maria lucia mascagni - Istituto Ricci HomePage

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MARIA LUCIA MASCAGNI
“Tutte le sorelle sono piccole”
All’inizio della seduta Piero mi chiede se “l’altra volta avevamo detto di
non usare più la galleria”. Mi limito a ricordare: “Tu avevi detto che non ci
serviva più il pavimento”. Piero: “Perché?”. Sorrido: “Non lo so”. Sorride
anche lui: “Non mi ricordo più niente”.
“L’altra volta”, ossia due giorni prima, la seduta mi era sembrata opaca,
inanimata. Almeno in due momenti Piero mi aveva mostrato come “le forbici
tagliano bene il pongo”, costruendo una cordicella di plastilina e tagliandola
subito in piccolissimi pezzi. Ma per quasi tutto il tempo aveva tentato di
riprendere la turbinosa gara delle macchinine che la settimana precedente,
legate con delle corde, avevano percorso la stanza, si erano sfidate sul
pavimento, si erano infilate dentro alla galleria di plastilina che ci eravamo
costruiti, ne erano uscite come da una pancia, e “avevano fatto tanti venti”.
La ripresa del gioco era stata una stanca ripetizione. Verso la fine Piero aveva
cominciato a domandare: “Che cosa posso fare? Non so cosa fare…”.
All’ultimo aveva preso la decisione rassicurante di fare un disegno. Aveva
disegnato una casa con il numero civico 8, l’età della sua cuginetta, poi
un’altra casa con il numero civico 6, gli anni che lui stesso avrebbe compiuto
tra alcuni mesi. Il 6 era dentro a una specie di palloncino e sotto al 6 aveva
aggiunto 2 “che sono gli anni che compirà mia sorella” 1 . Il doppio numero
civico / palloncino era stato fissato alla casa con un tratto di matita.
Oggi progetta di riprendere le macchinine, slegarle e legarle di nuovo,
“ma prima dobbiamo fare un’altra cosa: una gara”. Cerca nel cassetto tra i
personaggi della famiglia: “Mi serve solo il padre”. Il mio compito è di
montare la galleria sul tetto della casetta di legno posta sulla cassettiera.
Comincia la gara tra il “tuo amico”, il “mio amico” e il “nemico”. Questi titoli
attribuiti alle macchinine erano comparsi da un po’ di tempo e all’inizio il
nemico era amico del suo amico e nemico del mio amico.
Ora il padre è in piedi al traguardo: “tu devi stare col babbo”. Lo spazio
della gara si allarga a tutta la stanza e in particolare occupa la galleria. Allora
Piero dice: “mi è venuta un’idea”. Cerca nel cassetto il toro: “voglio legarlo
1
Insieme, dentro lo stesso fragile contorno del sé. E il palloncino deve essere ben legato alla casa.
1
con la corda che lega il nemico”. Poi: “Nel mio cassetto c’è solo della corda!”
Tira la corda per legare il toro e quasi lega me: “Non voglio legare te, tu non
scappi da qui. Dobbiamo legare il toro perché voleva scappare”. E’ compito
del babbo trattenerlo, perciò leghiamo a una sua mano un capo della fune.
Prende dal cassetto il neonato dall’aspetto sessualmente indifferenziato
che è da sempre “la bambina piccola”, la rappresentante della sua sorellina:
“Questo era un bambino molto piccolo, aveva zero mesi”. L’appoggia sul
bordo della cassettiera, il più lontano possibile dal toro. “Il toro voleva
andargli addosso. Il padre lo teneva stretto”. Cominciano i numerosi tentativi
del toro di strappare la corda e sfuggire al padre. Qualche volta il toro
precipita in un burrone “dove c’era dell’acqua”, allora il padre lo va a
riprendere. Altre volte il toro arriva vicinissimo al bambino molto piccolo
che adesso è un po’ più grande, “non aveva zero mesi, aveva sei mesi”.
Infine Piero prende dal cassetto il “bambino” (quello che usa per
rappresentare se stesso): “veniva in aiuto. Era suo fratello!”. Lo mette al
volante della macchina della polizia, fissiamo a una ruota un capo della
corda che lega il toro.
Da questo momento il neonato in pericolo è di nuovo al femminile.
Interviene il “nonno” a difendere la bambina e ad aiutare il babbo quando si
tratta di andare a riprendere il toro nel burrone. Poi anche il bambino scende
con la macchina della polizia per riportare su il toro.
Il toro precipita sempre accanto a me, nel punto in cui finisce il piano
della cassettiera. Ogni tanto Piero viene a vedere da vicino che cosa è
successo nel burrone e allora, cosa inconsueta, si appoggia un istante alle mie
ginocchia.
Il babbo e il nonno “vanno a letto”. Ora i difensori della bambina sono il
bambino e un leone. “Per sicurezza” la bambina viene fatta entrare nella
macchina della polizia: “Sta con tuo fratello!”. Leone e toro combattono. Piero
ripete più volte che non si sa come andrà a finire: “Il toro voleva mangiarla”.
Prende dal cassetto anche “un maialino di dieci anni”. Il toro, se vincerà, si
mangerà la bambina e il maialino. Ma il toro precipita nel burrone e muore.
Ora Piero giocherella svogliatamente con una piccola palla morbida. Si
siede al tavolino sullo sgabello che di solito uso io e dice che si è stancato con
quelle battaglie e vorrebbe andare a casa. Rispondo che, certo, è stata una
grande battaglia. Allora mi annuncia che “non è finita”. Torna alla
cassettiera: “Il toro non era morto, non si è fatto niente”.
Ricomincia la lotta tra toro e leone ed è palese la voglia di far vincere il
toro. Vincerà – dice Piero – quello che si rialzerà alla fine e sapremo chi ha
vinto solo quando il tempo [della seduta] sarà finito. All’ultimo minuto
(Piero ora si tiene informato sui minuti) vince il toro che si avventa sul
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maialino di dieci anni - il maialino cade “perché è stato mangiato” – poi sulla
bambina.
Piero proclama: “ha vinto!”. Serve ancora qualche secondo per fare
rialzare il leone e farlo vincere, così il maialino e la bambina piccola “che non
erano stati mangiati” sono salvi. Ripone tutto nel cassetto: “questa battaglia
deve durare ancora un’ora”.
Ci vedremo solo una volta prima delle nostre brevissime vacanze di
Pasqua, perciò in fine seduta gli mostro sull’agenda i giorni di vacanza. Li
guarda con molta attenzione e per un istante mi si siede in braccio.
Quella che ho riportato è una seduta di tanti anni fa. Piero era il mio
primo paziente e per un certo tempo fu “il” paziente, tout court. Sono ricorsa
ai quaderni di appunti delle sedute nel tentativo di rintracciare la frase “tutte
le sorelle sono piccole” cui avevo ripensato in modo nuovo dopo che era stato
scelto il tema di questo numero della nostra rivista.
Ho un ricordo molto intenso dei tre anni della cura di Piero, un ricordo
anche abbastanza chiaro dei tempi, delle fasi. Ma “tutte le sorelle sono
piccole” era rimasto nella mia memoria come uno degli assiomi tramite i
quali Piero talvolta mi rendeva partecipe delle misteriose conclusioni cui era
arrivato circa la realtà delle cose. E, poiché l’assioma era tanto incantevole
quanto paradossale, si era isolato nella mia mente da ogni contesto, tranne
che dal dato di fatto che sua sorella era più piccola di lui (per cui, tutte le
sorelle…).
Ho cercato i miei cinque quaderni di allora con l’intenzione di dare
un’occhiata qua e là; ho preso il secondo e ho cominciato la lettura dalla
seduta che ho riportato sopra. Mi sono appassionata, sono tornata indietro a
vedere che cosa era successo nelle/ che cosa avevo scritto delle/ sedute
immediatamente precedenti. E per prima cosa mi sono trovata a pormi una
serie di interrogativi. Per esempio perché alla domanda iniziale di Piero se
l’altra volta avevamo deciso di non usare più la galleria, non avevo
detto/scritto nulla che lasciasse intendere, almeno a me lettrice di oggi, se
avevo colto la colpa e il divieto che svelava quella domanda? Era stata
saggezza da neofita ricordargli semplicemente quel che aveva detto lui e
aggiungere “Non lo so” di fronte alla seconda domanda sul perché aveva
affermato che non ci serviva più il pavimento? E nella seduta precedente,
quella opaca e smorta (dove oggi mi pare che il non fare e quasi il non esserci
fosse anche un buon temporeggiare rispetto all’intensità delle passioni
scatenate nelle sedute precedenti e che sarebbero tornate con la violenza del
toro in quella successiva), perché in quella seduta non avevo detto una parola
a proposito della cordicella di plastilina tagliata in piccolissimi pezzi?
3
In principio dunque un approccio da supervisore un poco inquisitivo,
che si è smorzato man mano che i miei vecchi appunti mi restituivano i
particolari delle sedute, la loro sequenza, certe emozioni o almeno la loro
eco.
Ho cominciato a trascrivere la seduta e lì si sono presentate le vere
difficoltà. Non tanto la difficoltà di cambiare il nome del paziente, un
“tradimento doveroso”, ma quella di dire che Piero aveva preso dal cassetto
la bambina piccola e che la bambina piccola era un bambino, senza travisare
ciò che stava avvenendo.
Ho scritto e riscritto la frase destinata a riferire quel momento della
seduta e ogni volta che rileggevo la pagina dovevo cambiare una parola, un
costrutto. Che cosa c’era di tanto difficile nel comunicare ai lettori che prima
il personaggio più piccolo della famiglia del cassetto era sempre stato definito
“la bambina piccola”? Quale sapere inconsapevole ci fa apparire di colpo
inadeguato o falso un brano della scrittura di un caso clinico?
Certo, stralciare una seduta di Piero dall’insieme può assomigliare a
tutto quel tagliare (e annodare) che avveniva nella nostra stanza, al dramma
continuamente rappresentato dello staccarsi per esserci e del perdersi se ci si
staccava. Tuttavia la frase su cui continuavo a incagliarmi mi ha portato a
considerare una difficoltà più particolare. Una difficoltà antica a giudicare dai
miei antichi appunti. Dove si legge: “Prende dal cassetto la bambina piccola:
‘Questo era un bambino molto piccolo, aveva zero mesi’ , la mette all’estremo
bordo della cassettiera, lontana dal toro”. Tutto al femminile. Mi era sfuggito
un femminile persino nella citazione testuale delle parole di Piero: “Il toro
voleva andargli addosso”. Negli appunti avevo scritto “andarle”, corretto
visibilmente in “andargli”. Quando la bambina è di nuovo la bambina e lei e
il fratello sono differenziati, naturalmente non faccio più confusione tra il
maschile e il femminile.
Non mi sentirei di affermare che nella seduta non avevo colto
l’indifferenziazione. Piuttosto, proprio perché l’indifferenziazione costituì
molto a lungo lo sfondo della seduta, se non la sua qualità principale, è
possibile che, al momento di scrivere, la spinta a ridefinire i confini
individuali, soprattutto i miei, diventasse molto forte. Lo divenne certamente
quella volta; i miei appunti al femminile sono eloquenti: la bambina piccola
poteva subire in seduta qualunque metamorfosi, ma per me era e restava la
bambina piccola.
Piero quel giorno aveva usato la bambina piccola (e già queste parole
sono troppo differenzianti) per fare comparire un inerme neonato di zero
mesi. E a me che era accaduto? Qual era stata la con-fusione da cui avevo
cercato di svincolarmi nello scrivere?
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La confusione forse mi aveva aiutato a intuire che la trasformazione
della bambina in neonato maschio non era soltanto un mezzo per mascherare
le pulsioni aggressive verso la sorellina. La scena non era solo quella della
gelosia fraterna e della rivalità edipica. Il toro Piero geloso, aggressivo,
eccitato, voleva mangiarsi la sorellina. Ma la sorellina era anche Piero piccolo.
La sorellina era la piccolezza stessa. E non bastava che Piero fratello grande
andasse a difenderla. Il toro avrebbe divorato tutta la piccolezza. Avrebbe
mangiato la bambina insieme al maialino di 10 anni, che aveva il doppio degli
anni di Piero. La piccolezza è sempre a rischio di essere mangiata, annientata.
La sua inermità ha sempre bisogno di aiuto.
E il toro, quel potente aggressore, non era a sua volta bisognoso? Il
padre doveva legarlo, ma andava a riprenderlo con sollecitudine (insieme al
nonno, padre del padre) quando precipitava nel burrone e la sua caduta
poteva diventare mortale perché “c’era un po’ d’acqua”. L’odio edipico può
essere elaborato, ma l’odio primordiale può precipitare e “cadere per
sempre” se non è soccorso dall’oggetto.
Allorché, forse due anni dopo, Piero, parlando del tempo in cui non
sarebbe più venuto da me, rinunciò al suo primo progetto di proseguire fino
a 85 anni e dichiarò che avrebbe finito a dieci anni, aggiunse: “Allora verrà da
te mia sorella”. Progettava di lasciare da me la sua piccolezza?
C’era un lontano precedente. Il primo incontro con Piero era avvenuto
nella stanza di psicoterapia insieme alla mamma. Dopo una lunga fase di
esitazione Piero aveva sbirciato nel cassetto, aveva cominciato a prendere i
giochi e passato in rassegna i pupazzi che componevano la famiglia. Della
futura “bambina piccola” aveva detto: “questo non serve” e alla madre:
“tienilo tu”. Poi aveva cominciato a prendere gli animali e a farli combattere;
ma aveva escluso dal combattimento gli animali piccoli: “Questi non
servono”.
Scorrendo le sedute successive a quella che ho riportato sopra, ho
trovato la frase sulle sorelle piccole. Con un po’ di stupore che fosse stato
tanto facile. Se cerchiamo un passo in un libro che conosciamo bene, non ci
meravigliamo di avere sfogliato proprio le pagine in cui effettivamente
ritroviamo quel passo. Ma gli appunti delle sedute non sono il vero testo, ne
sono solo una traccia; il testo è la seduta, il libro mai completamente
decifrabile è la cura. La scrittura che rielabora, quando c’è, è un altro
passaggio 2 .
2
O forse dovrei dire uno dei passaggi, perché ci sono molti livelli di scrittura. Ci sono tempi e forme personali
- come personale è il modo di stare con il paziente - dello scrivere di psicoanalisi.
5
Dunque ho trovato la frase. La seduta cui apparteneva mi ha a sua
volta sorpreso: ho scoperto di sapere dove cercarla, ma anche che non me la
ricordavo affatto.
Prima di riaprire a quel punto il mio quaderno, ripercorrerò le due
sedute intermedie.
Intanto quella che precedeva le vacanze di Pasqua. Piero considera i
pastelli rosa, dice che avrebbe bisogno anche di un pastello grigio e di uno
viola. Ma ci sono già e li abbiamo usati varie volte. Lui: “E’ tanto tempo che
non vengo più qui che non mi ricordo niente!” 3 . Poi apre la porta, sporge
appena il capo per dire alla madre che lo aspetta nella stanza accanto: “Non
andare a fare la pipì! Se ci vai ti do un cucco”. Intanto si colpisce la testa col
pugno chiuso (per l’appunto un “cucco”). Allora commenta meravigliato:
“però me lo sono dato a me”.
Comincia a mescolare i colori dei pastelli scegliendoli a coppie. A un
certo punto va al cassetto con atteggiamento incerto e mi chiede che giorno è
oggi. Rispondo che è mercoledì. “Ma che numero?”. Glielo dico e guardiamo
insieme sull’agenda le date delle vacanze. E’ attentissimo e sottolinea con il
dito il giorno in cui tornerà. Poi usa l’agenda per farmi vedere il giorno del
suo compleanno e quasi tutti i compleanni della sua famiglia (nonni e zii
compresi). Si ricorda del gioco della volta scorsa: “Ah, dobbiamo farlo per
tutto il tempo!”. Mi chiede di dire se tengo per il toro o per il leone ed è
palese che cosa desidera. Tengo per il toro e Piero è molto contento della mia
scelta pericolosa.
Verso la fine della seduta giunge acuto dall’esterno l’urlo della sirena di
un’ambulanza. Piero domanda con angoscia: ”Chi è che si è fatto male?” e
aggiunge: “Vado un momento da mia madre”. Tuttavia è sufficiente che io gli
dica che è meglio di no perché torni con foga alla sua battaglia. Alla fine
ripone accuratamente i giochi, chiude a chiave personalmente il cassetto e se
ne va.
Quando torna, la settimana dopo Pasqua, fa un silenzioso giro di
ricognizione nella stanza. Tiene le labbra protese in fuori con un’espressione
imbronciata. Non mi guarda e non dice nulla. Prende dal cassetto il pacco dei
3
“Tanto tempo”: un’anticipazione della separazione per la vacanza pasquale? Il tempo è separazione. Piero gli oppone
una competenza cognitiva singolare per un bambino di cinque anni e all’occorrenza ricorre a tutto il suo vasto repertorio
di date di compleanni e al suo dominio del calendario. Il tempo della nostra seduta è anche uno spazio. Se si disfa si
disfano i confini. Oppure resta a malapena un confine esile. Un bambino può ridursi a un palloncino che vola via, come
era successo col primo disegno di Piero nella nostra prima seduta, o meglio nella seconda (la prima senza la presenza
della mamma).
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suoi disegni e si mette a guardare i fogli in cui erano stati segnati i punteggi
delle gare, anzi pare sprofondare, sempre più infelice, nella lettura dei punti.
Passa così il primo quarto d’ora. Poi prende due pezzetti di plastilina, li
mescola insieme strettamente. Io dico che sono diventati una cosa sola. Li
schiaccia sulla punta della vela della barca, poi chiude il cassetto e se ne sta lì,
zitto, con la sua espressione imbronciata. Allora dico che è un po’ di tempo
che lui non può venire qui. Mi ascolta attento, con espressione tristissima,
senza guardarmi. Azzardo: “Forse ti sei un po’ arrabbiato per questo”. Lui fa
cenno di no con la testa. Mi correggo: “Forse ti è dispiaciuto”. Qui Piero
comincia un lungo “gioco” triste con la corda, la tiene in mano per un capo, la
fa scendere davanti a sé tutta aggrovigliata, la tagliuzza con le forbici, ne
stacca dei piccolissimi pezzi. Passano almeno cinque minuti. Poi lega un capo
della corda alla maniglia di un cassetto della cassettiera assicurandosi prima
che sia chiuso (non è il suo). Fa un nodo molto complicato e cerca di legare
l’altro capo a uno sgabello. Si accorge che la corda è molto corta e, sempre
zitto, mi guarda e fa un gesto di scoraggiamento. Suggerisco che con un nodo
la corda diventerebbe abbastanza lunga. Lui mi porge un pezzo di corda
perché lo annodi al primo, poi cerca di fissare l’altro capo a uno sgabello con
un nodo. Ma il nodo è largo e cade a terra. Piero è di nuovo sconsolato. Qui
mi parla per la prima volta; dice tristemente che “il nodo non sta su”.
Suggerisco di spostare lo sgabello per “fare stare su il nodo”, e l’aiuto a
sistemarlo. Di colpo Piero si rasserena 4 .
Cerca nel cassetto il padre, toglie la plastilina dalla punta della barca,
mette la barca sul pavimento. Mi spiega che chi andava sullo sgabello o sulla
barca moriva. Precisa: “Se tu andavi sullo sgabello o sulla barca morivi. Ma se
cadevi giù potevi cercare di andare su per la corda, così non morivi”. Mi
porge un pastello da legare a un pezzetto di spago da legare a sua volta alla
corda tesa in modo che il pastello penzoli verso il pavimento. “Era un coso”.
Poi il coso diventa un ago. Se uno cadeva si arrampicava su per la corda
dell’ago, l’ago cuciva la corda che così era più robusta. Ma lo squalo poteva
tagliare le corde degli aghi e allora si moriva. Mi propone di legare degli altri
pastelli e intanto mi prepara tanti piccoli pezzi di spago con le forbici.
Osserva che lui usa tutta la corda (e non è la prima volta che commenta da sé
il largo uso che ne fa). Io annodo ogni pezzetto da una parte alla corda lunga
e dall’altra a un pastello. I pastelli penzolano verticali dalla fune. Piero è
molto contento: “Sei stanca o puoi legarne degli altri?”. Dato che “non sono
stanca” mi fa legare fino all’ultimo pastello e anche le matite, mentre lui “si
riposa un po’”. Poi bisognerà legare lo squalo terrestre (probabilmente
sempre il toro), ma prima io devo legare il babbo sul trampolino. Chiedo:
4
Abbiamo riannodato l’holding?
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“Come nel disegno?” e lui: “Ti ricordi?” e mi fa un riassunto eccitato e un po’
confuso di tutto quello che accadeva in quel suo disegno, compreso il
particolare di una spada che trafiggeva il palloncino. Poi: “Credo che non lo
farò più quel disegno”. Domando: “E’ troppo pericoloso?” e Piero: “E’ troppo
difficile” 5 .
Mi sussurra che il padre cadrà nell’acqua e morirà. Parliamo di questo a
voce bassa. Poi: “Lucia [è rarissimo che Piero mi chiami per nome], devi
legare un’altra gamba del toro”. Il toro voleva sempre mangiare la bambina
piccola. Fa un progetto di battaglia allargata in cui interverranno animali
amici del toro e altri amici del leone. Prima che cominci ne parliamo
sussurrando come cospiratori. Gli aghi sono amici del leone e difendono
anche loro la bambina piccola che viene posta proprio davanti alle corna del
toro slegato, ma arriva il bambino a cavallo della giraffa per salvarla. Ora
vorrebbe andare fuori dalla mamma a farle vedere un missile di carta
costruito tempo fa e sul quale aveva scritto il proprio nome e quelli della
sorella e dei genitori. Rispondo che è meglio finire prima la seduta. Piero
ricomincia la battaglia e soprattutto mi racconta sottovoce quello che può
accadere. Siamo alla fine e lui dice che la cosa da fare è tagliare tutte le corde
degli aghi e tutti i nodi. Fa i tagli con lo “squalo-forbici” e annuncia che erano
morti solo gli aghi, non il toro. “Non era morto nessuno. Solo gli aghi”. Esce
con il missile in mano da mostrare alla mamma, poi me lo restituisce perché
io lo metta nel cassetto.
La seduta successiva è quella della frase sulle sorelle. Apprendo dai
miei appunti che proprio quel giorno “avevo deciso di lasciare giù la madre”.
Vedevo Piero a Bologna, due volte la settimana, nella stanza del
Dipartimento di Psicologia destinata alla psicoterapia infantile. Veniva con la
mamma in corriera dal loro paese e a causa degli orari della corriera
arrivavano spesso con molto anticipo. Sedevano nell’ingresso ad aspettare.
Quando scendevo a prendere Piero, la mamma saliva con noi al primo piano
e restava nell’atrio adiacente alla nostra stanza. Permettevo questa vicinanza
non solo perché l’angoscia di separazione del bambino era molto grande, ma
soprattutto perché sapevo che la mamma portandomi il bambino portava sia
pure indirettamente in cura tutta la paura che aveva provato da bambina, da
adolescente, da sposata, da madre e che provava ancora, una paura che mi
aveva raccontato con dignità e candore nei colloqui preliminari che avevo
avuto con i genitori. Però erano passati quasi sei mesi e cominciavo a
chiedermi se ormai non ero io ad avere paura di separarli o di separarci.
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“Pericoloso” era troppo interpretativo. Piero mi corregge con “difficile”. Nel teatro delle nostre sedute possono essere
rappresentate le scene più drammatiche, ma se ne può parlare solo con molta discrezione.
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Comunque oggi la mia intenzione di lasciare la madre ad aspettare di
sotto fallisce perché Piero e la mamma sono già seduti davanti alla porta della
nostra stanza.
Entrando Piero si ferma sulla soglia, si volta per dire alla madre: “Ci
vediamo dopo?”. Ha bisogno della corda lunga e ritroviamo nel cassetto
l’unico pezzo ancora abbastanza lungo. “Ah, è quella degli aghi! Questa volta
vinceranno gli aghi!”. Leghiamo i due capi a un cassetto e allo sgabello, poi
occorre legare il leone e il toro e anche l’orso, amico del leone. Intanto Piero
ha preso dal suo cassetto la bambina piccola, la sua carrozzina, il bambino e il
babbo. Va a fare pipì nel bagno privato della stanza di psicoterapia. Torna e
mette la bambina in carrozzina: “Voleva farsi spingere da suo fratello”. Poi
aggiunge con un sorriso d’intesa: “E’ come mia sorella”. [E’ la prima volta che
ciò viene detto esplicitamente]. Seguono alcuni tentativi di fare guidare la
carrozzina dal bambino o dal padre. Alla fine è il bambino a guidarla. La
bambina viene sistemata con molta cura nella carrozzina, Piero le mette una
“copertina”, un piccolo biberon, la bambina sembra una neonata. Dico:
“Questa bambina era molto piccola”. E Piero: “Tutte le sorelle sono molto
piccole” [dunque la frase non è esattamente come la ricordavo]. Poi precisa:
“La mia ha due anni”. Mi dice in che giorno li ha compiuti, oggi poi è il
compleanno di sua cugina, e dopo ci sarà il compleanno di un suo amico che
ora ha quattro anni e ne compirà cinque il tal giorno di agosto.
Mi informa che sotto la corda c’è il mare. Ora dobbiamo cercare nel
cassetto la mamma: “Mamma dove sei? …La mamma era malata”. Quando la
troviamo le prepara un letto di plastilina. Si corregge: “La mamma era morta.
Dammi del pongo che le faccio una bara”. Ricopre completamente la mamma
con la plastilina e ne aggiunge ancora per coprirla di terra. Sul tumulo incide
con il cappello del babbo una croce.
Cerca nel cassetto la nonna. La “nonna” di solito è la madre del padre,
quella che Piero vede di più, perché il suo papà, il nonno e lo zio paterni
hanno costruito una casa dove abitano tutti, ciascuna famiglia in un
appartamento. Ma oggi la nonna è quella materna. “Era sua figlia che era
morta”, mi spiega Piero. La morte della madre è annunciata senza nessuna
emozione. Dopo un po’ Piero mi dice che la mamma si era solo nascosta per
non vedere la battaglia.
Pioveva e tutti avevano il cappello. Il bambino aveva il cappello del
padre e tutti gli altri membri della famiglia portavano il cappello di un altro.
“Ma indovina chi era il capo: era il bambino!”. Anche la nonna “va dentro al
pongo con la mamma” per non vedere la battaglia e perché pioveva. Piero
mormora tra sé: “sotto controllo”.
Dovrebbe cominciare la battaglia e il bambino porta la carrozzina della
bimba piccola sul tetto della casa per metterla al sicuro. Il bambino si tuffa in
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mare dal bordo della cassettiera e mentre si tuffa io devo mettergli in testa il
cappello del padre. Più tardi sta per essere mangiato dallo squalo, ma si salva
perché chiama in aiuto il padre. Poi il padre cade in acqua, ma “era solo
caduto”. Il bambino guida l’ambulanza per andare in mare e sull’ambulanza
è appoggiato il cappello del padre. Infine la battaglia, che oggi non c’è quasi
stata, è finita e Piero ripone tutto nel cassetto. Lo chiude: “Non so cosa fare”.
Poi però mi chiede di prendere dal cassetto tutti quelli della famiglia e man
mano che glieli porgo li fa parlare tra loro dentro alla casa senza farmi sentire
che cosa dicono.
Sulla cassettiera ci sono alcuni altri giochi usciti fuori mentre cercavamo
i membri della famiglia. Mi chiede di metterli via, perché se lasciamo fuori i
giochi i bambini li possono rubare. “Se un bambino ti dice: ‘lascia fuori i
giochi…’ “. Rispondo che se lui lascia fuori i giochi io alla fine glieli metto nel
cassetto così poi li ritrova. “Allora mettili dentro”. Lo faccio e intanto Piero
mette in fila la famiglia dentro alla casetta. Capofila è il bambino con il
cappello del padre: “è il primo capo”. Segue il padre “secondo capo”, poi il
nonno, la bambina piccola, la mamma e la nonna. “La nostra battaglia è
finita”. Io: “Sì? Chi ha vinto?”. “Non ha vinto nessuno. Non era una battaglia.
Il primo capo è il bambino”. Ripone la famiglia nel cassetto e chiude a
chiave.
Abbiamo ancora tempo e lui non sa se riaprire o no il cassetto. Lo apre,
prende il missile: “Mi è venuta un’idea, lo porto a casa così mia madre mi fa
una barca”. Io: “Possiamo farla qui”. “Tu non sei capace di fare gli aerei
[prerogativa del padre]; ne porto a casa due così mio padre fa un aereo e mia
madre una barca”. Gli do due fogli bianchi, nel primo scrive il nome del
padre e disegna molto rapidamente un bambino vicino al sole. Chiedo chi è.
“E’ Gesù. Tu non lo sai vero chi è Gesù?”. E’ sicuro che io non lo sappia. Dice
che sua cugina va alla dottrina. Chiedo: ”Poi ti racconta?”. “No, lo racconta
solo a sua madre. E quando ci vado, anch’io lo racconterò solo a mia madre”.
Nel foglio dove ha scritto il nome della mamma dice che farà “la
madonnina”. Invece disegna due omini, uno grande e l’altro più piccolo che
giocano al pallone. Al più piccolo è scivolato il piede (quello con cui doveva
calciare) e così ha perso una scarpa. Poiché questo era il foglio con il nome
della mamma destinato al disegno della madonnina, cancella i nomi da
entrambi i fogli, scrive su questo il nome del papà e sull’altro quello della
mamma. Si porta via i due fogli per far costruire ai genitori l’aereo e la barca.
Chi è Gesù? Io non lo so. Quando, nel disegno con il nome del padre, ho
visto questo bambino vicino al sole ho chiesto: “chi è?”
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Gesù è il Figlio del Padre, l’Unigenito. Ma il segreto della sua identità e
tutti i segreti che ne conseguono si possono spartire solo con la madre, come
fa la cuginetta, come farà Piero stesso quando andrà alla dottrina.
Ciò che invertirà l’attribuzione al padre e alla madre dei due disegni è il
fatto che, in quello che ha già intitolato col nome della mamma, invece della
madonnina viene fuori una partita al pallone tra un papà e il suo bambino e
al bambino è scivolato il piede, ha perso la scarpa, non può calciare…
Insomma non è più il “primo capo” che poco fa portava trionfalmente il
cappello del padre e lo precedeva nella fila.
D’altra parte il fatto che la bambina piccola si espliciti nel suo compito
rappresentativo (“era come mia sorella”) e, nel tempo di questa seduta, si
presenti come più individuata, più separata, implica da un lato l’angoscia dei
rivali del nostro spazio e dell’esclusività della nostra reciproca appartenenza
(i bambini che possono rubare dal suo cassetto), dall’altro lato (ma non è
sempre lo stesso?) la sparizione della mamma (“Mamma dove sei? …La
mamma era malata” […] “La mamma era morta. Dammi del pongo che le
faccio una bara”).
Quale mamma scompare? Quella che portava dentro di sé Piero e la
bambina piccola, come nelle fantasie del piccolo Hans, per cui erano tutti
insieme un’unica cosa e Piero e la piccola erano mescolati (con tutti gli altri
piccoli potenziali) nella stessa pancia? La mamma oggetto-soggettivo che si
era annerita come quella di Piggle alla nascita della sorellina? La mamma che
aveva fatto una piccola sorella femmina, “femminile” come lo erano la
mamma stessa e la nonna? La mamma che non poteva/doveva vedere che il
toro Piero voleva mangiarsi la bambina? (E se non lo vedeva, tutto era “sotto
controllo”?).
Moriva e veniva messa nella bara, e così capitava alla nonna che per
una volta era la madre della madre. (Mentre era consueto che ci fossero il
padre e il padre del padre, non solo a rappresentare un piccolo tracciato
genealogico, ma anche una paternità soccorritrice raddoppiata). Questa
morte, sia pure limitata dalla versione dell’essersi nascosta per non vedere la
battaglia, è annunciata con assoluta tranquillità, cosa nuovissima in Piero che,
ogni volta che sente passare un’ambulanza, chiede sgomento: “è successo
qualcosa a mia madre o a mia sorella?”. E a me viene in mente - non allora,
ora - quello che Freud scriveva a Jones e a Ferenczi, nei giorni successivi alla
morte della madre, dei sentimenti di sollievo, di liberazione che quella morte
aveva suscitato in lui, sebbene, come specificava, non si potesse sapere che
cosa questa morte avrebbe modificato negli “strati più profondi”.
Per trovare la continuità tra l’essere tutt’uno con la mamma e la
situazione edipica Piero ha bisogno della discontinuità di questa “morte”
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intermedia? E il difficile approdo al complesso edipico è complicato dal
complesso fraterno?
Meno di un mese dopo (ho continuato a leggere il mio quaderno) Piero
scava due buchi ai lati di un pilone della galleria che abbiamo appena
ricostruito: “In questi due buchi c’è il latte che le mucche vanno a bere.
Intorno al pilone viene giù dell’acqua bollente, che poi diventa latte. Nel latte
c’è del veleno, ma non importa, perché queste mucche potevano bere il
veleno. A loro non faceva male. Qui [intorno al “pilone” che regge un lato
della galleria] era bollente e poi c’era sopra questo [un piccolo strato di
plastilina] e diventava freddo. Vedi che diventa blu? Era freddo”. Prende dal
cassetto gli animali e mi propone di dare un titolo al nostro gioco: “Mi è
venuta un’idea. La chiamiamo ‘la guerra delle pecore’ ”. Io scrivo il titolo.
Sulla cassettiera ci sono due mucche legate. Piero si ricorda che non si
tratta di pecore e mi fa scrivere un altro cartello corretto. Ma poi continua a
“confonderle” e a chiamarle ora in un modo ora nell’altro. [Le “pecore” nei
nostri giochi indicano i piccoli].
Mi chiede che cosa è successo all’alce. L’alce la volta scorsa faceva
scappare le mucche. Anche oggi le fa scappare, ma alla fine il papà riesce a
riprenderle.
Piero mi fa vedere che, se una corda delle mucche viene tagliata, una
mucca cade di sotto, nell’acqua bollente, che non è ancora diventata latte. Poi
riunisce sulla cassettiera gli animali amici del papà, non quelli piccoli che
“non servono”. Una delle mucche viene fatta cadere di sotto (tagliando
accuratamente la corda che la legava), poi viene caricata sulla schiena del
papà. L’altra mucca si scontra con il toro, il leone, l’orso. Ferisce l’orso che da
qualche tempo comincia a rappresentare Piero. “Vedi dove lo aveva
colpito?”. Di solito l’orso viene colpito nel “piccarino” - il nome che Piero dà
al pene – ma oggi no: “l’aveva colpito nella pancia”. L’orso sta per morire, ma
poi si riprende. Intanto l’alce cerca di fare cadere il papà nell’acqua
bollente/latte con veleno, ma l’orso ogni volta riesce a salvarlo. Poi la mucca
combatte in modo furibondo con gli animali.
Piero mi fa vedere: “l’orso le taglia le mammelle”. Infine mi annuncia
improvvisamente che la mucca è morta. Mi fa “rivedere” come era
accaduto… La mucca stava combattendo con l’orso, ma c’era lì il toro e… la
mucca è morta e la battaglia è finita. Piero disegna sulla cassettiera con un
pastello le gocce di sangue. Poi va al suo cassetto e dice che non ha più voglia
di giocare. L’atteggiamento e il tono di voce sono quelli di un dolore
percepito nel corpo.
Dico che non ha più voglia di giocare perché questo gioco gli ha fatto
paura, ma sono stata troppo diretta e mi sembra di averlo spaventato di più.
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Allora dico che io penso che questo maialino piccolo - prendo il maialino
piccolo dalla schiena del papà su cui per qualche ragione si trovava – abbia
avuto molta paura di questo gioco. Ora Piero è proteso ad ascoltarmi.
Proseguo. “Questo maialino piccolo ha avuto paura, perché aveva paura se
qualcuno moriva”. Piero: ”sì”. Aggiungo: “Ha avuto paura di questo gioco
dove c’era il latte con il veleno e la mucca era morta e allora non c’era più
latte e lui ne aveva tanto bisogno per diventare grande”. A ogni mia frase
Piero risponde “sì”. Dice anche: “aveva paura se qualcuno moriva”. Poi
ripete che non vuole più giocare. Io dico che ha avuto paura di questo gioco.
Piero: “Sì”. Io: “I giochi delle volte fanno paura come certi sogni”. E Piero con
persuasione: “Sì”.
Si mette a sedere sul pavimento e io mi siedo sul pavimento accanto a
lui. Ha in mano il pastello rosso con cui ha fatto le macchie di sangue, ricalca
una fessura del pavimento e la copre con il colore. Io: “Chiudiamo le fessure
del pavimento?”. “Sì”. “Così non ci sono più fessure?”. “Sì”. Dice che gli
serve un pastello blu. Propongo: ”Lo vai a prendere tu?”. Un poco
rinfrancato: “Sì”. Va a prendere anche il pastello grigio e continuiamo a
riempire le fessure con il grigio e con il blu.
Intanto Piero comincia a parlarmi: “Questa mattina mi sono svegliato
alle sette. Credevo che fosse lunedì. Invece quando mi sono svegliato mio
padre era già andato via. Lui va via alle sette o alle sei o alle cinque”.
Domando: “E allora, quando ti sei accorto che era andato via, che cosa hai
pensato?”. “Ho pensato: “è mercoledì” e sono venuto con mia madre. [Il
lunedì e il mercoledì sono i giorni delle nostre sedute. La volta scorsa, lunedì,
si era tagliato al momento di andare via un pezzetto di corda - “tagliato su
misura” - e l’aveva portato con sé].
Lo accompagno giù (la mamma ormai lo aspetta sempre di sotto) e per
le scale mi dà la mano (non è mai capitato). Ha ancora un’espressione molto
seria. Si illumina quando vede la macchina del padre parcheggiata davanti
all’ingresso e me la mostra col dito, poi raggiunge la madre e si volta a
salutarmi con la mano. Nel risalire lo vedo attraverso la vetrata, sta
guardando in su per vedermi passare. Mi fa un altro cenno con la mano
guardandomi con molta gravità.
Nella seduta successiva, dopo avermi raccontato quello che ha vinto
alla festa dell’Unità: “ …La mamma ha detto che non ha la cacca. Tu devi
mettere un sapone e un asciugamano in questo bagno [accenna nella
direzione del corridoio, dove effettivamente c’è un bagno] se no la mamma
non può lavarsi il culo, resta col culo sporco. Non può mica usare tutta la
carta igienica”. Intanto ha preso dal cassetto il padre, il bambino e la
bambina. Guarda con soddisfazione i cartelli della guerra delle pecore e delle
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mucche e mi fa un sorriso d’ intesa. Nella galleria c’è una mucca nelle sabbie
mobili. Sopra ci sono le armi del babbo e un missile che era arrivato con un
grande peso (un succhiotto-spada di plastilina sospeso a una cordicella).
Quando veniva tagliata la cordicella il peso cadeva su qualcuno: “Io lo so su
chi cadeva, ma non te lo dico. Te lo faccio vedere. Lo vedrai quando è ora.
Adesso non guardare 6 . Guarda i miei disegni”.
Guardo i suoi disegni e viene anche Piero a guardare quando ne trovo
uno dove c’era un peso che cadeva: “Questa volta il masso cadeva sulla
bambina piccola, ma suo fratello la salvava”.
Quando posso guardare la bambina è già sotto il masso, il fratello è lì
vicino con la pistola del papà: “La salvava sparando alla corda che teneva su
il masso” [sebbene sia così che il masso cade sulla bambina]. Poi Piero mi
dice: “tu eri un ladro”. Devo aspettare che venga buio per rubare insieme al
toro le armi del babbo che però sono del bambino. “La bambina piccola e il
fratello dormivano insieme nel camino. Il padre e la madre guardavano la
televisione. Il nonno lavorava sul tetto e poi andava a dormire con la nonna”.
A questo punto il toro ruba il fucile e la pistola e cerca di nascondersi; il
padre lo fa inseguire dal leone e dall’orso. Alla fine della seduta Piero mi
dice: “Sai chi moriva? Morivo io” e fa vincere il toro. Conclude: “Hai vinto
tu” [situazione complessa perché ha vinto il ladro, perciò io sono lui].
Poiché per molte sedute tutti gli animali vorranno mangiare la bambina
bisogna stabilire i turni. Facciamo anche degli animali di carta da aggiungere
a quelli del cassetto e intanto Piero mi racconta della sorellina che vuole
sempre vincere quando giocano a rubamazzo e dei genitori che vogliono
guardare alla TV quello che piace a loro. All’asilo la maestra di inglese ha
insegnato i nomi degli animali, me li ripete tutti. Ma ne imparerà ancora degli
altri. La mamma ha promesso che per il suo compleanno lo terrà a casa
dall’asilo. Dico: “A te piace andare all’asilo”. Piero: “No”. [Sebbene una delle
ragioni che ha spinto i genitori a chiedere una psicoterapia siano stati i pianti
disperati già dalla sera prima di ogni giorno d’asilo, io “so” che, al di là della
sua angoscia di separazione, a Piero piace moltissimo la scuola materna].
Continuo: “Ti piace imparare l’inglese”. Piero: “Mia madre dice di no”. “E
Piero che cosa dice?”. “Piero: “Io dico di sì. Mia madre dice che non imparo.
Mi chiede: ‘che cosa hai imparato oggi? Come si dice cavallo, come si dice
biscia? E io non mi ricordo. Lo so, ma non mi ricordo. Si dice…” e di nuovo
mi elenca tutti i nomi che ha imparato in inglese. Poi, con fierezza: “Mia
sorella sa già una parola in inglese”. Me la dice. Chiedo se gliel’ha insegnata
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Se guardo posso diventare pericolosa, sapere troppo e troppo presto. Inoltre se guardo posso diventare una invadente e
castrante istanza superegoica. C’è questo doppio livello che concerne la salvaguardia della delicatezza dello “I am” e
l’autorizzazione al contatto con le spinte pulsionali.
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lui. “No, io non lo insegno a lei, solo a mia madre e a mio padre. Mia cugina
le insegna delle parole sbagliate. Le dice che l’asino si chiama ‘alello’. Che
cosa vuol dire ‘alello’?! Io le dico: ‘si dice asino’”.
A questo punto è pronto per la battaglia. La bambina è in piedi su una
finestra della casetta, il bambino e il babbo sorvegliano la situazione dalla
cassettiera. Il rinoceronte vuole mangiarla e io devo farlo muovere secondo le
indicazioni di Piero. Per non farsi scoprire il rinoceronte si traveste da altri
animali e alla fine anche da “fratello della bambina”. Ora Piero decide di
venire a muoverlo lui stesso; io devo andare vicino al babbo. Poi il babbo si
addormenta, anch’io devo chiudere gli occhi e il finto fratello si impadronisce
della bambina piccola. Il babbo quando si sveglia pensa che la piccola sia
andata col fratello, ma il bambino è lì, allora sarà andata con la nonna. La
bambina è tutta avvolta nella plastilina che copre il rinoceronte. Ma quando
sta per essere divorata il padre vola a salvarla.
In un’altra seduta lo squalo si traveste da pecora e rapisce la bambina
protetta dal fratello, dal padre e dal nonno. La carrozzina della piccola
diventa una bocca di squalo e anche un’arma segreta del nonno. Il nonno ne
aveva fatto un’arma dato che la bambina ormai non ne aveva più bisogno,
sapeva camminare. E’ l’unica volta che il gioco diventa pericoloso perché
Piero fa roteare la carrozzina-squalo, legata a una zampa del leone, a grande
velocità. Dico che così possiamo farci male, allora la carrozzina viene affidata
a me perché la muova regolandone la velocità. Il bambino è capo della
battaglia. Lo squalo se lo trova di fronte. Piero dice: “Così se vince [il
bambino], se la mangia lui”. Io ripeto: “Ah, se la mangia lui”. Piero sembra
accorgersi solo ora di quello che ha detto, diventa serio: “No”. Dopo
dobbiamo finire di disegnare il pavimento. Ci sono ancora i segni dell’altra
volta: “Ce li hai lasciati! Hai fatto bene”. Precisa che sta disegnando, anzi
“costruendo” un castello, ma non deve sporcarsi le scarpe, altrimenti la
mamma le lava, le fa asciugare sul termosifone e le scarpe diventano piccole.
In questa rilettura degli appunti, sempre lo stesso quaderno, ritrovo un
“fatto” della nostra vicenda analitica di cui mi sembra di ricordare tutto,
tranne che sia cominciato così presto.
Sono passati meno di due mesi dalla seduta che qui ho presentato per
prima. Oggi si inizia al solito modo. Tutti gli animali vogliono mangiare la
bambina. Ma non la mucca “che non la può mangiare” e neanche il maialino
di dieci anni [però in una seduta successiva al maialino di dieci anni ne verrà
dato dagli animali divoratori “un pezzettino da mangiare, purché stia lì”, con
loro]. Il babbo e il bambino si addormentano, io mi addormento e gli animali
si portano via la bambina e anche il fucile e la pistola del padre.
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Poi il papà era morto. Il bambino deve chiamare anche i nonni e la
mamma. Anche la nonna era morta. Anche la mamma. Devo addormentarmi
di nuovo e Piero viene a rubare il padre. Io-bambino manifesto stupore
svegliandomi. Piero mi suggerisce tutte le parole: “Il babbo sarà andato a fare
una passeggiata. Mah, se era morto! L’avranno portato a seppellire”. Quando
“dormo” di nuovo Piero viene a rubare tutta la famiglia, anche il bambino.
Poi ci scambiamo le parti, io vado con gli animali. Devo dire – seguendo i
suoi suggerimenti - chi vogliono mangiarsi e Piero ascolta con grande
piacere.
La bambina, evidentemente molto appetitosa, è nella bocca del
coccodrillo e anche il lupo ne vuole un pezzo. C’è un vero e proprio
banchetto, anzi tutti gli animali si trasferiscono a mangiare dentro alla casetta.
A un certo punto gli schieramenti tra gli animali voraci e i salvatori non sono
più chiari e sembra che gli animali che stanno mangiandosi la bambina siano
amici del bambino.
Ed ecco che cosa leggo negli appunti: “Negli ultimi minuti si svolge una
scena molto drammatica. Il bambino è caduto in una trappola di plastilina.
Questa lo avvolge completamente. Interviene in suo aiuto l’orso, ma viene
avvolto anche lui. Poi tocca ancora al bambino. Per liberarsi l’orso aveva
usato la pistola e il fucile, ma questa ‘cosa’ – Piero la chiama così – si mangia
di nuovo il bambino e anche la pistola. Il bambino fa dei terribili sforzi per
liberarsi, ma viene sempre inghiottito di nuovo. Io commento: ‘Che fatica
faceva per venir fuori!’. Piero mi spiega che questa ‘cosa’ si chiama ‘pancia
inghiottita’. Mi fa vedere come questa pancia diventava liscia (la sbatte con
tutte le sue forze sul pavimento). ‘Vedi, quando diventa così liscia è segno che
è contenta, le piace mangiare il bambino e anche la pistola’.
In aiuto del bambino interviene lo squalo che comincia a tagliare con
grandi sforbiciate la pancia inghiottita. Io commento che lo squalo era quello
che tagliava sempre le corde [ faceva precipitare chi vi era appeso], ma ora
taglia per salvare. Piero risponde con grande convinzione che è così, e
continua a colpire e tagliare la pancia inghiottita. Benché lacerata questa si
ricompone e riavvolge il bambino che da dentro chiama flebilmente ‘aiuto’.
Le forbici-squalo rispondono: ‘eccomi; sono qui’. Alla fine con enorme sforzo
il bambino e lo squalo si liberano, ma Piero è molto preoccupato che la pancia
si sia mangiata la pistola. ‘La pistola è andata qua in mezzo’ dice angosciato
come se ci fosse il rischio di non ritrovarla più dentro alla plastilina. Grande
sollievo quando io rintraccio la piccolissima pistola e la libero dalla plastilina.
Ora si guarda i pantaloni bianchi che si sono sporcati. Prova a cancellare le
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macchie di plastilina, peggiorando la situazione. Dice che la mamma lo
sgriderà, che vorrà mettergli un grembiule!” 7 .
La pancia inghiottita ci riporta in una zona di “confusione”, il nome
stesso è perturbante, certo non è una limpida pancia inghiottente, è una
pancia inghiottita. Ma il procedere di una cura non è mai lineare, non si va
diritti dall’oscurità alla chiarezza, dall’indistinto al separato.
Molto più avanti ci saranno sedute meno movimentate, meno
affascinanti, in cui non succederà granché, perché lo scopo principale di Piero
sembrerà quello di estenuarmi, di finirmi. Ma non aprirò gli altri quattro
quaderni di appunti, restiamo qui, al punto in cui tutte le sorelle sono piccole,
anzi sono molto piccole, anche quando cominciano a crescere un po’.
RIASSUNTO
A distanza di molti anni l’autrice rilegge gli appunti delle sedute con un
bambino che aveva una sorellina e pensava che “tutte le sorelle sono piccole”.
SUMMARY
“All sisters are little”
After many years the Author reads again her notes about the sessions with a
little boy who had a sister and thought that "all sisters are little".
KEY WORDS: primordial hate; space for the Self; littleness/feminity;
castration anxiety.
MARIA LUCIA MASCAGNI
via Padova, 122
41100 MODENA
[email protected]
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Sappiamo tutti quanto siano pesanti i nostri grembiuli superegoici.
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