N. 2 del 2007 - IPASVI Pavia
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N. 2 del 2007 - IPASVI Pavia
Registrazione presso il Tribunale di Pavia n. 355 del 08.02.1989. Sped. in abb. postale - Comma 20/C 2 L. 662/96 - Fil. di Pavia - IN CASO DI MANCATO RECAPITO RESTITUIRE AL MITTENTE CHE SI IMPEGNA A PAGARE LA RELATIVA TASSA - REINVIARE ALL’UFFICIO PAVIA-FERROVIA 2/2007 a Infermiere P A V I A ISSN 1722-2214 DITORIALE E 2 PAGINA Infermiere a Pavia 12 maggio Giornata Internazionale dell’Infermiere Infermiere a Pavia Rivista trimestrale del Collegio IP.AS.VI. di Pavia Anno XIX n. 2/2007 marzo-aaprile 2007 Editore Collegio Infermiere professionali, Assiatenti Sanitarie, Vigilatrici d’Infanzia della Provincia di Pavia Direttore Responsabile Enrico Frisone Capo Redattore Giuseppe Braga Segreteria di Redazione G. Braga Comitato di Redazione O. Bonafè, G. Braga, M. Cattanei, S. Conca, S. Giudici, R. Rizzini, A.M. Tanzi Hanno collaborato S. Baratto, N. Greco, C. Maraschi, M. Massaro, a questo numero: F. Poma, P. Ripa, E. Rossi Impianti e stampa Gemini Grafica snc - Melegnano (MI) Direzione, Redazione, V'ia Volta 25 - 27100 Pavia Amministrazione Tel. 0382/525609, Fax 0382/528589 CCP n. 10816270 Stampata su carta patinata a basso contenuto di cloro certificata Iso 9706 I punti di vista e le opinioni espressi negli articoli sono degli autori e non rispettano necessariamente quelli dell’Editore. Manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non saranno restituiti. Registrazione presso il Tribunale di Pavia n. 355 del 08.02.1989. Spediz. abb. post. art. 2, comma 20, lettera C Legge 662/96 - Fil. Pavia La rivista è inviata gratuitamente agli iscritti al Collegio IP.AS.VI. di Pavia. Finito di stampare nel mese di maggio 2007 presso Gemini Grafica snc di S. & A. Girompini, Melegnano (MI) E tica e assistenza infermieristica un binomio indivisibile verso il cittadino e la comunità. In occasione della giornata internazionale dell’Infermiere, Sabato 12 maggio,gli infermieri della Provincia di Pavia riuniti a convegno presso la Sala Rossa dell’ASL di viale Indipendenza, hanno affrontato un momento di importante riflessione e confronto su temi Etici e deontologici con la presenza di illustri relatori. Esperti di Etica, Filosofi, Dirigenti e Ricercatori a livello europeo hanno discusso gli spinosi temi dell’etica in sanità. “Il nostro obiettivo, è quello di consolidare il contributo che gli infermieri offrono alla società ogni giorno, ma soprattutto intendiamo riflettere su come migliorare l’efficienza, l’efficacia e l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie erogate ai cittadini. Un aperto confronto tra più voci e correnti di pensiero su temi di attività e responsabilità, nel rispetto della salute del cittadino.” Questa assise, ha avuto l’intento di evidenziare come la professione infermieristica, sia stata l’unica figura che in sanità, abbia avuto il coraggio di mettersi in discussione, ripensando il corso di studio, i contenuti professionali, l’ organizzazione, senza mai perdere di vista i cambiamenti della domanda di salute e le grandi trasformazioni che hanno coinvolto le persone e la governabilità del sistema.” La giornata del 12 maggio appena trascorsa riflette queste esigenze e pone sotto i riflettori dubbi, incertezze e contraddizioni di un sistema sanitario che basandosi sul modello delle Regione Lombardia, deve necessariamente fondare la propria riorganizzazione su fatti concreti e non su mere illusioni propagandistiche. “Il tema sul quale sarà necessario pensare alla riorganizzazione, dovrà prevedere anche una riflessione più ampia sul rapporto tra medici e infermieri, considerando formazione e numeri, per una presa in carico assistenziale più adeguata e una concreta realizzazione della continuità assistenziale integrata. Gli infermieri Pavesi sono in grado di rispondere con i fatti alla richiesta della società di prendere in carico i pazienti e i temi affrontati nel convegno sono la perfetta riprova del valore delle loro affermazioni. Il Presidente Enrico Frisone 3 PAGINA Numero 2/2007 La c omunicazione è . . . * Annamaria Tanzi “...Tutto ciò che non si realizza nella comunicazione non esiste e le persone si manifestano a loro stesse comunicando con altre persone”. Jaspers è … tra le attività della vita quella, a cui dedichiamo più tempo eppure, la COMUNICAZIONE è un termine di difficile definizione. Jaspers, uno dei pensatori moderni, riconosce che “tutto ciò che non si realizza nella comunicazione non esiste e che le persone si manifestano a loro stesse comunicando con altre persone”. La psicologia riconosce nella comunicazione il processo attraverso cui il comportamento di un organismo costituisce uno stimolo per un altro. La sociologia contemporanea mette l’accento sulla comunicazione come elemento fondamentale dell’interazione sociale e tenta l’integrazione con molte delle altre scienze umane e non solo: la psicologia, la semiologia, l’informatica, la linguistica, la comunicazione non verbale o analogica. La teoria dell’informazione, sostiene che vi è informazione solo quando è annullata o ridotta una situazione di incertezza. Ebbene per alcuni la comunicazione è …, per altri invece per comunicazione si intende … e per altri ancora la comunicazione c’è quando …; insomma! Non è facile collocare in modo preciso e “assoluto” questo termine. Conviene allora capire che idea abbiamo sul significato di comunicazione, in relazione al tipo di lavoro che svolgiamo e la professione infermieristica avviene (deve avvenire) necessariamente all’interno di una complessa attività interpersonale perché l’infermieristica è scienza dell’Uomo per l’Uomo, essere Unico e Irripetibile. è… tutto il mondo intorno La Comunicazione comincia dovunque, media tutti i rapporti umani, è onnipresente e onnicomprensiva, coinvolge direttamente tutti e ciascuno e, anche se implica degli scopi, non ha fine. Nelle società umane (nondimeno nel mondo animale, vegetale e nell’intero cosmo), la comunicazione è un processo continuo e, anche se può presentare distorsioni, patologie e fraintendimenti, non si può mai dire che essa si interrompa realmente. La comprensione della comunicazione include le attività non verbali accanto a quelle verbali. Talora si continua a limitare la comunicazione alla comunicazione conscia: “Oh, ma io non volevo dire …”, dichiarazioni del genere confermano, con l’atto della negazione, l’osservazione di quel primo specialista della comunicazione linguistica che fu Sigmund Freud, secondo cui “vogliamo sempre dire ciò che diciamo, e intendiamo sempre ciò che comunichiamo, lo si riconosca consapevolmente o no. Comunque, anche allargandolo fino a comprendere la comunicazione non verbale e quella inconscia, il rapporto di comunicazione fra esseri umani sarà il più delle volte implicitamente o esplicitamente limitato ai messaggi intercorrenti fra “due o più” soggetti reali e presenti. Questa definizione non lascia spazio alla codificazione ed alla mediazione dei discorsi sia verbali sia non verbali. Da questo punto di vista rimane inesplicabile che gli esseri umani comunichino continuamente con un onnipresente “altro”, o con fantasie ed immagini relativa ad “altri” reali. E’ ugualmente inesplicabile che molti messaggi siano mediati da persone che non sono presenti, o dalle strutture informative e dai codici dei rapporti esistenti nella società in generale. Inoltre, l’idea che la comunicazione implichi soltanto due o più persone (EMITTENTE-RECETTORE), ha il risultato di tagliar fuori, da ciò che viene consapevolmente riconosciuto come comunicazione, la quasi totalità dell’informazione che in realtà si riceve e si elabora ad ogni istante. Ogni messaggio, anche se indirizzato genericamente, è organizzato in funzione di un obiettivo o mediato da un rapporto. Si potrebbe trovare conveniente credere che “i monologhi” e il “parlare con se stesso” siano attività che coinvolgono solo una persona, in realtà i messaggi sono sempre diretti da qualche persona a qualche aspetto dell’ambiente, o a qualche “altro”, reale o immaginario, presente o no. La COMUNICAZIONE non è un processo che gli esseri viventi ed umani possono scegliere di mettere in atto o no a loro piacimento. Il SILENZIO costituisce di per sé una comunicazione e, se si può scegliere se parlare o restare in silenzio, nessun organismo vivente può in realtà scegliere di non comunicare. La comunicazione è un elemento costitutivo dell’ecologia dell’individuo in un determinato ambiente, perché l’Uomo, un insieme di desideri, bisogni, pensieri, istinti unici ed irripetibili, non è separato dall’ecosistema comunicazionale semmai, è I n d i c e S p a z i o concentrato La comunicazione è . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .3 Voglia di tenerezze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .10 I valori etici della nuova relazione all’interno dell’Azienda Ospedale .13 La comunicazione con l’anziano: come promuovere un’auspicata e mitigante serenità attorno alla persona che invecchia . . . . . . . . .17 Il conflitto delle emozioni nel “prendersi cura” . . . . . . . . . . . . . . . .19 Rinnovo degli Organi Collegiali dell’ENPAPI . . . . . . . . . . . . . . . . . .30 L’esercizio Libero Professionale in forma associata . . . . . . . . . . . .32 Aggiornamento Aggiornamento in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .34 Norme editoriali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .31 4 PAGINA proprio questo che gli fornisce il suo potenziale vitale, la sua sfera di individualità ed il suo campo di significazione. Nella teoria dell’informazione la comunicazione è definita come l’utilizzazione di un codice per la trasmissione di un messaggio, tale da permettere che un emittente ed un ricevente possano entrare in rapporto. E’ evidente che ogni comportamento e condizionamento intersoggettivo può venire considerato in termini comunicativi, sulla base magari di uno schema del tipo stimolo-risposta, tenuto conto, fra l’altro, delle differenze che esistono tra animale e UOMO, dei diversi meccanismi psicofisici e di coordinate generali, come l’opposizione analogico/digitale che sembra regolare le varie forme di comunicazione. La funzione comunicativa è assolta, in primo luogo, dalle lingue storico-naturali, articolate nei loro livelli, forme, strumenti operativi (fonetica, grammatica, semantica, lessico, orale/scritto, ascolto, lettura …), regole e realizzazioni (dicibile/indicibile, discorso…). Vari tipi di produzione artistica hanno alla base della loro comunicazione la lingua, che funge da sistema modellizzante primario (letteratura, narrazione…); anche però per le ARTI che sembrano non contemplare tale caratteristica, si può parlare di processo di comunicazione, quello, ad esempio, che lega l’artista e fruizione dell’opera. A tal proposito, le ATTIVITA’ ESPRESSIVE (gli atelier di pittura e disegno, i laboratori di musicoterapia, la teatroterapia, la danza-movimento terapia, le attività pratico-manuali, il gruppo giornale, i giochi di ruolo e lo psicodramma) entrate nella pratica istituzionale sanitaria, per esempio nell’ambito della riabilitazione psichiatrica, non sono direttamente legate alla parola ma rappresentano un momento di riappropriazione della soggettività a livello sociale rendendo possibile la comunicazione fra il “dentro” di sé” e il “fuori” di sé. Si tratta di una esperienza che ha un ruolo importante nella ristrutturazione della personalità, favorisce un contatto con il reale, da spazio all’immaginario … ricrea la capacità di comunicare. La COMUNICAZIONE è… alla base stessa del funzionamento di una cultura e dei suoi tipi di linguaggio, ognuno dei quali è organizzato in simboli e segni d un codice. Si può dunque dire che le credenze, gli oggetti, ad esempio, della cultura materiale, la festa, il gioco, i sistemi di parentela comunichino, così come l’abbigliamento, il mito, il rito. Tutti dati che forniscono indicazioni sia su se stessi sia sul tipo di logica della cultura che esiste all’interno di ogni società. Ogni comportamento dunque rappre- Infermiere a Pavia senta un messaggio per gli altri divenendo una “comunicazione” anche quando non esiste intenzionalità o volontà a farla. Gesti e movimenti del corpo, posture, sguardi ed espressione del volto, vocalizzazioni, contatto corporeo, componenti dell’aspetto esteriore, parole e silenzi influenzano il mondo intorno a noi, un mondo che risponde a queste sollecitazioni. La comunicazione è retta da semplici regole che è necessario conoscere per stabilire relazioni efficaci ed armoniose soprattutto con gli Altri da noi, le persone malate, le persone sane cioè i soggetti dell’assistenza infermieristica. La conoscenza delle regole della comunicazione permetterà di valutare, analizzare ed eventualmente cambiare il proprio sistema comunicativo e/o le strategie comunicative che dipenderanno sempre dai contesti agiti e dal qui ed ora della relazione. Saper Comunicare (Saper Ascoltare) la conditio sine qua non dell’assistenza infermieristica. Implica, l’apprendimento e l’esercizio della capacità comunicativa perché elemento chiave di ogni relazione umana. La capacità di comunicare è il fondamento di ogni programma di cura individuale, centrata sul paziente. Il comunicare è un’attività della sfera dell’anima e dello spirito, con il linguaggio verbale e non verbale l’individuo esprime il suo modo di essere, l’Uomo usa il linguaggio come mezzo di forza creativa e terapeutica ed espressione della propria personalità. Il comunicare è un’attività dell’organismo perché attraverso gli organi della fonazione che producono i suoni ed i centri cerebrali che li dirigono, si realizza la costruzione, il controllo e l’emissione del linguaggio (VERBALE), poi c’è il linguaggio del corpo (NON VERBALE). Il comunicare è un’attività sociale: per mezzo del linguaggio l’individuo è in relazione con l’ambiente circostante. Così l’Uomo si relaziona con gli altri, con le forme viventi, con quelle inanimate, nella trascendenza,con sé stesso. Comunicare significa trasmettere ad altri qualcosa, renderli partecipi, mettere qualcosa in comune. L’azione di comunicare è una caratteristica fondamentale dell’esistenza umana. … un processo di scambio di informazioni e di influenzamento reciproco che avviene in un determinato CONTESTO. E’ un’esperienza di relazione con gli altri che influenza sempre reciprocamente. Nella comunicazione umana gli elementi fondamentali sono: l’emittente, il ricevente, la relazione, il contenuto, il contesto. Solo la coesistenza di questi è è cinque elementi garantisce il processo di comunicazione quale presupposto fondamentale di una relazione intersoggetiva. L’emittente è colui che invia un messaggio, il ricevente è invece colui che è chiamato nella posizione di interlocutore, entrambi partecipano con un proprio mondo interno (conoscenze, atteggiamenti, valori, aspettative), entrambi sono in un contesto (secondo la teoria della comunicazione “il CONTESTO è un insieme di comunicazioni che definiscono una relazione e che è a sua volta definito da essa) che è tutto ciò che sta intorno, agiscono messaggi all’interno di questo contesto (ambiente) e in un fluire di codifica e decodifica dei messaggi stessi. Mondo Interno e Contesto inev stabilmente condizioneranno le risposte. Pertanto due sono i livelli della comunicazione: un livello di contenuto (cosa diciamo) e un livello di relazione (come lo diciamo). Il “come” dispone di diversi canali: - Paralinguistica - Prossemica - Mimica - Cinesica. Canali che rimandano alla tonalità emozionale di un discorso; all’uso dello spazio fisico (definire, conquistare, difendere il territorio individuale) inteso come una specifica elaborazione della cultura; all’espressione del viso e lo sguardo; alla gestualità, ai movimenti e alle posture del corpo e non meno carichi di significato si devono considerare i contatti fisici fra le persone; i segnali prosodici della voce (timbro, pause, tono, cadenza, enfasi) e infine, l’abbigliamento e le decorazioni del corpo. La comunicazione non verbale è potente (più potente del linguaggio), attendibile (perché poco controllata), più espressiva del linguaggio perché oltrepassa i limiti semantici e comunica senza necessità di decodifica dei contenuti, rapida: per esempio uno sguardo esprime immediatamente un desiderio o uno stato d’animo. L’approdo a questa introduzione è stato costituito da una possibile DEFINIZIONE di COMUNICAZIONE: Una comunicazione che si voglia definire vera è possibile solo se riusciamo ad individuare il motivo alla base del comportamento dell’altro, e se siamo in grado di superare i blocchi emotivi di cui siamo spesso prigionieri. Una comunicazione che si voglia definire tale è possibile solo se riusciamo a far comprendere il nostro contenuto. La comunicazione è importante in generale non soltanto per lavorare in gruppo. Alla base deve esserci l’ASCOLTO senza il quale non può aversi un dialogo 5 PAGINA Numero 2/2007 ma soltanto un monologo. Non ci sono formule miracolose per comunicare in modo efficace anzi, si incontrano numerose difficoltà nello studio della comunicazione per almeno due motivi: 1. APPARENTE OVVIETA’ 2. MILLE SFACCETTATURE COMUNICARE deriva da COMMUNIS che ha tre declinazioni: CUM munia (vincoli coniugali), CUM moenia (mura che circondavano le città) CUM munus (indicavano i regali). Quindi comunicare implica: • Essere legati insieme • Essere collegati dall’avere comuni doveri • Essere legati per condividere comuni sorti • Essersi scambiati un dono. Comunicare è una compartecipazione, non è possibile creare un modello di comunicazione perché ognuno di noi ha un suo piccolo mondo, quando si interagisce sono almeno due mondi a comunicare. Molta importanza è assunta dal CONTESTO in cui la comunicazione avviene e rispetto ai contesti se ne possono individuare almeno tre: • Famiglia, Scuola, Università, Lavoro che rappresentano contesti quotidiani • Insieme dei valori, delle norme e delle credenze • Istituzioni Politiche Economiche e Sociali. Nell’interazione tra due o più persone intervengono nell’ordine le seguenti dimensioni: a. Dimensione del sé b. Dimensione del sentire c. Dimensione dell’identificazione d. Dimensione del rappresentarsi e. Dimensione del pensare f. Dimensione dell’agire comunicativo. La comunicazione è spesso un atto orientato al conseguimento di determinati obiettivi, cioè teso all’ottenimento di qualcosa da parte di qualcuno. Ogni COMUNICAZIONE è una AZIONE è un AGIRE Le funzioni della comunicazione: 1. Soddisfazione dei bisogni psicologici, intellettuali, esistenziali, socio-affettivi 2. La risposta a richieste e aspettative altrui, anche lo svolgimento di ruoli perché il concetto di ruolo implica un concetto di aspettativa. Le abilità comunicative non sono un formulario di pronta efficacia, non si imparano sui libri o sentendone parlare ma sono la nostra capacità di reagire al meglio; sono la nostra esperienza di comunicare con le persone; sono la nostra ricerca di un uso più appropriato del linguaggio. E’ importante acquisire una COMPETENZA COMUNICATIVA che consiste nel: • Saper parlare una lingua • Saperla utilizzare nelle modalità appropriate • Saperla utilizzare nelle situazioni adeguate. In EQUIPE inteso come quel gruppo durevole di professionisti che condividono obiettivi e percorsi di lavoro comune, “allenarsi” a ben comunicare significa esercitarsi il più possibile a affettuare comunicazioni assertive. Per quale motivo? Perché la COMUNICAZIONE ASSERTIVA è: • Diretta, il messaggio è chiaro e non ambiguo • Onesta, il messaggio è coerente, i segnali non verbali della comunicazione corrispondono alle parole dette. • Appropriata, il messaggio è rispettoso dei diritti di tutti (colleghi e capi) • Interattiva, si danno e si ricevono feedback. Comunicare in modo assertivo significa anche esprimere opinioni e desideri: • Sostenere il diritto a esprimere la propria opinione senza scusarsi • Formulare in modo chiaro il proprio punto di vista • Non sottostimarsi o sovrastimarsi • Rendere chiaro agli altri le proprie necessità o aspettative. Comunicare in modo assertivo significa dire di sì, dire di no: • Prendere una posizione chiara, evitando di suscitare equivoci • Argomentare in modo conciso ma esau- stivo il motivo della decisione • Essere fermi sulla propria decisione di fronte a una resistenza o ad argomenti manipolativi. Le qualità fondamentali per comunicare assertivamente sono quelle di padroneggiare l’attività di pensiero ed essere consapevoli delle proprie emozioni e controllarle. Un ruolo importante nella relazione interpersonale (comunicazione) è quello giocato dalle EMOZIONI. Il termine emozione si riferisce ad una classe molto estesa e non ben definita di comportamenti, caratterizzata da reazioni più o meno intense. L’emozione, in condizioni normali dà luogo a comportamenti integrati che ben rispondono, sia per direzione che per energia, alla situazione che l’ha provocata. In questo caso l’emozione va considerata come REAZIONE AGGIUSTATIVA. L’emozione diviene una RISPOSTA DISORGANIZZATA, che impedisce all’organismo di aggiustarsi effettivamente, solo quando è eccessiva. L’aspetto motivazionale dell’emozione corrisponde all’energia e alla direzione significativa del comportamento e si manifesta nelle diverse situazioni che provocano l’emozione. Un altro concetto importante riguarda l’INTELLIGENZA EMOTIVA cioè la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le emozioni, tanto interiormente, quanto nelle nostre relazio- NOTE DI SEGRETERIA Ricordarsi di far pervenire in Collegio, di volta in volta, copia dei crediti formativi ECM inerenti i corsi di aggiornamento effettuati per l’aggiornamento della banca dati 6 PAGINA ni. La competenza emotiva è la traduzione della nostra potenzialità in reali capacità lavorative. L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE IN UNA RIUNIONE DI LAVORO Gli scopi delle riunioni devono essere lette su almeno due piani: • Piano del contenuto – Condividere informazioni di lavoro, portare alla superficie problemi di lavoro, fissare obiettivi di lavoro, programmare l’attività di lavoro • Piano del processo – Migliorare la comunicazione, aumentare il senso di appartenenza al gruppo, impegno e responsabilità verso le decisioni prese, risolvere conflitti. Ogni riunione si compone di tre aree: • Area del contenuto • Area del metodo • Area socio-emotiva. Si tratta di aree interdipendenti che si influenzano reciprocamente, sia in senso funzionale che in senso disfunzionale: a. Area del Contenuto: si compone di tutto ciò che attiene ai CONTENUTI dell’attività di lavoro come informazioni, problemi, soluzione di problemi, verifiche b. Area del Metodo: riguarda tutto ciò che attiene a come il lavoro, nell’ambito della riunione stessa viene svolto, struttura formale del gruppo, modalità di lavoro dichiarate, ruoli, regole c. Area socio-emotiva: comprende tutto ciò che attiene ai soggetti che compongono la riunione di lavoro come atteggiamenti, competenze, motivazioni, ruoli informali, regole implicite di funzionamento. Una riunione è efficace quando: • L’ordine del giorno è chiaro e comunicato a tutti in anticipo • Si conosce il tempo dedicato l’ambiente è idoneo • Gli scopi della riunione sono noti a tutti • Il metodo di lavoro è stato esplicitato • Il clima è supportivo • I problemi si affrontano apertamente • Il leader viene percepito come giusto e imparziale • Ogni partecipante sente di poter parlare • Viene accolto il dissenso • Tutti si sentono responsabili del risultato • Si ottengono i risultati desiderati Alla fine della riunione, il conduttore effettua una valutazione rispetto a cosa è stato prodotto e a come il gruppo ha lavorato. Quando si perdono di vista gli scopi per cui la riunione è stata indetta, non si raggiungono i risultati sperati e soprattutto si è consapevoli di non averli raggiunti, il metodo di lavoro non è chiaro cioè non si sa chi deve fare e che cosa, il leader manipola la riunione per propri scopi non Infermiere a Pavia dichiarati, quando ci si ripete continuamente la RIUNIONE risulterà INEFFICACE. A rendere inefficace una riunione sono i problemi di COMUNICAZIONE: • Non si ascolta • Ci sono forti pregiudizi • Ci sono difficoltà a inserirsi nella comunicazione • Si attaccano le persone anziché le idee • Si litiga. Una riunione è inefficace, quando tutti vanno in direzioni diverse nello stesso tempo (Sindrome dell’animale a molte teste). La Comunicazione … un elemento costitutivo ed essenziale per stabilire relazioni con le persone malate o sane e per questo è necessario impossessarsi di ancoraggi teorici che, integrati alla prassi, assicurino risorse e strumenti conoscitivi per un agire professionale qualificato e appropriato nel padroneggiare l’interazione. La COMUNICAZIONE UMANA possiede uno straordinario potere su emozioni, rappresentazioni, comportamenti, aspettative. La relazione con la persona che usufruisce dei servizi sanitari sul territorio (extraospedalieri) è andata acquisendo negli ultimi decenni un’importanza sempre maggiore perché maggiore è l’afflusso di persone che vi afferiscono, persone che richiedono risposte rapide e di qualità. I comportamenti dell’Operatore Sanitario possono condizionare la qualità del lavoro con l’Utenza, diventa necessario acquisire alcune semplici tecniche relazionali sia per una comunicazione efficace con l’Utenza sia per “conservare” il benessere dell’Operatore. Partendo dal presupposto che la comunicazione è una condizione ineludibile per la vita umana, nell’approccio sistemico la comunicazione e il comportamento diventano praticamente sinonimi: le parole e i loro significati da una parte, i messaggi non verbali e il linguaggio del corpo dall’altra, concorrono, all’interno di un dato contesto, allo svolgersi del comportamento personale. In ambito, per esempio psicoterapeutico (mio particolare campo operativo), la teoria dei sistemi fu una vera e propria rivoluzione copernicana, l’interesse infatti, fu rivolto al contesto in cui il soggetto problematico vive, alle relazioni che instaura e è alle dinamiche che si muovono intorno a lui. L’approccio sistemico propone una visione globale di una realtà complessa e l’Uomo è un essere complesso inserito in un altrettanto realtà complessa. Il nostro contesto operativo è l’ambito sanitario e l’efficacia di un intervento sanitario deve passare attraverso la qualità della relazione interpersonale: l’obiettivo finale è quello di favorire un atteggiamento di apertura e di fiducia nell’interlocutore (l’utente nella fattispecie ma direi anche il/i colleghi di lavoro) attraverso il linguaggio che assume un ruolo fondamentale nello scambio relazionale (il peso o il potere o l’assenza delle parole). E’ importante sapere che nello scambio relazionale tra Operatore e Utente in un dato contesto, entrano in gioco nello stesso momento, vissuto (storia personale), punto di vista (come l’Utente interpreta la propria realtà e come l’Operatore interpreta la propria realtà e quella dell’Utente), attribuzione di senso (senso e significato offerto dall’esperienza della malattia per l’Utente e senso e significato offerto all’esperienza di malattia, alle proprie spinte motivazionali, al proprio agire professionale per l’Operatore) per entrambi e poi abilità del Ricevente/Utente (spazio e tempi personali ossia ciò che l’Utente può e vuole dalla relazione), competenza comunicativa dell’Operatore finalizzata alla costruzione del rapporto terapeutico; la relazione terapeutica e la compliance per l’Utente rispetto agli obiettivi terapeutici dell’Operatore sanitario. In ambito infermieristico, la RELAZIONE non può mai perdere di vista gli aspetti legati alla sofferenza psico-sociale oltre che fisica. Agenti propulsori del piano assistenziale sono i BISOGNI delle persone, il cui riconoscimento e soddisfacimento attraverso gli interventi assistenziali creano lo spazio per la relazione. L’agire infermieristico ha possibilità privilegiate per entrare in contatto con gli altri e per stabilire relazioni significative. L’infermiere è simbolicamente un “contenitore” speciale per qualsiasi genere di richiesta, aspettative, dubbi, incertezze dell’Utenza. Il prendersi cura è una modalità complessa che rispetta la diversità e le caratteristiche delle persone che hanno richieste di aiuto che a loro volta si affidono alle cure anche con vissuti di diffidenza, NOTE DI SEGRETERIA I certificati d’iscrizione possono essere prenotati anche telefonicamente. Il ritiro può essere direttamente o effettuato da una terza persona debitamente delegata, anche concordando, con l’impiegata, il giorno del ritiro. 7 PAGINA Numero 2/2007 paura, umiliazione, vergogna, dolore … dolore mentale. Ebbene, il riconoscimento e la comprensione di questi sentimenti all’interno di un clima empatico, aggiungono valore all’interazione (intesa – alleanza – cooperazione) tra Operatore e Utente. Riconoscere emozioni, pensieri, immagini, sensazioni e in una parola INTUIRE lo STATO D’ANIMO dell’Altro (Empatia) è un’operazione problematica e non è così sicuro che il linguaggio di cui noi Operatori della salute disponiamo, sia adeguato, idoneo e sufficiente per esprimere questi contenuti e che sia al tempo stesso efficace sotto il profilo terapeutico (che permetta dunque di raggiungere lo stato di benessere possibile in una determinata situazione). E’ basilare costruire un linguaggio che sappia sempre tener in considerazione che ogni persona costituisce un universo di senso a se stante, che le stesse parole per due persone corrispondono a immagini e sentimenti diversi, che i nostri assunti non sono quelli dell’Altro, che l’Altro è un Altro unico e irripetibile e che infine … con l’aiuto dell’empatia è possibile superare il gap comunicativo. In ogni atto comunicativo è il modo in cui diciamo le cose che viene percepito e valutato dal/dagli interlocutore/i per cui è stato valutato che sono i gesti che occupano la percentuale maggiore, ben il 55% contro il 38% del tono e appena il 7% delle parole. Questo evidenzia che nella relazione con l’Altro in generale risulta fondamentale la comunicazione sia essa verbale sia essa non verbale, e che proprio per il valore e la forza di quest’ultima è impossibile non comunicare perché si comunica sempre qualcosa, allo stesso modo è difficile non rispondere e il messaggio una volta trasmesso non è modificabile. Una lettura della Comunicazione alla luce dell’Analisi Transazionale può fornire all’Operatore Sanitario alcune conoscenze per capire meglio il tipo di utenza che ha di fronte e gli strumenti operativi per una comunicazione efficace e funzionale. L’Analisi Transazionale è una forma di psicoterapia ideata agli inizi degli anni ’60 da Eric Berne. Si tratta di uno strumento teorico che aiuta ad analizzare il tipo di relazione che si instaura tra gli individui. Berne ipotizza che le relazioni (transazioni) che le persone instaurano con gli altri si fondano su parti della personalità chiamate “stati dell’IO”. Le tre parti presenti in ciascuno di noi sono: il GENITORE, l’ADULTO, il BAMBINO. Queste agiscono inconsapevolmente nella nostra vita quotidiana e sono sempre compresenti nelle persone. Le transazioni che si possono verifica- re fra gli individui sono infinite. Possono essere: simmetriche (es. Adulto-Adulto) e complementari (es. Adulto-Bambino). Esaminiamo gli stati dell’IO: IL GENITORE Riguarda la registrazione, dentro di noi, di eventi esterni assorbiti durante l’infanzia, soprattutto nelle relazioni con persone dotate di autorità: genitori, insegnanti, fratelli maggiori. Le informazioni dentro di noi sono state assorbite in via diretta dal bimbo e sono costituite da Ammonizioni, Regole, Leggi. Si parla di Genitore Normativo e di Genitore Affettivo. Il Primo negli atteggiamenti fisici assume un contegno severo. La rigidità del suo corpo rimanda alla sua naturale inclinazione alla valutazione ed al giudizio. Ha l’aspetto di una persona fredda e dominatrice. Rispetto al tono del linguaggio, è deciso e autoritario. La voce è energica, tagliente e dura. Le espressioni più frequenti utilizzate sono: “questo è bene e questo è male”; “ridicolo”; “difetto”; “qualità”; “responsabile”; “incompetente”, “competente”; “devi”, “non devi”. Ci sono dei vantaggi riguardo al fatto che il Genitore Normativo trasmette quei principi morali che fanno parte della sua cultura, facilitando l’integrazione dell’individuo all’ambiente sociale. Imponendo poi dei limiti, insegna anche ad evitare i pericoli e può diventare rassicurante. L’inconveniente è che la sua rigidità può inibire e censurare la creatività e l’immaginazione. Nel Genitore Affettivo, i gesti sono generosi e invitanti: braccia aperte, colpetti sulla schiena in segno di incoraggiamento. Sorveglia e protegge, circondando l’altro della sua sollecitudine. La sua voce è calda, dolce, rassicurante e tranquillizzante. Le espressioni utilizzate: “va molto bene”; “ci riuscirai”; “magnifico”; “non preoccuparti”; “ti aiuto io”; “sta attento”; “rischi di farti male”. I vantaggi sono che proteggendo il bambino, il Genitore Affettivo crea quelle condizioni indispensabili per un naturale e sicuro sviluppo della sua personalità ma l’inconveniente è rappresentato dall’iperprotezione che può soffocare e inibire qualsiasi iniziativa. L’Utente “Genitoriale” è colui che, nel rapporto con il Professionista, spesso non abdica al suo ruolo normativo e di controllo, nonostante sia nella posizione di colui che “domanda” ad altri (da profano) una prestazione (specialistica) compensativa del suo bisogno di Assistenza Infermieristica. IL BAMBINO E’ la parte dell’IO che registra e fissa gli avvenimenti interni e le reazioni a ciò che il piccolo vede e sente. Anche il Bambino contiene al suo interno numerose sfaccet- tature compresenti, con la prevalenza dell’una o dell’altra a seconda degli eventi. Lo Stato Bambino si suddivide in quattro parti che corrispondono a diversi comportamenti, la cui origine risale ai primissimi stati di vita: • Bambino Adattato: è l’atteggiamento del bambino docile, sottomesso che si comporta sempre in funzione delle attese di quanti lo circondano. Non si ribella, non contesta, obbedisce ed esegue gli ordini ricevuti. • Bambino Ribelle: è caratterizzato da tutta una serie di manifestazioni negative e polemiche, aggressività, desiderio di indipendenza, volontà di farsi notare dicendo “no”, speranza di attirare l’attenzione altrui opponendosi a tutti indistintamente. • Piccolo Professore: è l’individuo curioso di sapere, capire e cercare di risolvere i problemi che gli si presentano. Ha fiducia nelle proprie capacità ed è sempre convinto di aver trovato la soluzione migliore. • Bambino Spontaneo (Naturale): è il bambino che esprime in modo spontaneo tutte le sue emozioni, gioie e pene. Manifesta desideri, bisogni, soddisfazioni, insoddisfazioni. E’ l’espressione dell’entusiasmo, della collera, della paura, dello sconforto. L’Utente “Bambino” è solitamente quello che, nelle situazioni di incertezza o di malattia – presunta o conclamata – è timoroso e timido e mette in atto atteggiamenti e comportamenti derivanti da questi stati d’animo o ad essi reattivi: TIMIDEZZA TIMORE DIFFICOLTA’ A PARLARE oppure AGGRESSIVITA’ PRETENZIOSITA’ INCAPACITA’ A DILAZIONARE LA SODDISFAZIONE DEL BISOGNO L’ADULTO Crescendo, l’essere umano è in grado di intervenire sui dati esterni, grazie all’interpretazione e alla critica. I dati pervengono all’Adulto sia dall’interno (Bambino) che dall’esterno (Genitore). L’Adulto presenta le caratteristiche della razionalità, indipendenza, capacità di decidere, capacità di valutare. L’Adulto negli atteggiamenti fisici ha uno sguardo diretto ma neutro; assume un portamento eretto pur mantenendo un contegno disinvolto. Nel tono del linguaggio, la voce è regolare e neutra; si esprime con chiarezza senza lasciar trapelare alcuna emozione. Le espressioni utilizzate: “è possibile che”; “penso”; “ho parecchie soluzioni”; “i risultati sono i seguenti”; “che cosa ne pensa”, “è d’accordo”. Ci 8 PAGINA sono vantaggi legati al fatto che l’Adulto elabora e gestisce tutte le informazioni. Ragiona con la massima obiettività. Ci sono altrettanti inconvenienti e cioè che l’Adulto può rivelarsi freddo e privo di emozioni, paragonabile a un robot e sprovvisto di sensibilità. L’Utente “Adulto” è colui che è in grado di analizzare la situazione (sia interna sia esterna), apportarvi il proprio contenuto “razionale”, e comportarsi in modo da sfruttare al meglio la situazione. Come è allora possibile conoscere lo Stato dell’IO attivo nell’interlocutore? Gli strumenti indispensabili alla conoscenza dell’altro sono due: • l’Osservazione (della Comunicazione Non Verbale – CNV) • l’Ascolto Attivo. Per il primo punto, in un contesto interattivo, il riconoscimento dell’importanza della comunicazione corporea (CNV), come veicolo attraverso il quale può essere traslato anche ciò che è inibito alla parola e al pensiero cosciente, può diventare fondamentale per la costruzione e lo svolgersi della relazione (un esempio proviene dall’ambito della psichiatria quando la comunicazione è interrotta per una sofferenza mentale). La capacità di saper osservare è dimostrare attenzione, totale interesse per l’altro e questo può favorire l’instaurarsi di un clima “adatto” affinché la comunicazione terapeutica possa svolger- Infermiere a Pavia si e realizzarsi. L’ASCOLTO ATTIVO è empatico perché permette di esprimere sentimenti ed emozioni e di costruire il rapporto di fiducia; è analitico perché tende a chiarire il contenuto del messaggio e a confermare i fatti percepiti. Per essere empatico bisogna saper ascoltare i sentimenti prima del messaggio, mostrare il proprio interesse per l’interlocutore, evitare interruzioni e commenti lunghi, mettersi in secondo piano rispetto all’interlocutore. Per essere analitico è necessario saper ascoltare senza interrompere, ripetere quanto compreso, chiedere i dettagli per approfondire, dare un feedback sul messaggio, definire i passi successivi. Ascolto Empatico significa vedere le cose dal punto di vista dell’altro, senza filtri (paure di non capire e pregiudizi), senza selettività (ascoltare solo ciò che interessa), senza dialogo interno (pensare già a ciò che si dirà), senza interruzioni (è più importante ciò che si sa), senza ignorare e quindi ascoltare solo per dovere. In qualità di RICEVENTE, l’Operatore può affinare, tramite l’allenamento all’Ascolto Attivo, la capacità di decodifica del messaggio proveniente dall’Utente e dal proprio mondo interno. Di conseguenza, come EMITTENTE, l’Operatore sarà meglio attrezzato per rispondere all’Utente con un messaggio opportuno, sia dal pun- to di vista formale sia di transizione. Una buona Comunicazione Verbale osserva quattro norme (Grice - Principiodi Cooperazione): • Della QUANTITA’ (informatività) • Della QUALITA’ (verità) • Della RELAZIONE (pertinenza) • Della MANIERA (facilità). La Comunicazione con l’Utente secondo l’Analisi Transazionale può fornire qualche “attrezzo” da affinare per una comunicazione efficace con alcuni tipi di utenza, dall’utente aggressivo all’utente che ama parlare, l’utente timido, l’utente autoritario e l’utente seduttivo. L’Utente Aggressivo è una persona che si presenta intollerante, arrabbiato, accusatorio: l’Operatore ha a disposizione due tipi di comunicazione per rapportarsi, la Comunicazione Emotiva che tende a rispondere con lo stesso stato d’animo dell’Utente e che è orientata a dare sfogo immediato alla tensione; la Comunicazione Funzionale orientata a Empatia, Controllo della Relazione, Soluzione del Problema. L’Utente che Ama Parlare si presenta con un eloquio fiume, segno di un tratto caratteriale, un modo di sedare l’ansia o l’espressione di un bisogno di controllare il processo comunicativo. E’ un Utente che si dilunga in spiegazioni inessenziali, risponde alle domande in modo prolisso e poco esaustivo, può diminuire il livello di attenzione dell’interlocutore, può provoca- 9 PAGINA Numero 2/2007 re insofferenza e abbandono relazionale. Le tre tecniche utilizzabili con l’Utente che Ama Parlare sono: • Uso di Domande Chiuse • Il Controllo dello Spazio nella Comunicazione • L’Utilizzo di Risposte Concise. L’Utente Timido è spesso passivo, laconico, forse timoroso. Lo si può aiutare fondamentalmente in due modi: fare domande per coinvolgerlo; metterlo a proprio agio ed essere estremamente gentili. L’Utente Autoritario è di solito una persona dogmatica, che ha l’esigenza di un’azione immediata. Davanti a questo tipo di persone è importante evitare una comunicazione passiva, improntata a scarsa decisione, incertezza, difficoltà espressive; ascoltare con attenzione quello che dice; capire le sue esigenze; assumere un tono più specifico e diretto (COMUNICAZIONE ASSERTIVA). La Comunicazione è… funzionale quando il messaggio è chiaro, completo e corretto, quando il codice specialistico viene spiegato all’interlocutore, quando viene osservata e rispettata la retroazione o risposta di ritorno, quando la diversità del ruolo (l’infermiere ha un ruolo diverso rispetto al paziente) non conduce alla dipendenza ma alla massima autonomia possibile. Nella relazione d’aiuto, la comunicazione svolge funzioni importanti e quindi, quanto più acremo una comunicazione qualitativamente elevata, tanto più sarà di alto livello anche la relazione. Le funzioni che la comunicazione svolge nelle relazioni di aiuto possono essere: • Funzione catartica – favorisce il deflusso delle cariche emotive presenti nella relazione d’aiuto. • Funzione di riconoscimento – dimostrare considerazione e accettazione. • Funzione di conoscenza – acquisire informazioni e dati per poter poi svolgere un intervento adeguato. • Funzione di rinforzo – agire sul comportamento per ottenere un migliore risultato di aiuto. La Comunicazione è… una realtà molto complessa e non sempre facile da realizzare in pienezza. Ci sono diversi ostacoli materiali, fisici, psicologici e socio-relazio- nali, ostacoli a cui spesso si da relativa importanza e si cerca ugualmente di far funzionare la comunicazione, non tenendo conto che la carenza o la superficialità delle informazioni rea nel malato e/o nei suoi familiari un senso di insicurezza e disorientamento a prescindere da tutte le problematiche etiche e giuridiche connesse. “Egocentrismo, Taciturnismo, Logorrea, Falsità, Superiorità, Inferiorità, Fretta, Invadenza, Incoerenza, Recitazione, Evasione, Disattenzione, Non Considerazione incidono in senso negativo sulla qualità della relazione […] Rendere la relazione d’aiuto ricca dal punto di vista degli scambi comunicativi è […] necessario, non solo produrre comunicazioni proprie, bensì anche agevolare e stimolare l’altro a produrre proprie comunicazioni”. (Mambriani S., La comunicazione nelle relazioni d’aiuto, Cittadella Editrice, Assisi, 1994). Potrebbero divenire importanti alcune modalità agevolanti la comunicazione: • Creare un ambiente non ostacolante • Stimolare l’Altro con domande discrete • Comunicare con calma e disponibilità di tempo • Favorire la comunicazione • Favorire il processo di relazione … Una RELAZIONE fondata sul rispetto della persona dal saper conoscere l’Altro (almeno nelle linee essenziali) e riconoscere nell’Altro dei valori, saper accettare l’Altro, saperlo stimare. La complessità dell’attività infermieristica è data dal fatto che la stessa non ha solo NATURA TECNICA ma, anche, RELAZIONALE ed EDUCATIVA e per Essere Infermieri non basta essere Bravi Tecnici, per Essere Infermieri deve crescere la cultura della relazione, che è un’arte, con precise caratteristiche e regole,che va acquisita fino a diventare una competenza. Perchè? Perché nella vita di una persona, l’evento malattia rappresenta un cambiamento, un’esperienza destabilizzante, che può riproporre contenuti emozionali intensi legati alla propria storia personale; la malattia ti spoglia, talora ti lascia solo con te stesso, ti dà il senso della finitezza e del- Il Collegio IPASVI di Pavia ricorda che, da Gennaio 2006, è attivo lo SPORTELLO DI COUNSELING gratuito, a supporto di tutti gli iscritti agli Albi professionali che ne facciano richiesta. L'attività di Counseling, svolta da un Counselor professionista, verrà effettuata esclusivamente previo appuntamento telefonico al n. 3391205536 dalle ore 9.00 alle 18.00 la fragilità della vita. Naturalmente ogni persona reagisce e affronta tale esperienza (l’esperienza del bisogno di assistenza, di qualunque bisogno di assistenza e di informazione anche quello che può sembrare banale, assurdo, ripetitivo, incredibile, incomprensibile, esagerato eppure …) con le proprie risorse, tante o poche, ma con modalità specificatamente personali. E’ questa individualità che l’Operatore Sanitario deve saper accogliere, riconoscere, cercando di dare risposte più adeguate al bisogno specifico d’aiuto. Dare indirizzi, dettagliare ciò che è buono e terapeutico in un contesto relazionale non è semplice, proprio per la soggettività di coloro che partecipano all’interazione (Operatore e Utente, Emittente e Ricevente). Lo studio dei processi comunicativi e delle dinamiche relazionali è fondamentale e deve essere realizzato all’interno di un “percorso” formativo e personale a cui dedicarsi per sviluppare capacità, attitudini, competenze che possono permettere di scrivere le linee guide per dettagliare comportamenti idonei ad affrontare la relazione interpersonale d’aiuto. La complessità dell’agire infermieristico si delinea ogni giorno di fronte alla molteplicità di situazioni e incontri a cui l’Operatore deve saper offrire la massima disponibilità. Solo la consapevolezza dell’unicità di quella relazione può dare valore aggiunto al nostro agire, l’interesse e la disponibilità a crescere personalmente e professionalmente sono poi … gli ingredienti giornalieri per non spegnere la motivazione per sapere, per fare, per essere e per divenire. Bibliografia AA.VV., Enciclopedia sulla “Comunicazione”, Vol. III Pagina 601. Einaudi Canevari e A. Chieregatti, La Relazione D’Aiuto, Carocci Editore O. Bassetti, Lo specifico relazionale infermieristico, Rosini Editrice Firenze L. Juchli, L’Assistenza Infermieristica di base, Rosini Editrice Firenze A. Ferrata-T. Galli-N. Loiacono, Uno spazio condiviso, Editore Borla V. Delfino, La comunicazione paziente infermiere, Centro Scientifico Editore L’autore * Infermiera Polo Psichiatrico Torchietto – A.O. Pavia 10 PAGINA Infermiere a Pavia Voglia di tenerezza vi invitano a scoprire una dimensione della comunicazione: ** Mauretta Cattanei ** Annamaria Tanzi Messaggio della Tenerezza Questa notte ho fatto un sogno ho sognato che ho camminato sulla sabbia accompagnato dal Signore e sullo schermo della notte erano proiettati tutti i giorni della mia vita. Ho guardato indietro ed ho visto che a ogni giorno della mia vita, proiettato nel film, apparivano orme sulla sabbia: una mia e una del Signore. Così sono andato avanti, finchè tutti i miei giorni si esaurirono. Allora mi fermai guardando indietro, notando che in certi posti c’era solo un orma … Questi posti coincidevano con i giorni più difficili della mia vita: i giorni di maggior angustia, di maggior paura e di maggior dolore … Ho domandato allora: “Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me in tutti i giorni della mia vita, ed io ho accettato di vivere con te, ma perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti peggiori della mia vita?” Ed il Signore rispose: “Figlio mio, io ti amo e ti dissi che sarei stato con te durante tutta la camminata e che non ti avrei lasciato solo neppure per un attimo, e non ti ho lasciato … I giorni in cui tu hai visto solo un’ orma sulla sabbia, sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio. POESIA BRASILIANA IL BISOGNO DI TENEREZZA In un contesto sanitario dove la tecnologia ha sempre più spazio, sembra anacronistico e “pericoloso” parlare di tenerezza. Le nostre relazioni con i pazienti sono sempre più improntate dalla fretta e dall’impersonalità, proprio per questo la “cura” della persona, sia essa malata o in difficoltà, deve riscoprire e mettere in atto una dimensione più vera e matura della relazione. Per farlo occorre interrogarci su cosa scatena dentro di noi la relazione con il paziente e sulla natura delle nostre emozioni, l’analfabetismo emotivo a cui ci costringe la vita frenetica che viviamo ci porta ad avere relazioni asettiche, distaccate, ma frustranti. Sia gli operatori sanitari che i pazienti hanno bisogno, oltre che della tecnologia, anche di relazioni, di sostegno, di sicurezza e la relazione ha a che fare con emozione e ragione, se queste componenti non sono bilanciate (troppa ragione o troppa emozione) la relazione non può essere positiva. Per raggiungere una buona competenza emotiva occorre capire quali sono le radici e le dinamiche che coinvolgono la ragione e l’emozione. L’emozione è fondamentale nella nostra vita, ma essa porta ad agire, fronteggia esperienze ed esprime reazioni, è attiva, ma mette fretta e vuole immediatezza. Invece le radici dell’Io risiedono nella tenerezza e le nostre relazioni sono, in un modo o nell’altro, condizionate dalla quantità di tenerezza ricevuta nella nostra infanzia e più in generale nella nostra vita. La tenerezza è un’espressione dell’emozione. L’emozione è una dimensione complessa, istintiva e va educata. La nostra mente è duplice, è razionale quando attiva coscienza, riflessione, giudizio e opera scelte; ma è anche emotiva, è un radar che capta immediatamente le emanazioni emotive degli altri, si attiva automaticamente, è quindi un segnalatore d’allarme e una sentinella psicologica. La mente emozionale, non educata è rapida ma imprecisa e si basa su di una realtà simbolica (quindi infantile, non adulta), essa passa all’azione senza riflettere (Il termine “Emozione” sembra venire dal latino e-motus: movimento da), sacrifica accuratezza a vantaggio della velocità, è essenziale per l’elevato tenore adattivo, inoltre, nella percezione, arrivano prima i sentimenti e solo dopo i pensieri. Di solito, l’emozione, agisce con una logica associativa (le cose sono come mi appaiono, piego la realtà alle mie percezioni) e usa un suo linguaggio, ovvero: similitudini, metafore, immagini, processi primari, la mente che si lascia sopraffare dalle emozioni è una mente infantile, caratterizzata dal pensiero dicotomico, o bianco o nero, senza sfumature, è autoconvalidante, vale a dire che considera solo le proprie convinzioni e sottovaluta le prove contrarie. Nel momento in cui vengono attivati i sentimenti, prima che i pensieri, scatta la logica del cuore che induce sentimenti intensi e involontari (“L’amore è una febbre che va e viene indipendentemente dalla nostra volontà” Stendhal), mentre quando la percezione è più lenta il pensiero articolato precede il sentimento. Le emozioni che proviamo si possono distinguere in: • Sentimenti elementari: soddisfazione, insoddisfazione, tipici dei bimbi. • Emozioni antiche: collera, tristezza, paura, gioia, amore/tenerezza, disgusto, vergogna, esse sono molto intense, ma spariscono velocemente. • Umori: sono meno intensi delle emozioni antiche e sono più duraturi. • Temperamenti: sono le predisposizioni, i tratti innati che esprimono stati d’animo ed manifestazioni della vita emotiva con componenti anche fisiche. Il temperamento e le tendenze vanno educate perché nello spazio della libertà individuale deve esserci anche lo spazio per la responsabilità. • Disturbi emotivi: sono stati d’animo alterati che possono sfociare nella patologia. Le configurazioni emotive, determinate dalla biologia, possono essere modificate dall’esperienza, non è vero che il cambiamento sia impossibile, se si decide di compiere il viaggio della vita imparando sia dal proprio interiore, sia dal mondo esterno, il cambiamento sarà possibile, anzi, inevitabile. Ognuno di noi nasce caratterizzato da un tipo di temperamento, tipi fondamentali a cui fare riferimento si possono riassumere in: spavaldo, timido, allegro, malinconico; se non educato, il temperamento 11 PAGINA Numero 2/2007 innato del bambino produrrà un adulto timido, spavaldo, ecc…fino all’eccesso. Il temperamento è ciò che “nomina” le emozioni e le emozioni non educate sono caratterizzate dalla logica del “faccio solo ciò che mi piace”; questo modo d’essere viene definito “analfabetismo emotivo” ed è caratterizzato dalla mancanza di controllo, da assenza di consapevolezza. Nella persona vengono a mancare gli allarmi automatici, determinati dall’elaborazione delle esperienze passate, perciò l’individuo continua a ripetere gli stessi errori e ricrea, ovunque vada, le stesse situazioni. Questa mancata elaborazione crea una barriera tra emozione e ragione che, di solito porta all’aumento della violenza, a gravi difficoltà di relazione, all’aumento del pensiero negativo, a debolezze, alla critica, o meglio, all’ipertcriticismo. Nello stesso tempo la mancanza di analisi ed autoanalisi produce una persona dipendente, che vive rapporti simbiotici, che si aggrappa all’altro temendo l’abbandono, che non è in grado di dare spazi di libertà, è logico supporre che prima o poi i rapporti si deteriorano e le persone di riferimento si allontanino. La persona dipendente è oppressa dal desiderio di piacere agli altri (a tutti gli altri), è dominata dalla volontà di potere, però manca d’amore, è caratterizzata dalla nevrosi, è resistente al cambiamento, ma pretende che gli altri cambino, non sa mettersi in gioco, è compiacente, rinunciataria e ostinata, in pratica non capisce le ragioni del cuore. La persona dipendente è dominata da emozioni negative, ovvero: • Considera la critica personale come un “attacco globale” che innesca la sfiducia di sé, la reazione consiste nel caricare le proprie critiche facendole diventare “attacchi globali” verso gli altri. • Si manifesta con la collera e il disprezzo. • Mette in atto l’ostruzionismo (specie i maschi) attraverso il silenzio e l’impassibilità. • È dominata da pensieri “tossici” che alimentano la collera e il risentimento. LA COMPETENZA EMOTIVA Per acquisire la competenza emotiva occorre educare le emozioni secondo strategie specifiche attraverso l’acquisizione di: 1. Un obiettivo esistenziale: cioè ricercare l’autorealizzazione, distinguendola dall’autoaffermazione, che si può realizzare solo in un determinato settore (il lavoro, lo sport, gli affetti ecc..). L’autorealizzazione è essenziale e integra tutte le componenti dell’individuo. 2. Abilità introspettiva: si consegue attivando un osservatore interno che guarda anche i lati nascosti, senza lasciarsene spaventare. 3. Controllo degli impulsi negativi: si può attuare attraverso il raffreddamento psicologico, ovvero: reinquadrare le esperienze disturbanti attraverso attività sublimatorie e tecniche di rilassamento. 4. Instaurare relazioni positive. Se questo discorso vale per gli operatori d’aiuto, ancor di più deve essere preso in considerazione nel momento in cui una persona si ammala. In quel momento l’individuo passa dall’illusione dell’invulnerabilità, fisica ed emotiva, ad una fragilità ed ad una tempesta emozionale che contribuisce all’indebolimento del sistema immunitario e lo devasta, togliendo risorse al processo di guarigione. Valutando nostro sistema e modello assistenziale, si può verificare che manca totalmente di intelligenza emotiva; la fretta, la sottovalutazione dei bisogni e delle reazioni emotive, l’accentuazione dei bisogni corporei, fa si che ci si curi della patologia ma si trascuri l’esperienza della malattia. Gli atteggiamenti mentali delle persone, secondo la loro formazione e la loro naturale inclinazione, volgono o all’ottimismo o al pessimismo; ma, secondo Seligman è possibile “Imparare l’ottimismo”, come titola il suo libro, ed è possibile educare la persona a mettere in atto gli atteggiamenti positivi così da ribaltare un’esperienza negativa come la malattia in un’occasione di crescita. I sentimenti positivi portano alla speranza e al realismo e si sviluppano attraverso: • l’aiuto di amici e professionisti, in questo modo si attivano buone relazioni; • ricercando sostegno psicologico, per avere la possibilità di esprimere i propri sentimenti; • attivando le protezioni naturali più semplici ovvero: - umorismo - autoironia (accettando i difetti detti dagli altri e restando a galla usando le mie virtù) - sublimazione MODALITÀ PERCETTIVE EMOZIONALI Ogni persona ha il suo modo di percepire le emozioni, le modalità si possono esprimere in quattro tipi: • Gli autoconsapevoli, hanno una buona percezione delle proprie emozioni e le sanno esprimere. • I sopraffatti, le loro emozioni sono nel caos totale. • I rassegnati, sono consapevoli ma non reagiscono. • Gli alessitemici, sono detti “sordomuti emotivi” perché non sentono, o rifiutano di sentire, le emozioni e non le riconoscono. Educare l’intelligenza emotiva porta vantaggi indubbi che ci aiutano a capire la natura della Felicità. Infatti: 1. favorisce l’ottimismo, aumentando così le difese immunitarie, attiva una maggiore attenzione per la salute, determina un maggiore adattamento alle nuove condizioni, favorendo l’accettazione della malattia. 2. protegge le buone relazioni; l’isolamento affettivo raddoppia le probabilità di malattia, i legami stretti e positivi proteggono dallo stress e dalla depressione. 3. migliora l’assistenza sanitaria e la integra: • offre maggiori informazioni • insegna a porre domande efficaci • progetta strutture più adeguate • prepara professionisti alla competenza empatica. Queste metodiche possono essere applicate anche in ambito aziendale e possono intervenire nello stato di salute della struttura intesa come insieme di persone (operatori sanitari e non, pazienti famiglie ecc..). Dai famigerati DRG si può arrivare, educando le emozioni, ad una qualità totale e avere più salute se si mette in atto: • una logica della programmazione che vada a rilevare i bisogni attraverso degli indicatori sia esterni che interni (es: com’è il personale, lo stato della motivazione, se gestisce efficacemente lo stress ecc..). • un cambiamento culturale associando la relazione alla tecnica. LA TENEREZZA Secondo Fromm la parola tenerezza proviene dalla parola ebraica “rachemin” ovvero: grembo; essa è la carica interiore dell’amore, non quello sdolcinato, che divampa e inaridisce in breve tempo, bensì quello vero, basato sull’accettazione dell’altro nella sua interezza, che vuole il bene dell’altro ed è “forte come la morte”. Ma il termine può derivare anche dal latino tenerum = tenere, tendere verso, è un modo di essere, di stare con l’altro, di andare verso l’altro, di tenere ciò che l’altro mi comunica. La tenerezza è la carica interiore dell’amore, è l’energia che emana l’Amore, è rispetto della libertà e della diversità altrui, è cogliere l’altro nella sua globalità ed è una sfida per migliorare. La tenerezza richiede empatia, capacità di stupirsi, essa desidera conoscenza e comprensione, pazienza e fatica, discrezione, passione, controllo. L’aspetto esteriore della tenerezza è la carezza. La carezza è dialogo tattile, è l’espressione corporea della tenerezza, è fonte di benessere e di rassicurazione, ma esige 12 PAGINA coerenza e congruenza e deve sempre valorizzare l’altro, la carezza favorisce l’equilibrio e l’autoaccettazione. Si manifesta correttamente la tenerezza attraverso: • Il tocco rassicurante: quando si soffre, il contatto fisico, è una necessità per ritrovare un, seppur minimo, benessere fisio-psichico, secondo i ritmi e i tempi individuali. • Il contatto fisico: il contatto terapeutico è riconosciuto come strumento essenziale per guarire e per stimolare la volontà di vivere. La stimolazione della pelle è indispensabile. • L’utilizzo delle mani è lo strumento privilegiato per una palpazione attenta ed accurata, le mani devono essere educate ed esercitate a stimolare le percezioni. • La stimolazione della pelle: la pelle è il contenitore e il contenuto del corpo e fa da filtro alle nostre percezioni. La pelle è il nostro rivestimento e rappresenta spesso le nostre emozioni attraverso rossori, pallori ecc… L’ARTE DELLA CAREZZA Imparare l’arte della carezza richiede tempo, sensibilità, empatia. Il gesto deve essere delicato, lento, non frenetico. Le carezze vanno pensate, attuate e individualizzate in base ai sentimenti e alla sensibilità altrui. Occorre essere affettuosi e rispettosi del corpo che si sta toccando, qualsiasi età esso abbia. Il tocco deve essere rassicurante, mentre si toccano le guance, la fronte, le falangi delle dita, la pelle… Nel dialogo tattile occorre sapere quale tipo di sensibilità hanno i vari recettori e come stimolarli. Le guance e la fronte sono sensibili alle percezioni termiche, una mano fresca o calda posata sulla fronte o sulle guance danno sensazioni diverse. La mano esplora, osserva, stimola, palpa, sfiora, soppesa, pizzicotta. Toccare un corpo significa osservarlo con le mani (la scienza della Semeiotica usava molto le mani per cogliere i sintomi meno evidenti provenienti dal corpo), mani che si muovono lentamente e comprimono leggermente, favoriscono percezioni più vivide. Le persone, e gli operatori sanitari (medici, infermieri ecc…), possono avere stili diversi nel toccare l’altro. Possiamo definirli con le seguenti descrizioni: • Il lottatore: considera il corpo dell’altro come un oggetto, la carezza è violenta e frenetica. • Il corridore: ha sempre fretta, è veloce, i suoi ritmi, i tempi e gli spazi non sono sintonizzati sull’altro. • L’inesperto: ha l’attenzione, ma ha biso- Infermiere a Pavia gno di tirocinio e di formazione per educarsi alla carezza empatica. • Il tenero: coniuga tecnica e relazione, rispetto e con-crescita. L’espressione del toccare si differenzia anche in base al modo di essere del professionista. Il professionista arido ritiene che la relazione non sia necessaria e quando deve relazionarsi è istintivo e conflittuale. Il suo metodo di lavoro si basa sulla logica della quantità o su di una qualità parziale. Non ha capacità d’autocritica e non accetta critiche, si crede infallibile, non lo si può rimproverare, altrimenti vive l’osservazione come un attacco personale e risponde di conseguenza. Le sue prestazioni sono perciò generiche o massificanti, superficiali e frettolose, tende a creare dipendenza nell’altro, a voler essere indispensabile, e non rispetta lo specifico professionale invadendo i campi altrui. Il professionista tenero, al contrario, ritiene che la relazione sia indispensabile, essenziale, che sia frutto d’educazione, che sia una competenza, pensa che debba essere empatica e rassicurante. Il suo metodo di lavoro cerca la qualità totale. È in grado di mettersi in discussione, riconosce gli errori e coglie le occasioni per migliorare. Le sue prestazioni sono personalizzate sull’altro, è sollecito e responsabile, favorisce le autonomie e rimane all’interno del suo ruolo. Una buona relazione professionale è sempre frutto della ragione e dell’analisi degli errori. È un rapporto tra un professionista e un paziente e deve dare protezione e benessere senza dimenticare gli spazi d’autonomia e di responsabilità. La carezza è una parte importante della relazione professionale, specie per gli infermieri, la cui quotidianità porta a toccare molto spesso i pazienti. La qualità e l’effetto della carezza dipendono dalle disposizioni di chi la dispensa; più si prova tenerezza verso chi è in difficoltà, più si è in grado di aiutare. Per contro più il professionista della salute è chiuso in se stesso ed è schermato, più tende a rifugiarsi dietro il tecnicismo, teme la relazione, quindi crea difficoltà, conflitti e mette in atto difese che lo isolano ulteriormente. La tenerezza è perciò una modalità di vivere, un modo di essere, un atteggiamento, che può facilitare l’evoluzione personale e professionale, aiutandoci ad essere più felici come persone, come pro- fessionisti, come pazienti. Relazionarsi con tenerezza significa riconoscere che ogni essere umano si manifesta in un corpo, in una sensibilità, in una intelligenza, ed ha bisogno di una straordinaria acutezza per distinguere le componenti fisiche, psicologiche ed intellettuali dello stesso nella sua realtà concreta. Dedicato a tutte le persone sane e malate. Dedicato a tutti gli infermieri che hanno saputo privilegiare la relazione, ma anche agli infermieri che si sono accorti prima della tecnica. Dedicato a tutti gli infermieri che sanno aspettare, aspettare l’Altro che a volte è più difficile che prendere in braccio. Bibliografia O. Bassetti: “Lo specifico relazionale infermieristico”; Rosini, Firenze. Fromm: “Dalla parte dell’uomo”; Astrolabio. Roma. D. Goleman: “Intelligenza emotiva”; Bur, Milano. G. La Mura: “Comunicare dal cuore alle mani”; Paoline editoriale libri, Milano. K. Keating: “La terapia dell’abbraccio”; Gribaudi editore, Milano. K. Keating: “La terapia dell’amore”, Gribaudi editore, Milano. V.F. Birkenbihl: “Segnali del corpo. Come interpretare il linguaggio corporeo”, Franco Angeli, Milano. Gli autori * Infermiera Poliambulatori - A.O. di Pavia ** Infermiera Polo Psichiatrico Torchietto - A.O. Pavia 13 PAGINA Numero 2/2007 I valori etici della nuova relazione all’interno dell’Azienda Ospedale ** Maura Cattanei ** Francesca Poma Negli ultimi anni, in Italia, si è verificato un cambiamento di filosofia intorno alla gestione della Salute dei cittadini. Nel tentativo di limitare gli sprechi e amministrare meglio le risorse, umane e strumentali, presenti e future, il Governo e le Regioni, hanno introdotto, in modo sempre più pesante, le logiche dell’aziendalizzazione, cercando di far diventare i Servizi, che dovrebbero ridare o mantenere la Salute del cittadino, fonte di guadagno e non di perdita come era fino ad oggi. A prescindere dal fatto che, per definizione, un Servizio è tale quando si mette a disposizione dell’Uomo in modo disinteressato, il cambiamento d’indirizzo a cui stiamo assistendo ha innescato meccanismi, modi di pensare e modi di essere che stanno deteriorando la qualità del “Servizio Salute”, anziché portarlo ad un livello superiore. La logica che “non può essere tutto gratuito”, la determinazione di Livelli Essenziali di Assistenza (L.E.A.) e la esasperazione dell’agire secondo le regole dell’evidenza scientifica, che vorrebbe incrementare l’Eccellenza nel lavoro, stanno portando un aspetto della vita, importante come quello della Salute, a diventare serbatoio di opportunità economiche e non occasione di miglioramento della qualità della vita sia di chi usufruisce sia di chi eroga il servizio. Da sempre gli infermieri sono attenti alla gestione delle risorse economiche del sistema sanità: il risparmio, l’oculatezza, sono insiti nel nostro background perché siamo l’ultimo anello della catena sanitaria, quello che unisce la persona malata a tutto il resto del sistema. NOTE DI SEGRETERIA Si ricorda a tutti gli iscritti che, a inizio anno, è stato inviato il bollettino MAV per il pagamento d’iscrizione all’Albo. Il pagamento doveva essere effettuato entro il 28/02/2007. Chi non ha ancora provveduto al pagamento è invitato a effettuarlo nel più breve tempo possibile, onde evitare sanzioni. Si ricorda che il mancato pagamento della quota annuale comporta l’impossibilità da parte della segreteria al rilascio di alcuna certificazione eventualmente richiesta. Chi non avesse ricevuto il bollettino MAV per l’anno 2007, o l’avesse smarrito, deve rivolgersi immediatamente alla segreteria del Collegio per l’emissione del MAV sostitutivo. Se mancano risorse economiche e di materiali, siamo noi a risentirne di più e siamo costretti ad ingegnarci al fine di evitare che questa mancanza danneggi il malato. Evitare che il Paziente risenta di qualunque carenza, economica e di risorse, è talmente importante per gli infermieri che si è ritenuto etico specificarlo nel nostro Codice Deontologico ( capitolo n° 6 “Rapporti con le Istituzioni”). Purtroppo si è rilevato da più parti che questa tendenza all’aziendalizzazione sta determinando un malessere generalizzato nelle persone che lavorano in Sanità, a partire dagli infermieri. Mentre si pone sempre più l’attenzione sull’aspetto economico, la parte che riguarda le relazioni umane, che non è mai stata prioritaria, subisce un ulteriore deterioramento e questo, secondo noi, è un grosso errore perché nessuna azienda diventa grande se non realizza buone e soddisfacenti relazioni con e tra i suoi dipendenti; inoltre lo sfruttamento delle risorse e la competitività non sono le uniche condizioni che fanno di un’azienda UNA GRANDE AZIENDA: le aziende veramente grandi, quelle che superano ogni sfida del mercato, sono quelle che basano la loro gestione su di un etica radicata nelle buone relazioni tra i suoi dipendenti e tra dipendenti e clienti. Ognuno di noi è a conoscenza, molto più che nel passato, di chi produce un certo prodotto o eroga un certo servizio, sa mettere a confronto produttori diversi, non solo a seconda dell’immagine che i mezzi di informazione, primo fra tutti la pubblicità, lasciano più o meno fedelmente, trasparire, ma anche perché cerca, prova, e cambia se le promesse sbandierate non vengono mantenute e questo discorso vale anche per le prestazioni sanitarie. Anche il Cliente-Paziente è oggi molto più informato e consapevole di ciò che deve ricevere dal sistema sanità, pretende di essere curato al meglio, coglie le incongruenze del sistema e fa sentire la sua voce di protesta. La determinazione del passaggio tra un mercato che “soddisfa le esigenze” ed un mercato che “dà un vantaggio” a chi 14 PAGINA usufruisce del servizio (tempi d’attesa minori, più cortesia, ambienti più confortevoli etc..) dà una visione cambiata del consumo, che obbliga le organizzazioni aziendali, siano esse di produzione o di servizio, a vedersela con una nuova economia “dello scopo” (Foa e Ranieri, citato da Forti e Varchetta), in cui sono vincenti le aziende che propongono prodotti o servizi dedicati e personalizzati. Oggi qualsiasi azienda, per essere competitiva (e usiamo apposta questo termine, anche se non ci piace) deve mirare alla Qualità Totale, ma per arrivare a questo obiettivo occorre capire i termini in cui questa affermazione è stata formulata nell’accezione che ne dava il suo maggiore teorico (P.B. Crosby) e che recita che la Qualità Totale è“la tensione, insita nell’uomo, verso l’Eccellenza, alla scoperta della ricchezza di qualità individuali e al superamento di sé fino alla trascendenza”. Cosa significa questo termine e come è possibile metterlo in pratica è un discorso complesso, ma le relazioni tra i soggetti coinvolti ne sono il fondamento. Lo sviluppo della persona, la sua evoluzione, è indispensabile allo scopo di instaurare relazioni che portino ad una maggiore soddisfazione sia del Cliente che dell’operatore. Nel nostro settore non può essere il denaro il metro della soddisfazione (le nostre retribuzioni sono quelle che sono e non aumenteranno ancora per molto); il nostro appagamento deve venire dal clima in cui lavoriamo e dalla qualità del servizio che riusciamo ad erogare. La professione infermieristica è basata sulla soddisfazione dei bisogni del Cliente: questo aspetto della relazione ci è chiaro, la filosofia di Virginia Henderson e Abraham Maslow è alla base della nostra preparazione professionale. Meno chiaro è il concetto che non si può avere una buona relazione con l’altro (Cliente) se non si ha una buona relazione con se stessi (persona); al contrario, se si ha una buona relazione con se stessi si possono avere relazioni soddisfacenti con tutti i soggetti con cui si entra in contatto, siano essi malati, colleghi, altre figure professionali con cui si collabora, superiori, familiari, amici etc., trasformando la professione, e più in generale tutta la nostra vita, come la “chance” per la costruzione e l’espressione del Sé, l’opportunità di affermazione della propria identità e la sede della propria autorealizzazione. Per ottenere questo è necessario aiutare le persone a scoprire dentro di sé le risorse necessarie non solo alla soluzione di problematiche inerenti l’esistenza o aspetti di essa, ma soprattutto al raggiungimento dei propri obiettivi e alla realizza- Infermiere a Pavia zione dei propri sogni e desideri, esprimendo liberamente e con creatività le proprie migliori qualità ed abilità, sia cognitive che emotive. In questo modo si può vivere l’attività professionale con impegno, passione, creatività e responsabilità, fini ad arrivare alla “Qualità Totale”, all’Eccellenza. In questo contesto il Servizio cambia aspetto e può essere inteso come la capacità di costruire relazioni “buone e durature” (P. Crosby) con il Cliente, in un’ottica di “partnership” fondata sull’ascolto, la conoscenza, la cooperazione, la condivisione. “Considerare” il Cliente diventa allora un imperativo categorico: non “presunzione” da parte di chi produce, ma “attenzione” alle sue necessità e alle sue richieste che si manifesta innanzitutto con un ascolto teso a conoscere il Cliente, a cogliere il suo “vero” bisogno, il “significato” profondo e il “vantaggio” che lui, e lui solo, vede in quel prodotto o servizio per il successo di se stesso nella sua vita personale e nel suo lavoro. Questo è l’orientamento delle Aziende illuminate, delle multinazionali più importanti che hanno capito che il Cliente non è un soggetto da sfruttare, bensì la risorsa più preziosa. Per noi infermieri il “Cliente-Paziente” è, è stato e sarà sempre il centro del nostro agire, pensare, lavorare: cito ancora il Codice Deontologico (secondo capitolo). Ed è il recupero dell’etica come “elemento competitivo essenziale” (P. Spirito) che nel nuovo contesto socio-economico diventa vantaggio per tutte quelle organizzazioni che se ne vogliono appropriare e che dimostrano con intelligenza di volersi davvero mettere a “ servizio” del Cliente “con una “doppia presenza”: quella della produzione, tipica, nella nostra cultura, dell’universo maschile, e quella della riproduzione, con le attività autenticamente di cura e abilità sperimentate quasi solo esclusivamente dall’universo femminile, riproduzione che induce ad esperienze di stupore e di interrogazione continua. La riproduzione infatti, in quanto attività di cura, si realizza in una prestazione individualizzata che, in quanto tale, non può non essere unica, sorretta com’è dall’ascolto e dalla creatività” (Forti e Varchetta). La relazione con il Cliente e tra i soggetti dell’equipe curante diventa lo spazio creativo nel quale poter acquisire le conoscenze necessarie sui bisogni e i desideri, espressi e latenti, cercando di scoprire, dietro la necessità di un prodotto, di un servizio, di una collaborazione, quali dei suoi bisogni, e quindi dei suoi desideri (A. Maslow) di sicurezza, di appartenenza, di stima, di realizzazione si possano nascondere e a quali si possa rispondere, proponendo il prodotto o servizio come vantaggio. Lo sviluppo, l’autorealizzazione, lo sforzo di raggiungere la “sanità”, la ricerca dell’identità e dell’autonomia, il desiderio di eccellere ed altri modi di esprimere lo sforzo di ascendere devono essere ammessi come una tendenza umana diffusa ed universale. La natura istintuale dei bisogni fondamentali costituisce il fondamento di un sistema di valori intrinseci, una gerarchia di valori che devono essere reperiti nella stessa natura umana. La possibilità di essere sani, di autorealizzarsi, di utilizzare le proprie intelligenze, essendo insita nell’Uomo, non può essere repressa o rimossa pena l’alienazione e la perdita di senso, il più delle volte inconsapevole ed esteriorizzata in psicopatologie o in malattie psicosomatiche. Al contrario, la tendenza attualizzante, il bisogno, il diritto alla autorealizzazione, vanno promossi, incentivati, aiutati ad esprimersi e ad essere gratificati. Il lavoro offre l’occasione di apprendere continuamente dall’esperienza, di agire per cambiare e per raggiungere i propri obiettivi, di provarsi, di assumersi la responsabilità delle decisioni. È una manifestazione di quello che siamo, di ciò che ci portiamo dentro, e, come dice Luigi Pagliarani, filosofo e teorico della psicosocioanalisi in Italia, “è momento di connessione tra mondo interno e mondo esterno attraverso la mediazione del principio di realtà”. La possibilità, cioè, che il lavoro diventi lo spazio in cui dimostrare le proprie abilità, in cui esercitare la capacità di prendere decisioni entro limiti stabiliti dal proprio ruolo e compito, e che offra l’opportunità di operare delle scelte in cui ci sperimentiamo, in cui creiamo qualcosa che deriva da noi, che sia frutto del nostro pensiero, della nostra capacità progettuale, del nostro impegno, della nostra passione, della nostra cura, della nostra fede. Chi scrive ha sperimentato nella vita professionale che lasciare “fuori” dalle attività lavorative la fede, la speranza, l’entusiasmo, il coraggio, la cura, la passione, l’impegno, la vocazione, la creatività, l’amore per il proprio lavoro, per la propria Azienda, per i propri colleghi, per se stessi, significa, per le persone, maggiore frustrazione, noia, insoddisfazione, demotivazione, critica, cinismo, malattia. Siamo convinte che, al contrario, lavorare possa davvero essere una esplosione di noi, possa davvero rappresentare l’ambito del proprio sviluppo, della propria autogenerazione, della piena realizzazione di tutte le proprie doti, realizzazione percepita come bisogno imprescindibile per il 15 PAGINA Numero 2/2007 raggiungimento del benessere e della felicità. Se, per quanto detto precedentemente, il nuovo assetto socio-economico è caratterizzato dal crescente peso dei bisogni, dei desideri, delle scelte del Cliente, ne deriva che, per rispondere efficacemente ad ogni singolo Cliente in modo continuativo, tutta l’Azienda abbia l’esigenza di coinvolgersi con il Cliente stesso. È attraverso transazioni complete, che si evidenziano in relazioni buone e durature con il Cliente e con gli operatori, che l’organizzazione aziendale può pensare di raggiungere i propri scopi; e dato che le relazioni non si costruiscono tra prodotti, ma tra persone, ne risulta che la risorsa umana diventa la principale fonte di ricchezza delle organizzazione economiche contemporanee. Non solo perché la risorsa umana continua ad essere l’artefice della produzione, ma perché sempre di più diventa la protagonista, all’interno dell’Azienda, di relazioni che determinano un clima atto ad agevolare i processi aziendali, a dare continuità alla produzione e, all’esterno dell’Azienda, di relazioni che costruiscono, attraverso “partnership”, il benessere degli stakeholders che ruotano attorno all’Azienda, primi fra tutti i Clienti, creando di conseguenza le condizioni per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Una risorsa umana che diventa pienamente “soggetto”, capace quindi di scambiarsi conoscenza e di acquisire conoscenze nuove, attore principale delle transazioni, generatore di valore, e contenitore mai colmo del patrimonio culturale dell’Azienda. Una tale richiesta, che va ben oltre il compito prescrittivo legato al ruolo aziendale, e che implica responsabilizzazione e partecipazione psicologica dei soggetti al progetto e agli obiettivi dell’Azienda, mette necessariamente in moto un meccanismo ansiogeno, più o meno conscio, legato alla capacità e alla volontà di una risposta affermativa, meccanismo che conduce drammaticamente a vedersela con i propri obiettivi di vita, con i propri valori, con il desiderio, magari rimosso o represso da tempo, di riprendere il filo del discorso della propria vita e di ridare la possibilità al proprio “puer” di seguire la via della propria vocazione. È una richiesta alla quale gli individui possono anche rispondere con resistenze e rifiuti, perché necessariamente induce ad una profonda conoscenza di sé, perché implica la necessità di acquisire nuove conoscenze, di dimostrare abilità e capacità forse da tempo non esercitate, di prendere decisioni; e tutto questo genera incertezza, nonostante sia sentito da tutti, come abbiamo visto e dimostrato, il bisogno di realizzarsi, di seguire la verità del proprio Sé, la certezza del proprio sentire, quando si sia liberi di seguire il proprio flusso creativo. In questo conflitto, tra “l’angoscia dell’incertezza” e “l’angoscia della certezza” (L.Pagliarani), tra paura e coraggio, tra voglia di prendersi il rischio e meccanismi di difesa, si genera un disagio all’interno dell’organizzazione che, se intelligentemente e creativamente gestito, può essere il territorio del cambiamento e della trasformazione. La “doppia presenza del compito primario dell’Azienda” (Forti e Varchetta), da una parte degli obiettivi istituzionali che l’organizzazione in sé riceve dai propri stakeholders, dall’altra degli obiettivi individuali che, consciamente o meno, le donne e gli uomini che operano nelle organizzazioni ritornano a sentire nei confronti di se stessi e del proprio progetto di autosviluppo, fa nascere la necessità del cambiamento rispetto al passato, cambiamento che determina quanto l’organizzazione aziendale possa rispondere a tali nuove richieste e, in ultima analisi, sappia raggiungere i propri obiettivi e risultati. Nel momento in cui la necessità del cambiamento assume il significato dell’esistenza stessa dell’Azienda sul mercato, allora si devono verificare delle trasformazioni, delle metamorfosi nel pensiero stesso delle persone appartenenti all’Azienda, qualsiasi sia il loro ruolo ma, a maggior ragione , nel management e nei leader. È infatti da loro che ci si aspetta una capacità particolare di coinvolgere e motivare le persone all’interno dell’Azienda, specialmente la periferia organizzativa che, da una parte ha maggior contatto con il Cliente, dall’altra è inserita nel ciclo della produzione. “Per un verso esiste la necessità di acquisire nuove idee e nuove competenze, per altro verso c’è l’esigenza di disimparare vecchi valori e atteggiamenti superati. A questo si aggiunge la generale esigenza di essere migliori pensatori, alla ricerca di possibilità e nuovi concetti e migliori decisori, alla ricerca dei tempi congruenti ai diversi contesti competitivi in cui si opera, enfatizzando l’importanza di capacità e abilità spesso dimenticate nel dibattito sulla leadership. I nuovi modelli di leadership non parlano più solo di compito, ma anche di valori, politiche, relazioni, energia e motivazione, di slancio e di passione che produce contagio e induce attivazione di alta energia e animazione. Questa nuova cultura della leadership evolve in virtù di reali cambiamenti delle persone. La trasformazione personale è parte fondamentale del processo di cambiamento generale. Le competenze di tipo comunicativo e argomentativo e di dialogo diventano indispensabili, perché se le organizzazioni si possono leggere come “reti conversazionali” all’interno delle quali la parola è fonte e strumento di gestione, il discorso dei leader, sia nei suoi aspetti decisori, sia in quelli didattici diventa una delle fonti di gestione dei processi operativi e della cultura. Del leader allora conta l’esempio ed il comportamento, la visione, il modo di porgere e non solo il contenuto, la congruenza” (Giovanni Testa in prefazione a Robert Dilts) I nuovi leader, insieme alla proprietà, devono identificare i valori, la visione e la missione dell’Azienda, crederci e coinvolgere i collaboratori sapendo creare, attraverso una conoscenza profonda delle proprie persone, un terreno comune di condivisione in cui tutti si sentano coinvolti emotivamente e psicologicamente, motivati a fare meglio, partecipi degli obiettivi dell’Azienda come se fossero propri. Saper creare un terreno di condivisione di valori significa saper leggere e rispettare la cultura dell’Azienda, significa conoscere a fondo i propri collaboratori ponendosi in una relazione in cui, ascoltando empaticamente, si sappia riconoscere nell’Altro la sua visione del mondo, le cose che per lui sono importanti, i suoi valori di riferimento, il suo sistema di credenze, la sua vocazione, le sue capacità, le sue attitudini naturali, le sue eccellenze, le sue aspettative, i suoi sogni. Si sappia cioè confermare le sue migliori qualità e se ne faciliti la crescita personale, il cambiamento e la trasformazione motivando, trascinando, guidando. I nuovi Principi di Gestione per la Qualità ( ISO 9000:2000) offrono alle organizzazioni economiche contemporanee la struttura del cambiamento necessario per rispondere alle nuove sfide del mercato e alle richieste di realizzazione dei soggetti umani. Vediamoli come riepilogo di tutto quanto detto finora: • Organizzazione orientata al Cliente • Leadership • Coinvolgimento del personale • Approccio basato sui processi • Approccio sistemico della gestione • Miglioramento continuo • Decisioni basate su dati di fatto • Rapporti di reciproco beneficio con i fornitori. Il nuovo processo di certificazione richiede quindi una maggiore attenzione 16 PAGINA ed ascolto non solo del Cliente esterno, ma anche del Cliente interno, dei soggetti umani all’interno dell’Azienda (macrosistema), che vengono inseriti, con maggiori responsabilità rispetto al passato, in processi aziendali che vedono coinvolte più persone in maniera trasversale, persone che si debbono ascoltare, che debbono parlarsi, che debbono essere tutte sensibili e sensibilizzate al raggiungimento di un obiettivo comune. Per primi i leader dell’Azienda devono avere capacità relazionali ma devono anche saper trasmettere il proprio modello a tutte le persone con responsabilità , che devono quindi essere formate per integrare le competenze tecniche (sistemiche e strategiche) con competenze sociali, psicologiche, di ascolto e comunicazione efficace. Competenze che permettano a se stessi e ai propri collaboratori di vivere il ruolo professionale davvero come spazio di espressione di sé e di integrazione. Per quanto detto, le organizzazioni economiche contemporanee si trovano nella necessità di gestire il cambiamento attraverso l’apprendimento di nuovi modelli comportamentali: • I leader aziendali devono acquisire nuove competenze di relazione, di ascolto, di supporto, di motivazione del personale, di gestione integrata dei gruppi di lavoro • La comunicazione deve diventare strumento di relazione sempre più efficace • Il personale tutto deve acquisire consapevolezza dei principi di Gestione per la Qualità, deve acquisire modalità comunicative improntate alla costruzione di relazioni che agevolino l’approccio sistemico della gestione per processi, e deve essere sensibilizzato verso il Cliente esterno e il Cliente interno • Il personale tutto, insieme con i leader dell’Azienda, deve acquisire modalità comunicative, di ascolto e di relazione che creino un clima aziendale facilitante lo scambio di esperienze, la definizione di strategie, il problem solving creativo (microsistema), la decisione condivisa e, come risultato, una efficacia ed efficienza ottenute come fine di un processo virtuoso • Il personale tutto deve avere compiti precisi ma deve essere formato, stimolato, Infermiere a Pavia motivato ad interpretare il proprio ruolo professionale con creatività intensa, identità personale e professionale, forte identificazione con il progetto dell’Azienda • Il personale esterno, tipicamente l’area commerciale dell’Azienda, deve saper creare, mantenere e sviluppare relazioni con il Cliente esterno e deve saper proporre il prodotto dell’Azienda come vantaggio e soluzione ai problemi e bisogni del Cliente I soggetti all’interno dell’organizzazione aziendale sentono e hanno il diritto di vivere la professione come spazio della propria autorealizzazione. L’Azienda, se vuole cogliere gli obiettivi offerti dalla “doppia presenza del compito primario” deve saper offrire questa opportunità alle proprie risorse umane attraverso valutazioni condivise, compiti che offrano l’opportunità di sviluppare specifiche qualità riconosciute, percorsi di carriera che stimolino l’apprendimento di nuove conoscenze, apprendimento canalizzato e facilitato da strumenti quali formazione, coaching, tutorship, mentoring, con cui sviluppare le potenzialità e facilitare l’empowerment. L’Azienda deve anche consentire al soggetto di poter integrare la propria personalità, deve permettere al soggetto di esprimere tutte le sue qualità, riconoscere, confermare e preservare l’individualità e la soggettività nella socializzazione. Deve saper riconoscere e facilitare l’allineamento dei livelli in ogni persona: la visione e la finalità di ognuno, il proprio ruolo e missione, i propri valori, le capacità sia sistemiche che strategiche, i comportamenti e le relazioni con gli altri soggetti coinvolti nello stesso contesto e nello stesso ambiente formano un tutt’uno, una “Gestalt” che non può essere misconosciuta. Deve anche saper facilitare le relazioni e i possibili conflitti non solo interpersonali ma anche intrapsichici, che, come abbiamo visto, possono sorgere di fronte alle nuove richieste di responsabilità, coinvolgimento e discrezionalità. In conclusione, siamo convinte che il nuovo contesto economico, globalizzato e concorrenziale, dove il Cliente-Paziente giudica e sceglie, non debba necessariamente essere demonizzato ma che solo la fedeltà alla visione etica finora sostenuta e ai valori su cui è fondata possa generare il benessere atteso e auspicato anziché l’insoddisfazione di tutti i soggetti coinvolti nel “Sistema Sanità” e, di conseguenza, il fallimento della “mission” delle Aziende Ospedale, delle Aziende Sanitarie Locali, delle Fondazioni, delle Cliniche. Bibliografia - NOTE DI SEGRETERIA Qualora un iscritto cambi indirizzo, recapiti telefonici, posto di lavoro o consegua dei titoli accademici, deve segnalarlo in segreteria per l’aggiornamento dell’Albo professionale di appartenenza. La comunicazione può essere inviata tramite via fax, e-mail, posta tradizionale, oppure personalmente in Collegio compilando l’apposito modulo. Gli autori * Infermiera - Azienda Ospedaliera Pavia ** Counselor e formatrice aziendale 17 PAGINA Numero 2/2007 La comunicazione con l’anziano: come promuovere un’auspicata e mitigante serenità attorno alla persona che invecchia * Silvia Giudici Il termine comunicazione deriva dal latino “communio” e indica, letteralmente, l’azione del mettere in comune. Si può affermare, congiungendo più definizioni, che la comunicazione è partecipazione, trasmissione, diffusione, scambio diretto o integrale, messa in comune di un contributo, effettuato per ragioni informative, organizzative, direttive, affettive. Un processo sempre bilaterale, contrattato tra le parti, sebbene spesso avvenga in modo non pienamente consapevole. I dati relativi all’invecchiamento della persona consentono di affermare che in età avanzata la comunicazione verbale mediante parole pronunciate e scritte, può essere difficoltosa ma relativamente conservata. L’anziano può fisiologicamente continuare a comunicare e se non lo fa è perché viene spesso isolato ed emarginato. A parte gli interventi protesici o chirurgici, che devono essere messi a disposizione di tutti gli anziani che ne necessitano, e non soltanto degli appartenenti agli strati sociali più fortunati, è pertanto fondamentale che le persone che invecchiano da un lato vengano messe nelle condizioni di comunicare, dall’altro lato siano aiutate ad esempio nella comprensione acustica dei messaggi, attraverso la formulazione degli stessi, con modalità che facilitano la loro comprensione e soprattutto che vengano inseriti in un contesto che renda la comunicazione carica di significato. E’ però da considerare anche il valore che assume in età senile la comunicazione non verbale, in cui l’anziano funge sia da emittente che da ricevente della comunicazione. I messaggi espressi attraverso la mimica, la postura, gli atteggiamenti, assumono spesso un significato di rilievo, perché possono sostituire quelli trasmessi verbalmente, ribadirli o contraddirli, fornendo così una serie di elementi conoscitivi. Nella nostra cultura, quando si parla di comunicazione si pensa in primo luogo alla comunicazione verbale, cioè organizzata in parole e suoni. Ma è necessario riconoscere che nella vita quotidiana han- no grande rilievo altre forme di espressione e di significato. La comunicazione è infatti un sistema complesso, in cui la dimensione verbale e non verbale si compenetrano. Esiste il non verbale linguistico come l’intonazione, il ritmo, la velocità, l’accento ed il timbro della voce. C’è il linguistico non verbale come nella comunicazione gestuale che si propone come segno, dove i gesti non hanno significato in sé ma stanno per qualcos’altro. C’è poi il non verbale extralinguistico. Gli atti comunicativi non verbali si sostanziano nelle caratteristiche fisiche (identità dell’emittente), sia naturali (lineamenti, colore della pelle o degli occhi), sia artefatte (taglio dei capelli, trucco); nella postura; nei movimenti del corpo; nella mimica facciale; nei fenomeni paralinguistici (riso, pianto, sbadiglio, cambiamenti nel tono della voce, pause, silenzi); nella gestualità che accompagna, rafforza, completa o contraddice il contenuto verbale. Nell’anziano, l’espressione mimica molto spesso comunica qualcosa di profondo e sostanziale di quello che le parole possono significare: è quindi necessario osservare e cogliere questi messaggi che talvolta rappresentano un segnale di allarme e una richiesta di aiuto. Un peculiare tipo di comunicazione non verbale è la comunicazione “fisica”, che avviene per contatto. E’ sufficiente pensare alla semplice e comunissima stretta di mano, ai modi diversi che le persone hanno di salutarsi o di presentarsi, alle informazioni che la stretta di mano ci può suggerire. Occorre molta accortezza e molto rispetto nella comunicazione fisica con la persona sofferente, specie se anziana. Si possono trasmettere involontariamente contenuti che disturbano, che infastidiscono, soprattutto quando il messaggio viene interpretato come aggressivo, invadente. Nell’anziano, la comunicazione non verbale a volte esprime la difficoltà a comunicare direttamente situazioni negative. E’ una comunicazione sofferta di esperienze dolorose che si tende a dimenticare e a rimuovere. Diviene indispensabile la qualità dell’ascolto, il rapporto, il clima di fiducia che consenta l’espressione verbale della sofferenza. Spesso ci vuole tempo, molta pazienza per aiutare un anziano a parlare di sé. L’anziano può manifestare titubanza e perplessità nei confronti della comunicazione interpersonale, soprattutto se deve rapportarsi con persone molto più giovani di lui. Un atteggiamento di accoglienza, di rispetto e di fiducia da parte dell’interlocutore può sciogliere dubbi e resistenze. Il linguaggio verbale presenta nell’invecchiamento modificazioni relativamente limitate. La grande maggioranza degli anziani è solita riferire difficoltà a recuperare nomi nel corso della conversazione e in particolare quelli di persone note e di familiari. Tale fenomeno viene chiamato anomia. I diversi studi svolti sulle capacità lessicali nell’invecchiamento riportano risultati relativamente divergenti. Alcuni hanno evidenziato un progressivo disturbo della capacità di recupero lessicale. Tale deficit si accompagna spesso a un fenomeno che viene detto della “punta della lingua”, tale per cui, nonostante l’anomia, la persona è in grado di riferire alcune informazioni sulla parola che non è in grado di recuperare, come il numero di sillabe, la sede dell’accento, la lettera iniziale o la struttura morfologica. L’anomia della persona anziana coinvolgerebbe tanto la produzione di nomi che di verbi, e per quanto riguarda i nomi, tanto quelli propri (di persona, di luogo, ecc.) che quelli di oggetti. Le capacità fonologiche sembrano invariate rispetto a quelle di persone più giovani. Pur con qualche discordanza, tale stabilità è confermata anche per le capacità lessicali e semantico-lessicali. Le capacità sintattiche sono a loro volta sostanzialmente stabili e la loro apparente riduzione è eventualmente da attribuire ad una diminuita capacità di memoria a breve termine. Le modificazioni del contenuto informativo, riferite da alcuni studi, paiono più da spiegare con l’insorgenza di modificazioni di ordine sociale e comportamentale più che primitivamente linguistico. In età inoltrata la capacità di apprendimento si riduce. Prevale un apprendimento fondato sull’azione (by doing) e non sulla memorizzazione (by memorizing). L’anziano in condizione di benessere psico-fisico è in grado di imparare a conoscere allo stesso modo del giovane e dell’adulto, sebbene talvolta le nuove acquisizioni, specie di avanzata tecnologia, richiedono tempi più lungi di assimilazio- 18 PAGINA ne. Nei processi di apprendimento o di recupero di acquisizioni smarrite, a ogni età e a maggior ragione in vecchiaia, riveste un ruolo preminente la motivazione. La nascita, lo sviluppo e la diffusione delle università della terza età testimoniano in molti anziani la riuscita combinazione creativa tra capacità e volontà di apprendere e di ricordare. Le ricerche più recenti hanno dimostrato che anche i longevi possono continuare ad apprendere, purchè siano messi in grado di utilizzare una procedura fondata più sul fare concretamente che sul memorizzare. La memoria è la funzione psichica preposta all’organizzazione dell’aspetto temporale del comportamento e determina le concessioni casuali fra l’evento attuale e uno precedentemente accaduto. Si riconoscono una memoria sensoriale, iconica, di brevissima durata (0,1-0,5 sec); una memoria a breve termine che contiene una prima interpretazione degli eventi (1-2 ore); una memoria a lungo termine che rappresenta il sistema più complesso di raccolta, organizzazione e archiviazione delle informazioni. La memoria presenta una certa diminuzione in funzione dell’età. Generalmente sono più coinvolte nel processo di declino fisiologico la memoria a breve termine e di lavoro rispetto a quella a lungo termine, più la memoria attuale che la memoria passata. Tale riduzione non comporta necessariamente una perdita di efficienza nella vita quotidiana ed è fortemente influenzata dal valore che i contenuti del ricordo presentano per l’anziano: quelli che interessano particolarmente la persona tendono ad essere ricordati in modo migliore rispetto a quelli per i quali viene avvertito un sentimento di indifferenza. La comunicazione con il vecchio spesso risente dei pregiudizi di una cultura dominante impostata sull’efficientismo e sull’apparenza. I canoni diffusi dall’estetismo e dall’edonismo, all’insegna dei “sani e belli”, archiviano l’anziano nel mondo dell’obsoleto, del superato. Numerosi sono i pregiudizi nei suoi confronti; uno dei più diffusi e discriminanti definisce il vecchio come involuto e decadente, dimenticando i molti anziani e longevi che sono o sono stati particolarmente attivi sul piano creativo in ogni ambito artistico e professionale. La coercizione del pregiudizio investe un’ampia popolazione di anziani; più o meno inconsapevolmente si ritiene ancora, in vari settori della vita sociale, che essi siano inutili, improduttivi, ripetitivi, depressi, passivi, superati, inariditi di idee, sentimenti, interessi e desideri. Vecchiaia e malattia costituiscono un antico preconcetto binomio. La riduzione del margine di sicurezza, la fragilità, l’au- Infermiere a Pavia mentata vulnerabilità agli agenti patogeni nell’anziano continuano diffusamente a nutrire la pregiudiziale concezione della vecchiaia come predisponente, inesorabile condizione di malattia. Da numerose ricerche, risulta che le persone anziane temono in particolare la malattia e si augurano per il futuro di continuare a godere di una soddisfacente salute o di poterla recuperare. La malattia, specie se prolungata, dischiude l’indesiderato e preoccupante scenario dell’invalidità, della perduta autonomia, della dipendenza, della compromissione della propria libertà di movimento e di quanto ne consegue. In alcuni anziani la comparsa di un disturbo fisico non grave scatena talvolta paure ad angosce di un annunciato, progressivo declino. Saper comunicare ed ascoltare costituiscono gli atteggiamenti più corretti dell’infermiere moderno. La comunicazione con l’anziano deve tener conto delle modalità relazionali che si vengono delineando in età senile. Spesso, infatti, il linguaggio personale, nel corso del tempo e attraverso le esperienze, si arricchisce di un nuovo lessico che sostituisce precedenti modalità espressive. I livelli, i modelli, i percorsi della conoscenza di un individuo si evidenziano nello stile, nella scelta e nell’uso delle parole. Le espressioni verbali si modulano ed emergono dalla storia personale e possono anche caratterizzare la contestualità ed il vissuto dell’attuale fase esistenziale. Peculiari tipologie linguistiche connotano un’epoca, un periodo della storia. Spesso gli anziani, soprattutto longevi e di sesso femminile, non hanno potuto usufruire di un sistema educativo-scolastico appropriato e tendono ad esprimersi attraverso l’impiego di un idioma di impronta dialettale, la loro “lingua madre”, e faticano a formulare e talora anche a comprendere frasi nella corretta forma italiana. Il crescente fenomeno dell’immigrazione e della multietnicità concorre a rendere più difficile la comunicazione. Già nella comunicazione verbale corrente può accadere che si utilizzino vocaboli con significati diversi o parole differenti per intendere i medesimi contenuti a discapito della fluidità dell’interazione. Il dialogo e la comprensione possono risultare più difficili se si ascoltano espressioni idiomatiche, dialettali a cui corrispondono peculiarità semantiche. Ascoltare l’anziano significa inevitabilmente sapersi ascoltare, un atteggiamento diradato nella società dei consumi e dei rumori. Il silenzio è la premessa condizionale all’intimità di un ascolto profondo e partecipato e talora forse alcuni silenzi professionali rappresentano il vuoto di un silenzio inascoltato. Soprattutto l’anziano morente necessita di sguardi che si soffer- mano, di parole misurate, di atteggiamenti di paziente attesa, di sensibile accoglienza. La comunicazione con l’anziano malato richiede i requisiti del rispetto e della conoscenza personale, i binari entro i quali ciascun processo comunicativo si fa diverso da un altro, differente per ogni persona, in rapporto al variare della storia personale e della evoluzione clinica. Il problema della comunicazione investe anche i familiari del paziente, coinvolti sul piano emotivo ed esperienziale. Anch’essi necessitano di modulate informazioni, di un linguaggio appropriato, di rispetto degli affetti che sono in gioco, di sensibilità nei confronti della loro sofferenza che talora inconsapevolmente si esprime con atteggiamenti non sempre adeguati. La comunicazione efficace corretta con i congiunti ricade a sua volta, per la circolarità dei processi interattivi, sullo stesso paziente e contribuisce a creare un clima relazionale di reale accettazione, modalità comportamentale consone a promuovere un’auspicata e mitigante serenità intorno alla sofferenza dell’anziano ed al suo ultimo passaggio esistenziale. L’autore * Infermiera Neuroriabilitazione I e II Fondazione Salvatore Maugeri - Pavia Bibliografia - Antonini F.M., Magnolfi S. (2003). L’età dei capolavori. Venezia. Marsiglio Editore. - Barucci M. (2000). Psicogeragogia: mente, vecchiaia, educazione. Torino. UTET Libreria. - Cefis F. (2005). Il mestiere di vivere. L’arte di invecchiare. Treviglio (BG). IKONOS Editore. - Cesa Bianchi G., Cesa Bianchi M., Cristini C. (2000). Anziani e comunicazione tra salute e malattia. Milano. Mediserve Editore. - Eliopoulos C. (1998). Assistenza all’anziano. Firenze. USES Edizioni. - Hersen M., Van Hasselt V.B. (2001). Trattamenti psicologici nell’anziano. Milano. McGraw-Hill Editore. - Tammaro A.E., Casale G., Frustaglia A. (2000). Manuale di Geriatria e Gerontologia. Milano. McGraw-Hill - Vergani C. (2002). La nuova longevità. Milano. Mondadori Editore. 19 PAGINA Numero 2/2007 Il conflitto delle emozioni nel “prendersi cura” * Paola Ripa ** Cristian Maraschi *** Michela Massaro “Nel momento di maggiore solitudine, con il corpo spezzato sulla soglia dell’infinito, subentra un altro tempo, che non può essere misurato con i nostri criteri. In pochi giorni, con l’aiuto di una presenza che permette alla disperazione e al dolore di esprimersi, i malati comprendono la loro vita, se ne appropriano, ne manifestano la verità. Scoprono la libertà di aderire a sé stessi. Come se, quando tutto sta finendo, tutto si liberasse finalmente dal groviglio di pene e di illusioni che ci impediscono di appartenere a noi stessi. Il mistero di esistere e di morire non è affatto chiarito, ma è vissuto pienamente. La morte può far si che un essere diventi ciò che era chiamato a divenire; può essere, nella piena accezione del termine un compimento”. Francois Mitterrand Abstract Il lavoro parte dall’analisi degli elementi costitutivi dell’uomo che vive il termine della vita, tratta le emozioni provate in questa fase da parte del malato, dei familiari e dell’operatore, ritrae la relazione d’aiuto e gli strumenti con i quali essa può essere realizzata nel vissuto di malattia della persona. Lo scopo principale è quello di ricercare e provare a leggere una serie di situazioni che si presentano in questa condizione. Il tutto al fine di riflettere rispetto a quello che potrebbe essere il “senso” di essere infermieri nel contesto delle cure palliative e, una volta capito, possa divenire il riferimento del pensiero e dell’azione degli infermieri che si approcciano ad un aspetto infermieristico centro di un vortice di emozioni. L’infermiere può osservare, misurare e quantificare nei vari momenti assistenziali; può intravedere il risultato del conoscere il senso ed il significato di essere il professionista che presta attenzione, osserva, entra in empatia. Ascolta l’altro riconoscendone l’unicità, ascolta se stesso ricordando le analoghe esperienze vissute, accettando e affrontando ciò che ha creato problemi nel proprio intimo. La relazione d’aiuto alla fine della vita La parola relazione, tra i vari significati che può evocare, ne assume uno che ha un senso più profondo, ovvero quello che indica la creazione di legami 1. Se tra due o più persone, che intendono costruire una relazione, non si creano legami, diminuisce in modo sensibile la possibilità di comprendersi e di darsi aiuto. Una relazione prima di tutto è una relazione umana, una esperienza in comune, una condizione che comporta sempre reciprocità. Una dimensione ben diversa da una visione oggettivante che spesso contribuisce a creare solo rapporti di dipendenza tra chi “aiuta” e chi è “aiutato”, dove non ci si aspetta nulla di più da ciò che è preventivato e programmato e che di molto si allontana da quel atteggiamento di amorevole cura che invece è lecito aspettarsi. Alcune delle definizioni più conosciute sull’argomento citano: “la relazione esprime un modo di essere” “attraverso il rapporto con l’altro prendo consapevolezza di me stesso” “tanto più sono consapevole, tanto più si realizza l’incontro con l’altro”. Carl Rogers definisce così la relazione d’aiuto: ”una relazione in cui uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato; una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto e una maggiore possibilità di espressione”2 . Queste frasi e molte altre ancora, possono suggerire che condividere una relazione con un’altra specifica persona che ha un suo modo di essere, significa generare un qualcosa di unico ed irripetibile, come ad indicare che ogni relazione è diversa dalle altre. Questa premessa può aiutare a capire, che nessuna relazione d’aiuto può assumere un valore davvero significativo se non è fondata su una base costituita da una relazione umana. Chiarito cos’è una relazione umana, bisogna fare un passo avanti per iniziare a comprendere, quali sono i presupposti perché si crei una relazione d’aiuto. Questo obiettivo permette di sviscerare quelle che sono le motivazioni di chi si pone nella posizione di aiutare l’altro, di comprendere come queste inducono a scegliere le professioni d’aiuto e soprattutto a che tipo di bisogni rispondono. Spesso può essere fatta una scelta di questo tipo sulla spinta di fattori casuali, che magari, ad un certo punto della vita, fanno si che ci si trovi all’interno di una situazione nuova, tale da suscitare necessità interiori fino a quel momento mai provate, oppure può manifestarsi un desiderio istintivo mai maturato prima. Viceversa, la relazione d’aiuto richiama a delle associazioni con la solitudine, la fiducia, il senso di appartenenza, il far parte di un certo mondo. Nei testi di riferimento ,si apprende che secondo alcuni studi, le motivazioni principali di chi fa la scelta verso le professioni d’aiuto sono 1 , 3 : - Altruismo - Generosità - Il sentirsi utile 20 PAGINA - Sentimento di solidarietà Alto sentimento sociale Identificazione con l’altro Negazione dei propri desideri e bisogni Realizzazione di sé attraverso l’appagamento dei sentimenti degli altri. Se di fronte a questi dati ci si pone con un atteggiamento analitico, si può tentare di dare diversi significati alla motivazione, oppure cercare di dividerla nelle sue diverse componenti. Una di queste, sembra proprio essere quella parte che è legata all’altro, ossia alla prospettiva di svolgere un “compito” che è indirizzato verso un qualcosa di diverso da se stessi. Altre dichiarazioni, se prese in considerazione, suggeriscono che altre parti della motivazione, portino la stessa ad essere legata al proprio io e ad un bisogno personale. Dopo aver parlato di cosa spinge una persona a fare la scelta verso una professione d’aiuto, che può essere quella di insegnante, infermiere, sacerdote, medico, maestro, avvocato, assistente sociale, psicologo, ecc…,è necessario chiedersi cosa renda possibile una scelta così ampia tra le varie professioni. La risposta più immediata che viene in mente, è che a tanti diversi professionisti ricorrano altrettante persone che maturano specifici bisogni di diversa natura. Concetto semplice, intuitivo e quasi scontato, che fa capire come l’altro grande protagonista che si trova all’interno del contenitore “relazione d’aiuto”, sia proprio la persona bisognosa che giustifica l’esistenza del professionista. Quindi si può trovare una prima chiusura del cerchio a questa presentazione introduttiva, sostenendo che, nella relazione d’aiuto deve sempre essere mantenuta una condizione di reciprocità, che giustifica la presenza dei protagonisti, uno rispetto all’altro. Continuando con l’analisi del titolo della premessa dell’elaborato, non rimane che focalizzarsi sulla parte che contestualizza il tipo di relazione che è stata presa come riferimento e che le affida una collocazione precisa e particolare: la fine della vita. Precisa, perché si tratta di una fase che nel vissuto di ogni essere umano assume una posizione puntuale, rispetto a quell’evento che rappresenta l’unica certezza che ognuno di noi ha della propria esistenza : la morte. Mentre descriverla come particolare sta ad indicare che anche se la morte è un evento certo per tutti , non significa però che sia accettabile. La paura della morte è quasi inevitabile 4, viene alimentata dal rischio di veder cancellarsi tutto quello che si è giudicato prezioso, e ciò a cui si è dedicata la propria vita. Riconoscere però l’origine naturale della morte, significa darne un senso di appartenenza alla vita stessa, che prima cresce e matura e poi si dissolve. Infermiere a Pavia Ogni persona fa esperienza della morte degli altri e non della propria, esperienza che si fonda sulla base di legami e sulla relazione tra il morente e chi lo assiste. Un rapporto straordinario spesso fondato sul vissuto del tempo passato condiviso insieme, ricordi e pensieri che confermano l’unicità di quella relazione. Si crea un confronto quasi paradossale, dove c’è un protagonista che parte per un viaggio misterioso e tanto più si allontana, tanto più spinge l’altro in un viaggio a ritroso nel passato alla ricerca dei momenti più significativi quasi ad impedirne il distacco. Si presuppone che una buona opportunità, sia ricercare gli strumenti necessari, per imparare a conoscere se stessi, prima di proporsi come “aiutanti” degli altri. Quindi di essere nella condizione di saper creare ed impostare la relazione d’aiuto, ma anche di saperla sostenere attraverso le conoscenze di base che: • contribuiscano a formare nel professionista le capacità tecniche, necessarie per fronteggiare le inevitabili sofferenze fisiche causate dalla sintomatologia della malattia. • permettano all’infermiere di mettere la persona assistita nella condizione di poter esprimere le proprie esigenze spirituali e quindi di soddisfare le stesse. • consentano di occuparsi dei problemi di natura sociale che aggravano la situazione della persona già colpita dalla malattia. • aiutino l’infermiere a coinvolgere la famiglia dell’assistito nel piano assistenziale. Caratteristiche del malato terminale e analisi delle varie componenti Secondo le definizioni internazionali, la fase terminale è riferita agli ultimi 3-6 mesi di vita. L’obiettivo fondamentale delle Cure Palliative (CP) è il miglioramento della qualità di vita residua sino alla morte, e , secondo la classica definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Le CP sono rappresentate dall’insieme d’interventi terapeutici ed assistenziali finalizzati alla cura attiva, totale di malati la cui malattia di base non risponde più a trattamenti specifici. Fondamentale è il controllo del dolore e degli altri sintomi e, in generale, dei problemi psicologici, sociali e spirituali. L’obiettivo delle CP è il raggiungimento della migliore qualità di vita possibile per i malati e le loro famiglie. Molti aspetti dell’approccio palliativo sono applicabili anche più precocemente nel corso della malattia” 5. Uno degli aspetti fondamentali che incidono sul benessere psicologico del malato terminale, è disporre delle informazioni necessarie per raggiungere un grado, individualmente variabile, di consapevolezza della propria malattia. L’offerta di un’informazione veritiera (nel senso di quella “verità” che il malato desidera conoscere in quel tempo) è un dovere etico dell’équipe curante ed è, al tempo stesso, la precondizione per condividere la pianificazione delle terapie attuali e future, per aiutare il malato a dare al tempo che precede la morte il senso che meglio si adatta alla sua condizione fisica, psicologica, sociale e spirituale. L’altra peculiarità del malato terminale è l’evoluzione variabile del grado di consapevolezza e della sua esternazione; questo determina un andamento individuale del processo decisionale, che risulta poco standardizzabile nel tempo e nelle forme in cui esso si viene progressivamente manifestando. Gli orientamenti decisionali in merito a questioni fondamentali quali: la sospensione dei trattamenti chemioterapici o radioterapici, il passaggio più o meno graduale alle CP, lo sviluppo di un piano di cure palliative condiviso, il luogo ove ricevere tali cure e trascorrere le ultime settimane o giorni di vita (ad esempio domicilio o hospice), avvengono in tempi e modi strettamente connessi con le caratteristiche individuali del malato e del suo nucleo familiare. E’ in questa “intimità di fine vita” che il malato, circondato dai suoi familiari e supportato dall’èquipe di Cure Palliative, inizia a percorrere un cammino dove è presente una forte valenza emozionale che si respira giorno per giorno con l’aggravamento della condizione generale e la difficoltà nel controllo dei sintomi. Nel nucleo familiare, le emozioni fanno parte del vissuto di quel momento, mentre per gli operatori quelle emozioni sono una delle caratteristiche del proprio lavoro, della propria attività professionale. Infatti già dalla presa in carico, gli operatori dell’èquipe raccolgono tutto il peso emozionale accumulato dal malato e dai suoi cari, a partire dai primi sintomi e dalla diagnosi, fino a quando si arriva alla cura di “quando non si può guarire” 6. AREA FISIOLOGICA Nella persona che non può guarire, la malattia che progredisce comporta un profondo cambiamento del fisico e la conseguente comparsa dei segni e sintomi che la caratterizzano, con il trascorrere del tempo, la rendono sempre più grave. Nella sua ultima fase, 7 la malattia, se non viene affrontata in modo adeguato con il più idoneo trattamento terapeutico, oltre a consumare il corpo e privarlo della propria vitalità, spesso induce la persona colpita a vivere l’esperienza del dolore fisico che è il sintomo principale, il più disarmante, che toglie ogni voglia di essere, che demolisce qualunque aspettativa, che rende difficile anche le attività fisiche più semplici. Esso 21 PAGINA Numero 2/2007 si manifesta come un evento incessante, che può durare giorni, a volte anche mesi se non controllato adeguatamente con i farmaci necessari, capace di togliere ogni senso alla vita del malato. Tutti sono consapevoli che il dolore è sempre un’esperienza multidimensionale in cui esistono due fattori: quello sensitivo, descritto dall’interessato con una relativa facilità e legato alla nocicezione, e quello emotivo che comprende in sé tutte le risposte negative per gli eventi emotivi rappresentati, come la sofferenza che può scaturire dalla paura per l’ignoto, dall’ansia, dall’isolamento 8. La persona viene così travolta anche nella sfera psichica dove si creano emozioni negative che accompagnano il dolore stesso ed una serie di altri sintomi, più o meno gravi, che concorrono a generare uno stato di “dolore totale” dove la sfera fisica e quella psichica si confondono in una totalità annientante. I sintomi più ricorrenti ai quali è associato il dolore fisico sono la dispnea,la tosse, la nausea, il vomito, l’inappetenza, la stipsi, il dimagrimento, l’astenia, problemi del cavo orale, stomatiti, disfagie, lo stato confusionale 7. Spesso se controllati, si assiste ad una rinascita, anche se temporanea, che consente al malato di proseguire con più fiducia. Un’analisi più profonda di questi eventi, aiuta a capire in modo concreto, come lo stato di avanzamento di malattia si manifesta nel suo decorso fisiologico e ad intuire , come la persona colpita lo viva nella sua componente fisica. • Sintomi legati all’alimentazione. Il malato grave, spesso vive questo tipo di difficoltà. Tra quelli già citati, dopo il dolore, nausea e vomito sono tra i sintomi più disturbanti. Il vomito, se insorge in seguito al trattamento farmacologico con utilizzo di chemioterapici, tende a regredire con la sospensione della cura. Lo stesso sintomo però, insieme alla nausea può essere conseguente al trattamento farmacologico con utilizzo di oppioidi, soprattutto dopo i primi giorni di somministrazione. Altre cause scatenanti sono da ricercare, nel tipo di patologia da cui la persona è affetta (patologie del tratto gastrointestinale) ,nei gravi stati di disidratazione, nei coinvolgimenti del sistema nervoso centrale (metastasi compressive sia a livello centrale che a livello midollare). Anche i disturbi del cavo orale, sono frequentemente legati all’utilizzo di chemioterapici o a trattamenti di radioterapia, o all’uso di corticosteroidi che in tale situazione possono favorire la sovrapposizione di agenti infettanti batterici, virali e micotici. I sintomi che si possono manifestare sono le alterazioni del gusto (disgeusie, ipogeusie), xerostomia, stomatiti con ulcerazioni della mucosa del cavo orale. • Sintomi legati alla respirazione. Tra i più gravi la dispnea, la sensazione di fame d’aria, la difficoltà di ventilazione, la tosse. La dispnea può originare da un aumento della frequenza respiratoria dovuta a ipercapnia, acidosi metabolica, ipossiemia, anemia; può essere conseguenza di patologie ostruttive o restrittive delle vie respiratorie, dello stato di cachessia o dell’ ipotonia della muscolatura scheletrica. La percezione della dispnea è soggettiva e non sempre è indicativa di un’alterazione del quadro diagnostico, essa può essere correlata anche a stati di disagio psicologico, quali l’ansia e le crisi di panico. La dispnea contribuisce ad aggravare lo stato di malattia, pur essendo una sensazione soggettiva, induce la persona ad associare la situazione vissuta all’idea di morte. Uno stato capace di far insorgere un’angoscia pressante che genera nel malato la paura di morire soffocato, la difficoltà ad addormentarsi per la paura di non risvegliarsi. Ne consegue che la persona fatichi a recuperare durante il sonno notturno, le energie necessarie ad affrontare l’insieme di “ostacoli” che riempiono questa fase della vita. Situazione che induce un’alterazione del ritmo sonno-veglia, che favorisce il riposo nei momenti in cui il malato ha accanto a sé una figura famigliare, amica, che veglia sul proprio sonno. In questa fase anche gli altri sintomi elencati come le alterazioni della meccanica ventilatoria e la tosse persistente contribuiscono al peggioramento delle condizioni di un quadro generale che è già precario. • Stipsi. Il termine indica l’ evacuazione di feci dure accompagnata alla difficoltà ed alla diminuzione della frequenza di tale funzione. Le cause possono essere di natura ostruttiva per la presenza di masse tumorali, di natura farmacologica, ,per uso di oppioidi che diminuiscono il tono e la motilità intestinale o di alcuni chemioterapici che presentano tossicità a livello del sistema autonomo vegetativo; può essere anche conseguente ad alterazioni di origine neurologica, metabolica, o a stato di disidratazione, inappetenza , ridotta mobilizzazione, allettamento. Tutti questi sintomi, associati al dolore, concorrono nel generare sofferenza nella persona che vive la malattia in fase finale. Sofferenza che colpisce l’uomo in uno qualunque dei suoi elementi costitutivi: biologico, psichico, relazionale. Elementi che normalmente mantengono un certo equilibrio ed insieme creano la globalità dell’uomo. Ne consegue che la sofferenza ed il dolore sono in grado di creare rotture a vari livelli e quelli che sono più facilmente riconoscibili agli occhi di chi si avvicina al sofferente sono i segni che la malattia produce sul corpo. Tracce oggettive che non possono non essere viste, e che devono far pensare anche ai segni che la stessa scalfisce nell’anima e nella mente. AREA PSICOLOGICA Dolore e sofferenza come già visto, nel malato sono in grado di creare rotture a vari livelli, oltre che con il proprio corpo, anche con la propria psiche. ”La vita, invece che essere vissuta come un dialogo, diventa un monologo che, in qualche modo, trova la sua causa nel timore della debolezza o della fragilità e nella paura della dipendenza da altri” 8. Vivere la percezione del dolore ed il malessere fisico, fanno si che nella mente della persona, si crei la memoria dell’ esperienza vissuta, che con il passare del tempo manifesta un potere condizionante. Esperienza capace di modulare la risposta comportamentale della persona nei confronti delle situazioni spiacevoli (dolore medesimo), che si ripresentano nel naturale decorso patologico. Ecco che il pensiero può essere in grado di indirizzare la risposta della persona, rispetto al nuovo stimolo percepito a livello corporeo. Ad esempio da una parte ci può essere una risposta positiva, grazie al riconoscimento del dolore già vissuto nelle sue caratteristiche, che facilita la capacità di gestire il dolore stesso; dall’altra parte, riconoscere che la percezione del dolore è sempre più ricorrente può aumentare la consapevolezza che il proprio stato di malattia avanza, e quindi indurre nella persona stessa una serie di pensieri negativi. Sentimenti che spesso portano ad una profonda preoccupazione, allo sconforto e depressione, tutte situazioni che concorrono a creare un forte disagio psichico. Il fatto di trovarsi di colpo in una nuova situazione, può generare una forte confusione, dettata dal venir meno delle certezze, che in un contesto di vita normale delineano uno stile da seguire. Di conseguenza, anche gli sforzi adattivi messi in atto per fronteggiare la dura nuova realtà, possono NOTE DI SEGRETERIA Si rammenta che la tessera personale è il documento di riconoscimento del professionista. La tessera viene preparata dopo lo svolgimento delle procedure di iscrizione e può essere ritirata presso la segreteria del Collegio 22 PAGINA essere delle variabili che si caratterizzano per valori estremi: c’è chi ricorre a meccanismi di difesa quali la negazione o la rimozione della malattia, chi perde ogni forza per combattere la stessa, chi risponde con l’immediata rassegnazione, chi invece risponde con grande rabbia magari senza neanche sapere dove indirizzarla. Diversi tipi di reazione, che comunque danno alla persona la possibilità di esplorare confini e parti di sè che prima non conosceva. Paradossalmente il solo fatto di essere malati, permette di mostrare agli altri le proprie paure, fragilità e disperazione, senza dover ricorrere a strategie alternative. Sentimenti che vengono da tutti considerati leciti, se accostati alla sofferenza, mentre possono essere utilizzati come delle etichette negative se manifestati nel normale decorso della vita. Quindi, nella fase avanzata di malattia, l’intensità del dolore fisico ed emotivo e la consapevolezza di avvicinarsi all’evento morte, possono provocare uno stimolo potente ad esprimere ciò che si sente ed a cercare ciò di cui si ha bisogno 9. In un certo senso, la condizione di malato permette di avere più disponibilità e più ascolto da parte degli altri. Situazione che offre la possibilità di tirar fuori parole che non si sono mai dette prima ai propri cari, di sciogliersi in lacrime liberatorie, di rivendicare i propri sentimenti, di pretendere attenzione e sostegno. La persona ha la possibilità, di guardarsi dentro per prendere coscienza di ciò che ha attraversato nella vita, di riconoscere e dire a se stessa che continuare senza amore, considerazione e stima, vorrebbe dire vivere una vita insostenibile. AREA SPIRITUALE Nell’ottica di voler illustrare, come la malattia produce i suoi effetti attaccando l’uomo nella sua totalità, dimensione che si realizza grazie all’armonia con la quale le parti costituenti si intrecciano tra loro, è importante ricercare il significato della spiritualità nel sofferente. Che cos’è lo spirito? La dimensione spirituale è la spinta, la tensione grazie alla quale l’uomo comprende il “perché” di ciò che vive, fa o non fa 10; è quello spazio intimo in cui ogni persona può decidere di vivere in dignità e benessere, nonostante le situazioni avverse. Nella globalità dell’uomo l’aspetto spirituale è quello che comprende sia l’aspetto psichico che quello corporeo come parti di un’unica interezza. Per chi la vive, l’esperienza spirituale, insieme alla preghiera, la meditazione, alle relazioni interpersonali basate sull’empatia e l’amore, è parte fondamentale di un progetto di vita, capace di integrare tutte le esperienze, positive o negative, interiori o esteriori che compongono il cammino nell’esistenza. Infermiere a Pavia Progettare la propria vita, significa dare alla stessa un certo indirizzo ed un certo ordine, alla ricerca dell’integrazione delle risorse fisiche, mentali e spirituali. Darsi un obiettivo di vita, vuol dire rifiutare il disordine degli eventi che riempiono l’esistenza delle persone che vivono la vita solo in modo fatalista. Perseguirlo con volontà significa ricercare una strada che porti ad una continua trasformazione e crescita interiore. “Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Salvici Doloris, 22, anno 1984, ha affermato che nel corso della vita: la sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell’uomo, la sua maturità spirituale. Tale maturità può consistere nello scoprire un nuovo o rinnovato motivo per cui vivere, grazie al quale superare (quel) -se stesso- così limitato dal male. L’uomo insomma anche se non è contento del dolore, può essere sereno e felice grazie alla validità dei motivi che lo fanno vivere. Se ha motivi e valori ,vive e può farlo anche bene. Se non ne ha o li ha persi, oppure è in un momento di confusione, rischia di non trovare appagamento e serenità nella sua esperienza”10. Chi soffre perde spesso la pace interiore, ovvero quella sensazione di vivere una vita in armonia, che ha un senso, accanto alle persone amate. Senza di questo, si perde la capacità di fare pensieri positivi, si viene travolti da quelli negativi che accrescono la paura di vivere, peggiorandone la situazione. Peter Roche de Coppins sostiene che “la patologia e la malattia sono l’opposto della salute e della fede. In primis, è essere estranei a se stessi, essere separati dal proprio Sé spirituale; è ignorare chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e perché siamo su questa terra; è non sapere perchè viviamo certi eventi, è ignorare qual è il nostro compito e ciò che Dio e la vita si aspettano da noi. E’ avere perduto la pace o armonia interna, il nostro vero e proprio Sé”11. Inoltre, bisogna considerare, che ogni individuo nella sua unicità ha una propria spiritualità, capace di esprimersi con diverse caratteristiche e quindi nel malato terminale con bisogni diversi per ogni individuo. Secondo Angelo Brusco superiore dei Camilliani i bisogni spirituali del morente sono 7: - L’esigenza, da parte del morente di essere e continuare ad essere considerato un soggetto. - La ricerca di un significato della vita e dell’esperienza vissuta nell’approssimarsi della morte. - La riconciliazione. - La solidarietà, la vicinanza delle persone più care. - La ricerca di qualcosa di essenziale e l’interrogativo su cosa c’è oltre la morte e sull’esistenza di Dio. - La separazione, il bisogno di dire addio. AREA SOCIALE La società odierna è diventata multietnica, caratterizzata da un’elevata variabilità culturale che si esprime anche per quanto riguarda gli eventi fondamentali della vita: la nascita, l’accrescimento, l’ingresso nel mondo degli adulti, la malattia, la morte 12. Ne consegue che l’evento morte, ultimo in ordine cronologico viene condizionato da tutti gli altri che l’hanno preceduto nel corso dell’esistenza. Eventi che caratterizzano ogni diversa cultura, che si manifestano come un insieme organizzato di segni di riconoscimento sociale, al fine di dare ad ogni società che si vorrebbe immortale, un’identità propria, che possa contribuire a lottare contro il potere della dissoluzione individuale e collettiva 13. Nella cultura occidentale, la differenza tra fede e scienza è ben marcata e in alcuni contesti le rende contrapposte, mentre in altre culture non c’è separazione, ma una sorta di continuità. In occidente, nell’epoca contemporanea, l’evento morte viene “negato”, è un qualcosa che non deve essere nominato, che va nascosto, così come viene nascosta la sofferenza con tutti i suoi aspetti che vengono preferibilmente affidati ad estranei. Oggi, alcuni parenti tendono a nascondere la malattia grave al proprio caro, ad evitare che il medico comunichi al malato stesso la prognosi infausta, a non parlarne. I malati sempre più spesso muoiono isolati negli ospedali e negli hospice e proprio questo aspetto di solitudine, di emarginazione e di abbandono li porta di sovente alla disperazione; anche il lutto che segue subisce una specie di condanna sociale, che non gli da il tempo necessario perché il suo decorso naturale si completi, tanto che un dolore protratto viene ormai considerato di pertinenza dello psicologo o dello psichiatra. Sul piano biologico, nella logica della vita che si riproduce e si rinnova, la morte rimane una necessità, che però si scontra con la ricerca del progresso infinito che spinge l’essere umano verso la salute totale, attraverso l’eliminazione di tutte le malattie, verso l’autoillusione che la morte quasi non debba esistere perché la società è cambiata. Nell’Europa medioevale la morte era molto più visibile di oggi, mentre per noi essa tende ad essere un argomento che sfugge a qualsiasi discussione 14. Spesso si dà per scontato che la gente sia terrorizzata e si sfugge dall’argomento anche con le persone che vivono l’ultima parte della propria vita. Secondo Elisabeth Kubler-Ross, l’adattamento all’imminenza della morte è un processo concentrato di socializzazione che prevede diversi stadi. Il primo di 23 PAGINA Numero 2/2007 essi è il rifiuto: l’individuo non vuole accettare ciò che sta accadendo. Il secondo stadio è quello della collera, diffuso in particolare tra coloro che muoiono relativamente giovani, i quali provano risentimento per il fatto di essere defraudati della normale durata di vita. Segue uno stadio di patteggiamento: l’individuo stringe un accordo con il destino, o la divinità in cui crede, offrendosi di morire in pace se gli verrà concesso di vivere abbastanza per assistere a un qualche evento particolare, come un matrimonio o una nascita. Dopodiché il soggetto cade spesso in uno stato di depressione. Infine se riesce a superare questa fase, egli arriva all’accettazione, raggiunge cioè un atteggiamento di serenità di fronte alla morte che si avvicina. Nelle culture tradizionali, in cui i bambini, i genitori e nonni vivono spesso nella stessa unità familiare, c’è di solito la chiara consapevolezza del rapporto tra la morte e il succedersi delle generazioni. I singoli si sentono parte di una famiglia e di una comunità che continuano ad esistere indefinitamente nonostante la transitorietà dell’esistenza individuale. In tali circostanze è forse possibile guardare alla morte con meno ansia che nel contesto sociale del mondo industrializzato, individualistico e in continua rapida trasformazione. AREA INFERMIERISTICA Accostare la professione infermieristica agli elementi fondamentali che costituiscono l’uomo nella sua interezza, sfera fisiologica, psicologica, spirituale e sociale, equivale al tentativo di costruire un sistema di base, che metta sullo stesso piano, tutte le componenti su cui si fonda la relazione d’aiuto con una visione sistemica di tutte le parti che entrano in gioco. Questo non significa avere la pretesa di imporre la componente infermieristica, come un elemento che per forza di cose deve essere considerata fondamentale, quindi presente in ogni situazione di sofferenza e malattia. Piuttosto si intende analizzare come essa si disciplina rispetto all’argomento, prendendo spunto dalle norme etico morali indicate nel rispettivo codice deontologico. Per avere una visione più completa del contesto, diventa importante chiarire quali siano i riferimenti che guidano l’assistenza infermieristica nel prendersi cura, ed affiancarli agli elementi costitutivi dell’uomo. Marta Nucchi ne sottolinea l’importanza sostenendo che: “per la persona alla fine della vita probabilmente sarebbe importante conoscere il codice deontologico dell’infermiere” 15.Questa conoscenza potrebbe essere utile, al fine di evitare richieste spinte dalla disperazione del sofferente, che spesso non tengono conto che dall’altra parte c’è un professionista che regola il proprio agire con riferimenti specifici. Si elencano i seguenti punti del codice deontologico 16: 1.3 La responsabilità dell’infermiere consiste nel curare e prendersi cura della persona, nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo. 2.4 L’infermiere agisce tenendo conto dei valori religiosi, ideologici ed etici, nonché della cultura, sesso ed etnia dell’individuo. 4.2 L’infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all’assistito di esprimere le proprie scelte. 4.3 L’infermiere, rispettando le indicazioni espresse dall’assistito, ne facilita i rapporti con la comunità e le persone per lui significative, che coinvolge nel piano di cura. 4.9 L’infermiere promuove in ogni contesto assistenziale le migliori condizioni possibili di sicurezza psicofisica dell’assistito e dei familiari. 4.12 L’infermiere si impegna a promuovere la tutela delle persone in condizioni che ne limitano lo sviluppo o l’espressione di se, quando la famiglia o il contesto non siano adeguati ai loro bisogni. 4.15 L’infermiere assiste la persona, qualunque sia la sua condizione clinica e fino al termine della vita, riconoscendo l’importanza del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale. L’infermiere tutela il diritto a porre dei limiti ad eccessi diagnostici e terapeutici non coerenti con la concezione di qualità della vita dell’assistito. 4.16 L’infermiere sostiene i familiari dell’assistito, in particolare nel momento della perdita e nella elaborazione del lutto. Appare evidente, leggendo i molti punti dedicati al prendersi cura, come l’assistere infermieristico sia centrato sulla persona che viene considerata nella sua globalità, un essere titolare di una serie di diritti, valori ,volontà, preferenze e capacità. Nei paragrafi precedenti, la sofferenza è stata descritta come un qualcosa capace di colpire l’uomo in uno dei suoi elementi costitutivi, alterandone il normale equilibrio su cui si regge la globalità dell’essere umano. Stabilità che identifichiamo anche con il nome di omeostasi, che sappiamo essere il fondamento su cui si basa il concetto di salute. Nella Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute viene definita come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia” e viene considerato come un diritto fondamentale a favore di tutte le persone. Partendo da questo concetto fondamentale si identifica l’infermiere come un operatore sanitario, vale a dire quel professionista che ha la sua ragione di esistere solo se svolge attività che “producano salute” per le persone che sono in situazione di bisogno sanitario 8. LE EMOZIONI Il significato etimologico della parola emozione è quello che indica il movimento che dall’interno si dirige verso l’esterno17. Le emozioni nascono all’interno di ogni individuo per poi volgersi al di fuori di esso, verso l’ambiente che lo circonda e che fa parte del suo stesso mondo. I vari tipi di emozione possono manifestarsi in diversi modi, è quindi possibile provare a distinguerli, grazie ad alcune caratteristiche: i comportamenti esteriori, le espressioni del volto, le sensazioni fisiche, le componenti cognitive, le reazioni psicofisiologiche. Esistono emozioni innate ed altre apprese, le prime non sono condizionate dal contesto culturale e costituiscono un patrimonio di base utile ad affrontare in qualsiasi momento le difficoltà della vita. Altre emozioni invece nascono e si sviluppano a seconda della cultura o del territorio in cui maturano, e si adeguano sulla base di specifici bisogni e necessità. Esse sono al centro sia della vita individuale che di quella sociale e ricoprono un ruolo fondamentale nelle relazioni interpersonali. Le emozioni sono la paura, la collera ,la gioia,la sorpresa,il disgusto, la tristezza, sono espressioni fisiologiche di breve durata , immediate, intense che si sviluppano come risposta agli eventi difficili. Si manifestano in uno spazio temporale che ha un inizio, un periodo di espressione limitato a cui segue una fase di riduzione ed un insieme di modificazioni fisiologiche e di espressioni corporee tipicamente caratteristiche. Si differenziano dai sentimenti e dall’umore, perché essi invece si manifestano in un periodo più lungo, con un’intensità meno elevata. Per avere dei sentimenti, è necessario che gli eventi vengano confrontati con la propria esperienza, con i valori personali, con quelli della propria collettività. Questo tipo di lavoro interiore, che spesso si compie in un periodo di lunga durata, può quindi portare alla creazione di stati d’animo riconoscibili con espressioni quali l’amore, l’amicizia, la nostalgia. L’espressione delle emozioni avviene prevalentemente tramite il canale della comunicazione non verbale. Ognuna di esse può essere accostata ad una tipica espressione facciale, ad esempio, la tri- 24 PAGINA stezza è caratterizzata dalle sopracciglia sollevate,dalle rughe sulla fronte che scendono verso i lati. Sempre le sopracciglia sono invece abbassate nella rabbia, dove lo sguardo è duro e le labbra sono compresse. Nell’espressione gioiosa si ha l’innalzamento delle guance e degli angoli della bocca. In una persona sorpresa si possono notare sopracciglia rialzate, rughe orizzontali sulla fronte, e la bocca che può essere aperta. Il disgusto viene manifestato con l’arricciarsi del naso e il sollevarsi del labbro inferiore. Un’altra importante via di comunicazione delle emozioni è quella del contatto fisico, il solo fatto di toccarsi permette di scambiare innumerevoli messaggi di facile interpretazione. Basti pensare ai malati che si trovano ricoverati nelle aree critiche, nelle maggior parte dei casi e l’unico modo che hanno a disposizione per comunicare con i propri cari. Un contatto caloroso trasmette sicurezza, senso di partecipazione, incoraggiamento; anche durante il colloquio, il tocco o la stretta di mano, possono essere strumenti utili a rafforzare il senso di piacere provato durante il confronto verbale. In particolare durante la malattia, nella persona colpita aumenta la necessità di sentirsi sicura e protetta, a fronte delle insidie sempre più frequenti che tolgono ogni certezza. Soprattutto nelle patologie che provocano isolamento sociale come AIDS o alcune forme tumorali che hanno conseguenze sul piano estetico, l’essere toccati da altri, può far tornare la consapevolezza di non apparire in modo ripugnante, e quindi aumentare la sensazione di sentirsi ancora accettati. Un altro mezzo delle espressioni emotive è lo sguardo, in quanto nelle situazioni positive come gioia, speranza, felicità, vi è un aumento del contatto oculare, mentre nelle situazioni negative come vergogna, imbarazzo, colpa, si ha una tendenza all’abbassamento ed alla deviazione dello sguardo. La gestualità rafforza i concetti di chi sta parlando ed è un mezzo utilizzato per dare enfasi a ciò che si sta comunicando. Anche il tono della voce viene considerato determinante nell’espressione emotiva, la ricerca ha messo in luce come ad ogni emozione corrisponde un preciso profilo vocale. Ad esempio la paura è espressa in modo sottile, molto tesa e stretta, ed esprime la condizione di impotenza di fronte ad una Infermiere a Pavia minaccia. La collera è caratterizzata da un aumento dell’intensità della voce, dalla presenza di pause molto brevi o inesistenti. La gioia è caratterizzata da una tonalità molto acuta e da una sua intensità progressiva. La tristezza è manifestata da un tono basso, dalla presenza di lunghe pause. Inoltre fra i canali della comunicazione non verbale va ricordata anche la postura: la posizione del corpo può trasmettere l’ansia, il distacco o la difficoltà nei confronti dell’emozione e del problema esistente. Le emozioni Le emozioni del malato e dei suoi familiari La paura è un’emozione primaria che in caso di malattia è molto presente21, essa trasmette sensazioni che suscitano un senso di abbandono e tradimento da parte del proprio corpo il quale risponde sempre meno alle esigenze necessarie andando incontro ad una fine che non è programmata. Il fatto di non poter più contare sulle proprie forze, genera uno stato di incertezza totale, si ha paura dell’ignoto, di tutto ciò che potrebbe accadere, dato che non si ha più il controllo dei propri mezzi. Durante il corso della vita, la paura ha la funzione di attivare le difese rispetto alle aggressioni esterne. Nella malattia grave matura la convinzione che qualcosa all’interno del proprio corpo sia capace di assumerne il controllo, un qualcosa che lavora in modo ingannevole, sempre pronto a ricordare che non si è più padroni del proprio destino. La malattia rappresenta un avversario che può vincere in qualsiasi momento. Quindi è necessario tenere sempre alto il livello di attenzione, non abbassare mai la guardia. La paura in questo caso si conferma una difesa, in quanto spinge la persona ad una reazione che spesso implica il voler coinvolgere i familiari, gli operatori sanitari, le persone più care e allo stesso tempo, aumenta anche la volontà di informarsi e documentarsi nel tentativo di controllare la paura data dall’impotenza. Alla lunga questo atteggiamento si trasforma in ansia che di per sé non è un fenomeno patologico, infatti esso rappresenta un meccanismo utile all’adattamento ed alla sopravvivenza, ma l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuro comporta la com- NOTE DI SEGRETERIA Le procedure di iscrizione consentono di accettare domande con la semplice certificazione di conseguimento del titolo abilitante. Si rammenta che ai sensi della normativa vigente è indispensabile consegnare copia del titolo di studio non appena possibile. Chi non avesse ancora provveduto è invitato a farlo con cortese sollecitudine. parsa di sintomi fisici di tensione, in un insieme già compromesso 22. L’ansia infatti è un costrutto bidimensionale, che implica tanto aspetti cognitivi (un’attività mentale connotata da anticipazione, apprensione, angoscia, preoccupazione) quanto aspetti psicofisiologici (un’attivazione del sistema nervoso autonomo e la produzione di veri e propri sintomi neurovegetativi). Quando una malattia esiste già, l’ansia si manifesta sulle possibili conseguenze, sui peggioramenti, sulla modificazione delle terapie o sulla necessità di ulteriori esami. Si ha poi il timore di essere abbandonati dalle persone più significative, aumenta il desiderio di averle come compagne di viaggio, ma allo stesso tempo non si vuole creare disturbo e sentirsi un peso per gli altri. “La paura del morire d’altra parte, si può vincere, se la persona sofferente ha la consapevolezza che chi ha vissuto con lei nella vita, anche nella morte non può dimenticarla ma continuerà a desiderarla ed amarla. Sapendo questo il dolore terminale non sarà più insensato: il morente ha la possibilità di vivere la sofferenza, per lasciare ai propri cari non l’incomprensione del dolore finale, ma il senso di chi non rifiuta la vita . La speranza consiste nell’attesa viva e fiduciosa di un bene futuro 24. E’ una sensazione che proietta verso il proprio futuro, chi la coltiva ha la consapevolezza di avere molto tempo davanti , risorsa indispensabile per poter progettare qualsiasi cosa. Nella malattia grave, diminuisce la sensazione di avere molto tempo a disposizione, vengono meno le basi per ogni tipo di progetto e di conseguenza cambia anche la visione del proprio futuro 21. I desideri manifestati riguardano il tempo imminente, “si vive alla giornata” sperando di poter trascorrere nel miglior modo possibile i giorni che rimangono. Si modifica il tipo di aspettative, non si fa conto sulla quantità del tempo rimasto, ma si aspira a vivere il meglio possibile, riducendo al minimo gli eventi difficili (dolore ed altri sintomi), tipici del fine vita. Nella speranza c‘è sempre il coinvolgimento di altre persone, il malato cerca di tranquillizzare i propri cari, nei momenti in cui non percepisce il dolore o altre sensazioni spiacevoli, cerca di ostentare serenità e di ristabilire l’armonia. Nei momenti in cui viene meno il senso di oppressione dato dai pensieri negativi, può emergere il desiderio di abbandonarsi ad una visione più rilassata, magari fondata su basi totalmente irrazionali, oppure ci si può aggrappare a qualche notizia positiva (riscontri invariati di esami, presunti miglioramenti ecc..) per costruirsi una qualche illusione, capace di scavalcare la sofferenza. Una volta raggiunta la consapevolezza dell’inutilità delle cure, la 25 PAGINA Numero 2/2007 persone tendono ad affidare il loro destino alla propria parte spirituale. Elemento capace di dare comunque un senso alla vita, anche nell’ultima fase, dato che in questa componente viene intesa come una parte fondamentale nel progetto dell’esistenza. La paura , come già visto, ha la funzione di far scattare uno stato di allerta capace di raggruppare le risorse interne, per poi convogliarle e trasformarle in mezzi di difesa da schierare contro ciò che minaccia dall’esterno, la rabbia. Durante la malattia, questo può voler dire attrezzarsi per combattere la stessa, piuttosto che voler fuggire. Atteggiamento che ha il significato di voler accettare una sfida che implica un’inevitabile e gravoso dispendio di energie. La persona che sviluppa questo tipo di reazione, sa che dovrà iniziare una lotta, conosce in parte le armi di cui dispone, si informa sulle caratteristiche del nemico, ma non sa quanto durerà la battaglia e soprattutto se la vincerà. Anche se il decorso di una patologia dal punto di vista fisiologico può essere più o meno ipotizzabile, non si può dire che il vissuto di malattia sia un processo standardizzabile. Proprio perché è coinvolta la persona nella sua unicità, se non ha mai affrontato questa esperienza di vita, non può conoscersi a pieno. Ne consegue quindi che non è possibile effettuare un inventario delle risorse disponibili, mossa che permetterebbe a priori di effettuare un bilancio rispetto all’impegno richiesto dalla situazione e che porterebbe ad un riscontro chiaro sulle reali possibilità di poter guarire. La persona che decide di combattere, da subito investe tutte le proprie forze, nel momento che si accorge che queste sono vane, tutta l’energia accumulata si trasforma in rabbia. Emozione che si ripercuote inevitabilmente a livello comportamentale, che si manifesta con scatti d’ira, con discussioni accese che non arrivano mai a delle conclusioni, con l’espressione dell’aggressività nei confronti di altre persone, dei fattori scatenanti o di oggetti. Il tutto contribuisce a dare un’immagine negativa dell’interessato, dall’esterno non si comprende come non riesca a controllarsi, mentre invece bisognerebbe comprendere che è in atto un meccanismo di sfogo. Un altro meccanismo di difesa per controbattere l’avanzata inarrestabile del nemico. Emerge una tendenza all’isolamento, alla chiusura che può arrivare fino alla chiusura di ogni colloquio. In realtà, l’espressione della rabbia, comunica un profondo disagio, un enorme accumulo di speranze ed energie che non hanno una risposta positiva, ed è indicatore di un grande desiderio di cambiamento e di una richiesta d’aiuto. Prendere coscienza di ciò che accade giorno per giorno non è mai semplice, in modo particolare quando si vive una situazione ricca di variabili che non dipendono dalla propria volontà e dove è presente un continuo alternarsi di differenti stati d’animo. Anche se si è visto che il vissuto di malattia non è un processo identico per tutti, va però detto che in esso si susseguono degli eventi “tipici” quasi a segnare il tempo che passa, come le lancette dell’orologio che si avvicinano all’ora in cui abbiamo puntato la sveglia. Quando non si riesce a prendere sonno, si sa che l’ora scelta arriverà, si continua a guardare l’orologio e ci si accorge che alcuni minuti non passano mai, mentre delle ore intere volano via e ci si sveglia al chiassoso squillare come se si avesse perso la condizione del tempo, quasi di sorpresa. Durante il decorso della malattia grave, nelle fasi dove essa viene affrontata in modo attivo con le classiche cure terapeutiche, chemioterapia, chirurgia, radioterapia, può essere difficile comprenderne fino in fondo la gravità. La speranza riposta nell’efficacia delle cure a cui ci si sottopone, distoglie dalla drammaticità del contesto ed impedisce di focalizzare quali siano le reali possibilità di uscirne. Quindi ci si sottopone alle cure fiduciosi, ma nonostante ciò ecco presentarsi puntuali i sintomi caratteristici che indicano l’aggravamento. Si continua, ma regolarmente si assiste ad una rivoluzione del piano terapeutico 21, infatti i farmaci prescritti e somministrati aumentano sempre di più, indicatori dai quali non si può fuggire. Allora la persona cerca di attribuire il tutto a cause secondarie, agli effetti della terapia, ad un intervento chirurgico, ad un’infezione che l’ha colta di sorpresa, ad una febbricola trasmessa da chissà quale parente che è andato a trovarla. Tutto, basta che non sia riconducibile alla ragione principale, altrimenti sarebbe come certificare la gravità della situazione. Chi è ammalato, sa che i sintomi, il dolore, le terapie, hanno un significato preciso di cui è perfettamente consapevole, ma cerca di effettuare degli spostamenti sulla visone del futuro, al fine di scovare spiragli di guarigione che altrimenti sembravano nascosti. La vera consapevolezza, ma soprattutto la sua esternazione spesso avviene solamente negli ultimi giorni di vita, dove coincide con la rassegnazione. Le varie fasi attraverso le quali un individuo passa nel corso della propria esistenza, sembrano essere biologicamente determinate: dall’infanzia alla maturità ed infine alla morte. Ma allo stato dei fatti queste fasi sono determinate anche da un natura sociale oltre che biologica. Esse sono influenzate dalle differenze culturali e dalle condizioni materiali di vita appartenenti ad ogni tipo di società 14. Nell’occidente moderno ad esempio, si pensa alla morte come ad un evento collegato alla vecchiaia dal momento che per la maggioranza degli individui la durata della vita raggiunge e supera i settanta anni. Questi elementi insieme ad altri fanno presumere che ogni uomo che goda di libertà, possa scegliere o tentare di programmare il proprio percorso con responsabilità. Decisioni che, a seconda della fase che si sta attraversando, portano a confrontarsi con svariati temi quali la scelta del percorso di studi, di un settore lavorativo, di un legame affettivo, del matrimonio, dell’avere dei figli e provvedere alla loro educazione, l’amministrazione del bilancio economico familiare, la responsabilità sul lavoro nei confronti dei colleghi o dipendenti, la partecipazione ad eventi di interesse sociale e culturale, il pensionamento, l’aiuto alla famiglia dei propri figli, i legami con i nipoti ecc.. Momenti che, in alcuni casi, creano l’identità di ogni persona e che progressivamente ne certificano un età sociale parallela all’invecchiamento biologico. La malattia è un evento non programmato, che nella maggior parte dei casi fa la sua comparsa quando non la si aspetta. Tra le emozioni che comporta ve ne sono alcune che sono legate al ruolo sociale. La permanenza in ospedale, le cure domiciliari, comportano un distacco dalla vita pubblica e dall’impegno lavorativo. Il malato ha il timore di non venire più riconosciuto nel suo ruolo oppure di costituire l’oggetto di osservazioni e critiche. All’interno della famiglia, può venir meno l’armonia dove si ripercuotono la rabbia, il senso di impotenza e tutte le varie tensioni. Il genitore che ricopriva una veste di coordinamento ed assistenza nei confronti dei figli, si trova a dipendere da loro. Il coniuge tende ad assumere una posizione dominante, dove si impegna sì nell’accudire ma spesso prevale anche nelle decisioni con la scusa di fare il bene per l’assistito. La persona può perdere anche il controllo finanziario della propria attività lavorativa in quanto gli impegni burocratici vanno assolti in orari precisi della giornata, orari che spesso coincidono con le visite mediche, le sedute terapeutiche, le medicazioni, gli esami diagnostici, la fisioterapia e si sa che sportelli bancari, postali o di altri enti non aspettano nessuno. Non lavorando, inevitabilmente, si riducono i guadagni ed ecco prevalere le preoccupazioni per le scadenze di fine mese, il mutuo, l’affitto, gli studi dei figli e tutte le altre spese. Inoltre, col progredire, la malattia diventa sempre più visibile e lascia segni indelebili. Sul volto si nota il colorito che cambia, la magrezza o il gonfiore sono sempre più evidenti, la fati- 26 PAGINA ca obbliga a movimenti più pacati, tutti elementi che creano una diversità se ci si confronta con il mondo dei sani. Gli amici ed i parenti che arrivano in visita, sembrano diversi, e diverso può anche sembrare il modo in cui la persona si sente osservata. Percezioni che possono marcare un senso di esclusione dal gruppo di cui si è sempre fatto parte. Può emergere la tendenza a tagliare i rapporti con le persone che appartengono alla categoria dei ‘conoscenti’ viceversa può aumentare il desiderio di sentire più vicino a sé i propri cari, persone che fanno parte della propria intimità e nei confronti dei quali non si prova nessun tipo di imbarazzo. Purtroppo non sempre le famiglie riescono a dare una risposta efficace. Una lunga assistenza comporta delle scelte che non tutti sono in grado di sostenere a causa di motivi organizzativi e lavorativi. Il malato si trova a lottare tra il desiderio di avere accanto a sé le persone amate e la paura di provare un’inevitabile solitudine. Il cambiamento della propria vita sociale e familiare accompagnato dalla modifica della propria immagine fisica risultano essere esperienze di perdita che rendono evidente il proprio declino. Questa consapevolezza suscita tristezza che può anche aumentare se si pensa al dolore e alla disperazione provati dalle persone più vicine. La persona può addirittura essere invasa da un senso di colpa che la fa sentire la causa di tutto questo malessere. La tristezza, essendo un’emozione, spinge verso un’azione ed in questo frangente la reazione umana può portare ad una vera e propria risposta patologica ovvero la depressione. Essa si può innescare quando tristezza, pessimismo e scoramento, durano per un periodo molto prolungato. La depressione si manifesta con una sintomatologia che spesso si confonde con quella della malattia di base. Inappetenza, sonnolenza, astenia, difficoltà d’attenzione e di concentrazione sono frequentemente riscontrabili anche nelle persone malate che non sono depresse. Questo rappresenta un’ulteriore complicanza perché si corre il rischio di accorgersi di tale patologia solo quando è già concomitante alla malattia stessa. Le emozioni dell’Infermiere L’infermiere nel prendersi cura prova emozioni e sentimenti 25: il confronto con le emozioni dell’altro può risvegliare esperienze e vissuti personali che lo possono avvicinare o allontanare all’altro. Tipicamente le emozioni trasmettono una forte carica a chi le prova, esse sono in grado di far stare molto bene o al contrario malissimo tanto che spesso vengono descritte come qualcosa che colpisce al cuore o Infermiere a Pavia allo stomaco. Esse sono sensazioni che rispecchiano un meccanismo fisiologico avvenuto nel cervello, nella mente. Se l’operatore non ha coscienza dei propri sentimenti e delle proprie reazioni emotive può avere difficoltà nel controllare la propria emotività durante la relazione con il malato. Infatti mentre si vivono le emozioni dell’altro il cervello può paragonarle per somiglianza a qualcosa che è già avvenuto in passato suscitando delle reazioni che l’operatore aveva già sperimentato precedentemente 26. La persona malata ed il suo nucleo familiare, coinvolto nella malattia, espongono l’operatore di cure palliative ad una grande quantità di emozioni, ad alta intensità, che obbediscono alla legge della somiglianza. Per questo le emozioni del paziente e della sua famiglia diventano anche le emozioni dell’operatore. In questo contesto, nel processo del prendersi cura, non sempre è possibile raggiungere degli obiettivi definitivi; in alcuni casi l’unica soluzione applicabile è quella dell’essere presenti, dello stare accanto condividendo con il malato il suo stato. Questa condivisione è possibile qualora l’infermiere sia disposto sia ad osservare la sofferenza dell’altro che ad accettare le emozioni che questa rimanda. Assumere un atteggiamento di supporto emotivo esprime la disponibilità da parte dell’infermiere ad attraversare con lui quell’esperienza, dove magari non sono possibili soluzioni, risposte o prospettive positive ma nonostante questo l’infermiere manifesta la volontà di stargli accanto 25. Egli potrà proporsi in questo modo solo se sarà capace di identificare e gestire in modo adeguato le proprie emozioni poiché questo processo gli tornerà utile per riuscire meglio ad interpretare le emozioni che gli vengono offerte dagli altri evitando quindi di allontanarle per il troppo timore. Se l’infermiere aiutante non ha più paura delle sue emozioni, diminuisce le difese nei confronti delle emozioni del malato. Si creano quindi le condizioni nelle quali l’infermiere può restituire i sentimenti che appartengono al malato attraverso la comunicazione dello stato d’animo che il comportamento del malato ha provocato in lui. Il contesto delle cure palliative, per un malato, è indicatore palese della malattia e della sua gravità. Nel decorso della stessa si alternano periodi più o meno negativi che danno riscontro nel rapporto relazionale che si instaura con la persona e la sua famiglia. Questo comporta per l’infermiere di sentire, da una parte, il calore della riconoscenza per l’assistenza erogata ma dall’altra, la sua presenza, sottolinea lo stato di gravità della condizione dell’altro e di conseguenza l’accoglienza può raffreddarsi 26. Nella continuità del rapporto, i fattori che incido- no sul coinvolgimento emotivo dell’infermiere, sono vari: alcuni riguardano la somiglianza tra le parti come per esempio l’età del malato o di un familiare, la condizione sociale, la condizione economica o la conoscenza precedente, altri sono determinati dal tempo in cui si prolunga l’assistenza. Essi possono portare a vivere con maggiore intensità i problemi e le dinamiche della famiglia nei quali, più o meno consapevolmente, si può essere coinvolti. Si può incorrere in situazioni di disagio emotivo anche nel momento in cui l’infermiere si pone l’obiettivo di aiutare il malato a vivere il proprio presente, con la coscienza che egli si trova nella condizione di precarietà futura, mettendosi a disposizione oltre che professionalmente anche come punto di riferimento per i bisogni emotivo-affettivi. Il mancato raggiungimento degli obiettivi assistenziali, può far provare all’operatore un senso di colpa perché egli si sente determinante per il benessere del paziente e della famiglia. Nelle cure palliative le emozioni possono modificare il comportamento del professionista con atteggiamenti estremi quali l’abbandono o l’accanimento terapeutico, proprio perché egli può sentirsi in colpa sia se non agisce con decisione (accanimento) sia se accetta gli eventi in modo troppo scontato (abbandono) 26. Il confronto con la malattia grave può portare a mettere in atto un meccanismo di difesa creando un atteggiamento di distacco da parte l’operatore in cui egli sposta la propria attenzione su altri malati che vivono in quel momento situazioni meno gravi. In genere la speranza dell’infermiere di cure palliative è quella di riuscire ad accompagnare, nel suo ultimo periodo di vita, la persona, ottenendo una riduzione dei sintomi ed una qualità di vita compatibile con la malattia. Spesso questa speranza viene meno ma risulta poi essere una carica per migliorare la propria professionalità nell’ottica futura. Nell’ultima fase di vita assume un ruolo fondamentale la spiritualità del malato e della sua famiglia nella quale si riversano le loro ultime energie. A volte le opinioni di chi partecipa sono differenti e per l’infermiere possono apparire assurde o controproducenti provocando in lui un’ ulteriore forma di disagio emotivo. Alla lunga tutti i fattori concomitanti possono causare un senso di stanchezza nell’infermiere che il paziente è in grado di riconoscere. Anche la stanchezza può portare l’infermiere a mettersi in discussione fino a provare dei dubbi per il proprio lavoro e le proprie capacità. L’evento ultimo della malattia è la morte, capace di suscitare, in chi aiuta, la paura data dal senso di impotenza di fronte alle emozioni dell’altro tanto da creare un vuoto e un vero e proprio 27 PAGINA Numero 2/2007 senso di perdita. CONSIDERAZIONI FINALI Si è cercato di illustrare il percorso che affronta la persona malata, descrivendo la malattia come una dimensione che, oltre l’espressione della patologia, tiene conto dell’interazione di fattori affettivo-emozionali, cognitivo-relazionali, sensoriali, quindi come dimensione che va affrontata nella sua globalità. Il malato si trova ad essere l’attore in una storia che, racconta un mondo dove si intrecciano molte situazioni. Alcune di queste sono visibili a prima vista, anche a chi non conosce direttamente il protagonista: le sue caratteristiche fisiche, quelle della sua patologia, le persone che fisicamente gli stanno vicino (familiari) che si propongono come gestori di un complesso che spesso non conoscono affatto. Altre situazioni appaiono come sfumature, difficili da cogliere a chiunque, a meno che, il regista (l’infermiere) prima di aver scritto il copione abbia instaurato una vera relazione con il protagonista (il malato) e gli altri attori. E’ proprio nel ruolo di regista che si potrebbe calare la parte dell’infermiere, posizione che gli permetterebbe di esercitare la propria professione, anche nella più triste delle scenografie indirizzando le proprie competenze verso colui che deve risultare il principale beneficiario. Questo avverrebbe, non solo curandosi della espressione materiale della malattia, ma di tutto ciò che essa rappresenta nel vissuto personale della stessa. Il regista racconterebbe quindi una storia unica, perché uniche sono le emozioni che l’hanno riempita e altrettanto unici sono gli elementi sui quali essa si è fondata. Parafrasandola, questa soluzione garantirebbe all’infermiere di erogare prestazioni basate si su conoscenze tecnicoscientifiche, ma soprattutto (come sostiene Rosemarie Rizzo Parse) tenendo conto che il nursing è una scienza umana, che si interessa della partecipazione qualitativa della persona alla propria esperienza di malattia 27. Infatti, per la disciplina infermieristica, l’interesse dell’uomo non può riguardare solo lo studio dei suoi aspetti misurabili e quantificabili, ma il modo in cui il suo vissuto di esperienze ci viene offerto. Essere in grado di capire cosa può provare l’uomo in ogni fase di avvicinamento alla morte , è fondamentale per poter costruire un tipo di assistenza che sia orientata “sull’ esperienza vissuta di malattia” e non solo fondato sulla patologia. Questo principio è realizzabile se si ha la volontà di considerare l’uomo come soggetto e non oggetto delle cure infermieristiche, se si attribuisce alla persona una concezione di globalità che comprende dimensioni più ampie rispetto a quella bio-fisiologica, se si riconosce la sua natura relazionale che è in costante dialogo con l’ambiente che lo circonda. Il prendersi cura, si realizza sotto il profilo della relazione e del dialogo fin dalle premesse. In questo contesto gli strumenti della comunicazione e della relazione, diventano fondamenti dell’assistenza infermieristica, dove la persona assistita viene considerata a partire dal suo vissuto di malattia. La dimensione soggettiva di quest’ultimo, rappresenta l’esperienza umana del fenomeno morboso, dunque di una realtà complessa e globale capace di determinare cambiamenti sia nella struttura organica, sia nel comportamento e nelle percezioni relative alla sua condizione di malattia, tutti intimamente correlati al contesto socio-culturale e affettivo della persona. Il concetto del vissuto di malattia permette di compiere operazioni importanti: innanzitutto inserire nell’ambito infermieristico la vasta gamma di componenti soggettive (come le emozioni, i desideri, i valori, le aspettative, il contesto socio-culturale ecc..), ed inoltre permette di affermare che ogni informazioni bio-fisiologica, raccolta ed analizzata, deve rientrare nella globalità di un contesto più ampio, all’interno del quale tutto assume significato in quanto messo in relazione all’esperienza vissuta. Sul piano pratico della relazione, ne consegue che, a prescindere dai ruoli, infermiere e persona assistita si riconoscono e si comprendono come umane esistenze che si incontrano nella dimensione di malattia. Trovare un punto di incontro presuppone il dover lavorare sulla qualità delle relazioni, quindi sulla qualità di quei momenti in cui le parti si avvicinano con l’intento di avviare un dialogo. Secondo Buber ‘tutta la vita reale consiste nell’incontrarsi’28. Questa premessa potrebbe indicare che lavorare sulla qualità degli incontri significa promuovere la qualità della vita. Avvicinarsi all’altro implica dover dare la propria disponibilità a dialogare, comunicare, ascoltare ed essere presenti. Questa disponibilità è una degli elementi centrali di ogni processo della relazione d’aiuto e quindi di counseling. L’Associazione Britannica per il Counseling e la Psicoterapia (BACP) definisce il counseling ‘un’interazione in cui una persona offre ad un’altra tempo, attenzione e rispetto con l’intenzione di aiutare quella persona ad esplorare, scoprire e chiarire i modi di vivere con maggior successo e di raggiungere il benessere’28. Secondo questo principio il counseling può occupare un ruolo importante nell’assistenza infermieristica o meglio ancora come indicato da Soohbany sono due processi paralleli, infatti egli sostiene: ‘l’assistenza infermieristica come il counseling è un processo interpersonale che ha lo scopo di assistere l’individuo nell’affrontare una crisi e/o nel gestire i traumi della vita. Ha anche lo scopo, se necessario, di trovare un significato in ogni esperienza. Sia lo scopo dell’assistenza infermieristica che quello del counseling sono raggiungibili attraverso le relazioni umane e questo a sua volta, viene raggiunto oltrepassando i ruoli di counselor/infermiere e paziente/cliente al fine di stabilire una presenza di assistenza e attraverso l’uso terapeutico del sé. Qualità implicite necessarie a questa relazione sono la capacità di ascoltare, comprendere ed essere comprensivo così come di intervenire in modo deliberato’28. Quindi l’infermiere che imposta il piano assistenziale ponendosi l’obiettivo di favorire l’incontro con il suo interlocutore, si trova ancora una volta nei panni del regista che indirizza tutta la sua enfasi verso protagonista (malato) e verso la sua naturale capacità di venire a patti con i propri problemi e di risolverli. Dunque il ruolo dell’infermiere diviene quello di creare e mantenere un clima in cui le abilità relazionali possano essere usate in modo efficace, strumenti che gli permettano di agire come catalizzatore ed agente del cambiamento nei confronti della persona che sta vivendo la propria malattia. Paterson e Zdered sostengono che, l’assistenza infermieristica, se viene osservata da una prospettiva umanistica, può essere vista come “l’abilità di lottare assieme ad un altro attraverso esperienze estreme legate alla salute ed alla sofferenza in cui i partecipanti sono ed entrano in armonia con il proprio potenziale umano”. Questo concetto di “potenziale” lo si ritrova nella teoria “Salute come divenire umano” di Rosemarie Rizzo Parse, secondo la quale lo scopo dell’infermiere è ‘la presenza vera nel testimoniare ed essere con gli altri nel cambiamento delle loro condizioni di salute’28. Quindi una serie di autori con forte vocazione verso l’assistenza infermieristica umanistica, hanno contribuito a trasferire il concetto di un approccio centrato sul- NOTE DI SEGRETERIA Chi fosse interessato a ricevere in via celere comunicazioni importanti, informazioni utili, novità, date di eventi formativi, può contattare la segreteria e lasciare un recapito di riferimento che verrà usato come “casella postale prioritaria” 28 PAGINA la persona all’assistenza centrata sul malato, all’interno dell’assistenza infermieristica. Il malato è visto innanzitutto come essere umano, di conseguenza l’attenzione è rivolta verso la persona che esprime il proprio “vissuto di malattia”, dimensione peculiare diversa per ogni specifico individuo. Per comprendere l’unicità del “vissuto di malattia” che si realizza a tutti i livelli e a maggior ragione nel contesto delle cure palliative dove gli elementi che entrano in gioco, come già visto, sono numerosissimi, basti far riferimento alla gerarchia dei bisogni di Maslow: Bisogno di autorealizzazione Guida verso l’autosoddisfazione Il riconoscimento dei bisogni Il bisogno di sperimentare l’autostima e la stima di altri Bisogni di appartenenza Il bisogno di dare e ricevere amore Bisogni di sicurezza Il bisogno di sentirsi sicuro e protetto dal dolore Bisogni fisiologici Bisogni biologici essenziali La teoria di Maslow fornisce un utile strumento per indagare in quale ordine di priorità si manifestano i bisogni che si manifestano attraverso l’esperienza di malattia. Il sistema piramidale proposto dal teorico, se applicato nei confronti di chi sta attraversando la fase terminale della vita, permette di capire quanto diversa può essere la percezione della propria malattia, anche in un tempo limitato come può essere l’arco di una giornata, cambiandone continuamente le priorità dei propri bisogni. Accusare i sintomi della patologia, avvertire il dolore, provare sentimenti quali la solitudine, la malinconia, la tristezza, la consapevolezza e la rassegnazione, l’essere colti da emozioni quali la paura, la rabbia e la speranza, sperimentare la perdita del ruolo sociale e familiare, perdere di vista un qualsiasi obiettivo perché non si è più in grado di raggiungerlo. Situazioni già analizzate nello specifico che rappresentano la quotidianità per il malato terminale e che sono alla base dell’espressione dei bisogni a vari livelli, interpretabili secondo l’ordine gerarchico proposto da Infermiere a Pavia Maslow. Incontrarsi quindi con un altro (malato) vuol dire partecipare al suo vissuto specifico di quel momento e condividerne una serie di fenomeni, che altrimenti un infermiere non potrebbe sperimentare personalmente poiché non appartengono alla sua condizione attuale di salute. Ecco che, attraverso il vissuto dell’altro, standogli accanto, tramite il fatto di essere presenti, grazie alla capacità di entrare in contatto immediatamente quando è necessario, l’infermiere fa sua l’esperienza della morte che si avvicina. Situazione che non può prescindere dal fatto di essersi prima conosciuti. Di conseguenza tale conoscenza diviene una relazione interpersonale che deve essere impostata fin dall’inizio, magari quando ancora gli effetti della patologia non sono continui e pressanti, in quei momenti nei quali il dolore è sedato e lascia un po’ di sollievo, negli attimi dove la speranza dei parenti vicini consente alla persona di avere dei momenti per sé. Occasioni preziose che non andrebbero sprecate, dove l’infermiere può mettere in gioco tutta la propria professionalità, utilizzando appunto gli strumenti che gli consentirebbero di costruire un rapporto basato sull’autenticità, trasparenza, genuinità e coerenza con le quali il professionista ricorre alle proprie abilità di comportarsi umanamente nelle situazioni di aiuto. Ciò significa anche che l’infermiere aiutando, non dovrebbe farsi influenzare dalla sua condizione di esperto assumendo un atteggiamento di superiorità nei confronti del malato, ma piuttosto tenendo un comportamento corretto che gli darebbe la possibilità di essere considerato un professionista di riferimento per l’individuo, in grado di incoraggiarlo a trovare le proprie verità, legate magari ad aspetti dolorosi o nascosti di sé stesso. Questo tipo di atteggiamento professionale è realizzabile se, oltre al disporre di buone intenzioni, l’infermiere è anche in possesso degli strumenti necessari, mezzi opportuni che se utilizzati sono in grado di supportare correttamente la comunicazione tra le parti. Tutto sulla base di un legame di fiducia che fa sentire l’altro più tranquillo, sensazione che lo aiuta ad esprimersi liberamente 29. La comunicazione è anche ascolto e la qualità dell’ascolto determina la qualità della comunicazione 30. L’ascolto rappresenta l’accoglienza in sé dell’altro e ascol- NOTE DI SEGRETERIA Chi fosse interessato a collaborare alla redazione della Rivista “Infermiere a Pavia” o chiunque avesse elaborato dei lavori interessanti dal punto di vista professionale e culturale, può dare comunicazione contattando la segreteria tare un malato terminale può significare non farlo sentire solo. L’ascolto viene riconosciuto come una delle abilità fondamentali per chi viene considerato un esperto dei rapporti interpersonali. Per poter entrare in ascolto dell’altro è necessario ricevere e comprendere le informazioni, comunicare quanto è stato compreso ed ottenere dall’altro la consapevolezza di essere stati ascoltati e capiti. “E’ importante, che il malato percepisca una disponibilità non frettolosa alla cura e all’ascolto: più che la quantità di tempo è importante la qualità del tempo che gi si dedica”31 All’ascolto dell’altro si aggiunge poi, l’ascolto interiore: è il momento in cui si entra in contatto con sé stessi e si osserva cosa accade al proprio interno, pratica che aiuta a sviluppare una sempre maggiore coscienza della realtà , sia interna che esterna e ad affrontare con più equilibrio le relazioni con gli altri. Il colloquio con il malato terminale può presentare molte difficoltà in particolare dovute allo stato d’animo per effetto della sua condizione 30. La preoccupazione, l’ansia, la paura, la rassegnazione e, a volte, anche la presenza di operatori sanitari possono inibire la persona impedendole di dire o chiedere ciò che vorrebbe. E’ necessario rendersi conto del suo stato emozionale e adattare a tale stato il proprio comportamento verbale e non verbale. L’ascolto permette anche di cogliere ciò che il malato non dice, ma esprime in modo chiaro purché gli si presti la giusta attenzione 30. Prestare attenzione significa manifestargli il massimo interesse e dargli la calda sensazione che tutto ciò che egli dirà non cadrà nel vuoto ma sarà preso in attenta considerazione. Percezione che permette al malato di verbalizzare i suoi sentimenti alleviando così la sua tensione emotiva. Durante l’ascolto è fondamentale assumere un comportamento empatico cioè quell’atteggiamento che dà enfasi ad un approccio in grado di conoscere (o meglio di “sentire”) l’altro nella sua totalità compresa la dimensione soggettiva ed affettiva. Nel nursing l’empatia è il mezzo utilizzato per interpretare i sentimenti, pensieri e percezioni della persona, pertanto come uno strumento professionale per identificare i bisogni assistenziali 32. Una volta che si incontra l’altro nella malattia, si incontra anche la sua sofferenza e per potersi far carico di questa si deve innanzitutto incominciare ad andare dentro la propria sofferenza. L’ascolto interiore fa acquisire familiarità con la propria mente, con le proprie emozioni e reazioni per poi riuscire ad essere presenti a chi chiede aiuto. Se chi aiuta comprende ed accoglie, nella propria vita, che la sofferenza umana è un’esperienza che gli consente di cono- 29 PAGINA Numero 2/2007 scere meglio se stesso e gli altri, può riconoscere che la stessa non lo invade completamente ma che c’è una parte di lui che la può osservare ed utilizzare. L’infermiere quindi che è in grado di comprendere, definire, riconoscere i propri sentimenti e le emozioni che la sofferenza ha creato dentro di lui, può accogliere il vissuto del malato o dei suoi familiari perché vive delle esperienze che ha già conosciuto in prima persona. Egli attinge dunque ad una adulta consapevolezza di sé dei suoi vissuti ed una conoscenza adeguata del proprio registro emozionale 33. Tale situazione non deve far cadere l’infermiere nel rischio di creare distorsioni rispetto ai messaggi che la persona gli offre, deve essere quindi in grado di ascoltare con la capacità di decodificare, osservando senza pregiudizi le modalità di espressione degli interlocutori. Il diverso modo di esprimersi è un altro elemento specifico per ogni persona che contribuisce a creare quell’unicità più volte sottolineata in ogni diversa relazione. “Nessuna relazione è uguale ad un’altra. Le caratteristiche degli attori coinvolti e il contesto in cui si svolge la comunicazione rendono la relazione unica e irripetibile” 34. Percorrere il vissuto dell’altro potrebbe essere un modo implicito di dimostrare che, anche se non si può avere la soluzione ad ogni problema, si può tentare di comprendere e valorizzare l’unicità e l’irripetibilità di ogni esperienza di malattia, perché l’infermiere dovrebbe far sua la convinzione che uniche ed irripetibili sono anche le persone verso le quali indirizza il proprio ‘prendersi cura’. Modalità che ha il fine di restituire alla persona ammalata competenze, diritti, libertà, opportunità di scoprire individualità, responsabilità, scelte e consapevolezza, favorendone l’espressione della propria soggettività. Bibliografia 1234- 5 6- 78910 11 - 12 13 14 15 - 16 17 - 18 - Gli autori * Paola Ripa Coordinatore Corso di Laurea in Infermieristica - Università degli studi di Milano - sede Istituto Clinico Humanitas ** Cristian Maraschi Infermiere Istituto Clinico Humanitas *** Michela Massaro Infermiera Cure Palliative Fondazione S. Maugeri 19 - Di Fabio A., Sirigatti S. Counseling. Ed Ponte alle Grazie 2005; 109-29. Artioli G, Montanari R, Saffioti A. Counseling e professione infermieristica. Ed Carocci Faber 2004; 57. Monformoso P. Togliete la pietra. Ed CVS 2000; 28-9. Masera G. Il problema della finitudine umana:uno sguardo antropologico sull’accompagnamento alla morte. Nursing Oggi 2005; 4:26-8. Gruppo di studio su cultura ed etica al termine della vita, Documento sulle direttive anticipate. SICP 2006; 3. Ferrauto L, Lamberto A. Razionalizzare emotivamente-La gestione delle emozioni nelle cure palliative.Ed CVS 2006; 9-10. Marzi A, Molini A. 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Bur ottava edizione 2005; 17. 30 PAGINA Infermiere a Pavia Rinnovo degli Organi Collegiali dell’ENPAPI * Nunzio Greco Il 10 Marzo a Roma si è svolta l’elezione per il rinnovo degli Organi Collegiali dell’Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per la Professione Infermieristica. L’elezione degli organi collegiali è affidata ai Delegati eletti per ogni collegio IPASVI di tutta Italia. Il Numero di delegati è proporzionale al numero di Infermieri Libero Professionisti (un Delegato ogni 100) regolarmente iscritti all’ENPAPI (Art.12 del Regolamento Elettorale). Per il Collegio di Pavia sono stati eletti lo scrivente ed il collega Giuseppe Braga. Il 10 Marzo è stata convocata l’Assemblea dei Delegati per l’elezione del Consiglio di Amministrazione (CdA) ed il Consiglio di Indirizzo Generale (CIG). I suddetti organi sono composti da Infermieri Libero Professionisti i quali propongono la loro candidatura singolarmente o in maniera plurima proponendo una lista per il CdA e/o per il CIG. Ogni Delegato elettore può presentare, in ogni caso, la propria candidatura o una lista. Le operazioni di voto sono state precedute dalla presentazione delle candidature, rispettivamente due candidature singole, ed una presentazione di lista affidata al Presidente uscente Mario Schiavon. Hanno presentato la loro candidatura un paio di Delegati. Il primo Delegato, appartenente al Collegio di Torino, ha enunciato le motivazioni della propria candidatura in maniera articolata presentandosi non con soluzioni antagoniste alle politiche del consiglio uscente ma come elemento di rinnovamento, anche se con idee non particolarmente innovative e senza la presentazione esplicita di un programma per il quadriennio 2007-2011. Il secondo candidato al contrario del collega di Torino si è presentato solo con una frase lapidaria “… votatemi perché sono una persona corretta e onesta.” Ogni commento è superfluo. Il Presidente uscente Mario Schiavon al termine degli interventi dei singoli candidati ha presentato la propria lista proponendo un programma molto articolato comprendente obiettivi e strategie il prossimo quadriennio di gestione dell’Ente. L’intervento di Schiavon, pur presentato in tempi ristretti, ha dimostrato la volontà degli organi uscenti di riproporsi per continuare un opera iniziata quattro anni fa quando l’ENPAPI era un ente giovane che aveva bisogno di essere rilanciato. Ho chiaro il ricordo di quelle elezioni, quattro anni fa, quando il Presidente uscente era la collega Emma Carli, già presidente della Federazione Nazionale IPASVI, l’ENPAPI era tutt’altra cosa da ciò che è adesso. L’impressione ricevuta in quella occasione era che qualcosa di importante per il Libero Professionisti si stesse muovendo, il programma presentato dalla lista di Schiavon era ambizioso ma nel contempo mostrava una visione chiara del futuro, ossia di un ente di previdenza che fosse al servizio degli iscritti e non il contrario. Fino a quel momento infatti gli iscritti avevano solo corrisposto molto in termini economici senza avere il giusto feed-back in termini di servizi e visibilità dell’ente stesso. Ma ritornando a oggi Schiavon ha introdotto nuove sfide per garantire agli Infermieri Libero Professionisti e non un futuro migliore per se ed anche per le proprie famiglie. Lo slogan della lista Schiavon è “Rafforzare per Valorizzare” il programma presentato è quindi volto a consolidare quanto costruito in questi quattro anni dando valore al ruolo istituzionale dell’ente. La presentazione di Schiavon ha raccolto il plauso della quasi totalità dell’Assemblea, il quasi è dovuto all’intervento in conclusione di un Delegato del Collegio di Milano-Lodi il quale ha presentato una propria mozione. Il Delegato del Collegio di Milano presa la parola ha presentato una lista di sei Delegati per il Consiglio di Indirizzo Generale, che è composto da tredici membri. Nella sua presentazione è stata colta una vena polemica nei confronti degli organi uscenti evidenziando delle criticità opinabili. Il Delegato ha denunciato all’Assemblea un eccessiva distanza dell’Ente dagli iscritti, ha ribadito che l’Ente fin ad oggi essendo un ente previdenziale giovane ha solo “…incassato”, ha messo sul tavolo la questione dei fondi pensione attivati attraverso il Trattamento di Fine Rapporto (TFR). Per replicare alle critiche mosse dal Delegato di Milano ha ripreso la parola 31 PAGINA Numero 2/2007 Mario Schiavon che ha illustrato il rinnovamento a cui è stato sottoposto l’Ente nell’ultimo quadriennio attraverso la attivazione di Call-Center, l’implementazione del sito internet (www.enpapi.it) etc. che ha permesso un maggiore avvicinamento con gli iscritti. In ultima analisi è stato affrontato il tema dei fondi pensione che saranno attivati con il contributo del TFR dei lavoratori dipendenti. Tale materia attualmente esula dalle competenze dell’ente il quale raccoglie la contribuzione degli Infermieri Libero Professionisti, ribadendo comunque che il TFR è un diritto degli Infermieri che prestano servizio in qualità di dipendenti nel settore privato. I dipendenti pubblici, invece, hanno diritto al TFS o Trattamento di Fine Servizio. A tal proposito viene ceduta la parola al rappresentante del Ministero del Lavoro presente all’Assemblea. Per chiarezza di informazione il CIG ha al suo interno un rappresentante del Ministero del Lavoro ed uno del Ministero dell’Economia. Il rappresentante del Ministero del Lavoro attraverso una articolata esposizione dimostra come l’introduzione della previdenza complementare, pur se in ritardo rispetto ad altri paesi europei, rappresenti una riforma epocale del sistema previdenziale italiano. Tale riforma ha lo scopo attraverso la cessione volontaria del proprio TFR o TFS a dei fondi pensione creati ad hoc di integrare il trattamento previdenziale alla fine della attività lavorativa. Tuttavia nel caso del TFR si può parlare di un effettiva liquidità che il lavoratore versa nel fondo pensione cosa che non si può dire del TFS in quanto l’amministrazione pubblica statale non accantona nessuna somma, il TFS rappresenta una voce virtuale di bilancio. Lo stato contabilizza per ogni lavoratore pubblico il TFS che al momento della erogazione si tramuterà in debito dello stato. Motivo per cui la creazione di fondi pensione complementari per i lavoratori pubblici è materia di forte dibat- tito politico poiché la cessione del montante di tutti i TFS dei lavoratori pubblici aumenterà il debito pubblico. Al termine del dibattito si è proceduto alle dichiarazioni di voto (segreto), procedura al quanto complessa visto il numero rilevante di Delegati. Infine è avvenuto lo scrutinio delle schede elettorali, una per il CdA ed una per CIG, assorbendo molto tempo. L’esito della votazione ha sancito la riconferma degli organi uscenti. Per completezza d’informazione riportiamo che parte degli organi ha subito un rinnovamento, poiché per alcuni membri del CdA e del CIG si era già raggiunto il limite di eleggibilità, pari a tre mandati consecutivi. In conclusione si vogliono esporre delle considerazioni del tutto personali su quanto esposto fin adesso. La gestione di un ente previdenziale, pur se giovane, rappresenta una responsabilità pesante in quanto chi occupa cariche istituzionali non assume un potere o una “poltrona” ma si assume la responsabilità di gestire il patrimonio degli iscritti. Tale patrimonio è costituito dalla contribuzione dei singoli iscritti attraverso anni di dura attività professionale in un mercato libero professionale ancora troppo immaturo. Una gestione non consapevole di tale responsabilità potrebbe minare quanto costruito in questi dieci anni di vita dell’ente, da parte mia, e penso di rappresentare il parere anche del collega Braga, rinnovare la fiducia agli organi uscenti ci è sembrata la scelta più responsabile in quanto rappresentavamo non solo noi stessi ma tutti i libero professionisti del Collegio di Pavia. La presentazione di una lista “fine a se stessa” senza la proposizione di una chiara dichiarazione di intenti non può essere la via da percorrere per migliorare lo status previdenziale (professionale) dei Libero Professionisti. La assunzione di una qualsiasi carica collegiale o istituzionale equivale ad una assun- NOTE DI SEGRETERIA Per tutti coloro interessati alla ricerca documentale, si rammenta che il Collegio offre uno spazio biblioteca zione di responsabilità direttamente proporzionale alla valenza della carica stessa, non una modalità per assumere un peso politico all’interno di enti e/o istituzioni. Tale critica vuole essere costruttiva poiché per produrre rinnovamento è necessaria un’intensa attività di preparazione di strategie e obiettivi concreti da mettere sul tavolo, per far questo si deve essere in possesso del giusto bagaglio di conoscenze in materia di gestione economicofinanziaria e doti di leadership che non si acquisiscono da un giorno all’altro. L’autore * ILibero Professionista Infermiere Coordinatore RSA “Buzzoni Nigra” Sartirana Lomellina (PV) 32 PAGINA Infermiere a Pavia L’esercizio Libero Professionale in forma associata * Nunzio Greco Il precedente articolo, che ha inaugurato la riapertura della rubrica sulla Libera Professione, ha trattato le caratteristiche generali dell’Infermiere Libero Professionista. A questo punto è utile una precisazione, gli articoli di questa rubrica non hanno lo scopo di dare nozioni di tipo amministrativo ma di tracciare il panorama complesso in cui si muove oggi la Libera Professione Infermieristica. Per tutti i chiarimenti e consigli di carattere amministrativo e pratico il Collegio di Pavia a messo a disposizione uno “sportello” dedicato alla Libera Professione. Tale servizio è stato affidato allo scrivente, per chi volesse ricevere chiarimenti sull’esercizio libero professionale, per un appuntamento basta mettersi in contatto con la segreteria del Collegio di Pavia. Ritornando alla nostra rubrica, l’argomento del seguente articolo è l’esercizio della libera professione in forma associata. Nello scorso articolo sono state esposte le regole base del mercato libero professionale, ovvero le condizioni ambientali, in senso economico. Essere libero professionista, come dimostrato, implica l’assoggettamento a determinate regole e tra queste sicuramente annoveriamo la più importante cioè quella della domanda e dell’offerta. Affinché ci sia offerta ci deve essere domanda, la domanda scaturisce da un bisogno del consumatore (customer) di un bene o servizio. Quindi affinché ci sia offerta di prestazioni sanitarie infermieristiche ci deve essere la domanda, ossia un bisogno (anche inespresso) di prestazioni infermieristiche. Ciò che determina la domanda è il contesto socio-economico di una determinata regione geografica o di una fascia di popolazione, come anche la struttura del sistema sanitario regionale. L’offerta di prestazioni deve rispondere sempre alla domanda per essere soddisfatta, tuttavia la domanda può essere priva di un offerta efficace. Il punto di incontro tra domanda ed offerta determina il costo delle prestazioni in relazione alla quantità di quest’ultime (vedi grafico). Quindi ciò che governa il mercato delle prestazioni è la domanda di prestazioni e non l’offerta. Questa premessa serve per capire meglio come l’esercizio della libera professione in forma singola o associata può comportare un diverso approccio al mercato delle prestazioni e cioè della domanda di prestazioni sanitarie. L’offerta di prestazioni del singolo professionista, come è facile dedurre, è molto ridotta, non per qualità ma piuttosto per volume, rispetto a quella di un gruppo di professionisti associati. La costituzione di studi associati di professionisti nasce quindi con l’intenzione di produrre un offerta di prestazioni maggiormente rispondente alla domanda. Lo Studio Associato è con una definizione non troppo rigida, un’organizzazione di persone e/o mezzi creata dall’autonomia privata per l’esercizio in comune di un’attività produttiva (beni e o servizi) allo scopo di produrre degli utili (lucro oggettivo) e di ripartirlo fra i soci. In genere gli Studi Associati hanno le seguenti caratteristiche: • sono soggetti giuridici terzi dotati di personalità giuridica diversa dai soggetti componenti; • hanno autonomia patrimoniale e questo limita il rischio del socio; • possono fare attività d’impresa ovvero attività produttiva, a contenuto patrimoniale, condotta con metodo economico e finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi; • sono definite lucrative quelle che ripartiscono dividendi fra i soci; • sono dotate di organizzazione corporativa (Assemblea dei Soci, Consiglio d’Amministrazione, Collegio dei revisori dei Conti). Il Consiglio di Amministrazione elegge un Presidente con funzioni rappresentative dello studio associato. La forma associativa di professionisti si configura come una forma atipica di società tra libero professionisti, detta altrimenti associazione di professionisti, i professionisti sono assoggettati ai rispettivi ordini e/o collegi professionali1. Tali associazioni presentano la prevalenza dell’elemento personale-professionale nella prestazione del servizio su quello strutturale, diversamente dalle attività organizzate in forma di impresa, in cui, nei rapporti con i terzi, appare prevalente l’organizzazione dell’impresa, la sua funzionalità e struttura rispetto alla personalità dei partecipanti alla stessa. Scopo dello studio associato è quindi di unire più libero professionisti per rispondere meglio alla domanda di prestazioni, inoltre la prevalenza dell’aspetto personale-professionale della prestazione implica una maggiore qualità dell’offerta oltre che della quantità. Lo studio associato può anche entrare nel settore dell’outsourcing2 cioè di offrire non solo delle prestazioni professionali ma di inserirle all’interno di un progetto di gestione di interi servizi assistenziali. Tale approccio professionale configura un panorama innovativo, poiché lo Studio Associato è responsabile dell’aspetto quali-quantitativo del servizio che ha in gestione. L’elemento di novità rappresentato dalla responsabilità diretta sul servizio fa sì che si crei uno spartiacque abissale tra un Infermiere libero professionista ed uno con rapporto subordinato. Il professionista dipendente sia pubblico sia privato non ha nessuna responsabilità sulla qualità del servizio in generale in cui questi è inquadrato, tale responsabilità è prerogativa unica del datore di lavoro il quale dispone sulla gestione delle risorse tecniche, umane ed economiche dell’impresa. L’infermiere socio di uno studio associato che ha ottenuto in gestione un servizio per contro è direttamente responsabile dell’andamento del servizio unitamente ai propri colleghi con cui coopera. Quanto detto assicura il committente (appaltatore) da eventuali inefficienze, il quale in fase di negoziazione potrà porre vincoli anche stringenti di carattere quantitativo delle prestazioni ma anche e soprattutto di carattere qualitativo. È ben noto che la qualità delle prestazioni sanitarie in generale porta sia ad un miglioramento dello stato di salute della 33 PAGINA Numero 2/2007 popolazione assistita sia al miglioramento della efficienza economica del settore. Il committente che ha chiari questi concetti (vedi Clinical Governance) pone all’outsourcer obiettivi di qualità chiari e specifici anche di natura economica raggiungibili solo e solamente attraverso un miglioramento della qualità a tutti i livelli. Il committente contratterà quindi una quota economica con l’outsourcer per la gestione del servizio, tale quota viene soprannominata budget economico-finanziario. In sede di contrattazione del budget il gestore economico esprime una previsione di spesa relativamente al servizio interessato infine propone la linea di condotta del servizio che deve essere inquadrata nella Mission aziendale. L’outsourcer contratta il budget con il committente ponendo anch’esso dei vincoli per lo più legati alla qualità delle prestazioni da erogare in relazione alle risorse umane, tecniche ed economiche. È per tali motivi di importanza fondamentale che l’outsourcer, conosca e persegua la Mission aziendale dell’azienda; dove questa è formalizzata. Anche lo Studio Associato, costituendo esso stesso soggetto economico, che persegue degli scopi dovrebbe formalizzare una propria Mission ed una propria Vision “aziendale”, nonché una strategia che comprenda obiettivi a breve, medio e lungo termine. Da qualche anno a questa parte la tendenza della maggior parte dei gruppi imprenditoriali, anche di livello mondiale (vedi Google), è quella di spostare l’attenzione dai cicli produttivi alle persone. Infatti, mai come oggi il Fattore Umano ha avuto un peso così rilevante nel successo delle organizzazioni ma anche mai come oggi la Persona è alla ricerca di un senso in ogni cosa che fa. Come far sì, allora, che i professionisti assumano come propri, con impegno e responsabilità, gli obiettivi dell’Azienda? “Se non cambiamo direzione, rischiamo di finire proprio dove siamo diretti.” John Whitmore3 Siamo entrati in un’era di grande complessità e tutte le Aziende devono affrontare ogni giorno i cambiamenti richiesti dal Mercato per rimanere concorrenziali: l’imperativo è “Distinguersi o estinguersi” La risposta è, almeno apparentemente, molto semplice: facendo sì che gli obiettivi delle organizzazioni siano condivisi dalle Persone, tutte le Persone, che le compongono. Condivisione, pertanto, è la parola chiave. Bisogna quindi spostare, almeno per un momento, l’attenzione dai processi, dai numeri e dalle strategie ed entrare in un mondo più umano, più caldo, quello delle emozioni, delle sfide, dei Valori. Dotarsi di una Mission, una Vision ed un Sistema di Valori aziendali, comunicarli, dichiararli, diventa allora indispensabile per stabilire un’identità, fornire una rotta, indicare un orizzonte, un passaggio dalla situazione attuale a quella di un futuro possibile, se realizzato congiuntamente. Attraverso la creazione di uno spazio di confronto tra i professionisti, si potranno mettere in campo sensazioni, percezioni e motivazioni personali, e si individueranno così i punti di miglioramento, gli strumenti a disposizione e le strategie da applicare alla propria realtà organizzativa. Infatti, la conoscenza ed il dialogo sono due dei fattori maggiormente determinanti per creare quel senso di appartenenza necessario per coinvolgere e creare la Squadra che consentirà al gruppo di presentarsi sul Mercato come un Sistema complesso ma coerente, omogeneo e, soprattutto, efficiente ed efficace. In conclusione, come usava dire un noto giornalista televisivo, la domanda sorge spontanea: ma davvero è così difficile? Scopo di questi brevi articoli come già detto innanzi è quello di dipingere un quadro, che se pur generale, faccia comprendere che la Libera Professione Infermieristica è un tassello di un grande mosaico chiamato Libero Mercato e con questi deve confrontarsi ogni giorno. Chiunque voglia “mettersi in proprio”, in qualsiasi settore produttivo, deve fare i conti con le leggi di mercato. Personalmente ritengo che coloro i quali facciano una scelta di questo tipo vogliano raggiungere traguardi anche ambiziosi quali il riconoscimento personale-professionale ed un forte senso di auto-stima. Allo stesso tempo penso che tutti possano tuffarsi in questo mare il più delle volte in tempesta, troppo spesso navigato da pirati… con false insegne… Ma per navigare tranquilli bisogna conoscere il mare… e soprattutto la propria nave… Bibliografia 1 - L’art. 2229 del codice civile stabilisce che “la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi”. 2 - L’etimologia del termine outsourcing, tradotto in italiano esternalizzazione, rende perfettamente l’idea della cessione all’esterno di attività precedentemente svolte internamente all’azienda, attraverso la delega a terze parti, chiamate outsourcer. 3 - John Whitmore, nel suo libro fondamentale “Coaching for Performance” ( Nicholas Brealy Publishing, London 1993) descrive, con uno stile semplice, come manager, supervisori, teamleader e genitori oppure tutti coloro che desiderano imparare ed applicare il coaching possano aumentare la capacità di performance e di apprendimento di qualcuno. Ha lavorato per imprese in Gran Bretagna, Svizzera ed Usa, fondando con Timothy Gallwey la Inner Game Ltd., nella quale hanno portato le loro esperienze nei metodi di training acquisite nello sport nelle aziende. L’autore * ILibero Professionista Infermiere Coordinatore RSA “Buzzoni Nigra” Sartirana Lomellina (PV) 34 PAGINA Infermiere a Pavia Aggiornamento IN ITALIA * Silvia Giudici Fino alla definizione del nuovo assetto istituzionale del sistema di Educazione Continua in Medicina, e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, come già saprete, è stato prorogato il vigente programma sperimentale di educazione continua in medicina (ECM). Per l’anno 2007, il debito formativo per gli operatori sanitari è stato fissato a n. 30 (trenta) crediti ecm (minimo 15 ,massimo 60 crediti formativi). Ciascun operatore ha potuto acquisire il numero di crediti a completo adempimento del debito formativo, fissato nel numero globale di 150 crediti, per il periodo sperimentale 2002-2007. I crediti formativi già acquisiti dagli operatori sanitari in numero eccedente rispetto a quello stabilito per il predetto periodo 2002-2006, possono valere ai fini del debito formativo stabilito per l’anno 2007. Qui di seguito alcune opportunità formative per colmare il vostro debito ECM e per favorire il vostro aggiornamento continuo anche nella fase successiva al periodo sperimentale sovra citato. LA VOCE DEL DOLORE ATTRAVERSO I FOCUS Milano, 20 giugno 2007 - euro: 30,00 ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0258306892; fax: 0258308892 info: [email protected] ENDO EDUCATION PROJECT Rho (Milano), 21 giugno 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0229005745; fax: 0229005790 info: [email protected] 4° CONVEGNO INTERNAZIONALE MEDICINA E PERSONA. MEDICO CURA TE STESSO. LA NUOVA MEDICINA: CURA DELLA PERSONA O UTOPIA DELL’UOMO PERFETTO? Milano, 21-23 giugno 2007 euro: da 50 a 295.00 in base alla qualifica ecm: evento in fase di accreditamento tel: 026697911; fax 026700597 info: [email protected] ANDATA PROSPETTIVE TERAPEUTICHE NELL’INSUFFICIENZA CARDIACA ACUTA SCOMPENSATA Iseo (Brescia), 23 giugno 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0267071383; fax: 0267072294 info: [email protected] IL POLITRAUMATIZZATO: APPROCCIO E TRATTAMENTO IN PRONTO SOCCORSO Milano, 29 giugno 2007 euro: 105,00 ecm: 7 tel: 02531014; fax: 02531067 info: [email protected] 4° INCONTRO DEL GRUPPO DI STUDIO SULLA DEMENZA DA CORPI DI LEWY Castellana (Varese), 23 giugno 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 027491361; fax: 027385106 info: [email protected] LA GESTIONE DEL PAZIENTE DI CHIRURGIA PLASTICA RICOSTRUTTIVA ED ESTETICA Sesto San Giovanni (MI), 30 giugno 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0224209011; fax: 0222476125 info: [email protected] DALLA BIOLOGIA ALLA PSICOLOGIA: LE RELAZIONI TRA IL BAMBINO E GLI ADULTI SIGNIFICATIVI Brescia, 24 giugno 2007 euro: 100,00 ecm: evento in fase di accreditamento tel: 030399108; fax: 0303382974 info: [email protected] L’INFERMIERE E LE FIGURE DI SUPPORTO PER UNA MIGLIORE INTEGRAZIONE E INTERAZIONE DEI RUOLI Bergamo, 26 giugno 2007 euro: 50.00 ecm: evento in fase di accreditamento tel: 035224072; fax 035232980 info: [email protected] CORSO DI FORMAZIONE IN CARDIOLOGIA ED ELETTROCARDIOGRAFIA San Donato Mil.se (MI) - 27 giugno 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0252774324; fax: 0252774658 info: [email protected] LA MALATTIA DA VIRUS RESPIRATORIO SINCIZIALE: UPDATE ED ESPERIENZE Como, 28 giugno 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 065758926; fax: 065759937 info: [email protected] CORSO DI ANESTESIA LOCO REGIONALE Como, 30 giugno 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0289518895; fax: 0289518954 info: [email protected] LA CHIRURGIA ONCOLOGICA DEL CAVO ORALE E DELL’OROFARINGE Brescia, 7 luglio 2007 euro: 100,00 ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0302510568; fax: 0302510568 info: [email protected] IL MALATO CRITICO IN UROLOGIA Desio (MI), 12 luglio 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0362383884; fax: 0362383233 info: [email protected] BLSD (BASIC LIFE SUPPORT AND DEFIBRILLATION) - BASE Milano, 13 luglio 2007 - euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0498944570; fax: 0498944501 info: [email protected] IL DOLORE ONCOLOGICO Milano, 27 luglio 2007 euro: gratis ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0498944570; fax: 0498944501 info: [email protected] 35 PAGINA Numero 2/2007 BIOETHICS SUMMER SCHOOL Dobbiamo (Bolzano), 20-30 agosto 2007 euro: contattare organizzazione (dott.ssa Santoro c/o Coop. Anver) tel: 064070789 info: [email protected] LA FORMAZIONE DEI FORMATORI: CAPACITÀ PROGETTUALI E COMUNICATIVE NEI CONTESTI EDUCATIVI Bolzano, 17-18-19 settembre 2007 euro: 180,00 ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0472852529; fax: 0472852529 info: [email protected] TEORIA E CONCETTUALITÀ DEL NURSING CONTEMPORANEO Padova, 20-21 settembre 2007 euro: 250,00 ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0498804827; fax: 0498803646 info: [email protected] METODOLOGIA DELLA RICERCA PER LE PROFESSIONI SANITARIE: QUESTIONARI ED INTERVISTE Padova, 1-2 ottobre 2007 euro: 200,00 + IVA ecm: 14 tel: 0498703457; fax: 0498703457 info: [email protected] GESTIRE L’ANSIA E LO STRESS IN PRONTO SOCCORSO Padova, 15-16 novembre 2007 euro: 200,00 ecm: evento in fase di accreditamento tel: 0498804827; fax 0498803646 info: [email protected] LA GESTIONE DELLA FIBRILLAZIONE NELLE DIVERSE SITUAZIONI CLINICHE IN AMBITO RIABILITATIVO E RUOLO DELLA TERAPIA Montescano (Pavia), 21 novembre 2007 ecm: contattare organizzatore (Sig.ra Achilli) tel: 0385247330 info: [email protected] PAZIENTE CON DISTURBI PSICOTICI: ASSISTENZA INFERMIERISTICA BASATA SULLE EVIDENZE Padova, 13 dicembre 2007 euro: 100,00 ecm: 7 tel: 0498804827; fax: 0498803646 info: [email protected] L’autore * Infermiera Neuroriabilitazione I e II Fondazione Salvatore Maugeri - Pavia RITORNO * Silvia Giudici PAURA, ANGOSCIA, PANICO NELLA TERMINALITÀ. QUALE APPROCCIO PERSEGUIRE IN PRESENZA DI: PERDITA DI AUTONOMIA, INCREMENTO DEI SINTOMI, COSCIENZA DI CIÒ CHE “NON SI PUÒ ESPRIMERE”… Una tematica a contenuto etico ed impatto emotivo molto forte. Il corso multidisciplinare è stato organizzato da VIDAS e si è svolto a Milano lo scorso 23 febbraio. Un ringraziamento particolare ai tutors Anna Lattuada, Nadia Tosi, Graziella Rolla e Lia Biagetti che, attraverso i lavori di gruppo, hanno dato la possibilità ai partecipanti di potersi confrontare sul vissuto esperienziale. Numerosi sono gli strumenti e le strategie che gli operatori di cure palliative possono fornire per analizzare in modo critico le manifestazioni psicoemotive del paziente in fase terminale di malattia. L’ascolto attivo rappresenta per l’operatore sanitario, ed in particolare per l’infermiere, uno degli strumenti fondamentali poiché il suo esercizio facilita il paziente nell’esprimere il proprio disagio nella certezza di essere ascoltato e di trovare una risposta ai propri bisogni. I professionisti che assistono quotidianamente i pazienti in fase terminale di malattia, conoscono l’importanza del confronto in équipe interdisciplinare per la definizione del piano assistenziale individuale: la verifica degli elementi clinici unitamente ai dati emersi durante le visite effettuate dai diversi professionisti allo stesso paziente, permette da un lato di discernere tra manifestazioni emotive funzionali e patologiche e dall’altro di ridefinire e condividere le strategie d’intervento. Un aiuto viene apportato dagli strumenti standardizzati per la definizione e la “quantificazione” del grado di disagio emotivo come ad esempio le scale di valutazione STAS, ESAS, POS, TIQ, HAD ed Hamilton. Quando inizia la fase terminale di una malattia, interviene l’incertezza, sia per i cambiamenti continui, fondamentalmente inattesi, sia per la scoperta di un sé poco in grado di affrontarli. La sua capacità di agire è inibita dalla condizione fisica in deterioramento, ed impatta sul suo pensiero e sul suo sentire. La sua propensione alla razionalità viene messa in discussione da reazioni emotive. L’operatore dovrà effettuare un’attenta analisi delle problematiche del paziente, sia presenti che pregresse, che possono influenzare la scelta dei diversi approcci relazionali e terapeutici. La presenza di uno stato di apprensione, di paura, induce un alto livello di vigilanza nell’attesa di ciò che sta per verificarsi, proprio come succede quando c’è la percezione di un pericolo imminente. Così l’eccessiva inquietudine, il rallentamento e la facilità ad addormentarsi, l’irritabilità, le tensioni muscolari, il pianto facile e frequente, i disturbi aspecifici addominali, le palpitazioni, il respiro corto e frequente, l’anoressia o la bulimia, sono manifestazioni non solo su base organica, ma spesso espressione di uno stato psico-emotivo che può evolvere in fobia, ossessione, compulsione. L’aspetto reattivo di coloro che sentono la propria vita cambiare è influenzato da fattori individuali, familiari, socio-culturali oltre che clinici. Infatti i valori personali, religiosi, sono in grado di determinare una diversa modalità d’interazione con la realtà e tra gli stessi individui. I rapporti interpersonali tra paziente e background familiare sono un elemento importante da verificare. Capire quale sia stato il ruolo del paziente all’interno di un gruppo può meglio farci comprendere quale sia il livello di “percezione della perdita” in atto. La madre che ha sempre accudito il proprio bimbo, partecipando attivamente alla sua crescita, è minacciata dalla perdita della capacità di proteggerlo e consolarlo nel momento in cui è lei al centro del processo assistenziale. Promuovere con il paziente una conversazione in cui possano essere espresse le condizioni causa, ascoltare i racconti correlati allo stato psico-emotivo, sono gli strumenti attraverso i quali l’operatore può acquisire elementi socioculturali/personali e da cui può essere guidato nel comprendere. Paura, angoscia e panico attraversano più o meno esplicitamente tutto il processo di vita e coinvolgono non solo i pazienti ma anche familiari ed operatori. Questi NOTE DI SEGRETERIA Gli orari di apertura al pubblico sono i seguenti: Lunedì e Giovedì 13.30 - 16.30 Martedì e Venerdì 09.00 - 12.00 Mercoledì chiusura totale e-mail : [email protected] 36 PAGINA ultimi devono imparare a distinguere le loro difficoltà da quelle del paziente, al fine di non proporre soluzioni che offrano solo a lui, operatore, la possibilità di stare più tranquillo. Spesso il paziente terminale vive un intenso stato di sofferenza psicofisica che può incidere sulla capacità di verbalizzazione, nel senso che la mente in preda al forte dolore emotivo si paralizza e non trova le parole per esprimerlo. Infatti la mente risponde al dolore esattamente come il corpo, che quando è in preda ad un dolore fisico è portato ad irrigidirsi: trova una posizione “antalgica” e tende all’immobilità. L’impossibilità di esprimere verbalmente una sofferenza psicologica, orienta la persona a trovare (anche inconsapevolmente) canali alternativi di espressione che spesso sono trasformati in sofferenze di tipo somatico. Quando il disagio è intollerabile il soggetto ha due possibilità: tenerlo dentro – e in questo caso il risultato può essere il panico – oppure buttarlo fuori. Cogliere prematuramente cosa il paziente sta dicendo attraverso il suo comportamento e cosa diciamo noi con il nostro è essenziale ai fini di una lettura più chiara dei bisogni e delle risposte possibili. Nelle cure palliative la componente soggettiva ed emozionale è quella di cui bisogna prendersi cura. In questa prospettiva non può esserci l’operatore solo oggettivo. L’infermiere dovrà portare oltre alla sua competenza anche la sua storia, e dovrà essere disponibile a recepire la storia del paziente per capire che senso potrebbe avere l’oggettività (sintomi, comportamenti) che vede in quel momento. Solo attraverso la consapevolezza dei propri vissuti e di quelli del paziente l’operatore potrà dare senso alle contraddizioni che spesso si presentano in contesti con forte carico emozionale come quelli della terminalità. È importante dunque che gli operatori L’autore * Infermiera Neuroriabilitazione I e II Fondazione Salvatore Maugeri -Pavia Infermiere a Pavia 1° CONGRESSO DELLE PROFESSIONI INTELLETTUALI DELLA LOMBARDIA (Lecco, 11 maggio 2007) * Enrico Rossi Relazione introduttiva Rivolgo un cordiale saluto e un sincero ringraziamento alle autorità civili e militari e a tutti gli ospiti che così numerosi sono presenti oggi. Permettetemi di rivolgere un saluto particolare ai rappresentanti dei Consigli nazionali presenti ed i delegati dei C.U.P. regionali e provinciali che compongono il Forum delle Professioni Intellettuali del Nord Italia convenuti qui per testimoniare l’unione dei C.U.P. territoriali sulle problematiche della riforma e ai delegati dei C.U.P. provinciali e degli Ordini regionali associati al C.U.P. Lombardia, intervenuti in rappresentanza degli oltre 285.000 professionisti lombardi ai quali è dedicato questo Congresso con lo scopo di fornire loro una corretta informazione sulle basi e sulle regole in forza delle quali eserciteranno in futuro la loro attività. Questo congresso è stato realizzato anche con la preziosa collaborazione di Deutsche Bank – Banca Popolare di Lecco, di Reale Mutua Assicurazioni e di Gruppo GR Informatica ai quali esprimo un particolare ringraziamento. Oggi non siamo interessati a sentire un dibattito sul perché o per cosa nelle scorse legislature non sia stata fatta la riforma delle norme in materia di esercizio delle professioni intellettuali. Sappiamo anche che la riforma , in parte, è stata bloccata da alcuni Consigli nazionali, più attenti alla organizzazione interna degli Ordini che alle concrete esigenze delle professioni intellettuali e della società nella quale esse operano quotidianamente. Oggi noi professionisti ci aspettiamo di sentire in base a quali regole potremo sviluppare le nostre attività e la nostra competitività e con quali strumenti le professioni potranno dare risposte più aderenti alle mutate richieste della società Per ragioni di tempo non affronterò in questa sede tutte le problematiche coinvolte nelle varie ipotesi di riforma, mi limiterò quindi a trattare, dal punto di vista dei professionisti lombardi, alcuni argomenti che ritengo centrali e sui quali mi pare opportuno richiamare l’attenzione dei presenti. La trattazione di alcuni concetti sarà necessariamente superficiale ma i professionisti oggi vogliono soprattutto ascoltare i contributi dei partecipanti alla tavola rotonda. Liberalizzazioni competitività e regole Una considerazione di ordine generale che riguarda i concetti di liberalizzazione e competitività mi deriva da una affermazione espressa recentemente dal Presidente Aznar in un incontro organizzato a Lecco da Confindustria. Più si approfondisce un processo di liberalizzazione più è necessario stabilire regole precise ed uniformi per evitare distorsioni nella concorrenza. Sino ad ora in Italia, ove si sono avviati processi di asserite liberalizzazioni, non si è proceduto a fissare regole uniformi per l’esercizio delle attività che si intendeva “liberalizzare”. Il risultato della mancata fissazione di regole uniformi per l’esercizio delle attività è stato quindi quello di trasferire settori di mercato da alcuni attori soggetti a regole più restrittive ad altri attori soggetti a regole più permissive o che godono di agevolazioni. Si pensi ad esempio al trasferimento del mercato dei farmaci da banco dalle farmacie soggette a fiscalità piena ai supermercati gestiti da cooperative (solo a quelli, badate bene e se non ne siete convinti informatevi presso esselunga, benett, ecc) che godono di trattamenti fiscali agevolati. Interessante è il silenzio sul punto dell’authority alla concorrenza, di norma così attenta a queste problematiche (certamente a quelle che riguardano le professioni). Il concetto di liberalizzazione e concorrenza che oggi viene vergognosamente accreditato presso l’opinione pubblica, dipinge il settore delle professioni come chiuso e corporativo. Chiuso? I dati relativi agli iscritti ad Albi sono disponibili presso il Ministero della Giustizia e quello della Sanità: vogliamo controllare quanti professionisti si sono iscritti ai diversi albi negli ultimi dieci/cinque anni? Nessuna altra attività, probabilmente, ha registrato un tasso di incremento così alto. L’altro leit motive riguarda i requisiti per l’iscrizione agli albi: percorso di studi universitario (superfluo? Discriminatorio? Altro?) e superamento di un esame di stato, previsto fra l’altro dall’articolo 33 della Costituzione, (i professionisti presenti in aula che lo hanno superato devono considerarsi dei geni? Oppure lo hanno superato perché il loro padre era un professionista? Chi sostiene queste sciocchezze probabilmente non sa come si svolge un esame di stato, oppure considera i professori universitari e i magistrati che compongono le 37 PAGINA Numero 2/2007 commissioni esaminatrici poco etici. Ebbene queste due condizioni vengono considerate un impedimento ai giovani all’esercizio delle professioni. E’ ideologico o, peggio, ridicolo. La politica economica delle professioni intellettuali Altro argomento, assolutamente centrale e totalmente ignorato, o solo parzialmente trattato in tutti disegni di legge in materia di professioni intellettuali che ho potuto esaminare, riguarda la politica economica delle professioni. Le professioni intellettuali, pur da distinguere rigorosamente dalle attività di impresa, soffrono di problematiche comuni ad alcune di esse. Queste problematiche possono essere indicate nella necessità di riconoscere il ruolo sociale delle professioni intellettuali, nella necessità di crescita dimensionale degli studi, nella necessità di prevedere il ricorso al credito agevolato per i giovani professionisti, nella necessità di sostegni alla formazione. Per incentivare la formazione si stabilisce invece la parziale non detraibilità fiscale dei costi sopportati per la formazione. E sarò più preciso. Perché una attività professionale non riservata svolta da una cooperativa con cinquemila dipendenti ha una tassazione agevolata, derivante dal suo asserito ruolo sociale, rispetto alla medesima attività svolta da uno studio professionale? Perché questa disparità di trattamento? Perché dalle varie norme agevolative in materia di investimenti, di finanziamenti attraverso i Confidi e di aggregazione tra entità di piccole dimensioni, vengono sistematicamente escluse le attività professionali, ed in particolare non vengono agevolati i giovani professionisti che entrano nel mondo del lavoro? Perché vengono destinati ingenti fondi alla realizzazione di corsi di formazione, spesso di dubbia utilità, e non viene destinato alcunché alla alta formazione dei professionisti e dei quadri dirigenti, pur essendo unanimemente riconosciuto che sono le conoscenze, in gran parte depositate anche nelle professioni intellettuali, ad essere fondamentale elemento di competitività territoriale? La Regione può essere il soggetto di riferimento per affrontare e risolvere alcune di queste problematiche, in particolare quelle relative al coinvolgimento delle professioni intellettuali nei processi decisionali che riguardano l’economia, il territorio, la sanità e l’accesso ai Confidi ed ai fondi per la formazione. Del resto oggi la Regione per l’attività delle professioni intellettuali è interlocutore primario almeno quanto lo Stato, ma questo ruolo di interlocuzione con le profes- sioni intellettuali le viene sistematicamente rifiutato dallo Stato. Analogamente dagli organismi nazionali viene rifiutata una articolazione regionale degli Ordini e dei Collegi che possa interloquire con la Regione. La concorrenza nelle professioni intellettuali La concorrenza viene dai più identificata con la abolizione delle tariffe, quasi che il prezzo sia il solo elemento di concorrenza. Se siamo intellettualmente onesti sappiamo che non è così, in particolare per le attività delle professioni intellettuali. In materia di tariffe poi possiamo anche convenire che la fissazione di tariffe minime, di per sé, non è garanzia di qualità delle prestazioni. Allora si fissino standard qualitativi minimi delle prestazioni perché il mantenimento di standard qualitativi elevati è irrinunciabile a tutela dei cittadini. Del resto i professionisti intellettuali da sempre esercitano la concorrenza sul terreno della qualità delle prestazioni e ciò ad evidente vantaggio del cittadino cliente, e sottolineo cliente e non consumatore perché l’attività professionale non produce beni di consumo e non ha riflessi solo su colui che usufruisce della prestazione ma sull’intera società. Ma anche in tema di concorrenza si impone il richiamo a regole uniformi come preciserò trattando dell’organizzazione duale delle professioni. L’Organizzazione duale delle professioni intellettuali Cosa comporterà, in mancanza di regole uniformi, la tanto auspicata organizzazione duale delle professioni? (per inciso chiedetevi auspicata da chi e con quali interessi) Significherà la creazione di due autority, Ordini e Associazioni entrambe riconosciute dallo Stato ed entrambe deputate ad attestare il possesso e il mantenimento dei requisiti necessari per l’esercizio di una professione intellettuale. Ma l’una, gli Ordini enti pubblici, che rilascerà attestazioni in base a rigorose regole stabilite dallo Stato mentre l’altra, le Associazioni di diritto privato, che rilasceranno attestazioni in base a regole stabilite da esse stesse, quindi inevitabilmente difformi le une dalle altre e via via meno rigide al fine di conseguire il maggior numero di associati possibili. E allora o le due autority riguardano attività professionali completamente separate e quindi gli Ordini per le attività professionali già organizzate secondo tale modello e le Associazioni per le attività professionali realmente nuove, oppure lo Stato dovrà riconoscere soltanto una autority per attestare il possesso dei requisiti per lo svolgimento di una determinata attività. Diversamente operando, non si otterrà la tanto declamata liberalizzazione ma il trasferimento di interi settori di attività da coloro che sono soggetti a regole più restrittive a coloro che sono soggetti a regole più permissive e non si favorirà la concorrenza ma anzi si introdurrà per legge una alterazione alle regole della concorrenza tra esercenti la medesima attività. E ciò comporterà il disastro delle casse professionali degli iscritti ad Ordini e Collegi che non avranno più l’afflusso di nuovi iscritti. Non voglio arrivare a pensare che, utilizzando questo strumento, vi sia un preciso disegno di portare nell’INPS le casse professionali, che poi sono i versamenti che ha fatto ciascuno di noi, senza alcun onere a carico dello Stato. Ferma restando quindi l’assoluta libertà di svolgimento da parte di chicchessia di attività non riservate ed il diritto di associazione costituzionalmente garantito, ci opponiamo fermamente a che venga consentito il riconoscimento da parte dello Stato di associazioni composte da professionisti che svolgono le medesime, o parte, delle attività già svolte da professionisti intellettuali organizzati in Ordini e Collegi. Qualora poi la volontà politica fosse quella di ugualmente consentire il riconoscimento indifferenziato da parte dello Stato delle associazioni accanto agli Ordini e Collegi, devono essere fissate identiche regole per l’iscrizione ad associazioni e per l’accesso ad Ordini e Collegi. Da tutto quanto sopra evidenziato, discende l’inderogabile esigenza di riconoscere e definire preliminarmente una nuova professione intellettuale rispetto al riconoscimento di una associazione composta da esercenti tale professione intellettuale. L’esercizio dell’attività professionale anche in forma societaria Volete dare ai professionisti uno strumento per dare efficaci risposte a quanto richiede loro la società? Consentite a ciascun ordinamento di prevedere, ove gli stessi lo ritengano opportuno, l’esercizio dell’attività professionale intellettuale anche in forma societaria e anche multi disciplinare. Al fine però di garantire la personalità della prestazione e della responsabilità, evitando tassativamente l’assimilazione dell’attività professionale alla attività di impresa, è necessaria l’apposizione di precisi limiti all’ingresso di soci di capitale nelle società composte da professionisti. E’ inoltre necessario che non possano essere consentite società tra professionisti iscritti in albi e professionisti iscritti ad associazioni, ad evidente tutela della fede pubblica. Deve anche essere salvaguardata 38 PAGINA quella che è la caratteristica peculiare dell’attività professionale, ossia l’indipendenza e libertà di giudizio del professionista nello svolgimento della propria attività. L’Organizzazione interna degli Ordini L’attuale organizzazione degli Ordini e Collegi è fondata sugli Ordini e Collegi territoriali i quali esprimono un consiglio nazionale per necessità di raccordo interno e di rappresentanza istituzionale in ambito nazionale. Tale articolazione deve essere mantenuta, confermando l’autonomia degli Ordini territoriali, consentendo peraltro agli stessi di dotarsi di strutture di raccordo anche regionali oltre che nazionali. La previsione di un’articolazione regionale degli Ordini è inoltre in linea con l’art. 117 della Costituzione oggi vigente, realizzando pienamente, ma senza sovrapposizione di ambiti, quella previsione di potestà legislativa concorrente nello stesso articolo prevista. Con riferimento alla organizzazione interna degli Ordini e Collegi, ferma la potestà di autoregolamentazione degli stessi, si evidenzia la necessità di prevedere anche l’obbligo, per le articolazioni degli Ordini che hanno il potere di imporre il versamento di un contributo da parte degli iscritti per il proprio funzionamento - attualmente i consigli nazionali e in futuro, si auspica, le articolazioni regionali - di sottoporre all’assemblea degli Ordini locali un bilancio preventivo e un bilancio consuntivo a giustificazione delle richieste di contributo e del suo utilizzo, e ciò in conformità a quanto già avviene per gli Ordini territoriali. Parrebbe questa una necessità inderogabile per assicurare il corretto esercizio democratico e partecipato della attività delle articolazioni regionali e nazionali degli Ordini. Conclusioni Vi pare possibile che la legislazione su una materia così delicata venga affidata ad una delega che sarebbe più proprio definire arbitrio per l’indeterminatezza e la genericità che la connota rendendola ,quanto meno, al limite della legittimità costituzionale? Sulla delega così come contenuta nel disegno di legge di iniziativa governativa è quindi un no secco che dicono i professionisti. I professionisti vogliono, attraverso il loro imprescindibile contributo, perché è sul loro futuro che si sta operando, una riforma scritta non nell’interesse di questa o di quella componente sociale, ma per la crescita dell’intero paese. L’autore * Presidente CUP Regione Lombardia Infermiere a Pavia 1° CONGRESSO DELE PROFESSIONI INTELLETUALI DELLA LOMBARDIA LECCO 11 MAGGIO 2007 MOZIONE FINALE Il CUP Lombardia, con i propri delegati, a conclusione dei lavori del 1° Congresso delle Professioni Intellettuali APPROVA la relazione predisposta dal Presidente DA MANDATO al proprio Consiglio Direttivo di dare attuazione ai contenuti espressi nel documento medesimo in particolare CHIEDE al Governo Regionale della Lombardia che venga riconosciuto il ruolo del sistema delle professioni intellettuali che oggi può rappresentare, grazie alla propria capillare organizzazione unitaria, il propulsore di una nuova fase di sviluppo favorita dal coinvolgimento delle professioni nei processi decisionali di competenza regionale, per la promozione di una competitività basata sulla qualità delle prestazioni e sulla formazione permanente, condizione indispensabile per favorire e promuovere una sempre più elevata qualità della vita. ESPRIME LA PRORIA CONTRARIETA’ coerentemente con le valutazioni espresse dal CUP Nazionale e dal Forum delle Professioni Intellettuali, in merito al progetto di legge governativo di riforma delle professioni RIBADISCE IL NO a deleghe in bianco a tutto campo in assenza di propedeutiche condivise e chiare soluzioni sulle principali criticità della riforma; alla assimilazione delle attività professionali alle attività di impresa; alla assimilazione del cittadino/cliente al consumatore/utente. CHIEDE A tutela degli interessi generali connessi all’esercizio delle professioni intellettuali ed alla garanzia della terzietà, indipendenza ed autonomia dei professionisti intellettuali che la riforma non possa prescindere dai seguenti punti fermi: definizione di professione intellettuale; definizione di un confine più marcato tra le prerogative degli Ordini e delle Associazioni; riconoscimento delle sole professioni, tra quelle non regolamentate, le cui attività non coincidano con quelle esercite dalle professioni oggi regolamentate; conferma di tutti gli Ordini esistenti le cui eventuali riorganizzazioni o accorpamenti devono essere condivisi dalle professioni interessate; regolamentazione delle strutture societarie nel rispetto degli ordinamenti di ciascuna professione; conferma del formale riconoscimento degli Ordini quali “Enti pubblici non economici”; conferma della autonomia dei livelli territoriali dei singoli Ordini, a garanzia di un sistema rappresentativo, democratico e partecipativo; individuazione di standard qualitativi minimi prestazionali, in particolare per prestazioni riservate o ad evidenza pubblica; garanzia di intangibilità, autonomia e valorizzazione delle Casse di Previdenza dei liberi professionisti. ESPRIME IL PROPRIO APPREZZAMENTO Pur riservandosi proposte di emendamenti migliorativi, nei confronti della proposta di legge di iniziativa popolare “Riforma dell’ordinamento delle professioni intellettuali” GARANTISCE Il massimo impegno, in sinergia con il Forum delle Professioni Intellettuali, di tutti i CUP territoriali aderenti, per la raccolta delle firme. Il Presidente Enrico Rossi 39 PAGINA Numero 2/2007 A domanda . . . Buongiorno, sono una caposala che lavora alla fondazione Maugeri in un ambulatorio di medicina del lavoro 626. Vorrei avere dei chiarimenti riguardo il prelievo, le mie domande sono: 1) in un ambiente ospedaliero, la caposala o l’IP puo’ effettuare il prelievo ematochimico anche in assenza del medico dell’ambulatorio? 2) Quale figura può effettuare gli elettrocardiogrammi nelle ditte, fabbriche ecc.. comunque al di fuori dell’ambiente ospedaliero ? E serve la presenza del medico? Vi ringrazio e attendo vostra risposta. . . . Risposta Gentile collega, nel ringraziarLa per la sua mail del 14 aprile u.s. volevamo comunicarLe quanto segue. Con perplessità abbiamo letto il contenuto, in quanto ormai a circa 8 anni dall’abrogazione del mansionario con la L. 42/99, eravamo sicuri che era patrimonio comune l’ambito di responsabilità in cui il professionista infermiere si muove, cioè sulle cose che possiamo o che non possiamo fare, soprattutto se le attività in questioni risultano essere la normale attività lavorativa. In ogni modo cerchiamo di dare una spiegazione normativa alla questione da Lei sottoposta. La tradizionale elencazione delle mansioni attribuibili all’infermiere professionale previste dal D.P.R. 14 marzo 1974 n° 225, è venuta meno per opera della legge n° 42 del 26 febbraio 1999. Il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie di cui all’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n° 502, e successive modificazioni e integrazioni, è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione post - base nonché degli specifici codici deontologici, fatte salve le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali. A suffragare quanto appena detto ci viene incontro anche la principale fonte normativa di riferimento, cioè il profilo professionale dell’infermiere, recepito con il D.M. 14 settembre 1994, n° 739. L’elenco delle cose che era possibile svolgere con il DPR 225/1974 ora viene sostituito da tre criteri guida (le cose che possiamo fare) e un criterio limite(le cose che non possiamo fare)1. I criteri guida sono dati dal contenuto del profilo professionale, dalla formazione di base e post-base ricevuta e dalla deontologia professionale. Il limite, per quanto riguarda la professione infermieristica, è rappresentato dalle competenze previste per il medico: cioè nella più ampia accezione la ricerca della diagnosi e la prescrizione della terapia. Venendo alle richieste da Lei sottoposteci, le attività menzionate sono assolutamente presenti all’interno dei piani didattici dei corsi di laurea di base in scienze infermieristiche e quindi assoluto patrimonio dell’attività dell’infermiere. Addirittura, tali attività, erano già presenti nel cosiddetto mansionario nel ‘74, con un’unica postilla per quanto riguarda l’esecuzione dell’elettrocardiogramma che precisava che esso doveva essere eseguito sotto prescrizione e controllo medico. Tale postilla oggi non ha più senso di esistere, in quanto l’infermiere è divenuto professionista intellettuale e autonomo, quindi capace di decidere sulle proprie attività in base alle proprie conoscenze. Indi per cui le sue perplessità sul fatto che l’infermiere possa eseguire un prelievo senza la presenza di un medico o possa eseguire un elettrocardiogramma al di fuori dell’ambito ospedaliero, dovrebbero essere rimosse. Con questa lettera abbiamo cercato di essere i più esaustivi possibili, anche se forse avremmo avuto bisogno di maggiori dettagli che non erano in nostro possesso, per avere così una visione più generale. Quindi la esortiamo a prendere contatti con noi per un colloquio che ci chiarisca meglio le vostre perplessità per venirle meglio incontro. Nell’attesa di un suo contatto le inviamo distinti saluti. Simone Baratto Consigliere Collegio IPASVI di Pavia 1 Benci L.,”Professioni sanitarie… non più ausiliare”, Rivista di diritto delle professioni sanitarie, 1, 1999. Consiglio Direttivo A seguito delle dimissioni della Consigliera Rapeti Susanna, il Consiglio Direttivo del Collegio IPASVI della provincia di Pavia risulta così composto: Consiglio Direttivo: Frisone Enrico, Presidente Quattrocchi Salvatore, Vicepresidente Rampi Annamaria, Tesoriere Giudici Silvia, Segretario Baglioni Elena Baratto Simone Braga Giuseppe Buongiorno Daniela Ciancio Gabriele Gerletti Jeannette Massaro Michela Melino Stefania Sforzini Andrea Tanzi Annamaria Collegio dei Revisori dei conti: Di Martino Raffaella Pagano Carmela Cavallaro Claudia Revisore supplente: Bellingeri Andrea Tribunale per i diritti del malato Carta dei diritti sul Dolore inutile 1) Diritto a non soffrire inutilmente Ciascun individuo ha diritto a vedere alleviata la propria sofferenza nella maniera più efficace e tempestiva possibile. In passato ignoranza, pregiudizi e rassegnazione hanno impedito che si affrontasse in maniera adeguata il dolore connesso alla malattia. In realtà il dolore è un sintomo che va curato con la stessa attenzione riservata alle patologie per evitare che si cronicizzi e diventi esso stesso “malattia”. E’ necessario, pertanto, che si crei un nuovo approccio culturale al tema della sofferenza e del dolore inutile e che la terapia del dolore diventi parte integrante del percorso terapeutico. Ogni individuo ha diritto di sapere che il dolore non va necessariamente sopportato, ma che gran parte della sofferenza può essere alleviata e curata intervenendo con la giusta terapia. Il dolore deve essere eliminato o, almeno, attenuato in tutti i casi in cui sia possibile farlo poiché esso incide in maniera pesante sulla qualità della vita. E’ un diritto che deve essere riconosciuto e rispettato sempre e ovunque, dai reparti ospedalieri alle strutture di lungodegenza, dal pronto soccorso al domicilio del paziente. • il servizio sanitario pubblico deve essere in grado di assicurare un’adeguata assistenza al dolore sia all’interno che all’esterno delle strutture sanitarie. Queste ultime dovrebbero garantire un servizio di terapia del dolore (semplice o complesso, in funzione della qualità e quantità delle prestazioni erogate) qualitativamente conforme alle più recenti linee guida internazionali e in grado di assicurare un trattamento idoneo a tutti i soggetti bisognosi. L’accesso alla terapia sul territorio va garantito, soprattutto, attraverso le prestazioni al domicilio del paziente, facendo riferimento alle linee guida dell’OMS, predisponendo procedure di prescrizione e somministrazione dei farmaci più semplici ed evitando sospensioni della continuità assistenziale; • i farmaci e le tecniche per la terapia del dolore, e tutti gli strumenti tecnici propedeutici alla loro corretta somministrazione, devono essere compresi tra le prestazioni che il servizio sanitario pubblico garantisce effettivamente a tutti i cittadini. Ogni persona ha il diritto di accedere a procedure innovative secondo gli standard internazionali, senza che possano essere accampati impedimenti di carattere economico o finanziario. 4) Diritto ad un’assistenza qualificata 2) Diritto al riconoscimento del dolore Tutti gli individui hanno diritto ad essere ascoltati e creduti quando riferiscono del loro dolore. Il dolore è caratterizzato da una forte componente soggettiva, poiché la sofferenza è influenzata da numerosi fattori individuali, come avvalorato anche dalla letteratura. Per intervenire nella maniera più adeguata, gli operatori hanno il dovere di ascoltare, prestare fede e tenere nella massima considerazione la sofferenza espressa. Il cittadino deve essere libero di riferire il dolore provato, con la terminologia che gli è propria, e assecondando le proprie sensazioni, senza temere il giudizio dell’operatore, che deve impegnarsi ad interpretare al meglio quanto il paziente cerca di comunicare. 3) Diritto di accesso alla terapia del dolore STAMPA: TIPOGRAFIA MANCINI S.A.S. TIVOLI PROGETTO GRAFICO: ROMA - 06 2054202 - 339/ 5675044 Ciascun individuo ha diritto ad accedere alle cure necessarie per alleviare il proprio dolore. Attualmente persistono numerosi limiti all’accesso alla terapia del dolore. L’ostacolo maggiore è rappresentato da pregiudizi di ordine culturale, che perdurano nella classe medica, anche in seguito alla carenza di formazione specifica sia al livello universitario che nei momenti di aggiornamento professionale. Ad aggravare queste resistenze si aggiungono procedure eccessivamente rigide, quali la mancata considerazione di alcune tipologie di dolore, varie preoccupazioni di ordine economico-finanziario e la diffusa inadeguatezza delle strutture sanitarie. Per rendere accessibile la terapia del dolore sono indispensabili il riconoscimento e la condivisione di alcuni presupposti fondamentali: • la considerazione e la cura del dolore provato dal paziente dovrebbero rappresentare, per tutti i componenti dell’équipe assistenziale, uno standard di qualità professionale e un dovere deontologico, a prescindere dalle convinzioni etiche, religiose o filosofiche, allo scopo di garantire all’assistito la migliore qualità di vita possibile; • tutte le tipologie di dolore meritano uguale considerazione, indipendentemente da quale sia la patologia o l’evento che ne è all’origine. Hanno quindi pari diritto di essere curati nel loro dolore non solo quanti affrontano le fasi terminali della vita, ma anche coloro che soffrono di dolore cronico non da cancro e acuto (da parto, da trauma, da intervento chirurgico, o che necessitano di primo intervento al pronto soccorso); in particolare, tutte le donne dovrebbero essere messe nelle condizioni (compatibilmente con la situazione clinica) di partorire senza dolore; Ciascun individuo ha diritto a ricevere assistenza al dolore, nel rispetto dei più recenti e validati standard di qualità. Ogni persona ha diritto a ricevere assistenza al dolore da operatori adeguatamente formati e aggiornati, in maniera che sia garantito il rispetto degli standard di qualità internazionali. E’ necessario che la conoscenza del problema “dolore” (ormai considerato il quinto segno vitale), della sua quantificazione (misura del dolore) e delle possibilità di trattamento divengano patrimonio professionale di tutti gli operatori sanitari, in maniera che sia sempre garantita al cittadino la possibilità di veder alleviata la sua sofferenza, anche in assenza di specialisti della materia. Sarebbe opportuno che la misurazione del dolore avvenisse con metodi validati al livello internazionale e che la relativa registrazione fosse indicata nella cartella clinica. E’ inaccettabile che, persino quando le leggi prevedono strumenti atti a facilitare la prescrizione di farmaci oppiacei, il ricorso ad essi risulti, di fatto, negato per impreparazione o indisponibilità di medici ed operatori. 5) Diritto ad un’assistenza continua Ogni persona ha diritto a vedere alleviata la propria sofferenza con continuità e assiduità, in tutte le fasi della malattia. Il dolore deve essere monitorato regolarmente in tutte le fasi della malattia; la continuità assistenziale potrebbe essere messa in discussione da un’inadeguata attenzione allo sviluppo della patologia e dal venir meno dell’indispensabile rimodulazione della terapia. Particolare attenzione rispetto alla continuità della cura va posta nel passaggio dall’ospedale al territorio, evitando situazioni di discontinuità per irreperibilità degli operatori o indisponibilità di farmaci e presidi. 6) Diritto ad una scelta libera e informata Ogni persona ha diritto a partecipare attivamente alle decisioni sulla gestione del proprio dolore. Ogni decisione presuppone un’informazione corretta, completa e com- La campagna “Aboliamo i dolori forzati” è realizzata con il sostegno di In collaborazione con: AIMEF, Associazione Italiana Medici di Famiglia - AIOM, Associazione Italiana di Oncologia Medica ANMAR, Associazione Nazionale Malati Reumatici - ANTEA onlus - Azienda Ospedaliera Le Molinette di Torino FIMMG, Federazione Italiana Medici di Medicina Generale - SIAARTI, Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva SIFO, Società Italiana Farmacisti Ospedalieri - SIMG, Società Italiana di Medicina Generale SIOT, Società Italiana Ortopedia e Traumatologia - SIR, Società Italiana Reumatologia Il Tribunale per i diritti del malato è una rete di: prensibile, che tenga conto del livello culturale del paziente e del suo stato emotivo. Ogni intervento terapeutico finalizzato ad alleviare la sofferenza va concordato e modulato, nella qualità e nell’intensità, in accordo pieno e consapevole con la volontà del paziente, secondo i principi sui quali si fonda un buon consenso informato. Ogni persona ha il diritto di ricevere risposte pronte ed esaurienti ai suoi interrogativi, e di disporre di tutto il tempo necessario ad assumere le decisioni conseguenti. 7) Diritto del bambino, dell’anziano e dei soggetti che “non hanno voce” I bambini, gli anziani e i soggetti che “non hanno voce” hanno lo stesso diritto a non provare dolore inutile. La valutazione ed il trattamento del dolore in età pediatrica sono stati a lungo ignorati. La medicina ufficiale, infatti, spesso si accontenta di trasferire sui bambini le conoscenze già sviluppate sugli adulti piuttosto che avviare ricerche e studi appositi, che tengano conto delle specificità della condizione infantile e delle sue implicazioni psicologiche. La paura e l’ansia, presenti in tutti i soggetti a contatto con la malattia, assumono caratteristiche peculiari nei piccoli malati, nelle persone con disagi psichici o con gravi handicap mentali e in alcuni anziani. In questi soggetti la sofferenza trova difficoltà ad essere espressa e la sua lettura non viene registrata adeguatamente per mancanza di un approccio integrato. 8) Diritto a non provare dolore durante gli esami diagnostici invasivi e non Chiunque debba sottoporsi ad esami diagnostici, in particolare quelli invasivi, deve essere trattato in maniera da prevenire eventi dolorosi. Alcuni esami diagnostici invasivi non vengono affrontati serenamente quando incutono timore per il dolore che possono provocare.