza o della fragilità e nella paura
della dipendenza da altri” 8. Vivere la percezione del dolore ed il malessere fisico,
fanno si che nella mente della persona, si
crei la memoria dell’ esperienza vissuta,
che con il passare del tempo manifesta un
potere condizionante. Esperienza capace
di modulare la risposta comportamentale
della persona nei confronti delle situazioni
spiacevoli (dolore medesimo), che si ripresentano nel naturale decorso patologico.
Ecco che il pensiero può essere in grado
di indirizzare la risposta della persona,
rispetto al nuovo stimolo percepito a livello corporeo. Ad esempio da una parte ci
può essere una risposta positiva, grazie al
riconoscimento del dolore già vissuto nelle sue caratteristiche, che facilita la capacità di gestire il dolore stesso; dall’altra parte, riconoscere che la percezione del dolore è sempre più ricorrente può aumentare
la consapevolezza che il proprio stato di
malattia avanza, e quindi indurre nella persona stessa una serie di pensieri negativi.
Sentimenti che spesso portano ad una
profonda preoccupazione, allo sconforto e
depressione, tutte situazioni che concorrono a creare un forte disagio psichico. Il fatto di trovarsi di colpo in una nuova situazione, può generare una forte confusione,
dettata dal venir meno delle certezze, che
in un contesto di vita normale delineano
uno stile da seguire. Di conseguenza,
anche gli sforzi adattivi messi in atto per
fronteggiare la dura nuova realtà, possono
NOTE DI SEGRETERIA
Si rammenta che la tessera personale è il documento di riconoscimento del professionista. La tessera viene preparata dopo lo svolgimento delle procedure di iscrizione e può essere ritirata presso la segreteria del Collegio
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essere delle variabili che si caratterizzano
per valori estremi: c’è chi ricorre a meccanismi di difesa quali la negazione o la
rimozione della malattia, chi perde ogni
forza per combattere la stessa, chi risponde con l’immediata rassegnazione, chi
invece risponde con grande rabbia magari senza neanche sapere dove indirizzarla.
Diversi tipi di reazione, che comunque
danno alla persona la possibilità di esplorare confini e parti di sè che prima non
conosceva. Paradossalmente il solo fatto
di essere malati, permette di mostrare agli
altri le proprie paure, fragilità e disperazione, senza dover ricorrere a strategie alternative. Sentimenti che vengono da tutti
considerati leciti, se accostati alla sofferenza, mentre possono essere utilizzati come
delle etichette negative se manifestati nel
normale decorso della vita. Quindi, nella
fase avanzata di malattia, l’intensità del
dolore fisico ed emotivo e la consapevolezza di avvicinarsi all’evento morte, possono provocare uno stimolo potente ad
esprimere ciò che si sente ed a cercare ciò
di cui si ha bisogno 9. In un certo senso, la
condizione di malato permette di avere più
disponibilità e più ascolto da parte degli
altri. Situazione che offre la possibilità di
tirar fuori parole che non si sono mai dette
prima ai propri cari, di sciogliersi in lacrime
liberatorie, di rivendicare i propri sentimenti, di pretendere attenzione e sostegno. La
persona ha la possibilità, di guardarsi dentro per prendere coscienza di ciò che ha
attraversato nella vita, di riconoscere e dire
a se stessa che continuare senza amore,
considerazione e stima, vorrebbe dire
vivere una vita insostenibile.
AREA SPIRITUALE
Nell’ottica di voler illustrare, come la
malattia produce i suoi effetti attaccando
l’uomo nella sua totalità, dimensione che
si realizza grazie all’armonia con la quale
le parti costituenti si intrecciano tra loro, è
importante ricercare il significato della spiritualità nel sofferente. Che cos’è lo spirito? La dimensione spirituale è la spinta, la
tensione grazie alla quale l’uomo comprende il “perché” di ciò che vive, fa o non
fa 10; è quello spazio intimo in cui ogni persona può decidere di vivere in dignità e
benessere, nonostante le situazioni avverse. Nella globalità dell’uomo l’aspetto spirituale è quello che comprende sia l’aspetto psichico che quello corporeo come parti di un’unica interezza. Per chi la vive,
l’esperienza spirituale, insieme alla preghiera, la meditazione, alle relazioni interpersonali basate sull’empatia e l’amore, è
parte fondamentale di un progetto di vita,
capace di integrare tutte le esperienze,
positive o negative, interiori o esteriori che
compongono il cammino nell’esistenza.
Infermiere a Pavia
Progettare la propria vita, significa dare
alla stessa un certo indirizzo ed un certo
ordine, alla ricerca dell’integrazione delle
risorse fisiche, mentali e spirituali. Darsi un
obiettivo di vita, vuol dire rifiutare il disordine degli eventi che riempiono l’esistenza
delle persone che vivono la vita solo in
modo fatalista. Perseguirlo con volontà
significa ricercare una strada che porti ad
una continua trasformazione e crescita
interiore.
“Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Salvici Doloris, 22, anno 1984, ha
affermato che nel corso della vita: la sofferenza è anche una chiamata a manifestare
la grandezza morale dell’uomo, la sua
maturità spirituale. Tale maturità può consistere nello scoprire un nuovo o rinnovato
motivo per cui vivere, grazie al quale superare (quel) -se stesso- così limitato dal
male. L’uomo insomma anche se non è
contento del dolore, può essere sereno e
felice grazie alla validità dei motivi che lo
fanno vivere. Se ha motivi e valori ,vive e
può farlo anche bene. Se non ne ha o li ha
persi, oppure è in un momento di confusione, rischia di non trovare appagamento
e serenità nella sua esperienza”10. Chi soffre perde spesso la pace interiore, ovvero
quella sensazione di vivere una vita in
armonia, che ha un senso, accanto alle
persone amate. Senza di questo, si perde
la capacità di fare pensieri positivi, si viene
travolti da quelli negativi che accrescono
la paura di vivere, peggiorandone la situazione. Peter Roche de Coppins sostiene
che “la patologia e la malattia sono l’opposto della salute e della fede. In primis, è
essere estranei a se stessi, essere separati dal proprio Sé spirituale; è ignorare chi
siamo, da dove veniamo, dove andiamo e
perché siamo su questa terra; è non sapere perchè viviamo certi eventi, è ignorare
qual è il nostro compito e ciò che Dio e la
vita si aspettano da noi. E’ avere perduto
la pace o armonia interna, il nostro vero e
proprio Sé”11. Inoltre, bisogna considerare,
che ogni individuo nella sua unicità ha una
propria spiritualità, capace di esprimersi
con diverse caratteristiche e quindi nel
malato terminale con bisogni diversi per
ogni individuo. Secondo Angelo Brusco
superiore dei Camilliani i bisogni spirituali
del morente sono 7:
- L’esigenza, da parte del morente di
essere e continuare ad essere considerato un soggetto.
- La ricerca di un significato della vita e
dell’esperienza vissuta nell’approssimarsi della morte.
- La riconciliazione.
- La solidarietà, la vicinanza delle persone
più care.
- La ricerca di qualcosa di essenziale e
l’interrogativo su cosa c’è oltre la morte
e sull’esistenza di Dio.
- La separazione, il bisogno di dire addio.
AREA SOCIALE
La società odierna è diventata multietnica, caratterizzata da un’elevata variabilità culturale che si esprime anche per
quanto riguarda gli eventi fondamentali
della vita: la nascita, l’accrescimento, l’ingresso nel mondo degli adulti, la malattia,
la morte 12. Ne consegue che l’evento morte, ultimo in ordine cronologico viene condizionato da tutti gli altri che l’hanno preceduto nel corso dell’esistenza. Eventi che
caratterizzano ogni diversa cultura, che si
manifestano come un insieme organizzato
di segni di riconoscimento sociale, al fine
di dare ad ogni società che si vorrebbe
immortale, un’identità propria, che possa
contribuire a lottare contro il potere della
dissoluzione individuale e collettiva 13. Nella cultura occidentale, la differenza tra fede
e scienza è ben marcata e in alcuni contesti le rende contrapposte, mentre in altre
culture non c’è separazione, ma una sorta
di continuità. In occidente, nell’epoca contemporanea, l’evento morte viene “negato”, è un qualcosa che non deve essere
nominato, che va nascosto, così come viene nascosta la sofferenza con tutti i suoi
aspetti che vengono preferibilmente affidati ad estranei. Oggi, alcuni parenti tendono
a nascondere la malattia grave al proprio
caro, ad evitare che il medico comunichi al
malato stesso la prognosi infausta, a non
parlarne. I malati sempre più spesso muoiono isolati negli ospedali e negli hospice
e proprio questo aspetto di solitudine, di
emarginazione e di abbandono li porta di
sovente alla disperazione; anche il lutto
che segue subisce una specie di condanna sociale, che non gli da il tempo necessario perché il suo decorso naturale si
completi, tanto che un dolore protratto viene ormai considerato di pertinenza dello
psicologo o dello psichiatra. Sul piano biologico, nella logica della vita che si riproduce e si rinnova, la morte rimane una
necessità, che però si scontra con la ricerca del progresso infinito che spinge l’essere umano verso la salute totale, attraverso
l’eliminazione di tutte le malattie, verso
l’autoillusione che la morte quasi non debba esistere perché la società è cambiata.
Nell’Europa medioevale la morte era molto più visibile di oggi, mentre per noi essa
tende ad essere un argomento che sfugge
a qualsiasi discussione 14. Spesso si dà
per scontato che la gente sia terrorizzata e
si sfugge dall’argomento anche con le persone che vivono l’ultima parte della propria vita. Secondo Elisabeth Kubler-Ross,
l’adattamento all’imminenza della morte è
un processo concentrato di socializzazione che prevede diversi stadi. Il primo di
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essi è il rifiuto: l’individuo non vuole accettare ciò che sta accadendo. Il secondo
stadio è quello della collera, diffuso in particolare tra coloro che muoiono relativamente giovani, i quali provano risentimento per il fatto di essere defraudati della normale durata di vita. Segue uno stadio di
patteggiamento: l’individuo stringe un
accordo con il destino, o la divinità in cui
crede, offrendosi di morire in pace se gli
verrà concesso di vivere abbastanza per
assistere a un qualche evento particolare,
come un matrimonio o una nascita. Dopodiché il soggetto cade spesso in uno stato
di depressione. Infine se riesce a superare
questa fase, egli arriva all’accettazione,
raggiunge cioè un atteggiamento di serenità di fronte alla morte che si avvicina.
Nelle culture tradizionali, in cui i bambini, i
genitori e nonni vivono spesso nella stessa unità familiare, c’è di solito la chiara
consapevolezza del rapporto tra la morte e
il succedersi delle generazioni. I singoli si
sentono parte di una famiglia e di una
comunità che continuano ad esistere indefinitamente nonostante la transitorietà dell’esistenza individuale. In tali circostanze è
forse possibile guardare alla morte con
meno ansia che nel contesto sociale del
mondo industrializzato, individualistico e
in continua rapida trasformazione.
AREA INFERMIERISTICA
Accostare la professione infermieristica agli elementi fondamentali che costituiscono l’uomo nella sua interezza, sfera
fisiologica, psicologica, spirituale e sociale, equivale al tentativo di costruire un
sistema di base, che metta sullo stesso
piano, tutte le componenti su cui si fonda
la relazione d’aiuto con una visione sistemica di tutte le parti che entrano in gioco.
Questo non significa avere la pretesa di
imporre la componente infermieristica,
come un elemento che per forza di cose
deve essere considerata fondamentale,
quindi presente in ogni situazione di sofferenza e malattia. Piuttosto si intende analizzare come essa si disciplina rispetto
all’argomento, prendendo spunto dalle
norme etico morali indicate nel rispettivo
codice deontologico. Per avere una visione più completa del contesto, diventa
importante chiarire quali siano i riferimenti
che guidano l’assistenza infermieristica
nel prendersi cura, ed affiancarli agli elementi costitutivi dell’uomo.
Marta Nucchi ne sottolinea l’importanza sostenendo che: “per la persona alla
fine della vita probabilmente sarebbe
importante conoscere il codice deontologico dell’infermiere” 15.Questa conoscenza
potrebbe essere utile, al fine di evitare
richieste spinte dalla disperazione del sofferente, che spesso non tengono conto
che dall’altra parte c’è un professionista
che regola il proprio agire con riferimenti
specifici. Si elencano i seguenti punti del
codice deontologico 16:
1.3 La responsabilità dell’infermiere consiste nel curare e prendersi cura della persona, nel rispetto della vita,
della salute, della libertà e della
dignità dell’individuo.
2.4 L’infermiere agisce tenendo conto
dei valori religiosi, ideologici ed etici,
nonché della cultura, sesso ed etnia
dell’individuo.
4.2 L’infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al
fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all’assistito
di esprimere le proprie scelte.
4.3 L’infermiere, rispettando le indicazioni espresse dall’assistito, ne facilita i
rapporti con la comunità e le persone per lui significative, che coinvolge
nel piano di cura.
4.9 L’infermiere promuove in ogni contesto assistenziale le migliori condizioni possibili di sicurezza psicofisica
dell’assistito e dei familiari.
4.12 L’infermiere si impegna a promuovere la tutela delle persone in condizioni che ne limitano lo sviluppo o
l’espressione di se, quando la famiglia o il contesto non siano adeguati
ai loro bisogni.
4.15 L’infermiere assiste la persona, qualunque sia la sua condizione clinica e
fino al termine della vita, riconoscendo l’importanza del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale,
spirituale. L’infermiere tutela il diritto
a porre dei limiti ad eccessi diagnostici e terapeutici non coerenti con la
concezione di qualità della vita dell’assistito.
4.16 L’infermiere sostiene i familiari dell’assistito, in particolare nel momento della perdita e nella elaborazione
del lutto.
Appare evidente, leggendo i molti punti dedicati al prendersi cura, come l’assistere infermieristico sia centrato sulla persona che viene considerata nella sua globalità, un essere titolare di una serie di
diritti, valori ,volontà, preferenze e capacità. Nei paragrafi precedenti, la sofferenza
è stata descritta come un qualcosa capace di colpire l’uomo in uno dei suoi elementi costitutivi, alterandone il normale
equilibrio su cui si regge la globalità dell’essere umano. Stabilità che identifichiamo anche con il nome di omeostasi, che
sappiamo essere il fondamento su cui si
basa il concetto di salute. Nella Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità, la salute viene definita come “stato
di completo benessere fisico, psichico e
sociale e non semplice assenza di malattia” e viene considerato come un diritto
fondamentale a favore di tutte le persone.
Partendo da questo concetto fondamentale si identifica l’infermiere come un operatore sanitario, vale a dire quel professionista che ha la sua ragione di esistere solo
se svolge attività che “producano salute”
per le persone che sono in situazione di
bisogno sanitario 8.
LE EMOZIONI
Il significato etimologico della parola
emozione è quello che indica il movimento che dall’interno si dirige verso l’esterno17. Le emozioni nascono all’interno di
ogni individuo per poi volgersi al di fuori di
esso, verso l’ambiente che lo circonda e
che fa parte del suo stesso mondo. I vari
tipi di emozione possono manifestarsi in
diversi modi, è quindi possibile provare a
distinguerli, grazie ad alcune caratteristiche: i comportamenti esteriori, le espressioni del volto, le sensazioni fisiche, le
componenti cognitive, le reazioni psicofisiologiche. Esistono emozioni innate ed
altre apprese, le prime non sono condizionate dal contesto culturale e costituiscono
un patrimonio di base utile ad affrontare in
qualsiasi momento le difficoltà della vita.
Altre emozioni invece nascono e si sviluppano a seconda della cultura o del territorio in cui maturano, e si adeguano sulla
base di specifici bisogni e necessità. Esse
sono al centro sia della vita individuale che
di quella sociale e ricoprono un ruolo fondamentale nelle relazioni interpersonali. Le
emozioni sono la paura, la collera ,la gioia,la sorpresa,il disgusto, la tristezza, sono
espressioni fisiologiche di breve durata ,
immediate, intense che si sviluppano
come risposta agli eventi difficili. Si manifestano in uno spazio temporale che ha un
inizio, un periodo di espressione limitato a
cui segue una fase di riduzione ed un
insieme di modificazioni fisiologiche e di
espressioni corporee tipicamente caratteristiche. Si differenziano dai sentimenti e
dall’umore, perché essi invece si manifestano in un periodo più lungo, con un’intensità meno elevata. Per avere dei sentimenti, è necessario che gli eventi vengano
confrontati con la propria esperienza, con
i valori personali, con quelli della propria
collettività. Questo tipo di lavoro interiore,
che spesso si compie in un periodo di lunga durata, può quindi portare alla creazione di stati d’animo riconoscibili con
espressioni quali l’amore, l’amicizia, la
nostalgia. L’espressione delle emozioni
avviene prevalentemente tramite il canale
della comunicazione non verbale. Ognuna
di esse può essere accostata ad una tipica
espressione facciale, ad esempio, la tri-
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stezza è caratterizzata dalle sopracciglia
sollevate,dalle rughe sulla fronte che scendono verso i lati. Sempre le sopracciglia
sono invece abbassate nella rabbia, dove
lo sguardo è duro e le labbra sono compresse. Nell’espressione gioiosa si ha l’innalzamento delle guance e degli angoli
della bocca. In una persona sorpresa si
possono notare sopracciglia rialzate,
rughe orizzontali sulla fronte, e la bocca
che può essere aperta. Il disgusto viene
manifestato con l’arricciarsi del naso e il
sollevarsi del labbro inferiore. Un’altra
importante via di comunicazione delle
emozioni è quella del contatto fisico, il solo
fatto di toccarsi permette di scambiare
innumerevoli messaggi di facile interpretazione. Basti pensare ai malati che si trovano ricoverati nelle aree critiche, nelle maggior parte dei casi e l’unico modo che hanno a disposizione per comunicare con i
propri cari. Un contatto caloroso trasmette
sicurezza, senso di partecipazione, incoraggiamento; anche durante il colloquio, il
tocco o la stretta di mano, possono essere strumenti utili a rafforzare il senso di piacere provato durante il confronto verbale.
In particolare durante la malattia, nella persona colpita aumenta la necessità di sentirsi sicura e protetta, a fronte delle insidie
sempre più frequenti che tolgono ogni certezza. Soprattutto nelle patologie che provocano isolamento sociale come AIDS o
alcune forme tumorali che hanno conseguenze sul piano estetico, l’essere toccati
da altri, può far tornare la consapevolezza
di non apparire in modo ripugnante, e
quindi aumentare la sensazione di sentirsi
ancora accettati. Un altro mezzo delle
espressioni emotive è lo sguardo, in quanto nelle situazioni positive come gioia, speranza, felicità, vi è un aumento del contatto oculare, mentre nelle situazioni negative
come vergogna, imbarazzo, colpa, si ha
una tendenza all’abbassamento ed alla
deviazione dello sguardo. La gestualità
rafforza i concetti di chi sta parlando ed è
un mezzo utilizzato per dare enfasi a ciò
che si sta comunicando. Anche il tono della voce viene considerato determinante
nell’espressione emotiva, la ricerca ha
messo in luce come ad ogni emozione
corrisponde un preciso profilo vocale. Ad
esempio la paura è espressa in modo sottile, molto tesa e stretta, ed esprime la condizione di impotenza di fronte ad una
Infermiere a Pavia
minaccia. La collera è caratterizzata da un
aumento dell’intensità della voce, dalla
presenza di pause molto brevi o inesistenti. La gioia è caratterizzata da una tonalità
molto acuta e da una sua intensità progressiva. La tristezza è manifestata da un
tono basso, dalla presenza di lunghe pause. Inoltre fra i canali della comunicazione
non verbale va ricordata anche la postura:
la posizione del corpo può trasmettere
l’ansia, il distacco o la difficoltà nei confronti dell’emozione e del problema esistente.
Le emozioni
Le emozioni del malato e dei suoi familiari
La paura è un’emozione primaria che
in caso di malattia è molto presente21, essa
trasmette sensazioni che suscitano un
senso di abbandono e tradimento da parte del proprio corpo il quale risponde sempre meno alle esigenze necessarie andando incontro ad una fine che non è programmata. Il fatto di non poter più contare
sulle proprie forze, genera uno stato di
incertezza totale, si ha paura dell’ignoto, di
tutto ciò che potrebbe accadere, dato che
non si ha più il controllo dei propri mezzi.
Durante il corso della vita, la paura ha la
funzione di attivare le difese rispetto alle
aggressioni esterne. Nella malattia grave
matura la convinzione che qualcosa all’interno del proprio corpo sia capace di
assumerne il controllo, un qualcosa che
lavora in modo ingannevole, sempre pronto a ricordare che non si è più padroni del
proprio destino. La malattia rappresenta
un avversario che può vincere in qualsiasi
momento. Quindi è necessario tenere
sempre alto il livello di attenzione, non
abbassare mai la guardia. La paura in questo caso si conferma una difesa, in quanto
spinge la persona ad una reazione che
spesso implica il voler coinvolgere i familiari, gli operatori sanitari, le persone più
care e allo stesso tempo, aumenta anche
la volontà di informarsi e documentarsi nel
tentativo di controllare la paura data dall’impotenza. Alla lunga questo atteggiamento si trasforma in ansia che di per sé
non è un fenomeno patologico, infatti esso
rappresenta un meccanismo utile all’adattamento ed alla sopravvivenza, ma l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di un
evento negativo futuro comporta la com-
NOTE DI SEGRETERIA
Le procedure di iscrizione consentono di accettare domande con la semplice certificazione di conseguimento del titolo abilitante. Si rammenta che ai sensi della normativa vigente è indispensabile consegnare copia del titolo di studio non appena possibile. Chi non avesse ancora provveduto è invitato a farlo con cortese sollecitudine.
parsa di sintomi fisici di tensione, in un
insieme già compromesso 22. L’ansia infatti è un costrutto bidimensionale, che implica tanto aspetti cognitivi (un’attività mentale connotata da anticipazione, apprensione, angoscia, preoccupazione) quanto
aspetti psicofisiologici (un’attivazione del
sistema nervoso autonomo e la produzione di veri e propri sintomi neurovegetativi).
Quando una malattia esiste già, l’ansia si
manifesta sulle possibili conseguenze, sui
peggioramenti, sulla modificazione delle
terapie o sulla necessità di ulteriori esami.
Si ha poi il timore di essere abbandonati
dalle persone più significative, aumenta il
desiderio di averle come compagne di
viaggio, ma allo stesso tempo non si vuole creare disturbo e sentirsi un peso per gli
altri. “La paura del morire d’altra parte, si
può vincere, se la persona sofferente ha la
consapevolezza che chi ha vissuto con lei
nella vita, anche nella morte non può
dimenticarla ma continuerà a desiderarla
ed amarla. Sapendo questo il dolore terminale non sarà più insensato: il morente ha
la possibilità di vivere la sofferenza, per
lasciare ai propri cari non l’incomprensione del dolore finale, ma il senso di chi non
rifiuta la vita .
La speranza consiste nell’attesa viva e
fiduciosa di un bene futuro 24. E’ una sensazione che proietta verso il proprio futuro,
chi la coltiva ha la consapevolezza di avere molto tempo davanti , risorsa indispensabile per poter progettare qualsiasi cosa.
Nella malattia grave, diminuisce la sensazione di avere molto tempo a disposizione,
vengono meno le basi per ogni tipo di progetto e di conseguenza cambia anche la
visione del proprio futuro 21. I desideri
manifestati riguardano il tempo imminente,
“si vive alla giornata” sperando di poter
trascorrere nel miglior modo possibile i
giorni che rimangono. Si modifica il tipo di
aspettative, non si fa conto sulla quantità
del tempo rimasto, ma si aspira a vivere il
meglio possibile, riducendo al minimo gli
eventi difficili (dolore ed altri sintomi), tipici
del fine vita. Nella speranza c‘è sempre il
coinvolgimento di altre persone, il malato
cerca di tranquillizzare i propri cari, nei
momenti in cui non percepisce il dolore o
altre sensazioni spiacevoli, cerca di ostentare serenità e di ristabilire l’armonia. Nei
momenti in cui viene meno il senso di
oppressione dato dai pensieri negativi,
può emergere il desiderio di abbandonarsi ad una visione più rilassata, magari fondata su basi totalmente irrazionali, oppure
ci si può aggrappare a qualche notizia
positiva (riscontri invariati di esami, presunti miglioramenti ecc..) per costruirsi
una qualche illusione, capace di scavalcare la sofferenza. Una volta raggiunta la
consapevolezza dell’inutilità delle cure, la
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persone tendono ad affidare il loro destino
alla propria parte spirituale. Elemento
capace di dare comunque un senso alla
vita, anche nell’ultima fase, dato che in
questa componente viene intesa come
una parte fondamentale nel progetto dell’esistenza.
La paura , come già visto, ha la funzione di far scattare uno stato di allerta capace di raggruppare le risorse interne, per
poi convogliarle e trasformarle in mezzi di
difesa da schierare contro ciò che minaccia dall’esterno, la rabbia. Durante la
malattia, questo può voler dire attrezzarsi
per combattere la stessa, piuttosto che
voler fuggire. Atteggiamento che ha il
significato di voler accettare una sfida che
implica un’inevitabile e gravoso dispendio
di energie. La persona che sviluppa questo tipo di reazione, sa che dovrà iniziare
una lotta, conosce in parte le armi di cui
dispone, si informa sulle caratteristiche del
nemico, ma non sa quanto durerà la battaglia e soprattutto se la vincerà. Anche se il
decorso di una patologia dal punto di vista
fisiologico può essere più o meno ipotizzabile, non si può dire che il vissuto di malattia sia un processo standardizzabile. Proprio perché è coinvolta la persona nella
sua unicità, se non ha mai affrontato questa esperienza di vita, non può conoscersi
a pieno. Ne consegue quindi che non è
possibile effettuare un inventario delle
risorse disponibili, mossa che permetterebbe a priori di effettuare un bilancio
rispetto all’impegno richiesto dalla situazione e che porterebbe ad un riscontro
chiaro sulle reali possibilità di poter guarire. La persona che decide di combattere,
da subito investe tutte le proprie forze, nel
momento che si accorge che queste sono
vane, tutta l’energia accumulata si trasforma in rabbia. Emozione che si ripercuote
inevitabilmente a livello comportamentale,
che si manifesta con scatti d’ira, con
discussioni accese che non arrivano mai a
delle conclusioni, con l’espressione dell’aggressività nei confronti di altre persone, dei fattori scatenanti o di oggetti. Il tutto contribuisce a dare un’immagine negativa dell’interessato, dall’esterno non si
comprende come non riesca a controllarsi, mentre invece bisognerebbe comprendere che è in atto un meccanismo di sfogo. Un altro meccanismo di difesa per
controbattere l’avanzata inarrestabile del
nemico. Emerge una tendenza all’isolamento, alla chiusura che può arrivare fino
alla chiusura di ogni colloquio. In realtà,
l’espressione della rabbia, comunica un
profondo disagio, un enorme accumulo di
speranze ed energie che non hanno una
risposta positiva, ed è indicatore di un
grande desiderio di cambiamento e di una
richiesta d’aiuto.
Prendere coscienza di ciò che accade
giorno per giorno non è mai semplice, in
modo particolare quando si vive una situazione ricca di variabili che non dipendono
dalla propria volontà e dove è presente un
continuo alternarsi di differenti stati d’animo. Anche se si è visto che il vissuto di
malattia non è un processo identico per
tutti, va però detto che in esso si susseguono degli eventi “tipici” quasi a segnare
il tempo che passa, come le lancette dell’orologio che si avvicinano all’ora in cui
abbiamo puntato la sveglia. Quando non
si riesce a prendere sonno, si sa che l’ora
scelta arriverà, si continua a guardare
l’orologio e ci si accorge che alcuni minuti
non passano mai, mentre delle ore intere
volano via e ci si sveglia al chiassoso
squillare come se si avesse perso la condizione del tempo, quasi di sorpresa.
Durante il decorso della malattia grave,
nelle fasi dove essa viene affrontata in
modo attivo con le classiche cure terapeutiche, chemioterapia, chirurgia, radioterapia, può essere difficile comprenderne fino
in fondo la gravità. La speranza riposta
nell’efficacia delle cure a cui ci si sottopone, distoglie dalla drammaticità del contesto ed impedisce di focalizzare quali siano
le reali possibilità di uscirne. Quindi ci si
sottopone alle cure fiduciosi, ma nonostante ciò ecco presentarsi puntuali i sintomi caratteristici che indicano l’aggravamento. Si continua, ma regolarmente si
assiste ad una rivoluzione del piano terapeutico 21, infatti i farmaci prescritti e somministrati aumentano sempre di più, indicatori dai quali non si può fuggire. Allora la
persona cerca di attribuire il tutto a cause
secondarie, agli effetti della terapia, ad un
intervento chirurgico, ad un’infezione che
l’ha colta di sorpresa, ad una febbricola
trasmessa da chissà quale parente che è
andato a trovarla. Tutto, basta che non sia
riconducibile alla ragione principale, altrimenti sarebbe come certificare la gravità
della situazione. Chi è ammalato, sa che i
sintomi, il dolore, le terapie, hanno un
significato preciso di cui è perfettamente
consapevole, ma cerca di effettuare degli
spostamenti sulla visone del futuro, al fine
di scovare spiragli di guarigione che altrimenti sembravano nascosti. La vera consapevolezza, ma soprattutto la sua esternazione spesso avviene solamente negli
ultimi giorni di vita, dove coincide con la
rassegnazione.
Le varie fasi attraverso le quali un individuo passa nel corso della propria esistenza, sembrano essere biologicamente
determinate: dall’infanzia alla maturità ed
infine alla morte. Ma allo stato dei fatti queste fasi sono determinate anche da un
natura sociale oltre che biologica. Esse
sono influenzate dalle differenze culturali e
dalle condizioni materiali di vita appartenenti ad ogni tipo di società 14. Nell’occidente moderno ad esempio, si pensa alla
morte come ad un evento collegato alla
vecchiaia dal momento che per la maggioranza degli individui la durata della vita
raggiunge e supera i settanta anni. Questi
elementi insieme ad altri fanno presumere
che ogni uomo che goda di libertà, possa
scegliere o tentare di programmare il proprio percorso con responsabilità. Decisioni che, a seconda della fase che si sta
attraversando, portano a confrontarsi con
svariati temi quali la scelta del percorso di
studi, di un settore lavorativo, di un legame affettivo, del matrimonio, dell’avere dei
figli e provvedere alla loro educazione,
l’amministrazione del bilancio economico
familiare, la responsabilità sul lavoro nei
confronti dei colleghi o dipendenti, la partecipazione ad eventi di interesse sociale e
culturale, il pensionamento, l’aiuto alla
famiglia dei propri figli, i legami con i nipoti ecc.. Momenti che, in alcuni casi, creano
l’identità di ogni persona e che progressivamente ne certificano un età sociale
parallela all’invecchiamento biologico. La
malattia è un evento non programmato,
che nella maggior parte dei casi fa la sua
comparsa quando non la si aspetta. Tra le
emozioni che comporta ve ne sono alcune
che sono legate al ruolo sociale. La permanenza in ospedale, le cure domiciliari,
comportano un distacco dalla vita pubblica e dall’impegno lavorativo. Il malato ha il
timore di non venire più riconosciuto nel
suo ruolo oppure di costituire l’oggetto di
osservazioni e critiche. All’interno della
famiglia, può venir meno l’armonia dove si
ripercuotono la rabbia, il senso di impotenza e tutte le varie tensioni. Il genitore
che ricopriva una veste di coordinamento
ed assistenza nei confronti dei figli, si trova a dipendere da loro. Il coniuge tende ad
assumere una posizione dominante, dove
si impegna sì nell’accudire ma spesso prevale anche nelle decisioni con la scusa di
fare il bene per l’assistito. La persona può
perdere anche il controllo finanziario della
propria attività lavorativa in quanto gli
impegni burocratici vanno assolti in orari
precisi della giornata, orari che spesso
coincidono con le visite mediche, le sedute terapeutiche, le medicazioni, gli esami
diagnostici, la fisioterapia e si sa che sportelli bancari, postali o di altri enti non
aspettano nessuno. Non lavorando, inevitabilmente, si riducono i guadagni ed ecco
prevalere le preoccupazioni per le scadenze di fine mese, il mutuo, l’affitto, gli studi
dei figli e tutte le altre spese. Inoltre, col
progredire, la malattia diventa sempre più
visibile e lascia segni indelebili. Sul volto si
nota il colorito che cambia, la magrezza o
il gonfiore sono sempre più evidenti, la fati-
26
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ca obbliga a movimenti più pacati, tutti elementi che creano una diversità se ci si
confronta con il mondo dei sani. Gli amici
ed i parenti che arrivano in visita, sembrano diversi, e diverso può anche sembrare
il modo in cui la persona si sente osservata. Percezioni che possono marcare un
senso di esclusione dal gruppo di cui si è
sempre fatto parte. Può emergere la tendenza a tagliare i rapporti con le persone
che appartengono alla categoria dei
‘conoscenti’ viceversa può aumentare il
desiderio di sentire più vicino a sé i propri
cari, persone che fanno parte della propria
intimità e nei confronti dei quali non si prova nessun tipo di imbarazzo. Purtroppo
non sempre le famiglie riescono a dare
una risposta efficace. Una lunga assistenza comporta delle scelte che non tutti
sono in grado di sostenere a causa di
motivi organizzativi e lavorativi. Il malato si
trova a lottare tra il desiderio di avere
accanto a sé le persone amate e la paura
di provare un’inevitabile solitudine. Il cambiamento della propria vita sociale e familiare accompagnato dalla modifica della
propria immagine fisica risultano essere
esperienze di perdita che rendono evidente il proprio declino. Questa consapevolezza suscita tristezza che può anche
aumentare se si pensa al dolore e alla
disperazione provati dalle persone più vicine. La persona può addirittura essere invasa da un senso di colpa che la fa sentire la
causa di tutto questo malessere. La tristezza, essendo un’emozione, spinge verso
un’azione ed in questo frangente la reazione umana può portare ad una vera e propria risposta patologica ovvero la depressione. Essa si può innescare quando tristezza, pessimismo e scoramento, durano
per un periodo molto prolungato. La
depressione si manifesta con una sintomatologia che spesso si confonde con
quella della malattia di base. Inappetenza,
sonnolenza, astenia, difficoltà d’attenzione
e di concentrazione sono frequentemente
riscontrabili anche nelle persone malate
che non sono depresse. Questo rappresenta un’ulteriore complicanza perché si
corre il rischio di accorgersi di tale patologia solo quando è già concomitante alla
malattia stessa.
Le emozioni dell’Infermiere
L’infermiere nel prendersi cura prova
emozioni e sentimenti 25: il confronto con le
emozioni dell’altro può risvegliare esperienze e vissuti personali che lo possono
avvicinare o allontanare all’altro. Tipicamente le emozioni trasmettono una forte
carica a chi le prova, esse sono in grado di
far stare molto bene o al contrario malissimo tanto che spesso vengono descritte
come qualcosa che colpisce al cuore o
Infermiere a Pavia
allo stomaco. Esse sono sensazioni che
rispecchiano un meccanismo fisiologico
avvenuto nel cervello, nella mente. Se
l’operatore non ha coscienza dei propri
sentimenti e delle proprie reazioni emotive
può avere difficoltà nel controllare la propria emotività durante la relazione con il
malato. Infatti mentre si vivono le emozioni
dell’altro il cervello può paragonarle per
somiglianza a qualcosa che è già avvenuto in passato suscitando delle reazioni che
l’operatore aveva già sperimentato precedentemente 26. La persona malata ed il suo
nucleo familiare, coinvolto nella malattia,
espongono l’operatore di cure palliative
ad una grande quantità di emozioni, ad
alta intensità, che obbediscono alla legge
della somiglianza. Per questo le emozioni
del paziente e della sua famiglia diventano
anche le emozioni dell’operatore. In questo contesto, nel processo del prendersi
cura, non sempre è possibile raggiungere
degli obiettivi definitivi; in alcuni casi l’unica soluzione applicabile è quella dell’essere presenti, dello stare accanto condividendo con il malato il suo stato. Questa
condivisione è possibile qualora l’infermiere sia disposto sia ad osservare la sofferenza dell’altro che ad accettare le emozioni che questa rimanda. Assumere un
atteggiamento di supporto emotivo esprime la disponibilità da parte dell’infermiere
ad attraversare con lui quell’esperienza,
dove magari non sono possibili soluzioni,
risposte o prospettive positive ma nonostante questo l’infermiere manifesta la
volontà di stargli accanto 25. Egli potrà proporsi in questo modo solo se sarà capace
di identificare e gestire in modo adeguato
le proprie emozioni poiché questo processo gli tornerà utile per riuscire meglio ad
interpretare le emozioni che gli vengono
offerte dagli altri evitando quindi di allontanarle per il troppo timore. Se l’infermiere
aiutante non ha più paura delle sue emozioni, diminuisce le difese nei confronti
delle emozioni del malato. Si creano quindi le condizioni nelle quali l’infermiere può
restituire i sentimenti che appartengono al
malato attraverso la comunicazione dello
stato d’animo che il comportamento del
malato ha provocato in lui. Il contesto delle cure palliative, per un malato, è indicatore palese della malattia e della sua gravità.
Nel decorso della stessa si alternano
periodi più o meno negativi che danno
riscontro nel rapporto relazionale che si
instaura con la persona e la sua famiglia.
Questo comporta per l’infermiere di sentire, da una parte, il calore della riconoscenza per l’assistenza erogata ma dall’altra, la
sua presenza, sottolinea lo stato di gravità
della condizione dell’altro e di conseguenza l’accoglienza può raffreddarsi 26. Nella
continuità del rapporto, i fattori che incido-
no sul coinvolgimento emotivo dell’infermiere, sono vari: alcuni riguardano la
somiglianza tra le parti come per esempio
l’età del malato o di un familiare, la condizione sociale, la condizione economica o
la conoscenza precedente, altri sono
determinati dal tempo in cui si prolunga
l’assistenza. Essi possono portare a vivere
con maggiore intensità i problemi e le
dinamiche della famiglia nei quali, più o
meno consapevolmente, si può essere
coinvolti. Si può incorrere in situazioni di
disagio emotivo anche nel momento in cui
l’infermiere si pone l’obiettivo di aiutare il
malato a vivere il proprio presente, con la
coscienza che egli si trova nella condizione di precarietà futura, mettendosi a
disposizione oltre che professionalmente
anche come punto di riferimento per i
bisogni emotivo-affettivi. Il mancato raggiungimento degli obiettivi assistenziali,
può far provare all’operatore un senso di
colpa perché egli si sente determinante
per il benessere del paziente e della famiglia. Nelle cure palliative le emozioni possono modificare il comportamento del professionista con atteggiamenti estremi quali l’abbandono o l’accanimento terapeutico, proprio perché egli può sentirsi in colpa sia se non agisce con decisione (accanimento) sia se accetta gli eventi in modo
troppo scontato (abbandono) 26. Il confronto con la malattia grave può portare a mettere in atto un meccanismo di difesa creando un atteggiamento di distacco da parte l’operatore in cui egli sposta la propria
attenzione su altri malati che vivono in quel
momento situazioni meno gravi. In genere
la speranza dell’infermiere di cure palliative è quella di riuscire ad accompagnare,
nel suo ultimo periodo di vita, la persona,
ottenendo una riduzione dei sintomi ed
una qualità di vita compatibile con la
malattia. Spesso questa speranza viene
meno ma risulta poi essere una carica per
migliorare la propria professionalità nell’ottica futura. Nell’ultima fase di vita assume
un ruolo fondamentale la spiritualità del
malato e della sua famiglia nella quale si
riversano le loro ultime energie. A volte le
opinioni di chi partecipa sono differenti e
per l’infermiere possono apparire assurde
o controproducenti provocando in lui un’
ulteriore forma di disagio emotivo. Alla lunga tutti i fattori concomitanti possono causare un senso di stanchezza nell’infermiere che il paziente è in grado di riconoscere. Anche la stanchezza può portare l’infermiere a mettersi in discussione fino a provare dei dubbi per il proprio lavoro e le
proprie capacità. L’evento ultimo della
malattia è la morte, capace di suscitare, in
chi aiuta, la paura data dal senso di impotenza di fronte alle emozioni dell’altro tanto da creare un vuoto e un vero e proprio
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senso di perdita.
CONSIDERAZIONI FINALI
Si è cercato di illustrare il percorso che
affronta la persona malata, descrivendo la
malattia come una dimensione che, oltre
l’espressione della patologia, tiene conto
dell’interazione di fattori affettivo-emozionali, cognitivo-relazionali, sensoriali, quindi come dimensione che va affrontata nella sua globalità. Il malato si trova ad essere l’attore in una storia che, racconta un
mondo dove si intrecciano molte situazioni. Alcune di queste sono visibili a prima
vista, anche a chi non conosce direttamente il protagonista: le sue caratteristiche fisiche, quelle della sua patologia, le
persone che fisicamente gli stanno vicino
(familiari) che si propongono come gestori di un complesso che spesso non conoscono affatto. Altre situazioni appaiono
come sfumature, difficili da cogliere a
chiunque, a meno che, il regista (l’infermiere) prima di aver scritto il copione
abbia instaurato una vera relazione con il
protagonista (il malato) e gli altri attori. E’
proprio nel ruolo di regista che si potrebbe
calare la parte dell’infermiere, posizione
che gli permetterebbe di esercitare la propria professione, anche nella più triste delle scenografie indirizzando le proprie competenze verso colui che deve risultare il
principale beneficiario. Questo avverrebbe, non solo curandosi della espressione
materiale della malattia, ma di tutto ciò che
essa rappresenta nel vissuto personale
della stessa. Il regista racconterebbe quindi una storia unica, perché uniche sono le
emozioni che l’hanno riempita e altrettanto
unici sono gli elementi sui quali essa si è
fondata. Parafrasandola, questa soluzione
garantirebbe all’infermiere di erogare prestazioni basate si su conoscenze tecnicoscientifiche, ma soprattutto (come sostiene Rosemarie Rizzo Parse) tenendo conto
che il nursing è una scienza umana, che si
interessa della partecipazione qualitativa
della persona alla propria esperienza di
malattia 27. Infatti, per la disciplina infermieristica, l’interesse dell’uomo non può
riguardare solo lo studio dei suoi aspetti
misurabili e quantificabili, ma il modo in
cui il suo vissuto di esperienze ci viene
offerto. Essere in grado di capire cosa può
provare l’uomo in ogni fase di avvicinamento alla morte , è fondamentale per
poter costruire un tipo di assistenza che
sia orientata “sull’ esperienza vissuta di
malattia” e non solo fondato sulla patologia. Questo principio è realizzabile se si ha
la volontà di considerare l’uomo come
soggetto e non oggetto delle cure infermieristiche, se si attribuisce alla persona
una concezione di globalità che comprende dimensioni più ampie rispetto a quella
bio-fisiologica, se si riconosce la sua natura relazionale che è in costante dialogo
con l’ambiente che lo circonda. Il prendersi cura, si realizza sotto il profilo della relazione e del dialogo fin dalle premesse. In
questo contesto gli strumenti della comunicazione e della relazione, diventano fondamenti dell’assistenza infermieristica,
dove la persona assistita viene considerata a partire dal suo vissuto di malattia. La
dimensione soggettiva di quest’ultimo,
rappresenta l’esperienza umana del fenomeno morboso, dunque di una realtà
complessa e globale capace di determinare cambiamenti sia nella struttura organica, sia nel comportamento e nelle percezioni relative alla sua condizione di malattia, tutti intimamente correlati al contesto
socio-culturale e affettivo della persona. Il
concetto del vissuto di malattia permette di
compiere operazioni importanti: innanzitutto inserire nell’ambito infermieristico la
vasta gamma di componenti soggettive
(come le emozioni, i desideri, i valori, le
aspettative, il contesto socio-culturale
ecc..), ed inoltre permette di affermare che
ogni informazioni bio-fisiologica, raccolta
ed analizzata, deve rientrare nella globalità
di un contesto più ampio, all’interno del
quale tutto assume significato in quanto
messo in relazione all’esperienza vissuta.
Sul piano pratico della relazione, ne consegue che, a prescindere dai ruoli, infermiere e persona assistita si riconoscono e
si comprendono come umane esistenze
che si incontrano nella dimensione di
malattia. Trovare un punto di incontro presuppone il dover lavorare sulla qualità delle relazioni, quindi sulla qualità di quei
momenti in cui le parti si avvicinano con
l’intento di avviare un dialogo. Secondo
Buber ‘tutta la vita reale consiste nell’incontrarsi’28. Questa premessa potrebbe
indicare che lavorare sulla qualità degli
incontri significa promuovere la qualità
della vita. Avvicinarsi all’altro implica dover
dare la propria disponibilità a dialogare,
comunicare, ascoltare ed essere presenti.
Questa disponibilità è una degli elementi
centrali di ogni processo della relazione
d’aiuto e quindi di counseling. L’Associazione Britannica per il Counseling e la Psicoterapia (BACP) definisce il counseling
‘un’interazione in cui una persona offre ad
un’altra tempo, attenzione e rispetto con
l’intenzione di aiutare quella persona ad
esplorare, scoprire e chiarire i modi di
vivere con maggior successo e di raggiungere il benessere’28. Secondo questo principio il counseling può occupare un ruolo
importante nell’assistenza infermieristica o
meglio ancora come indicato da Soohbany sono due processi paralleli, infatti egli
sostiene: ‘l’assistenza infermieristica come
il counseling è un processo interpersonale
che ha lo scopo di assistere l’individuo
nell’affrontare una crisi e/o nel gestire i
traumi della vita. Ha anche lo scopo, se
necessario, di trovare un significato in ogni
esperienza. Sia lo scopo dell’assistenza
infermieristica che quello del counseling
sono raggiungibili attraverso le relazioni
umane e questo a sua volta, viene raggiunto
oltrepassando
i
ruoli
di
counselor/infermiere e paziente/cliente al
fine di stabilire una presenza di assistenza
e attraverso l’uso terapeutico del sé. Qualità implicite necessarie a questa relazione
sono la capacità di ascoltare, comprendere ed essere comprensivo così come di
intervenire in modo deliberato’28. Quindi
l’infermiere che imposta il piano assistenziale ponendosi l’obiettivo di favorire l’incontro con il suo interlocutore, si trova
ancora una volta nei panni del regista che
indirizza tutta la sua enfasi verso protagonista (malato) e verso la sua naturale
capacità di venire a patti con i propri problemi e di risolverli. Dunque il ruolo dell’infermiere diviene quello di creare e mantenere un clima in cui le abilità relazionali
possano essere usate in modo efficace,
strumenti che gli permettano di agire
come catalizzatore ed agente del cambiamento nei confronti della persona che sta
vivendo la propria malattia. Paterson e
Zdered sostengono che, l’assistenza infermieristica, se viene osservata da una prospettiva umanistica, può essere vista
come “l’abilità di lottare assieme ad un
altro attraverso esperienze estreme legate
alla salute ed alla sofferenza in cui i partecipanti sono ed entrano in armonia con il
proprio potenziale umano”. Questo concetto di “potenziale” lo si ritrova nella teoria “Salute come divenire umano” di Rosemarie Rizzo Parse, secondo la quale lo
scopo dell’infermiere è ‘la presenza vera
nel testimoniare ed essere con gli altri nel
cambiamento delle loro condizioni di salute’28. Quindi una serie di autori con forte
vocazione verso l’assistenza infermieristica umanistica, hanno contribuito a trasferire il concetto di un approccio centrato sul-
NOTE DI SEGRETERIA
Chi fosse interessato a ricevere in via celere comunicazioni importanti, informazioni utili, novità, date di eventi formativi, può contattare la segreteria e lasciare un
recapito di riferimento che verrà usato come “casella postale prioritaria”
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la persona all’assistenza centrata sul
malato, all’interno dell’assistenza infermieristica. Il malato è visto innanzitutto come
essere umano, di conseguenza l’attenzione è rivolta verso la persona che esprime il
proprio “vissuto di malattia”, dimensione
peculiare diversa per ogni specifico individuo.
Per comprendere l’unicità del “vissuto
di malattia” che si realizza a tutti i livelli e a
maggior ragione nel contesto delle cure
palliative dove gli elementi che entrano in
gioco, come già visto, sono numerosissimi, basti far riferimento alla gerarchia dei
bisogni di Maslow:
Bisogno di autorealizzazione
Guida verso l’autosoddisfazione
Il riconoscimento dei bisogni
Il bisogno di sperimentare l’autostima
e la stima di altri
Bisogni di appartenenza
Il bisogno di dare e ricevere amore
Bisogni di sicurezza
Il bisogno di sentirsi sicuro
e protetto dal dolore
Bisogni fisiologici
Bisogni biologici essenziali
La teoria di Maslow fornisce un utile
strumento per indagare in quale ordine di
priorità si manifestano i bisogni che si
manifestano attraverso l’esperienza di
malattia. Il sistema piramidale proposto
dal teorico, se applicato nei confronti di chi
sta attraversando la fase terminale della
vita, permette di capire quanto diversa può
essere la percezione della propria malattia, anche in un tempo limitato come può
essere l’arco di una giornata, cambiandone continuamente le priorità dei propri
bisogni. Accusare i sintomi della patologia, avvertire il dolore, provare sentimenti
quali la solitudine, la malinconia, la tristezza, la consapevolezza e la rassegnazione,
l’essere colti da emozioni quali la paura, la
rabbia e la speranza, sperimentare la perdita del ruolo sociale e familiare, perdere
di vista un qualsiasi obiettivo perché non si
è più in grado di raggiungerlo. Situazioni
già analizzate nello specifico che rappresentano la quotidianità per il malato terminale e che sono alla base dell’espressione
dei bisogni a vari livelli, interpretabili
secondo l’ordine gerarchico proposto da
Infermiere a Pavia
Maslow. Incontrarsi quindi con un altro
(malato) vuol dire partecipare al suo vissuto specifico di quel momento e condividerne una serie di fenomeni, che altrimenti un
infermiere non potrebbe sperimentare personalmente poiché non appartengono alla
sua condizione attuale di salute. Ecco che,
attraverso il vissuto dell’altro, standogli
accanto, tramite il fatto di essere presenti,
grazie alla capacità di entrare in contatto
immediatamente quando è necessario,
l’infermiere fa sua l’esperienza della morte
che si avvicina. Situazione che non può
prescindere dal fatto di essersi prima
conosciuti. Di conseguenza tale conoscenza diviene una relazione interpersonale che deve essere impostata fin dall’inizio, magari quando ancora gli effetti della
patologia non sono continui e pressanti, in
quei momenti nei quali il dolore è sedato e
lascia un po’ di sollievo, negli attimi dove
la speranza dei parenti vicini consente alla
persona di avere dei momenti per sé.
Occasioni preziose che non andrebbero
sprecate, dove l’infermiere può mettere in
gioco tutta la propria professionalità, utilizzando appunto gli strumenti che gli consentirebbero di costruire un rapporto
basato sull’autenticità, trasparenza, genuinità e coerenza con le quali il professionista ricorre alle proprie abilità di comportarsi umanamente nelle situazioni di aiuto.
Ciò significa anche che l’infermiere aiutando, non dovrebbe farsi influenzare dalla
sua condizione di esperto assumendo un
atteggiamento di superiorità nei confronti
del malato, ma piuttosto tenendo un comportamento corretto che gli darebbe la
possibilità di essere considerato un professionista di riferimento per l’individuo, in
grado di incoraggiarlo a trovare le proprie
verità, legate magari ad aspetti dolorosi o
nascosti di sé stesso. Questo tipo di atteggiamento professionale è realizzabile se,
oltre al disporre di buone intenzioni, l’infermiere è anche in possesso degli strumenti necessari, mezzi opportuni che se utilizzati sono in grado di supportare correttamente la comunicazione tra le parti. Tutto
sulla base di un legame di fiducia che fa
sentire l’altro più tranquillo, sensazione
che lo aiuta ad esprimersi liberamente 29.
La comunicazione è anche ascolto e la
qualità dell’ascolto determina la qualità
della comunicazione 30. L’ascolto rappresenta l’accoglienza in sé dell’altro e ascol-
NOTE DI SEGRETERIA
Chi fosse interessato a collaborare alla redazione della Rivista “Infermiere a Pavia”
o chiunque avesse elaborato dei lavori interessanti dal punto di vista professionale
e culturale, può dare comunicazione contattando la segreteria
tare un malato terminale può significare
non farlo sentire solo. L’ascolto viene riconosciuto come una delle abilità fondamentali per chi viene considerato un esperto
dei rapporti interpersonali. Per poter entrare in ascolto dell’altro è necessario ricevere e comprendere le informazioni, comunicare quanto è stato compreso ed ottenere
dall’altro la consapevolezza di essere stati
ascoltati e capiti. “E’ importante, che il
malato percepisca una disponibilità non
frettolosa alla cura e all’ascolto: più che la
quantità di tempo è importante la qualità
del tempo che gi si dedica”31 All’ascolto
dell’altro si aggiunge poi, l’ascolto interiore: è il momento in cui si entra in contatto
con sé stessi e si osserva cosa accade al
proprio interno, pratica che aiuta a sviluppare una sempre maggiore coscienza della realtà , sia interna che esterna e ad
affrontare con più equilibrio le relazioni
con gli altri.
Il colloquio con il malato terminale può
presentare molte difficoltà in particolare
dovute allo stato d’animo per effetto della
sua condizione 30. La preoccupazione,
l’ansia, la paura, la rassegnazione e, a volte, anche la presenza di operatori sanitari
possono inibire la persona impedendole
di dire o chiedere ciò che vorrebbe. E’
necessario rendersi conto del suo stato
emozionale e adattare a tale stato il proprio comportamento verbale e non verbale. L’ascolto permette anche di cogliere
ciò che il malato non dice, ma esprime in
modo chiaro purché gli si presti la giusta
attenzione 30. Prestare attenzione significa
manifestargli il massimo interesse e dargli
la calda sensazione che tutto ciò che egli
dirà non cadrà nel vuoto ma sarà preso in
attenta considerazione. Percezione che
permette al malato di verbalizzare i suoi
sentimenti alleviando così la sua tensione
emotiva. Durante l’ascolto è fondamentale
assumere un comportamento empatico
cioè quell’atteggiamento che dà enfasi ad
un approccio in grado di conoscere (o
meglio di “sentire”) l’altro nella sua totalità
compresa la dimensione soggettiva ed
affettiva. Nel nursing l’empatia è il mezzo
utilizzato per interpretare i sentimenti, pensieri e percezioni della persona, pertanto
come uno strumento professionale per
identificare i bisogni assistenziali 32. Una
volta che si incontra l’altro nella malattia, si
incontra anche la sua sofferenza e per
potersi far carico di questa si deve innanzitutto incominciare ad andare dentro la
propria sofferenza. L’ascolto interiore fa
acquisire familiarità con la propria mente,
con le proprie emozioni e reazioni per poi
riuscire ad essere presenti a chi chiede
aiuto. Se chi aiuta comprende ed accoglie,
nella propria vita, che la sofferenza umana
è un’esperienza che gli consente di cono-
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scere meglio se stesso e gli altri, può riconoscere che la stessa non lo invade completamente ma che c’è una parte di lui che
la può osservare ed utilizzare. L’infermiere
quindi che è in grado di comprendere,
definire, riconoscere i propri sentimenti e
le emozioni che la sofferenza ha creato
dentro di lui, può accogliere il vissuto del
malato o dei suoi familiari perché vive delle esperienze che ha già conosciuto in prima persona. Egli attinge dunque ad una
adulta consapevolezza di sé dei suoi vissuti ed una conoscenza adeguata del proprio registro emozionale 33. Tale situazione
non deve far cadere l’infermiere nel rischio
di creare distorsioni rispetto ai messaggi
che la persona gli offre, deve essere quindi in grado di ascoltare con la capacità di
decodificare, osservando senza pregiudizi
le modalità di espressione degli interlocutori. Il diverso modo di esprimersi è un
altro elemento specifico per ogni persona
che contribuisce a creare quell’unicità più
volte sottolineata in ogni diversa relazione.
“Nessuna relazione è uguale ad un’altra.
Le caratteristiche degli attori coinvolti e il
contesto in cui si svolge la comunicazione
rendono la relazione unica e irripetibile”
34. Percorrere il vissuto dell’altro potrebbe
essere un modo implicito di dimostrare
che, anche se non si può avere la soluzione ad ogni problema, si può tentare di
comprendere e valorizzare l’unicità e l’irripetibilità di ogni esperienza di malattia,
perché l’infermiere dovrebbe far sua la
convinzione che uniche ed irripetibili sono
anche le persone verso le quali indirizza il
proprio ‘prendersi cura’. Modalità che ha il
fine di restituire alla persona ammalata
competenze, diritti, libertà, opportunità di
scoprire individualità, responsabilità, scelte e consapevolezza, favorendone
l’espressione della propria soggettività.
Bibliografia
1234-
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6-
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Gli autori
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Paola Ripa
Coordinatore Corso di Laurea in Infermieristica - Università degli studi di Milano - sede
Istituto Clinico Humanitas
** Cristian Maraschi
Infermiere Istituto Clinico Humanitas
*** Michela Massaro
Infermiera
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Kanizsa S. L’ascolto del malato. Problemi di pedagogia relazionale in
ospedale. Ed Guerini Studio 1994;
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Counseling e professione infermieristica. Ed Carocci Faber 2004; 41-44.
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paziente. La consapevolezza della
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Vasti M. Prendersi cura conpassionevolmente: la dimensione morale del
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comunicare. Come prendersi cura
della persona con tumore. Ed Il Pensiero Scienifico Editore 2005; 156.
Marie de Hennezel La morte amica.
Ed. Bur ottava edizione 2005; 17.
30
PAGINA
Infermiere a Pavia
Rinnovo degli Organi
Collegiali dell’ENPAPI
* Nunzio Greco
Il 10 Marzo a Roma si è svolta l’elezione per il rinnovo degli Organi Collegiali
dell’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per la Professione Infermieristica.
L’elezione degli organi collegiali è affidata
ai Delegati eletti per ogni collegio IPASVI di
tutta Italia.
Il Numero di delegati è proporzionale
al numero di Infermieri Libero Professionisti (un Delegato ogni 100) regolarmente
iscritti all’ENPAPI (Art.12 del Regolamento
Elettorale). Per il Collegio di Pavia sono
stati eletti lo scrivente ed il collega Giuseppe Braga.
Il 10 Marzo è stata convocata l’Assemblea dei Delegati per l’elezione del Consiglio di Amministrazione (CdA) ed il Consiglio di Indirizzo Generale (CIG). I suddetti
organi sono composti da Infermieri Libero
Professionisti i quali propongono la loro
candidatura singolarmente o in maniera
plurima proponendo una lista per il CdA
e/o per il CIG. Ogni Delegato elettore può
presentare, in ogni caso, la propria candidatura o una lista.
Le operazioni di voto sono state precedute dalla presentazione delle candidature, rispettivamente due candidature singole, ed una presentazione di lista affidata al
Presidente uscente Mario Schiavon. Hanno presentato la loro candidatura un paio
di Delegati. Il primo Delegato, appartenente al Collegio di Torino, ha enunciato le
motivazioni della propria candidatura in
maniera articolata presentandosi non con
soluzioni antagoniste alle politiche del
consiglio uscente ma come elemento di
rinnovamento, anche se con idee non particolarmente innovative e senza la presentazione esplicita di un programma per il
quadriennio 2007-2011. Il secondo candidato al contrario del collega di Torino si è
presentato solo con una frase lapidaria “…
votatemi perché sono una persona corretta e onesta.” Ogni commento è superfluo.
Il Presidente uscente Mario Schiavon
al termine degli interventi dei singoli candidati ha presentato la propria lista proponendo un programma molto articolato
comprendente obiettivi e strategie il prossimo quadriennio di gestione dell’Ente.
L’intervento di Schiavon, pur presentato in
tempi ristretti, ha dimostrato la volontà
degli organi uscenti di riproporsi per continuare un opera iniziata quattro anni fa
quando l’ENPAPI era un ente giovane che
aveva bisogno di essere rilanciato. Ho
chiaro il ricordo di quelle elezioni, quattro
anni fa, quando il Presidente uscente era
la collega Emma Carli, già presidente della Federazione Nazionale IPASVI, l’ENPAPI
era tutt’altra cosa da ciò che è adesso.
L’impressione ricevuta in quella occasione
era che qualcosa di importante per il Libero Professionisti si stesse muovendo, il
programma presentato dalla lista di Schiavon era ambizioso ma nel contempo
mostrava una visione chiara del futuro,
ossia di un ente di previdenza che fosse al
servizio degli iscritti e non il contrario. Fino
a quel momento infatti gli iscritti avevano
solo corrisposto molto in termini economici senza avere il giusto feed-back in termini di servizi e visibilità dell’ente stesso. Ma
ritornando a oggi Schiavon ha introdotto
nuove sfide per garantire agli Infermieri
Libero Professionisti e non un futuro
migliore per se ed anche per le proprie
famiglie. Lo slogan della lista Schiavon è
“Rafforzare per Valorizzare” il programma
presentato è quindi volto a consolidare
quanto costruito in questi quattro anni
dando valore al ruolo istituzionale dell’ente.
La presentazione di Schiavon ha raccolto il plauso della quasi totalità dell’Assemblea, il quasi è dovuto all’intervento in
conclusione di un Delegato del Collegio di
Milano-Lodi il quale ha presentato una
propria mozione. Il Delegato del Collegio
di Milano presa la parola ha presentato
una lista di sei Delegati per il Consiglio di
Indirizzo Generale, che è composto da tredici membri. Nella sua presentazione è
stata colta una vena polemica nei confronti degli organi uscenti evidenziando delle
criticità opinabili. Il Delegato ha denunciato all’Assemblea un eccessiva distanza
dell’Ente dagli iscritti, ha ribadito che l’Ente fin ad oggi essendo un ente previdenziale giovane ha solo “…incassato”, ha
messo sul tavolo la questione dei fondi
pensione attivati attraverso il Trattamento
di Fine Rapporto (TFR).
Per replicare alle critiche mosse dal
Delegato di Milano ha ripreso la parola
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Numero 2/2007
Mario Schiavon che ha illustrato il rinnovamento a cui è stato sottoposto l’Ente nell’ultimo quadriennio attraverso la attivazione di Call-Center, l’implementazione del
sito internet (www.enpapi.it) etc. che ha
permesso un maggiore avvicinamento con
gli iscritti. In ultima analisi è stato affrontato il tema dei fondi pensione che saranno
attivati con il contributo del TFR dei lavoratori dipendenti. Tale materia attualmente
esula dalle competenze dell’ente il quale
raccoglie la contribuzione degli Infermieri
Libero Professionisti, ribadendo comunque che il TFR è un diritto degli Infermieri
che prestano servizio in qualità di dipendenti nel settore privato. I dipendenti pubblici, invece, hanno diritto al TFS o Trattamento di Fine Servizio. A tal proposito viene ceduta la parola al rappresentante del
Ministero del Lavoro presente all’Assemblea. Per chiarezza di informazione il CIG
ha al suo interno un rappresentante del
Ministero del Lavoro ed uno del Ministero
dell’Economia. Il rappresentante del Ministero del Lavoro attraverso una articolata
esposizione dimostra come l’introduzione
della previdenza complementare, pur se in
ritardo rispetto ad altri paesi europei, rappresenti una riforma epocale del sistema
previdenziale italiano. Tale riforma ha lo
scopo attraverso la cessione volontaria del
proprio TFR o TFS a dei fondi pensione
creati ad hoc di integrare il trattamento
previdenziale alla fine della attività lavorativa. Tuttavia nel caso del TFR si può parlare di un effettiva liquidità che il lavoratore
versa nel fondo pensione cosa che non si
può dire del TFS in quanto l’amministrazione pubblica statale non accantona nessuna somma, il TFS rappresenta una voce
virtuale di bilancio. Lo stato contabilizza
per ogni lavoratore pubblico il TFS che al
momento della erogazione si tramuterà in
debito dello stato. Motivo per cui la creazione di fondi pensione complementari per
i lavoratori pubblici è materia di forte dibat-
tito politico poiché la cessione del montante di tutti i TFS dei lavoratori pubblici
aumenterà il debito pubblico.
Al termine del dibattito si è proceduto
alle dichiarazioni di voto (segreto), procedura al quanto complessa visto il numero
rilevante di Delegati. Infine è avvenuto lo
scrutinio delle schede elettorali, una per il
CdA ed una per CIG, assorbendo molto
tempo. L’esito della votazione ha sancito
la riconferma degli organi uscenti. Per
completezza d’informazione riportiamo
che parte degli organi ha subito un rinnovamento, poiché per alcuni membri del
CdA e del CIG si era già raggiunto il limite
di eleggibilità, pari a tre mandati consecutivi.
In conclusione si vogliono esporre delle considerazioni del tutto personali su
quanto esposto fin adesso. La gestione di
un ente previdenziale, pur se giovane, rappresenta una responsabilità pesante in
quanto chi occupa cariche istituzionali non
assume un potere o una “poltrona” ma si
assume la responsabilità di gestire il patrimonio degli iscritti. Tale patrimonio è costituito dalla contribuzione dei singoli iscritti
attraverso anni di dura attività professionale in un mercato libero professionale ancora troppo immaturo. Una gestione non
consapevole di tale responsabilità potrebbe minare quanto costruito in questi dieci
anni di vita dell’ente, da parte mia, e penso di rappresentare il parere anche del collega Braga, rinnovare la fiducia agli organi
uscenti ci è sembrata la scelta più responsabile in quanto rappresentavamo non
solo noi stessi ma tutti i libero professionisti del Collegio di Pavia. La presentazione
di una lista “fine a se stessa” senza la proposizione di una chiara dichiarazione di
intenti non può essere la via da percorrere
per migliorare lo status previdenziale (professionale) dei Libero Professionisti. La
assunzione di una qualsiasi carica collegiale o istituzionale equivale ad una assun-
NOTE DI SEGRETERIA
Per tutti coloro interessati alla ricerca documentale, si rammenta che il Collegio
offre uno spazio biblioteca
zione di responsabilità direttamente proporzionale alla valenza della carica stessa,
non una modalità per assumere un peso
politico all’interno di enti e/o istituzioni.
Tale critica vuole essere costruttiva poiché
per produrre rinnovamento è necessaria
un’intensa attività di preparazione di strategie e obiettivi concreti da mettere sul
tavolo, per far questo si deve essere in
possesso del giusto bagaglio di conoscenze in materia di gestione economicofinanziaria e doti di leadership che non si
acquisiscono da un giorno all’altro.
L’autore
* ILibero Professionista
Infermiere Coordinatore RSA
“Buzzoni Nigra” Sartirana Lomellina (PV)
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Infermiere a Pavia
L’esercizio Libero Professionale
in forma associata
* Nunzio Greco
Il precedente articolo, che ha inaugurato la riapertura della rubrica sulla Libera
Professione, ha trattato le caratteristiche
generali dell’Infermiere Libero Professionista. A questo punto è utile una precisazione, gli articoli di questa rubrica non hanno
lo scopo di dare nozioni di tipo amministrativo ma di tracciare il panorama complesso in cui si muove oggi la Libera Professione Infermieristica. Per tutti i chiarimenti e consigli di carattere amministrativo e pratico il Collegio di Pavia a messo a
disposizione uno “sportello” dedicato alla
Libera Professione. Tale servizio è stato
affidato allo scrivente, per chi volesse ricevere chiarimenti sull’esercizio libero professionale, per un appuntamento basta
mettersi in contatto con la segreteria del
Collegio di Pavia.
Ritornando alla nostra rubrica, l’argomento del seguente articolo è l’esercizio
della libera professione in forma associata.
Nello scorso articolo sono state esposte le
regole base del mercato libero professionale, ovvero le condizioni ambientali, in
senso economico. Essere libero professionista, come dimostrato, implica l’assoggettamento a determinate regole e tra
queste sicuramente annoveriamo la più
importante cioè quella della domanda e
dell’offerta.
Affinché ci sia offerta ci deve essere
domanda, la domanda scaturisce da un
bisogno del consumatore (customer) di un
bene o servizio. Quindi affinché ci sia offerta di prestazioni sanitarie infermieristiche
ci deve essere la domanda, ossia un bisogno (anche inespresso) di prestazioni
infermieristiche. Ciò che determina la
domanda è il contesto socio-economico di
una determinata regione geografica o di
una fascia di popolazione, come anche la
struttura del sistema sanitario regionale.
L’offerta di prestazioni deve rispondere
sempre alla domanda per essere soddisfatta, tuttavia la domanda può essere priva di un offerta efficace. Il punto di incontro tra domanda ed offerta determina il
costo delle prestazioni in relazione alla
quantità di quest’ultime (vedi grafico).
Quindi ciò che governa il mercato delle prestazioni è la domanda di prestazioni
e non l’offerta. Questa premessa serve per
capire meglio come l’esercizio della libera
professione in forma singola o associata
può comportare un diverso approccio al
mercato delle prestazioni e cioè della
domanda di prestazioni sanitarie. L’offerta
di prestazioni del singolo professionista,
come è facile dedurre, è molto ridotta, non
per qualità ma piuttosto per volume,
rispetto a quella di un gruppo di professionisti associati. La costituzione di studi
associati di professionisti nasce quindi
con l’intenzione di produrre un offerta di
prestazioni maggiormente rispondente
alla domanda.
Lo Studio Associato è con una definizione non troppo rigida, un’organizzazione di persone e/o mezzi creata dall’autonomia privata per l’esercizio in comune di
un’attività produttiva (beni e o servizi) allo
scopo di produrre degli utili (lucro oggettivo) e di ripartirlo fra i soci.
In genere gli Studi Associati hanno le
seguenti caratteristiche:
• sono soggetti giuridici terzi dotati di personalità giuridica diversa dai soggetti
componenti;
• hanno autonomia patrimoniale e questo
limita il rischio del socio;
• possono fare attività d’impresa ovvero
attività produttiva, a contenuto patrimoniale, condotta con metodo economico
e finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi;
• sono definite lucrative quelle che ripartiscono dividendi fra i soci;
• sono dotate di organizzazione corporativa (Assemblea dei Soci, Consiglio d’Amministrazione, Collegio dei revisori dei
Conti). Il Consiglio di Amministrazione
elegge un Presidente con funzioni rappresentative dello studio associato.
La forma associativa di professionisti si
configura come una forma atipica di società tra libero professionisti, detta altrimenti
associazione di professionisti, i professionisti sono assoggettati ai rispettivi ordini
e/o collegi professionali1. Tali associazioni
presentano la prevalenza dell’elemento
personale-professionale nella prestazione
del servizio su quello strutturale, diversamente dalle attività organizzate in forma di
impresa, in cui, nei rapporti con i terzi,
appare prevalente l’organizzazione dell’impresa, la sua funzionalità e struttura
rispetto alla personalità dei partecipanti
alla stessa.
Scopo dello studio associato è quindi
di unire più libero professionisti per rispondere meglio alla domanda di prestazioni,
inoltre la prevalenza dell’aspetto personale-professionale della prestazione implica
una maggiore qualità dell’offerta oltre che
della quantità. Lo studio associato può
anche entrare nel settore dell’outsourcing2
cioè di offrire non solo delle prestazioni
professionali ma di inserirle all’interno di
un progetto di gestione di interi servizi
assistenziali.
Tale approccio professionale configura
un panorama innovativo, poiché lo Studio
Associato è responsabile dell’aspetto quali-quantitativo del servizio che ha in gestione. L’elemento di novità rappresentato
dalla responsabilità diretta sul servizio fa sì
che si crei uno spartiacque abissale tra un
Infermiere libero professionista ed uno
con rapporto subordinato. Il professionista
dipendente sia pubblico sia privato non ha
nessuna responsabilità sulla qualità del
servizio in generale in cui questi è inquadrato, tale responsabilità è prerogativa unica del datore di lavoro il quale dispone sulla gestione delle risorse tecniche, umane
ed economiche dell’impresa. L’infermiere
socio di uno studio associato che ha ottenuto in gestione un servizio per contro è
direttamente responsabile dell’andamento
del servizio unitamente ai propri colleghi
con cui coopera. Quanto detto assicura il
committente (appaltatore) da eventuali
inefficienze, il quale in fase di negoziazione potrà porre vincoli anche stringenti di
carattere quantitativo delle prestazioni ma
anche e soprattutto di carattere qualitativo.
È ben noto che la qualità delle prestazioni
sanitarie in generale porta sia ad un
miglioramento dello stato di salute della
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Numero 2/2007
popolazione assistita sia al miglioramento
della efficienza economica del settore. Il
committente che ha chiari questi concetti
(vedi Clinical Governance) pone all’outsourcer obiettivi di qualità chiari e specifici
anche di natura economica raggiungibili
solo e solamente attraverso un miglioramento della qualità a tutti i livelli. Il committente contratterà quindi una quota economica con l’outsourcer per la gestione del
servizio, tale quota viene soprannominata
budget economico-finanziario. In sede di
contrattazione del budget il gestore economico esprime una previsione di spesa
relativamente al servizio interessato infine
propone la linea di condotta del servizio
che deve essere inquadrata nella Mission
aziendale. L’outsourcer contratta il budget
con il committente ponendo anch’esso dei
vincoli per lo più legati alla qualità delle
prestazioni da erogare in relazione alle
risorse umane, tecniche ed economiche. È
per tali motivi di importanza fondamentale
che l’outsourcer, conosca e persegua la
Mission aziendale dell’azienda; dove questa è formalizzata.
Anche lo Studio Associato, costituendo esso stesso soggetto economico, che
persegue degli scopi dovrebbe formalizzare una propria Mission ed una propria
Vision “aziendale”, nonché una strategia
che comprenda obiettivi a breve, medio e
lungo termine. Da qualche anno a questa
parte la tendenza della maggior parte dei
gruppi imprenditoriali, anche di livello
mondiale (vedi Google), è quella di spostare l’attenzione dai cicli produttivi alle
persone.
Infatti, mai come oggi il Fattore Umano ha avuto un peso così rilevante nel successo delle organizzazioni ma anche mai
come oggi la Persona è alla ricerca di un
senso in ogni cosa che fa. Come far sì,
allora, che i professionisti assumano come
propri, con impegno e responsabilità, gli
obiettivi dell’Azienda?
“Se non cambiamo direzione,
rischiamo di finire proprio dove siamo
diretti.” John Whitmore3
Siamo entrati in un’era di grande complessità e tutte le Aziende devono affrontare ogni giorno i cambiamenti richiesti dal
Mercato per rimanere concorrenziali: l’imperativo è “Distinguersi o estinguersi”
La risposta è, almeno apparentemente, molto semplice: facendo sì che gli
obiettivi delle organizzazioni siano condivisi dalle Persone, tutte le Persone, che le
compongono.
Condivisione, pertanto, è la parola
chiave. Bisogna quindi spostare, almeno
per un momento, l’attenzione dai processi,
dai numeri e dalle strategie ed entrare in
un mondo più umano, più caldo, quello
delle emozioni, delle sfide, dei Valori.
Dotarsi di una Mission, una Vision ed
un Sistema di Valori aziendali, comunicarli, dichiararli, diventa allora indispensabile per stabilire un’identità, fornire una rotta, indicare un orizzonte, un passaggio
dalla situazione attuale a quella di un futuro possibile, se realizzato congiuntamente.
Attraverso la creazione di uno spazio di
confronto tra i professionisti, si potranno
mettere in campo sensazioni, percezioni e
motivazioni personali, e si individueranno
così i punti di miglioramento, gli strumenti
a disposizione e le strategie da applicare
alla propria realtà organizzativa. Infatti, la
conoscenza ed il dialogo sono due dei fattori maggiormente determinanti per creare
quel senso di appartenenza necessario
per coinvolgere e creare la Squadra che
consentirà al gruppo di presentarsi sul
Mercato come un Sistema complesso ma
coerente, omogeneo e, soprattutto, efficiente ed efficace.
In conclusione, come usava dire un
noto giornalista televisivo, la domanda
sorge spontanea: ma davvero è così difficile? Scopo di questi brevi articoli come
già detto innanzi è quello di dipingere un
quadro, che se pur generale, faccia comprendere che la Libera Professione Infermieristica è un tassello di un grande
mosaico chiamato Libero Mercato e con
questi deve confrontarsi ogni giorno.
Chiunque voglia “mettersi in proprio”, in
qualsiasi settore produttivo, deve fare i
conti con le leggi di mercato. Personalmente ritengo che coloro i quali facciano
una scelta di questo tipo vogliano raggiungere traguardi anche ambiziosi quali il
riconoscimento personale-professionale
ed un forte senso di auto-stima. Allo stesso tempo penso che tutti possano tuffarsi
in questo mare il più delle volte in tempesta, troppo spesso navigato da pirati…
con false insegne… Ma per navigare tranquilli bisogna conoscere il mare… e
soprattutto la propria nave…
Bibliografia
1 - L’art. 2229 del codice civile stabilisce
che “la legge determina le professioni
intellettuali per l’esercizio delle quali è
necessaria l’iscrizione in appositi albi
o elenchi”.
2 - L’etimologia del termine outsourcing,
tradotto in italiano esternalizzazione,
rende perfettamente l’idea della cessione all’esterno di attività precedentemente svolte internamente all’azienda,
attraverso la delega a terze parti, chiamate outsourcer.
3 - John Whitmore, nel suo libro fondamentale “Coaching for Performance”
( Nicholas Brealy Publishing, London
1993) descrive, con uno stile semplice, come manager, supervisori, teamleader e genitori oppure tutti coloro
che desiderano imparare ed applicare
il coaching possano aumentare la
capacità di performance e di apprendimento di qualcuno. Ha lavorato per
imprese in Gran Bretagna, Svizzera ed
Usa, fondando con Timothy Gallwey la
Inner Game Ltd., nella quale hanno
portato le loro esperienze nei metodi
di training acquisite nello sport nelle
aziende.
L’autore
* ILibero Professionista
Infermiere Coordinatore RSA
“Buzzoni Nigra” Sartirana Lomellina (PV)
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Infermiere a Pavia
Aggiornamento
IN
ITALIA
* Silvia Giudici
Fino alla definizione del nuovo assetto istituzionale del sistema di Educazione Continua in Medicina, e comunque per un
periodo non superiore a sei mesi, come
già saprete, è stato prorogato il vigente
programma sperimentale di educazione
continua in medicina (ECM).
Per l’anno 2007, il debito formativo per gli
operatori sanitari è stato fissato a n. 30
(trenta) crediti ecm (minimo 15 ,massimo
60 crediti formativi). Ciascun operatore ha
potuto acquisire il numero di crediti a completo adempimento del debito formativo,
fissato nel numero globale di 150 crediti,
per il periodo sperimentale 2002-2007. I
crediti formativi già acquisiti dagli operatori sanitari in numero eccedente rispetto a
quello stabilito per il predetto periodo
2002-2006, possono valere ai fini del debito formativo stabilito per l’anno 2007.
Qui di seguito alcune opportunità formative per colmare il vostro debito ECM e per
favorire il vostro aggiornamento continuo
anche nella fase successiva al periodo
sperimentale sovra citato.
LA VOCE DEL DOLORE ATTRAVERSO I
FOCUS
Milano, 20 giugno 2007 - euro: 30,00
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0258306892; fax: 0258308892
info: [email protected]
ENDO EDUCATION PROJECT
Rho (Milano), 21 giugno 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0229005745; fax: 0229005790
info: [email protected]
4° CONVEGNO INTERNAZIONALE
MEDICINA E PERSONA. MEDICO CURA
TE STESSO. LA NUOVA MEDICINA:
CURA DELLA PERSONA O UTOPIA
DELL’UOMO PERFETTO?
Milano, 21-23 giugno 2007
euro: da 50 a 295.00 in base alla qualifica
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 026697911; fax 026700597
info: [email protected]
ANDATA
PROSPETTIVE TERAPEUTICHE NELL’INSUFFICIENZA CARDIACA ACUTA
SCOMPENSATA
Iseo (Brescia), 23 giugno 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0267071383; fax: 0267072294
info: [email protected]
IL POLITRAUMATIZZATO: APPROCCIO
E TRATTAMENTO IN PRONTO SOCCORSO
Milano, 29 giugno 2007
euro: 105,00
ecm: 7
tel: 02531014; fax: 02531067
info: [email protected]
4° INCONTRO DEL GRUPPO DI STUDIO
SULLA DEMENZA DA CORPI DI LEWY
Castellana (Varese), 23 giugno 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 027491361; fax: 027385106
info: [email protected]
LA GESTIONE DEL PAZIENTE DI CHIRURGIA PLASTICA RICOSTRUTTIVA
ED ESTETICA
Sesto San Giovanni (MI), 30 giugno 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0224209011; fax: 0222476125
info: [email protected]
DALLA BIOLOGIA ALLA PSICOLOGIA:
LE RELAZIONI TRA IL BAMBINO E GLI
ADULTI SIGNIFICATIVI
Brescia, 24 giugno 2007
euro: 100,00
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 030399108; fax: 0303382974
info: [email protected]
L’INFERMIERE E LE FIGURE DI SUPPORTO PER UNA MIGLIORE INTEGRAZIONE E INTERAZIONE DEI RUOLI
Bergamo, 26 giugno 2007
euro: 50.00
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 035224072; fax 035232980
info: [email protected]
CORSO DI FORMAZIONE IN CARDIOLOGIA ED ELETTROCARDIOGRAFIA
San Donato Mil.se (MI) - 27 giugno 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0252774324; fax: 0252774658
info: [email protected]
LA MALATTIA DA VIRUS RESPIRATORIO SINCIZIALE: UPDATE ED ESPERIENZE
Como, 28 giugno 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 065758926; fax: 065759937
info: [email protected]
CORSO DI ANESTESIA LOCO REGIONALE
Como, 30 giugno 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0289518895; fax: 0289518954
info: [email protected]
LA CHIRURGIA ONCOLOGICA DEL
CAVO ORALE E DELL’OROFARINGE
Brescia, 7 luglio 2007
euro: 100,00
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0302510568; fax: 0302510568
info: [email protected]
IL MALATO CRITICO IN UROLOGIA
Desio (MI), 12 luglio 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0362383884; fax: 0362383233
info: [email protected]
BLSD (BASIC LIFE SUPPORT AND
DEFIBRILLATION) - BASE
Milano, 13 luglio 2007 - euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0498944570; fax: 0498944501
info: [email protected]
IL DOLORE ONCOLOGICO
Milano, 27 luglio 2007
euro: gratis
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0498944570; fax: 0498944501
info: [email protected]
35
PAGINA
Numero 2/2007
BIOETHICS SUMMER SCHOOL
Dobbiamo (Bolzano), 20-30 agosto 2007
euro: contattare organizzazione (dott.ssa
Santoro c/o Coop. Anver)
tel: 064070789
info: [email protected]
LA FORMAZIONE DEI FORMATORI:
CAPACITÀ PROGETTUALI E COMUNICATIVE NEI CONTESTI EDUCATIVI
Bolzano, 17-18-19 settembre 2007
euro: 180,00
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0472852529; fax: 0472852529
info: [email protected]
TEORIA E CONCETTUALITÀ DEL NURSING CONTEMPORANEO
Padova, 20-21 settembre 2007
euro: 250,00
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0498804827; fax: 0498803646
info: [email protected]
METODOLOGIA DELLA RICERCA PER
LE PROFESSIONI SANITARIE: QUESTIONARI ED INTERVISTE
Padova, 1-2 ottobre 2007
euro: 200,00 + IVA
ecm: 14
tel: 0498703457; fax: 0498703457
info: [email protected]
GESTIRE L’ANSIA E LO STRESS IN
PRONTO SOCCORSO
Padova, 15-16 novembre 2007
euro: 200,00
ecm: evento in fase di accreditamento
tel: 0498804827; fax 0498803646
info: [email protected]
LA GESTIONE DELLA FIBRILLAZIONE
NELLE DIVERSE SITUAZIONI CLINICHE
IN AMBITO RIABILITATIVO E RUOLO
DELLA TERAPIA
Montescano (Pavia), 21 novembre 2007
ecm: contattare organizzatore (Sig.ra
Achilli) tel: 0385247330
info: [email protected]
PAZIENTE CON DISTURBI PSICOTICI:
ASSISTENZA INFERMIERISTICA BASATA SULLE EVIDENZE
Padova, 13 dicembre 2007
euro: 100,00
ecm: 7
tel: 0498804827; fax: 0498803646
info: [email protected]
L’autore
* Infermiera
Neuroriabilitazione I e II
Fondazione Salvatore Maugeri - Pavia
RITORNO
* Silvia Giudici
PAURA, ANGOSCIA, PANICO NELLA
TERMINALITÀ. QUALE APPROCCIO
PERSEGUIRE IN PRESENZA DI: PERDITA DI AUTONOMIA, INCREMENTO DEI
SINTOMI, COSCIENZA DI CIÒ CHE
“NON SI PUÒ ESPRIMERE”…
Una tematica a contenuto etico ed
impatto emotivo molto forte. Il corso multidisciplinare è stato organizzato da VIDAS
e si è svolto a Milano lo scorso 23 febbraio. Un ringraziamento particolare ai tutors
Anna Lattuada, Nadia Tosi, Graziella Rolla
e Lia Biagetti che, attraverso i lavori di
gruppo, hanno dato la possibilità ai partecipanti di potersi confrontare sul vissuto
esperienziale.
Numerosi sono gli strumenti e le strategie che gli operatori di cure palliative possono fornire per analizzare in modo critico
le manifestazioni psicoemotive del paziente in fase terminale di malattia.
L’ascolto attivo rappresenta per l’operatore sanitario, ed in particolare per l’infermiere, uno degli strumenti fondamentali poiché il suo esercizio facilita il paziente
nell’esprimere il proprio disagio nella certezza di essere ascoltato e di trovare una
risposta ai propri bisogni.
I professionisti che assistono quotidianamente i pazienti in fase terminale di
malattia, conoscono l’importanza del confronto in équipe interdisciplinare per la
definizione del piano assistenziale individuale: la verifica degli elementi clinici unitamente ai dati emersi durante le visite
effettuate dai diversi professionisti allo
stesso paziente, permette da un lato di
discernere tra manifestazioni emotive funzionali e patologiche e dall’altro di ridefinire e condividere le strategie d’intervento.
Un aiuto viene apportato dagli strumenti
standardizzati per la definizione e la
“quantificazione” del grado di disagio
emotivo come ad esempio le scale di valutazione STAS, ESAS, POS, TIQ, HAD ed
Hamilton.
Quando inizia la fase terminale di una
malattia, interviene l’incertezza, sia per i
cambiamenti continui, fondamentalmente
inattesi, sia per la scoperta di un sé poco
in grado di affrontarli. La sua capacità di
agire è inibita dalla condizione fisica in
deterioramento, ed impatta sul suo pensiero e sul suo sentire. La sua propensione alla razionalità viene messa in discussione da reazioni emotive.
L’operatore dovrà effettuare un’attenta
analisi delle problematiche del paziente,
sia presenti che pregresse, che possono
influenzare la scelta dei diversi approcci
relazionali e terapeutici.
La presenza di uno stato di apprensione, di paura, induce un alto livello di vigilanza nell’attesa di ciò che sta per verificarsi, proprio come succede quando c’è la
percezione di un pericolo imminente. Così
l’eccessiva inquietudine, il rallentamento e
la facilità ad addormentarsi, l’irritabilità, le
tensioni muscolari, il pianto facile e frequente, i disturbi aspecifici addominali, le
palpitazioni, il respiro corto e frequente,
l’anoressia o la bulimia, sono manifestazioni non solo su base organica, ma spesso espressione di uno stato psico-emotivo
che può evolvere in fobia, ossessione,
compulsione.
L’aspetto reattivo di coloro che sentono la propria vita cambiare è influenzato
da fattori individuali, familiari, socio-culturali oltre che clinici. Infatti i valori personali, religiosi, sono in grado di determinare
una diversa modalità d’interazione con la
realtà e tra gli stessi individui.
I rapporti interpersonali tra paziente e
background familiare sono un elemento
importante da verificare. Capire quale sia
stato il ruolo del paziente all’interno di un
gruppo può meglio farci comprendere
quale sia il livello di “percezione della perdita” in atto. La madre che ha sempre
accudito il proprio bimbo, partecipando
attivamente alla sua crescita, è minacciata
dalla perdita della capacità di proteggerlo
e consolarlo nel momento in cui è lei al
centro del processo assistenziale.
Promuovere con il paziente una conversazione in cui possano essere espresse le condizioni causa, ascoltare i racconti correlati allo stato psico-emotivo, sono
gli strumenti attraverso i quali l’operatore
può acquisire elementi socioculturali/personali e da cui può essere guidato nel
comprendere.
Paura, angoscia e panico attraversano
più o meno esplicitamente tutto il processo di vita e coinvolgono non solo i pazienti ma anche familiari ed operatori. Questi
NOTE DI SEGRETERIA
Gli orari di apertura al pubblico sono i seguenti: Lunedì e Giovedì 13.30 - 16.30 Martedì e Venerdì 09.00 - 12.00 Mercoledì chiusura totale e-mail : [email protected]
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ultimi devono imparare a distinguere le
loro difficoltà da quelle del paziente, al fine
di non proporre soluzioni che offrano solo
a lui, operatore, la possibilità di stare più
tranquillo.
Spesso il paziente terminale vive un
intenso stato di sofferenza psicofisica che
può incidere sulla capacità di verbalizzazione, nel senso che la mente in preda al
forte dolore emotivo si paralizza e non trova le parole per esprimerlo. Infatti la mente risponde al dolore esattamente come il
corpo, che quando è in preda ad un dolore fisico è portato ad irrigidirsi: trova una
posizione “antalgica” e tende all’immobilità.
L’impossibilità di esprimere verbalmente una sofferenza psicologica, orienta
la persona a trovare (anche inconsapevolmente) canali alternativi di espressione
che spesso sono trasformati in sofferenze
di tipo somatico.
Quando il disagio è intollerabile il soggetto ha due possibilità: tenerlo dentro – e
in questo caso il risultato può essere il
panico – oppure buttarlo fuori.
Cogliere prematuramente cosa il
paziente sta dicendo attraverso il suo
comportamento e cosa diciamo noi con il
nostro è essenziale ai fini di una lettura più
chiara dei bisogni e delle risposte possibili.
Nelle cure palliative la componente
soggettiva ed emozionale è quella di cui
bisogna prendersi cura.
In questa prospettiva non può esserci
l’operatore solo oggettivo. L’infermiere
dovrà portare oltre alla sua competenza
anche la sua storia, e dovrà essere disponibile a recepire la storia del paziente per
capire che senso potrebbe avere l’oggettività (sintomi, comportamenti) che vede in
quel momento. Solo attraverso la consapevolezza dei propri vissuti e di quelli del
paziente l’operatore potrà dare senso alle
contraddizioni che spesso si presentano
in contesti con forte carico emozionale
come quelli della terminalità.
È importante dunque che gli operatori
L’autore
* Infermiera
Neuroriabilitazione I e II
Fondazione Salvatore Maugeri -Pavia
Infermiere a Pavia
1° CONGRESSO DELLE PROFESSIONI
INTELLETTUALI DELLA LOMBARDIA
(Lecco, 11 maggio 2007)
* Enrico Rossi
Relazione introduttiva
Rivolgo un cordiale saluto e un sincero
ringraziamento alle autorità civili e militari e
a tutti gli ospiti che così numerosi sono
presenti oggi. Permettetemi di rivolgere un
saluto particolare ai rappresentanti dei
Consigli nazionali presenti ed i delegati dei
C.U.P. regionali e provinciali che compongono il Forum delle Professioni Intellettuali del Nord Italia convenuti qui per testimoniare l’unione dei C.U.P. territoriali sulle
problematiche della riforma e ai delegati
dei C.U.P. provinciali e degli Ordini regionali associati al C.U.P. Lombardia, intervenuti in rappresentanza degli oltre 285.000
professionisti lombardi ai quali è dedicato
questo Congresso con lo scopo di fornire
loro una corretta informazione sulle basi e
sulle regole in forza delle quali eserciteranno in futuro la loro attività.
Questo congresso è stato realizzato
anche con la preziosa collaborazione di
Deutsche Bank – Banca Popolare di Lecco, di Reale Mutua Assicurazioni e di
Gruppo GR Informatica ai quali esprimo
un particolare ringraziamento.
Oggi non siamo interessati a sentire un
dibattito sul perché o per cosa nelle scorse legislature non sia stata fatta la riforma
delle norme in materia di esercizio delle
professioni intellettuali.
Sappiamo anche che la riforma , in
parte, è stata bloccata da alcuni Consigli
nazionali, più attenti alla organizzazione
interna degli Ordini che alle concrete esigenze delle professioni intellettuali e della
società nella quale esse operano quotidianamente.
Oggi noi professionisti ci aspettiamo di
sentire in base a quali regole potremo sviluppare le nostre attività e la nostra competitività e con quali strumenti le professioni potranno dare risposte più aderenti alle
mutate richieste della società
Per ragioni di tempo non affronterò in
questa sede tutte le problematiche coinvolte nelle varie ipotesi di riforma, mi limiterò
quindi a trattare, dal punto di vista dei professionisti lombardi, alcuni argomenti che
ritengo centrali e sui quali mi pare opportuno richiamare l’attenzione dei presenti.
La trattazione di alcuni concetti sarà
necessariamente superficiale ma i professionisti oggi vogliono soprattutto ascoltare
i contributi dei partecipanti alla tavola
rotonda.
Liberalizzazioni competitività e regole
Una considerazione di ordine generale
che riguarda i concetti di liberalizzazione e
competitività mi deriva da una affermazione espressa recentemente dal Presidente
Aznar in un incontro organizzato a Lecco
da Confindustria.
Più si approfondisce un processo di
liberalizzazione più è necessario stabilire
regole precise ed uniformi per evitare
distorsioni nella concorrenza.
Sino ad ora in Italia, ove si sono avviati processi di asserite liberalizzazioni, non
si è proceduto a fissare regole uniformi per
l’esercizio delle attività che si intendeva
“liberalizzare”.
Il risultato della mancata fissazione di
regole uniformi per l’esercizio delle attività
è stato quindi quello di trasferire settori di
mercato da alcuni attori soggetti a regole
più restrittive ad altri attori soggetti a regole più permissive o che godono di agevolazioni.
Si pensi ad esempio al trasferimento
del mercato dei farmaci da banco dalle farmacie soggette a fiscalità piena ai supermercati gestiti da cooperative (solo a quelli, badate bene e se non ne siete convinti
informatevi presso esselunga, benett, ecc)
che godono di trattamenti fiscali agevolati.
Interessante è il silenzio sul punto dell’authority alla concorrenza, di norma così
attenta a queste problematiche (certamente a quelle che riguardano le professioni).
Il concetto di liberalizzazione e concorrenza che oggi viene vergognosamente accreditato presso l’opinione pubblica,
dipinge il settore delle professioni come
chiuso e corporativo. Chiuso? I dati relativi
agli iscritti ad Albi sono disponibili presso
il Ministero della Giustizia e quello della
Sanità: vogliamo controllare quanti professionisti si sono iscritti ai diversi albi negli
ultimi dieci/cinque anni? Nessuna altra
attività, probabilmente, ha registrato un
tasso di incremento così alto. L’altro leit
motive riguarda i requisiti per l’iscrizione
agli albi: percorso di studi universitario
(superfluo? Discriminatorio? Altro?) e
superamento di un esame di stato, previsto fra l’altro dall’articolo 33 della Costituzione, (i professionisti presenti in aula che
lo hanno superato devono considerarsi
dei geni? Oppure lo hanno superato perché il loro padre era un professionista? Chi
sostiene queste sciocchezze probabilmente non sa come si svolge un esame di
stato, oppure considera i professori universitari e i magistrati che compongono le
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Numero 2/2007
commissioni esaminatrici poco etici.
Ebbene queste due condizioni vengono
considerate un impedimento ai giovani
all’esercizio delle professioni. E’ ideologico o, peggio, ridicolo.
La politica economica delle professioni
intellettuali
Altro argomento, assolutamente centrale e totalmente ignorato, o solo parzialmente trattato in tutti disegni di legge in
materia di professioni intellettuali che ho
potuto esaminare, riguarda la politica economica delle professioni.
Le professioni intellettuali, pur da
distinguere rigorosamente dalle attività di
impresa, soffrono di problematiche comuni ad alcune di esse.
Queste problematiche possono essere
indicate nella necessità di riconoscere il
ruolo sociale delle professioni intellettuali,
nella necessità di crescita dimensionale
degli studi, nella necessità di prevedere il
ricorso al credito agevolato per i giovani
professionisti, nella necessità di sostegni
alla formazione.
Per incentivare la formazione si stabilisce invece la parziale non detraibilità fiscale dei costi sopportati per la formazione.
E sarò più preciso.
Perché una attività professionale non
riservata svolta da una cooperativa con
cinquemila dipendenti ha una tassazione
agevolata, derivante dal suo asserito ruolo
sociale, rispetto alla medesima attività
svolta da uno studio professionale?
Perché questa disparità di trattamento? Perché dalle varie norme agevolative in
materia di investimenti, di finanziamenti
attraverso i Confidi e di aggregazione tra
entità di piccole dimensioni, vengono
sistematicamente escluse le attività professionali, ed in particolare non vengono
agevolati i giovani professionisti che entrano nel mondo del lavoro?
Perché vengono destinati ingenti fondi
alla realizzazione di corsi di formazione,
spesso di dubbia utilità, e non viene destinato alcunché alla alta formazione dei professionisti e dei quadri dirigenti, pur essendo unanimemente riconosciuto che sono
le conoscenze, in gran parte depositate
anche nelle professioni intellettuali, ad
essere fondamentale elemento di competitività territoriale?
La Regione può essere il soggetto di
riferimento per affrontare e risolvere alcune di queste problematiche, in particolare
quelle relative al coinvolgimento delle professioni intellettuali nei processi decisionali che riguardano l’economia, il territorio, la
sanità e l’accesso ai Confidi ed ai fondi per
la formazione.
Del resto oggi la Regione per l’attività
delle professioni intellettuali è interlocutore
primario almeno quanto lo Stato, ma questo ruolo di interlocuzione con le profes-
sioni intellettuali le viene sistematicamente
rifiutato dallo Stato.
Analogamente dagli organismi nazionali viene rifiutata una articolazione regionale degli Ordini e dei Collegi che possa
interloquire con la Regione.
La concorrenza nelle professioni intellettuali
La concorrenza viene dai più identificata con la abolizione delle tariffe, quasi che il
prezzo sia il solo elemento di concorrenza.
Se siamo intellettualmente onesti sappiamo che non è così, in particolare per le
attività delle professioni intellettuali.
In materia di tariffe poi possiamo
anche convenire che la fissazione di tariffe
minime, di per sé, non è garanzia di qualità delle prestazioni.
Allora si fissino standard qualitativi
minimi delle prestazioni perché il mantenimento di standard qualitativi elevati è irrinunciabile a tutela dei cittadini.
Del resto i professionisti intellettuali da
sempre esercitano la concorrenza sul terreno della qualità delle prestazioni e ciò ad
evidente vantaggio del cittadino cliente, e
sottolineo cliente e non consumatore perché l’attività professionale non produce
beni di consumo e non ha riflessi solo su
colui che usufruisce della prestazione ma
sull’intera società.
Ma anche in tema di concorrenza si
impone il richiamo a regole uniformi come
preciserò trattando dell’organizzazione
duale delle professioni.
L’Organizzazione duale delle professioni intellettuali
Cosa comporterà, in mancanza di
regole uniformi, la tanto auspicata organizzazione duale delle professioni? (per inciso chiedetevi auspicata da chi e con quali
interessi)
Significherà la creazione di due autority, Ordini e Associazioni entrambe riconosciute dallo Stato ed entrambe deputate
ad attestare il possesso e il mantenimento
dei requisiti necessari per l’esercizio di
una professione intellettuale.
Ma l’una, gli Ordini enti pubblici, che
rilascerà attestazioni in base a rigorose
regole stabilite dallo Stato mentre l’altra, le
Associazioni di diritto privato, che rilasceranno attestazioni in base a regole stabilite da esse stesse, quindi inevitabilmente
difformi le une dalle altre e via via meno
rigide al fine di conseguire il maggior
numero di associati possibili.
E allora o le due autority riguardano
attività professionali completamente separate e quindi gli Ordini per le attività professionali già organizzate secondo tale
modello e le Associazioni per le attività professionali realmente nuove, oppure lo Stato dovrà riconoscere soltanto una autority
per attestare il possesso dei requisiti per lo
svolgimento di una determinata attività.
Diversamente operando, non si otterrà
la tanto declamata liberalizzazione ma il
trasferimento di interi settori di attività da
coloro che sono soggetti a regole più
restrittive a coloro che sono soggetti a
regole più permissive e non si favorirà la
concorrenza ma anzi si introdurrà per legge una alterazione alle regole della concorrenza tra esercenti la medesima attività.
E ciò comporterà il disastro delle casse professionali degli iscritti ad Ordini e
Collegi che non avranno più l’afflusso di
nuovi iscritti.
Non voglio arrivare a pensare che, utilizzando questo strumento, vi sia un preciso disegno di portare nell’INPS le casse
professionali, che poi sono i versamenti
che ha fatto ciascuno di noi, senza alcun
onere a carico dello Stato.
Ferma restando quindi l’assoluta libertà di svolgimento da parte di chicchessia
di attività non riservate ed il diritto di associazione costituzionalmente garantito, ci
opponiamo fermamente a che venga consentito il riconoscimento da parte dello
Stato di associazioni composte da professionisti che svolgono le medesime, o parte, delle attività già svolte da professionisti
intellettuali organizzati in Ordini e Collegi.
Qualora poi la volontà politica fosse
quella di ugualmente consentire il riconoscimento indifferenziato da parte dello Stato delle associazioni accanto agli Ordini e
Collegi, devono essere fissate identiche
regole per l’iscrizione ad associazioni e
per l’accesso ad Ordini e Collegi.
Da tutto quanto sopra evidenziato,
discende l’inderogabile esigenza di riconoscere e definire preliminarmente una
nuova professione intellettuale rispetto al
riconoscimento di una associazione composta da esercenti tale professione intellettuale.
L’esercizio dell’attività professionale
anche in forma societaria
Volete dare ai professionisti uno strumento per dare efficaci risposte a quanto
richiede loro la società?
Consentite a ciascun ordinamento di
prevedere, ove gli stessi lo ritengano
opportuno, l’esercizio dell’attività professionale intellettuale anche in forma societaria e anche multi disciplinare.
Al fine però di garantire la personalità
della prestazione e della responsabilità,
evitando tassativamente l’assimilazione
dell’attività professionale alla attività di
impresa, è necessaria l’apposizione di
precisi limiti all’ingresso di soci di capitale
nelle società composte da professionisti.
E’ inoltre necessario che non possano
essere consentite società tra professionisti
iscritti in albi e professionisti iscritti ad
associazioni, ad evidente tutela della fede
pubblica.
Deve anche essere salvaguardata
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quella che è la caratteristica peculiare dell’attività professionale, ossia l’indipendenza e libertà di giudizio del professionista
nello svolgimento della propria attività.
L’Organizzazione interna degli Ordini
L’attuale organizzazione degli Ordini e
Collegi è fondata sugli Ordini e Collegi territoriali i quali esprimono un consiglio
nazionale per necessità di raccordo interno e di rappresentanza istituzionale in
ambito nazionale.
Tale articolazione deve essere mantenuta, confermando l’autonomia degli Ordini territoriali, consentendo peraltro agli
stessi di dotarsi di strutture di raccordo
anche regionali oltre che nazionali.
La previsione di un’articolazione regionale degli Ordini è inoltre in linea con l’art.
117 della Costituzione oggi vigente, realizzando pienamente, ma senza sovrapposizione di ambiti, quella previsione di potestà legislativa concorrente nello stesso
articolo prevista.
Con riferimento alla organizzazione
interna degli Ordini e Collegi, ferma la potestà di autoregolamentazione degli stessi, si
evidenzia la necessità di prevedere anche
l’obbligo, per le articolazioni degli Ordini
che hanno il potere di imporre il versamento di un contributo da parte degli iscritti per
il proprio funzionamento - attualmente i
consigli nazionali e in futuro, si auspica, le
articolazioni regionali - di sottoporre all’assemblea degli Ordini locali un bilancio preventivo e un bilancio consuntivo a giustificazione delle richieste di contributo e del
suo utilizzo, e ciò in conformità a quanto
già avviene per gli Ordini territoriali.
Parrebbe questa una necessità inderogabile per assicurare il corretto esercizio
democratico
e partecipato della attività delle articolazioni regionali e nazionali degli Ordini.
Conclusioni
Vi pare possibile che la legislazione su
una materia così delicata venga affidata ad
una delega che sarebbe più proprio definire
arbitrio per l’indeterminatezza e la genericità
che la connota rendendola ,quanto meno, al
limite della legittimità costituzionale?
Sulla delega così come contenuta nel
disegno di legge di iniziativa governativa è
quindi un no secco che dicono i professionisti.
I professionisti vogliono, attraverso il
loro imprescindibile contributo, perché è
sul loro futuro che si sta operando, una
riforma scritta non nell’interesse di questa
o di quella componente sociale, ma per la
crescita dell’intero paese.
L’autore
* Presidente CUP Regione Lombardia
Infermiere a Pavia
1° CONGRESSO DELE PROFESSIONI
INTELLETUALI DELLA LOMBARDIA
LECCO 11 MAGGIO 2007
MOZIONE FINALE
Il CUP Lombardia, con i propri delegati, a conclusione dei lavori del 1° Congresso
delle Professioni Intellettuali
APPROVA
la relazione predisposta dal Presidente
DA MANDATO
al proprio Consiglio Direttivo di dare attuazione ai contenuti espressi nel documento medesimo
in particolare
CHIEDE
al Governo Regionale della Lombardia che venga riconosciuto il ruolo del sistema
delle professioni intellettuali che oggi può rappresentare, grazie alla propria capillare organizzazione unitaria, il propulsore di una nuova fase di sviluppo favorita dal
coinvolgimento delle professioni nei processi decisionali di competenza regionale,
per la promozione di una competitività basata sulla qualità delle prestazioni e sulla
formazione permanente, condizione indispensabile per favorire e promuovere una
sempre più elevata qualità della vita.
ESPRIME LA PRORIA CONTRARIETA’
coerentemente con le valutazioni espresse dal CUP Nazionale e dal Forum delle
Professioni Intellettuali, in merito al progetto di legge governativo di riforma delle
professioni
RIBADISCE IL NO
a deleghe in bianco a tutto campo in assenza di propedeutiche condivise e chiare
soluzioni sulle principali criticità della riforma;
alla assimilazione delle attività professionali alle attività di impresa;
alla assimilazione del cittadino/cliente al consumatore/utente.
CHIEDE
A tutela degli interessi generali connessi all’esercizio delle professioni intellettuali ed
alla garanzia della terzietà, indipendenza ed autonomia dei professionisti intellettuali che la riforma non possa prescindere dai seguenti punti fermi:
definizione di professione intellettuale;
definizione di un confine più marcato tra le prerogative degli Ordini e delle Associazioni;
riconoscimento delle sole professioni, tra quelle non regolamentate, le cui attività
non coincidano con quelle esercite dalle professioni oggi regolamentate;
conferma di tutti gli Ordini esistenti le cui eventuali riorganizzazioni o accorpamenti
devono essere condivisi dalle professioni interessate;
regolamentazione delle strutture societarie nel rispetto degli ordinamenti di ciascuna professione;
conferma del formale riconoscimento degli Ordini quali “Enti pubblici non economici”;
conferma della autonomia dei livelli territoriali dei singoli Ordini, a garanzia di un
sistema rappresentativo, democratico e partecipativo;
individuazione di standard qualitativi minimi prestazionali, in particolare per prestazioni riservate o ad evidenza pubblica;
garanzia di intangibilità, autonomia e valorizzazione delle Casse di Previdenza dei
liberi professionisti.
ESPRIME IL PROPRIO APPREZZAMENTO
Pur riservandosi proposte di emendamenti migliorativi, nei confronti della proposta
di legge di iniziativa popolare “Riforma dell’ordinamento delle professioni intellettuali”
GARANTISCE
Il massimo impegno, in sinergia con il Forum delle Professioni Intellettuali, di tutti i
CUP territoriali aderenti, per la raccolta delle firme.
Il Presidente
Enrico Rossi
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Numero 2/2007
A domanda . . .
Buongiorno, sono una caposala che lavora alla fondazione Maugeri in un ambulatorio di medicina del lavoro 626. Vorrei avere dei chiarimenti riguardo il prelievo, le
mie domande sono:
1) in un ambiente ospedaliero, la caposala o l’IP puo’ effettuare il prelievo ematochimico anche in assenza del medico dell’ambulatorio?
2) Quale figura può effettuare gli elettrocardiogrammi nelle ditte, fabbriche ecc..
comunque al di fuori dell’ambiente ospedaliero ? E serve la presenza del medico?
Vi ringrazio e attendo vostra risposta.
. . . Risposta
Gentile collega,
nel ringraziarLa per la sua mail del 14 aprile u.s. volevamo comunicarLe quanto segue.
Con perplessità abbiamo letto il contenuto, in quanto ormai a circa 8 anni dall’abrogazione del mansionario con la L. 42/99, eravamo sicuri che era patrimonio comune
l’ambito di responsabilità in cui il professionista infermiere si muove, cioè sulle cose
che possiamo o che non possiamo fare, soprattutto se le attività in questioni risultano essere la normale attività lavorativa.
In ogni modo cerchiamo di dare una spiegazione normativa alla questione da Lei
sottoposta.
La tradizionale elencazione delle mansioni attribuibili all’infermiere professionale
previste dal D.P.R. 14 marzo 1974 n° 225, è venuta meno per opera della legge n° 42
del 26 febbraio 1999. Il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni
sanitarie di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n° 502,
e successive modificazioni e integrazioni, è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione post - base nonché degli specifici
codici deontologici, fatte salve le competenze previste per le professioni mediche e
per le altre professioni del ruolo, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze
professionali.
A suffragare quanto appena detto ci viene incontro anche la principale fonte normativa di riferimento, cioè il profilo professionale dell’infermiere, recepito con il D.M.
14 settembre 1994, n° 739.
L’elenco delle cose che era possibile svolgere con il DPR 225/1974 ora viene sostituito da tre criteri guida (le cose che possiamo fare) e un criterio limite(le cose che
non possiamo fare)1.
I criteri guida sono dati dal contenuto del profilo professionale, dalla formazione di
base e post-base ricevuta e dalla deontologia professionale. Il limite, per quanto
riguarda la professione infermieristica, è rappresentato dalle competenze previste per
il medico: cioè nella più ampia accezione la ricerca della diagnosi e la prescrizione
della terapia.
Venendo alle richieste da Lei sottoposteci, le attività menzionate sono assolutamente presenti all’interno dei piani didattici dei corsi di laurea di base in scienze infermieristiche e quindi assoluto patrimonio dell’attività dell’infermiere.
Addirittura, tali attività, erano già presenti nel cosiddetto mansionario nel ‘74, con
un’unica postilla per quanto riguarda l’esecuzione dell’elettrocardiogramma che precisava che esso doveva essere eseguito sotto prescrizione e controllo medico.
Tale postilla oggi non ha più senso di esistere, in quanto l’infermiere è divenuto professionista intellettuale e autonomo, quindi capace di decidere sulle proprie attività in
base alle proprie conoscenze.
Indi per cui le sue perplessità sul fatto che l’infermiere possa eseguire un prelievo
senza la presenza di un medico o possa eseguire un elettrocardiogramma al di fuori
dell’ambito ospedaliero, dovrebbero essere rimosse.
Con questa lettera abbiamo cercato di essere i più esaustivi possibili, anche se forse
avremmo avuto bisogno di maggiori dettagli che non erano in nostro possesso, per
avere così una visione più generale. Quindi la esortiamo a prendere contatti con noi per
un colloquio che ci chiarisca meglio le vostre perplessità per venirle meglio incontro.
Nell’attesa di un suo contatto le inviamo distinti saluti.
Simone Baratto
Consigliere Collegio IPASVI di Pavia
1
Benci L.,”Professioni sanitarie… non più ausiliare”, Rivista di diritto delle professioni sanitarie, 1, 1999.
Consiglio
Direttivo
A seguito delle dimissioni della
Consigliera Rapeti Susanna, il
Consiglio Direttivo del Collegio
IPASVI della provincia di Pavia
risulta così composto:
Consiglio Direttivo:
Frisone Enrico, Presidente
Quattrocchi Salvatore, Vicepresidente
Rampi Annamaria, Tesoriere
Giudici Silvia, Segretario
Baglioni Elena
Baratto Simone
Braga Giuseppe
Buongiorno Daniela
Ciancio Gabriele
Gerletti Jeannette
Massaro Michela
Melino Stefania
Sforzini Andrea
Tanzi Annamaria
Collegio dei Revisori dei conti:
Di Martino Raffaella
Pagano Carmela
Cavallaro Claudia
Revisore supplente:
Bellingeri Andrea
Tribunale per i diritti del malato
Carta dei diritti
sul Dolore inutile
1) Diritto a non soffrire inutilmente
Ciascun individuo ha diritto a vedere alleviata la
propria sofferenza nella maniera più efficace e tempestiva possibile.
In passato ignoranza, pregiudizi e rassegnazione hanno
impedito che si affrontasse in maniera adeguata il dolore
connesso alla malattia. In realtà il dolore è un sintomo che
va curato con la stessa attenzione riservata alle patologie
per evitare che si cronicizzi e diventi esso stesso “malattia”. E’ necessario, pertanto, che si crei un nuovo approccio culturale al tema della sofferenza e del dolore inutile e
che la terapia del dolore diventi parte integrante del percorso terapeutico. Ogni individuo ha diritto di sapere che il
dolore non va necessariamente sopportato, ma che gran
parte della sofferenza può essere alleviata e curata intervenendo con la giusta terapia. Il dolore deve essere eliminato o, almeno, attenuato in tutti i casi in cui sia possibile
farlo poiché esso incide in maniera pesante sulla qualità
della vita. E’ un diritto che deve essere riconosciuto e
rispettato sempre e ovunque, dai reparti ospedalieri alle
strutture di lungodegenza, dal pronto soccorso al domicilio
del paziente.
• il servizio sanitario pubblico deve essere in grado di assicurare un’adeguata assistenza al dolore sia all’interno che
all’esterno delle strutture sanitarie. Queste ultime dovrebbero garantire un servizio di terapia del dolore (semplice o
complesso, in funzione della qualità e quantità delle prestazioni erogate) qualitativamente conforme alle più recenti linee guida internazionali e in grado di assicurare un trattamento idoneo a tutti i soggetti bisognosi. L’accesso alla
terapia sul territorio va garantito, soprattutto, attraverso le
prestazioni al domicilio del paziente, facendo riferimento
alle linee guida dell’OMS, predisponendo procedure di
prescrizione e somministrazione dei farmaci più semplici
ed evitando sospensioni della continuità assistenziale;
• i farmaci e le tecniche per la terapia del dolore, e tutti gli
strumenti tecnici propedeutici alla loro corretta somministrazione, devono essere compresi tra le prestazioni che il
servizio sanitario pubblico garantisce effettivamente a tutti
i cittadini. Ogni persona ha il diritto di accedere a procedure innovative secondo gli standard internazionali, senza
che possano essere accampati impedimenti di carattere
economico o finanziario.
4) Diritto ad un’assistenza qualificata
2) Diritto al riconoscimento del dolore
Tutti gli individui hanno diritto ad essere ascoltati e
creduti quando riferiscono del loro dolore.
Il dolore è caratterizzato da una forte componente soggettiva, poiché la sofferenza è influenzata da numerosi fattori
individuali, come avvalorato anche dalla letteratura. Per
intervenire nella maniera più adeguata, gli operatori hanno
il dovere di ascoltare, prestare fede e tenere nella massima
considerazione la sofferenza espressa. Il cittadino deve
essere libero di riferire il dolore provato, con la terminologia che gli è propria, e assecondando le proprie sensazioni,
senza temere il giudizio dell’operatore, che deve impegnarsi ad interpretare al meglio quanto il paziente cerca di
comunicare.
3) Diritto di accesso alla terapia del dolore
STAMPA: TIPOGRAFIA MANCINI S.A.S.
TIVOLI
PROGETTO GRAFICO:
ROMA
- 06 2054202 - 339/ 5675044
Ciascun individuo ha diritto ad accedere alle cure
necessarie per alleviare il proprio dolore.
Attualmente persistono numerosi limiti all’accesso alla
terapia del dolore. L’ostacolo maggiore è rappresentato da
pregiudizi di ordine culturale, che perdurano nella classe
medica, anche in seguito alla carenza di formazione specifica sia al livello universitario che nei momenti di aggiornamento professionale. Ad aggravare queste resistenze si
aggiungono procedure eccessivamente rigide, quali la
mancata considerazione di alcune tipologie di dolore, varie
preoccupazioni di ordine economico-finanziario e la diffusa inadeguatezza delle strutture sanitarie. Per rendere
accessibile la terapia del dolore sono indispensabili il riconoscimento e la condivisione di alcuni presupposti fondamentali:
• la considerazione e la cura del dolore provato dal paziente dovrebbero rappresentare, per tutti i componenti dell’équipe assistenziale, uno standard di qualità professionale e
un dovere deontologico, a prescindere dalle convinzioni etiche, religiose o filosofiche, allo scopo di garantire all’assistito la migliore qualità di vita possibile;
• tutte le tipologie di dolore meritano uguale considerazione, indipendentemente da quale sia la patologia o l’evento
che ne è all’origine. Hanno quindi pari diritto di essere
curati nel loro dolore non solo quanti affrontano le fasi terminali della vita, ma anche coloro che soffrono di dolore
cronico non da cancro e acuto (da parto, da trauma, da
intervento chirurgico, o che necessitano di primo intervento al pronto soccorso); in particolare, tutte le donne dovrebbero essere messe nelle condizioni (compatibilmente con la
situazione clinica) di partorire senza dolore;
Ciascun individuo ha diritto a ricevere assistenza al
dolore, nel rispetto dei più recenti e validati standard
di qualità.
Ogni persona ha diritto a ricevere assistenza al dolore da
operatori adeguatamente formati e aggiornati, in maniera
che sia garantito il rispetto degli standard di qualità internazionali. E’ necessario che la conoscenza del problema
“dolore” (ormai considerato il quinto segno vitale), della
sua quantificazione (misura del dolore) e delle possibilità
di trattamento divengano patrimonio professionale di tutti
gli operatori sanitari, in maniera che sia sempre garantita al
cittadino la possibilità di veder alleviata la sua sofferenza,
anche in assenza di specialisti della materia. Sarebbe
opportuno che la misurazione del dolore avvenisse con
metodi validati al livello internazionale e che la relativa
registrazione fosse indicata nella cartella clinica. E’ inaccettabile che, persino quando le leggi prevedono strumenti
atti a facilitare la prescrizione di farmaci oppiacei, il ricorso ad essi risulti, di fatto, negato per impreparazione o
indisponibilità di medici ed operatori.
5) Diritto ad un’assistenza continua
Ogni persona ha diritto a vedere alleviata la propria sofferenza con continuità e assiduità, in
tutte le fasi della malattia.
Il dolore deve essere monitorato regolarmente in tutte le fasi della malattia; la continuità
assistenziale potrebbe essere messa in
discussione da un’inadeguata attenzione
allo sviluppo della patologia e dal venir
meno dell’indispensabile rimodulazione della terapia. Particolare attenzione
rispetto alla continuità della cura va
posta nel passaggio dall’ospedale al
territorio, evitando situazioni di
discontinuità per irreperibilità degli
operatori o indisponibilità di farmaci e presidi.
6) Diritto ad una scelta libera e informata
Ogni persona ha diritto a partecipare attivamente alle decisioni
sulla gestione del proprio dolore.
Ogni decisione presuppone un’informazione corretta, completa e com-
La campagna “Aboliamo i dolori forzati” è realizzata con il sostegno di
In collaborazione con: AIMEF, Associazione Italiana Medici di Famiglia - AIOM, Associazione Italiana di Oncologia Medica
ANMAR, Associazione Nazionale Malati Reumatici - ANTEA onlus - Azienda Ospedaliera Le Molinette di Torino
FIMMG, Federazione Italiana Medici di Medicina Generale - SIAARTI, Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva
SIFO, Società Italiana Farmacisti Ospedalieri - SIMG, Società Italiana di Medicina Generale
SIOT, Società Italiana Ortopedia e Traumatologia - SIR, Società Italiana Reumatologia
Il Tribunale per i diritti
del malato è una rete di:
prensibile, che tenga conto del livello culturale del paziente e del suo stato emotivo. Ogni intervento terapeutico
finalizzato ad alleviare la sofferenza va concordato e
modulato, nella qualità e nell’intensità, in accordo pieno e
consapevole con la volontà del paziente, secondo i principi sui quali si fonda un buon consenso informato. Ogni
persona ha il diritto di ricevere risposte pronte ed esaurienti
ai suoi interrogativi, e di disporre di tutto il tempo necessario ad assumere le decisioni conseguenti.
7) Diritto del bambino, dell’anziano e dei soggetti che “non hanno voce”
I bambini, gli anziani e i soggetti che “non hanno
voce” hanno lo stesso diritto a non provare dolore
inutile.
La valutazione ed il trattamento del dolore in età pediatrica sono stati a lungo ignorati. La medicina ufficiale, infatti, spesso si accontenta di trasferire sui bambini le conoscenze già sviluppate sugli adulti piuttosto che avviare
ricerche e studi appositi, che tengano conto delle specificità della condizione infantile e delle sue implicazioni psicologiche. La paura e l’ansia, presenti in tutti i soggetti a
contatto con la malattia, assumono caratteristiche peculiari nei piccoli malati, nelle persone con disagi psichici o con
gravi handicap mentali e in alcuni anziani. In questi soggetti la sofferenza trova difficoltà ad essere espressa e la
sua lettura non viene registrata adeguatamente per mancanza di un approccio integrato.
8) Diritto a non provare dolore durante gli
esami diagnostici invasivi e non
Chiunque debba sottoporsi ad esami diagnostici, in
particolare quelli invasivi, deve essere trattato in
maniera da prevenire eventi dolorosi.
Alcuni esami diagnostici invasivi non vengono affrontati
serenamente quando incutono timore per il dolore che possono provocare.