L`aporia dello Stato in Fichte. L`egemonia della politica sull

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L`aporia dello Stato in Fichte. L`egemonia della politica sull
L’aporia dello Stato in Fichte.
L’egemonia della politica sull’economia come reazione all’epoca della
compiuta peccaminosità.
di Diego Fusaro
“Nell’ambito di ciò che io chiamo filosofia non
può entrare nulla di statico, immobile e morto. In
essa tutto è azione, movimento e vita; essa non
trova nulla, ma fa sorgere tutto sotto i propri
occhi: e ciò al punto che io rifiuto interamente il
nome di filosofia a quel commercio con morti
concetti”.
(J.G. Fichte, Lettera privata del gennaio 1800)
1. Premessa. Verso una storia critica delle idee.
In prima approssimazione, il compito di una “storia critica delle idee” può essere
delineato su due fronti, che solo astrattamente e in funzione espositiva possono essere
distinti, perché nella pratica concreta della disciplina costituiscono una unità inscindibile.
Per un verso, essa è chiamata a soffermare la sua attenzione, diacronicamente, sulle faglie
e sulle discontinuità che si generano nella trasmissione delle forme culturali e simboliche
e che vanno immancabilmente a scuotere la continuità narrativa inerziale di una data
cultura, intessuta di schemi identitari e di tetragone permanenze. Per un altro verso, la
“storia critica delle idee” deve occuparsi del nesso inscindibile che viene a instaurarsi in
ogni momento storico, lungo l’asse della sincronia, tra il pensiero e i codici culturali, da
una parte, e le condizioni materiali della produzione e del potere, dall’altra, mostrandone
la fitta rete di coimplicazione e assumendo come proprio privilegiato oggetto d’analisi la
“zona di scambio” tra idee e realtà, tra costellazioni concettuali e costellazioni sociopolitiche. Si potrebbe anche dire, da un certo punto di vista, che la “storia critica delle
idee” si regge sul tentativo di coniugare Foucault e Marx, facendo interagire il
programma di ricerca del primo – con la sua attenzione per le discontinuità storica e per
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l’ordre du discours [1] – con la “concezione materialistica” [2] e con lo smascheramento
delle formazioni ideologiche tematizzate dal secondo, epurate però dal riduzionismo che
potenzialmente le caratterizza fin dal loro atto genetico e che storicamente le ha
caratterizzate lungo gli snodi in cui sono venute articolandosi le “avventure della
dialettica” del marxismo novecentesco.
Del resto, nella stessa figura concettuale posta in essere dalla “storia critica delle
idee” vi è un fecondo rimando reciproco – foucaultiano e, insieme, marxiano [3] – tra la
componente critica e quella storica centrato sul presupposto per cui, da un lato, la critica,
per essere tale, deve assumere come costante riferimento il divenire storico come luogo
delle rotture e delle faglie che ritmano il succedersi di quelle che Foucault chiamava le
epistème e, dall’altro, la storia, per non essere surrettiziamente e ideologicamente intesa
come immutabile sfondo di permanenza illimitata delle figure concettuali e dei codici
culturali, deve instaurare un’alleanza strategica con la critica demistificante. Da una
diversa angolatura, potremmo dire che la storia presenta una sua naturale vocazione
critica, nella misura in cui disgrega la pretesa solidità delle forme di sapere che si
pretendono valide sub specie aeternitatis, e la critica ha una sua inaggirabile propensione a
rintracciare nel fluire della storia i punti di rottura e di metamorfosi tramite i quali
smascherare (storicizzandoli) i giochi di potere e di dominio che vengono a instaurarsi
entro la società di volta in volta presa in esame.
Esercitando la “storia critica delle idee” su quello snodo decisivo della storia
occidentale in cui si assiste, pressoché in contemporanea, alla fine dell’ancien régime e alla
genesi dell’idealismo tedesco, diventa possibile destrutturare le vecchie interpretazioni,
spesso poco attente al nesso simbiotico tra piano delle idee e piano delle condizioni
storiche effettive, e prospettarne di nuove. Ad esempio, da una prospettiva critica, si può
mostrare come solo una “storiografia pigra” possa perseverare nell’intendere l’idealismo
tedesco, nel suo insieme, come una mera “copertura” dissimulata della religione e non
una filosofia universalistica dell’emancipazione umana inserita nella cornice della storia
universale. Almeno in questo aspetto, è il caso di dirlo, si sono sempre rivelati
ermeneuticamente più accorti gli “apparati di potere” e quelli “sacerdotali”, che
espulsero dall’università Fichte per ateismo nel 1798 e non hanno mai smesso di
considerare Hegel un pericoloso ateo in pectore. Dalla stessa angolatura critica e lungo la
stessa traiettoria, si può sostenere che la “metafisica idealistica” di Fichte, Hegel e –
come abbiamo argomentato altrove [4] – dello stesso Marx non significa di per sé, in
chiave reazionaria, trionfo della trascendenza e “regno dei cieli”: esiste certo una simile
metafisica (quella medievale, ad esempio), ma, da Fichte in poi, si dà anche una metafisica
immanentistica per la quale lo spingersi oltre i fatti fisicamente percettibili significa, ipso
facto, dirigersi dentro l’ordine vivente della realtà umana, conoscere la totalità che sfugge
necessariamente alla “pseudo-concretezza” [5] dell’“intelletto astratto”. Da questa
angolatura, la tanto deprecata “metafisica” si configura, allora, come la costruzione di
una totalità dialetticamente organizzata, in cui la “verità” delle singole parti esiste
solamente nell’espressione della loro interconnessione essenziale e “concreta”, nel loro
“con-crescere” effettivo.
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Seguendo la trama delle interrelazioni tra le costellazioni del potere e della
produzione e quelle del piano simbolico e dell’ordine del discorso, l’odierno dilagare del
nichilismo relativistico in un mondo che si contrabbanda come “postmoderno” si
configura non tanto come l’astratta scelta soggettiva di chi opta per la rinuncia agli
Assoluti in nome del dialogo e della tolleranza, quanto piuttosto come la necessaria
ricaduta ideologica della generalizzazione della forma di merce a tutti gli ambiti di vita.
Per sua stessa natura, la merce non ha fondamento, ma ha solo circolazione illimitata, il cui
motore non sono i bisogni umani (sempre limitati), bensì i desideri infiniti [6] e illimitati
posti artificialmente in essere dall’odierno capitalismo “assoluto-totalitario” [7]. Sempre
seguendo il tracciato della storia critica delle idee, questo nichilismo, sul piano delle
strutturazioni simboliche e ideologiche, si manifesta essenzialmente in due modi: come
critica del fondamento e come critica della totalità. La delegittimazione della metafisica nel
senso prima ricordato ne è l’esito inaggirabile. Se il fondamento dell’odierna
configurazione del mondo è la libera e illimitata circolazione delle merci e la totalità è un
unico mercato globalizzato, non stupisce che il “totalitarismo” di questa Weltanschauung
debba anzitutto impedire che vi sia la pretesa di sollevare il problema di un diverso
fondamento e di una diversa totalità, promuovendo in ogni modo scetticismo, disincanto,
relativismo, politeismo dei valori, elogio delle differenze rigorosamente all’interno della
“gabbia d’acciaio” della produzione capitalistica. L’odierno “monothéisme du marché”
[8] non accetta istanze esterne che lo giudichino, che pretendano di mostrarne le intime
contraddizioni o che propongano altri fondamenti. Si tratta della prima società della
storia umana in cui, come già rilevato da Karl Polanyi [9], l’economia non è più embedded
nel tessuto complessivo della società, ma si è completamente autonomizzata diventando
un Assoluto immanente. Di qui, ancora una volta, nel trionfo di questo nuovo “oppio
del popolo” che è la “religione della merce”, l’imporsi del nichilismo relativistico (non ci
sono più fondamenti e valori, quindi il solo valore-fondamento resta la merce) e, con
esso, il dilagare di una forma di pensiero totalmente privo di dialettica, che impedisce
anche solo di indicare e nominare le contraddizioni di cui è intessuta la realtà.
La “metafisica immanentistica” di Fichte, Hegel e Marx, con la sua pretesa di
conoscere la totalità e di valutarla assiologicamente, non può trovare spazio in un simile
scenario storico, che la liquida ininterrottamente come residuo teologico incompatibile
con il “pensiero post-metafisico” [10] o come sapere assoluto e, per ciò stesso,
autoritario [11]. Nella fattispecie, il problema dello Stato, in Fichte, può costituire un
fecondo punto di analisi per diversi ordini di motivi: anzitutto, in coerenza con lo spirito
della storia critica delle idee, per andare a “scuotere” le verità inerziali ostinatamente
legate al nome di Fichte, mostrando il “nesso vivente” tra il suo pensiero e la realtà
storica del suo tempo; in secondo luogo, per adombrare le rotture, le discontinuità e le
permanenze interne al suo pensiero; infine, per tornare, arricchiti dalle riflessioni e dalle
critiche svolte da Fichte su quel tema, a riflettere sul nostro tempo storico nel tentativo
di “apprenderlo nei pensieri”, secondo l’ambizioso compito assegnato da Hegel alla
filosofia [12].
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2. La Wissenschaftslehre come ontologia della Rivoluzione francese.
Vi è una consolidata e, almeno apparentemente, intramontabile tradizione che
tende a leggere Fichte nei termini di un “metafisico puro”, attento soltanto alle questioni
teoretiche e del tutto estraneo a quelle storiche, politiche e sociali. Quando non venga
interpretato unilateralmente come un puro teoreta, il pensatore della Wissenschaftslehre
viene surrettiziamente “sdoppiato” in due diverse e opposte figure: da un lato, il Fichte
metafisico puro, e, dall’altro, il Fichte “storico”, che si occupa di questioni politiche e
sociali a prescindere dal suo impianto metafisico [13]. Seguendo il programma della
“storia critica delle idee”, è possibile capovolgere queste interpretazioni tradizionali e
produrre un vero e proprio “riorientamento gestaltico”, mostrando come non solo il
pensiero fichtiano sia animato da una proficua interazione tra dimensione storica e
dimensione teoretica, ma come la stessa metafisica fichtiana venga strutturandosi a
partire da un serrato confronto con le dinamiche della storia reale.
La maggior parte degli interpreti riconosce unanimemente nell’incontro con la
kantiana Kritik der praktischen Vernunft la scintilla che accese in Fichte l’esigenza della
filosofia, e più precisamente, come ha sottolineato Luigi Pareyson, “la necessità di
riscrivere la prima Critica dal nuovo punto di vista della seconda” [14]. Più raramente è
stata evidenziata l’importanza della Rivoluzione francese nella genesi del pensiero
fichtiano. Che essa abbia svolto un ruolo non secondario, rispetto alla seconda Kritik, è
suffragato dallo stesso Fichte, il quale, soprattutto nel saggio del 1793 Beitrag zur
Berichtigung der Urtheile des Publicums über die französische Revolution [15], tematizza a più
riprese quello che con diritto può essere considerato un topos della riflessione tedesca
fino alla prima metà del XIX secolo [16]: la rivoluzione politica compiuta dai Francesi
trova un suo corrispettivo, sul piano teorico, nella portata “rivoluzionaria” del pensiero
kantiano. Lo scarso dinamismo politico del popolo tedesco, la sia atrofia della prassi, è,
in questo modo, compensato dalla sua ipertrofia intellettuale: la rottura con il passato
non avviene pertanto, in area tedesca, tramite un gesto pratico ma, ancora una volta,
tramite una svolta teorica, avviata dalla riflessione kantiana. “Ich lebe in einer neuen
Welt, seitdem ich die Kritik der praktischen Vernunft gelesen habe” [17], scrive con toni
entusiastici Fichte tra l’agosto e il settembre del 1790. E, a proposito della Rivoluzione
francese, tra l’aprile e il maggio del 1795, instaura un raffronto diretto tra le virtù
liberatrici del proprio sistema e quelle dell’agire rivoluzionario del popolo francese:
“mein System ist das erste System der Freiheit; wie jene Nation von der äußern Ketten
den Meschen losreißt, reiss mein System ihn von den Fesseln der Dinge an sich, des
äußern Einflusses los und stellt ihn in seinem Grundsatze als selbstaendiges Wesen hin”
[18].
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La Rivoluzione francese, non meno della praktische Vernunft kantiana, ha modellato
il pensiero fichtiano, spingendolo verso l’assunzione dei problemi interconnessi della
libertà e della liberazione come fulcro del proprio filosofare. Non è qui importante, ai
fini della nostra analisi, una ricostruzione complessiva del giudizio fichtiano della
Rivoluzione anche negli scritti successivi. Su questo punto, ci paiono convincenti sia gli
argomenti di chi, come Martial Guéroult [19], ha chiarito in che senso, dal punto di vista
fichtiano, la rivoluzione venga sempre intesa come legittima, ma sia sempre più messa in
dubbio la sua “saggezza” [20], sia quelli – solo apparentemente in contraddizione con
questa posizione – di chi ha sostenuto che non vi è mai, in Fichte, un rinnegamento del
proprio entusiasmo originario per l’evento rivoluzionario [21] Più interessante, invece,
può risultare un’analisi di come Fichte, anche alla luce della Rivoluzione, o per lo meno
trovando in essa feconde risorse simboliche, vada rideclinando il proprio rapporto con il
criticismo kantiano, fino a prenderne le distanze con la tematizzazione della “dottrina
della scienza” nella Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (1794). In ciò, come è noto,
giocò un ruolo tutt’altro che trascurabile la critica scetticheggiante mossa a Kant da
Schulze nel suo Aenesidemus (1792), in cui il pensatore di Königsberg era oggetto di una
sferzante requisitoria per aver condotto, nella prima Kritik, un discorso metaempirico
sulle possibilità della conoscenza (in contraddizione con gli stessi princìpi in essa
fondati). È la lettura di Schulze a risvegliare Fichte dal “sonno dogmatico” del criticismo
kantiano, permettendogli di mettere a fuoco il dogmatismo di cui esso, volens nolens,
continua a sostanziarsi. Nella lettera del dicembre 1793 a Stephani scrive Fichte:
“Haben Sie den Aenesidemus gelesen? Er hat mich eine
geraume Zeit verwirrt, Reinhold bei mir gestürzt, Kant mir
verdächtig gemacht, und mein ganzes System von Grund aus
umgestürzt. Unter freiem Himmel wohnen geht nich! Es halft
also nichts; es musste wieder angebaut werden” [22].
Nella prospettiva fichtiana, Kant ha impostato correttamente il problema,
cercando di mostrare l’oggettività a partire dalla (e sul fondamento della) soggettività:
l’ha impostato bene e, al tempo stesso, l’ha frainteso, senza compiere del tutto la
“rivoluzione copernicana” [23] annunciata fin dalla Vorrede del 1787 alla seconda
edizione della prima Kritik [24]. Da questo punto di vista, Fichte aveva buon gioco a
considerarsi come il “compitore” della rivoluzione avviata ma non completata dal
pensatore di Königsberg. L’obiettivo teorico kantiano, ossia la fondazione dell’obiettività
della conoscenza e della realtà dell’esperienza sul modello empirico-matematico
newtoniano (con la conseguenza unione tematica del processo di soggettivazione e della
problematica della costituzione della realtà), si regge appunto, se letto in trasparenza, sul
tentativo di fondare l’oggettività sulla soggettività. Vi è già chiaramente, in questa
fondazione, il motivo centrale del pensiero dialettico e dell’idealismo fichtiano: il
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momento soggettivo e quello oggettivo non sono solo reciprocamente contrapposti, ma
sono vicendevolmente mediati, con la conseguenza decisiva per cui l’uno non si dà senza
l’altro. Secondo i rilievi critici già svolti da Reinhold e soprattutto da Maimon e dal
David Hume über den Glauben, oder Idealismus und Realismus (1787) di Jacobi, oltre che da
Schulze, l’ambivalenza di Kant risiede interamente nel non aver portato fino alle estreme
conseguenze il passaggio, mantenendo, con il Ding an sich, un ingiustificato residuo
dogmatico. Da questa angolatura, Kant può essere inteso come un “Giano bifronte”,
nella misura in cui è centrale in lui la critica dell’Idea, con la tematizzazione
dell’impossibilità di conoscerla e con il conseguente prescrizione ad attenersi ai dati
dell’esperienza (si tratta, da questo punto di vista, di un autentico “empirismo
trascendentale”), e al tempo stesso sono già operative, nel suo pensiero, le linee
essenziali dell’idealismo, in primis l’idea che il mondo oggettivo sia costruito dal soggetto.
Con un linguaggio ancora toto coelo kantiano, nella Grundlage der gesamten
Wissenschaftslehre Fichte tiene a battesimo una scienza della totalità centrata sul
superamento del dogmatismo kantiano e, dunque, della distinzione tra categorie
dell’essere e categorie del pensiero. La dialettica diventa per questa via lo scheletro che
sorregge la carne e il sangue di una “scienza filosofica” centrata sull’unità di soggetto e
oggetto, unità che è al tempo stesso metafora della fiducia nella trasformabilità radicale
del mondo reale ad opera della prassi umana. Sta proprio qui l’intreccio, in Fichte, tra
elaborazione teoretica e riflessione storica a partire dalla Rivoluzione francese. Se la
“logica formale” si configura come la scienza del retto uso delle categorie del pensiero, e
si regge sulla preventiva separazione metodologica tra forma e contenuto, la fichtiana
“dottrina della scienza”, dal canto suo, si presenta come scienza filosofica che
presuppone un rapporto organico (ontologico-dialettico) tra un soggetto che progetta,
agisce e trasforma la totalità delle proprie oggettivazioni e un oggetto che ne viene
modificato. L’Ich fichtiano non è più l’Ich denke kantiano, programmaticamente situato ai
margini della storia e della comunità: l’Ich è, sul piano logico, il principio primo della
Wissenschaftslehre e, al tempo stesso, sub specie temporis, è il concetto unitario-tascendentale
dell’Umanità, intesa come titolare di un’attività autosufficiente che può determinarsi
unicamente in rapporto con il Nicht-Ich che essa stessa ha posto e che a sua volta deve
essere inteso come Gegenstand, e dunque come “resistenza” naturale e sociale che viene
posta a tutti i progetti di emancipazione e di “ringiovanimento” del mondo. Senza di
esso, come Fichte stesso non cessa mai di ripetere, non potrebbe darsi neppure
l’avanzamento dell’Io, che è appunto l’inesausta opera di posizione e di toglimento di
ostacoli, erramenti e oggettivazioni superando i quali si danno progresso ed
emancipazione in senso autentico [25]. Da una diversa prospettiva, il processo delineato
nella Grundlage implica che l’Io ponga ininterrottamente di fronte a sé degli ostacoli al
suo stesso avanzamento, ostacoli che devono essere pensati come superabili in via di
principio da un punto di vista idealistico, secondo il principio del primato della praktische
Vernunft.
Se è vero che l’Ich fichtiano è unità concettuale del piano logico e di quello storico,
diventa allora pienamente comprensibile in che senso la metafisica di Fichte, per un
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verso, non sia affatto “adattiva” e “contemplativa” rispetto alla strutturazione del reale,
e, per un altro verso, debba essere letta, nel suo processo genealogico, in costante
riferimento alla Rivoluzione francese non meno che a Kant e al successivo dibattito sulla
“cosa in sé”. Si potrebbe anzi sostenere che, entro certi limiti, la Wissenschaftslehre si
origina come “ontologicizzazione” della Rivoluzione francese, come trasposizione sul
piano ontologico dell’evento storico della Rivoluzione come grandioso superamento,
tramite la prassi trasformatrice, delle oggettivazioni dell’Io. Da questo punto di vista, il
Nicht-Ich della Wissenschaftslehre si configura come metafora non solo della società feudalesignorile, bensì di tutti gli ostacoli che si frappongono tra l’Ich e il pieno dispiegamento
della libertà umana nel corso della storia.
Quanto sia stata decisiva per Fichte e per l’elaborazione della Wissenschaftslehre
l’esperienza della Francia rivoluzionaria, a cui egli, come già Kant, assiste in qualità di
mero “spettatore” disinteressato dal bordo della storia nell’inerte Germania – si potrebbe
forse parlare, variando la nota espressione di Hans Blumenberg, di “rivoluzione con
spettatore” [26] – emerge nitidamente tanto dalla Grundlage quanto, e forse ancora di più,
dalla Erste Einleitung del 1797. “Il nostro idealismo non è dogmatico ma pratico” [27]
(unser Idealismus nicht dogmatisch, sondern praktisch ist), chiarisce Fichte e assume come
caposaldo del suo sistema apparentemente disincarnato dalla storia quella “prassi
trasformatrice” di cui il pensiero marxiano e, nella fattispecie, l’undicesima delle Thesen
über Feuerbach rivelerà una influenza tanto evidente quanto non riconosciuta: “l’io è in
tutto e per tutto attivo e puramente e semplicemente attivo – questo è il presupposto
assoluto” [28] (das Ich schlechthin tätig, und bloss tätig – das ist die absolute Voraussetzung). Il
movimento che si è mostrato in tutta evidenza, sul piano storico, con la Rivoluzione
francese, rivelando l’opera coraggiosa un’umanità che si sforza moralmente di superare
gli ostacoli che essa stessa ha posto nel corso della sua evoluzione e senza i quali mai
avrebbe potuto progredire, è la struttura stessa del reale, il suo fondamento ontologico:
“l’io – si sostiene nella Grundlage – pone contro e di fronte un og-getto (Gegenstand),
dovunque possa porlo nell’infinità, e così facendo pone un’attività esterna a sé e
dipendente non dalla sua attività (di porre) bensì piuttosto da un’attività contrapposta
alla sua” [29]. Punto di arrivo della riflessione kantiana e punto di partenza di quella
fichtiana, la Rivoluzione francese diventa l’esempio lampante della struttura dialettica
della Wissenschaftslehre, di quell’“attività dell’io procedente all’infinito” [30] (ins Unendliche
hinausgehende Tätigkeit) a cui Hegel non mancherà di muovere l’accusa di schlechte
Unendlichkeit [31], di cattiva infinità che rincorre senza posa e senza determinazione
concreta un obiettivo che sempre rinasce. Reinhard Lauth, tra gli altri, ha adombrato in
modo convincente come i princìpi della Wissenschaftslehre siano rigorosamente pensati da
Fichte in costante riferimento al contesto storico-sociale della Rivoluzione francese:
“Questo è quanto il filosofo voleva dire nel 1794 con il primo
principio: l’umanità è per essenza in cammino verso la ragione.
Essa lo è […] sempre soltanto mediante il superamento
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esistenzialmente rilevante di una resistenza da cui è essa stessa
sorretta, una resistenza, come si è mostrato, determinata non
dal fatto bruto – che dà luogo alla costituzione della natura –
ma specificamente da un’altra persona, una resistenza,
insomma, attraverso la quale è data la sfera sociale. In questo
superamento non soggiacciamo però ad alcuna necessità: esso
avviene liberamente. Anche il terzo principio esprime qualcosa
di parzialmente assoluto. È la libera ‘attività indipendente’ che
entra in un rapporto, regolato da leggi, con lo scambio, che si
svolge in modo necessario e che contribuisce anch’esso a
fondare la relazione. È proprio nel prospettare e porre questa
‘attività indipendente’ che la dialettica della dottrina della
scienza viene a distinguersi da quella hegeliana” [32].
Fichte non ha mai nascosto la vocazione eminentemente pratica del suo progetto
filosofico, insistendo sulla Tätigkeit come componente decisiva dell’Io, rispetto alla quale
è secondaria (e derivata) la stessa istanza gnoseologica, “giacché a rigore ogni impulso è
pratico, spingendo all’attività autonoma, e in questo senso tutto nell’uomo si fonda
sull’impulso pratico, non essendoci in lui nulla che si debba all’attività autonoma” [33]. È
soprattutto nella Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre [34] che tale vocazione emerge con
la massima chiarezza. Lo scritto, come è noto, si regge su una contrapposizione tra
Idealismus e Dogmatismus che, da una parte, obbliga il lettore a un “riorientamento
gestaltico” e, dall’altra, potrebbe servire a risvegliare dal sonno dogmatico l’“uomo
postmoderno”, che vive come un dato “naturale” la non trasformabilità del mondo o, in
termini fichtiani, la non-superabilità del Non-Io. Mentre il dogmatismo – spiega Fichte –
è l’atteggiamento tipico di chi accetta il mondo nella sua datità, assumendolo come un
dato empirico fattuale, come una “cosa in sé” che deve essere rispecchiata sul piano
gnoseologico, l’idealismo è la sola filosofia della libertà, poiché muove dall’Io e dalla sua
attività creatrice e trasformativa. A debita distanza dal “dogmatismo” di chi, come Kant,
parte dal presupposto che si dia un oggetto che cade al di là del campo d’azione del
soggetto e che dunque non può essere né conosciuto né trasformato, l’idealismo muove
dalla convinzione che il soggetto sia autenticamente libero e che non si dia nulla a
prescindere dalla sua azione.
L’eliminazione di ogni presunta “cosa in sé” porta, sul piano pratico, alla
tematizzazione di una “soggettività titanica”, in grado di trasformare liberamente il
mondo in accordo con i suoi stessi princìpi: si tratta, come si diceva, di un
“riorientamento gestaltico”, nella misura in cui l’idealismo, solitamente inteso
nell’odierno mondo delle interpretazioni, come una filosofia conservatrice quando non
reazionaria, rivela in Fichte un’incancellabile vocazione “rivoluzionaria” e una durevole
passione critica e antiadattiva. Si tratta di una posizione che, come si diceva, potrebbe
costituire la premessa per il risveglio dell’uomo postmoderno dal sonno dogmatico in cui
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giace intorpidito: un sonno caratterizzato dal fatto che oggi si accetta come dato naturale
l’intrasformabilità del mondo, l’impossibilità di “togliere” il Non-Io. Il pensiero
postmoderno, con il suo disincantato politeismo dei valori entro le sbarre della “gabbia
d’acciaio” del capitalismo globalizzato, rappresenta, al di là delle apparenze, la
riconciliazione con una realtà che, dopo tutto, non sembra degna di essere cambiata. Si
tratta appunto – questo il corollario – di tornare a interpretare il mondo, abbandonando
ogni velleità di trasformarlo. Secondo l’icastica formulazione di Peter Sloterdijk, il
mondo non va cambiato, ma va sopportato [35]: e in caso di dissidio, è se stessi che bisogna
cambiare, e non certo la realtà esterna. In termini fichtiani, si tratta di un inatteso trionfo
del dogmatismo sull’idealismo. Lo sapeva bene Adorno, che nella sua Philosophische
Terminologie mostrava il valore strutturalmente antiadattivo dell’idealismo fichtiano,
nonché l’esigenza di ripartire da esso per contrastare il “dogmatismo” imposto da
un’“industria culturale” sempre più strategicamente alleata dello status quo:
“Fichte e l’intero movimento dell’idealismo tedesco si sono già
difesi contro qualcosa che solo oggi si è pienamente
dispiegato, contro la coscienza reificata, pigra, che prende il
mondo così com’è. Hanno lottato contro il realista volgare che
si accontenta senza ribellarsi della superficie della mera
esistenza, e che non oppone alcuna resistenza a ciò che di
fatto esiste, ma gli si adatta” [36]
Su questo punto vale la pena svolgere qualche ulteriore considerazione.
L’idealismo di Fichte, come del resto quello di Hegel e Marx, è sempre legato
indissolubilmente al movimento di universalizzazione reale della libertà concreta,
dispiegantesi nella storia e chiamata a diventare libertà di tutti. Da una diversa
angolatura, e ancora una volta contro l’intramontabile pregiudizio che lo lega alla
presunta conservazione del mondo così com’è, l’idealismo non può che essere la scelta
filosofica di chi si schiera dalla parte dell’emancipazione umana e della liberazione
universale, di chi – questo è il punto – aderisce ai princìpi che si sono dispiegati nella
Rivoluzione francese. Scrive Fichte nel suo Versuch einer neuen darstellung der
Wissenschaftslehre (1797-1798), in un passaggio giustamente famoso:
“La scelta di un certo tipo di filosofia dipende quindi dal tipo
di uomo che si è: poiché un sistema filosofico non è una
morta suppellettile, che si può prendere o lasciare a nostro
piacimento, ma è vivificato dall’anima dell’uomo che ce l’ha.
Un carattere fiacco per natura o fiaccato dalla servitù
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spirituale, dal lusso raffinato e dalla vanità, un carattere
storpiato non si eleverà mai all’idealismo” [37].
La scelta dell’idealismo è dunque, essenzialmente, una scelta di libertà, di
antidogmatismo e di rivendicazione della necessità di trasformare il mondo. A questo
proposito, non deve certo stupire che Popper, in The Open Society and Its Enemies (1945),
in cui pure non viene direttamente bersagliato il pensiero fichtiano, assuma Platone
come oggetto della sua sferzante requisitoria, tracciando una tutt’altro che evanescente
linea di continuità che porterebbe da Platone a Hegel, da Hegel a Marx e da Marx ai…
gulag. Al di là dell’insostenibilità della tesi propugnata da Popper (e dai suoi epigoni
italiani) circa il “totalitarismo” di Platone, di Hegel e di Marx, l’autore di The Open Society
compie un’operazione che, se ci si pone dal punto di vista dell’accettazione del mondocosì-com’-è, è estremamente acuta ed efficace. Platone rappresenta infatti,
indubbiamente, la vetta insuperata di critica radicale della società presente, ossia – al di là
dello scarto storico, de te fabula narratur! – la democrazia mercantile fondata sulla
dismisura delle ricchezze (da cui la feroce critica platonica alla pleonexia nel libro IV della
Repubblica) [38]. Come se non bastasse, Platone, nella Settima lettera, confessa che è stata
l’adikia della condanna a morte di Socrate ad averlo indotto a elaborare la sua filosofia
[39]. Ricostruendo il progetto di Popper, è dunque contro Platone, ancor prima che
contro Fichte, Hegel e Marx, che bisogna rivolgersi per demonizzare a priori la possibilità
di trasformare o anche solo di criticare il mondo. Infatti – e, almeno in questo, emerge
indubbiamente la profondità interpretativa di Popper – la genesi storica e sociale
dell’idealismo, vuoi nella sua forma “bimondana” [40] (Platone), vuoi in quella
“monomondana” (Fichte, Hegel e Marx), sta nella critica radicale dell’“ingiustizia”
(adikia) e poi, duemila anni dopo, dell’“alienazione” (Entfremdung) della realtà sociopolitica. Questa critica, in Platone, assume la figura concettuale di una presa di distanza
spaziale-simbolica e utopica, nella forma di un “paradigma in cielo” [41] (paradeigma en
ourano), poiché non può ancora strutturarsi – in assenza di un concetto “singolarecollettivo” di storia [42] – nella forma temporale di una successione “migliorativa” dal
prima al dopo. Con l’idealismo tedesco, la critica del reale cessa di essere “bimondana”
poiché si regge appunto su una Weltgeschichte pensata con un solo concetto di tipo
trascendentale-riflessivo, come teatro della trasformazione e dell’universalizzazione della
libertà.
Da queste considerazioni dovrebbe emergere la necessità di ri-partire dal progetto
universalistico di emancipazione e di liberazione prospettato dall’idealismo tedesco: solo
lungo questa via diventa possibile, forse, pensare una universalizzazione “dal volto
umano”, che non sia solamente l’odierna caricatura che universalizza unicamente la
forma di merce uniformando tutti gli esseri umani al solo modello del produttore e del
consumatore manipolati, in una riduzione integrale della libertà umana nella libertà del
consumo, nel vorticare delle differenze del multiculturalismo apparente, sotto il quale si
regge, su un fondamento tutt’altro che “debole”, il monoculturalismo del mercato. È, del
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resto, solo una philosophische Wissenschaft nel senso di Hegel, di Fichte e di Marx a rendere
possibile e praticabile, oggi, una critica radicale dell’odierno capitalismo globalizzato,
senza per questo ricadere nell’inutilità del rilancio della tradizione comunista
novecentesca, con i suoi orrori e le sue aporie teoriche ancor prima che pratiche.
2. Estinzione dello Stato o Stato commerciale chiuso?
È in questa cornice teorica che deve essere inquadrato il problema dello Stato
nella riflessione fichtiana. Tale problema, come cercheremo di mostrare, è direttamente
connesso con la Wissenschaftslehre e con la sua passione trasformatrice e non può essere
affrontato a prescindere da essa. Senza perdere di vista la tutt’altro che esile bibliografia
su questo tema [43], occorre segnalare anzitutto l’aporia in cui pare dibattersi, a un primo
esame, la riflessione fichtiana sullo Stato. In estrema sintesi, l’aporia può essere formulata
nei seguenti termini: dall’iniziale legittimazione della Rivoluzione francese e dalla
tematizzazione della necessaria estinzione della “forma-Stato”, Fichte muove presto alla
riconfigurazione di quello statalismo radicale centrale in Der geschlossene Handelsstaat
(1800) che pare segnare una “rottura epistemologica” rispetto alla prima fase “giacobina”
o comunque la si voglia definire. Tale aporia rivelerebbe non soltanto una
contraddizione interna alla riflessione fichtiana, un suo “ripensamento” radicale su un
tema tutt’altro che marginale: al contrario, essa sembrerebbe porre in contraddizione gli
stessi princìpi della Wissenschaftslehre, la sua “passione trasformatrice” originatasi, come si
è cercato di chiarire, dalla Rivoluzione francese non meno che dalla seconda Kritik
kantiana. Da una diversa angolatura, il “primo Fichte”, “giacobino e sovversivo”,
secondo l’immagine – certo tutt’altro che neutra – che di lui veniva veicolata negli
ambienti conservatori, nemico dello Stato oppressivo quando non dello Stato in quanto
tale, risulterebbe del tutto incompatibile con il “secondo Fichte”, quello che, dopo la
sofferta vicenda dell’Atheismusstreit, si reinsedia nell’Università e pare conciliarsi con lo
status quo, tematizzando la necessità di uno Stato forte e sovrano, commercialmente
chiuso e organicisticamente strutturato. Come spiegare questa improvvisa svolta teorica?
E, soprattutto, come può essa coniugarsi con l’immagine dell’idealismo fichtiano che
abbiamo delineato in precedenza, presentandolo come una forma di “filosofia della
trasformazione” e della libertà, per sua vocazione avversa al dogmatismo e all’inerzia? Si
tratterà, nelle pagine che seguono, di ricostruire alcuni snodi decisivi che caratterizzano
la posizione, o, meglio, le differenti posizioni di Fichte intorno allo Stato, nel tentativo di
mostrare come la contraddizione sia solo apparente, come in verità il suo filosofare non
rinunci mai all’iniziale istanza critico-trasformatrice e come anzi, per rimanere coerente
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con essa, debba assumere in un dato momento la forma “statalistica” e apparentemente
“autoritaria” delineata in Der geschlossene Handelsstaat.
Rispetto agli scritti sulla Rivoluzione francese e sulla “rivendicazione di libertà di
pensiero” [44], in cui si legittimava la Rivoluzione francese come grandioso tentativo da
parte dell’umanità di rifondare la statualità su nuove basi, maggiormente conformi ai
princìpi della ragione, nelle successive Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten –
il ciclo di cinque lezioni che Fichte tenne a Jena nel 1794 – la prospettiva è addirittura
radicalizzata: lo Stato – si sostiene esplicitamente in queste ultime – deve essere
“superato” dall’umanità nel corso del suo processo di emancipazione. In particolare, il
tema è al centro della seconda lezione, dedicata alla “missione dell’uomo in società”
(Bestimmung des Menschen in der Gesellschaft), in cui si sostiene il carattere socievole della
natura umana, in un recupero dell’antropologia aristotelica dello zoòn politikòn. Il soggetto
fichtiano non è più l’in-dividuo astratto, destoricizzato, desocializzato e anticomunitario
che aveva accompagnato, pur tra mille varianti e secondo declinazioni quanto mai
eterogenee, l’avventura del soggetto moderno dall’ego cogitans cartesiano all’Ich denke
kantiano: si tratta, al contrario, di un soggetto radicato nella storia e nella comunità,
come è attestato in modo lampante, tra l’altro, dalla stessa risemantizzazione comunitaria
e collettiva che avviene in Fichte di quell’Ich che, in Kant, oltre a essere una funzione e
non una sostanza, era rigorosamente destoricizzato e sciolto da ogni legame
extraindividuale. Ora, proprio in quanto zoòn politikòn, “l’uomo è destinato a vivere in
società, egli deve vivere nella società; se vive isolato non è un uomo completo e compiuto,
e contraddice a se stesso” [45] (der Mensch ist bestimmt, in der Gesellschaft zu leben; er soll in der
Gesellschaft leben; er ist kein ganzer vollendeter Mensch und widerspricht sich selbst, wenn er isolirt
lebt). Subito dopo aver spiegato la necessità di vivere in società come inaggirabile
condizione per poter realizzare la propria essenza socievole tramite una “azione
reciproca per mezzo della libertà” [46] (Wechselwirkung durch Freiheit), Fichte chiarisce che
sarebbe fuorviante trarne la conclusione che sia per ciò stesso necessario vivere nello
Stato: le due dimensioni – società e statualità – devono essere rigorosamente distinte e se
nella prima è necessario vivere, non lo è parimenti nella seconda. Da una diversa
angolatura, l’uomo è certamente un “animale socievole” e societario, ma non un
“animale statale”: vivere nella società è un fine, mentre vivere nello Stato è un mezzo per
far sì che gli uomini, non ancora dotati di una solida morale, possano raggiungere
pacificamente quel fine. Scrive Fichte, in un passaggio che sembra anticipare gli esiti di
certe riflessioni marxiane ed engelsiane sulla statualità:
“Voi vedete, miei signori, quanto sia importante non
confondere la società in genere con quella particolare specie di
società determinata empiricamente che si chiama Stato (besonderen
empirisch bedingten Art von Gesellschaft, die man den Staat nennt). Il
vivere nello Stato non fa parte degli scopi assoluti dell’uomo
(absoluten Zwecke des Menschen), checché ne dica un illustre
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pensatore; al contrario è solo il mezzo per costituire una
società perfetta, valido in ben determinate condizioni. Lo
Stato, come del resto tutte le istituzioni umane che non sono
altro che degli strumenti, è indirizzato alla propria
autodistruzione (Vernichtung): lo scopo di ogni governo è di rendere
superfluo il governo (es ist der Zweck aller Regierung, die Regierung
überflüssig zu machen). […] È certo che sulla strada tracciata a
priori per il genere umano c’è un momento in cui tutte le
aggregazioni statali diverranno superflue (alle Staatsverbindungen
überflüssig seyn werden)” [47].
È in accordo con le coordinate teoriche della Wissenschaftslehre che Fichte delinea
questo programma di superamento della “forma-Stato”: poiché la storia dell’umanità si
configura come un progressivo perfezionamento sotto ogni profilo, e dunque
soprattutto – kantianamente – come un sempre più marcato dispiegamento della
moralità, ne segue che un’umanità finalmente “moralizzata” non avrà più bisogno di
ricorrere a uno “strumento coercitivo” per imporre dall’esterno la moralità tramite il
rispetto di leggi non avvertite dal soggetto stesso come cogenti. L’obiettivo di ogni Stato
diventa allora, appunto, quello di rendersi superfluo, ossia di accompagnare l’umanità a
un tale livello di moralità da non dover più ricorrere alla coercizione statale per rispettare
le leggi, in quella piena identità tra posizione delle leggi e libera sottomissione ad esse a
cui Kant aveva attribuito il nome di “autonomia”. Era stato Kant stesso a mostrare
come la condizione di “piena moralità” dell’umanità fosse da intendersi nel suo uso
regolativo e costituisse pertanto un obiettivo a cui approssimarsi asintoticamente:
secondo l’espressione della Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, “per
ritenerci moralizzati (moralisirt) ci manca ancora molto” [48] Fichte mantiene, in questo,
l’impostazione kantiana: la moralizzazione dell’umanità deve essere intesa in forma
asintotica come movimento di progressivo e mai definitivo avvicinamento al telos, e
dunque – questo è il punto – come compito inesauribile. Il fine non potrà mai dirsi
compiuto, lo Stato non potrà mai essere superato, ancorché l’obiettivo resti – e non
possa che restare – il renderlo superfluo. Il superamento della “forma-Stato” resta un
ideale in nome del quale sforzarsi per favorire il perfezionamento dell’umanità lungo il
suo cammino di moralizzazione:
“Avvicinarsi a questo fine ultimo – scrive Fichte –, ed
avvicinarsi in progressione infinita, ciò egli [l’uomo] può e deve
farlo. Possiamo definire unione (Vereinigung) questo avvicinarsi a
una completa unità ed unanimità di tutti gli individui. Dunque
la vera destinazione dell’uomo nella società è un’unione che
divenga dal punto di vista dell’interiorità sempre più profonda
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e dal punto di vista dell’estensione sempre più ampia. Questa
unione è però possibile solo mediante un perfezionamento”
[49].
Ci troviamo al cospetto di una prima aporia, che come subito chiariremo è
direttamente connessa con quella annunciata in precedenza: Fichte tematizza la nonnecessità, per l’uomo, di vivere nello Stato e, al tempo stesso, sostiene l’insuperabilità
della “forma-Stato”, motivandola sulla base dell’avanzamento infinito come scopo
dell’agire umano nella storia, in coerenza con gli stessi princìpi della Wissenschaftslehre.
Sembra quasi che, per certi versi, sia lo stesso “cattivo infinito” fichtiano a imporre
questa contraddizione che pare riconfigurarsi come un’inattesa ricaduta nel dogmatismo:
se il compito dell’umanità sta nell’avvicinarsi sempre più a una condizione di moralità
che renda superfluo il ricorso allo Stato e se tale compito è infinito, e dunque non giunge
mai a determinazione concreta, allora non soltanto lo Stato non può mai essere superato,
ma esso pare diventare in modo inatteso una nuova “cosa in sé” che non può essere
“tolta” dalla prassi trasformatrice dell’Ich. L’idealismo sembra così capovolgersi in
dogmatismo. In verità Fichte risolve l’aporia conservando lo sforzo (e dunque la libertà)
di moralizzazione e di “toglimento” dello Stato: libertà che se, invece, potesse
effettivamente giungere a una determinazione concreta, e dunque al raggiungimento
dell’obiettivo in questione, si capovolgerebbe in “inerzia”, in “inazione” e dunque in
dogmatismo. Il mantenimento dello Stato pur nella prospettiva asintotica del suo
superamento è dunque la condicio sine qua non per tenere vivi la prassi e l’ininterrotto
sforzo dell’umanità.
Nel 1800 vede la luce Der geschlossene Handelsstaat: rispetto agli scritti precedenti, la
prospettiva di Fichte cambia di centottanta gradi. Lo Stato non soltanto non è un mero
mezzo che può e deve essere superato, risultando inutile e perfino nocivo per
un’umanità pienamente moralizzata, come Fichte sosteneva prima del 1800; né esso è
semplicemente il mero garante delle procedure di acquisizione, di conservazione e di
accrescimento della proprietà privata dei singoli soggetti, secondo la concezione che si
andava sempre più affermando sull’onda dell’utilitarismo. Al contrario, con un
sorprendente capovolgimento di prospettiva, lo Stato è ora inteso come luogo in cui si
dispiega effettivamente la libertà degli individui, come coronamento della società e come
organizzazione che ha il compito di assicurare a tutti i cittadini lavoro e benessere,
regolando la produzione e lo scambio; esso deve garantire che si realizzi la “ragion
pratica”, assicurando il pieno dispiegamento della libertà di ciascuno tramite la libertà di
tutti. Addirittura, in un’ottica fortemente organicistica, si sostiene che, al fine di
assicurare l’equilibrio politico, lo Stato deve vietare il commercio con paesi stranieri
(solamente il sapere deve essere patrimonio comune, trans-nazionale e liberamente
circolante) e, al fine di evitare il fenomeno dell’accumulazione di ricchezze, deve
sostituire l’oro e l’argento con una moneta convenzionale che valga solamente come
mezzo di scambio. Quali sono le ragioni di questo improvviso riorientamento? Che cosa
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può aver indotto Fichte, tra il 1798 e il 1800, a una così radicale riconfigurazione del
ruolo dello Stato e della sua forma? Ha scritto Luca Fonnesu:
“Tutta una serie di eventi conducono Fichte, a partire dal
1798, ad un profondo ripensamento della propria filosofia.
L’allontanamento dalla prestigiosa cattedra di Jena, in seguito
all’accusa di ateismo, nel 1798, segna per il pensatore la fine di
un periodo di grande influenza sulla vita culturale e sul
dibattito filosofico del tempo. Intorno a questi anni,
cominciano anche a sorgere le riserve per la rivoluzione
francese, se non per i “principi”, almeno per la “prassi”, e
anche Kant, l’autore di quella rivoluzione che Fichte e i suoi
contemporanei avevano accostato a quella francese, dichiara
pubblicamente di ritenere la filosofia fichtiana “un sistema del
tutto insostenibile”. Non tarderà ad arrivare anche la rottura
con Schelling, e sarà proprio Schelling a sostituire l’astro
fichtiano nella coscienza degli intellettuali” [50].
Per poter comprendere in tutta la sua portata la nuova concezione fichtiana dello
Stato, a questa ricca costellazione di eventi accademici e personali crediamo occorra
affiancare, in posizione niente affatto subalterna, una mutata prospettiva sul corso
storico, un ripensamento non tanto dell’evento della Rivoluzione in quanto tale, quanto
piuttosto del “mondo storico” che da essa stava prendendo a svilupparsi [51]: il mondo
della globalizzazione illimitata e del trionfo del “valore di scambio”, figlio del “pensiero
astratto” illuministico, della sua delegittimazione delle pretese della metafisica, del suo
codice ostinatamente individualistico e del suo innalzamento dell’utilitarismo a sola
filosofia possibile. È soprattutto come reazione al “mondo ctonio” fatto erompere in
superficie dalla Rivoluzione che deve essere letta la reazione fichtiana, con la proposta di
uno “Stato commerciale chiuso” al cui centro sia non l’individuo ma la comunità umana,
con i suoi bisogni concreti, in un ristabilimento completo dell’egemonia del politico
sull’economico. Convergendo in ciò con la successiva posizione di Hegel, Fichte non
critica tout court il mondo plasmato dalla Rivoluzione né i princìpi illuministici su cui esso
si sorregge: al contrario, esattamente come Hegel [52], resta fedele al movimento della
Rivoluzione, a tal punto che – come ha precisato Lauth – “si potrebbe perfino asserire
che egli abbia tenuto i principi della rivoluzione più fermi di quanto non abbiano fatto i
rivoluzionari e i loro – non abbastanza radicali – fondatori spirituali” [53].
Dell’Illuminismo e, con esso, della Rivoluzione Fichte riconosce dialetticamente l’unità
di indispensabilità e insufficienza. La critica fichtiana si basa sul fatto che il mondo
scaturito dalla Rivoluzione presenta un codice teorico comune in tutte le sue declinazioni
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(dal deismo all’ateismo e all’economia politica inglese), ed è l’individualismo
anticomunitario e utilitaristico.
Per decifrare questo punto decisivo, alla cui luce si può comprendere un’opera
come Der geschlossene Handelsstaat, altrimenti destinata a rimanere enigmatica e a essere
illimitatamente diffamata come “reazionaria”, occorre fare riferimento, sia pure
rapidamente, ad alcuni passaggi delle opere di Fichte successive al 1800, che tracciano un
“orizzonte di significato” a cui è del tutto interno – come vedremo – il problema dello
“stato commerciale chiuso”. Solo in quest’ottica diventa possibile disambiguare l’aporia
da cui avevamo preso le mosse. Se soffermiamo la nostra attenzione sui Grundzüge des
gegenwärtigen Zeitalters (1806), frutto delle lezioni di filosofia della storia tenute tra il 1804 e
il 1805, vi troviamo significativamente tematizzato il mondo affiorato dalla Rivoluzione
francese nei termini, tutt’altro che lusinghieri, di un’“epoca della compiuta
peccaminosità” [54] (Stand der vollendeten Sündhaftigkeit): la Rivoluzione francese, a cui va
l’indubbio merito di aver rovesciato il dispotismo e di aver “tolto” il negativo fino ad
allora dominante, non è poi riuscita a creare un mondo all’altezza della sua impresa. Essa
ha distrutto tutto senza nulla creare, rivelandosi appunto indispensabile e al tempo stesso
insufficiente, come Fichte chiarisce nelle successive Reden an die deutsche Nation (1808):
“Evidente e credo confessato da tutti il fatto che lo sforzo
dell’epoca che si chiude mirava a bandire gli oscuri istinti per
far trionfare la chiarezza e la conoscenza. Questa mira è stata
raggiunta in quanto ha smascherato il ‘nulla’ finora conseguito (das
bisherige Nichts vollkommen enthüllt ist). Questo impulso verso la
chiarezza non deve affatto venir ricacciato indietro,
permettendo agli oscuri istinti di tornare a signoreggiare, ma
anzi deve essere ulteriormente sviluppato e portato a un grado superiore
(soll nur noch weiter entwickelt und in höhere Kreise eingeführt werden),
sicché dopo che si scoperse il ‘nulla’, appaia anche il ‘qualcosa’, e
cioè una forma di verità positiva che pone un punto di partenza (auch das
Etwas, die bejahende und wirklich etwas setzende Wahrheit, ebenfalls
offenbar werde)” [55].
Proprio come, in ambito teoretico, la prima Kritik kantiana ha avviato la
“rivoluzione copernicana” senza però portarla a compimento, così, in ambito praticostorico, la Rivoluzione è rimasta un “processo incompiuto” [56], che deve essere
ultimato tramite il ristabilimento di un nuovo fondamento sociale-veritativo all’altezza
dei tempi. Dalla Rivoluzione è infatti scaturito un mondo che, svuotato della
trascendenza, ha surrettiziamente elevato l’empiria a dimensione dominante, eleggendo
come propria filosofia di riferimento “il peggiore di tutti i sistemi filosofici, quello di
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Locke” [57]: la critica di ogni metafisica del trascendente non è poi stata in grado di
fondare una nuova “metafisica morale” dell’imperativo categorico, ma si è
dialetticamente rovesciata, hegelianamente, dall’“ascetismo della morale” al “regno
animale dello spirito”. Come “tratti fondamentali” dell’epoca Fichte individua appunto
l’empirismo radicale e l’utilitarismo, due poli in correlazione essenziale perché basati su un
codice rigorosamente individualistico e sul rifiuto della dimensione sociale e comunitaria.
Non deve stupire, rileva Fichte, che un mondo che ha liquidato le forme storiche
precedenti senza fondare una nuova costellazione veritativa “non possa assolutamente
essere né contenere nient’altro che l’accortezza di promuovere il proprio vantaggio
personale” [58] (kein anderer seyn und nichts weiter enthalten könne, als die Klugheit, seinen
persönlichen Vortheil zu befördern), dando luogo – variando la nota formula kantiana – a
quell’utilitarismo “dal punto di vista cosmopolitico” su cui si fonda la globalizzazione del
mercato. In particolare, “la fondamentale proprietà permanente e il carattere di una tale
epoca è di fare solo per sé e per il suo proprio utile ogni autentico prodotto della
medesima, tutto quel che essa pensa e fa” [59] (die bleibende Grundeigenschaft und der
Charakter eines solchen Zeitalters ist der, dass jedes ächte Product desselben alles, was es denkt und
thut, nur für sich und seinen eigenen Nutzen thue). Nella misura in cui è incardinato sulla
programmatica ricerca dell’utile personale ed “empirico”, l’utilitarismo non necessita, e
anzi scoraggia il più possibile, ogni sistema metafisico: “di qui deriva, come un tratto
caratteristico di una tale epoca, la magnificazione dell’esperienza come unica fonte del
sapere” [60] (daher kommt die Lobpreisung der Erfahrung für die einzige Quelle des Wissens, als ein
charakteristischer Grundzug eines solchen Zeitalters). Si tratta, appunto, di portare a
compimento la dinamica avviata ma non completata dalla Rivoluzione, per superare la
pura negatività in cui è sospeso il presente.
Questo discorso, che costituisce la base teorica su cui Fichte costruisce la sua
teoria dello “stato commerciale chiuso”, viene ulteriormente sviluppato nelle Reden an die
deutsche Nation, testo che la “storiografia pigra” tende irresistibilmente a liquidare, tramite
l’abusata prassi della diffamazione preventiva, come un’anticipazione del nazionalismo
tedesco razzista del XX secolo, laddove invece, se letto in trasparenza, si tratta di una
appassionata difesa dell’universalismo dell’emancipazione e della libertà, in cui la
Germania figura come nazione destinata a svolgere la funzione di guida di questo
progetto universalistico: “chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole
il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e
qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi” [61]. Più
che tra tedeschi e stranieri, per di più su presunte basi razziali, le Reden instaurano una
polarità sul piano universale tra “progressisti” e “regressisti”, tra sostenitori della
possibilità storica e della necessità morale dell’emancipazione dell’umanità, da una parte,
e sostenitori di una temporalità “circolare”, da cui non può emergere alcuna novità e
dunque alcuna emancipazione, dall’altra; i Tedeschi sono chiamati a farsi promotori della
prima visione del mondo e, alla sua luce, a guidare l’umanità verso l’infinito
perfezionamento. L’opera si riconnette esplicitamente ai Grundzüge e all’esigenza,
delineata in essi, di reagire all’utilitarismo e alla “dittatura dell’empiria”: “in queste
conferenze – dice Fichte a proposito dei Grundzüge – dimostrai che l’èra attuale
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appartiene al terzo dei grandi periodi della storia mondiale, periodo che ha come impulso
unico alle sue reazioni e ai suoi moti l’utile materiale (der sinnlich Eigennutz); che solo
ammettendo la possibilità di questo impulso la nostra èra si spiega e si comprende; che
attraverso questa chiara coscienza di tale sua natura essa rinsalda e consolida se stessa in
quel suo vitale carattere” [62]. E aggiunge significativamente in riferimento alle Reden:
“questi discorsi saranno il seguito di quelle mie conferenze intorno all’epoca attuale,
annunziando l’èra nuova che può e deve sbocciare dalla distruzione del regno
dell’egoismo, compiutasi per opera dello straniero” [63]. Alla Francia napoleonica è
imputata l’introduzione in area tedesca, tramite l’invasione militare, dell’ideologia
egoistica dell’individuo possessore, miscela instabile di utilitarismo ed empirismo
radicale.
Alla luce di queste considerazioni, e soprattutto della nuova prospettiva che Fichte
espone in forma compiuta nel 1804-1805 con i Grundzüge, diventa pienamente
comprensibile la concettualizzazione, nel 1800, dello “stato commerciale chiuso” come
coerente reazione all’egemonia dell’utile (economico) e alla correlata soppressione dello
spazio veritativo della filosofia. In un mondo in cui, in un precipitare nichilistico di tutti i
valori e delle stesse istanze critiche e veritative del sapere filosofico, la ricerca dell’utile
diventa l’obiettivo assoluto dell’esistenza umana, alla cui luce la gelida “razionalità
formale” funge da vernice che occulta l’irrazionalità complessiva di un mondo che Marx
avrebbe più tardi definito “capovolto” (verkehrte Welt), la libertà idealistica sta, ancora una
volta, nell’avanzare risolutamente la pretesa di cambiare il mondo, contro le resistenze
dei dogmatici di sempre con la loro incrollabile fede nell’immodificabilità dell’assetto
vigente. Per Fichte, fedele ai princìpi della Rivoluzione e, ipso facto, nemico del mondo
che ne è scaturito, si tratta di contrastare l’egemonia dell’utile e dell’egoismo sfrenato che
ad esso si accompagna: è in questi casi che, in coerenza con i temi delle lezioni sulla
Bestimmung des Gehlerten, lo Stato deve svolgere la sua funzione di “strumento” per
favorire l’avanzamento dell’umanità in vista della sua completa moralizzazione, e dunque
in vista – questo è il punto – dell’estinzione dello Stato. Anche nella teorizzazione dello
“Stato commerciale chiuso”, Fichte non rinuncia dunque al presupposto fondamentale
della Wissenschaftslehre: l’avanzamento illimitato dell’umanità, con la conseguente
estinzione dello Stato come ideale regolativo. Non è certo un caso che il nostro autore
definisca lo “Stato commerciale chiuso” anche nei termini di un Vernunftstaat, di uno
“Stato secondo ragione”: nell’epoca della “compiuta peccaminosità”, in cui la moralità
sembra essere vacante, solo lo Stato può far valere in maniera coattiva i princìpi della
ragione che rendono possibile la moralizzazione del genere umano. È la stessa passione
idealistica della libertà a imporlo come principio morale decisivo.
Alla luce di quanto siamo venuti dicendo, si può dunque sostenere plausibilmente
che l’aporia da cui avevamo preso le mosse – la contraddittoria transizione da una
posizione che riconosceva la superabilità della “forma-Stato” a uno statalismo “rigido” –
è, a un attento esame, più apparente che reale: per un verso, anche negli scritti anteriori a
Der geschlossene Handelsstaat, si sostiene che lo Stato deve essere superato ma che tale telos
consiste in un’approssimazione infinita, che mai potrà dirsi compiuta, con la conseguente
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permanenza illimitata dello Stato; per un altro verso, l’elaborazione dell’idea di uno
“Stato commerciale chiuso” si regge sugli stessi princìpi della Wissenschaftslehre esposti
nella Bestimmung des Gelehrten, in accordo con i quali lo Stato è un “mezzo” funzionale alla
moralizzazione di un’umanità che non è ancora a tal punto moralizzata da poterne fare a
meno; in un’epoca di “compiuta peccaminosità” e di egoismo universale, diventa
necessario l’intervento massiccio di uno Stato “commerciale chiuso” che sappia opporsi
al cosmopolitismo utilitaristico del mercato e al codice individualistico su cui esso si
regge, per far valere l’istanza morale di un comunitarismo solidale nell’epoca della
“compiuta peccaminosità”. L’idea dello Stato come “strumento” finalizzato alla
moralizzazione comunitaria non viene mai meno nella riflessione fichtiana, come
peraltro è suffragato anche dal fatto che ancora nel 1813 – un anno prima di morire –
Fichte sosterrà che lo Stato è un apparato coattivo (Zwangstaat) che scomparirà per la sua
Nichtigkeit [64]. Ma questa prospettiva – perfettamente coerente con la posizione di
Fichte prima del 1798 – ritorna con insistenza anche nei Grundzüge, soprattutto nella
decima lezione [65], nella misura in cui Fichte non esita a parlare dello Stato nei termini
di un “istituto artificiale” [66] (künstliche Anstalt). Anche in Der geschlossene Handelsstaat,
come del resto nei Grundzüge e nelle Reden, Fichte è dunque coerente con i princìpi della
Wissenschaftslehre e con l’esigenza di trasformare liberamente il mondo per far sì che esso
si accordi con i princìpi della ragione e possa così dispiegarsi quello che, nei Grundzüge, è
individuato come lo scopo della storia umana, istituire “con libertà tutti i rapporti
secondo ragione” [67] (alle Verhältnisse mit Freiheit nach der Vernunft). Di questa “passione
trasformatrice” offre una preziosa testimonianza uno scintillante passaggio di Der
geschlossene Handelsstaat, in cui emerge nitidamente come “dogmatico” sia colui che accetta
l’utilitarismo della “globalizzazione”, mentre “idealista” sia chi si sforza di trasformare la
realtà, rifiutandosi di accettarla come un dato naturale-eterno e rivolgendosi all’istituto
dello Stato come fonte di moralità in un’epoca senza morale:
“Chi non è pensatore (der Nichtdenker), ma ha tuttavia buon senso
e memoria, comprende lo stato reale delle cose che si
presentano ai suoi occhi, e ne prende nota. Egli non ha
bisogno di altro, perché deve soltanto vivere nel mondo reale
e farvi i suoi affari; e non si sente stimolato a riflessioni, di cui
non vede l’immediata utilità. Egli non corre mai col pensiero al
di là di questo stato reale, e non ne concepisce un altro; ma per
il fatto stesso di essersi abituato a non pensare che alla realtà
esistente, nasce in lui, quasi senza che se ne accorga, la
supposizione che solo questa realtà esista, e solo essa possa
esistere. Le idee e i costumi del suo popolo e del suo tempo gli
paiono le sole idee e i soli costumi possibili presso tutti i
popoli e in tutti i tempi. Egli certamente non si meraviglia che
tutto sia così com’è, perché, a parer suo, non può essere
altrimenti; e non si propone la questione del come ciò sia
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avvenuto, poiché, secondo lui, tutto del pari è stato da
principio. […] La sua malattia incurabile è di scambiare l’accidentale
con il necessario (seine unheilbare Krankheit ist die,
das zufällige für nothwendig zu halten)” [68].
In accordo con le linee tratteggiate nelle lezioni sulla Bestimmung des Gelehrten, per
cui la cultura coincide con la capacità di “trasformare le cose al nostro esterno e di
mutarle secondo i nostri concetti” [69], e contro l’atteggiamento “contemplativo” di chi,
preso dal vortice dei suoi affari e dalla ricerca dell’utile, non si pone il problema della
moralizzazione dell’umanità né del perfezionamento del reale, e anzi pensa, con falsa
coscienza necessaria, che l’assetto utilitaristico del mondo sia immodificabile, l’idealista
fa valere l’istanza trasformatrice, che nel caso in questione si configura come
costituzione di uno Stato commerciale chiuso che freni l’illimitatezza del profitto e degli
squilibri che esso va sempre più generando, creando differenziali di ricchezza di fronte ai
quali la ragione non può che inorridire:
“Chi, al contrario, si è abituato non solo a riprodurre nel
pensiero il realmente esistente, ma anche a foggiarsi
liberamente con il pensiero il possibile, non raramente trova
che legami e rapporti delle cose totalmente diversi da quelli
esistenti, sono altrettanto possibili, anzi più possibili, più
naturali e conformi a ragione; egli trova che i rapporti
realmente esistenti sono non solo accidentali, ma qualche volta
pure bizzarri” [70] (Wer sich hingegen gewöhnt hat, nicht nur das
wirklich vorhandene durch den Gedanken nachzubilden, sondern auch
das mögliche durch denselben frei in sich zu erschaffen, findet sehr oft
ganz andere Verbindungen und Verhältnisse der Dinge, als die
gegebenen ebenso möglich wie diese, ja wohl noch weit möglicher,
natürlicher, vernunftmässiger; er findet die gegebenen Verhältnisse nicht
nur zufällig, sondern zuweilen gar wunderlich).
Solo riproponendo l’egemonia della politica sull’economia “autonomizzatasi”, sul
duplice fondamento dell’utilitarismo e della delegittimazione della metafisica come
sapere della totalità e della sua valutazione assiologica, diventa possibile, tramite l’azione
dello Stato, garantire l’eguale libertà dei soggetti e il loro libero sviluppo, frenando il
movimento nichilistico del commercio globale, da Fichte significativamente etichettato
come “anarchia commerciale” [71] (Anarchie des Handels): “ufficio dello Stato sia prima di
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tutto di dare a ciascuno il suo, immetterlo nella sua proprietà, e poi di proteggerlo” [72]
poiché ripugna alla ragione “che uno possa pagarsi il superfluo, mentre pur uno dei suoi
concittadini manchi del necessario o non possa pagarlo” [73] Non si tratta, ancora una
volta, di uno statalismo autoritario fine a se stesso, in quanto lo Stato è sempre inteso
come mezzo per il dispiegamento della libertà dell’uomo: “il vero scopo dello stato è di
aiutare ciascuno a raggiungere quello a cui, come partecipe dell’umanità, ha diritto, e di
mantenerlo in tale condizione” [74]. E ancora: “ognuno deve avere a giusto prezzo tutto
ciò che è necessario per i suoi bisogni” [75]. Lo Stato non diventa mai, in Fichte, fine a
se stesso, come accadrà nelle eterogenee forme totalitarie che hanno popolato il
Novecento, ma resta sempre uno strumento al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni, e
più precisamente della comunità in costante progresso verso il proprio perfezionamento.
Alla luce di queste considerazioni, dovrebbe emergere come dietro l’aporia da cui
avevamo preso le mosse si nasconda in verità una coerente linea di sviluppo del pensiero
politico fichtiano che, in armonia con i dettami dalla Wissenschaftslehre e dalla sua
metabolizzazione dei princìpi della Rivoluzione francese, trova la sua cifra nella libertà
umana e individua nello Stato un mezzo per garantire il processo di moralizzazione.
Dovrebbe inoltre affiorare, in filigrana, quanto sia attuale la posizione propugnata da
Fichte in Der geschlossene Handelsstaat, se non nelle soluzioni proposte (che per certi versi
possono suonare “arcaiche” e inattuabili), sicuramente nelle problematiche individuate: il
nostro tempo continua a essere l’“epoca della compiuta peccaminosità”, in cui il
nichilismo della “forma-merce” è il solo fondamento di un mondo che si dichiara “postmetafisico” e senza fondamenti, denunciando lo Stato come forma autoritaria e – questo
è il punto – ben sapendo come esso sia l’ultima forza in grado di opporsi all’odierno
“monoteismo del mercato” di stampo neoliberista:
“Nasce così nel mondo commerciale una lotta perpetua di tutti
contro tutti, lotta tra compratori e venditori; e questa lotta
diventa sempre più ardente, più ingiusta e più pericolosa per le
conseguenze, a misura che la popolazione cresce, lo stato
commerciale s’ingrandisce per le acquisizioni che
sopraggiungono, la produzione e le arti si sviluppano, e con
ciò si aumentano e diversificano le merci circolanti e i bisogni”
[76].
In questo scenario, peraltro decisamente più “peccaminoso” oggi che ai tempi di
Fichte, lo Stato può oggi essere, allora, l’ultima forma di resistenza contro il dilagare
dell’utilitarismo. Prova ne è che il sogno del pensiero neoliberale consiste, da sempre,
nell’estinzione dello Stato, secondo un processo che si sta peraltro consumando sempre
più massicciamente sotto i nostri occhi, favorito dal processo di “globalizzazione”,
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secondo il pudico nome che l’“epoca della compiuta peccaminosità” attribuisce oggi a se
stessa.
[1] Cfr. soprattutto M. Foucault, L’ordre du discours, 1971; tr. it. a cura di A. Fontana, L’ordine del discorso,
Einaudi, Torino 1972.
2 Il testo marxiano da cui ripartire per elaborare una piattaforma teorica per la storia critica delle idee
può essere soprattutto la Deutsche Ideologie, al cui centro vi è – come è noto – una riflessione sul nesso tra
le forme di strutturazione sociale, economica e politica di una data epoca e le sue produzioni simbolicoideologiche: cfr. K. Marx – F. Engels, Die deutsche Ideologie, 1845-1846 (1932); tr. it. a cura di D. Fusaro,
Ideologia tedesca, Bompiani, Milano 2011, con presentazione di Andrea Tagliapietra.
3 Sul nesso Foucaul-Marx ha recentemente scritto Toni Negri: “Foucault fa buon uso di alcune
intuizioni che il giovane Marx non fu in grado di tradurre in un dislocamento della critica della
proprietà, lungo le strutture trascendentali del capitalismo, fino alla fenomenologia della corporeità.
Nonostante Foucault abbia adottato diversi travestimenti nel suo rapporto con Marx – larvatus prodeo –
questo rapporto resta estremamente profondo” (M. Hardt – A. Negri, Commonwealth, 2009; tr. it. a cura
di A. Pandolfi, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 42). Cfr. R. M. Leonelli (a cura
di), Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma 2010; M. Barrett, The Politics of Truth. From Marx to
Foucault, Polity Press, Cambridge 1991.
4 Rimandiamo qui soprattutto al nostro Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Bompiani,
Milano 2009, in cui si è tentato di mostrare come il pensiero marxiano resti interno al paradigma
dell’idealismo fichtiano ed hegeliano. Abbiamo sviluppato il tema anche nel nostro L’“Ideologia tedesca”
tra critica della spettralità e fondazione della scienza filosofica, in K. Marx – F. Engels, Ideologia tedesca, cit., pp.
19-306. Cfr. anche C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra materialismo e idealismo, Il
Prato, Padova 2007.
5 Impieghiamo qui l’efficace espressione di Karel Kosik: cfr. K. Kosik, Dialektika konkretniho, 1963; tr.
it. Dialettica del concreto, Bompiani, Milano 1965.
6 Su questo tema, cfr. soprattutto il recente saggio di A. Tagliapietra, L’ultima delle dieci parole ovvero non
desiderare, in G. Ravasi – A. Tagliapietra, Non desiderare la donna e la roba d’altri, Il Mulino, Bologna 2010,
pp. 71-160.
7 Ci permettiamo su questo punto di rimandare al nostro Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della
vita, Bompiani, Milano 2010, con saggio introduttivo di A. Tagliapietra.
8 R. Garaudy, Avons nous besoin de Dieu?, De Brouwer, Paris 1994, 13. Cfr. anche C. Preve, Il marxismo e
la tradizione culturale europea, Petite Plaisance, Pistoia 2009.
9 K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of Our Time, Beacon Press, Boston
1944; cfr. anche M. Granovetter, Economic Action and Social Structure: the Problem of Embeddedness, in
“American Journal of Sociology”, n. 91 (1985), pp. 481-493.
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10 Cfr. J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken: philosophische Aufsätze, 1988; tr. it. a cura di M. Calloni, Il
pensiero postmetafisico, Laterza, Roma-Bari 1991. Questa raccolta di saggi habermasiani è concepita come il
seguito dell’analisi avviata in Der philosophische Diskurs der Moderne: Zwölf Vorlesungen, 1985; it. a cura di E.
Agazzi, Il discorso filosofico della modernità: dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987.
11 A proposito del presunto nesso tra “pensiero forte” e veritativo, da una parte, e autoritarismo,
dall’altra, può essere utile ricordare come Spinoza – indubbiamente il pensatore meno relativista e meno
“debole” dell’intera modernità – non soltanto non abbia avuto ricadute autoritarie in ambito politico,
ma abbia anzi fondato, nel Tractatus theologico-politicus, una politica della democrazia incardinata sulla
tolleranza e sulla libertas philosophandi. Per converso, può essere utile ricordare come il relativista
scetticheggiante David Hume esortasse i suoi lettori a dare alle fiamme i libri di metafisica.
12 Alludiamo qui, naturalmente, alla nota definizione hegeliana della filosofia come ihre Zeit in Gedanken
erfaßt: G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, 1821; tr. it. a cura di V. Cicero, Lineamenti di
filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006, p. 61.
13 Ancorché l’elenco dei testi basati su tale impostazione sia alquanto lungo, ci limitiamo qui a
segnalare come esempio paradigmatico di questa posizione il pur pregevole volume di Claudio Cesa,
Fichte e il primo idealismo, Sansoni, Firenze 1975. Cfr. anche Id., Introduzione a Fichte, Laterza, Roma-Bari
1994.
14 L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, Mursia, Milano 1976, pp. 76-77.
15 J.G. Fichte, Beitrag zur Berichtigung der Urtheile des Publicums über die französische Revolution, 1793; tr. it. a
cura di V. E. Alfieri, Contributo per rettificare i giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese, in Id., Sulla
Rivoluzione francese. Sulla libertà di pensiero, Laterza, Roma-Bari 1966.
16 Su questo punto, cfr. soprattutto J. Droz, L’Allemagne et la révolution française, PUF, Paris 1949; V.
Verra, La Rivoluzione francese nel pensiero tedesco dell’epoca, in “Filosofia”, n. 20 (1969), pp. 411-440.
17 J.G. Fichte, Briefwechsel, Haessel, Leipzig 1925, 2 voll., I, p. 123.
18 Ivi, I, p. 419.
19 Cfr. M. Guéroult, Fichte et la révolution française, in Id., Etudes sur Fichte, Hildesheim, New York 1974,
pp. 152-246.
20 Come ha sottolineato Lauth, nel Beitrag sulla Rivoluzione francese in realtà “manca la seconda parte,
storica, ove doveva essere trattato ciò ch’era proprio della situazione del momento. L’interesse
prioritario era il giudizio sulla legittimità della rivoluzione” (R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà.
Interpretazioni di Fichte, Guerini, Milano 1996, a cura di M. Ivaldo, p. 308).
21 A sostenere invece il giacobinismo totale di Fichte è M. Buhr, Revolution und Philosophie. Die
urspruengliche Philosophie Johann Gottlieb Fichtes und die franzoesische Revolution, Berlin 1965; Id., Die Philosophie
Fichtes und die franzoesische Revolution, in AA. VV., Republik der Menschheit. Französische Revolution und deutsche
Philosophie, Pahl-Rugenstein, Köln 1989, pp. 104-117. Cfr. anche C. De Pascale, Filosofia e rivoluzione nel
primo Fichte, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 56 (1975), pp. 566-581; cfr. anche Id., Le
origini teoriche dei Discorsi alla nazione tedesca. La filosofia della storia di Fichte nel primo periodo berlinese, in “Studi
senesi”, n. 89 (1977), pp. 39-103; K. Hammacher, Comment Fichte accède à l’histoire, in “Archives de
philosophie”, n. 25 (1962), pp. 388-440.
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22 J.G. Fichte, Briefwechsel, cit., I, p. 393.
23 Su questo punto sono illuminanti le riflessioni svolte da Adorno: cfr. T.W. Adorno, Philosophische
Terminologie. Zur Einleitung, 1973; tr. it. a cura di A. Solmi – S. Petrucciani, Terminologia filosofica, Einaudi,
Torino 2007, pp. 250 ss.
24 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Vorrede zur zweiten Auflage, aprile 1787; tr. it. a cura di C.
Esposito, Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, Bompiani, Milano 20072, p. 35, traduzione
modificata: “ciò è in tal modo disposto come nei primi concetti di Copernico, il quale, poiché non
trovava conveniente procedere nella spiegazione dei moti celesti in base all’assunzione che l’intera volta
stellare ruoti intorno all’osservatore, cercò se ciò non poteva riuscirgli meglio facendo ruotare
l’osservatore e all’incontro stare in quiete le stelle. Nella metafisica si può pure svolgere un simile
tentativo, per quanto riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione si dovesse regolare secondo la
conformazione degli oggetti, io non vedo come se ne potrebbe sapere qualcosa a priori. Ma se l’oggetto
(come oggetto dei sensi) si regola secondo la conformazione della nostra facoltà d’intuizione, posso
benissimo rappresentarmi questa possibilità”.
25 Cfr. M. Ivaldo, I princìpi del sapere: la visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli 1987; Id., Libertà e
ragione. L’etica di Fichte, Mursia, Milano 1992.
26 Cfr. H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, 1979; tr. it. a cura di F.
Rigotti, Naufragio con spettatore, Il Mulino, Bologna 1985.
27 J. G. Fichte, Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, 1795; tr. it. a cura di G. Boffi, Fondamento dell’intera
dottrina della scienza, Bompiani,Milano 2003, p. 281.
28 Ivi, p. 483.
29 Ivi, p. 501.
30 Ivi, p. 433.
31 Cfr. G.W.F. Hegel, Vernunft in der Geschichte, a cura di J. Hoffmeister, Meiner, Amburgo 19555, p.
149: il “cattivo infinito” è sempre alla rincorsa di qualcosa che continua a “ri-sorgere” fuori di sé,
poiché “la perfettibilità – scrive Hegel – è in sé quasi tanto indeterminata quanto la mutabilità in genere;
è senza fine e scopo”.
32 R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, cit., p. 88.
33 J.G. Fichte, Über den Geist und Buchstabe in der Philosophie, 1794-1795; tr. it. a cura di U.M. Ugazio, Sullo
spirito e la lettera, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, p. 52.
34 Cfr. Id., Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre (1797), in Fichtes Werke, a cura di I. H. Fichte, Bd. 1,
Zur theoretischen Philosophie, I, Gruyter, Berlin 1971.
35 Cfr. Soprattutto P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, 2 Bände, 1983; tr. it. a cura di M. Perniola,
Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano 1992; Id. Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, 2009;
tr. it. a cura di P. Perticari, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, Milano 2010.
36 T.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., pp. 231-232.
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37 J.G. Fichte, Versuch einer neuen darstellung der Wissenschaftslehre, 1797-1798; tr. it. Prima introduzione alla
Dottrina della scienza, in “Rivista di filosofia”, XXXVII, nn. 3-4, 1946 pp. 190 ss.
38 Cfr. Platone, Repubblica, IV 419 A – 422 E; tr. it. a cura di R. Radice, in Platone. Tutti gli scritti, a cura
di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 1160-1163.
39 Cfr. Id., Lettera VII, 324 C – 326 A; tr. it. a cura di R. Radice, in Platone. Tutti gli scritti, cit., pp. 18061807: “i mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e
sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante degli Stati,
per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia”.
40 Impieghiamo qui la distinzione tra “idealismo monomondano” e “idealismo bimondano”
tematizzata da Lukács: cfr. G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, 1972 (postumo); tr. it. a cura
di A. Scarponi, Per l’ontologia dell’essere sociale, Editori Riuniti, Roma 1976, 2 voll. in 3 tomi.
41 Platone, Repubblica, IX 592 B, cit., p. 1305.
42 Come ha mostrato Reinhart Koselleck (cfr. voce Geschichte, in Id. – W. Conze – O. Brunner,
Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Klett-Kotta,
Stuttgart 1972-1997, II, pp. 649 ss.), prima della svolta settecentesca, lungo un arco di tempo protrattosi
dal mondo dei Greci fino alla prima metà del XVIII secolo, era del tutto impossibile riferirsi
concettualmente e linguisticamente alla storia “al singolare”, intesa come “soggetto agente” e come
“concetto riflessivo”: essa o, più precisamente, esse erano immancabilmente riferite a soggetti empirici
determinati, di cui venivano a essere, appunto, le storie. Da questo punto di vista, a esistere erano
sempre la storia di Alessandro Magno, quella di Cesare, della Francia, dell’Impero, e così via, di storia in
storia. Secondo il rilievo di Koselleck, era dunque impossibile – una vera e propria contraddizione in
termini – “pensare la storia senza un soggetto (ohne ein Subjekt)” (ivi, p. 649): essa era sempre riferita a
soggetti empirici determinati, di cui era, per l’appunto, l’oggetto che subiva trasformazioni o al cui
“interno” (nel caso di Roma, della Francia, della Prussia, e così via) si svolgevano le concrete vicende.
La pluralità rapsodica delle storie non implicava mai il loro riferimento a un senso a venire né
l’“ipostatizzazione” della storia stessa, la sua trasformazione in un soggetto agente. Koselleck rievoca, a
questo proposito, un aneddoto particolarmente significativo, che testimonia della transizione, densa di
conseguenze teoriche, dal vecchio al nuovo concetto: si narra, infatti, che Federico il Grande, quando
per la prima volta udì il termine Geschichte al singolare, non capisse a che cosa si riferisse e domandò,
sbigottito, se si trattasse di un sinonimo di Historie. Il sovrano, come è evidente, conosceva
perfettamente la parola, ma non il nuovo concetto che essa veicolava nel suo uso al singolare (cfr. Id., Über
die Verfügbarkeit der Geschichte, 1977, in Id., Vergangene Zukunft: zur Semantik geschichtlicher Zeiten, 1979; tr. it.
a cura di A. M. Solmi, Sulla disponibilità della storia, in Id., Futuro passato: per una semantica dei tempi storici,
Marietti, Genova 1986, p. 226; esiste anche una più recente riedizione del testo per i tipi della Clueb,
Bologna 2007).
43 Senza addentrarci nella ingens silva della letteratura secondaria sul problema dello Stato in Fichte, ci
limitiamo qui a segnalare tre lavori particolarmente significativi, dei quali terremo conto nelle pagine
che seguono: K. Hahn, Staat, Erziehung und Wissenschaft bei J. G. Fichte, Beck, München 1969; G. Duso –
G. Rametta (a cura di), La libertà nella filosofia classica tedesca: politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel,
Franco Angeli, Milano 2000; J.C. Goddard et alii (a cura di), Fichte et la politique, Polimetrica, Bologna
2008; G. Solari, L’idealismo sociale del Fichte,in “Rivista di filosofia”, n. 33 (1942).
44 Cfr. J.G. Fichte, Zurückforderung der Denkfreiheit von den Fürsten Europens die sie bisher unterdrückten. Eine
Rede, 1793; tr. it. a cura di V. E. Alfieri, Rivendicazione della libertà di pensiero dai principi dell’Europa che
l’hanno finora calpestata. Discorso, in Id., Sulla Rivoluzione francese. Sulla libertà di pensiero, cit.
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45 J. G. Fichte Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten, 1794; tr. it. a cura di N. Merker, La
missione del dotto, Fabbri, Milano 2001, p. 28.
46 Ivi, p. 29.
47 Ivi, p. 28.
48 I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784; tr. it. a cura di F. Gonnelli,
Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza,
Roma-Bari 20066, p. 38.
49 J.G, Fichte, La missione del dotto, cit., p. 34.
50 L. Fonnesu, Antropologia e idealismo: la destinazione dell’uomo nell’etica di Fichte, Laterza, Roma-Bari 1993,
p. 21.
51 Per un inquadramento generale della filosofia della storia fichtiana, rimandiamo soprattutto a R.
Picardi, Il concetto e la storia. La filosofia della storia di Fichte, Il Mulino, Bologna 2009; C. De Pascale, Vivere
in società, agire nella storia. Libertà, diritto, storia in Fichte, Guerini, Milano 2001.
52 Non vi è qui lo spazio per una discussione sulla metabolizzazione hegeliana dei principi della
Rivoluzione. Rimandiamo a H. Marcuse, Reason and Revolution. Hegel and the Rise of Social Theory, 1941; tr.
it. a cura di A. Izzo, Ragione e rivoluzione. Hegel e la nascita della “teoria sociale”, Il Mulino, Bologna 1965; J.
D’Hont, Hegel secret, 1968; tr. it. a cura di E. Tota – M. Duichin, Hegel segreto. Ricerche sulle fonti nascoste del
pensiero hegeliano, Guerini, Milano 1989; G. Lukács, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen
Gesellschaft, 1948; tr. it. a cura di R. Solmi, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi,
Torino 19602; J. Ritter, Hegel und die französische Revolution, 1956; tr. it. a cura di A. Carcagni, Hegel e la
Rivoluzione francese, Guida, Napoli 1970. Ritter ha mostrato come la stessa filosofia politica hegeliana
possa essere letta in chiave progressista, associandola più alla Rivoluzione francese che non alla
Restaurazione: “non esiste nessun’altra filosofia che come quella di Hegel sia altrettanto, e fin dentro i
suoi più intimi impulsi, filosofia della rivoluzione” (ivi, p. 26). Ritter sottolinea con enfasi il ruolo
centrale che la Rivoluzione francese avrebbe esercitato sulla formazione intellettuale di Hegel,
mostrando come, anche dopo che l’iniziale entusiasmo andò scemando, questi non parteggiò mai per la
Restaurazione, nemmeno negli anni berlinesi. Scrive Ritter: “il giovanile entusiasmo per la rivoluzione
presente, in Hegel, all’inizio del suo itinerario filosofico, penetra nella sua stessa filosofia e continua a
operare in modo vitale nella maturità” (ivi, p. 40).
53 R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, cit., p. 283.
54 J.G. Fichte, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, 1804-1805; tr. it. a cura di A. Carrano, I tratti
fondamentali dell’epoca presente, Guerini, Milano 1999, p. 89.
55 Id., Reden an die deutsche Nation, 1808; tr. it. a cura di B. Allason, Discorsi alla nazione tedesca, UTET,
Torino 1965, p. 70.
56 Utilizziamo qui la nota espressione con cui Habermas qualifica la modernità: cfr. J. Habermas, Die
Moderne: ein unvollendetes Projekt, in Id., Kleine politische Schriften (I-IV), Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980,
pp. 444-464.
57 J.G. Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, cit., p. 195.
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58 Ivi, p. 151.
59 Ivi, p. 152.
60 Ivi, pp. 151-152.
61 Id., Discorsi alla nazione tedesca, cit., p. 141.
62 Ivi, p. 27.
63 Ivi, p. 29.
64 Id., Sämtliche Werken, a cura di I. H. Fichte, 8 voll, Berlino 1845-1846, IV, p. 599.
65 Id., I tratti fondamentali dell’epoca presente, cit., pp. 246-259.
66 Ivi, p. 246.
67 Ivi, p. 85.
68 Id., Der geschlossene Handelsstaat, 1800; tr. it. Lo Stato commerciale chiuso, Bocca, Milano 1909, pp. 63-64.
69 Id., La missione del dotto, cit., p. 15l.
70 Id., Lo Stato commerciale chiuso, cit., p. 64.
71 Ivi, p. 70.
72 Ivi, p. 6.
73 Ivi, p. 17.
74 Ivi, p. 29.
75 Ivi, p. 60.
76 Ivi, pp. 76-77.
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