La Politica estera e di sicurezza comune dell`Ue - Padis

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La Politica estera e di sicurezza comune dell`Ue - Padis
Sapienza Università di Roma
Dottorato in Storia d’Europa (XXIV Ciclo)
La Politica estera e di sicurezza comune
dell’Ue
e il Trattato di Lisbona.
Profili storici, politici e istituzionali
Candidato
Relatore
dott. Raffaello Matarazzo
Prof. Antonello Biagini
Sessione di discussione
Settembre 2012
1
2
Indice
Introduzione
Il dibattito teorico sulla politica estera europea: questioni aperte
p. 6
Capitolo primo
L’Unione
europea
alle
Nazioni
Unite:
multilateralismo
globale
versus
multilateralismo regionale.
p. 18
Capitolo secondo
L’impatto del trattato di Lisbona sulla politica estera e di sicurezza comune
p. 40
Capitolo terzo
Lo sviluppo della Pesd: dal Trattato di Amsterdam al Trattato Costituzionale
p. 58
Capitolo quarto
Il Trattato di Lisbona e l’approdo alla Psdc
p. 81
Capitolo quinto
Conclusioni: la trasformazione del sistema di sicurezza internazionale e il
futuro della Pesc/Psdc
p. 94
Appendice
p.108
3
Selezione di recenti pubblicazioni dell’autore sull’argomento della tesi
In Search of the North Star: Italy’s Post-Cold War European policy,
in G. Giacomello and B. Verbeek (eds), <http://rowman.com/ISBN/9780739148686>Italy’s
Foreign Policy in the 21st Century: The New Assertiveness of an Aspiring Middle Power?, Lanham,
Lexington Books, 2012. ISBN 978-0-7391-4868-6 ; 978-0-7391-4870-9 (ebk)
Oltre lo status quo? I dilemmi dell’azione esterna dell’Ue
in R. Gualtieri and J.L. Rhi-Sausi (eds), Rapporto 2011 sull’integrazione europea,
Bologna, Il Mulino, November 2011, p. 187-204.
National Parliaments After the Lisbon Treaty: New Power Players or
Mr No in the EU Decision-making?,
in R. Matarazzo (ed.) Democracy in the EU After the Lisbon Treaty, Rome, Nuova
Cultura, September 2011.
Rehashed Commission Delegations or Real Embassies? EU
Delegations Post- Lisbon, with M. Comelli, IAI Working Papers No. 1123, July
2011, http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iaiwp1123.pdf.
La politica estera europea nel 2009 e le potenzialita’ del Trattato di
Lisbona
in B. Cugusi e J.L. Rhi-Sausi (a cura di), Rapporto 2010 sull’integrazione europea
2010, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 229 – 245
Selezione di recenti articoli dell’autore sul tema della tesi pubblicati sulla rivista
AffarInternazionali www.affarinternazionali.it
La lunga marcia delle nuove “ambasciate” dell’Ue (06/09/2011)
L'Ue conquista spazio alle Nazioni Unite (09/05/2011)
4
Una direttrice di marcia per l’Italia (10/03/2011)
Italia surclassata a Bruxelles, ma è solo il primo tempo (21/09/2010)
Ministero degli esteri, i nervi scoperti della riforma (06/08/2010)
Servizio diplomatico europeo ai nastri di partenza (27/06/2010)
Braccio di ferro sul servizio diplomatico europeo (26/03/2010)
Ministero degli esteri, cosa cambia con la riforma (05/01/2010)
L’eroica missione del nuovo ministro degli esteri dell’Ue (20/11/2009)
Bibliografia
p. 220
5
Introduzione
Il dibattito teorico sulla politica estera europea: questioni aperte
1. Il paradosso teorico della politica estera europea
Gli studi sulla politica estera europea e sul ruolo internazionale dell’Ue hanno
conosciuto una significativa espansione nel corso degli ultimi anni. Negli anni
settanta e ottanta la Cooperazione politica europea (Cpe) suscitava scarso interesse
tra gli studiosi, anche perché considerata troppo fragile e, probabilmente, poco
promettente. Con la creazione della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc,
introdotta con il trattato di Maastricht, nel 1993) e successivamente della Politica
europea di sicurezza e difesa, l’interesse nei confronti di questa materia è andato
progressivamente crescendo. Nell’ultimo decennio, in particolare, si sono sviluppati
diversi network tra centri studi e università europee, che hanno ispirato numerose
conferenze, pubblicazioni, e nuovi filoni di ricerca, tra cui anche una rivista
accademica interamente dedicata agli studi sulla politica estera europea, la European
Foreign Affairs Review 1.
1
Particolare rilevanza hanno avuto i network FORNET, coordinato dal prof. Christopher Hill,
dell'Università di cambridge, che si è poi sviluppato nel più ampio network di eccellenza EU CONSENT
(http://www.eu-consent.net/ ) coordinato dal prof. Wolfgang Wessels, dell'Univ. Di Colonia, e finanziato
dall'Ue.
6
Abbastanza sorprendentemente, tuttavia, non esistono opere complessive
sull’evoluzione del sistema di politica estera dopo la fine della Guerra fredda. La
storia delle origini della Pesc di Simon Nuttal (2000)2 rimane il lavoro più
approfondito e rigoroso sulla transizione dalla Cpe alla Pesc, ma non colma la lacuna
di una strutturata analisi storica sullo sviluppo della materia dopo la fine della guerra
fredda. Nè esistono, in realtà, molti tentativi di spiegare le ragioni di questi sviluppi.
Questi ritardi non sono casuali. Hanno probabilmente a che fare con il
paradosso, sottolineato da vari analisti, che caratterizza il rapporto tra gli studi teorici
di politica internazionale e la politica estera comune, definita in senso lato come “il
tentativo dell’Unione europea e dei suoi stati membri di assicurare che le loro
molteplici e variegate relazioni esterne risultino al mondo esterno con un profilo più
coerente possibile” 3.
Da un lato, infatti, lo studio delle relazioni internazionali (IR) è stato sempre
prevalentemente eurocentrico, e si è sviluppato soprattutto in Europa dopo la prima
guerra mondiale. E e anche quando, dopo la seconda guerra mondiale, il baricentro
dell’analisi di IR si è spostato verso gli Usa, l’attenzione sull’ordine europeo è
rimasta molto alta a causa della guerra fredda. D’altro canto, tuttavia, lo sviluppo di
una politica estera comune è stato largamente ignorato dai teorici delle relazioni
2
S. Nuttal, European Foreign Policy, Oxford University Press, Usa, 05/ott/2000
F. Andreatta, The European Union’s international relations: A Theoretical View, in C. Hill and M.
Smith, (eds), International relations and the European Union, Oxford University Press, 2011, p. 22
3
7
internazionali, o trattato come un fenomeno prevalentemente emipirico. Lo studio
delle istituzioni europee è stato infatti affrontato più nell’ambito dell’economia
internazionale che delle relazioni internazionali.
Ciò è dipeso prevalentemente da due ragioni di fondo. La prima e più rilevante
è che le principali teorie di relazioni internazionali hanno a che fare con gli stati e i
rapporti tra di essi, e la Ue non è nè uno stato nè un’alleanza tradizionale, bensì un
soggetto analitico del tutto particolare. In secondo luogo, l’integrazione ha raggiunto
livelli più approfonditi in settori interni come il commercio, l’agricoltura, la sfera
monetaria, mentre la politica estera è sembrata ai più soprattutto un wishful thinking
piuttosto che un terreno di analisi meritevole di ulteriori approfondimenti.
2. Limiti e opportunità dell’approccio multidisciplinare
Alla luce di queste premesse, la proliferazione degli studi di politica estera che
si è registrata negli ultimi anni è avvenuta in modo molto eterogeneo e
metodologicamente molto diversificato. Mentre alcuni accademici, come ad esempio
Tonra, hanno ritenuto che una tale “disarticolazione” degli studi potesse offrire
risposte più ricche alle domande più radicali,4 altri hanno invece messo in luce il
rischio di una eccessiva differenziazione ontologica e epistemologica, che porta a una
4
Tonra, B. Mapping EU Foreign Policy Studies, in Journal of European Public Policy, Vol. 7, 1:
163-169.
8
concettualizzazione della politica estera talmente diversa da non consentire la
produzione di un “corpo di conoscenze cumulativo” e dunque scientificamente
coerente.5 Questa tendenza ha recentemente indotto alcuni studiosi, tra cui ad
esempio
Karen
E.
Simith,
a
denunciare
il
rischio
di
una
eccessiva
“compartimentalizzazione” della letteratura sulla politica estera europea, ovvero una
tendenza a concentrarsi solo su alcuni temi specifici, o “microstudi”, realizzati
prevalentemente attraverso l’interazione tra accademici che appartengono alle stesse
scuole di pensieto o filoni teoretici. A questo è collegato, secondo la Smith, il rischio
di un eccesso di teorizzazioni, a volte non suffragate da sufficienti evidenze
empiriche o dati storici, che rende il dibattito sulla politica estera europea troppo
astratto o chiuso all’interno di ristretti circuiti accademici.6
3. Domande di ricerca
Quali sono, dunque, le principali domande di ricerca intorno alle quali si sono
confrontate le diverse prospettive teoriche? La prima, fondamentale è perchè gli stati
membri dell’Ue concordino di agire collettivamente. Da questa, discende la domanda
su come si sviluppano le diverse politiche europee nel campo delle relazioni esterne,
5
Carlsneas, W. Where is the Analysis of European Foreign Policy Going?, in European Union
Politics, 5, 4: 495-508, 2004
6
Karen E. Smith, The European Union in the World: Future Research Agendas, in Michelle Egan,
Neill Nugent and William E. Paterson (eds), Research Agendas in EU Studies, Stalking the Elephant,
Palgrave Macmillan, 2010, pp. 329 – 353.
9
che ha dato luogo a numerosi filoni di letteratura accademica. Un terzo rilevante
nucleo di analisi si è dedicato al cercare di rispondere al perché le istituzioni e il
processo decisionale della politica etsera europea è evoluto in questo modo, e che
impatto questo ha sulla sostanza di ogni politica comune concordata. Il dilemma ha
avuto molteplici risposte, che si differenziano anche su un’altra questione di fondo: la
valutazione di quali siano gli effettivi limiti dell’azione collettiva dell’Ue. Queste
analisi sono state costantemente accompagnate, anche su impulso delle diplomazie
nazionali, dalla valutazione dell’impatto che le istituzioni di politica estera, il
processo decisionale e le politiche comuni hanno sugli stati membri. Un ultimo
aspetto cui è stata dedicata crescente attenzione riguarda l’impatto che la Ue ha
sull’esterno, e soprattutto, sulle istituzioni internazionali in generale. 7
4. Questioni aperte
Nonostante importanti progressi su temi appena menzionati, molti nodi
rimangono al pettine, sia dal punto di vista teorico che pratico. Agli sviluppi
accademici, infatti, non ha sempre fatto seguito una sufficiente analisi di carattere
empirico, che necessita anche di una certa sedimentazione e profondità storica. Lo
studio delle relazioni dell'Ue con il resto del mondo, infatti, riguarda molteplici livelli
(internazionale, europeo, nazionale e regionale) anche di difficile monitoraggio, e un
7
B. Voltolini, La politica estera e di sicurezza: approcci teorici recenti, in G. Bonvicini (a cura di),
L’Unione europea attore di sicurezza regionale e globale, FrancoAngeli, Milano 2010, p. 45-63
10
numero altrettanto ampio di attori politici e istituzionali. La politica estera europea è,
inoltre, in costante trasformazione, con sempre nuove istituzioni e strumenti di
attuazione delle politiche, non ultimo il graduale processo di allargamento dell'Ue.
Per altro verso, in un sistema internazionale sempre più interdipendente, i
confini delle relazioni internazionali si sono spostati ben al di là di quelli
tradizionalmente definiti dalle politiche estere nazionali. Questioni che in passato
facevano capo alle responsabilità dei governi, come ad esempio l'ambiente, la
criminalità, il terrorismo, l'alimentazione, i trasporti, la finanza, ecc, sono sempre più
intrecciate a processi che si sviluppano livello internazionale.
Anche il “sistema della politica estera europea” va dunque considerato nel suo
complesso e ben al di là degli angusti confini della Pesc e della Psdc (Politica di
sicurezza e difesa comune, il nome che la Pesd ha assunto con l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, nel dicembre 2009), tenendo in conto politiche, competenze e
attori dell'ex primo pilastro (riguardante soprattutto le politiche di competenza della
Commissione europea, o comunitario), dello Spazio di Libertà Sicurezza e Giustizia,
(SLSG, ex secondo pilastro) nella misura in cui hanno implicazioni esterne, e di altre
sfere dell'azione dell'Ue.8 Il termine “sistema” indica dunque una realtà non integrata
come quella di uno stato o di una federazione, ma un insieme di norme e istituzioni
“specificamente create, e dunque utilizzate (almeno occasionalmente), per produrre
8
Council of the European Union, EU Internal Security Strategy, Brussels, 25 February 2010. 6870/10
11
politiche comuni verso e condurre relazioni con, il resto del mondo”9. Nonostante in
questo contesto i soggetti più importanti rimangano gli stati membri, le figure
istituzionali della politica estera europea individuate dal Trattato di Lisbona possono
svolgere un ruolo non secondario: il presidente “stabile” del Consiglio europeo, la
Commissione, l'Alto rappresentante per la Pesc (Ar) coadiuvato dal Servizio europeo
per l'azione esterna (Seae). Definire il ruolo e le competenze esatte di ognuno di
questi attori si sta rilevando uno degli aspetti più problematici e delicati
dell'attuazione del nuovo Trattato.
Alla luce di questa analisi, le sfide che la ricerca sulla politica estera europea
deve affrontare sono prevalentemente di tre tipi: 1) analizzare l'evoluzione del
“sistema della politica estera dell'Ue”, che include le istituzioni, le regole formali e
informali che guidano la formazione e l'attuazione dell'insieme delle politiche esterne
che vengono realizzate in nome dell'Ue; 2) valutare il processo politico, incluso il
risultato e l'attuazione della politica; 3) esaminare l'impatto che le politiche comuni (o
il mancato accordo su di esse) hanno sul sistema stesso, sugli stati membri e, se
possibile, anche sul sistema internazionale.10
9
K. E. Smith, The European Union in the World , cit. p. 330.
10
Ibidem
12
Il presente lavoro di ricerca si basa in parte sull’attività di analisi sviluppata
presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI), di Roma, con cui l’autore collabora, in
qualità di ricercatore, dal gennaio 2003. L’approccio metodologico si basa dunque, in
larga parte, sull’analisi dei documenti ufficiali prodotti dalle istituzioni europee, sulle
interviste dirette realizzate a funzionari, esperti o practitioneers del settore, sugli
studi pubblicati dai principali centri studi europei e, infine, sulle valutazioni emerse
nel corso dei numerosi convegni internazionali
cui ha avuto la possibilità di
partecipare nel corso degli ultimi anni. Il risultato è una ricerca molto orientata
sull’attualità e, forse, in parte sbilanciata più verso la dimensione empirica, giuridica
o istituzionale che verso quella più puramente accademica. Le analisi empiriche
presentate in questa tesi tengono tuttavia ben presente anche il dibattito teorico che le
presuppone, cercando al tempo stesso di colmare alcune specifiche lacune
conoscitive e, soprattutto, tentando di mettere in luce i filoni di ricerca che sembrano
potenzialmente più innovativi e promettenti.
Il primo capitolo, in particolare, prende in esame il crescente rapporto tra
l’Unione europea e le Nazioni Unite, che rappresenta il modello più avanzato di
cooperazione tra un’organizzazione regionale e una globale. L’analisi è condotta alla
luce della significativa espansione che gli studi in materia hanno conosciuto negli
ultimi anni, i quali hanno portato a valutazioni molto articolate e anche tra loro
contraddittorie. Nel complesso, comunque, emergono i numerosi limiti strutturali che
l’azione dell’Ue continua ad incontrare all’interno dell’Onu, dovuta in parte alle
13
resistenze che gli stati membri oppongono ad una crescente armonizzazione delle
politiche e alla cessione di spazi e poteri ai rappresentanti dell’Ue, in parte alle sfide
che un’organizzazione fondata dagli stati e per gli stati, come l’Onu, deve affrontare
nell’incontro con un’organizzazione regionale. Non a caso, questo processo ha fatto
parlare di Intersecting Multilateralism, per definire la specifica dinamica che si
realizza nell’incontro tra queste due realtà.11 Se l’attività dell’Ue all’Onu coinvolge
molte dimensioni dell’azione esterna dell’Ue e, dunque, a quel “sistema di politica
etsera” cui si è fatto cenno, particolare attenzione viene dedicata in particolare al
ruolo e ai limiti della Psec in questo contesto.
Il secondo capitolo si focalizza invece sul più recente impatto del Trattato di
Lisbona sulla Politica estera e di sicurezza comune, prendendone in esame soprattutto
gli aspetti politici e giuridici. L’analisi tiene conto anche delle profonde
trasformazioni del quadro internazionale intervenute tra il periodo in cui il Trattato
era stato originariamente concepito ed elaborato (durante la Convenzione sul futuro
dell’Ue, 2002-2003), anche per preparare il grande allargamento europeo del 2004, e
quello in cui è invece entrato in vigore, nel dicembre 2009. Uno degli obiettivi
fondamentali dell’ulteriore riforma dei trattati avviata nel 2002 era infatti proprio il
rafforzamento della proiezione internazionale dell'Ue. Se, in effetti, in questo ambito
sono state introdotte diverse importanti innovazioni (dal rafforzamento della figura
11
Katie Verlin Laatikainen and Karen E. Smith, edited by, The European Union at the United Nations,
Intersecting multilateralism, Palgrave, 2006;
14
dell’Alto rappresentante, al Servizio diplomatico europeo, alla personalità giuridica
dell’Ue), non è stato tuttavia affrontato il vero noto di fondo che continua a
condizionare profondamente la Pesc: il sistema decisionale basato sull'unanimità.
Mentre il voto a maggioranza qualificata è stato infatti esteso a molte altre aree, la
Pesc ha continuato ad esserne esclusa, con gravi ripercussioni sulla sua effettiva
funzionalità. Questa scelta conferma le irriducibili resistenze dei governi e delle
diplomazie europee a compiere significative cessioni di sovranità in questo settore
strategico. Il capitolo si sofferma, inoltre, anche su un altro aspetto che si sta
rivelando problematico dell’attuazione del trattato, anche se rigiarda più l’azione
esterna dell’Ue in generale che specificamente la Pesc: la rappresentanza, con
particolare attenzione al quella presso le organizzazioni internazionali, su cui tra
istituzioni comuni e alcuni stati membri si è consumato un aspro confronto,
considerato paradigmatico del clima sempre più “intergovernativo” che caratterizza
la vita dell’Unione.
Il terzo capitolo si concentra invece su una parte essenziale della Pesc, ovvero
la Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd), fino al suo più recente sviluppo nella
Psdc. Dopo aver conosciuto una evoluzione più significativa di molte altre importanti
politiche dell’Ue tra la fine degli anni novanta e la prima metà di quelli duemila, oggi
l’integrazione nel campo della difesa risente non meno di altri settori della crisi crisi
politica, economica e finanziaria che attanaglia l’Ue. Il capitolo ne ripercorre
l’evoluzione politica e istituzionale dal Trattato di Amsterdam, a quello di Nizza, fino
15
all’impatto del trattato di Lisbona. L’analisi cerca in particolare di valutare se gli
sviluppi istituzionali della Psdc stanno contribuendo alla realizzazione del suo scopo
fondamentale: assicurare che l'Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo
a mezzi civili e militari per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei
conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale. In questo quadro, il
capitolo si sofferama anche sullo sviluppo dei rapporti tra Ue e Nato, da sempre
fondamentali per la sicurezza europea, fino a giungere alle implicazioni per l’Ue del
recente conflitto in Libia e alla crescente spinta verso intese di carattere bilaterale tra
paesi, che rischia seriamente di compromettere il volto dell’integrazione in questo
settore per come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo decennio. L’analisi, tuttavia, si
sviluppa tenendo sempre presente che mentre le questioni operative hanno un
carattere più strategico e legato alla proiezione esterna dei paesi, quelle industriali e
di mercato coinvolgono delicate scelte interne di carattere economico, giuridico e
politico. Anche per questo gli stati membri più interessati a rafforzare le capacità
militari dell’Ue non sempre sono anche favorevoli ad una maggiore integrazione nel
settore della difesa.
L’ultimo capitolo, infine, si sofferma sulla più recente trasformazione del
sistema internazionale, caratterizzata dalla transizione di potere dall’Occidente verso
le nuove aree emergenti. In quetso contesto, l’integrazione politica e istituzionale
dell’Ue rappresenta un modello su scala mondiale, il cui fallimento potrebbe avere
riperscussioni estremamente negative anche sull’evoluzione del sistema nel suo
16
complesso. Il modello multilaterale sviluppato dall’Ue è infatti sempre più sfidati
dalle spinte multipolari e dal crescente protagonismo degli stati nazionali, sia
all’esterbo che all’esterno dei confini europei. Questra tendenza può ridare slancio a
letture e interpretazioni basate sul modello della politica di potenza. La capacità di
un’organizzazione come l’Ue di poter sviluppare una autonoma politica estera e di
sicurezza risulta dunque fondamentale sotto vari profili: l’impulso che potrebbe
fornire al processo di riforma delle principali istituzioni multilaterali internazionali (o
regionali), che potrebbero così riacquisire centralità sostenendo con più vigore
l’adattamento delle istituzioni di Bretton Woods al nuovo mondo; la garanzia di
stabilità che potrebbe offrire alle aree del vicinato europeo, attraversate da processi di
trasformazione radicali che richiedono una presenza, soprattutto politica e culturale,
profondamente diversa da quella espressa dagli europei fino allo scoppio della
Primavera araba; la maggiore forza che potrebbe dare ai paesi europei sulla scena
internazionale, altrimenti condannati ad una irreversibile marginalizzazione.
17
Capitolo primo
L’Unione europea alle Nazioni Unite: multilateralismo globale
versus multilateralismo regionale. 12
Il rapporto tra organizzazioni globali e organizzazioni regionali e’ da diversi
anni al centro degli studi sullo sviluppo della governance globale. Nazioni Unite
(Onu) e Unione europea (Ue) costituiscono due dei modelli piu’ avanzati in questo
ambito, e la loro modalita’ d’interazione e’ un punto di riferimento per molte
istituzioni e organizzazioni che operano con prospettive ed interessi analoghi. Non a
caso, nel corso degli ultimi anni il filone di studi che analizza l’azione dell’Ue
all’interno dell’Onu e la cooperazione tra le due organizzazioni ha conosciuto una
significativa espansione13.
12
Una prima versione di questo capitolo è stata anticipata in L’Unione europea alle Nazioni Unite e il
contributo dell’Italia, con F. Niglia, in E. Pfoestl (ed.), Rapporti tra Unione Europea e organizzazioni
internazionali, Rome, Apes, 2010, p. 47-79.
13
Sul tema si veda, tra l’altro, M.B. Rash: The European Union at the United Nations, Martinus Nihoff
Publishers, Leiden – Boston 2008; Richard Gowan and Franziska Brantner, A global force for human
rights? An audit of European power at the UN, European Council on Foreign Relations, London,
September 2008; Thierry Tardy, The European Union and the United Nations: global versus regional
multilateralism, in Studia Diplomatica, Vol. LX, 2007, n.1, pp. 191 – 209. Fiona Creed, Global
Perseptions of the Euuropean Union at the United Nations, in Studia Diplomatica, Vol. LIX, 2006, n.4,
pp. 5 – 18. Katie Verlin Laatikainen and Karen E. Smith, edited by, The European Union at the United
Nations, Intersecting multilateralism, Palgrave, 2006; The European Union and the United Nations,
Martin Ortega, edited by, ISS, Chaillot Paper, n. 78, Paris, June 2005; Eide E. B., ed., “Effective
Multilateralism”: Europe, Regional Security and a Revitalized UN. Global Europe, Report 1, Foreign
Policy Centre, London, December 2004;
18
Gli esiti principali di questi studi forniscono un’ampia panoramica, supportata
da molti dati empirici, sull’azione dell’Ue all’interno dei diversi organi dell’Onu. Le
valutazioni e i bilanci sull’efficacia di questa azione sono molto variegati e a volte
anche tra loro contraddittori. Nel complesso, tuttavia, mettono in luce due punti: se da
un lato l’Ue ha
significativamente affinato e rafforzato, nel corso dell’ultimo
quindicennio, la sua proiezione e i livelli di coordinamento all’interno dell’Onu,
dall’altro essa conserva alcuni importanti limiti strutturali, prevalentemente legati alla
scarsa armonizzazione delle politiche e al persistere (a causa delle resistenze di alcuni
paesi maggiori, come Francia e Gran Bretagna, membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza, CdS, ma non soltanto) di un’interpretazione troppo restrittiva ed esclusiva
degli interessi nazionali. Questi limiti non permettono di superare il paradosso di cui
la proiezione dell’Ue come attore globale e’ vittima, anche all’interno dell’Onu: pur
essendo i principali contributori al bilancio delle Nazioni Unite, gli stati membri
dell’Ue continuano ad avere un livello d’influenza politica non proporzionato al loro
peso economico14.
14
Gli Stati membri dell’Ue contribuiscono per il 38% al bilancio dell’Onu, partecipando a più di due quinti
delle operazioni di pace e a circa la metà dei programmi e dei fondi volontariamente forniti da tutti i paesi
membri. L’Unione ha inoltre confermato di essere il principale sostenitore degli Aiuti allo sviluppo, con un
investimento programmato di circa 80 miliardi di dollari l’anno.
19
I rapporti tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali hanno subito
importanti cambiamenti nel corso degli ultimi due decenni15. A dare il via a questo
rapporto fu il documento presentato nel 1992 dall’allora Segretario Generale Boutros
Boutros – Ghali, Agenda for Peace16, nel quale il rafforzamento del nesso strategico
tra l’Onu e le organizzazioni regionali veniva individuato come una delle chiavi
fondamentali per la difesa del sistema di sicurezza internazionale, anche alla luce
delle trasformazioni iniziate con il crollo del muro di Berlino. Da allora in avanti
molta strada e’ stata fatta, ed alcune delle organizzazioni regionali piu’ importanti,
come la Nato, l’Osce e l’Ue sono state indotte a chiarire e, dove possibile,
istituzionalizzare i loro rapporti con le Nazioni Unite. In questo quadro il bilancio
dello sviluppo dei rapporti tra l’Ue e l’Onu puo’ essere valutato in modo
complessivamente positivo.
Sebbene lo status di “osservatore” presso l’Onu sia stato garantito alla Comunita’
europea fin dal 1974, con la risoluzione 3208/29 dell’Assemblea Generale, e’ stato
solo con lo sviluppo della Politica europea e di sicurezza comune (Pesc) come
secondo pilastro del Trattato di Maastricht (in vigore dal primo novembre 1993), che
15
Sugli aspetti giuridici del rapporto tra Nazioni Unite e organizzazioni regionali si veda tra l’altro A. Gioia,
“The United Nations and regional organizations in the maintenance of peace and security”, in The OSCE in
the Maintenance of Peace and Security, ed. by M. Bothe, N. Ronzitti and A. Rosas, The Hague, Kluwer,
1997, 191- 236.
16
Report of the Secretary General, An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peacemaking and
peacekeeping, A/47/277,S/24111, 17 Giugno 1992.
20
l’Unione ha iniziato a definire un suo profilo piu’ autonomo e che gli Stati europei
hanno iniziato a sperimentare meccanismi di cooperazione sempre piu’ articolati.
Da un punto di vista liberal-istituzionalista, la cooperazione tra Ue e Onu
dovrebbe essere ispirata da reciproco interesse e da una concezione simile del proprio
ruolo per il mantenimento della pace e della sicurezza globali. Ue e Onu possono
infatti essere considerati attori razionali la cui azione non e’ completamente
condizionata dagli Stati nazionali. Da questo punto di vista la loro cooperazione puo’
essere garantita se risponde a tre condizioni di fondo: 1) la cooperazione deve
produrre risultati riconoscibili; 2) gli scambi inter-istituzionali devono seguire
processi a diversi livelli; 3) il numero degli attori coinvolti negli scambi deve essere
limitato17. In linea teorica queste tre condizioni possono essere assolte in molte delle
circostanze in cui Ue e Onu si trovano ad interagire.
1. L’Onu al centro della politica estera europea
La centralita’ delle Nazioni Unite nel sistema di relazioni esterne dell’Unione
Europea, cosi’ come, piu’ in generale, l’impegno dell’Ue per il multilateralismo, sono
17
Kenneth Oye (ed.), Cooperation under Anarchy (Princeton, Princeton University Press, 1986).
21
ben radicate nella storia recente dell’Unione e sono state richiamate in molte sedi e
documenti ufficiali18.
Il “rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto
internazionale” sono indicati nel primo articolo sulle “disposizioni generali
sull’azione esterna dell’Unione” (10 A) del Trattato di Lisbona. Nello stesso articolo
del Trattato, in continuita’ con quanto contenuto in quello di Nizza, si precisa inoltre
che l’Unione “promuove soluzioni multilaterali ai problemi comuni, in particolare
nell’ambito delle Nazioni Unite”.
Se gia’ la Strategia per la Sicurezza Europea (ESS, adottata dal Consiglio
europeo nel dicembre 2003 come primo documento strategico dell’Ue) poneva al
centro del suo impianto il concetto di “multilateralismo efficace” imperniato sulle
Nazioni Unite19, il documento integrativo della Strategia presentato dall’Alto
Rappresentante per la Pesc, Javier Solana, e approvato dal Consiglio europeo del 12
dicembre 2008, ribadisce che “a livello globale, l’Europa deve guidare il
rinnovamento dell’ordine multilaterale. L’Onu sta al vertice del sistema
18
Si vedano le due Comunicazioni della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo: The European
Union and the United Nations: The choice of multilateralism, 10.9.2003; The 2005 UN Summit –
Addressing the global challenges and making a success of the reformed UN, 15.6.2005; and European
Parliament Resolution on the Reform of the United Nations, B6-0328/2005, 9 June 2005).
19
“Il quadro fondamentale in cui si collocano le relazioni internazionali e’ la Carta delle Nazioni Unite. Il
Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha la responsabilita’ primaria del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionali. Rafforzare le Nazioni Unite e dotarle di mezzi necessari perche’ esse assolvano
alle loro responsabilita’ e agiscano con efficacia rappresenta una priorita’ per l’Europa.” Un’Europa
sicura in un mondo migliore, European Council, Bruxelles, December 12, 2003, p. 9.
22
internazionale. Ogni iniziativa intrapresa dall'UE nel settore della sicurezza è stata
connessa agli obiettivi delle Nazioni Unite”20. Per poi concludere che “abbiamo
un'opportunità unica per rinnovare il multilateralismo, collaborando con gli Stati
Uniti e con i nostri partner in tutto il mondo. Per l'Europa il partenariato
transatlantico rimane un fondamento irrinunciabile, basato su una storia ed una
responsabilità condivise”21. Il documento sottolinea inoltre che l’Ue opera oggi a
stretto contatto con le Nazioni Unite in quasi tutte le principali operazioni di pace
sotto la bandiera dell’Onu: Kosovo, Afghanistan, Repubblica Democratica del
Congo, Sudan/Darfur, Chad e Somalia. L’Ue svolge un ruolo fondamentale in tutte le
sedici operazioni di Peacekeeping dell’Onu attualmente in corso.
2. La Pesc alla prova dell’Onu
Il processo d’integrazione dell’Ue ha conosciuto diverse fasi, giungendo a
realizzare un modello di “nuovo regionalismo”, che offre le basi della governance
regionale. Con lo sviluppo della Politica europea e di sicurezza comune (Pesc) come
secondo pilastro del trattato di Maastricht (1993), la Ue e’ entrata nel regionalismo di
“terza generazione”, ovvero quello dell’integrazione delle politiche esterne. La Pesc
20
Brussels, December 11, 2008, S407/08, Report on the Implementation of the European Security Strategy,
Providing Security in a Changing World:
http://www.eu-un.europa.eu/documents/en/081211_EU%20Security%20Strategy.pdf
21
Ivi, p. 4
23
e’ realizzata grazie ad una cooperazione a livello
intergovernativo abbastanza
complessa, basata sull’intreccio tra interessi comuni e interessi nazionali (la difesa
dei quali e’ particolarmente rilevante nel campo della politica estera), ma anche di
trattati, regolamenti e accordi informali che nel corso degli ultimi quindici anni ha
conosciuto fasi di sviluppo discontinue ma nel complesso abbastanza significative22.
Le Nazioni Unite costituiscono un interessante punto di osservazione
dell’evoluzione e del funzionamento della Pesc per diverse ragioni. Innanzi tutto per
il fatto, gia’ menzionato, che per la Ue ed i suoi stati membri l’Onu e’ la piu’
importante organizzazione internazionale, posta al centro della sua politica estera e
azione esterna. Inoltre perche’ il sostegno finanziario che l’Ue e gli Stati membri
forniscono all’Onu non ha pari con quello fornito a nessun’altra organizzazione. In
terzo luogo, perche’, al di fuori di Bruxelles, sedi istituzionalizzate di coordinamento
come la rappresentanza ufficiale dell’Ue e una sede distaccata del Segretariato del
Consiglio sono presenti solo presso l’Onu. Quarto, perche’ lo spettro delle materie
affrontate dall’Onu e’ molto ampio e consente di misurare la coesione dell’Ue su
molti terreni: politico, sociale, ambientale, economico, umanitario, di sicurezza. Per
questo all’Onu si puo’ misurare con una certa efficacia l’azione dell’Ue rispetto a
tutti e tre gli ex pilastri anche se, per ovvie ragioni, la maggior parte delle questioni
rientra poi tra le materie dell’ex secondo pilastro (la Pesc). Infine, perche’ con soli 27
22
Sul tema si veda anche N. Ronzitti (ed.), Le forze di pace dell’Unione Europea, Rubettino - Cemiss,
Aprile 2005.
24
membri l’Ue e’ un gruppo relativamente piccolo rispetto all’intera membership
dell’Onu (192 Stati), ed in un contesto multilaterale cosi’ vasto le sollecitazioni
provenienti da Stati terzi costituiscono una costante tentazione all’anteposizione
dell’interesse nazionale rispetto a quello del gruppo di appartenenza. La dinamica
dello one State one vote ed il fatto che l’Onu riconosca lo Stato nazione come unita’
fondamentale, costituisce una minaccia costante alla coesione dell’Ue e alla sua
ambizione fondamentale di “parlare con una voce sola” e agire come soggetto
unitario23. Il modo in cui l’Ue riesce a parlare con una voce sola, infatti, “e’ un
indicatore importante del suo sviluppo come attore di politica estera”24.
Presso le Nazioni Unite, inoltre, un’altra variabile importante e’ il “fattore
temporale”: mentre si discute, gli altri 165 Stati membri non sono fermi, ma operano
per raggiungere i propri obiettivi e, spesso, anche per dividere le compagini piu’
coese, che possono ostacolare i propri interessi. Assumere decisioni in tempi rapidi e
attraverso modalita’ non troppo dispersive diventa dunque fondamentale, e
certamente mette sotto pressione (e dunque anche alla prova) le strutture ed i processi
decisionali della Pesc. Ma spinge anche le sue strutture a evolvere e diventare piu’
flessibili.
23
Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit.
24
Katie Verlin Laatikainen and Karen E. Smith, Introduction - The European Union at the United Nations:
Leader, Partner or Failure? In The European Union at the United Nations, cit., p. 3.
25
L’analisi dei processi decisionali dell’Ue all’Onu mette tuttavia in luce che le
posizioni europee sono frutto di una triangolazione molto complessa che coinvolge le
rappresentanze degli Stati membri dell’Ue all’Onu, le capitali europee e le istituzioni
di Bruxelles. Questi tre soggetti hanno prospettive e interessi spesso molto diversi tra
di loro, e trovare il punto di mediazione risulta estremamente difficile. Le istituzioni
di Bruxelles e quelle di New York in molte circostanze non hanno il peso politico
sufficiente a bilanciare le decisioni delle capitali. Queste ultime, pero’, esprimono
spesso visioni rigide e condizionate piu’ da elementi nazionali che sensibili alle
istanze multilaterali, il che ostacola molto il raggiungimento di un accordo a New
York. Questa distanza fa emergere anche la differenza che esiste tra quella che e’
stata definita la “Brussellizzazione” dei processi decisionali della Pesc rispetto alla
effettiva “Europeizzazione” degli stessi, che e’ ancora ben lungi dal realizzarsi25.
L’”Europeizzazione” implica infatti un’impostazione culturale e politica dei diversi
soggetti istituzionali che cooperano alla definizione delle decisioni in ambito Pesc e
che trascende le sedi specifiche (spesso, appunto, collocate a Bruxelles) dove la
decisione prende forma, giungendo ad avere un impatto chiaro e riconoscibile sulla
politica dell’Unione e sulle sue posizioni politiche. Vista dall’Onu, la distanza tra la
Brussellizzazione e l’Europeizzazione della Pesc risulta ancora molto evidente. Se e’
vero, come sottolineava Jean Monnet, che e’ la cooperazione istituzionale e non
quella intergovernativa a costituire la chiave di volta del processo d’ integrazione, si
25
M.B. Rash: The European Union at the United Nations, cit.
26
può affermare che oggi la Pesc rappresenti ancora uno dei terreni piu’ controversi
dell’integrazione europea.
3. Gli Stati europei all’Onu
L’analisi quantitativa dei voti dei paesi membri dell’Ue all’interno dell’Onu
(tra Assemblea Generale e Consiglio di Sicurezza) indica che tra il 1993 e il 2005, i
paesi europei hanno votato insieme il 75% delle volte26. Questo dato relativamente
soddisfacente, soprattutto se proiettato su un periodo di tempo cosi’ prolungato e in
parte “di incubazione” per la Pesc, nasconde tuttavia aspetti politici piu’
problematici: gli Stati membri dell’Ue si sono compattati su molti temi politicamente
secondari, mentre si sono divisi su quelli piu’ importanti. Gli Stati europei,
soprattutto quelli piu’ attivi ed influenti all’Onu, hanno dimostrato di saper utilizzare
efficacemente le strutture dell’Unione europea nei casi in cui i suoi obiettivi sono
serviti a potenziare gli interessi nazionali, ma si sono poi rivelati pronti a non
considerarla quando invece le posizioni dell’Ue entravano in conflitto (o soltanto non
coincidevano) con le loro. L’analisi dei voti indica in modo abbastanza chiaro che il
comportamento degli Stati si e’ sviluppato in modo largamente indipendente dalle
linee principali della politica estera europea, e cio’ e’ in larga misura dovuto alla
26
Quantitative analysys of EU voting behaviour in the UN General Assembly, in M. B. Rash, The European
Union at the United Nations, cit. pp. 205 – 300.
27
debolezza delle strutture istituzionali della Pesc (volutamente mantenute tali dagli
Stati membri) che non riesce a fornire condizionamenti sufficienti per gli Stati
membri nelle occasioni piu’ importanti e qualificanti della politica estera dell’Ue.
Tutto questo ovviamente ha un impatto sull’immagine esterna dell’Ue nel contesto
multilaterale, e soprattutto sulla sua credibilita’ come attore unitario e non
condizionabile dall’esterno27. La perdita di credibilita’ esterna ha delle implicazioni
politiche ancor piu’ rilevanti della divisione in occasione del voto, ed alimenta
dinamiche, da parte dei paesi terzi, che contribuiscono a rendere il profilo dell’Ue
ancora piu’ frastagliato e permeabile. L’analisi del voto rivela, inoltre, che anche
nelle occasioni in cui gli Stati concordano su alcune posizioni, il contesto
multilaterale fa emergere i profili nazionali in modo molto piu’ netto, ed il fatto che
l’Onu costituisce anche una straordinaria tribuna internazionale acuisce le “spinte
centrifughe”. Da questo punto di vista, è un primo segnale molto importante il fatto
che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona gli Stati europei hanno deciso di
conferire all’Ue, con il consenso dell’Assemblea generale, uno status di osservatore
speciale, anche per differenziarla dalle altre organizzazioni regionali, rispetto alle
27
Si veda Paul Luiff, “EU cohesion in the UN General Assembly”, ISS, Occasional Papers, No. 49,
December 2003
28
quali l’Ue si connota comunque come l’organizzazione regionale piu’ attiva e
funzionale agli interessi e all’azione dell’Onu. 28
D’altro lato, l’azione dell’Ue non puo’ essere valutata in modo esclusivamente
negativo. In alcuni organismi dell’Onu, in particolare l’Assemblea generale (Ag), il
Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC), e le agenzie speciali, l’Ue ha fatto
registrare alti livelli di compattezza nel voto, soprattutto su materie particolarmente
controverse29. Per quanto riguarda l’Ag, tra il 1993 e il 2005, i paesi europei hanno
votato all’unanimita’ sull’88% delle risoluzioni che riguardavano il Medio Oriente e
sul 77% di quelle sui diritti umani. Queste percentuali, soprattutto sul Medio Oriente,
si sono ulteriormente accresciute negli ultimi anni grazie all’allargamento
dell’Unione europea e al comportamento dei nuovi membri, che molto spesso si sono
allineati alle posizioni dell’Ue. Ma il caso del Medio Oriente e’ particolarmente
significativo perche’ rivela che quando l’Unione ha una strategia chiara e degli
obiettivi definiti, la compattezza e l’efficacia della sua azione si accrescono
significativamente, e gli interessi individuali dei singoli Stati membri ne risultano
ridimensionati.
28
Su questo si rimanda ai capitoli 2 e 3 e a R. Matarazzo, L’Ue conquista spazio alle Nazioni Unite, in
AffarInternazionali, 9 maggio 2011.
29
Karen E. Smith, “The European Union, Human Rights and the United Nations”, in Katie Verlin
Laatikainen and Karen E. Smit The European Union at the United Nations, cit., pp. 154 – 174.
29
E’ anche importante sottolineare che la coerenza del comportamento degli Stati
membri non solo e’ minata dai diversi interessi nazionali, ma e’ anche soggetta ai
diversi organi dell’Onu in cui maturano scelte e posizioni politiche. Questi organi
sono infatti caratterizzati da logiche e dinamiche interne abbastanza diverse, che si
sono sviluppate e sedimentate nel corso di decenni, ed in diversi casi tendono a
prevalere rispetto a qualunque altro impulso. Cio’ rende l’obiettivo di riuscire a
parlare con una voce sola all’interno di ognuno di questi organi estremamente
complesso, per ragioni di volta in volta diverse tra loro. Queste ragioni potrebbero
essere bilanciate solo da una compattezza politica molto motivata, che tuttavia non si
puo’ realizzare sempre. Esempi abbastanza evidenti di scarsa coerenza a causa del
prevalere di dinamiche interne ai diversi organismi, si possono facilmente riscontrare
nei settori della sicurezza, del disarmo e della decolonizzazione30.
Gli interessi nazionali, in ogni caso, vanno analizzati non in chiave statica ma
evolutiva, perche’ nel corso del tempo, almeno a livello di Stati europei, hanno
conosciuto diverse trasformazioni. Ne e’ un esempio il settore degli Aiuti allo
sviluppo, dove la performance e la compattezza dell’Ue, come gia’ ricordato, sono
andate significativamente crescendo. In occasione del Vertice mondiale dell’Onu del
Settembre 2005, ad esempio, nonostante le profonde divisioni europee sulla riforma
30
Quantitative analysys of EU voting behaviour in the UN General Assembly, cit, pp. 205 – 300.
30
del CdS31, la Ue nel suo insieme ha svolto un ruolo fondamentale per difendere i
dossier riguardanti gli Aiuti allo sviluppo, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e
una equa ripartizione delle quote versate dai diversi Stati membri32. In
quell’occasione, la delegazione americana, allora guidata dall’Ambasciatore John
Bolton, presento’ 780 emendamenti alla parte del documento finale del Vertice
riguardante lo Sviluppo: essi furono in largissima parte respinti soprattutto grazie
all’azione sapientemente sviluppata dall’Ue. In questa prospettiva non si puo’ dunque
escludere che i cambiamenti geopolitici avvenuti negli ultimi anni nell’Ue, non
possano contribuire a trasformare ulteriormente gli interessi nazionali o a promuovere
una visione diversa, da parte degli Stati membri, del ruolo dell’Ue anche in settori
dove fino ad oggi questo non accade, come nel campo del disarmo e della lotta alla
proliferazione nucleare.
4. Le specificita’ del Consiglio di Sicurezza
Le dinamiche che si sviluppano all’interno del CdS, sebbene godano di
un’attenzione spesso superiore alle altre, costituiscono un caso a se’, fornendo anche
31
R. Matarazzo, “La riforma della composizione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU”, in A. Colombo e N.
Ronzitti, L’Italia e la Politica Internazionale, Bologna, il Mulino, 2006.
32
R. Matarazzo, E. Rebasti, The EU, the US and the Reform of the United Nations Charter: Challenges and
perspectives. European University Institute (EUI), Working Paper, Marzo 2006.
(http://www.iue.it/AEL/Projects/PDFs/ReportUNReformConf.PDF)
31
uno spunto utile per valutare altre criticita’ dell’azione dell’Ue all’Onu33. Fino ad
oggi, abbastanza deludente e’ stato il rispetto dell’ex art. 19 del Trattato, secondo il
quale “gli Stati membri che sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza
assicureranno, nell’esercizio delle loro funzioni, la difesa delle posizioni e
dell’interesse dell’Unione, fatte salve le responsabilita’ che loro incombono in forza
delle disposizioni della Carta dell’Onu”. Il Trattato di Lisbona, che attribuisce nuove
responsabilita’ di coordinamento nelle organizzazioni internazionali all’Alto
rappresentante per la Pesc, aggiunge la specificazione che “allorche’ l’Unione ha
definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza
dell’Onu, gli Stati membri che vi partecipano chiedono che l’Alto rappresentante sia
invitato a presentare la posizione dell’Unione”34. In chiave di anticipazione del nuovo
trattato, l’invito all’Alto rappresentante ad intervenire nelle riunioni del CdS in cui
sono discussi dossier riguardanti l’Ue era gia’ stato avanzato in diverse occasioni,
anche se non sempre con il favore dei due Stati europei membri permanenti del CdS.
Gli Stati europei membri non permanenti, che ogni due anni si alternano nel CdS, nel
corso degli ultimi anni hanno cercato di affermare la prassi di invitare anche i
rappresentanti della Presidenza di turno dell’Ue nelle riunioni del CdS in cui si
33
Sul tema si veda S. Biscop, A. Missiroli, “The EU in, with and for the UN Security Council: Bruxelles,
New York, and (Real) World, in N. Pirozzi, ed., Strenghtening the UN Security System. The Role of Italy
and the EU, Quaderni IAI, April 2008, n. 11, p pp.7 – 21; C. Hill, “The European Powers in the Security
Council: Differing Interests, Differing Arenas” , in The European Union at the United Nations, cit., pp.
49 – 69.
34
Art. 34 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea – TFUE – come modificato dal Trattato di
Lisbona nella versione risultante dal documento della CIG 14/07, del 3 dicembre 2007.
32
vengono discussi temi di interesse comune. L’iniziativa ha avuto esiti alterni, anche
in questo caso a causa delle resistenze, piu’ o meno dirette, di Francia e Gran
Bretagna35.
L’esempio del CdS evoca la domanda di fondo che attraversa, del tutto
legittimamente, parte degli studi su l’Ue all’Onu: e’ veramente necessario e in linea
con gli interessi dei singoli Stati membri agire in modo coeso per realizzare gli
obiettivi dell’Ue? Oppure gli Stati europei potrebbero conseguire risultati piu’
soddisfacenti sia per l’Unione che per se’ stessi agendo in modo piu’ individuale?
Alcuni studi hanno privilegiato questa seconda ipotesi, sottolineando come i vincoli
prodotti
dall’esigenza
di
agire
collettivamente
possano
anche
rivelarsi
controproducenti per realizzare gli interessi europei sulla scena internazionale36.
5. La Gestione delle crisi
Il terreno su cui l’interazione tra Ue e Onu nel corso degli ultimi anni ha
raggiunto i risultati piu’ soddisfacenti e’ quella della cooperazione allo sviluppo, che
35
Nel novembre 2006, alla vigilia del biennio della membership non permanente dell’Italia nel CdS, la
Commissione Affari Esteri della Camera dei deputati approvava all’unanimita’ una risoluzione che invitava
il governo a compiere ogni sforzo per rafforzare il coordinamento e la presenza dell’Ue nell’Onu e
promuovere il rispetto degli articoli 19 e 20 del TUE. L’idea, di concerto anche con altre delegazioni europee
a New York, era quella di creare un “precedente” che potesse essere ripetuto da tutti i paesi dell’Ue che si
avvicendano nel CdS.
36
Si veda, ad es., Sophie Meunier, Trading voices: the Europeran Union in International commercial
negotiations, Princeton University Press, Princeton, N.J., (2005).
33
pur non rientrando tra le attivita’ della Pesc (bensi’ tra quelle dell’ex primo pilastro),
costituisce un aspetto fondamentale dell’azione esterna e della proiezione globale
(oggi si potrebbe definire anche di “smart power” ) dell’Ue. Un rapporto dell’Onu
del 2006 sulla “partnership” tra l’Onu e la Commissione europea sottolinea che
“l’Unione europea e le Nazioni Unite sono partner naturali […] uniti da valori sanciti
nella Carta delle Nazioni Unite del 1945 e della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo del 1948”37. Grazie a questi riferimenti a fondamenti giuridici comuni, Ue
e Onu hanno spesso promosso agende simili nell’ambito della sicurezza e degli aiuti
allo sviluppo38. Le due organizzazioni condividono infatti un approccio comune alla
definizione delle minacce e al triangolo sicurezza, sviluppo, diritti umani39. Il raggio
della cooperazione dell’Onu con la Commissione va dal disarmo all’assistenza
elettorale, dalla ricostruzione al settore della sanità e alla protezione dell’ambiente,
dal supporto per la scolarizzazione dei bambini, all’assistenza a rifugiati e apolidi. Il
rapporto del 2006 sottolinea inoltre che l’Ue ha svolto un ruolo molto importante per
l’elaborazione e il raggiungimento di “strumenti fondamentali per l’Onu come il
37
The Partnership between the UN and the EU. The United Nations and the European Commission working
together in Development and Humanitarian Cooperation, United Nations, 2006, p. 6: http://www.euun.europa.eu/documents/en/070307_un_eu_partnership_report_en.pdf
38
Sven Biscop, Security and development: a positive agenda for a global EU – UN partnership, in Martin
Ortega, (ed). Op. cit.
39
Sven Biscop, Security and development: a positive agenda for a global EU-UN partnership, e Thiery
Tardy, EU – UN cooperation in peacekeeping: a promising relationship in a constrained environment,
entrambi in Martin Ortega, edited by, The European Union and the United Nations, cit. pp. 17 – 30 e 49 –
68.
34
Protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici (1997)40, nell’assicurare il successo
delle conferenze internazionali sui Finanziamenti per lo Sviluppo (2002), il vertice
mondiale sullo sviluppo sostenibile (Johannesburg 2002) e il vertice mondiale del
Settembre 2005. Ma soprattutto, l’Ue si e’ dimostrata l’alleato fondamentale dell’Onu
nel perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, non solo per l’impegno
collettivo di versare lo 0.7% del Pil per gli aiuti allo sviluppo (ODA), ma anche per
aver posto il raggiungimento degli obietti al centro delle politiche di sviluppo della
Commissione, del Consiglio e del Parlamento europeo41.
Nel corso dell’ultimo decennio la cooperazione dell’Onu soprattutto con la
Commissione europea si e’ rivelata particolarmente preziosa su una serie di punti
fondamentali: 1) questioni sensibili che richiedono legittimita’ e imparzialita’ da
parte dell’Onu; 2) paesi fragili dove una significativa presenza sul campo combinata
con un mandato dell’Onu facilita l’uscita dalle situazioni di crisi; 3) realta’ in cui il
coordinamento dei donatori e’ molto complesso (la Commissione europea stima che
circa tre quarti dei suoi interventi con le organizzazioni internazionali, inclusa l’Onu,
40
Sul contributo dell’Ue alle politiche ambientali dell’Onu, che sembra costituire uno dei punti di maggiore
efficacia della cooperazione tra Ue e Onu, si veda anche Chad Damro, EU – UN Environmental
Relations: Shared Competences and Effective Multilateralism, in Laatikainen and Smith, edited by, The
European Union at the United Nations, Op. Cit., pp. 175 – 193.
41
Millenium Development Goals: EU contribution to the review of the MDGs at the UN 2005 High Level
Event, Conclusioni del Consiglio europeo, 24 Maggio 2005, doc 9266/05.
35
coinvolgono una serie di altri partners); 4) aree tematiche dove l’Onu ha una
expertise particolarmente qualificata42.
Uno studio commissionato dallo EuropeAid Cooperation Office (AIDCO) nel
200643, conclude che le principali ragioni per la cooperazione tra Commissione
europea e organizzazioni internazionali sono l’abilita’ di quest’ultime (OI) ad attivare
expertise e riallocare aiuti verso problemi globali emergenti; il potenziale offerto
dalle OI per portare avanti l’agenda internazionale e armonizzare gli aiuti dietro
strategie di sviluppo nazionale; l’enfasi posta dalle OI sulle “capacity building” e su
una forte agenda politica; la possibilita’ per la Commissione, tramite le OI, di
influenzare i processi politici a piu’ vasto raggio; la capacita’ della Commissione
europea di lavorare con organizzazioni che sono leader sul campo.
6. Una cooperazione cresciuta sul campo
Il rapporto tra Ue e Onu nel settore della gestione delle crisi ha conosciuto
diverse fasi di sviluppo e puo’ essere valutato in vari modi. Le prime forme di
cooperazione si sono realizzate all’indomani della caduta del Muro di Berlino, gia’
nel 1990, in particolare nei Balcani, dove Ue e Onu sono intervenute nella gestione
42
The Partnership between the UN and the EU. Op. cit, p. 2
43
EuropeAid Cooperation Office, Overview of implementation by International Organizations, European
Commission, Agosto 2006.
36
dei conflitti esplosi nella ex Jugoslavia. Da li in avanti l’intreccio crescente tra
assistenza umanitaria e aiuti allo sviluppo da un lato e agenda di sicurezza dall’altro,
hanno fatto si che le relazioni tra Ue e Onu rientrassero sempre piu’ sotto l’ampio
cappello della gestione delle crisi, mentre prima erano principalmente inquadrate
nella cooperazione economica o logistica. All’inizio degli anni novanta, quando la
cooperazione tra Ue e Onu in questo settore ha iniziato a prendere corpo, l’Onu stava
lavorando alla riforma delle proprie operazioni di pace attraverso l’elaborazione del
Rapporto Brahimi44 e l’Ue stava ponendo le fondamenta della Pesc. Sin da allora gli
Stati membri dell’Ue hanno stabilito (spesso in chiave eminentemente retorica) un
forte nesso concettuale tra lo sviluppo della Pesc e l’Onu. Nel Rapporto Pesc del
Consiglio europeo di Nizza del 2000, si sottolineava, al riguardo, che “lo sviluppo
delle capacita’ europee nel campo della gestione delle crisi …. avrebbe permesso agli
europei di rispondere più efficacemente e coerentemente alla richieste di
organizzazioni fondamentali come l’Onu e l’Osce”45.
All’inizio la collaborazione in questo settore fu tutt’altro che scontata: da parte
dell’Onu le perplessita’ riguardavano la capacita’ di stabilire efficaci canali di
comunicazione (con tutte le implicazioni che il termine comporta) con le
organizzazioni regionali, che in questo modo sarebbero state poste allo stesso livello
44
Report of the Panel on United Nations Peace Operations, United Nations, A/55/305, S/2000/809, 21
Agosto 2000.
45
Rapporto della Presidenza sulla Pesc, Consiglio europeo di Nizza, 7 – 9 dicembre 2000.
37
dell’Onu. Da parte dell’Ue si riteneva invece che la Pesc si sarebbe dovuta sviluppare
senza legami troppo stretti con l’Onu, ma preservando il piu’ possibile autonomia
decisionale e operativa. Il dibattito si e’ poi gradualmente spostato dalle modalita’
della relazione alla sua rilevanza. A livello politico, il dispiegamento nell’estate del
2006 delle operazioni dell’Ue nella Repubblica democratica del Congo ha dato
l’avvio ad un dibattito molto serrato sull’appropriato livello di consultazione tra le
due istituzioni46.
Conclusioni
Nel complesso, la Ue ha dimostrato la volonta’ di assistere l’Onu in molti
modi, ma al tempo stesso ha anche dimostrato di mantenere il piu’ alto livello di
autonomia in tutti i settori in cui le due istituzioni erano complementari. In quest’
ottica la sfera civile sembra offrire la migliore prospettiva di cooperazione tra le due
istituzioni, anche alla luce delle resistenze che gli Stati europei hanno ad impegnarsi
in missioni militari. Lo squilibrio tra le due istituzioni in termini di risorse, rende
difficile per l’Onu portare avanti il rapporto con la Ue in questi termini. Spesso e’
infatti la stessa Ue che definisce l’agenda della cooperazione, stabilendo cio’ di cui e’
46
Avendo svolto il ruolo di nazione pilastro dell’operazione, la Germania propose una nuova dichiarazione
tra Ue e Onu quando assunse la Presidenza di turno. L’obbiettivo e’ stato di portare la consultazione tra le
due istituzioni al più alto livello, per esempio attraverso la regolare politica di dialogo tra la Troika
europea e il Comitato Politico e di Sicurezza da un lato, e i funzionari dell’Onu piu’ alti in grado
dall’altra.
38
piu’ opportuno occuparsi. Questo squilibrio crea un rapporto asimmetrico che
potrebbe minare il rafforzamento della partnership. Se da un lato la cooperazione ha
preso piede a livello operativo, essa mantiene tuttavia punti problematici a livello
strategico. (Per ulteriori valutazioni conclusive si rimanda al capitolo V)
39
Capitolo secondo
L’impatto del trattato di Lisbona sulla politica estera europea
Il contesto internazionale in cui il trattato di Lisbona e’ entrato in vigore (2009)
è molto diverso da quello in cui esso è stato concepito (2003) e poi approvato (2007).
Per molti anni si era creduto, infatti, che il rilancio del ruolo internazionale dell'Ue
potesse trovare un centro propulsore nella riforma delle istituzioni comuni, culminate
con l’entrata in vigore del trattato. L’irrompere della crisi finanziaria ed economica
prima negli Usa e poi in Europa, e la graduale ridefinizione della gerarchia del potere
internazionale, hanno invece ridato centralità al ruolo degli stati, sia a livello globale
che europeo, evidenziandone al tempo stesso i grandi limiti di intervento e
coordinamento.
Le
principali
istituzioni
multilaterali
globali
e
regionali,
la
cui
rappresentativita’ negli ultimi anni e’ stata messa in discussione da piu’ parti, hanno
cercato di reagire a queste spinte avviando processi di adattamento non sempre
all’altezza dei mutamenti in corso47. Il sistema di governance globale ha dunque
continuato ad essere caratterizzato da una condizione di afasia che neanche la
maggiore attenzione al metodo multilaterale promosso dell’amministrazione Obama
47
Global Governance 2025: At a critical juncture, National Intelligence Council, EU Institute for
Security Studies, Settembre 2010:
http://www.acus.org/files/publication_pdfs/403/Global_Governance_2025.pdf
40
e’ riuscita a sbloccare48. Di queste dinamiche hanno finito per risentire direttamente
sia il processo di integrazione europea che la proiezione esterna dell’Ue.
Quest’ultima, in particolare, ha continuato ad essere minata sia dalla scarsa coesione
tra gli stati membri che dalla persistente assenza di una visione strategica comune.
Uno degli obiettivi strategici della Convenzione su futuro dell'Europa che tra il
2002 e il 2003 elaborò il primo Trattato costituzionale dal quale, dopo vari incidenti e
modifiche, ha tratto origine il Trattato di Lisbona, era proprio il rafforzamento della
proiezione internazionale dell'Ue. Il trattato, in effetti, ha introdotto in questo campo
alcune importanti innovazioni, soprattutto dal punto di vista istituzionale. Ma i
negoziati tra gli stati membri non sono riusciti a superare il limite più importante che
caratterizzava la Pesc: il sistema decisionale basato sull'unanimità. Mentre il voto a
maggioranza qualificata è stato infatti esteso a molte altre aree, la Pesc ha continuato
ad esserne esclusa, con gravi ripercussioni sulla sua effettiva funzionalità. Questa
scelta, sulla quale durante i lavori della Convenzione europea si è svolto un serrato
braccio di ferro, conferma le irriducibili resistenze dei governi e delle diplomazie
europee a compiere significative cessioni di sovranità in questo settore strategico.
Alla luce di questo limite strutturale, il nuovo trattato cerca dunque di creare le
condizioni affinché nuove figure istituzionali, prima fra tutte l'Alto rappresentante,
possano coordinare in modo più efficace le scelte di politica estera compiute in un
48
Si veda G. J. Ikenberry, A crisis of Global Governance?, in Current History, Novembre 2010, pp.
315 – 321
41
contesto intergovernativo (il Consiglio), con le politiche e gli strumenti finanziari
gestiti dalla Commissione.
1. Il nodo della rappresentanza esterna
All'interno del trattato di Lisbona si possono distinguere, in linea generale, tre
categorie di politica estera europea o relazioni esterne. 49 La prima categoria riguarda
la Pesc, che include le tradizionali questioni legate a pace e guerra, tra cui rientra
anche la Psdc. Come è stato sottolineato, il sistema decisionale in quest'area rimane
intergovernativo e gli stati membri mantengono un sostanziale potere di veto. Una
novità introdotta dal nuovo trattato è che la presidenza del Consiglio affari esteri (e
quindi dei suoi organi subordinati) è detenuta dall'Ar. Ciò le offre la possibilità, non
secondaria, di definire l'agenda di politica estera e di rappresentare all'esterno dell'Ue
le posizioni comuni adottate dal Consiglio affari esteri.
Il potere di rappresentanza esterna dell'Ue, tuttavia, è vincolante dal punto di
vista politico ma non da quello giuridico: se uno stato membro non condivide la
posizione assunta dal Consiglio o rappresentata dall'Ar, può manifestarlo
liberamente anche perché la Pesc rimane al di fuori della sfera di controllo della
49
L. van Schaik, Who speaks for Europe? The battle between diplomats and policy experts, Clingendael
Institute, Ottobre 2011.
42
Corte di giustizia dell'Ue.50 Nei casi, poi, in cui il Consiglio non adotta alcuna
decisione comune, gli stati membri hanno massima libertà di manovra. Anche per
questo per l'Ar è molto difficile assumere posizioni chiare e tempestive nelle molte
occasioni in cui tra gli stati membri non c'è unanimità di vedute. Non è raro, infatti,
che l'Ar preferisca astenersi piuttosto che rischiare di essere successivamente
smentita da uno o più stati membri.
La seconda categoria di politiche esterne è quella che ricade all'interno delle
competenze esclusive dell'Unione, come ad esempio la politica commerciale comune,
quella doganale o quella monetaria51. La più importante tra queste è la politica
commerciale, punta di diamante dell'azione esterna dell'Ue anche perché
consolidatasi nel corso di diversi decenni di esperienza comunitaria. Anche se rientra
nel dominio del Consiglio affari esteri, quando vengono assunte decisioni sulla
politica commerciale il Consiglio è presieduto dal rappresentante del paese che
detiene la presidenza di turno, invece che dall'Ar. Il ruolo della presidenza, tuttavia,
in questo caso è meramente tecnico, perché il mandato per i negoziati sul commercio
è proposto dalla Commissione, che è anche il principale rappresentante Ue verso i
paesi terzi all'interno dell'Organizzazione mondiale per il commercio (Omc). I
mandati del Consiglio in campo commerciale vengono attribuiti attraverso il voto a
50
Ivi, p. 1
51
Art. 3 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea
43
maggioranza qualificata, e per l'entrata in vigore dei trattati commerciali è richiesto
anche l'assenso del Parlamento europeo.
La terza categoria di politiche esterne riguarda le questioni in cui sono
coinvolte le competenze complementari o condivise tra l'Ue e gli stati membri.52 Si
tratta del settore dove si registrano le maggiori tensioni tra l'Ue e gli stati membri,
soprattutto dopo le novità introdotte dal nuovo trattato. I temi rientranti in questa
categoria vengono di solito affrontati in formazioni del Consiglio diverse da quello
affari esteri, il che rende poco chiaro fino a che punto queste possano essere
classificate come politiche esterne. Le altre formazioni del Consiglio, inoltre, sono
ancora oggi presiedute da rappresentanti della presidenza di turno, e questo crea una
certa confusione su chi debba rappresentare l'Ue all'esterno quando vengono discussi
questi temi. Secondo il trattato, infatti, la presidenza di turno non detiene più
responsabilità di rappresentanza esterna dell'Ue. Ma gli stati membri contrastano
questa interpretazione del trattato, e chiedono che su queste tematiche la voce dell'Ue
continui ad essere quella della presidenza di turno, invece che dell'Ar o del Seae.
Uno dei problemi lasciati aperti dal trattato, dunque, è fino a che punto le
politiche esterne che rientrano tra le competenze condivise tra Ue e stati membri,
52
Tra le competenze condivise rientrano ambiente, agricoltura, trasporti, energia e le materie rientranti
nello Spazio di libertà sicurezza e giustizia (Art. 4, TFEU), e il loro esercizio da parte dell'Ue è soggetto
al principio di sussidiarietà. (Art. 5.3). Allo stesso tempo, gli stati membri esercitano le loro competenze
in queste aree nella misura in cui l?Unione ha cessato di esercitare le sue (Art 2.2, TFEU). Nel caso delle
competenze parallele, invece, l'esercizio da parte dell'Ue non implica che non vengano esercitate anche
dagli stati membri (Artt. 4.3 and 4.4).
44
sono soggette alle disposizioni che valgono per la Pesc, in cui a Ar e Seae è
riconosciuto un ruolo fondamentale. Altrettanto poco chiaro, per altro, è fino a che
punto gli stati membri quando si discute di queste materie (in particolar modo
all'interno delle organizzazioni internazionali) possono ignorare il ruolo di
coordinamento svolto dalla Commissione, dal Seae o dalle delegazioni dell'Ue, o se
al contrario sono tenute ad attenervisi. Su questi aspetti il trattato di Lisbona si presta
a interpretazioni non unanimi, che fin dalla sua entrata in vigore hanno dato luogo a
aspri conflitti di competenze tra l'Ue e gli stati membri soprattutto all'interno delle
organizzazioni internazionali, con un danno politico e di immagine non irrilevante. 53
2. Il nuovo status dell'Ue all'Onu
Questo problema di rappresentanza esterna dell'Ue si è manifestato in modo
particolarmente eclatante, dopo l'entrata in vigore del nuovo trattato, all'interno
dell’Assemblea generale (Ag) dell’Onu, dove ad avere pieno diritto di partecipazione
e voto sono solo gli stati nazionali, mentre le organizzazioni regionali (come l'Ue)
hanno solo diritto di tribuna. In particolare, alla Comunità europea era stato garantito
lo status di “osservatore” fin dal 1974. Fino a prima dell’entrata in vigore del trattato,
la Ue era dunque rappresentata sia nell’Ag che all’interno delle commissioni e dei
53
Per un approfondimento su questo tema si veda E. Drieskens and L. van Schaik (eds.), The European
External Action Service: Preparing for Success, Clingendael paper n. 1, December 2010
45
gruppi di lavoro (dove le decisioni più importanti prendono forma), dal paese che
deteneva la presidenza di turno. Secondo il trattato di Lisbona, invece, la presidenza
di turno non ha più funzioni di rappresentanza esterna, e il presidente stabile del
Consiglio europeo o l’Ar non possono più intervenire come faceva in passato il
presidente di turno, perché non sono rappresentanti di uno stato membro, ma
dell’Unione in quanto tale.
Per sopperire a questo problema, che rischia di minare seriamente la capacità di
influenza dell’Ue non solo all’Onu ma anche all’interno di altre organizzazioni o
agenzie internazionali (Fao, Osce, Ocse, ecc.), il 15 settembre 2010 l’Ue ha
presentato all’Ag una proposta di risoluzione volta a rafforzarne il diritto di
partecipazione (assimilando l’Ue a un “membro virtuale”), pur senza attribuirgli la
membership, per la quale sarebbe necessario avviare il lungo processo di modifica
della Carta dell’Onu. La risoluzione è stata respinta e ripresentata il 3 maggio 2011
con alcune modifiche, che le hanno consentito di essere approvata con il voto
favorevole di tutti i 180 paesi dell’Ag presenti e la sola astensione di Zimbabwe e
Siria54. La Ue è dunque la prima organizzazione regionale cui viene accordato lo
status di “super osservatore”, che le consente di poter essere iscritta a parlare, di
partecipare al dibattito generale in Ag e a tutti i meeting e le conferenze convocate
54
Si veda UNGA Resolution A/RES/65/276, on “Participation of the European Union in the work of the
United Nations”, 3 maggio 2011: http://www.marinacastellaneta.it/blog/wpcontent/uploads/2011/05/N1130929.pdf
46
sotto gli auspici dellAg, di presentare proposte ed emendamenti, di avere diritto di
replica sulle posizioni dell’Ue, ma non di avere il diritto di voto o di avanzare
candidature. Si tratta di un importante passo avanti che, che come sottolineato dall’Ar
apre la strada al possibile rafforzamento anche dello status delle altre organizzazioni
regionali nell’Ag55. Nonostante questa vittoria diplomatica presso la Ag dell’ Onu, il
nodo della rappresentanza dell’Ue nelle organizzazioni internazionali rimane una
delle principali sfide dell’attuazione del Trattato di Lisbona, perché non sempre gli
stati membri non sembrano intenzionati a concedere all’Ue gli spazi attribuitigli dalla
lettera del trattato, e l’Ue considera invece la sua attività all’interno di quei forum
uno dei pilastri strategici della sua azione esterna56.
3. L'assetto istituzionale
Per quanto riguarda più specificamente la Pesc, le innovazioni del trattato che
la riguardano direttamente sono il rafforzamento della figura dell'Ar, che diventa
anche vicepresidente della Commissione e presidente del Consiglio Affari esteri (art.
55
Statement by EU High Representative Catherine Ashton, on adoption of UN General Assembly
Resolution on EU's participation in the work of UN , May 3, 2011:
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/EN/foraff/121854.pdf
56
Al riguardo si vedano e M. Comelli e R. Matarazzo, Rehashed Commission Delegations or Real
Embassies? EU Delegations Post- Lisbon, IAI Working Papers No. 1123, Luglio 2011
http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iaiwp1123.pdf. E M. Emerson et al., Upgrading the EU’s role as Global
Actor, Ceps, gennaio 2011
47
18), l'istituzione della presidenza stabile del Consiglio europeo (art. 15) e il Servizio
europeo per l’azione esterna (art. 27). A queste novità si aggiungono la personalità
giuridica dell’Ue (art. 47), la clausola di difesa reciproca tra tutti i paesi Ue (art. 42,
par.3) e una nuova clausola di solidarietà contro il terrorismo e in caso di catastrofi,
l’Agenzia per la difesa europea (art. 42)57, le cooperazioni rafforzate, che con
Lisbona si possono realizzare, in linea di principio, anche nel settore della Pesc e
della Psdc. Specificamente per il settore della difesa, viene poi introdotta una nuova
forma
di
cooperazione
rafforzata,
denominata
“cooperazione
strutturata
permanente”(art. 42, par. 6)58.
Nel nuovo assetto istituzionale, al vertice dell’Unione c’e’ dunque il Presidente
del Consiglio europeo, che viene eletto dai capi di stato e di governo membri del
Consiglio a maggioranza qualificata, per due anni e mezzo rinnovabili. Oltre a
presiedere il Consiglio stesso, egli ne assicura la preparazione e la continuità dei
lavori, in cooperazione con il presidente della Commissione. Il nuovo Presidente ha il
compito di promuovere e creare consenso all’interno del Consiglio, e dopo ogni
riunione deve riferire al Parlamento europeo le decisioni adottate. E’ il Presidente del
Consiglio europeo, inoltre, e non più il Capo di Stato o di governo del paese che
detiene la presidenza semestrale, ad esercitare, “al suo livello”, la “rappresentanza
57
L’attuazione dell’Agenzia è stata già anticipata con un’azione Pesc del 12 giugno 2004, ma che solo
ora è entrata ufficialmente nel Trattato.
58
Vedi oltre.
48
esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune”.
Dovra’ farlo tuttavia stando bene attento a salvaguardare “le attribuzioni dell'Alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”. Ai vertici tra
l’Ue e i paesi terzi partecipa dunque il presidente Herman Van Rompuy, che
rappresenta l’Unione al massimo livello. I rischi di sovrapposizione o competizione
con gli altri vertici istituzionali dell’Ue (il Presidente della Commissione, l’Alto
rappresentante, e il Presidente “di turno” semestrale dell’Unione, che continua ad
esistere) sono rilevanti: il coordinamento politico e personale tra queste quattro figure
è dunque sempre piu’ importante per garantire l’effettivo funzionamento delle
istituzioni.
Poiche’ la divisione delle responsabilita’ di rappresentanza esterna dell’Unione
tra presidente della Commissione e quello del Consiglio e’ ancora abbastanza incerta,
dall'entrata in vigore del trattato si sono registrate varie tensioni tra le due figure. Un
punto di equilibrio si è raggiunto sulla rappresentanza dell'Ue nel G8 e nel G20: il
presidente della Commissione ha infatti partecipato prevalentemente alle riunioni del
G8, intervenendo su questioni di sua tradizionale competenza (soprattutto il
commercio internazionale), mentre il presidente del Consiglio ha rappresentato la Ue
soprattutto nei vertici del G20 e nelle altre occasioni in cui si è discusso della crisi
finanziaria e della riforma della governance globale59. Più in generale, si può
59
Si veda G. Quille, “The European External Action Service and the Common Security and Defence
Policy”, in E. Greco, N. Pirozzi, S. Silvestri, eds, EU crisis management, Institutions and capabilities in the
49
affermare che il presidente stabile del Consiglio è riuscito ad interpretare il suo ruolo,
in una fase estremamente delicata, valorizzando abbastanza efficacemente la sua
funzione di mediazione tra i governi. Se queste qualità sono emerse soprattutto nel
dibattito sulla riforma della governance economica europea, nel campo della politica
estera l’attenzione è stata rivolta al rilancio della visione strategica dell’Ue e al
dialogo con le potenze emergenti60.
4. Le spine dell’Alto rappresentante
Ma è sulla figura dell’Ar che si concentrano le novità più importanti, e anche le
maggiori insidie. La mole di funzioni che il nuovo trattato assegna a questa figura
potrebbero far impallidire le personalità politiche di maggiore esperienza
internazionale. Anche per questo la nomina per questa funzione, a novembre 2009,
della baronessa britannica Catherine Ashton, che nel suo curriculum internazionale
making, Iai Quaderni, English Series, N. 19, Nov. 2010, p. 57 e S. Vanhoonacker e N. Reslow, The
European External Action Service: Living Forwards by Understanding Backwards, in European Foreign
Affairs Review, Vol. 15, No. 1 (February 2010), p. 1-18
60
Si veda Herman Van Rompuy, discorso al College of Europe, Bruges, 25 febbraio 2010,
http://www.coleurop.be/template.asp?pagename=speeches e Consiglio europeo, Conclusioni, 16 settembre
2010:
http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/stabilita_legge/conclusioni_consiglioeuropeo16092010.pdf
50
poteva vantare solo un anno come commissaria al commercio dell’Ue, ha sollevato
piu’ di una critica61.
Il profilo istituzionale dell’Ar disegnato nel trattato cerca di affrontare due
problemi che affliggono la Pesc fin dalla sua origine: lo scarso coordinamento tra la
dimensione intergovernativa e quella comunitaria (gestita da quattro diversi
commissari europei); la diffidenza tra le diplomazie nazionali e le istituzioni
comuni62. È il problema, in parte già preso in esame, della “voce unica” dell’Ue, che
il trattato affronta tramite il cosiddetto “doppio cappello”: l’Ar guida la politica estera
e di sicurezza comune e anche quella di difesa (in supplenza dell’ancora inesistente
ministro della difesa europeo), ma è anche vicepresidente della Commissione, con la
responsabilità per il coordinamento delle politiche esterne, compreso l'allargamento,
l'aiuto allo sviluppo e la risposta alle crisi. Nella Commissione in carica dal gennaio
2010, quindi, la Ashton coordina i seguenti commissari: il lettone Andris Piebags
(responsabile degli aiuti allo sviluppo e che siede anche, a nome della Commissione,
nel Consiglio Affari esteri presieduto dalla Ashton), la bulgara Kristalina Georgieva
61
Si veda Tony Barber, Europe is risking irrelevance as the world moves on, in “Financial Times,
November” 21/22, p.7, The EU’s new leaders, in “The International Herald Tribune”, Nov 24, p. 8, We are
all Belgian now, Charlemagne, The Economist, Nov. 28th, 2009, p. 39.
62
Val la pena notare, comunque, che il nuovo Ar può avvalersi di un bilancio allocato alla Pesc,
ancorche’ limitato, in costante crescita nel quadro delle prospettive finanziarie 2007-2013: 1,74 miliardi di
euro, circa 250 milioni all’anno, con un deciso aumento rispetto agli anni precedenti (46 milioni nel 2003; 62
nel 2004 e nel 2005; 102 nel 2006). Il budget Pesc rappresenta circa lo 0,20 % del budget totale previsto
dalle prospettive finanziarie 2007-2013, cui va aggiunto quello allocato alle relazioni esterne della
Commissione nello stesso periodo: 49 miliardi, che rappresenta circa il 5,68% del budget totale previsto
dalle prospettive finanziarie 2007-2013
51
(aiuto umanitario e risposta alle crisi) ed il ceco Stefan Füle (Allargamento e Politica
di vicinato). Se la partecipazione alle riunioni della Commissione (una volta a
settimana) è molto importante, a queste si aggiungono gli impegni collegati al “terzo
cappello” di Lady Pesc: la presidenza del Consiglio affari esteri, che si riunisce
almeno una volta al mese: si tratta infatti dell’unica formazione del Consiglio Ue a
non avere un ministro a rotazione semestrale nel ruolo di Presidente. E poiché l’Ar è
anche a capo dell’Agenzia europea di Difesa, dove si riuniscono i ministri della
Difesa, ella presiede anche le loro riunioni. Sempre che, in concomitanza, non debba
volare a New York per prendere la parola al Consiglio di sicurezza dell’Onu quando
si discutono temi su cui esiste una posizione comune europea (art. 34). La job
description dell'Ar è dunque estremamente ambiziosa, e solo un efficace sistema di
deleghe e un buon funzionamento del Servizio europeo di azione esterna possono
evitarne un clamoroso fallimento. (Sul Seae si rimanda al capitolo successivo).
5. Il nuovo Servizio diplomatico
Il Servizio europeo di azione esterna (Seae) è entrato in vigore il primo
dicembre 2010, non a caso in coincidenza con il compleanno del trattato di Lisbona.
Il Servizio è l’anello centrale del nuovo sistema di politica estera europea previsto dal
trattato, e la sua entrata a regime durerà probabilmente per tutta la legislatura
europea. Sarà uno dei principali banchi di prova dell’attuazione del nuovo trattato.
52
Il Servizio è composto da rilevanti parti del Segretariato del Consiglio e della
Commissione, nonché da diplomatici provenienti dai diversi stati membri, e ne fanno
parte le 136 delegazioni della Commissione nei paesi terzi e nelle organizzazioni
internazionali (elevate a “delegazioni dell’Ue”), responsabili di tutte le competenze
dell’Ue: politiche, economiche, di politica estera e di sicurezza. Nella fase iniziale, il
personale complessivo è di 3.720 funzionari e il bilancio previsto per il 2011 è di 476
milioni di euro.
L’ambizione di realizzare un vero e proprio corpo diplomatico europeo, che
fornisca
un notevole impulso al radicamento di una cultura strategica europea,
dipende anche dalle risorse che vi vengono destinate. A fronte delle 136 delegazioni
dell’Ue, i singoli stati membri hanno infatti oggi nel mondo 3.164 tra ambasciate,
missioni e consolati, con 93.912 funzionari e un costo complessivo di 7.529 milioni
di euro. Il Seae costa a ogni cittadino europeo circa un euro l’anno, mentre la media
delle diplomazie europee è di 15 euro; il Seae ha un funzionario ogni 134.677
cittadini europei, mentre ogni stato membro ha in media un diplomatico ogni 5.335
cittadini63. Se gli stati membri riuscissero a mettere anche solo parzialmente da parte
la forte competizione che ha caratterizzato la fase di insediamento (e di assegnazione
dei posti) del nuovo Servizio, i margini di espansione, armonizzazione e
razionalizzazione dei costi potrebbero essere ancora molto significativi.
63
M. Emerson et al, cit, p. 10
53
L’entrata in funzione del Servizio è stata preceduta da un intenso negoziato
inter-istituzionale sulla sua organizzazione e struttura. Il Parlamento, in particolare, si
è fino all’ultimo opposto all’idea, che alla fine è invece prevalsa, che il Seae dovesse
essere un servizio sui generis, autonomo sia dalla Commissione che dal Segretariato
del Consiglio, pur essendo a questi strettamente collegato.
Poiché nel Seae rientrano anche le strutture che presiedono al funzionamento
della Pesc e della Psdc, la cui gestione ha un carattere strettamente intergovernativo,
la proposta del Pe risultava particolarmente indigeribile non solo per gli Stati
membri, ma anche per la stessa Ar. Lo scontro più aspro si è registrato però sul
controllo degli strumenti finanziari dell’azione esterna, e in particolare di quelli per
gli aiuti allo sviluppo, che costituiscono il cespite più ricco del bilancio dell’azione
esterna, ammontando a circa sei miliardi di euro all’anno. L’accordo finale prevede
che la gestione dei programmi per l’azione esterna dell’Ue rimanga sotto la diretta
responsabilità
della
Commissione,
mentre
al
Seae
faccia
capo
la
loro
programmazione strategica. Nel caso dei fondi per gli aiuti allo sviluppo, la
responsabilità non solo della gestione, ma anche della programmazione è però
rimasta nelle mani del Commissario competente, il lettone Andris Piebalgs (e che
siede anche, a nome del collegio, nel Consiglio affari esteri presieduto dalla Ashton),
che insieme all’Ar sottoporrà le decisioni al collegio dei commissari. All’Ar rimane
54
l’ambizioso compito di garantire il coordinamento e l’armonizzazione complessiva
della struttura64.
6. La personalità giuridica
Un’altra importante novita’ introdotta dal trattato riguarda l’attribuzione della
personalita’ giuridica unica (art. 47), grazie alla quale l’Unione puo’ stipulare accordi
internazionali a suo nome, vincolanti al tempo stesso per le sue istituzioni e per gli
Stati membri, rafforzandone la credibilita’ interna e esterna come attore di politica
internazionale. Come osservato da vari studiosi, tuttavia, la personalita’ giuridica
unica non determina, di per se’, il superamento della ripartizione delle attivita’
dell’Unione in tre pilastri, (comunitario, politica estera, cooperazione nella giustizia
penale e nella polizia). Rimangono infatti procedure e strumenti diversi, e gli Stati
potranno continuare a prendere decisioni autonome su questioni di politica estera su
cui l’Ue non ha espresso una posizione comune.65
7. Il parlamento e il suo presidente
64
Sul tema ci permettiamo di rimandare a R. Matarazzo, Oltre lo status quo? I problemi dell'azione
esterna dell'Ue,in R. Gualtieri and J.L. Rhi-Sausi (eds), Rapporto 2011 sull’integrazione europea, Bologna, Il
Mulino, Novembre 2011, p. 187-202.
65
Karen E. Smith, European Foreign Policy in a Changing World, Polity, 2008
55
Dall'entrata in vigore del nuovo trattato, un certo ruolo di rappresentanza
esterna è stato anche assunto dal presidente del parlamento europeo. Anche se non ha
delle responsabilita’ dirette di rappresentanza dell’Ue, egli ha visto accrescersi il suo
profilo internazionale grazie al rafforzamento di poteri che il trattato attribuisce al Pe.
La dimostrazione piu’ eclatante di questa nuova dimensione si e’ avuta a
febbraio 2010, quando l'allora presidente del Pe, Jerzy Buzek, e’ stato piu’ volte
contattato dal segretario di Stato americano Hillary Clinton. Quest’ultimo perorava
infatti il voto favorevole dell’Assemblea di Strasburgo al c.d. accordo Swift, sul
trasferimento agli Usa di dati bancari di cittadini Ue nell’ambito della lotta al
terrorismo. L’11 febbraio il Pe ha tuttavia votato a larga maggioranza contro
l’accordo, e le due parti sono state costrette a negoziare un nuovo testo, anche se non
molto diverso dal primo, che è stato approvato dal Pe a giugno. Il Trattato di Lisbona
ha infatti esteso il potere di codecisione del Pe a una serie di nuove politiche interne,
fra cui quelle riguardanti lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, conferendogli il
potere di veto sugli accordi internazionali che le riguardano. Il protagonismo del
Parlamento in politica estera si è anche rivelato pienamente durante i negoziati per
l'istituzione del Servizio diplomatico europeo, e in altre occasioni in cui l'Assemblea
di Strasburgo non ha mancato di far sentire e pesare la sua voce, soprattutto durante
la primavera araba, il conflitto in Libia e sul terreno del rispetto dei diritti umani.
56
Per quanto riguarda invece l'orientamento delle opinioni pubbliche europee, va
rilevato che nonostante la crisi finanziaria abbia accresciuto la preoccupazione per i
temi legati alla vita quotidiana rispetto a quelli globali, il rafforzamento del ruolo
internazionale dell’Unione continua ad essere tra le principali ambizioni degli
europei.66
L’alto
apprezzamento
degli
europei
per
la
politica
estera
dell’amministrazione Obama ha accresciuto le aspettative verso il ruolo
internazionale svolto dall’Ue. Secondo il Transatlantic Trends 2011, larga parte
degli europei continua a ritenere preferibile una leadership mondiale dell’Ue
piuttosto a quella degli Usa, in misura leggermente superiore in Europa occidentale
rispetto all’Europa orientale. Il rafforzamento della proiezione internazionale dell’Ue
conseguente all’entrata in vigore del trattato di Lisbona dovrebbe dunque anche
contribuire a ridurre la distanza tra le aspettative dei cittadini europei verso la politica
estera comune e le capacità dell’Unione (l'arcinoto “capabilities/expectations gap”,
secondo la definizione dell'accademico britannico Christopher Hill) che da anni e’
una delle maggiori cause di insoddisfazione per gli europei. (Per ulteriori valutazioni
conclusive si rimanda al capitolo V)
66
Secondo un sondaggio dell’Eurobarometro realizzato alcune settimane prima delle elezioni del
Parlamento europeo (PE) di giugno 2009, tra le priorita’ che il PE deve promuovere, la politica estera e di
sicurezza comune era la piu’ importante per il 32% degli intervistati (rispetto al 36% dell’anno precedente),
dopo la protezione dei consumatori e della salute pubblica (al primo posto per il 36% dei rispondenti rispetto
al 33% dell’anno precedente) e il coordinamento delle politiche economiche e finanziarie (al 34% rispetto al
26% del 2008. Elezioni europee 2009, Eurobarometro Parlamento europeo (EB Standard 71) – Primavera
2009. Bruxelles, 27 marzo 2009, pp. 6 – 7.
57
Capitolo terzo
Lo sviluppo della Pesd: dal Trattato di Amsterdam al Trattato
Costituzionale
Lo sviluppo della politica europea di sicurezza e della difesa ha conosciuto, tra
la fine degli anni novanta e la prima metà di quelli duemila, uno sviluppo superiore a
quello di altre importanti politiche dell’Ue. Questo processo sembra oggi essersi
arenato sulle secche della crisi politica, economica e finanziaria che attanaglia
l’Europa. In questo capitolo si ripercorre l’evoluzione politica e istituzionale della
Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd) dalle origini del Trattato di Amsterdam,
al Trattato di Nizza, fino all’impatto del trattato di Lisbona, con la quale ha assunto la
nuova denominazione di Politica di sicurezza e difesa comune dell’Unione europea
(Psdc). Verrano valutati sia gli importanti passi avanti compiuti in alcune aree
strategiche, sia le numerose criticità connesse alla attuale situazione politicoeconomica e gli passi avanti.
Sotto l’ombrello della politica di sicurezza e difesa rientrano una serie di
iniziative di varia natura che concorrono ad un l’obiettivo fondamentale: assicurare
che l'Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari
per
garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il
rafforzamento della sicurezza internazionale (così l’art. 45, par.1 Trattato di Lisbona).
Questo obbiettivo implica la creazione di istituzioni e procedure, nonché di capacità
58
militari e civili adatte. La creazione di capacità, a sua volta, presuppone un mercato
ed una base industriale e tecnologica efficiente. Queste diverse dimensioni sono
ovviamente collegate ma hanno anche processi di sviluppo distinti. Mentre le
questioni operative hanno un carattere più strategico e legato alla proiezione esterna
dei paesi, quelle industriali e di mercato coinvolgono delicate scelte interne di
carattere economico, giuridico e politico. Anche per questo gli stati membri più
interessati a rafforzare le capacità militari dell’Ue non sempre sono anche favorevoli
ad una maggiore integrazione nel settore della difesa.
1. Il Trattato di Amsterdam: un’occasione mancata67
Le novità introdotte dal Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed
entrato in vigore il primo maggio 1999, in materia di Pesc e Pesd erano state
genericamente definite poco soddisfacenti68 rispetto all’aspettativa largamente
diffusa di una riforma istituzionale che fornisse all’Unione un’identità politico
militare sulla scena internazionale ed una capacità di azione relativamente autonoma
rispetto agli Stati membri. I tragici avvenimenti che avevano sconvolto gli ultimi
67
Questo capitolo riprende in parte, aggiornandoli e sviluppandoli, i risultati di una ricerca
sull’evoluzione istituzionale della Pesc/Pesd realizzata dall’autore prima presso il Parlamento europeo
durante i lavori della Convenzione sul futuro dell’Europa (2002-2003) e poi all’Istituto Affari Internazionali.
I primi risultati della ricerca sono confluiti, nella pubblicazione Le strutture istituzionali della Pesd, in N.
Ronzitti, (ed.) Le forze di pace dell’Unione europea, Soveria Mannellli, Rubettino, 2005 , p. 21-48.
68 Per alcuni commenti sulle disposizioni del Trattato di Amsterdam riguardanti la Pesc e la Pesd
vedi, fra gli altri: J. Monar, “The European Union’s foreign affairs system after the Treaty of Amsterdam: a
“strengthened capacity for external action?”, in European Foreign Affairs Review, vol. 2, n. 4 (Winter 1997),
pp. 413-436; C. Novi, “Le novità del Trattato di Amsterdam in tema di politica estera e di sicurezza
comune”, in Il Diritto dell’Unione europea, n. 2-3 (1998); G. Verderame, “Amsterdam e dopo: prospettive
istituzionali per la politica estera e di sicurezza comune”, in Relazioni Internazionali, n. 50 (maggio-giugno
1999), pp. 76-84.
59
dieci anni della storia europea, dalla guerra del Golfo, alla crisi cecena, fino alla
guerra nella ex Jugoslavia, avevano visto infatti nell’Unione europea uno spettatore
inerte, privo degli strumenti istituzionali e militari che gli permettessero di incidere
sull’evolversi delle vicende.
Il negoziato che si era svolto in sede di Conferenza Intergovernativa, si era
rivelato particolarmente lungo e difficile, ed era stato segnato dalla netta opposizione
del governo inglese a qualunque tipo di realizzazione di una effettiva cooperazione
europea in materia di sicurezza e difesa. Le disposizioni introdotte dal Trattato di
Amsterdam relative a Pesc e Pesd non modificavano di molto quelle già presenti nel
titolo V del Trattato di Maastricht, ma erano principalmente orientate al riordino e
alla razionalizzazione della materia, introducendo alcuni elementi che ne potessero
migliorare il funzionamento. Le innovazioni che andavano nella direzione di un
rafforzamento della dimensione sovranazionale, erano dal punto di vista procedurale
quello delle Strategie comuni e, dal punto di vista strutturale, quello della creazione
del nuovo binomio istituzionale composto dall’Alto rappresentante per la Pesc69 e
dalla Cellula di pianificazione politica e allarme tempestivo70.
Le Strategie comuni71 facevano parte degli strumenti attraverso i quali
l’Unione perseguiva i propri obiettivi, insieme alle azioni e alle posizioni comuni.
Esse venivano decise all’unanimità dal Consiglio europeo e poi attuate dal Consiglio
69 Art. 18, p. 3 del Trattato di Amsterdam
70 Dichiarazione n. 6 allegata all’Atto finale del Trattato di Amsterdam.
71 Art. 12 del Tue.
60
e riguardavano le “aree nelle quali gli stati membri hanno importanti interessi in
comune”72.
Le Strategie comuni costituivano lo strumento più articolato attraverso il quale
gli Stati membri definivano i principi di fondo e gli scopi della loro azione comune,
che poi si traducevano in iniziative concrete di politica estera. Il sistema delle
Strategie comuni era stato in seguito fortemente criticato dall’Alto rappresentante per
la Pesc, Javier Solana73, secondo il quale esse non hanno contribuito a rendere più
efficace l’azione esterna dell’Unione nelle aree interessate, perché sono state troppo
vaghe e dichiaratorie più che operative . Inoltre esse non avevano apportato quel
valore aggiunto richiesto alle politiche di cooperazione già esistenti e non hanno
facilitato il ricorso alla maggioranza qualificata per la loro applicazione, fallendo
quindi del tutto gli obiettivi iniziali74.
Ma l’innovazione più rilevante introdotta dal Trattato di Amsterdam era la
creazione della figura dell’Alto rappresentante della Pesc, ricoperta dal Segretario
Generale del Consiglio, affiancato dalla Cellula di pianificazione rapida e allarme
tempestivo75. L’Alto rappresentante veniva concepito per colmare una delle
principali lacune fino a quel momento riscontrate nella Pesc/Pesd, ovvero quella di
72 Art. 13, p. 2 del Tue.
73 Vedi il “Rapporto di valutazione sul funzionamento delle Strategie Comuni”, presentato al
Consiglio Affari Generali del 22 gennaio 2001.
74 Successivamente il Consiglio Affari Generali del 26 febbraio 2001 ha approvato le linee guida
per un uso più efficace delle Strategie comuni (si veda Bulletin Quotidien Europe, n. 7913, 1° marzo 2001).
75 Su questo si veda anche R. Circelli, Il ruolo dell’Alto Rappresentante per la Pesc e la Cellula di
pianificazione politica, in Il ruolo internazionale dell’Unione europea a cura di R. Balfour e E. Greco,
Cemiss, 2002, pp. 55 – 90.
61
un organo propulsivo, capace di orientare le scelte e l’azione dell’Unione verso ciò
che di volta in volta veniva individuato come l’interesse comune. Questa scelta
andava anche nella direzione di un graduale avvicinamento del secondo pilastro,
caratterizzato dall’intergovernatività, alla logica del sistema comunitario tipica del
primo pilastro. Oltre a coordinare il complesso degli strumenti che l’Unione stava
gradualmente sviluppando nel campo della Pesc, e fornire così alla politica estera
europea un profilo più unitario ed autonomo rispetto alla somma delle volontà dei
singoli Stati membri, l’Alto rappresentante aveva anche l’ambizione di rappresentare
la voce unitaria dell’Unione sulla scena internazionale. Stando alla lettera del Trattato
di Amsterdam, l’Alto rappresentante aveva il mandato di assistere “il Consiglio nelle
questioni rientranti nel campo della politica estera e di sicurezza comune, in
particolare contribuendo alla formulazione, preparazione e attuazione delle decisioni
politiche”76 e conducendo, su richiesta della Presidenza e a nome del Consiglio, un
dialogo politico con terzi. Insieme alla Presidenza del Consiglio e al Commissario
per le relazioni esterne, l’Alto rappresentante costituiva la nuova “troika”
comunitaria77, incaricata di esprimere la posizione ufficiale dell’Unione davanti alla
comunità internazionale.
L’altra innovazione introdotta dal Trattato di Amsterdam era la Cellula di
pianificazione politica e allarme tempestivo, interna al Segretariato Generale e posta
76 Art. 26 del Tue.
77 Il sistema della troika è stato introdotto agli inizi della Cpe per garantire continuità e maggiore
rilevanza all’azione esterna dell’Ue, affiancando alla Presidenza di turno del Consiglio un rappresentante
della presidenza precedente e uno di quella successiva.
62
sotto la responsabilità dell’Alto Rappresentante78. Essa può essere considerata una
prima embrionale forma di quello che sarebbe poi diventato, con il Trattato di
Lisbona, il Servizio europeo di azione esterna (si veda il cap 2). Essa nasceva per
supplire al deficit di ideazione, elaborazione ed esecuzione che l’Unione aveva
manifestato più volte in ambito Pesc, specialmente per quanto riguarda la
prevenzione e gestione di crisi. La Cellula aveva il compito di : analizzare gli ultimi
avvenimenti di politica estera, valutare gli interessi dell’Ue nella Pesc e identificare i
settori di possibile intervento; fornire tempestivamente analisi e allarme rapido su
eventi o situazioni che possono avere ripercussioni significative, incluse le crisi
potenziali; fornire, su richiesta del Consiglio o della Presidenza, ovvero su sua
iniziativa, opzioni di politica estera che contengano analisi, raccomandazioni e
strategie per la politica estera79.
La Cellula era composta di personale distaccato dagli Stati membri, dalla
Commissione e dal personale del Segretariato Generale e questo aspetto contribuiva a
sottrarre questa attività dalla esclusiva competenza degli Stati membri fornendole,
seppur a livello ancora embrionale, una capacità di elaborazione e proposta
autonome. La sua collocazione nell’ambito del Segretariato del Consiglio, sotto la
diretta responsabilità dell’Alto Rappresentante, consentiva una buona cooperazione
fra funzionari provenienti da istituzioni diverse, e l’estremo riserbo che fin dall’inizio
78 Dichiarazione n. 6 allegata all’Atto finale del Trattato di Amsterdam.
79 Ibidem.
63
ne aveva circondato l’attività, aveva indotto alcuni a ritenere che si stesse lentamente
trasformando in una sorta di gabinetto personale di Solana.
Per quanto riguarda gli aspetti più specificamente legati alla Pesd, il Trattato di
Amsterdam cambiava “la definizione a termine”80 della politica di difesa comune,
collocata nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, sostituendola con
“la definizione progressiva” della stessa, che potrebbe condurre a una difesa comune
“qualora il Consiglio europeo decida in tal senso”81. Accanto a questa formulazione
veniva comunque ribadita l’indicazione, già presente nel Trattato di Maastricht,
secondo la quale la politica dell’Unione in ambito Pesd “non pregiudica il carattere
specifico della politica di sicurezza e difesa di taluni Stati membri”82 ed è
compatibile con la politica adottata nell’ambito del Trattato dell’Atlantico del Nord e
realizzata tramite la Nato. Indicazioni ribadite anche per arginare la forte opposizione
che, ancora una volta, alcuni Stati neutrali e la Gran Bretagna avevano manifestato
rispetto alle ipotesi di ulteriori rafforzamenti nella cooperazione in questo settore.
Le altre innovazioni introdotte in ambito Pesd erano fondamentalmente due:
l’inserimento nel dettato normativo delle cosiddette missioni di Petersberg83 e la
precisazione del ruolo attribuito all’Ueo in questa fase di transizione. Le missioni di
Petersberg erano state individuate nel 1992 dal Consiglio Ministeriale dell’Ueo come
nuovi obiettivi dell’organizzazione, in aggiunta al suo tradizionale ruolo di difesa ed
80 Art. J4 del Trattato di Maastricht.
81 Art. 17 p. 1 del Tue.
82 Ibidem.
83 Art. 17 p. 2, Tue.
64
includevano missioni umanitarie, di soccorso e di evacuazione dei cittadini; missioni
per il mantenimento della pace e di combattimento per la gestione delle crisi,
comprese quelle di ristabilimento della pace. Rimaneva tuttavia una certa confusione
sul controllo politico e la direzione strategica delle operazioni di Petersberg, che si
presumeva dovessero essere condotte utilizzando le strutture Ueo o mezzi e capacità
Nato.
Nel Trattato di Amsterdam l’Ueo veniva riconosciuta come parte integrante del
processo di sviluppo dell’Ue, con la funzione di fornire “l’accesso ad una capacità
operativa di difesa”84, in un quadro istituzionale secondo il quale il Consiglio
europeo decideva, ovviamente all’unanimità, se intraprendere o meno delle azioni
che rientrano nelle missioni di Petersberg, e l’Ueo era il soggetto che avrebbe
eventualmente dovuto porle in essere. Nel contempo venivano promossi più stretti
rapporti istituzionali, di informazione e collaborazione tra l’Ue e l’Ueo, in vista di
una eventuale integrazione di quest’ultima nell’Unione, qualora il Consiglio europeo
avesse deciso in tal senso. Il legame tra le due organizzazioni risultava quindi
indubbiamente rafforzato, anche se in un regime che risultava ancora ampiamente
sperimentale. Infine il Trattato di Amsterdam introduceva il tema della cooperazione
nel settore degli armamenti, intesa come “definizione progressiva di una politica di
difesa comune”, anch’essa concretizzabile solo nel momento in cui gli Stati membri
lo avessero ritenuto opportuno.
84 Ibidem.
65
Nonostante ad Amsterdam fossero state introdotte alcune novità che
alludevano a possibili sviluppi futuri, le strutture istituzionali e gli strumenti
attraverso i quali realizzare una vera e propria politica di sicurezza e difesa erano
ancora troppo fragili, e troppe erano ancora le esitazioni che alcuni Stati membri
continuavano ad avere nel voler investire politicamente in questo settore.
2. Dalla Dichiarazione di Saint Malo al Consiglio europeo di Helsinki: il
segnale di una svolta
Un notevole passo in avanti in materia di sicurezza e difesa è stato compiuto
tra la fine del 1998 e la fine del 1999, fondamentalmente a causa di due avvenimenti.
Il primo era il nuovo atteggiamento impresso alla Gran Bretagna dal premier Tony
Blair nei confronti del processo di integrazione europea e della costruzione di una
politica di difesa comune. Il secondo era l’ulteriore dimostrazione di palese
impotenza che l’Unione europea aveva dato davanti ai drammatici eventi della guerra
in Kosovo nella primavera del 1999.
Se alcuni segnali di ritrovato interesse verso lo sviluppo della Pesd erano giunti
già dal Vertice informale dei Capi di Stato e di Governo di Portschach dell’ottobre
1998, la svolta arrivava con la Dichiarazione congiunta franco-britannica di Saint
Malo sulla difesa in Europa del 3-4 dicembre 1998, con la quale il processo che
sembrava essersi arenato con il Trattato di Amsterdam riprendeva improvvisamente
respiro. Nella Dichiarazione si affermava la necessità della piena attuazione delle
66
disposizioni del Trattato di Amsterdam in materia di Pesc, la necessità di valorizzare
il ruolo del Consiglio europeo rispetto alla progressiva costruzione di una politica di
sicurezza e difesa e si prevedeva che l’Unione si dotasse di una forza militare
autonoma e di strutture e mezzi adeguati per il suo impiego, incluse la capacità di
intelligence, analisi delle situazioni e pianificazione strategica.
Il Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999 recepiva questi stimoli ad
approfondire la cooperazione in materia di sicurezza ed indicava una serie di
iniziative da adottare per giungere ad una vera difesa europea85. A livello di organi
decisionali e di esecuzione veniva richiesta: la partecipazione dei Ministri della
Difesa alle riunioni del Consiglio Affari Generali nelle occasioni in cui si prendono
decisioni in materia di difesa; la costituzione di un Comitato Politico e di Sicurezza
composto da esperti di questioni politico-militari; la creazione di un Comitato
militare composto dei capi di Stato Maggiore della Difesa, rappresentati dai loro
delegati militari; la formazione di uno Stato Maggiore militare dell’Ue, affiancato da
un centro di raccolta e valutazione delle informazioni; la creazione di un centro
satellitare e di un istituto per gli studi di sicurezza.
A livello operativo, invece, veniva concordata la creazione di ulteriori forze
militari in grado di agire con un breve preavviso sia con l’appoggio della Nato, che al
di fuori del quadro dell’Alleanza. L’assunzione diretta di responsabilità militari da
85 Dichiarazione sul rafforzamento della politica europea comune in materia di sicurezza e difesa,
Consiglio Europeo di Colonia, 3-4 giugno 1999. Cfr. anche la Relazione della Presidenza sul rafforzamento
della politica europea comune in materia di sicurezza e di difesa. Entrambi i documenti costituiscono
l’Allegato III alle Conclusioni della Presidenza.
67
parte dell’Ue, implicava inoltre il graduale assorbimento delle strutture dell’Ueo,
della quale si prevedeva lo scioglimento di fatto entro il 200086. Infine, il Consiglio
designava Javier Solana, ex Segretario Generale della Nato, a ricoprire la carica di
primo Alto rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, fatto che
aveva un chiaro significato politico e simbolico. Pochi mesi più tardi lo stesso Solana
sarebbe stato eletto anche Segretario Generale dell’Ueo.
L’utilizzo delle capacità militari europee rimaneva comunque limitato ai casi in
cui la Nato avesse deciso di non intervenire; inoltre a tutti i paesi europei non membri
dell’Unione, ma membri della Nato, sarebbe stata data la possibilità di partecipare o
contribuire, secondo disposizioni appropriate. Pur rimanendo ancorate al principio
della cooperazione volontaria, queste iniziative costituivano una vera e propria svolta
nell’evoluzione della politica di difesa europea, soprattutto perché affiancate dalla
creazione di strutture politico istituzionali nell’ambito del Consiglio dei Ministri – i
già menzionati Comitato Politico e di Sicurezza (Cops), il Comitato militare (Cm) e
lo Stato Maggiore (SM) - che erano finalizzate alla gestione politico strategica delle
operazioni militari.
Il Cops nasceva con una valenza politica superiore rispetto al già esistente
Comitato politico, costituito dai Direttori politici dei Ministeri degli Affari Esteri
degli Stati membri. Era infatti un organo dalla struttura permanente, composto da
86 Il Consiglio Ministeriale di Marsiglia del 13 novembre 2000 avrebbe poi deciso la sopravvivenza
di una parte residuale delle strutture Ueo non ancora assorbite dall’Unione.
68
rappresentanti nazionali a livello di Alti funzionari/Ambasciatori, operativi
nell’ambito delle Rappresentanze permanenti degli Stati membri presso l’Ue. Il Cops
ha la funzione di: monitorare costantemente la situazione internazionale e fornire
pareri e raccomandazioni al Consiglio dei Ministri; mantenere i contatti con gli altri
organismi di sicurezza dell’Ue e fornire loro linee guida; coordinare e monitorare i
dibattiti sulla Pesc nei vari gruppi di lavoro, fissando coordinate ed esaminandone i
rapporti; mantenere i rapporti con la Nato e con i paesi candidati ad entrare nell’Ue;
fornire la direzione politica per lo sviluppo delle capacità militari; gestire le situazioni
di crisi e definire le opzioni di reazione; fornire il controllo politico-strategico alle
risposte militari dell’Ue.
Il Comitato militare, formalmente istituito con la decisione 2001/79/ Pesc87, è
il massimo organo militare dell’Unione ed è composto da Ufficiali ed esperti militari
delegati dai Capi di Stato Maggiore della Difesa degli Stati membri, ma può riunirsi
anche direttamente a livello di Capi di Stato Maggiore. Tra i suoi incarichi principali
c’è lo sviluppo delle capacità di gestione delle crisi dell’Unione, la consulenza
militare al Cops e all’Alto rappresentante e la direzione militare dello Stato maggiore
dell’Ue. Il Presidente del Comitato militare partecipa alle riunioni del Consiglio
quando si devono adottare decisioni con implicazioni in materia di difesa.
Lo Stato Maggiore, composto da personale militare distaccato dagli Stati
membri presso il Segretariato generale del Consiglio, ha invece la funzione di
87 Pubblicata in Guce n. L 27 del 30 gennaio 2001.
69
raccogliere costantemente informazioni e esperienza dalle capitali, così come
dall’Ueo e dalla Nato e di fornire consulenza sui temi di politica di difesa e sostegno
militare alla Pesd. È incaricato inoltre dell’esecuzione delle operazioni vere e proprie
di gestione militare delle crisi e dell’identificazione delle forze europee nazionali e
multinazionali. Esso assicura infine: il monitoraggio e la valutazione di situazioni di
crisi potenziali; il tempestivo allarme; la pianificazione strategica delle missioni di
tipo Petersberg. Lo Stato Maggiore si configura quindi come un centro di competenza
specifica in ambito militare, che svolge una funzione di tramite, sia in tempo di pace
che nelle situazioni di crisi, fra le autorità politiche e militari dell’Unione e le risorse
militari nazionali. Una parte non secondaria delle attività dello Stato maggiore è
dedicata alla elaborazione dei rapporti della struttura militare dell’Unione con la Nato
e nel suo mandato vengono previste procedure di lavoro e concetti operativi
compatibili con quelli della Nato. Questo tipo di incarico rientrava espressamente
negli Headline goals, ed era finalizzato a raggiungere la massima trasparenza nello
scambio reciproco delle informazioni necessarie alla conduzione autonoma, da parte
dell’Unione, di operazioni militari che non vedono impegnata la Nato.
3. Il Trattato di Nizza
Il Trattato approvato al termine del lungo vertice di Nizza, la cui versione
finale è stata firmata solo il 26 febbraio 2001, aveva la priorità di introdurre
innovazioni istituzionali che predisponessero l’Unione all’allargamento del 2004.
70
L’accelerazione del processo di cooperazione nell’ambito della politica di sicurezza
e difesa registrata negli ultimi Consigli aveva generato l’aspettativa che in
quest’ambito si potessero compiere ulteriori progressi. Le modifiche introdotte a
Nizza riguardo la Pesc e più genericamente la Pesd lasciavano invece aperti molti
nodi e risultavano, ancora una volta, complessivamente poco incisive. La novità più
significativa introdotta dal Trattato di Nizza in ambito Pesd era la formalizzazione del
ruolo del Comitato Politico e di Sicurezza88 che veniva individuato come l’organo
chiave e di giuda politico strategica per la politica estera e per la gestione di crisi, ed
al quale veniva fornita, per la prima volta, la base legale. Inoltre nel dettato dell’art.
17 venivano espunti tutti i riferimenti all’Ueo, eccezion fatta per il paragrafo 4, dove
veniva mantenuta la possibilità per due o più Stati membri di sviluppare, a livello
bilaterale, una cooperazione rafforzata in ambito Ueo e Nato. Infine, fatto certamente
importante perché ricco, come vedremo, di potenzialità evolutive, veniva introdotta la
possibilità di dare vita a cooperazioni rafforzate nell’ambito del Titolo V, anche se
ancora con l’eccezione delle questioni riguardanti il settore della Difesa.
3.1 Obiettivi e strumenti della Pesc/Pesd
Il Trattato di Nizza non introduceva modifiche rispetto agli obiettivi della Pesc
che erano stati enucleati nel primo articolo del titolo V
fin dal Trattato di
88 Art. 25 del Tue.
71
Maastricht89. Essi rimanevano la difesa dei valori comuni, degli interessi
fondamentali, dell’indipendenza e dell’integrità dell’Unione conformemente ai
principi della Carta delle Nazioni Unite; rafforzamento della sicurezza dell’Unione in
tutte le sue forme; mantenimento della pace e rafforzamento della sicurezza
internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai
principi dell’atto finale di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi, compresi
quelli relativi alle frontiere esterne; promozione della cooperazione internazionale;
sviluppo e consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, nonché rispetto
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Gli strumenti principali attraverso i quali l’Unione attuava la propria politica
estera rimanevano (oltre alle Strategie comuni introdotte, come si è visto, dal Trattato
di Amsterdam) quelli che erano stati indicati fin da Maastricht: le azioni comuni, le
posizioni comuni e la cooperazione sistematica fra gli Stati membri.
3.2 Attori istituzionali
L’azione esterna dell’Unione Europea era composta dall’insieme di soggetti,
istituzionali e non, che partecipavano alla formazione e alla messa in opera della Pesc
e della Pesd.
L’azione del Consiglio europeo nel settore delle relazioni esterne si esplicava,
più o meno come è ancora oggi, lungo tre assi principali. In primo luogo il Consiglio
89 Cfr. art. J1 del Trattato di Maastriche e Amsterdam, poi art. 11 del Tue.
72
europeo trattava le questioni di economia internazionale che riguardavano i rapporti
con le altre potenze economiche, e preparava l’azione dell’Ue nei vertici dei paesi più
industrializzati e i negoziati commerciali nelle sedi multilaterali. In secondo luogo il
Consiglio europeo prendeva posizione sulle più importanti questioni di politica
internazionale, cui come noto, tuttavia, non facevano necessariamente seguito
interventi di carattere operativo. Infine il Consiglio europeo definiva i principi e gli
orientamenti generali della politica estera e di sicurezza comune.
Per quanto riguarda la Pesc forse ancor più che per altri ambiti, il Consiglio
europeo ha dimostrato, fin da allora, i limiti intrinseci alla propria natura
intergovernativa, per il fatto che i rappresentanti nazionali negoziano su due piani
contemporaneamente: con le controparti europee per ottenere un certo accordo e con
la base politica nazionale per fare in modo che l’accordo raggiunto sia accettato dalla
coalizione, o dal partito, che sorregge il governo. I leader nazionali arrivano alle
riunioni dei Consigli europei, dunque, poco disposti a sacrificare la propria posizione
in nome del più generale interesse comunitario e lo sforzo costante di raggiungere un
equilibrio fra agenda internazionale e agenda nazionale spinge spesso all’adozione di
accordi al ribasso.
Al cuore del processo di formazione della Pesc si colloca invece il Consiglio
dei Ministri, che traduce in termini concreti le proposte del Consiglio europeo
prevalentemente attraverso l’elaborazione di posizioni ed azioni comuni. Fra le varie
formazioni del Consiglio quella responsabile delle decisioni di politica estera era ed è
73
il Consiglio Affari generali, che è composto dai Ministri degli Esteri degli Stati
membri, ma nelle occasioni in cui vengono assunte decisioni di natura militare vi
partecipano anche i Ministri della Difesa. Le decisioni sulla Pesc e sulla Pesd
vengono prese all’unanimità.
4. Le proposte della Convenzione sul futuro dell’Ue in ambito Pesd
Il progetto di Trattato costituzionale licenziato dalla Convenzione europea il 18
luglio 2003 ha introdotto in tema di Pesc, ma soprattutto di Pesd, delle innovazioni
significative, punto di arrivo del dibattito sviluppatosi nel corso degli anni ed
articolatosi, durante i lavori della Convenzione, nell’attività dei gruppi di lavoro VII
sull’Azione Esterna, presieduto dal vicepresidente della Convenzione Jean-Luc
Dehane e VIII, sulla Difesa, presieduto dal Commissario europeo Michael Barnier.
Il dibattito sulla riforma della Pesd e sul rafforzamento dei suoi strumenti
aveva compiuto un significativo balzo in avanti grazie alle posizioni franco-tedesche
nella Convenzione, che spinsero in avanti l’elaborazione del concetto di
comprehensive approach dell’Ue (vedi paragrafo successivo).90 Secondo questo
impianto, infatti, l’Unione doveva sviluppare una visione globale della propria
sicurezza, utilizzando un’ampia gamma di strumenti che andassero oltre quelli di
natura strettamente militare, come la cooperazione giudiziaria e di polizia, gli
90
Si veda, al riguardo, il “Contributo dei Sigg. Dominique de Villepin e Joschka Fischer, membri della
Convenzione, in cui sono presentate le proposte congiunte franco-tedesche per la Convenzione europea nel
settore della politica europea in materia di sicurezza e difesa sicurezza e di difesa”, Conv 422/02, Bruxelles,
22 novembre 2002.
74
strumenti economici e finanziari, la protezione civile. Francia e Germania
proponevano inoltre di introdurre nel nuovo Trattato dell’Unione un riferimento a “la
solidarietà e la sicurezza comune” tra i valori perseguiti dall’Ue, e di annettervi una
dichiarazione politica con il medesimo titolo. L’idea era inoltre di introdurre
maggiore flessibilità nell’ambito delle procedure decisionali della Pesd estendendo
anche ad essa lo strumento delle cooperazioni rafforzate.
4.1 Il progetto di Trattato costituzionale approvato dalla Convenzione
Il testo licenziato dalla Convenzione europea e sottoposto alla discussione della
Conferenza Intergovernativa che si era aperta a Roma il 4 ottobre 2003, conteneva
dunque delle novità importanti in ambito Pesc e, soprattutto, Pesd.
Le disposizioni relative alla Pesc e alla Pesd comparivano in diversi punti del
Progetto di Trattato costituzionale, a partire dal titolo III della parte prima, dedicato
alle competenze dell’Unione. Una prima novità del Progetto di Trattato costituzionale
contenuta nella parte III riguardava invece la possibilità di assumere in via di
eccezione decisioni a maggioranza qualificata o di lanciare cooperazioni rafforzate.
Le conclusioni del Gruppo di lavoro sulla Difesa della Convenzione a questo
riguardo sottolineavano come, in vista dell’allargamento dell’Unione, fosse più che
mai importante che “i paesi membri accettassero di passare dall’unanimità ad altre
modalità decisionali basate su un più ampio ricorso al consenso e improntate ad una
75
cultura di solidarietà tra gli Stati membri”91. In questo senso le conclusioni
indicavano nell’astensione costruttiva, ed in un possibile “allentamento” delle sue
regole di applicazione, uno degli strumenti migliori per mitigare il ricorso
all’unanimità.
L’art. III-201, ribadiva che l’unanimità (con la possibilità di ricorso
all’astensione costruttiva, purché ad astenersi sia meno di un terzo degli Stati
membri) restava la regola generale per le decisioni in ambito Pesc, e nel primo
paragrafo richiamava lo strumento dell’astensione costruttiva negli stessi termini in
cui esso è indicato dall’art. 23.1 del Tue. Per quanto riguarda le eccezioni a tale
regola, esse, oltre alle decisioni che stabilivano azioni o posizioni comuni, non
coprivano più i casi di proposta congiunta del Ministro degli Affari Esteri
dell’Unione e della Commissione come era stato proposto dal Gruppo di lavoro,
bensì le iniziative del Ministro adottate in seguito ad una richiesta del Consiglio
europeo che delibera all’unanimità.
4.2 Gli strumenti per una maggiore flessibilità del processo decisionale in
ambito Pesd del Progetto di Trattato Costituzionale
91 Relazione finale del Gruppo VIII “Difesa”, Conv 461/02, p. 18
76
Un importante passo in avanti era stato compiuto per quanto riguarda
l’applicazione delle cooperazioni rafforzate a Pesc e Pesd92. L’eliminazione del
collegamento fra le cooperazioni rafforzate e l’attuazione di azioni e posizioni
comuni presente nel Trattato di Nizza, avrebbe dovuto facilitare l’uso di questo
strumento. Ma ancor più importante era il fatto che nel nuovo Trattato scompariva il
dettato relativo all’inapplicabilità delle cooperazioni rafforzate alla Pesd, che era
invece presente nel Trattato di Nizza93, anche se l’assenza di un esplicito riferimento
delle cooperazioni rafforzate alla Pesd lasciava un margine di ambiguità.
In base all’art. III-325.2 del Progetto, la cooperazione rafforzata sulla politica
estera seguiva la regola generale dell’autorizzazione a maggioranza qualificata da
parte del Consiglio dei Ministri, senza che uno Stato membro potesse sottoporre la
questione all’attenzione del Consiglio europeo come previsto dall’art. 40 del Tue. Per
la Pesd il Progetto di Trattato prevedeva due nuove forme specifiche di cooperazione:
la cooperazione strutturata e la cooperazione più stretta in materia di difesa reciproca.
Le disposizioni riguardanti una cooperazione più stretta in materia di difesa
reciproca (indicate dagli art. I-40.7 e III-21), sancivano l’istituzione di una
cooperazione più stretta in materia di difesa reciproca, in base alla quale se uno degli
Stati che vi partecipano subisce un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati
partecipanti gli prestano, in conformità alle disposizioni dell’articolo 51 della Carta
92 Sul tema vedi anche: G. Bonvicini, G. Gasparini (a cura di), Le cooperazioni rafforzate per la
ristrutturazione dell’industria europea degli armamenti, Roma, Artistic&Publishing Company, 2003,
(Collana CeMiSS ; 24).
93 Art 27 B del Tue.
77
delle Nazioni Unite, aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, militari e di
altro tipo. Si tratta della clausola di difesa collettiva, la cui introduzione era stata
sollecitata in base all’idea che gli Stati membri che lo desiderassero potevano
applicare nelle loro relazioni gli obblighi derivanti dal trattato di Bruxelles relativi
all’assistenza reciproca, ponendo così fine all’Unione dell’Europa Occidentale.
Un’altra sollecitazione avanzata da alcuni membri del Gruppo di lavoro sulla
Difesa e accolta nel Progetto di Trattato riguardava l’inserimento di una “clausola di
solidarietà contro il terrorismo”. L’art. I-42 disponeva infatti che qualora uno Stato
membro fosse oggetto di un attacco terroristico o di una calamità naturale o
provocata dall’uomo, l’Unione e gli Stati membri avrebbero agito “congiuntamente
in uno spirito di solidarietà” mobilitando tutti gli strumenti di cui dispongono, inclusi
i mezzi militari, al fine di: prevenire la minaccia terroristica sul territorio degli Stati
membri; proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un
eventuale attacco terroristico; prestare assistenza a uno Stato membro sul suo
territorio, a richiesta delle sue autorità politiche, in caso di attacco terroristico o di
calamità.
Nell’ambito della cooperazione per l’industria della difesa, l’istituzione
dell’Agenzia europea per gli armamenti, la ricerca e le capacità militari, era una
innovazione che rientrava anch’essa fra le forme di nuova cooperazione flessibile
auspicate dal Gruppo di lavoro. L’art. III-212 disponeva che l’Agenzia, posta sotto
l’autorità del Consiglio dei ministri, avesse il compito di contribuire a individuare gli
78
obiettivi di capacità militari degli Stati membri e valutarne il rispetto degli impegni in
materia di capacità; promuovere l’armonizzazione delle esigenze operative e
l’adozione di metodi di acquisizione compatibili; proporre progetti multilaterali per il
conseguimento degli obiettivi in termini di capacità militari e gestire programmi di
cooperazione specifici; sostenere la ricerca nel settore della tecnologia della difesa,
coordinare e pianificare attività di ricerca congiunte; contribuire a individuare ed
attuare misure utili per potenziare la base industriale e tecnologica del settore della
difesa e per migliorare l’efficacia delle spese militari. L’Agenzia era inoltre aperta a
tutti gli Stati membri che desiderino parteciparvi.
La mancata introduzione nel Progetto di Trattato del voto a maggioranza
qualificata in ambito Pesc, dovuta alle resistenze manifestate da parte di alcuni Stati
membri, ha certamente costituito uno degli “obiettivi mancati” più pesanti della
Convenzione, che si sono poi trascinati fino al Trattato di LIsbona. Questo fatto non
deve tuttavia appannare la consapevolezza che la politica estera ed ancor più la
politica europea di sicurezza e difesa, hanno una propria spiccata specificità che non
le rende assimilabili, nei meccanismi procedurali e decisionali, alle altre politiche
comuni. Come è stato giustamente osservato da più parti, infatti, quale credibilità
avrebbero delle impegnative dichiarazioni internazionali dell’Ue se prese a
maggioranza qualificata e magari contro il parere di un paio di importanti paesi
79
europei? Il discorso deve prima compiere dei passi avanti sul terreno politico, per
poter poi essere efficacemente tradotto su quello istituzionale.
Le innovazioni più incisive per Pesc e Pesd contenute nel progetto di Trattato
erano invece costituite dalle opportunità di flessibilità per consentire agli Stati
membri di assumere iniziative senza la partecipazione di tutti. Forme di flessibilità
possono essere adottate per “assumere impegni più vincolanti in materia ai fini di
missioni più impegnative” tramite le cooperazioni strutturate; per sviluppare la
ricerca e la capacità militare tramite l’Agenzia Europea degli Armamenti; per
realizzare una cooperazione più stretta in materia di difesa reciproca. Per le missioni
di gestione di crisi, c’era poi la possibilità che la realizzazione venisse affidata ad un
gruppo di Stati “able and willing” . Innovazioni che sarebbero in buona parte
sopravvissute anche nel Trattato di Lisbona
80
Capitolo quarto
Il Trattato di Lisbona e l’approdo alla Psdc
Il processo di riforma costituzionale dell’Ue ha conosciuto una netta battuta
d’arresto quando il progetto di Trattato costituzionale approvato dalla Convenzione
europea e emendato dalla Conferenza intergovernativa del 2004, è stato bocciato nel
maggio del 2005 dai referendum popolari in due paesi fondatori, Francia e Olanda.
Questo stallo, che ha costituito un grave colpo politico all’integrazione, ha riaperto un
tormentato processo negoziale di revisione dei trattati da cui è emerso il testo del
Trattato di Lisbona, firmato dai capi di stato e di governo del 2007. Anche la ratifica
di quest’ultimo è stata respinta da un referendum poplare, questa volta in Irlanda, nel
2008, ma un successivo referendum nello stesso paese ha sanato, dopo
l’approvazione di un’apposita dichiarazione concordata tra il governoirlandese e le
istituzioni europee, l’ulteriore incidente. Il primo dicembre 2009, dopo questa
lunghissima battuta d’arresto, il trattato di Lisbona è finalmente entrato in vigore. Ma
come noto le condizioni politiche ed economiche erano profondamente mutate
rispetto alla prima elaborazione che ne era stata fatta dalla Convenzione europea.
Anche il settore della difesa, che aveva conosciuto uno sviluppo particolarmente
significativo nella prima metà degli anni duemila (soprattutto per quanto riguarda
l’industria della difesa), avrebbe conosciuto un significativo rallentamento, il cui
esito resta anche oggi estremamente incerto.
81
Nel trattato di Lisbona sono tuttavia confluite molte delle innovazioni
sviluppate in ambito Pesd e fin qui ripercorse. Come si è visto, dal punto di vista
istituzionale, le principali innovazioni del trattato che riguardano la Pesc hanno dei
riflessi diretti anche sulla Psdc (cap. 2 e 3). Più specificamente rivolte alla Psdc, nel
trattato di Lisbona sono la clausola di difesa reciproca tra tutti i paesi Ue (art. 42,7),
l’Agenzia per la difesa europea (art. 42,3), una nuova clausola di solidarietà contro il
terrorismo e in caso di catastrofi e, infine, le cooperazioni rafforzate, che nel campo
della Psdc hanno una forma ad hoc, denominata “cooperazione strutturata
permanente”(art. 42,6 e 46). A differenza delle cooperazioni rafforzate, dove é
richiesta la partecipazione di almeno un terzo degli stati membri, per quelle
strutturate il trattato non fissa alcuna soglia minima, e ciò dovrebbe favorirne l’avvio.
1. Cooperazione strutturata e altri strumenti Psdc
La cooperazione strutturata permanente è probabilmente lo strumento che ha
suscitato il più ampio dibattito sia tra esperti che decisori politici dopo l’entrata in
vigore del trattato, anche se fino ad oggi non è ancora stata utilizzata. Sulla sua
attuazione si sono infatti misurate varie posizioni, che spaziano da quelle francesi,
legate ad un’idea di integrazione della difesa guidata dai maggiori paesi contributori
e, dunque, con una visione abbastanza ambiziosa della cooperazione strutturata
permanente; a quelle, sul fronte opposto, più conservative degli irlandesi, che sono
82
giunti a minacciare di impugnare le dichiarazioni limitative concordate con le
istituzioni Ue prima dell’approvazione del referendum di ratifica (il secondo, dopo
che il primo era fallito), che rischiano di compromettere ulteriormente lo sviluppo di
settore. I francesi, in particolare, si sono opposti fino all’ultimo a un’interpretazione
eccessivamente inclusiva della cooperazione, che alla fine è invece prevalsa,
sottolineando che lo strumento era stato concepito con finalità più esclusive e
selettive, anche se in un contesto politico ed economico meno depresso di quello
attuale.
In conformità alla lettera del Trattato, tuttavia, gli stati membri hanno
privilegiato l’idea che si possa realizzare soltanto una cooperazione. , Ciò ha indotto
a concepirla come una sorta di “grande contenitore” in grado di coinvolgere tutti gli
stati Ue, e che, dunque, molto difficilmente potrà avere un profilo ambizioso e fornire
un impulso significativo alla difesa europea. Data l’estrema varietà delle capacità
degli stati membri nel settore della difesa, si è dunque immaginata una cooperazione
strutturata all’interno della quale gruppi ristretti possano realizzare programmi più
specifici, con due obiettivi di fondo. Da un lato il mantenimento delle capacità attuali,
sempre più difficile da mantenere a causa del costante calo dei bilanci della difesa e
del contestuale aumento dei costi della ricerca e sviluppo. Dall’altro la risoluzione
dellei alcune lacune strutturali dell’Ue, che per ventuno paesi corrispondono anche
con quelle della Nato: il trasporto strategico per via aerea, l’elicotteristica, la parte
83
medica, una possibile gendarmeria europea o anche capacità per il controllo delle
frontiere, cui la Psdc potrebbe fornire un importante contributo.
La clausola di difesa reciproca tra tutti i paesi Ue prevede invece che se “uno
Stato membro subisce un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri stati membri
sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in
confrormitaconformità’ all’art. 51 della Carta dell’Onu”. La clausola non pregiudica
tuttavia la condotta degli Stati neutrali, ovvero che non appartengono a nessuna
alleanza militare, né la conformità, per i membri Nato, agli impegni assunti
nell’ambito dell’Alleanza, che rimane “per gli Stati che ne sono membri, il
fondamento della loro difesa collettiva”. Si tratta di un chiaro riconoscimento dei
reciproci ruoli tra Ue e Nato, cui viene riservata una chiara preminenza per la
sicurezza collettiva europea. Nonostante la clausola possa essere interpretata in
diverse chiavi, da essa dovrebbero discendere poche conseguenze pratiche o
operative a livello europeo.
Diverso è invece il discorso sulla clausola di solidarietà, che riguarda una sfera
più ampia della sola Psdc, ma rispetto alla quale quest’ultima può svolgere ancora in
via di definizione. L’attuazione dell’Agenzia per la difesa europea (art. 42) era già
stata anticipata con un’azione Pesc del 12 giugno 2004, ma solo con Lisbona essa è
entrata ufficialmente nei trattati. L’Agenzia ha l’obiettivo di rafforzare la base
industriale e tecnologica del settore difesa e di contribuire alla definizione di una
politica europea delle capacita’ e degli armamenti, e in questo quadro le viene
84
riconosciuto un chiaro ruolo anche rispetto alla cooperazione strutturata permanente.
Tra le critiche che le sono state mosse nel corso di questi anni, tuttavia, c’è quella di
non aver sempre contribuito allo sviluppo istituzionale della Psdc, anche con
l’obiettivo di mantenere un ruolo di preminenza ed esclusività sull’intero settore.
2. Comprehensive approach
Se questi sono alcuni filoni di riflessione sulla Psdc che discendono direttamente
dal Trattato, ce ne sono altri di carattere più ampio che possono contribuire ad
inquadrarne meglio l’attuazione. Uno dei più rilevanti è il dibattito sul comprehensive
approach, tratto distintivo
dell’Unione nella gestione della crisi. L’Ue è infatti
l’unica organizzazione che dispone di un ventaglio di strumenti così ampio per la
gestione delle crisi. Se nei meccanismi di coordinamento civile-militare negli ultimi
anni si sono registrati dei miglioramenti, soprattutto nei centri di coordinamento a
Bruxelles, non altrettanto si può dire per i livelli operativi sul terreno, con un ritardo
che indebolisce un possibile fiore all’occhiello delle iniziative Psdc.
Una vera collaborazione tra le varie componenti non è facilmente realizzabile
neanche nelle missioni civili, come quelle di ripristino della Rule of law, sullo stato
di diritto, nella cooperazione ad esempio tra la componente giustizia e la polizia (il
Kosovo è stato uno dei casi più evidenti), dove i magistrati trasferiscono le stesse
garanzie costituzionali di cui godono, in termini di autonomi e sovranità, nel proprio
paese di origine. Il consolidamento del comprehensive approach sul fronte civile85
militare deve dunque continuare a svilupparsi anche nella collaborazione civilecivile.
3. Alto rappresentante e Seae nella Psdc
Come visto (cap. 2), l’Ar guida la politica estera e di sicurezza comune e
anche quella di difesa (in supplenza dell’ancora inesistente ministro della difesa
europeo), ma è anche vicepresidente della Commissione (Ar/Vp), presidente del
Consiglio affari esteri, capo del Seae e dell’Agenzia europea di difesa. Usando tutti i
suoi “cappelli”, l’Alto rappresentante può far sì che la decisione di intervenire con
una missione Psdc (militare o civile ovvero mista) si inserisca in una strategia nella
quale le varie politiche dell’Ue interagiscano in modo il più possibile coordinato. E’
all’Ar, infatti, che il trattato attribuisce la possibilità di proporre il lancio di una
nuova missione e “il ricorso sia a mezzi nazionali sia agli strumenti dell’Unione, se
del caso congiuntamente alla Commissione” (art. 42).
Nel Servizio diplomatico europeo sono confluite le tre principali strutture di
gestione delle crisi: la nuova Crisis Management and Planning Directorate (CMPD),
la EU Civilian Operations Commander (CPCC) e lo Stato maggiore dell’Ue. La
catena di comando delle tre strutture dipende direttamente dall’Alto rappresentante.
Le prime esigenze emerse hanno riguardato il coordinamento sia delle tre strutture tra
loro (anche per arginare la tendenza dominante della nuova CMPD), sia con le
86
direzioni geografiche del Seae. Il rischio era infatti che le strutture di gestione-crisi
potessero mirare a produrre missioni prevalentemente per giustificare la propria
esistenza, piuttosto che pensando alle esigenze di politica estera elaborate dalle
direzioni geografiche. La linea che si è invece affermata prevede una pianificazione
delle politiche da parte delle direzioni geografiche, cui danno seguito le strutture di
gestione-crisi.
Data la rilevanza delle innovazioni del Trattato in ambito Psdc, un’altra
conseguenza della sua entrata in vigore è stato il rafforzamento il ruolo dei ministri
della difesa nel Consiglio affari esteri. Prima di Lisbona il Consiglio era presieduto
dal ministro degli esteri e da quello della difesa del paese che deteneva la presidenza
di turno e i ministri di esteri e difesa si riunivano in parallelo, per poi confluire in una
riunione congiunta. Oggi, invece, il solo Ar presiede il Consiglio affari esteri, al fine
di garantire maggiore continuità. Ma poiché le riunioni con i ministri degli esteri
hanno sempre un’agenda molto ricca, quelle con i ministri della difesa slittano spesso
al giorno successivo. Il coordinamento tra ministri degli esteri e della difesa è dunque
sempre meno diretto, e lasciato prevalentemente nelle mani dell’Ar. Con Lisbona,
inoltre, i ministri della difesa si riuniscono anche all’interno dell’l’Agenzia europea
di difesa, anch’essa presieduta dall’Ar.
Secondo alcuni questa tendenza sta indebolendo la coerenza tra politica etera e
di difesa, alimentando una concezione della Psdc come politica autonoma piuttosto
che come strumento della Pesc, come invece previsto dai Trattati. I ministri degli
87
esteri, dal canto loro, rivendicano l’importanza di continuare ad avere voce in
capitolo sulle decisioni e l’evoluzione della Psdc, al di là delle pur legittime garanzie
di coerenza offerte dal ruolo dell’Ar. Se infatti è giusto che su alcuni temi più
specifici si pronuncino soprattutto i ministri della difesa, è importante che essi
vengano stabiliti d’intesa con i ministri degli esteri, individuando anche i terreni su
cui è possibile realizzare convergenze più efficaci.
4. Rapporti Ue-Nato
Il futuro dei rapporti tra Ue e Nato è uno degli aspetti centrali, e forse il più
importante, delle relazioni tra europei e americani in materia di sicurezza. Per questo
esso è estremamente rilevante anche per ogni futura evoluzione della Psdc. La
collaborazione Nato-Ue si fonda su due presupposti: da un lato il riconoscimento che
gli Stati Uniti continuino ad essere il principale garante della sicurezza del continente
europeo; dall’altro l’esigenza che i paesi europei riducano il divario di capacità
militari con gli Usa, divenendo sempre più in grado di operare anche autonomamente.
Se le origini della Psdc sono state accompagnate da tensioni e diffidenze tra le due
sponde dell’Atlantico, a causa del sospetto che l’Ue volesse sviluppare eccessivi
margini di autonomia, negli ultimi anni sembra essere maturata la convinzione che il
ruolo della Nato sia compatibile con un progressivo sviluppo della Psdc. Il reintegro
della Francia nel comando militare Nato, divenuto ufficiale dopo il vertice di
Strasburgo-Kehl dell’aprile 2009, testimonia questo importante cambiamento di
88
clima politico. La Francia è stata infatti il paese europeo che più si era distinto, in
passato, per l’ambizione a creare una difesa europea indipendente. Il fatto che oggi
Parigi dimostri di non considerare più realistico un decoupling militare dell’Europa
dagli Usa, sta contribuendo a far maturare anche negli americani la consapevolezza
che la Psdc è un’opportunità per favorire l’ottimizzazione delle risorse e capacità
militari europee e l’unica alternativa praticabile all’improbabile aumento dei bilanci
della difesa dei paesi europei.
94
Nonostante questi recenti sviluppi positivi, diversi
sono i fronti che rimangono problematici per la cooperazione tra le due
organizzazioni: una chiara divisione dei compiti e delle responsabilità, la definizione
di un comune approccio politico-strategico, il coordinamento istituzionale e la
collaborazione operativa sul campo.
95
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto,
alcuni passi avanti si sono registrati anche grazie a delle intese tecniche, che tuttavia
non possono essere formalizzate a causa di problemi di carattere politico. La
principale esigenza per il futuro riguarda la definizione di un meccanismo che
permetta di coordinare sul terreno missioni militari Nato con missioni civili Ue
(come, ad esempio, è avvenuto soprattutto in Kosovo e Afghanistan) o anche
94
Il nuovo concetto strategico della Nato ribadisce l’obiettivo tradizionale della difesa del territorio
dell’Alleanza ma apre, di fatto, a una visione più estesa e articolata di quella delle precedenti formulazioni
strategiche. Il documento approvato al vertice di Lisbona del novembre 2010 fissa delle priorità nella lotta al
terrorismo internazionale e alla proliferazione dei missili balistici. Spazio viene dato anche alle nuove
minacce, ai cosiddetti cyber-attack e ai problemi dell’approvvigionamento di materie prime energetiche. La
Nato del nuovo decennio mira ad allacciarsi al grand bargain del disarmo nucleare, un processo da portare
avanti con l’approfondimento dei rapporti tra Russia Stati Uniti: Active Engagement, Modern Defence,
Strategic Concept For the Defence and Security of The Members of the North Atlantic Treaty Organisation
Adopted by Heads of State and Government in Lisbon, Lisbona, Novembre 2010
[http://www.nato.int/lisbon2010/strategic-concept-2010-eng.pdf]
95
Al riguardo si veda anche La Nato e la difesa europea: sviluppi recenti, scenari e ruolo dell’Italia, Istituto
Affari Internazionali, Aprile 2009.
89
missioni specificamente militari, come, ad esempio, avviene tra quelle antipirateria
nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, dove il coordinamento funziona pur senza
un cappello politico. La regolamentazione di situazioni in cui le organizzazioni
operano una al fianco dell’altra con compiti in parte diversi, sembra dunque essere la
principale prospettiva per il futuro. Dal punto di vista politico, invece, il macigno del
contrasto turco-cipriota rimane tra i principali ostacoli da superare.
5. L’impulso del Parlamento europeo
Nel nuovo equilibrio istituzionale disegnato dal trattato di Lisbona il
parlamento, che ha significativamente esteso i propri poteri, può svolgere un
importante ruolo di impulso. Ne ha già dato prova in diversi passaggi rilevanti, come
ad esempio il negoziato sull’attuazione del Servizio diplomatico europeo. Nel maggio
2011, in particolare, il parlamento ha approvato il suo primo rapporto sullo sviluppo
della Politica di sicurezza e difesa comune96, che analizza le condizioni giuridiche,
politiche e operative per realizzare una effettiva integrazione tra la Psdc, la Pesc e le
altre dimensioni e strumenti dell’azione esterna dell’Ue. In questo quadro, il rapporto
esamina il nesso tra sicurezza e politica estera, quello tra sicurezza e difesa, la
relazione tra sicurezza esterna e interna, le operazioni Psdc e le partnership,
formulando una serie di proposte concrete (e non pochi rilievi critici). A conferma del
96
Relazione sullo sviluppo della politica di sicurezza e di difesa comune a seguito dell'entrata in vigore del
trattato di Lisbona, PE, (2010/2299(INI)), relatore Roberto Gualtieri:
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A7-20110166+0+DOC+XML+V0//IT#title1.
90
crescente impegno del Parlamento verso il consolidamento di questo importante
settore strategico.97 Anche per il parlamento la sfida fondamentale riguarda la
completa attuazione di quel comprehensive approach ai temi della sicurezza che può
consentire all’Ue di valorizzare l’originalità del suo metodo di gestione delle crisi e
prevenzione dei conflitti, che deriva dalla vocazione al multilateralismo, dalla
peculiarietà degli strumenti a disposizione della sua azione esterna e dalla varietà
delle culture strategiche dei suoi Stati membri.98
6. L’asse franco-britannico e il futuro della Psdc
A fine 2010, Francia e Regno Unito hanno siglato un accordo bilaterale
militare ad ampio raggio che riguarda attività operative, capacità nucleari,
addestramento, logistica, programmi di armamenti. Le implicazioni dell’accordo
riguardano soprattutto l’industria della difesa, ma man mano che i suoi contenuti
sono andati emergendo, esso si è configurato sempre piu’ come una battuta d’arresto
del processo d’integrazione europea nella difesa per come lo abbiamo conosciuto fino
ad oggi. La Francia, del resto, da tempo lamentava una forte insoddisfazione per
l’interpretazione eccessivamente inclusiva che era stata data alla cooperazione
strutturata permanente, tradendone l’ispirazione iniziale, o per la paralisi che
caratterizzava l’Agenzia della difesa europea a causa dell’eccessiva eterogeneità dei
69 Il rapporto è stato votato da popolari, socialisti, liberali e verdi, mentre hanno votato contro i gruppi
euroscettici di destra – compreso l’Ecr, dove siedono i conservatori britannici – e i comunisti della Gue
98
Si veda anche: R. Gualtieri e R. Matarazzo, Il dilemma amletico della Psdc, in R. Gualtieri and J.L. RhiSausi (ed), Rapporto 2011 sull’integrazione europea, Bologna, Il Mulino, Novembre 2011, p. 17-32
91
suoi 27 membri. Nonostante lo slancio iniziale della nuova intesa (e le sue ambizioni
di autosufficienza)
si siano infrante contro le numerose difficoltà incontrate
nell’estate del 2011 nel conflitto per la destituzione del leader libico Gheddafi, il
segnale per l’Ue è stato molto forte.
Fino alla sigla di quell’accordo, infatti, l’Europa della difesa era stata
caratterizzata dalla coesistenza di due cerchi concentrici, dei quali quello dei sei paesi
(Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito) che hanno sottoscritto nel
1998 un accordo ad hoc, la Letter of intent (Loi), per programmi comuni di
ristrutturazione dell’industria della difesa, esercitava un effetto traino sul secondo
cerchio, piu’ ampio, composto dagli altri paesi membri dell’Ue. La nuova partnership
strategica ambisce a creare un terzo nucleo centrale franco-britannico, che per
capacita’ economiche, tecnologiche e industriali sembra destinato a collocare gli altri
quattro paesi Loi in posizione subalterna. Nonostante il recente cambio ai vertici
dell’Eliseo possa indurre Parigi ad un passo indietro, non vi è dubbio che la politica
di sicurezza e difesa dell’Ue attraversi una delicata fase di transizione. Il
rafforzamento dell’apparato istituzionale ha certamente posto le basi per un’azione
internazionale dell’Unione più coordinata ed incisiva. Al contempo, si sono
consolidate una serie di spinte contrastanti tra i vari “blocchi” di paesi, che tendono
ad assumere posizioni sempre meno concilianti nei principali settori dell’azione
comunitaria, della politica economica e valutaria a quella di sicurezza.
In questo momento non si può non notare come la prima fase post-Lisbona sia
92
stata volta a privilegiare più gli accordi bilaterali che l’attivazione degli strumenti di
cooperazione previsti dal trattato (come ad esempio le cooperazioni strutturate
permanenti) indebolendo la soggettivita’ politica e la forza negoziale dell’Ue sulla
scena internazionale. Nello specifico della politica di sicurezza, cio’ potrebbe tradursi
in una perdita di visione strategica, assolutamente inaccettabile in un momento in cui
dalle frontiere (soprattutto da quella mediterranea) europee giungono richieste molto
chiare in termini di sicurezza e stabilizzazione.
93
Capitolo quinto
Conclusioni:
la
trasformazione
del
sistema
di
sicurezza
internazionale e il futuro della Pesc/Psdc
Il sistema di sicurezza internazionale attraversa un momento particolarmente
delicato, sia per la persistenza di diversi punti di crisi e instabilità, sia per il
rafforzamento della domanda di riforma delle istituzioni che garantiscono la
sicurezza a livello globale e regionale. Negli ultimi anni l’arretratezza del sistema di
governance multilaterale è divenuta infatti sempre piu’ evidente. Sulla spinta della
crisi economica i leader delle principali potenze mondiali hanno definito, soprattutto
all’interno G20, una serie di riforme che dovrebbero favorire il riequilibrio dei
rapporti economici globali.
Sebbene le istituzioni per la tutela della sicurezza internazionale non siano state
colpite da una crisi paragonabile a quella del mondo economico e finanziario, anche
queste sono attraversate da problematiche di vario genere. Innanzi tutto il tipo di
minacce sistemiche, sempre meno provenienti – come nel passato – da stati “forti” e
sostenitori di un ordine “alternativo”, bensi’ originate da attori non statuali, che
trovano negli stati “deboli” o falliti, collocati alla periferia del sistema (come ad es.
Libia, Pakistan o Somalia), opportunita’ di radicamento e diffusione. Si tratta inoltre
di minacce tra le quali e’ sempre piu’ difficile definire una rigida gerarchia, o anche
delle chiare priorita’ su cui centrare la strategia di sicurezza di un singolo paese (per
94
quanto potente possa essere) o delle principali istituzioni internazionali. Queste
minacce spaziano infatti dal riscaldamento globale alle pandemie, dalla proliferazione
nucleare al terrorismo fondamentalista, dalla criminalita’ organizzata alla scarsita’
energetica fino al terrorismo informatico99.
Di fronte a questo scenario il principale limite del sistema internazionale di
sicurezza appare quello della disarticolazione: si sente la mancanza di un centro di
coordinamento che, partendo dal livello universale simboleggiato dall’Onu, definisca
responsabilità e competenze a livello regionale e ripartisca i compiti in base alle
capacità delle singole organizzazioni regionali e dei singoli stati. Il problema non
riguarda soltanto, dal punto di vista giuridico, la legittimità delle azioni intraprese a
tutela della sicurezza internazionale, ma coinvolge direttamente anche la dimensione
politica.
La graduale “transizione del potere” e la contestuale ridefinizione della
gerarchia internazionale in corso da alcuni anni, confermano tuttavia in molti paesi le
ragioni a sostegno di una riforma delle principali istituzioni multilaterali globali e
99
Si veda, tra l’altro, G. J. Ikenberry, A crisis of Global Governance?, in Current History, Novembre 2010,
pp. 315 – 321 e, Global Governance 2025, At a critical Juncture, National Inteligence Council (Nic) e
EU Institute for Security Studies (EUISS), Parigi, Settembre 2010:
http://www.acus.org/files/publication_pdfs/403/Global_Governance_2025.pdf ; National Security
Strategy, President of the United States, Maggio 2010:
http://www.whitehouse.gov/sites/default/files/rss_viewer/national_security_strategy.pdf ; European
Council, Report on the implementation of the European Security Strategy. Providing Security in a
changing world, Brussels, 11 Dicembre 2008, S407/08: http://www.euun.europa.eu/documents/en/081211_EU%20Security%20Strategy.pdf;
95
regionali. I principali attori internazionali sembrano consapevoli di avere molto da
perdere dal collasso di un sistema che, sia pur con evidenti difficoltà, consente
scambi crescenti a livello mondiale, sostiene il contrasto a minacce transnazionali e
cerca di tutelare beni comuni quali il clima o le risorse naturali, da cui il benessere
collettivo dipende in larga misura. Questa comune consapevolezza, che conferma
l’esistenza di spazi, ancorche’ limitati, per nuove forme di cooperazione, e’ stata
anche alla base dei risultati conseguiti negli ultimi anni. In particolare, il nuovo
impulso alla cooperazione multilaterale fornito dall’amministrazione americana e
ribadito dalla Strategia di sicurezza nazionale Usa presentata a Maggio 2010, ha
costituito uno degli elementi fondamentali in questo senso.
A trarne beneficio sono state le Nazioni Unite e, in particolare, la quinquennale
conferenza del riesame del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), svoltasi a
maggio 2010, in cui si sono compiuti alcuni importanti passi avanti rispetto allo stallo
che aveva caratterizzato quella del 2005. Si e’ sviluppato un maggiore coordinamento
per la messa a punto di un “piano di azione” che collega i tre pilastri principali del
sistema (non proliferazione, disarmo, promozione del nucleare civile), precisando le
procedure di adattamento agli standard dell’Aiea e rafforzando gli strumenti di
controllo sul traffico illecito di materiali sensibili. Divergenze sono continuate invece
ad emergere sull’obiettivo di realizzare un’area libera da armi nucleari e di
96
distruzione di massa (WMD-free zone) in Medio Oriente, che a dieci anni di distanza
dalla firma della apposita risoluzione stenta a decollare.
A livello piu’ strettamente transatlantico, la distensione dei rapporti tra Usa e
Russia ha indirettamente contribuito anche al successo del vertice Nato di Lisbona di
novembre 2010, nel quale e’ stato dotatto il nuovo concetto strategico dell’Alleanza.
Il nuovo concetto ribadisce l’obiettivo tradizionale della difesa del territorio
dell’Alleanza aprendo a una visione più estesa e articolata di quella delle precedenti
formulazioni strategiche. La Nato del nuovo decennio mira cosi’ ad allacciarsi al
grand bargain del disarmo nucleare, da portare avanti anche attraverso
l’approfondimento dei rapporti con la Russia.
Dal riassetto della Nato definito a Lisbona e’ invece uscito parzialmente
ridimensionato il ruolo dell’Osce, che anche a causa della sua ampia membership e di
una struttura troppo burocratizzata, non sembra riuscire ad uscire dalla crisi di
identita’ che la caratterizza da molti anni.
1. Il passaggio dal G8 al G20 e l’ “ombra” del G2
Un’altra importante ripercussione della crisi finanziaria sull’evoluzione del
sistema internazionale si e’ registrata nel passaggio di consegne tra il G8 al G20
nelle funzioni di gestione dell’economia mondiale. Alle riunioni del G20 partecipa
anche, a pieno titolo, l’Unione europea. Anticipato dal vertice G20 di aprile 2009 a
Londra e fortemente voluto dalla nuova amministrazione Usa, l’allargamento dal G8
97
al G20 e’ stato formalizzato al summit del G20 di Pittsburgh di settembre 2009. Da
tempo, del resto, era avvertita l’esigenza di un’espansione del direttorio
dell’economia mondiale, che coinvolgesse soprattutto le economie emergenti (come
Cina, India e Brasile), divenendo piu’ rappresentativo dei nuovi equilibri economici
mondiali. La crisi economica ha dunque fornito l’impulso determinante per realizzare
una riforma di cui si parlava gia’ da diversi anni100. Il G20 diventa cosi’ il principale
contesto per la cooperazione, regolamentazione e vigilanza in campo economico,
mentre il G8 continuera’ ad occuparsi delle questioni piu’ politiche101.
Il passaggio dal G8 al G20 ha indotto alcuni analisti a sottolineare l’esigenza di
un consolidamento della cooperazione strategica tra Stati Uniti e Cina, per realizzare
una sorta di “cabina di regia” in grado di orientare il sistema internazionale102, il
cosiddetto G2. L’approccio e’ evidentemente antitetico a quello in corso, volto ad
accrescere la rappresentativita’ dei vertici internazionali, ma risponde all’esigenza dei
due grandi paesi di cercare di fornire risposte rapide alla crisi. Questa prospettiva ha
100
Il G20 riunisce i membri del G8 (che rappresentano poco più del 50% del Pil mondiale e il 13% della
popolazione), le cinque economie emergenti, ovvero Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica (il cosiddetto
G5), più Argentina, Australia, Indonesia, Arabia Saudita, Corea del Sud, Turchia – e l’Unione europea: una
compagine rappresentativa dell’85% del Pil mondiale e di 4,2 miliardi di cittadini.
101 I tempi di questo passaggio saranno tuttavia piu’ graduali di quanto le prime impressioni non abbiano
fatto immaginare: il G20 include paesi con interessi profondamente eterogenei, alcuni dei quali con una
modesta esperienza di vertici internazionali, con i quali non sara’ facile trovare intese su altri temi
dell’agenda internazionale come i cambiamenti climatici, la liberalizzazione commerciale, la riforma del
sistema finanziario internazionale e la proliferazione nucleare. La maggiore coesione politica esistente su
questi temi tra i paesi del G8, garantisce che questo foro continuera’ comunque a svolgere, ancora per alcuni
anni, un ruolo di impulso non irrilevante.
102
Si veda C. Fred Bergsten, A Partnership of Equals, How Washington Should Respond to China's
Economic Challenge, in “Foreign Affairs”, Vol. 87, N. 4, July/August 2008,
http://www.foreignaffairs.com/articles/64448/c-fred-bergsten/a-partnership-of-equals
98
rafforzato, soprattutto in Europa, la percezione di uno spostamento del baricentro
internazionale dall’asse transatlantico a quello transpacifico103. L’idea che il G2 possa
in tempi rapidi marginalizzare completamente altri attori, a partire dall’Europa,
rischia di sottovalutare tuttavia importanti divergenze di carattere politico, economico
e strategico che esistono tra i due paesi.
Oltre ad una generale mancanza di fiducia tra le leadership cinesi e americane,
che continuano a concepirsi come rivali piuttosto che alleate, una controversia
rilevante riguarda il tasso di cambio dello yuan , che le autorita’ cinesi non accettano
di rivalutare. Dal punto di vista commerciale, tensioni sono riaffiorate tra i due paesi
ogni volta che gli Usa hanno accennato all’adozione di nuove misure protezionistiche
per affrontare le conseguenze della crisi. Divergenze non secondarie esistono inoltre
sulle politiche ambientali, dove la Cina si oppone ad accordi vincolanti per la
riduzione di emissioni nel timore che possano limitarne la crescita; cosi’ come sul
tema dei labours standards, su cui Pechino non sembra intenzionata a concedere
nulla alle richieste di adeguamento avanzate da europei e americani. Dal punto di
vista strategico, infine, continuano a registrarsi tensioni sulla questione dell’isola di
Taiwan (che la Cina punta a riunificare al paese, mentre gli Usa si sono impegnati a
difendere dai tentativi di annessione per via militare), e la stessa Corea del Nord
103
Guardando ai dati, tuttavia, l’area economica transatlantica resta, per ora, la più ricca, vasta ed integrata
del mondo: per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, il rapporto tra Usa e Ue rimane ancora molto
più importante, per entrambi, della relazione con la Cina. L’Ue è oggi, inoltre, la principale potenza
commerciale del mondo, e il suo peso nel commercio globale nell’ultimo decennio ha continuato a crescere.
99
(cosi’ come l’Iran), potrebbe costituire un elemento di rottura se gli americani
chiedessero a Pechino maggiore durezza con Pyongyang per bloccarne il programma
nucleare104.
Se dunque il rafforzamento della cooperazione strategica tra Usa e Cina e’ un
fatto auspicabile, la gestione dell’agenda internazionale nei prossimi anni rendera’
imprescindibile il coinvolgimento di una molteplicita’ di attori. Questo apre spazi di
manovra, se vorra’ e sara’ in grado di svolgere un ruolo strategico, soprattutto per
l’Unione europea.
2. I rapporti Usa-Ue
In questo quadro, l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti,
nel 2008, ha rappresentato una svolta importante per il rilancio di quel
“multilateralismo efficace” che l’Unione pone da tempo al centro del suo approccio
strategico. Ma le aperture multilaterali della nuova amministrazione Usa hanno
coinciso anche con la richiesta di maggiori assunzioni di responsabilità sulla scena
internazionale, cui l’Ue e i paesi membri hanno risposto spesso in modo
disomogeneo: dalla richiesta di un maggior numero di soldati da inviare nei teatri a
maggiore intensita’ bellica, all’attenzione per un piu’ rigoroso rispetto degli impegni
104
Si veda B. Voltolini, Quale ruolo per il G2?, in “AffarInternazionali”, 6 luglio 2009,
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1183
100
per gli aiuti allo sviluppo, alla disponibilita’ a nuovi round di sanzioni verso l’Iran,
ecc.105
Rispetto agli anni dell’amministrazione Bush, tuttavia, la convergenza tra le
due sponde dell’Atlantico è tornata a farsi sentire su una serie di punti chiave: la
centralita’ dell’Onu per le piu’ importanti questioni della sicurezza internazionale, la
“rassicurazione strategica” verso la Russia e il nuovo, problematico approccio sul
nucleare iraniano, l’impegno per “un mondo senza armi nucleari” (rilanciato non a
caso dal presidente americano in occasione del vertice Ue-Usa di aprile 2009 a
Praga), fino alla battaglia contro i cambiamenti climatici, che tuttavia non e’ andata
oltre i deludenti risultati della conferenza di Copenaghen di fine 2009.
In questo contesto, la proiezione esterna dell’Ue continua a risentire, al fondo,
di dilemmi che neanche il riesame della Strategia di Sicurezza europea di fine
dicembre 2008 e’ riuscito ad affrontare compiutamente: le persistenti divisioni tra i
paesi dell’Europa occidentale su una serie di dossier chiave (dall’indipendenza
energetica, ai rapporti con la Russia, ai confini dell’Unione, alla politica di vicinato);
le profonde differenze di cultura strategica tra i paesi dell’Europa occidentale e
quelli entrati con gli allargamenti del 2004 e del 2007; la coriacea chiusura
(aggravata ancor piu’ dalla crisi) di molte opinioni pubbliche europee di fronte
105
Si veda, al riguardo, J. Shapiro, N Witney: Towards a Post-American Europe: a power audit of EU-US Relations,
European Council on Foreign Relations, Ottobre 2009.
101
all’esigenza di accrescere gli investimenti necessari a fare dell’Ue un attore di
sicurezza credibile sulla scena globale.
3. Conclusioni
Alla luce di questo articolato quadro d’insieme, il primo capitolo di questa
ricerca ha sottolineato come Ue e Onu stiano attraversando una crisi sia dal punto di
vista strutturale che di prospettiva. Il livello di cooperazione che l’Onu ha sviluppato
con l’Ue, tuttavia, rimane non paragonabile a quello realizzato con nessun’altra
organizzazione regionale. Oggettive convergenze strategiche e operative favoriscono
un rapporto che puo’ portare ad un reciproco rafforzamento sulla scena internazionale
e, piu’ in generale, ad una migliore affermazione del multilateralismo a livello
globale e regionale.
Per ragioni che riguardano la sfera giuridica,
politica ed
operativa, Ue e Onu hanno bisogno l’una dell’altra per contribuire ad una migliore
regolazione del sistema internazionale.
Il multilateralismo che entrambe le istituzioni promuovono presenta
complementarieta’, ma anche aspetti non facilmente compatibili. I modi in cui le due
istituzioni
sviluppano
la
loro
agenda
rimane
di
natura
essenzialmente
intergovernativa, e questo indubbiamente aumenta i possibili margini di
conflittualita’. L’azione dell’Ue all’interno dell’Onu risulta ancora profondamente
condizionata dalle pregiudiziali dei suoi stati membri e dalla priorita’ che molti di
essi continuano a conferire alla difesa degli interessi nazionali. Le caratteristiche
102
intergovernative dell’Onu e le dinamiche operative dei suoi organi interni,
consolidatesi nel corso di decenni di operativita’, spingono all’accentuazione dei
profili nazionali rispetto a quelli comuni, rendendo spesso frammentaria l’azione
dell’Ue e opaca la sua capacita’ di parlare con una voce sola. Gli alti livelli di
convergenza tra paesi europei nel voto nei diversi organismi, nascondono a volte
profonde divisioni in occasione delle votazioni sui temi piu’ importanti. Elementi di
crescente convergenza si riscontrano tuttavia su alcuni settori strategici, come quello
degli aiuti allo sviluppo, dell’assistenza umanitaria, dell’ambiente e dei diritti umani.
Temi che caratterizzano sempre di piu’ l’identita’ dell’Ue e il suo profilo
internazionale. Particolarmente efficace risulta inoltre la triangolazione realizzata da
Ue e Onu tra sviluppo/assistenza/sicurezza. Un numero crescente di missioni
internazionali e’ realizzato dall’Onu grazie all’esclusivo sostegno dell’Ue e alla
progressiva integrazione con i meccanismi operativi della Pesc. Su questo terreno
l’Ue si impegna a mantenere una propria visibilita’ e margini di autonomia operativa
e decisionale. L’impegno per l’Ue e’ di trovare il giusto equilibrio tra cooperazione e
la difesa del proprio status di attore e fornitore di sicurezza. La sfida di fondo per
entrambe le istituzioni e’ accrescere la compatibilita’ tra due concezioni di
multilateralismo, in modo che quello regionale promosso dall’Ue rafforzi quello
globale promosso dall’Onu e viceversa. I rischi di un reciproco indebolimento sono
sempre imminenti. Se cio’ si realizzasse, a risentirne sarebbero non solo le due
organizzazioni, ma l’intero sistema di sicurezza internazionale.
103
Alla luce di queste valutazioni, il secondo capitolo ha evidenziato come il
processo di globalizzazione abbia spostato i confini della politica estera ben al di là di
quelli tradizionalmente conosciuti dai governi nazionali. Questo è tanto più vero per
la politica estera dell'Ue, che ha sempre avuto una struttura multilivello, caratterizzata
dall'interazione di diverse strutture e figure istituzionali. Anche per questo, come
abbiamo visto (si veda introduzione e cap 2) diversi studiosi preferiscono parlare di
un “sistema della politica estera europea”, di cui fanno parte non solo la Pesc e la
Psdc, ma anche competenze e attori dell'ex primo pilastro (comunitario), dello Spazio
di Libertà Sicurezza e Giustizia, (SLSG, ex secondo pilastro) nella misura in cui
hanno implicazioni esterne, e altre sfere dell'azione dell'Ue.
Dalla ricerca è emerso come il concetto di “sistema” indichi dunque una realtà
non integrata come quella di uno stato o di una federazione, ma un insieme di norme
e istituzioni create per produrre politiche comuni verso il resto del mondo.
Nonostante in questo contesto i soggetti più importanti rimangano gli stati membri,
gli attori della politica estera europea definiti dal Trattato di Lisbona possono
svolgere un ruolo non secondario. Dall'entrata in vigore del Trattato, tuttavia, l'azione
esterna dell'Ue non ha fatto registrare, nel suo complesso, i passi avanti che molti si
attendevano. Ciò è dovuto anche al particolare momento storico in cui il trattato ha
104
mosso i suoi primi passi, caratterizzato dall'espolosione della crisi economica e
finanziaria e da un forte processo di rinazionalizzazione delle politiche estere.
Per quanto riguarda più specificamente la Pesc, anche se il Trattato non cambia
il processo decisionale intergovernativo basato sull'unanimità degli stati membri, esso
introduce strumenti e figure istituzionali che dopo la prima fase di collaudo potranno
sviluppare importanti potenzialità. Le nuove responsabilità dell'Alto rappresentante
per la Pesc e le competenze del Servizio europeo di azione esterna sono
particolarmente rilevanti al riguardo.
Prima, tuttavia, gli stati membri dovranno risolvere le profonde divergenze di
cultura strategica che ancora esistono tra di loro, accettando di adattarsi (e aprirsi)
alle rapide trasformazioni in corso nel sistema internazionale. Il trasferimento di
ricchezza e potere dall'Occidente verso i paesi emergenti (o, per meglio dire, già
emersi), può continuare positivamente in un quadro di relativa crescita economica.
Ma potrebbe invece avere esiti anche conflittuali se la crisi economica dell'Occidente
dovesse protrarsi ancora per molti anni. Questo rende tanto più urgente che gli stati
europei superino le troppe esitazioni che stanno caratterizzando il processo di
integrazione e rilancino un piano di cooperazione comune verso il resto del mondo.
Un aggiornamento della strategia di sicurezza europea, oltre che di politica estera,
potrebbe essere un importante primo passo per un più efficace funzionamento degli
strumenti introdotti dal nuovo trattato.
105
Il terzo e quarto capitolo, infine, hanno cercato di ripercorrere e fare luce sui
significativi problemi che hanno caratterizzato lo sviluppo istituzionale della Pesd,
fino alla sua più recente ridenominazione come Psdc. Il panorama che ci restituisce
questa analisi è certamente complesso, ed è difficile dare una valutazione univoca,
per positiva o negativa che sia. Diversi aspetti richiedono infatti un giudizio
specifico.
Per quanto riguarda le innovazioni negli aspetti politici ed istituzionali offerti
dal trattato di Lisbona, non si può negare che esse contengano notevoli potenzialità.
In particolare la cooperazione strutturata permanente sembra poter costituire uno
strumento in grado di far compiere passi avanti nell’integrazione sbloccando così
l’attuale empasse. Il giudizio sul ruolo di coordinamento svolto dall’Alto
rappresentante in ambito Psdc rimane invece controverso. Se è vero, da un lato, che i
ministri della difesa europei sono andati acquisendo crescente rilevanza nel quadro
istituzionale europeo anche grazie al rinnovato impulso dell’Ar, d’altro canto il loro
rapporto con le valutazioni e decisioni con i ministri degli esteri rischia di allentarsi
pericolosamente. E una eccessiva compartimentalizzazione dei processi politici non
giova certamente alla maggiore integrazione. Anche a causa dell’estrema complessità
determinata dalla crisi economica, l’Ar non sembra essere riuscito a fornire
all’Unione quella visione strategica necessaria a compiere significativi passi avanti in
questo settore. E le aspettative che erano state riposte nel nuovo Servizio diplomatico,
in cui sono confluite le tre principali strutture di gestione delle crisi, fino ad ora sono
106
andate deluse. La sfida fondamentale rimane ancora la piena applicazione di quel
comprehensive approach ai temi della sicurezza che può consentire all’Ue di
valorizzare il suo originale metodo di gestione delle crisi e prevenzione dei conflitti.
Questione che tocca anche l’annoso fronte dei rapporti con la Nato, dove la
definizione di un meccanismo che permetta di coordinare sul terreno missioni militari
Nato con missioni civili Ue, o anche missioni specificamente militari, rimane una
chiara priorità.
107
Appendice
Selezione di alcune recenti pubblicazioni realizzate dall’autore su temi
afferenti all’oggetto della tesi di dottorato
In Search of the North Star: Italy’s Post-Cold War European
policy,
in G. Giacomello and B. Verbeek (eds),
<http://rowman.com/ISBN/9780739148686>Italy’s Foreign Policy in the 21st
Century: The New Assertiveness of an Aspiring Middle Power?, Lanham, Lexington
Books, 2012. ISBN 978-0-7391-4868-6 ; 978-0-7391-4870-9 (ebk)
Introduction: Multilateralism as National Interest
During the Cold War Italy’s foreign policy was heavily shaped by the
international context. Italy entered the Second World War as a major power, but
came out as a defeated nation, with a reduced territory, limited economic resources,
scarce military capabilities and no appetite for martial competence. Italy’s new status
implied that her foreign policy would be highly contingent on the interests of the
major powers, in particular the United States. Italy sought to compensate for her
reduced power status by adhering to Atlantic and European multilateral frameworks.
Italy’s participation in the foundation of the European Steal and Coal Community
(ECSC) in 1952 the European Economic Community (EEC) in 1958 and the
European Atomic Energy Community Euratom in the same year has been crucial not
only to secure the country’s anchor to the Western block, but also in creating a
yardstick of the economic and political modernization Italy embarked on.
108
Capitalising on its position in the European and international arena as the
smallest of the large nations and the largest of the small ones, Italy secured its
greatest successes during the Cold War when it acted through the principal
multilateral frameworks (the United Nations, NATO, the European Union), rather
than through bilateral relations, or through competition with the larger international
powers. At the same time, as long as the rules of Yalta held sway, Italian foreign
policy persistently had a distinct pacifist flavor, despite its commitment to Western
political and economic structures (Europeanism and Atlanticism).
This pacifist
dimension had its roots in the need to strike a balance between Atlanticist advocates
and proponents of the neutrality. The latter could be found within specific wings of
the Christian Democratic Party (DC, the Catholic party with a relative majority that
was in the government without interruption from 1948 to 1992), within the Socialist
Party (PSI) and, finally,
within the largest Communist Party (PCI) in Western
Europe (both in terms of members and voters), whose ideological and political ties
with the Soviet Union blocked the possibility of democratic alternation in Italy’s
government.106
This chapter will investigate to which extent since the early Nineties both
center-left and center-right governments that alternated power in Italy, approached
the European integration process in order to redefine the notion of national interest.
In this regard, the chapter will also assess the impact of the European integration
process on the evolution of Italy’s foreign policy. It will cover the period from the
entering into force of the Maastricht Treaty in 1993 until the third Berlusconi’s
government (2008 – 2011). The chapter puts forward three claims: first, Italy’s
106
Istituto Affari Internazionali (IAI) and Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), "Italian Foreign Policy
in 2010: Continuity, Reform and Challenges 150 Years After National Unity", in Documenti IAI, No. 1106E (May
2011), http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iai1106e.pdf. Maurizio Carbone, Italy in the Post-Cold War Order: Adaptation,
Bipartisanship, Visibility (Lanham, Lexington Books, 2010). Jason W. Davidson, America's Allies and War: Kosovo,
Afghanistan, and Iraq (Palgrave Macmillan, 2011). Filippo Andreatta, “Italian Foreign Policy: Domestic Politics,
International Requirements and the European Dimension”, Journal of European Integration 30, n.1 (2008), 169 – 181;
Lucia Quaglia and Claudio M. Radaelli, “Italian politics and the European Union: A tale of Two Research Designs”,
West European Politics 30, n.4, (2007), 924 – 943; Giuseppe Mammarella, Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia.
Dallo Stato unitario ai giorni nostri (Bari: Laterza, 2006), 172 – 206.
109
foreign policy often tried to balance Europeanism with Atlanticism, also if with very
different results between the center-left and the center-right governments. Second, the
specific foreign policy choices that resemble shifts in this balance since the end of the
Cold War are primarily related to Italian domestic politics, in particular the internal
divisions within the center-left and center right coalitions which have governed Italy
since 1994. Third, the specific choices made by the Berlusconi governments are not
only the product of the personal style of their prime minister, but mostly a result of
different sensitivities and disagreements within its ruling coalitions.107
The uncertain international standing
Since the end of the Cold War the European integration process has gradually
become a point of reference for Italy’s foreign policy. The twin perception of
insecurity and vulnerability, which has been one of the constants of Italy’s foreign
policy since the national unification, in 1861, prompted the political elites, after the
end of the bipolar balance, as the North Star of the country’s development.
The geographical position of Italy, on the borders of the area of instability
spanning from the Balkans to the Middle East, made Italian political leadership
particularly sensitive to possible new threats. Under the Cold War bipolar system,
NATO and the European Community assured military protection as well as support
for economic growth and democracy. Typically, Italian policymakers would seek a
balance between the three intersecting domains of Italian foreign policy: the Atlantic
Basin, Europe and the Mediterranean. They held the underlining assumption that the
Italian position in one domain would be strengthened by its position in the other two.
Once the Berlin Wall came down, however, these certainties, together with notions
107
For a different interpretation of the last point, see Giampiero Giacomello, Federica Ferrari and Alessandro Amadori,
“With Friends Like These: Foreign Policy as Personal Relationship”, Contemporary Politics 15, n.2 (2009), 247—264.
110
like ‘national interest’ and ‘domestic security’, were in need of substantive
reformulation.
The European Union and its growing international relevance became a key subject
in the Italian search for a multilateral, proactive approach to its foreign policy. Given
its geostrategic location (one of the greatest assets of its national diplomacy) Italy
was – and still is – particularly vulnerable to most of the new post-Cold War threats
and to its weak system of alliances. Due to its proximity to two of the most unstable
sub-regional systems in the world, the Middle East and the Balkans, the country
found itself directly exposed to regional conflicts nearby, thus in a highly uncertain
security situation.
This prompted the political leadership to adopt a more proactive approach on
the international scene. In some way Italy made an attempt to combine its previous
‘low profile’ loyalty towards the Atlantic alliance and Europe with a more dynamic
approach in the multilateral frameworks. As suggested by Piero Fassino, former
leader of the center-left coalition and Undersecretary of State in the Prodi (19961998) and D’Alema (1998-2000) governments, “for a long time Italy had more of an
international position than an international policy. NATO and the European
Community gave us an international position, which has however often lacked a
credible policy, that is an ability to influence and act accordingly at the European and
global level”.108 The underlying assumption was that after the collapse of the Cold
War system Italy had the opportunity, as well as the necessity, to define and pursue a
“national interest” outside – or, at least, alongside – the Euro-Atlantic framework.
Franco Frattini, current Minister of Foreign Affairs, clearly expressed this idea that
the pursuit of the Italian national interest by participating actively in a new era of
multilateralism would involve the reconciliation of Italy’s European aspirations with
108 Piero Fassino, “Come Contare di Più”, LiMes 6, n.1, 1998 p. 31. (Author’s translation).
111
transatlantic coherence as well as a commitment to international organizations.”109 In
short, an attempt was made to shape Italian foreign policy in such a way as to pursue
a median direction, not excessively leaning towards the Atlantic or the European side,
for fear of antagonizing the United States, still considered crucial for national
security.
In line with this new policy, public opinion and the political elites embraced
the European integration process with enthusiasm, no longer restricting their support
exclusively to the economic dimension, as they had in the past. The European project
has often appeared strong enough to recreate a bipartisan consensus over Italian
foreign policy, also in the sphere of military and security cooperation. In keeping
with its traditional view of Europeanism and Atlanticism, Italy has supported the
development of, first the Common Security and Defense Policy (CSDP), and, later,
the European Secuirty and Defense Policy (ESDP) as long as these policies were
conceived, clearly and uncompromisingly, as a complement rather than an
alternative, to the NATO.110
Therefore, the European perspective came to represent a “compensatory”
factor for Italy and a unifying goal, to which the country’s leader turned at various
crucial moments. This is illustrated by the ambitious, and unexpectedly successful,
economic program of structural adjustment undertaken by Italy in order to join the
Eurozone: by signing the 1991 Treaty of Maastricht, Italy demonstrated at the same
time its authentic commitment to the European project (even by approving unpopular
domestic socio-economic policies) and its nervous necessity to avoid international
109 Franco Frattini, “The Fundamental Directions of Italy’s Foreign Policy”, The International Spectator, Vol. 39, n. 1,
2004 96-99. An assessment of the EU impact on Italian politics is in Quaglia and Radaelli, “Italian politics and the
European Union”.
110 Osvaldo Croci, “Not a Zero-Sum Game: Atlanticism and Europeanism in Italian Foreign Policy”, The International
Spectator 43, n.4, 2008 146. See also Quaglia and Radaelli, “Italian Politics and the European Union”.
112
marginalization.111 In the same way, the European enlargement process achieved a
broad political consensus among national parties, making Italy one of the more
enthusiastic supporters of Mediterranean applicants to the European Union like
Cyprus, Malta, and Turkey.
Although differences are noticeable between the center-right’s and center-left’s
attitude towards the European Union, both came to use its respected and trusted
image to advance Italian claims and ideas on the international stage. More
importantly, carefully avoiding perilous contradictions with the goals of the Atlantic
alliance, which remains vital for Italy’s security interests, the country’s foreign policy
embraced the European framework to participate directly in various multilateral
military efforts: Italy supported the military capability target (the so called Helsinki
Headline Goal) set for 2003 during the December 1999 Helsinki European Council
meeting, with the aim of developing a future European Rapid Reaction Force, by
providing an equal amount of resources as the other major European powers (around
15% of the total, with some 22,000 troops).
The representation of the European Union as a source of international
legitimacy became then a main leitmotif in the national political debate. Moreover,
the Italian attempt to seek a renewed active multilateralism in its foreign policy has
been severely affected by the deep changes occurred in its national political system
between 1992 and 1994, with a simultaneous change in parties’ lines, leadership class
and electoral rules. As a result, new political forces and personalities, with very
dissimilar cultural backgrounds, came to the helm. These new leaders did not always
share a special commitment to Italy’s foreign policy tradition. This caused outsiders
to perceive ambiguity and uncertainty in Italy’s present strategic orientations.
111 Maurizio Cotta, “Èlite, Politiche Nazionali e Costruzione della Polity Europea: Il Caso Italiano in Prospettiva
Comparata”, in L’Europa in Italia ed. Maurizio Cotta, Pierangelo Isernia and Luca Verzichelli, (Bologna: Il Mulino,
2005) 47.
113
Center-left VS center-right approach
Center-right and center-left coalitions have rotated in power since 1994,
testifying to instability caused by large internal divisions within the coalitions. This
imperfectly bipolar political system, however, has managed to embrace several
foreign and security policy options, in the attempt to adjust Italy’s foreign policy to
the evolving international context. The outcome appears to be somewhat ambiguous,
with a bipartisan alternation of successful and poor decisions in defense of a common
“national interest” that often remained implicit.
The center-left European anchor
During the Cold War the Italian left manifested a certain reluctance with regard
to European integration. Especially in its first phase, that of the 1950s, communists
and socialists opposed a Europe of “monopolies” and of “imperialism”. Along the
1960s and 1970s, European socialists opened to the communitarian project, breaching
the traditional leftist anti-European front112. Subsequently, in the 1980s, the Italian
left marked a turning point in its orientation, making of the European purpose one of
its own main political priorities113. Such major change is functional to the
comprehension of the Italian left’s European commitment in the following decade as
well as along the new century.
After the Tangentopoli scandal, Italian domestic politics moved closer to a
Westminster type of system in which center-right and center-left coalitions competed
112 Aldo Agosti, “Le radici e gli sviluppi dell’europeismo. Sinistra italiana e tedesca a confronto”, in Gian Enrico
Rusconi, Hans Woller (eds.), Italia e Germania 1945-2000. La costruzione dell’Europa, Il Mulino, Bologna 2005, p.
295-321.
113 The historical role played by the parties of the Left in the European policy of Italy is critcally discussed in Antonio
Varsori, “L’Italia e l’integrazione europea: l’occasione perduta?”, in Simona Colarizi, Pietro Craveri, Silvio Pons,
Gaetano. Quagliariello (eds.), Gli Anni Ottanta come Storia (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2004), 163-173. See also
Andrea Spiri (ed.), Bettino Craxi, il socialismo europeo e il sistema internazionale (Venezia: Marsilio, 2006).
114
for power on an equal basis. In Italy this situation is often described as bipolarity.
The new bipolar system, however, did not produce long-lasting, stable government,
but rather relative short-lived cabinets.
Centre-left governments, in power between 1996 and 2001 and again from
2006 to 2008, managed to develop on several historical occasions a rather clear
concept of ‘national interest’, addressing their foreign and security approach in a
strong multilateral fashion. The main intention was to redefine Italy’s traditional
balance within the three intersecting domains while giving Italian foreign policy an
attractive quality of “self-awareness”.114 By supporting a stronger European security
identity, center-left governments attempted to “contribute to the reform of the main
international institutions while raising Italy’s profile within them, as demonstrated by
its considerable contributions to the UN operation in Somalia in 1992 as well as to
the NATO-led IFOR mission to Bosnia-Hercegovina after the conclusion of the
Dayton agreements in 1995”.115 As aptly maintained by Lamberto Dini, former
Minister of Foreign Affairs, the participation to the Kosovo war (1999), together with
Italy’s successful attempt to be included among the founders of the Euro- (1998),
contributed more than anything else to raising Italy’s profile and cooperative
approach in the post-Cold War international system. The achievement of such
noteworthy results, however, required a more stable domestic political environment.
It was not until after the elections in 1996 that a relatively stable period set in,
during which Italy, the center-left in particular, “managed to implement a respectable
European policy and, albeit with many limitations, a degree of foreign policy”.116
Between 1996 and 2001, Italy was led by three center-left prime ministers running
four successive governments: Romano Prodi (1996-1998); Massimo D’Alema,
114 Fassino, “Come Contare di Più”, 32 (Author’s translation).
115 Filippo Andreatta, “Italian Foreign Policy: Domestic Politics, International Requirements and the European
Dimension”, European Integration 30, n.1, 2008, 174.
116 Sergio Romano, Guida alla Politica Estera Italiana (Milano BUR, 2006).
115
leading two successive governments between 1998 and 2000; and Giuliano Amato
(2000-2001). Lamberto Dini, former executive director of the International Monetary
Fund, served as Minister of Foreign Affairs under all these governments. This
resulted in a phase of continuity in Italian foreign policy, characterized by a balanced
and multilateral approach with a more proactive attitude.
This is evidenced by Italy’s policies towards the Balkans: in 1997, following
an explosion of violence in Albania and exodus of refugees, Italy headed the UN’s
Mission Alba., Alba involved 7,000 troops from various European countries under the
command of an Italian general, in order to restore peace and security. In March 1999,
Italy was once again called upon to provide operational support to the NATO-led war
to protect Albanese inhabitants of the small Serbian region of Kosovo from the ethnic
cleansing polices pursued by Serbian President Slobodan Milosevic. Italy’s
participation constituted a test case for Massimo D’Alema, appointed Prime Minister
after the collapse of the Prodi government. D’Alema was the first former Communist
to lead a government, so “he had to pass the test of foreign policy”.117
The fact that Italy’s major foreign and security policy choices between 1996
and 2001 mostly concerned the neighboring Balkan region, helped the ruling centerleft coalition reach its imperative of reconciling the need to show international
reliability with distinct national security concerns. On the whole, Italy’s participation
in the military operations in former Yugoslavia strengthened the position of the
Italian government in relation to both the Clinton administration in the United States
and its European allies. Italy’s enhanced international and European status certainly
contributed to former Prime Minister Romano Prodi’s chances in March 1999 to be
elected President of the European Commission.
117
Massimo D’Alema, Kosovo, gli Italiani e la Guerra (Milano: Mondadori, 1999) 3.
116
On the other side, however, center-left foreign policy was also undermined by
internal instability and divisions determined by the far left party, Rifondazione
Comunista. A fine example of the latter is Italy’s participation in the UN’s Alba
mission in Albania in 1997, where Rifondazione Comunista party split the center-left
majority by voting against the mission, making the center-right’s support to the
government ultimately decisive, and weakening the coalition’s standing.
With respect to the European dimension, the center-left government succeeded
in joining the founding group of the Euro, following an intense period of economic
adjustments at significant material costs. This enabled Italy at the same time to
overcome the doubts that had been raised against it internationally, concerning its
ability to put its economy in order, and to realign with France and Germany in the
European Union. Center-left governments also enthusiastically supported the
negotiations of the Treaty of Amsterdam, which envisaged the strengthening of
Common Foreign and Security Policy, and, finally, of the Treaty of Lisbon, which in
2008 was the first treaty of the EU ratified by the unanimous vote of the entire
parliament.
New context, persistent instability
When the center-left came back to power in 2006, the international context was
changed. The “war on terror” promoted by the Bush administration and strongly
backed by the center-right government between 2001 and 2006, had just provided
divisive of the Western alliance and increasingly criticized internationally. The
search of a new international strategy against terrorism, more focused on the political
than on the military approach, was highly debated in the US and in the EU.
Just a few months after being back in office, in late summer 2006, the center
left government was confronted a conflict erupted on the Southern borders of
117
Lebanon between Israel’s Army and the irregular militias of Hezbollah. The new
Italian kept the opportunity to promote an European initiative, shared with
Washington, the UN and some Middle Eastern governments, and promoting an
immediate ceasefire sided by a new UN mission (UNIFIL II) in the South of
Lebanon. The Italian role in supporting the mission was inspired by the a “two steps”
strategy: first to find a common EU member states position (or, at least, to avoid
divisions) coordinated with the US; second, to grant a wider political support within
the UN. Italy’s activism intended to reach a double objective: to raise the new
government’s international standing, in particular within the EU and the UN, and to
gain stronger internal support on foreign policy by the far left parties, traditionally
very sensitive to the Middle Eastern conflict and more and more concerned by Italy’s
participation to the military mission in Afghanistan. Nevertheless, in 2007 the
government collapsed for missing the votes of just two far left MPs, on the continued
deployment of Italian troops to Afghanistan. A year later, the majority split over the
expansion of an American military base in Italy. Both foreign policy issues
contributed to its break-up in 2008.
The internal instability of center-left executives reflects a value based
divergence within the coalition over international politics. Far left parties, together
with a part of the pacifist catholic movements, ideologically oppose the use of
military force to solve international conflict and Italy’s troops participation to
international missions. This political and cultural approach continues to undermine
center-left stability, and, consequently, its reliability, on international policy.
Political legitimacy to international actions provided by the EU and the UN,
are seen as a possible help by center-left parties in order to cross internal divisions.
As Massimo D’Alema, then Minister of Foreign Affairs, observed in 2006: “Europe
will continue to be united only if we have a common vision of its relationship with
118
the US. [While promoting] the growth of Europe as an autonomous international
actor, [Italy should also ensure it] remains solidly linked to the US through the
Atlantic Alliance, [since] Italian foreign policy works at its best when Atlanticism
and Europeanism are not in contradiction but reinforce each other”.118
The center-right European dilemma
The first centre-right government of the Italian republican history, led by Silvio
Berlusconi, came to power in May 1994, rising a number of questions in relation to
his European policy. In fact, two of the parties composing the coalition, Alleanza
Nazionale and Lega Nord, expressed skeptical positions regarding the European
integration process. The Minister of Foreign Affairs himself, Antonio Martino, stood
out for his opposition of a literal reading of the Maastricht Treaty. The first
Berlusconi government only lasted in power up to May 1995 and, whereas it was too
short-lived to develop a structured policy worthy of analysis, it represented a
transitional period.
The early conclusion of the governing experience and the taking over of the
opposition slew down the centre-right definition of a European policy: in the political
fight against the Prodi government, Forza Italia, and Alleanza Nazionale alike,
exacerbated the skepticism vis-à-vis a Europe that imposed severe sacrifices on the
country. It is worth recalling, for instance, the fight against the “Euro-tax” applied by
the Prodi government to allow the shift to the third phase of the EMU119. The year
1998, when Italy started the transition to the third phase of EMU, represented a
118 See: Audizione del ministro degli Affari esteri D’Alema sulle linee programmatiche del suo dicastero alle
Commissioni congiunte 3ª (Affari esteri, emigrazione) del Senato della Repubblica e III (Affari esteri e comunitari)
della Camera dei deputati, 14 June 2006
http://www.camera.it/cartellecomuni/leg15/RapportoAttivitaCommissioni/commissioni/allegati/03/03_all_20060614sen
.pdf
119 On these points, see Luigi Spaventa and Vincenzo Chiorazzo, Astuzia o Virtù?: Come Accadde che l'Italia Fu
Ammessa all'Unione Monetaria (Roma: Donzelli, 2000).
119
turning point for the Italian right’s conception of Europe. The euro-skepticism flag
was rapidly hauled down as Forza Italia and Alleanza Nazionale sought to gain a
position within a moderate European policy: in 1998 Forza Italia adhered to the
European Popular Party entering the “elite clutch of the moderate European
policy”120. Similarly important, the shift in Alleanza Nazionale, while the Lega Nord
remained anchored to the old anti-European rhetoric.
With the center-right back into power under the leadership of Silvio Berlusconi
in May 2001, the traditional complementary relationship between Europeanism and
Atlanticism that had long characterized Italian foreign policy shifted in favor of the
United States.121 This was not only related to the international upheaval following the
attacks of September 11, 2001, but also to the overt Euro-skepticism of certain
members of the majority coalition. The new emphasis on a preferential axis with
Washington also had an impact on the traditional patterns of Italy’s European and
Middle Eastern policies. Whereas in the past Italy had frequently benefited from its
role of mediator and balancing power between Israel and moderate Arab countries,
Berlusconi’s center-right coalition adopted a more openly pro-Israel stance: former
Israeli prime minister Ariel Sharon called the country “Israel's greatest friend in
Europe”. The influence of Washington’s choices in general over Italy's Middle East
policy grew substantially.
In his speech to the Chamber of Deputies on September 25, 2002, Berlusconi
affirmed that it was in Italy's national interest to support, loyally and promptly,
120 Andrea Bonanni, “Europa, il Ppe dice sì a Forza Italia”, Il Corriere della Sera, June 10, 1998, available on
www.corriere.it .
121 For different opinions on Italian foreign policy after 2001 see, among others, Sergio Romano, “Italian Foreign
Policy After the End of the Cold War”, Journal of Modern Italian Studies 14, n.1 (2009), 8 – 14; Sergio Romano,
“Berlusconi’s Foreign Priority: Inverting Traditional Priorities”, The International Spectator 51, no.2 (2006); Osvaldo
Croci, “Much Ado About Little: The Foreign Policy of the Second Berlusconi Government”, Modern Italy 10, n. 1
(2005), 59-74; Roberto Aliboni, “Neo-Nationalism and Neo-Atlanticism in Italian Foreign Policy”, The International
Spectator 38, no.1 (2003), Osvaldo Croci, “The Second Berlusconi Government and Italian Foreign Policy”, The
International Spectator, 37, no. 2 (2002).
120
American policy decisions, including those concerning a possible imminent conflict
with Iraq.122 The new challenge posed by international terrorism fostered the
emergence of a broad bipartisan consensus in Italy, which agreed to send 500 troops
(gradually increased to 2,300 by 2007) to Afghanistan as part of the ISAF mission
under UN mandate and NATO command. After the 1999 Kosovo war, Afghanistan
represented NATO’s most challenging out-of-area mission since the end of the Cold
War, in which the Alliance’s credibility was at stake and which ushered in a
redefinition of its security role on the world stage.
The new European policy of the Berlusconi government had its first casualty in
January 2002, eight months after it took office, when Foreign Minister Renato
Ruggiero resigned. Ruggiero, who had served as director of the WTO and who was
widely respected among his European peers, stepped down out of protest against
Italy's withdrawal from the Airbus consortium to build the A400M tactical transport
aircraft, as well as against the continuous reservations about the Euro expressed by
some government members.123 The controversy over the transport aircraft revealed a
more strategic gap between European countries like France and Germany and others
like Italy. The former planned to develop European defense capabilities, independent
of NATO, in order to be able to handle future regional crises. The latter, were loath to
renounce a European security system intrinsically bound to the United States through
NATO. Italy's European policy was thus increasingly turning away its traditional
European allies France and Germany, two founding states of the European
Community with which Italy had maintained close ties during the 1990s. Instead, it
122 Quaglia and Radaelli, “Italian Politics and the European Union”; Roberto Aliboni, “La Politica Estera dell’Italia”,
in L’Italia e la Politica Internazionale, ed. Alessandro Colombo and Natalino Ronzitti (Bologna: Il Mulino, 2003).
123
Renato Ruggiero, interview on Corriere della Sera, January 2, 2002, available at www.corriere.it
121
became more oriented towards the United Kingdom under Tony Blair, partly in the
name of renewed Atlanticist priorities.124
At the same time, the government’s narrative was underlining the need to shift
from a passive European policy which mostly entailed Italy’s adaptation to it (in
Berlusconi’s opinion, that was rather the centre-left’s conception of Europe) towards
a more proactive course of action within it. Indeed, the government’s program for the
EU Presidency semester, in the second half of 2003, called for a more active Italian
role, also stressed by Berlusconi himself: “Italy is not the sick man of Europe
anymore: we can contribute to the guidance of the Union based on our authority,
which is not an opinion, but facts and numbers, objective data recognized by the
European Commission in Brussels and by our allies” 125. In Berlusconi’s vision, the
aspiration to a more vigorous European policy responded to the criticism for a
presumed excessive bureaucratization of the Union. This particular segment of Italy’s
European policy is not exempted from criticism, as it is showed by the firm opinion
expressed by Sergio Romano: “The old pro-European thought was better represented
by Gianfranco Fini, member of the Convention on a Constitution for Europe and later
Minister of Foreign Affairs. However, the Italian Presidency in 2003 was a lost
occasion. It was evident that the European commitment was unfamiliar to a
significant part of the coalition’s culture and conception” 126.
Style and substance
This new strategic approach became still more evident when Italy joined the
“coalition of the willing” in support of the Anglo-American war against Iraq in
124
Nevertheless, the United Kingdom continued to advocate its conception of Europe as a large free trade area, an idea
alien to Italy's traditional integrationist approach.
125 Parlamentarian Acts, XIV Legislation, Chamber of Deputies, Sitting n. 330, June 26 2003, 59.
126 Romano, “Berlusconi’s Foreign Priority”; Andreatta, “Italian Foreign Policy”.
122
March 2003. Signing a joint document with the United Kingdom, Spain, Portugal,
Hungary, Poland, Denmark and the Czech Republic (better known as the “letter of
the eight”), in which these countries expressed support for the American position,
Italy was one of the key actors contributing to one of the deepest rifts within Europe
(and the Atlantic alliance) since decades.
Italy’s position on the European scene was also weakened by the way the
country excluded itself from one of the most important international issues of the
early 2000s: the negotiations aimed at stopping Iran’s nuclear program. During
Italy’s Presidency of the EU, the United Kingdom, Germany and France (later joined
by the EU High Representative for European Foreign Policy, Javier Solana) launched
an autonomous, but very relevant diplomatic initiative to bring Washington and
Teheran back to the negotiating table. It was one of the few cases, in the recent years,
in which European capitals pursued a diplomatic strategy not shared by the US,
which opposed reopening the dialogue with Iran. After the Iraq war, the European
initiative was also meant to reduce other tensions inflaming Middle East. Because
Italy was one of Iran's major trading partners, the European partners asked the Italian
government to be part of the negotiating group. However, since the initiative met
with disapproval in Washington, Italy declined the offer. Italy thus deliberately
missed an opportunity to play a salient European and global role, which would have
regret in the following years.
Innovations as well as inconsistencies in Italy’s foreign policy have less to do
with Berlusconi’s personal approach to foreign policy than with the dissimilar
interests and values represented in his center-right coalition. This erroneous
perception might have been, at least in part, the result of a focus on Berlusconi’s
declaratory policy. Indeed, as emerged form an interview entitled “Così ho cambiato
la politica estera” (“This is how I changed foreign policy”), Berlusconi claimed to
123
have adopted a “new modus operandi deriving from [his] long experience in the
private sector”, limiting therefore such changes to a question of style. Concerning the
substance of Italy’s foreign policy, Atlanticism and Europeanism in particular,
Berlusconi admitted that there was nothing new except his determination to
strengthen them both.127 A similar position was later maintained by Foreign Minister
Franco Frattini who emphasized the support for a “long tradition of continuity” in
which the only true novelty was the government’s “new activism”.128
In this regard, because euro-skepticism often affected Italy’s foreign policy
under center-right governments, Italy did not see the opportunity to enhance its
European and international standing that opened up in the European Union’s
initiative to develop as an independent security actor. The Italian decision to pull out
of the Airbus consortium for the A400M tactical transport aircraft in 2002, as well as
the opposition to the European arrest warrant system (2002), are both cases of missed
opportunities because of such a negative outlook towards Europe. Even the most
visible feature of European integration, the Euro, sharply divided Berlusconi’s centerright coalition: several members considered the Euro as responsible for inflation and
for the impossibility to propose electorally salient tax cuts.129
At the same time, it would be inaccurate to characterize the center-right’s
policies to the EU as euro-skepticism tout-court. Anti-EU and pro-EU feelings
coexisted within the coalition: during the Convention on the future of Europe in
2003, for example, the Assembly aimed at drafting the new Constitution of the EU,
representatives of the center right government supported most of the “pro-EU
127 Domenico Mennitti, “Così ho cambiato la Politica Estera. Intervista a Silvio Berlusconi”, Ideazione 9, n.6 (2002),
11-18.
128 Franco Frattini, Cambiamo Rotta: La Nuova Politica Estera dell’Italia (Casale Monferrato: Edizioni Piemme,
2004), 13-15.
129 James Walston, “The Shift in Italy’s Euro-Atlantic Policy: Partisan or Bipartisan?”, The International Spectator 39,
n.4 (2004), 123. See also Andreatta, “Italian Foreign Policy” and Quaglia and Radaelli, “Italian Politics and the
European Union”.
124
integration” innovations on the table, including the adoption of qualified majority
voting in foreign and security policy affairs, which, finally, failed to be accepted.130
Moreover, the second Prodi government, which followed the second Berlusconi
executive, maintained similar positions during the negotiations leading up to the
Constitutional Treaty in 2004. This suggests a difference of style rather than
substance between center-left and center-right on the institutional aspects of the EU
development. The same positive attitude was again articulated by the current centerright coalition during the crisis which affected the European economy, in 2009,
which later put into question the future itself of the Euro currency, in 2010. In this
time, the Italian government was among the most active supporters of the
strengthening of the EU system of economic governance and of the establishment of
a stability mechanism.
Since 2008, emerged indeed new problematic issues affecting European
relations as a whole. In primis, the economic and financial crisis have prompted EU
member states to seek on the one hand more effective cooperation frameworks; on
the other hand, the crisis has also revived national initiatives aimed at safeguarding
specific interests. Italy has also followed such trend, particularly reinvigorating a
number of privileged partnerships. Indeed, along with a traditional multilateral
policy, Italy accentuated a bilateral approach In this last respect, whereas the
privileged relation with the US turned out to be modest, this was balanced by a
tighter partnership with Russia.
At the same time, recent events once again showed the uneasy and in some
respects uncooperative attitude of the center-right relationship towards the European
130 Ettore Greco and Raffaello Matarazzo, “Italy’s European Policy and its Role in the European Convention”, The
International Spectator 38, no.3 (2003),
125
Union.131 Between 2008 and 2011 several political confrontations occurred between
Rome and Brussels, mainly related to immigration and environmental issues.132 This
is also due to the fact the center-right majority which won the elections in 2008 was
more influenced by the Lega Nord, because the centrist party UDC, coming from the
former Democrazia Cristiana and more in line with its pro-European tradition, was
excluded by the government.
Since 2008, the disagreement with the EU followed Italy´s denial to grant
political asylum to numerous illegal immigrants arriving from North Africa, followed
by the decision to send back several boats to the Libyan shores. Rejecting the
European Commission’s criticisms over fundamental rights and the right of asylum,
the Italian government asked the European Union more funding and proposed
coordination at the European level in order to cope better with the immigration
problem. Italy received support from France and the European Council decided to
agree on some proposals made by the Italian government. But the clash between
Italy, the EU and other EU countries erupted again in the first months of 2011, after
the upheaval in North Africa and the war in Libya, when also France and Germany
opposed Italy’s request to send a part of the illegal immigrants coming from North
Africa to other EU countries.
Since 1994, Berlusconi’s approach to foreign policy has been driven by the
idea that bilateral relations, supported by personal friendship between leaders, or
alliances with the stronger actors, can bridge Italy’s security deficit internationally –
and sometimes also internally – granting possible co-option at the table of the major
powers.133 Unfortunately, however, he has pushed this concept to the point to
determine possible setbacks to the country, in the cases when the leader changes (i.e.
131
This attitude had already been identified in Quaglia and Radaelli, “Italian Politics and the European Union”.
“La politica estera dell’Italia”, 2011, 77-86
133
Giacomello et al. “With Friends Like These”.
132
126
George W. Bush in 2008) or when the political context turns (as in the case of
relationship with Libya and his leader Muammar Gaddafi, very good friend of Italy
until the beginning of the international military intervention in the country, on
February 2011). Moreover, a strong emphasis on bilateral relationships risks to
weaken the power of multilateral institutions, and in particular the EU, and to
increase the perception of unreliability in the other European allies. In this respect,
center-right foreign policy often seemed to be lacking a long-term horizon, an
articulated strategy able to further and defend effectively Italian priorities at the
international level. Too often, in fact, the center-right has nurtured the impression
that it looks at the European Union as a network of privileged partnerships rather than
a framework in which sovereignty is and can be shared.
Concluding remarks
Under the Cold War bipolar system, NATO and the European Community
granted to Italy military protection as well as support for economic growth and
democracy. Once the Berlin Wall came down, the European Union and its growing
international relevance became a key subject in the Italian search for a multilateral,
proactive approach to foreign policy. Since the 1990s Italy, as well as the other EU
members, has been constantly transferring key competences to the EU, which has
become a more and more permanent dimension of Italy’s external action. However,
the analysis of the centre-left and the centre-right approach to EU issues from the late
1990s up to the present highlights some key differences.
The center left governments have reacted to the transformation of the
international system trying to adapt Italy’s multilateral tradition to the new context.
In this regard, center-left governments tried to identify workable issues and
coalitions, first of all within the EU, in order (a) to pursue specific multilateral goals
and policies, (b) to strengthen Italy’s international standing and, last but not least, (c)
127
to preserve the problematic cohesion of the heterogeneous coalition. In this respect,
the centre-left considered the agreement with other European countries as a
prerequisite for amplifying Italy’s/EU positions within the multilateral fora and to
purse international goals more effectively. However, the governments’ political
instability and the country’s structural problems in order to mobilize sufficient
resources to this aim, have strongly undermined center-left foreign policy action and
reliability.
On the other side, the center-right interpreted the ongoing crisis of
multilateralism as more durable, and possibly irreversible than the center-left, both
for cultural and political reasons. This prompted its leadership to give more
importance to bilateral relations and to increase the country’s political autonomy
within the multilateral frameworks. The underlying concept is that alliances with the
stronger actors can bridge Italy’s security deficit internationally, granting possible
involvement in the inner circles of the major powers. During the Bush administration,
this determined a reversal of Italy’s traditional priorities, where the agreement with
Washington (or, later, with Moscow)
was put before the agreement with the
European allies. In the longer term, however, this approach has decreased Italy’s
influence in Europe, where it is considered less reliable than before from the most
important allies, as well as in the Middle East.
In terms of “diplomatic style” a huge difference does exist between Berlusconi
and the former centre-left prime ministers. Berlusconi, in fact, favors a more
“personal” foreign policy approach, while centre-left prime ministers maintained a
more sober attitude towards international institutions and in particular the EU. Thus,
the difference between centre-left and centre-right European policy should not be
exaggerated. Both political cultures – at least the moderates of the two groups –
recognize the centrality of Europe in the framework of Italian foreign policy. Both
128
coalitions also recognize that a “withdrawal” from Europe is not possible anymore,
since part of the national sovereignty has been transferred to EU institutions.
A more concrete concern may raise from an overview of current Italian politics
within the EU. Growing bilateralism of Italian foreign policy is reducing the national
commitment in the EU institutions134. In this perspective a more effective balance
among the different dimensions of Italy’s international action – bilateralism,
European politics, multilateralism – can be considered essential for implementing a
more consistent foreign policy.
134 On the compromise between bilateralism and multilateralism in the Italian foreign policy see Bonvicini et al,
Italian Foreign Policy in 2010, and Andreatta, “Italian Foreign Policy”.
129
National Parliaments After the Lisbon Treaty: New Power
Players or Mr No in the EU Decision-making?,
in R. Matarazzo (ed.) Democracy in the EU After the Lisbon Treaty, Rome,
Nuova Cultura, September 2011.
Introduction
The integration of National Parliaments (NPs) into the European Union’s
(EU’s) legislative and democratic processes is one of the most challenging
innovations introduced by the Lisbon Treaty which came into force on 1 December
2009. The main purpose of this integration within the EU’s decision making is to
“contribute actively to the good functioning of the Union”. Consequently the precise
role of the NPs is defined under Title II of the Treaty in the “provisions on
democratic principles” (Art. 12, TEU).135 The Treaty moreover recognises the NPs as
the proper interlocutors of the EU institutions, formally independent of their national
government.
The NPs new role in the EU’s institutional framework does not just rely on the
provisions and protocols directly devolved on them, but on other general systemic
innovations, like the consolidation of the EU’s competences (which are national
powers delegated to the EU institutions but adopted by national governments and,
where appropriate, by the European Parliament) and procedures, the extension of the
ordinary legislative procedure, the new voting system in the Council, the diminished
veto power of individual member states, and the new institutional figures and
135
In the Maastricht Treaty the role of national parliaments was limited to an annexed declaration, while in the
Amsterdam Treaty it was incorporated in a specific protocol.
130
structures. In this context, the new Treaty not only increases the NPs direct impact on
the EU’s legislative process, but also boosts the former’s role of control and political
guidance vis-à-vis their respective governments.136 As per the new Treaty, NPs can
now be considered “indirect institutions” of the EU, contributing to the definition –
within a unique integrated framework – of the new EU constitutional balance at the
European as well as at the national level.137
This approach was also confirmed on 30 June 2009 by the Judgment of the
German Federal Constitutional Court on the ratification of the Lisbon Treaty.138 The
judgment underlined the need – in the light of the EU‘s extended competences and
enhanced institutions – for the “responsibilities related to European integration” to be
accepted by the national parliaments, not solely through the new provisions of the
Treaty, but also through proper mechanisms of internal constitutional law.139 In the
aftermath of the ratification of the Treaty, not solely the German Parliament, but even
the French, the Lithuanian, the Irish and Portuguese parliaments adopted internal
provisions aimed at consolidating the relationship between the parliaments and the
governments on EU affairs. Most member states are now following the same
approach.140
In this paper the concepts of accountability and democratic legitimacy within
the EU framework will first be defined, followed by a brief overview of the changes
See the report French Senate, Les parlaments nationaux at l’Union europeenne apres le traite’ de Lisbonne (No. 393),
2007/2008.
137
See A. Esposito, “Il Trattato di Lisbona e il nuovo ruolo costituzionale dei parlamenti nazionali: le prospettive per
il Parlamento italiano”, in Rassegna Parlamentare, Vol. 4 (2009) p. 1118-1173.
138
See http://www.bundesverfassungsgericht.de/en/index.html.
139
See, in particular, Arts. 293-294 of the Judgment.
140
See M. Bothe, “The Judgment of the German Federal Constitutional Court regarding the Constitutionality of the
Lisbon Treaty” (English series; Doc IAI0920), http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iai0920.pdf; A. Padoa-Schioppa, “Germany
and Europe, the judgement of the Court of Karlsruhe”, in Perspectives on Federalism, Vol.1, single issue (2009), ISSN: 20365438, http://www.on-federalism.eu/attachments/052_download.pdf; M. Niedobitek, “The Lisbon Case of 30 June 2009–A
Comment from the European Law Perspective”, in German Law Journal, Vol. 10, No. 8, pp. 1267-76,
http://www.germanlawjournal.com/pdfs/Vol10No08/PDF_Vol_10_No_08_12671276_Lisbon%20Special_Niedobitek.pdf.
136
131
introduced by the Lisbon Treaty in the NPs. In order to evaluate the NPs impact on
the legitimacy and accountability of the EU’s decision making, four areas related to
the NPs participation in the EU process will be focused on, that is: (a) their influence
on the positions of the national governments; (b) their political dialogue with the
European Commission; (c) their inter-parliamentary cooperation; and (d) their
relationship with the European Parliament (EP). In the conclusion, the problems
relating to the process of implementation, which can strengthen and/or limit, the NPs
contribution to the EU’s legitimacy and democratic accountability, will be
highlighted.
1. Democratic legitimacy and accountability: a new role
for NPs
Inter-parliamentary cooperation started in the 1980s, in the aftermath of the
first direct elections to the EP (1979). At the initial stage, political dialogue was
conducted on an ad hoc basis. The Conference of Community and European Affairs
Committees (COSAC) was established in May 1989 and its role was confirmed by
the protocol on the role of national parliaments in the Amsterdam Treaty (1997).
From the very beginning of inter-parliamentary cooperation, the NPs’ task has
revolved around increasing their control on EU affairs.
The debates over the democratic legitimacy of the EU intensified after the
signing of the Maastricht Treaty in 1992 and the first referenda on the Treaty, which
took place in Denmark and France. The NPs have always claimed a more direct role
132
in the EU process, viewing themselves as the key actors in solving the so-called “EU
democratic deficit”.141
A broad consensus in the European Union exists on the idea that democratic
legitimacy is increasingly important in European politics. Democracy, however,
remains a contested concept: a look at the constitutions of the member states reveals
that several views exist on the institutions and procedures considered essential for
ensuring democratic legitimacy. The challenging task is to draft a political framework
that can be considered democratically legitimate from the many and very different
perspectives existing among member states.
Wolfgang Wagner identifies two main schools of thought in the debate on the
EU’s democratic legitimacy: (1) legitimacy as ensured by effective governance
(“government for the people” or “output legitimacy”). The EU can be considered
legitimate if it contributes to the provision of public goods such as security, wealth or
a clean environment; (2) legitimacy as ensured by participatory procedures
(government by the people” or “input legitimacy”): a policy is deemed legitimate to
the extent that the decision-making process is open to citizens participation.142
According to this view, the parliament is the key institution to which citizens delegate
competences to make laws. The present paper expands in particular on the second
typology, “input legitimacy”, which has several implications for the role of NPs, in
particular after the entry into force of the Lisbon Treaty.143
See G. Majone, “Europe’s Democratic Deficit: The Question of Standards”, in European Law Journal, Vol. 4, pp. 528; and A. Moravcsik, “In Defence of the ‘Democratic Deficit’: Reassessing the Legitimacy of the European Union”, in
Journal of Common Market Studies, Vol. 40, No. 4, pp. 603-624.
142
See W. Wagner, “The democratic legitimacy of European Security and Defence Policy”, Paris, EUISS (European
Union Institute for Security Studies), 2005 (EUISS Occasional Paper; 57), p.7,
http://www.iss.europa.eu/nc/actualites/actualite/select_category/22/article/the-democratic-legitimacy-of-europeansecurity-and-defencepolicy/?tx_ttnews[pS]=1104534000&tx_ttnews[pL]=31535999&tx_ttnews[arc]=1&cHash=2214e5e50a.
143
See also A. V. Schmidt, Democracy in Europe, London, Routledge, 2008.
141
133
Linked to the concept of democratic (input) legitimacy is that of accountability.
According to Mark Bovens, accountability (as a social relation) can be defined as “a
relationship between an actor and a forum, in which the actor has an obligation to
explain and to justify his or her conduct; the forum may pose questions and pass a
judgement, and the actor may face consequences.”144 An evaluation will be made of
the extent to which parliamentary institutions scrutinise the EU’s decision making
and how the implementation the Lisbon Treaty is affecting this process. Two aspects
must be kept in mind in this regard: (a) the quantum power the Treaty’s provisions
attribute to the NPs; and (b) to what extent these provisions stimulate the NPs to use
the powers they already have.145
2. The Lisbon Treaty provisions
The relevant innovations introduced by the Lisbon Treaty were contemporary
to the rise of the NPs in the EU’s decision-making process over the last decade.
If the Treaty of Amsterdam (1997) provided an increased flux of information
from the European institutions to NPs, the draft Treaty negotiated by the Convention
on the Future of Europe (2002-2003), attributed to the NPs the power of launching a
procedure (the “yellow” card) to withdraw a Commission’s legislative proposals
before they were scrutinised by the Parliament and the Council.
In 2006 the European Commission launched “political dialogue” with NPs, in
order to reply in the debate on the “EU democratic deficit” following the rejection of
the Constitutional Treaty in France and in The Netherlands (Spring 2005). Through
See M. Bovens, “Analysing and Assessing Public Accountability. A Conceptual Framework”, 2006 (European
Governance Paper; No. C-06-01), p. 9; and M. Comelli, “Democratic accountability of the CSDP and the role of the
European Parliament”, in E. Greco, S. Silvestri, N. Pirozzi (eds.), EU Crisis Management: Institutions and capabilities in the
making, December 2010 (Quaderni IAI, English Series ; 19).
145
See P. Kiiver, “The Treaty of Lisbon, the National Parliaments and the Principle of Subsidiarity”, in Maastricht
Journal of European and Comparative Law (MJ), No.1 (2008), pp. 77-83.
144
134
political dialogue with NPs, the Commission wanted not only to improve the
cooperation between NPs and EU institutions, but also to address the growing
problems relating to the transposition of the communitarian law into national
legislation.
The negotiations on the Treaty of Lisbon did not reverse this trend, providing
NPs two more weeks for the control of the subsidiarity check and, more importantly,
establishing the stronger “orange” card procedure.
According to the Lisbon Treaty (Art. 12) the main reason for the NPs
involvement in the EU decision-making process is to “contribute actively to the good
functioning” of the Union. The clause on the subsidiarity check is considered a key
tool for delivering this.
The NPs’ engagement in the EU procedures is defined not only by the two
protocols “on the role of National Parliaments in the EU” (Prot. No.1 annexed to the
Treaty) and “on the application of the principles of subsidiarity and proportionality”
(Prot. No. 2), but also by the following articles:
·
Art. 5, TEU, on the competences of the Union
·
Art. 10, establishing the principle of “representative democracy”
·
Especially Art. 12.
According to Art.12, EU institutions have to forward to the NPs all the
legislative proposals of the Union. This article also establishes the subsidiarity checks
and determines a specific engagement of the NPs in the areas of freedom, security
and justice, such as “political monitoring of Europol and the evaluation of Eurojust’s
activities”. NPs also take part in the revision procedures of the Treaties and are fully
informed about the accession applications. Finally, Art.12 also reasserts interparliamentary cooperation between NPs and with the EP.
135
2.1 The protocols
Protocol No. 1 determines the procedures by which the Commission sends its draft
legislative and non-legislative proposals to the NPs as well as others actors with
legislative powers. The protocol also establishes the “eight-week period” for
responding to the proposals before the legislative process begins.
Protocol No.2. lays out the rules for the subsidiarity check by NPs. The
principle of subsidiarity affirms that, unless EU institutions have exclusive power,
action will only be taken at a European level if it were to be more effective than
acting at a national level. Each NP’s chamber146 has eight weeks to communicate to
the presidents of the EU Commission, the European Council and the Council, the
reasons why it feels that a draft breaches the subsidiarity principle. Each chamber is
responsible for the consultation, where necessary, with regional parliaments entrusted
with legislative powers. If a third of all European NPs147 (a fourth in the area of
justice, freedom and security) determine that a document does not respect the
subsidiarity principle, the legislative proposal needs to be reviewed (“Yellow” card,
Art 7.2 of the Protocol on the principles of subsidiarity and proportionality). The
Commission, or any other legislative initiator, is not obliged to withdraw its proposal
but must explain the reasoning of its choice (in the form of a Communication).
If more than half of the NPs decide that there has been a breach of the
subsidiarity principle in a policy area subject to the ordinary legislative procedure,
and if the Commission decides to maintain its legislative proposal regardless, then the
NPs’ opinions as well as those of the Commission are transmitted to the EP and to the
Council (“Orange” card procedure, Art 7 [3] of the Protocol). Before dealing with the
proposal itself, the Commission’s legislators are called upon to explain how the
146
147
Forty chambers in the EU, since 13 member states have a bicameral system.
Two votes per country, one vote per chamber in the bicameral systems.
136
principle of subsidiarity is being respected. The Commission’s opinion is forwarded
to the legislative authorities in the EP and the Council together with the reasoned
opinions of the NPs. The EP then decides through the majority principle, while the
Council requires 55 per cent of the votes, whether or not to continue with the
legislative procedure.148 If any of them agrees with the NPs’ opinion, the proposal is
rejected.149
2.2 The Court of Justice
Last but not least, an oversight over the application of the subsidiarity principle can
be exercised by the Court of Justice of the European Union, to which a national
government can appeal on the request of its national parliament (Art. 8, Protocol No.
2). The implications of this provision could be very serious, if a national chamber
decides to ask its government to systematically appeal to the Court: the EU decisionmaking process can face delays and, possible standstills. According to Andrea
Manzella, this provision can bring to “possible juridification via case law of criteria
that are per se open to considerable political discretion”. The Court is indeed “the
authority that can provide legal meaning to the justification requirement (stated in
Protocol No.2, Art 5), imposed upon those bodies which put forth draft legislation.
[...] These requirements, were they to remain entrusted to political decision makers,
would lend themselves to very volatile and ambiguous application.”150 In other
words, it is apparently on the Court’s very threshold that the subsidiarity principle
eludes the rules of an essentially political game, with decisions taken on the basis of
See J. V. Louis, “National Parliaments and the Principle of Subsidiarity–Legal Options and Practical Limits”, in
European Constitutional Law Review Vol. 4, No. 3 (2008), p. 429–52
149
See EPC, CEPS & EGMONT Joint Study, “National Parliaments and Subsidiarity Check: A new actor in town”,
in The Treaty of Lisbon–A second look at the Institutional Innovations, Brussels, Sept 2010, pp. 111-12.
http://www.epc.eu/documents/uploads/pub_1150_epc_egmont_ceps_-_treaty_of_lisbon.pdf
150
See A. Manzella, “The role of Parliaments in the democratic life of the Union”, in S. Micossi and G.L Tosato
(eds.), Europe in the 21st century: Perspectives from the Lisbon Treaty”, Brussels, CEPS paperbacks, 2009, p. 267.
http://www.ceps.eu/book/europe-21st-century-perspectives-lisbon-treaty
148
137
the balance of power struck at a given point in time among Union bodies and national
parliaments.151
Finally, the Lisbon Treaty also recognises the NPs authority to stop the
application of the general passerelle clause (Art. 48.7, TEU). This allows for changes
in the decision making of the Council from unanimity to majority voting or for the
modification of the special legislative procedure to an ordinary one.152 This can be
initiated, for example, to allow the EP to have a more effective overview on a certain
policy. This decision can be adopted on the basis of a unanimous vote within the
European Council. Each national parliament chamber, however, has the power to
block it in the six months following the proposal. The same veto power is retained by
each chamber on the specific passerelle clause (Art. 81.3, TFEU), which lets the
Council pass from the special to the ordinary legislative procedure for those measures
dealing with judicial cooperation in civil matters concerning family law and with
cross-border implications. Such a veto power in EU decision making is very relevant.
Even if it is unlikely that a single chamber can decide to activate it, this veto power
can be considered a threat to the EU’s legislative process.
3. The four domains of NPs participation at the EU level
3.1 NPs’ rising influence on national governments
Cooperation with the government represents the main channel of participation
between the NPs and EU decision making. The Lisbon Treaty has enhanced this
aspect, introducing new tools that can increase the democratic (input) legitimacy of
the decisions of the national governments at the EU level.
Ibid.
In certain cases specified in the Treaty, laws and framework laws may be adopted by the Council alone or, more
rarely, by the EP alone, rather than by the two institutions jointly. These are named special legislative procedures (Arts. I-34)
151
152
138
The NPs influence on the positions of the Member States within the Council
has often been underestimated. The extent and intensity of this cooperation changes
on the basis of the different constitutional instances. In most Member States, the
government provides the parliament with legislative proposals and documents of the
Union, in conformity with established practice or according to legislative or
constitutional provisions.153
Three main models for parliamentary participation in the EU’s legislative process can
be visualised: 154
a)
Document based approach: Parliaments examine EU legislative proposals
systematically or by ad hoc selections, eventually adopting policy
prescriptions. In some of the countries conforming to this method, the
government can suspend its action within the Council (by its own initiative
or under parliamentary request) on a certain proposal, until parliamentary
scrutiny is over. 155
b)
Procedural approach: The government presents to the parliament its
negotiating position on the main draft proposals of the EU, before every
Council meeting. In this case parliamentary accountability is exerted in
advance over the government’s position rather than just on draft proposals,
and can be fixed through politically (and in some cases also legally) binding
acts.156
In the UK, Denmark, Finland and Estonia, the governments have to also point out the most relevant documents
and give detailed information on the forthcoming negotiations in the Council. Binding constitutional provisions on
transmission and information duties exist in Finland, France, Germany, Latvia, and The Netherlands.
154
See A. Esposito., “Il Trattato di Lisbona”, op. cit., p. 1124.
155
This approach is generally adopted in Bulgaria, Cyprus, the Czech Republic, France, Ireland, Luxembourg,
Portugal, and by the Belgian and the Dutch senates.
156
This approach is more common in Austria, Denmark, Finland, Germany, Greece, Italy, Latvia, Malta, the Slovak
republic, Sweden, and in the Polish and Slovenian chambers. In Finland, Poland and Hungary, if during the negotiation the
government partially changes the position earlier agreed on with the parliament, it has to explain the reasons to the
Assembly.
153
139
c)
The Estonian, Lithuanian and Hungarian NPs are using a mix of the
previous two models.
The Lisbon Treaty’s entry into force prompted some NPs, such as the Italian
and the German ones, to pass from the first to the second model. While on the one
hand the impact of the new Treaty on the NPs relationship with their governments
increases the latter’s democratic legitimacy, on the other it may lead to questions on
the effectiveness of the EU’s decision-making process.
First, the extension of majority voting within the Council and the reduction of
matters on which Member States can exert veto power can prompt some NPs to
define more specific negotiating mandates or ask for more parliamentary scrutiny.157
This trend may get further strengthened after the projected institution of the new
double majority voting on 1 November 2014.
Second, the new (and more specific) classification of the Union’s competences
can provoke some parliaments to conduct a more systematic scrutiny of the
legislative validity of the draft proposals. The competence involved, in fact, impacts
the NPs powers of control. The early warning on subsidiarity, for example, can be
exerted only in case of non-exclusive competences of the EU. Subsidiarity checks,
As regards the Italian Parliament, for example, the entry into force of the Lisbon Treaty has given impulse to
strengthen cooperation between the parliament and government, in particular during the preparation of EU legislative acts.
In order to improve the control by the Chambers of the subsidiarity check, a first innovation obliges the government to
provide the Chambers with information and comments on the EU draft legislation that needs to be submitted for the
subsidiarity check, in ample time prior to the scrutiny. A second establishes an Inter-ministerial Committee for European
Affairs (CIACE) in the prime minister’s office to coordinate the government’s priorities with the opinions from parliament
on the same issues during the preparation of EU legislative acts. This constant evaluation is expected to strengthen
government action within the EU Council of Ministers. A third provision states that “the government assures that the
position represented by Italy in the EU Council of Ministers or in relations with the other institutions and organs of the EU
takes account of the prescriptions defined by the chambers”. See R. Matarazzo and J. Leone, “Sleeping Beauty Awakens:
The Italian Parliament and the EU after the Lisbon Treaty”, in The International Spectator, Vol. 46, No. 3 (September 2011).
157
140
moreover, can intersect regional competences also, in federal or regional systems like
those of Germany, Belgium, Austria and Spain and, to some extent, also in Italy.158
Finally, the creation of new institutions and tools in order to strengthen the
Common Foreign and Security Policy
(CFSP) and the Common Security and
Defence Policy (CSDP) — such as the roles of the President of the Council, the High
Representative for Foreign Affairs and Security Policy, Vice-President of the
Commission, the External Action Service, and a permanent structured cooperation on
defence, etc.—is not balanced by an increased accountability and transparency in the
Council’s decision making or by the enhanced powers of accountability of the EP.
This leaves room for maneuver to the NPs, who possess increased control on the
position of their governments on these matters.159
3.2 A stronger dialogue with the European Commission
The relationship between the European Commission and NPs was defined for the first
time in 2005, when the deputy president of the Commission, Margot Wallstrom,
presented an overall cooperation framework between the EC and the NPs.160
However, it was only in the aftermath of the rejection of the Constitutional Treaty in
France and in The Netherlands (Spring 2005), that the Commission decided to launch
a “political dialogue” with NPs (June 2006) in order to respond to protests on the
“EU’s democratic deficit” and to further involve NPs in the democratic process.
See A. Esposito, “Il Trattato di Lisbona”, op. cit., p. 1125-1126. Motivated opinions on subsidiarity check
presented by the NP could influence the relevant government’s position within the Council, especially if a majority of NPs
are not there in order to activate the “yellow” or “orange” card procedures.
159
The Conference of the Speakers of the Parliaments of the EU, held in Brussels on 4-5 April 2011, failed to reach
an agreement on the proposal to set up an inter-parliamentary conference for the scrutiny of the CFSP and the CSDP,
which should be composed of delegations of the NPs, of the EU Member States, and the EP. The NPs renewed their
concern over the EP’s role within an eventual inter-parliamentary mechanism of scrutiny. See Presidency Conclusions of the
Conference of the Speakers of the Parliaments of the EU, Brussels, 4-5 April 2011:
http://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2009_2014/documents/afco/dv/conf-parl-eu-4-5april2011_/conf-parl-eu-45april2011_en.pdf . See also M. Comelli, “Democratic accountability of the CSDP”,op. cit. p. 5-7, and Antonio Esposito, “Il
Trattato di Lisbona”, op. cit., p. 1127.
160
The document was transmitted to NP Presidents in April 2005.
158
141
The Commission started transmitting legislative proposals and consultative
documents directly to the NPs, allowing them to send comments and opinions,
responding systematically on the merit of the comments received. Political dialogue
involves not only matters subject to the subsidiarity check, but all aspects of the
Commission’s political and legislative initiatives. The dialogue can mainly be
developed prior to the presentation of the draft proposal. This facilitates
parliamentary interventions and the Commission’s reactions on strategy or
consultation documents, thanks to the former’s informality and absence of strict
deadlines.161
The Commission decided to open a wider and more informal dialogue with the
NPs for four main reasons. First, the growing problems linked to the transposing of
communitarian law on to national legislation; second, the Commission’s awareness
of the NPs difficulties, as political institutions in limiting their scrutiny strictly to
subsidiarity; third, the determination to bring to light from the very start, possible
problems related to the political impact of the Commission’s legislative proposals at
the national level; finally, the will to create, in view of the entry into force of the new
early warning mechanism, a political framework favouring dialogue and information
exchange between EU institutions and NPs in order to prevent possible oppositional
approaches.162
The NPs attitude to the overall content of the Commission’s documents rather
than just on the control of national competences is worth noting. A small part of the
comments ascribed to the Commission arise from the principles of subsidiarity and
See A. Esposito, “Il Trattato di Lisbona”, op. cit. p. 1133. Political dialogue, moreover, refers much more to
Protocol No. 1 (“on the role of national parliaments”) of the Lisbon Treaty, which provides non-binding information
duties, rather than to Protocol No. 2 (“on the subsidiarity check”).
162
See L. Gianniti., “Il ruolo dei Parlamenti nazionali”, in F. Bassanini and G. Tiberi (eds.), Le nuove istituzioni Europee.
Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, Il Mulino, 2010, p.177.
161
142
proportionality. This is relevant in the light of the Lisbon Treaty’s innovations
because it confirms that most NPs will just not activate the early warning mechanism
to intervene on the Commission’s legislative initiatives. The latter, moreover, does
not deal with the legitimacy of the Union’s intervention with respect to national
competences; rather, it deals with its intensity. According to the proportionality
principle, in fact, the Union’s action should not exceed what is necessary.163
Within the framework of the political dialogue with the European Commission,
the performance and participation of the NPs differs significantly.164 Between
September 2006 and December 2009, a total of 618 opinions were received from 35
(out of 40) national chambers. The entry into force of the Treaty of Lisbon has
boosted this cooperation: about 40 percent more opinions were issued by NPs in 2010
than in 2009.
According to the European Commission Annual report 2010, during the first
year with the new Treaty, the Commission sent to NPs 82 draft legislative acts
falling under the subsidiarity control mechanism, and received a total of 2011
opinions related to these proposals. Out of these 211 opinions, 34 (about 15 percent)
were reasoned opinions concluding that a proposal, or a part of it, was in breach of
the subsidiarity principle. About three quarters of these 211 opinions were received
by the Commission within the eight week period after the formal transmission letter
had been sent. This confirms that NPs have upgraded their capacities in response to
the new Treaty and that they can react to the Commission proposals much faster than
See R. Adam, A. Tizzano, Lineamenti di diritto dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 2008, p. 29. The European
Convention, in the drafting of the protocol on the subsidiarity and proportionality principles, decided to limit the early
warning mechanism just to the first one. The idea was that NPs main role was to check possible violations by the Union of
national competences, rather than to interact directly with the EU institutions on the merit of its interventions.
164
European Commission, Annual Report 2010 on relations between the European Commission and national parliaments, COM
(2011) 345 final, Brussels, 10 June 2011.
http://ec.europa.eu/dgs/secretariat_general/relations/relations_other/npo/docs/ar_2010_en.pdf
163
143
before.165 Of course, the political relevance and influence of a chamber on the
European legislative process do not depend on the number of the opinions expressed
within a year, but rather on the political weight of the parliament (and of the country
itself) and on the specific content of the opinions.
Most NPs send a copy of policy documents that are addressed to their
governments to the Commission, confirming that they do not think of political
dialogue with the Commission as an alternative to the relationship with their
government, but as complementary to the intention of enhancing the national
position.166
As regards the implementation of the Lisbon Treaty, the Commission perceives
the subsidiarity control mechanism as a political and not purely an accounting
function, and wants to facilitate NPs access to it.167 The Commission considers the
subsidiarity control mechanism and the political dialogue as “two sides of the same
coin, with the former being part of a wider political relationship between the
Commission and national Parliaments”. NPs seem to welcome this approach, having
so far focused their opinions on the proper contents of the Commission documents
rather than just on the subsidiarity check.
Overall, if the approach developed so far by the Commission and NPs
continues, the subsidiarity check could lose the characteristic potential of disturbing –
165
The most productive chambers in 2010 were the Portuguese Assembleia da Republica with 106 opinions (zero
reasoned), the Italian Senate, with 71 opinions (one reasoned), the Czech Senate, with 29 opinions (one reasoned), the
Italian House, with 25 opinions and then the German Bundesrat, with 23 opinions, including one reasoned. See European
Commission, Annual Report 2010, p.11.
In accordance with their internal procedures, the very active Swedish and Danish parliaments continue to
participate in the political dialogue with the Commission only on non-legislative documents, reserving the examination of
legislative proposals to the accountability action of their governments.
167
See the joint letter sent by the President and the Vice-President of the Commission on 1 December, 2009, to the
Presidents of the 40 chambers and of the European Parliament and the Council:
http://ec.europa.eu/dgs/secretariat_general/relations/relations_other/npo/docs/letter_en.pdf
166
144
or, even, blocking – the tool of decision making often emphasized by NPs and policy
analysts. It could, on the contrary, further encourage political interaction, without the
need to look for “blocking minorities” in order to activate the yellow card procedure
or “blocking majorities” for the orange card. Moreover, the Commission’s decision to
reply systematically to all the opinions received by the NPs, has enhanced awareness
of the constructive role the NPs can play in the future implementation of the new
Treaty.168
Finally, it is striking that the Commission is interested in developing direct
dialogue with each of the 40 national chambers (considered autonomously) rather
than with the parliaments as a whole. On the one hand, the Commission seems to be
very sensitive to the national specificities and institutional balances within each
constitutional system. On the other, however, this could be part of a “divide and rule”
approach aimed at decreasing the parliaments’ possible cohesion against EU
institutions. Each chamber, in fact, tends to be very jealous of its prerogatives and
methods.169
3.3 Evolving nature of inter-parliamentary cooperation
The contribution of the inter-parliamentary cooperation process toward a larger role
for NPs in the EU is still unclear and problematic. The co-existence of two main
visions of inter-parliamentary cooperation has, in fact, delayed its development.
Some NPs (often led by the French Assembly) have, for many years, insisted on the
need to create a new institutional body, possibly with substantive legislative powers,
See A. Esposito, “Il Trattato di Lisbona”, op. cit., p. 1142.
See P. M. Kaczynski, “Paper tigers or sleeping beauties? NPs in the post-Lisbon European Political System”
CEPS Special Report (February 2011).
168
169
145
or to set up a third European legislative Chamber involving representatives of both
the EP and NPs.170
This approach has been opposed (or almost entirely refuted) by a majority of
NPs, thus reinforcing the conviction that the best way to increase the NPs
accountability is to put into practice flexible administrative instruments as well as
increase the exchange of information among the parliaments and EU institutions.
Despite the fact that the second vision has eventually prevailed, the conflict between
these approaches has delayed – and, partially, weakened – the impact of interparliamentary cooperation on the EU’s decision making.
It was only in May 1989 that the “Conference of Community and European
Affairs Committees”
(COSAC) was established. Its role was confirmed by the
protocol on the role of national parliaments in the Amsterdam Treaty (1997)..
COSAC envisaged a biannual meeting with six representatives of each parliament,
and since the first meeting its task has been to increase the NPs control on EU affairs.
It enables regular information exchanges, best practices and opinions on EU topics
between the European Affairs committees of NPs and the EP. Its presidency follows
the Council’s rotating presidency.171
Despite the fact that COSAC, with an ad hoc secretariat, is the only centre of
cooperation to be formally recognised by the Treaties its political role and vocation
are still ambiguous. Debates within the COSAC sometimes focus on general political
issues, at others on information exchange and coordination for the subsidiarity check,
The proposal of a third Chamber for NPs was presented at the European Convention by the Convention
President Valery Giscard D’Estaing, and rejected by the Assembly.
171
The regulatory framework for inter-parliamentary cooperation was adopted in 2004 with the “Guidelines for interparliamentary cooperation”, updated without major changes in 2008 by the Lisbon Conference of Speakers of the EU
Parliament. The three principles of cooperation are: equity among all parliaments, decision making by consensus, autonomy
and independence of each parliament or chamber.
170
146
and at others still on the adoption of common positions on the implementation of the
Lisbon Treaty. The identity crisis of the COSAC depends either on the very different
roles the European Affairs committees play in their national set up, or on
conventionally being the battleground for the creation’s supporters of a third
European legislative Chamber involving representatives of NPs.
Apart from COSAC, other forums have contributed to the development of
inter-parliamentary cooperation. The Conference of Speakers of the EU Parliament,
which meets annually in the presence of the president of the EP, is one such
example.172 Probably the most positive cooperation experienced so far by
parliamentary officials and administrations has been in the two following main
forums: (a) the regular meetings of NPs representatives in Brussels (Monday
Morning Meetings, MMM); and (b) the Inter-Parliamentary EU Information
Exchange (IPEX). The latter is a platform for the electronic exchange of EU-related
information between NPs of the EU, run since 2009 by its own organisational
network. The network is hosted by the EP and has the cooperation of all NPs.173
In addition, an increasing number of meetings are being held between political
groups within the EP and their relevant groups within the NPs in order to coordinate
the new Treaty’s implementation or to adopt ad hoc political initiatives. Preparatory
meetings of European political families are usually organised before COSAC
meetings.
Between 2005 and 2009 COSAC conducted eight subsidiary checks (twice a
year), as trial runs for the incoming system and to check on the NPs capacity to make
See, for example, Presidency Conclusions, op. cit.
See www.ipex.eu. The IPEX project was promoted by the Conference of Speakers of the EU parliaments of
Rome in 2000. Its implementation was led, in particular, by the Swedish, the Danish and the Italian parliaments. In 2006 the
new website was launched, containing a complete catalogue of Commission documents from 2006 onwards as well as
documents from the individual NPs specific Commission documents or legislative procedures.
172
173
147
the new system work.174 It was also an occasion for NPs to familiarise themselves
with the “yellow” and “orange” card procedures. At the 43rd meeting in Madrid, in
May-June 2010, COSAC decided to terminate the trials. COSAC also decided that
cooperation between NPs would not be coordinated top-down, and urged the NPs to
“intensify their use of IPEX and other forms of cooperation in order to provide
mutual information concerning their respective activities and standpoints”.175
On the basis of the recent experiences, it is foreseeable that each chamber will
initiate the procedure individually, and inform other chambers through IPEX.
Subsidiarity checks, moreover, will probably be conducted on a regular basis by a
few national chambers, and most of the others will follow only if a breach has
occurred. A timing problem might arise if a chamber, which regularly scrutinises all
proposals, discovers a breach. In that case, there might not be enough time for the
other NPs to complete the scrutiny before the expiry of the deadline.176
3.4 Problematic relationship with the European Parliament
The entry into force of the new treaty has had a twin effect on the EP–NPs
relationship. On the one hand, it has increased inter-institutional dialogue,
information exchange and meetings between relevant committees. On the other,
however, it has expanded the room for competition, in particular the power of
scrutiny of sensitive topics.
On inter-institutional dialogue, with the Lisbon Treaty the number of opinions
issued by NPs on EU draft legislation and then sent to the competent committees of
the European Parliament has been constantly increasing, as have the meetings
174
175
176
For more information on the exercise see http://www.cosac.eu/en/info/earlyworning.
Conclusions of the XLIII COSAC, http://www.cosac.eu/en/meetings/Madrid2010/ordinary.doc/conclus.pdf.
EPC, CEPS, and EGMONT Joint Study, “National Parliaments and Subsidiarity Check”, op. cit, p. 117.
148
between European and national parliamentary committees. The German, Belgian and
Danish parliaments, for example, regularly invite European MPs (as observers
without voting rights) to the meetings of the European Affairs Committee.
Coordination between national and European MPs is also increasing within relevant
party groups, in order to implement a more effective formulation of the agenda.177
On the issue of increasing competitivity, new opportunities for competition (or
clashes) are arising between the NPs and the EP, particularly on the monitoring of the
CFSP and CSDP. Following the EP’s active role in the negotiations for the
organisation of the External Action Service (where the EP used its new budgetary
powers to influence decisions), concern was expressed by the Member States on the
EP’s ambitions regarding a domain that remains primarily inter-governmental.
The Conference of the Speakers of the Parliaments of the EU, held in Brussels
on 4-5 April 2011, failed to reach an agreement on the proposal to hold an interparliamentary conference for the scrutiny of the CFSP and the CSDP (composed of
delegations of the NPs, of the EU Member States, and of the EP). The new
conference should substitute the Western European Union’s European Security and
Defence Assembly (WEU-ESDA), disbanded by June 2011 because considered
redundant by the entry into force of the Lisbon Treaty and specifically by the EU
defence clause. On this occasion a group of NPs renewed their concern on granting
the EP a strong role in the new structure. Deep differences also emerged “between
those who wished to focus on the intergovernmental dimension of the CFSP and the
CSDP, and those who wished the Community dimension also to be included”.178 The
Presidency’s conclusions emphasized that the structure should have the goal of
Since mid 2010, the Democratic Party has organised the “Lisbon Group”, where deputies, senators and European
MPs of the party meet about each months to coordinate their agendas and analyse the most relevant resolutions, or political
initiatives, adopted by the European Parliament. See http://www.partitodemocratico.eu/downloads.asp?dwcat=8.
178
Presidency Conclusions, op. cit, p. 5, para. 4.
177
149
ensuring the monitoring of the CFSP/CSDP from a parliamentary point of view
(scrutiny), rather than truly to control it (control), and to “enable NPs to better
scrutinise their governments in this field, and the EP to exert its functions within the
European institutional framework”.179
In general, tensions arise due to the two opposing philosophies of EU
integration: the EP conceives its role as that of being the legislative soul and the
engine of integration; the NPs tend instead to defend the inter-governmental
dimension of the EU, viewing the EP as an antagonist and a possible threat. There is
no doubt however that a stronger cooperation would enhance the overall legitimacy
of the EU, particularly in the context of the decreasing participation of European
citizens in both the European and national elections.
4. Concluding remarks
The implementation of the Lisbon Treaty is becoming as important as its
original negotiation and subsequent ratification. However, changes are occurring,
because the situation in which it entered into force (1 December 2009) was very
different from the one in which it was first conceived (2002-2003) and later
approved. Whether the new Treaty’s provisions on NPs contributes to strengthening
EU’s democratic legitimacy, or to creating major problems for EU decision making
will depend on both the use of the “yellow” and “orange” card procedures for
Ibid., para 3. According to the Presidency Conclusions, (op. cit.) the inter-parliamentary conference should replace
the existing COFACC and CODAC meetings. The conference should meet twice a year in the country that is holding the
six-monthly Council Presidency or in the EP in Brussels, on the matter decided by the Presidency. Extraordinary meetings
should be held when deemed necessary or urgent. The High Representative for Foreign Affairs and Security Policy of the
European Union should be invited to the meetings of the conference in order to set out the outlines and strategies of the
common foreign and defence policy of the Union. Finally, the conference may adopt non-binding conclusions by
consensus.
179
150
ensuring respect for the subsidiary principle, and on the rising influence of NPs on
their governments.
In terms of accountability, the author has tried in this study to explain why EU
institutions and national governments will need to increasingly justify their conduct
compared to the past. At least formally, this implies an increase in the EU’s
transparency and input legitimacy. The contribution of national assemblies to the
EU’s legitimacy, however, cannot be limited to the “yellow” and “orange” card
procedures. It relies, in fact, on other key innovations of the institutional framework.
The following conclusions can be drawn on the four levels of participation of
the NPs in the EU process analysed in this study:
First, the NPs cooperation with their government will continue to be their main
channel for influencing the European democratic process. The Lisbon Treaty
strengthens this trend by introducing new tools to increase the democratic (input)
legitimacy of government decisions. The risk of governments – generally politically
very close to their parliaments – using new mechanisms to delay or derail the EU
process is high, exacerbated by the diverse relationships existing among the Member
States, and between the governments and the NPs. However, it is probable that the
NPs involvement can contribute to an increase in national co-responsibility. In
several Member States, this can positively impact manipulative anti-Brussels
accusations, leading to wider political debates on EU issues.
Second, political dialogue between the NPs and the Commission is increasing
both the quality of the political climate and of communication exchange. The
inclination of the NPs to enter into the substance of the Commission’s draft
proposals, rather than just limiting their action to controlling national competences, is
151
certainly positive. If the approach developed so far by the Commission and NPs
continues, the subsidiarity check can lose its potential disturbing – or blocking –
factor in decision making, a fact often emphasized by policy analysts. It could, on the
contrary, invoke further political communication, without the need to look for
“blocking minorities” in order to activate the yellow card procedure or “blocking
majorities” for the orange card. Moreover, the Commission’s decision to reply
systematically to all the opinions received by the NPs, has enhanced the awareness of
the constructive role the NPs can play in the future implementation of the new
Treaty.
Third, the contribution of inter-parliamentary cooperation toward a larger role
for NPs in the EU process is still unclear and problematic. The conflict between two
opposing visions has, in fact, delayed the increase in cooperation and decreased its
impact. The prevailing approach aims at intensifying the use of flexible
administrative instruments within COSAC
(such as IPEX and other forms of
cooperation). This is undoubtedly deepening the exchange of information among the
Parliaments and EU institutions and improving inter-parliamentary cooperation dayby-day. Problems relating to the timing of coordination among NPs may arise,
moreover, if the control over the subsidiarity breach will continue to be in the hands
of those few national chambers that are known for being most active.
Finally, the NPs and the EP continue to incorporate two opposing approaches
to EU integration: the NPs tend to defend the inter-governmental dimension of the
EU, considering the EP as an antagonist and possible threat, while the EP conceives
its function as that of the main promoter of integration. Political dialogue between
these actors will continue to be undermined by this differing view: the entry into
force of the new Treaty has, in fact, increased inter-institutional dialogue, but it has
152
also enlarged the scope for competition, in particular the scrutiny of sensitive issues
like CFSP and CSDP.
As underlined in this study, the Treaty’s innovations on NPs affects different
levels of EU decision making and democratic (input) legitimacy. The implementation
of the Treaty will reveal whether the extension of participatory procedures to the NPs
can be considered an opportunity or a major threat to the system.
Finally, it is worth recalling that most parliamentarians are reluctant to invest
time and means on the scrutiny of European matters, basically due to lack of political
incentives, low voter interest, distance from national politics and lack of proper
feedback.180 The key would then lie in making EU matters as highly political as
possible. Keeping the NPs engagement in EU issues constantly on the burner can
ensure this, as then the MPs will find it embarrassing not to be involved in the
supranational process.
See P. Kiiver, Europe in Parliament: Towards Targeted Politicization, Scientific Council for Government Policy (WRR
online paper; No. 23), 2007, available at www.wrr.nl/content.jsp?objectid=4040.
180
153
Oltre lo status quo? I dilemmi dell’azione esterna dell’Ue
in R. Gualtieri and J.L. Rhi-Sausi (eds), Rapporto 2011 sull’integrazione
europea, Bologna, Il Mulino, November 2011, p. 187-204.
Un anno difficile
L’Unione europea e’ in cerca di un nuovo equilibrio. Per molti anni si e’ creduto che
il rilancio del processo di integrazione potesse trovare un centro propulsore nelle
istituzioni comuni, alla cui riforma sono state dedicate le molte energie culminate nel
Trattato di Lisbona, entrato in vigore a dicembre 2009. L’irrompere della crisi
finanziaria ed economica prima negli Usa e poi in Europa, e la graduale ridefinizione
della gerarchia del potere internazionale, hanno invece ridato centralita’ al ruolo degli
stati, sia a livello globale che europeo.
Nel 2010 le principali istituzioni multilterali globali e regionali, la cui
rappresentativita’ ed efficacia e’ stata messa in discusione da piu’ parti, hanno
cercato di reagire a queste spinte avviando processi di adattamento non sempre
all’altezza dei mutamenti in corso181. Il sistema di governance globale ha continuato
dunque ad essere caratterizzato da una condizione di stallo che neanche la maggiore
attenzione alla centralità delle istituzioni multilaterali promossa dall’amministrazione
Obama e’ riuscita a sbloccare182. Di queste dinamiche hanno risentito direttamente
sia il processo di integrazione europea che la proiezione esterna dell’Unione.
Quest’ultima, in particolare, ha continuato ad essere minata sia dalla scarsa coesione
tra gli stati membri che dalla persistente assenza di una visione strategica comune.
Nuove gerarchie
181 Al riguardo si veda anche Global Governance 2025: At a critical juncture, National Intelligence Council, EU
Institute for Security Studies, Settembre 2010:
http://www.acus.org/files/publication_pdfs/403/Global_Governance_2025.pdf
182 Si veda G. J. Ikenberry, A crisis of Global Governance?, in Current History, Novembre 2010, pp. 315 – 321
154
Nel corso dell’anno, in particolare, la crisi del debito sovrano e le esigenze di rigore
di bilancio hanno accentuato la tendenza di alcuni paesi ad interpretare la crisi come
occasione per cercare di ridefinire a proprio favore le gerarchie all’interno dell’Ue. In
campo economico la piu’ assertiva interprete di questo approccio e’ stata la Germania
che, forte di un tasso di crescita che nel 2010 ha raggiunto il 3,6% (con una drastica
inversione rispetto al - 4.7% dell’anno precedente), ha cercato di imprimere alla
riforma della governance economica europea una linea di rigore giudicata
difficilmente sostenibile da diversi altri stati membri’183.
Sul fronte della politica di sicurezza e difesa sono state invece Francia e Gran
Bretagna a compiere i passi piu’ decisi verso la definizione di un nuovo equilibrio,
siglando all’inizio di novembre due trattati bilaterali volti ad accrescere la
cooperazione militare e a razionalizzare i rispettivi bilanci della difesa. Il carattere
strategico dei due trattati e le loro implicazioni sotto il profilo industriale e politico
sembrano destinate a cambiare la natura del processo d’integrazione nella difesa per
come si e’ sviluppato fin dagli accordi franco-britannici di St Malo’, che nel 1998
diedero forte impulso al cammino della difesa comune europea.
La fase di attuazione delle innovazioni del Trattato di Lisbona, particolarmente
rilevanti nel campo della politica estera (nonostante la permanenza, molto limitante,
del voto all’unanimità), e’ dunque avvenuta sullo sfondo di varie tensioni interne. A
questi problemi si è aggiunta la scarsa capacità di iniziativa politica manifestata dal
nuovo Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue (Ar),
Catherine Ashton, dovuta sia alle profonde divisioni intra-europee, sia ad una limitata
esperienza e, forse, anche sensibilità politica in questo ambito.
Attori dell’azione esterna alla prova
183 Romano B., Uscire dalla crisi “alla tedesca”, in Italianieuropei, N. 2/2011, pp. …
155
Il contesto internazionale in cui il trattato di Lisbona e’ entrato in vigore è dunque
molto diverso da quello in cui esso è stato concepito (2003) e poi approvato (2007).
Ad oggi, del resto, fornire una definizione stringente di “politica estera europea”
rimane problematico. La frammentazione delle competenze lungo gli ex tre “pilastri”
dell’Ue e la particolare natura intergovernativa della Politica estera e di sicurezza
comune (Pesc) consentono di parlare di “poltica estera” solo in termini di sinergie e
convergenze tra i diversi programmi e strumenti dell’ azione esterna di cui oggi
dispone l’Unione184. Obiettivo delle innovazioni introdotte dal trattato e’ proprio di
permettere all’Ar di coordinare più strettamente le scelte di politica estera, compiute
in un contesto intergovernativo, con le politiche e gli strumenti finanziari gestiti dalla
Commissione.
I tre aspetti fondamentali dell’ architettura di politica estera uscita dal trattato di
Lisbona riguardano la creazione della figura dell’Alto rappresentante, che e’ anche
vicepresidente della Commissione; l’istituzione della presidenza stabile del Consiglio
europeo per due anni e mezzo rinnovabile; il nuovo Servizio europeo per l’azione
esterna185.
Per quanto riguarda il ruolo di rappresentanza esterna che spetta al presidente del
Consiglio, nel corso del 2010 e’ stato affiancato sia da quello del presidente della
Commissione (che ha anch’esso una funzione di rappresentanza esterna dell’Ue nelle
materie di competenza della Commissione), sia da quello del presidente del
Parlamento europeo (Pe). Quest’ultimo, anche se non ha delle responsabilita’ dirette
184 Antonio Missiroli, Implementing the Lisbon Treaty: The External Policy Dimension,
Bruges, College of Europe, maggio 2010 (Bruges Political Research Papers 14),
http://www.coleurop.be/file/content/studyprogrammes/pol/docs/wp14%20Missiroli.pdf
185 Su questo aspetto ci permettiamo di rimandare a R. Matarazzo, “La politica estera europea e le
potenzialità del Trattato di Lisbona”, in R. Gualtieri e J. L. Rhi-Sausi, a cura di, Rapporto 2010
sull'integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2010 ISBN 978-88-15-13799-9, p. 229-245.
156
di rappresentanza dell’Ue, ha accresciuto il suo profilo internazionale grazie al
rafforzamento di poteri che il Trattato di Lisbona attribuisce al Pe.
La dimostrazione piu’ eclatante di questa nuova dimensione si e’ avuta a febbraio
2010, quando il presidente del Pe Jerzy Buzek e’ stato piu’ volte contattato dal
segretario di Stato americano Hillary Clinton. Quest’ultimo perorava infatti il voto
favorevole dell’Assemblea di Strasburgo al c.d. accordo Swift, sul trasferimento agli
Usa di dati bancari di cittadini Ue nell’ambito della lotta al terrorismo. L’11 febbraio
il Pe ha tuttavia votato a larga maggioranza contro l’accordo, e le due parti sono state
costrette a negoziare un nuovo testo, anche se non molto diverso dal primo, che è
stato approvato dal Pe a giugno. Il Trattato di Lisbona ha infatti esteso il potere di
codecisione del Pe a una serie di nuove politiche interne, fra cui quelle riguardanti lo
“spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, conferendogli il potere di veto sugli accordi
internazionali che le riguardano.
Poiche’ la divisione delle responsabilita’ di rappresentanza esterna dell’Unione tra
presidente della Commissione e quello del Consiglio e’ ancora abbastanza incerta, nel
2010 si sono registrate varie tensioni tra le due figure. Un punto di equilibrio si è
raggiunto sulla rappresentanza nel G8 e nel G20: il presidente della Commissione ha
infatti partecipato prevalentemente alle riunioni del G8, intervenendo su questioni di
sua tradizionale competenza (soprattutto il commercio internazionale), mentre il
presidente del Consiglio ha rappresentato la Ue soprattutto nei vertici del G20 e nelle
altre occasioni in cui si è discusso della crisi finanziaria e della riforma della
governance globale186. Più in generale, si può affermare che il presidente stabile del
Consiglio è riuscito ad interpretare il suo ruolo, in una fase estremamente delicata,
186 Si veda G. Quille, “The European External Action Service and the Common Security and Defence Policy”,
in E. Greco, N. Pirozzi, S. Silvestri, eds, EU crisis management, Institutions and capabilities in the making, Iai Quaderni,
English Series, N. 19, Nov. 2010, p. 57 e S. Vanhoonacker e N. Reslow, The European External Action Service:
Living Forwards by Understanding Backwards, in European Foreign Affairs Review,
Vol. 15, No. 1 (February 2010), p. 1-18 157
valorizzando abbastanza efficacemente la sua funzione di mediazione tra i governi.
Se queste qualità sono emerse soprattutto nel dibattito sulla riforma della governance
economica europea, nel campo della politica estera l’attenzione è stata rivolta al
rilancio della visione strategica dell’Ue e al dialogo con le potenze emergenti187.
Il nodo della rappresentanza nelle organizzazioni internazionali
Problemi legati alla rappresentanza esterna dell’Unione si sono invece registrati
all’interno delle principali organizzazioni internazionali, dove l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona rischia di produrre un paradossale effetto di indebolimento
dell’Ue. Il caso più eclatante è stato rappresentato dall’Assemblea generale (Ag)
dell’Onu, dove ad avere pieno diritto di partecipazione e voto sono solo gli stati
nazionali, mentre le organizzazioni regionali hanno solo diritto di tribuna. In
particolare, alla Comunità europea era stato garantito lo status di “osservatore” fin dal
1974. Fino a prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Ue era dunque
rappresentata sia nell’Ag che all’interno delle commissioni e dei gruppi di lavoro
(dove le decisioni più importanti prendono forma), dal paese che deteneva la
presidenza di turno. Secondo il trattato di Lisbona, invece, la presidenza di turno non
ha più funzioni di rappresentanza esterna, e il presidente stabile del Consiglio
europeo o l’Ar non possono più intervenire come faceva in passato il presidente di
turno, perché non sono rappresentanti di uno stato membro, ma dell’Unione in quanto
tale.
Per sopperire a questo problema, che rischia di minare seriamente la capacità di
influenza dell’Ue non solo all’Onu ma anche all’interno di altre organizzazioni o
agenzie internazionali (Fao, Osce, Ocse, ecc.), il 15 settembre 2010 l’Ue ha
187 Si veda Herman Van Rompuy, discorso al College of Europe, Bruges, 25 febbraio 2010,
http://www.coleurop.be/template.asp?pagename=speeches e Consiglio europeo, Conclusioni, 16 settembre
2010:
http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/stabilita_legge/conclusioni_consiglioeuropeo16092010.pdf
158
presentato all’Ag una proposta di risoluzione volta a rafforzarne il diritto di
partecipazione (assimilando l’Ue a un “membro virtuale”), pur senza attribuirgli la
membership, per la quale sarebbe necessario avviare il lungo processo di modifica
della Carta dell’Onu. La risoluzione è stata respinta e ripresentata il 3 maggio 2011
con alcune modifiche, che le hanno consentito di essere approvata con il voto
favorevole di tutti i 180 paesi dell’Ag presenti e la sola astensione di Zimbabwe e
Siria188. La Ue è dunque la prima organizzazione regionale cui viene accordato lo
status di “super osservatore”, che le consente di poter essere iscritta a parlare, di
partecipare al dibattito generale in Ag e a tutti i meeting e le conferenze convocate
sotto gli auspici dellAg, di presentare proposte ed emendamenti, di avere diritto di
replica sulle posizioni dell’Ue, ma non di avere il diritto di voto o di avanzare
candidature. Si tratta di un importante passo avanti che, che come sottolineato dall’Ar
nel suo intervento in occasione dell’approvazione,
apre la strada al possibile
rafforzamento anche dello status delle altre organizzazioni regionali nell’Ag189.
Nonostante questa vittoria diplomatica presso la Ag dell’ Onu, il nodo della
rappresentanza dell’Ue nelle organizzazioni internazionali rimane una delle principali
sfide dell’attuazione del Trattato di Lisbona, perché non sempre gli stati membri non
sembrano intenzionati a concedere all’Ue gli spazi attribuitigli dalla lettera del
trattato, e l’Ue considera invece la sua attività all’interno di quei forum uno dei
pilastri strategici della sua azione esterna190.
Il nuovo Servizio diplomatico
188 See UNGA Resolution A/RES/65/276, on “Participation of the European Union in the work of the United
Nations”, 3 maggio 2011:
http://www.marinacastellaneta.it/blog/wp-content/uploads/2011/05/N1130929.pdf
189 Statement by EU High Representative Catherine Ashton, on adoption of UN General Assembly Resolution
on EU's participation in the work of UN , May 3, 2011:
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/EN/foraff/121854.pdf
190 Al riguardo si veda M. Emerson et al., Upgrading the EU’s role as Global Actor, Ceps, gennaio 2011
159
Il Servizio diplomatico europeo (Seae) è entrato in vigore il primo dicembre 2010,
non a caso in coincidenza con il compleanno del trattato di Lisbona. Il Servizio è
l’anello centrale del nuovo sistema di politica estera europea previsto dal trattato, e la
sua entrata a regime durerà probabilmente per tutta la legislatura europea. Sarà uno
dei principali banchi di prova dell’attuazione del nuovo trattato.
Il Servizio è composto da rilevanti parti del Segretariato del Consiglio e della
Commissione, nonché da diplomatici provenienti dai diversi stati membri, e ne fanno
parte le 136 delegazioni della Commissione nei paesi terzi e nelle organizzazioni
internazionali (elevate a “delegazioni dell’Ue”), responsabili di tutte le competenze
dell’Ue: politiche, economiche, di politica estera e di sicurezza. Nella fase iniziale, il
personale complessivo è di 3.720 funzionari e il bilancio previsto per il 2011 è di 476
milioni di euro.
L’ambizione di realizzare un vero e proprio corpo diplomatico europeo, che
fornirebbe un notevole impulso al radicamento di una cultura strategica europea,
dipenderà anche dalle risorse che vi verranno destinate. A fronte delle 136
delegazioni dell’Ue, i singoli stati membri hanno infatti oggi nel mondo 3.164 tra
ambasciate, missioni e consolati, con 93.912 funzionari e un costo complessivo di
7.529 milioni di euro. Se il Seae costa a ogni cittadino europeo circa un euro l’anno,
mentre la media delle diplomazie europee è di 15 euro; il Seae ha un funzionario ogni
134.677 cittadini europei, mentre ogni stato membro ha in media un diplomatico ogni
5.335 cittadini191. Se gli stati membri riuscissero a mettere anche solo parzialmente
da parte la forte competizione che ha caratterizzato la fase di insediamento (e di
assegnazione dei posti) del nuovo Servizio, i margini di espansione, armonizzazione
e razionalizzazione dei costi potrebbero essere ancora molto significativi.
191 Ivi, p. 10
160
L’entrata in funzione del Servizio è stata preceduta da un intenso negoziato interistituzionale sull’organizzazione e la natura del nuovo Servizio. Il Parlamento, in
particolare, si è fino all’ultimo opposto all’idea, che alla fine è invece prevalsa, che il
Seae dovesse essere un servizio sui generis, autonomo sia dalla Commissione che dal
Segretariato del Consiglio, pur essendo a questi strettamente collegato.
Poiché nel Seae rientrano anche le strutture che presiedono al funzionamento della
Pesc e della Psdc, la cui gestione ha un carattere strettamente intergovernativo, la
proposta del Pe risultava particolarmente indigeribile non solo per gli Stati membri,
ma anche per la stessa Ar. Lo scontro più aspro si è registrato però sul controllo degli
strumenti finanziari dell’azione esterna, e in particolare di quelli per gli aiuti allo
sviluppo, che costituiscono il cespite più ricco del bilancio dell’azione esterna,
ammontando a circa sei miliardi di euro all’anno. L’accordo finale prevede che la
gestione dei programmi per l’azione esterna dell’Ue rimanga sotto la diretta
responsabilità
della
Commissione,
mentre
al
Seae
faccia
capo
la
loro
programmazione strategica. Nel caso dei fondi per gli aiuti allo sviluppo, la
responsabilità non solo della gestione, ma anche della programmazione è però
rimasta nelle mani del Commissario competente, il lettone Andris Piebalgs (e che
siede anche, a nome del collegio, nel Consiglio affari esteri presieduto dalla Ashton),
che insieme all’Ar sottoporrà le decisioni al collegio dei commissari. All’Ar rimane
l’ambizioso compito di garantire il coordinamento e l’armonizzazione complessiva
della struttura192.
I nodi dell’allargamento
192 Sul negoziato e la genesi del Seae ci permettiamo di rimandare a M. Comelli, R. Matarazzo, La coerenza della
politica estera alla prova: il nuovo Servizio europeo per l’azione esterna, Documenti Iai, 10, Maggio 2010:
http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iai1010.pdf .
161
Le tensioni interne all’Ue e le crescenti preoccupazioni delle opinioni pubbliche del
continente hanno avuto ripercussioni negative sul processo di allargamento, che nel
corso dell’anno ha conosciuto timidi passi avanti (in particolare verso la Croazia e la
Serbia) ma anche battute d’arresto, come nel caso di Turchia, Macedonia, Albania e
Islanda. In particolare, il negoziato con la Turchia ha dato luogo a divergenze
transatlantiche e rischia di giungere ad un problematico punto di rottura.
Il dialogo con la Serbia e la spina del Kosovo
La politica europea nei confronti della Serbia ha confermato che il desiderio di
adesione dei paesi balcanici costituisce un formidabile strumento di influenza per
l’Ue. Dopo il parere della Corte internazionale di giustizia, che il 22 luglio aveva
affermato che la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo non è in contrasto con le
norme del diritto internazionale,193 il governo serbo aveva espresso la volontà di
proseguire la battaglia diplomatica per preservare l’integratità territoriale del
paese.194 L’Ue si è dunque impegnata ad accelerare il processo di avvicinamento
della Serbia all’Ue in cambio di un atteggiamento di Belgrado più moderato sulla
questione kosovara.195 La Serbia ha confermato la sua volontà di non riconoscere il
Kosovo,196 ma a settembre si è accomodata a presentare all’Ag dell’Onu,
congiuntamente ai 27 paesi dell’Ue, una risoluzione dai toni concilianti che è stata
193
N.
Ronzitti,
Kosovo
in
mezzo
al
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1511.
guado.
Affari
internazionali,
27/07/2010,
194 Attualmente ventidue paesi dell’ Unione riconoscono l’indipendenza del Kosovo, ma Cipro, Grecia,
Romania, Slovacchia e Spagna continuano ad opporsi, temendo gli effetti negativi del secessionismo etnico. A
livello mondiale, invece, la maggioranza degli stati non riconosce il Kosovo. Dei 192 paesi membri dell’Onu, ben
122 non riconoscono l’indipendenza di Pristina.
195 Blic, Kosovo : Belgrade trouve un accord avec l’UE et appelle au dialogue. Courrier des Balkans,
http://balkans.courriers.info/article15838.html .
196 In tal senso si è espresso il ministro degli esteri Vuk Jeremic all’Onu, cfr. il resoconto della sessione
dell’Assemblea Generale : http://www.un.org/News/Press/docs/2010/ga10980.doc.htm
162
considerata il più importante successo diplomatico di Catherine Ashton. Il testo è
stato approvato all’unanimità dall’Ag e rappresenta una doppia vittoria per l’Ue, che
ai sensi della risoluzione viene anche invitata a svolgere un importante ruolo di
mediazione, per facilitare i contatti tra Belgrado e Pristina.
Il processo negoziale rimane comunque incerto, perché mentre per la Serbia esso
dovrebbe includere la questione dello status del Kosovo, per gli albanesi del Kosovo
esso dovrebbe limitarsi agli aspetti tecnici e alla cooperazione transfrontaliera. Nel
suo ruolo di mediatore, l’Ue è orientata a seguire un approccio graduale, iniziando
con questioni tecniche che possano offrire un miglioramento immediato alle
condizioni di vita degli abitanti della regione.
L’azione dell’Ue sulla questione kosovara viene esercitata anche attraverso la
presenza sul territorio conteso della missione di polizia Eulex, incaricata di assistere
le istituzioni locali nel consolidamento dello stato di diritto. Nell’espletamento dei
suoi compiti, il personale di Eulex non ha esitato a prendere di mira esponenti di
primo piano della politica kosovara: in estate gli uomini di Eulex hanno arrestato il
governatore della Banca centrale kosovara, Hashim Rexhepi.
La presenza diretta sul territorio, unita all’influenza che gli europei esercitano sul
governo kosovaro, sembra del resto essenziale per contenere le tensioni tra serbi e
albanesi. Ciò è vero soprattutto in riferimento al nord del Kosovo, regione a netta
maggioranza serba che sfugge al controllo delle autorità di Pristina. In diverse riprese
il governo kosovaro ha proposto soluzioni più drastiche per assumere il controllo
dell’area a maggioranza serba. In luglio il ministro dell’interno, Bajram Rexhepi, ha
dichiarato che, con il consenso di Eulex, delle forze speciali di polizia sarebbero state
inviate per assumere il controllo dell’area, suscitando la pronta reazione della Serbia,
secondo cui tale eventualità avrebbe potuto generare un nuovo conflitto. Il personale
163
di Eulex, a cominciare dal comandante Yves de Kermabon ha smentito i piani di
Pristina, contribuendo in modo determinante a stemperare le tensioni.197
Per quanto riguarda gli altri paesi della regione, a novembre la Commissione ha dato
parere negativo alla richiesta avanzata dall’Albania di acquisire lo status di ‘paese
candidato’, accogliendo, invece quella del Montenegro, a cui tuttavia è stato negato
l’inizio dei negoziati di adesione. Nel rapporto del commissario all’allargamento
Füle, è stata inoltre anticipata la probabile chiusura dei negoziati per l’adesione della
Croazia, prevista per il 2011. Nel frattempo, il Consiglio Giustizia e Affari interni
dell’Unione europea ha adottato la proposta della Commissione per la
liberalizzazione dei visti per i cittadini di Albania e Bosnia-Erzegovina. A giugno,
infine, il Consiglio europeo ha dato il via libera all’apertura dei negoziati di adesione
dell’Islanda, che tuttavia potrebbero essere ostacolati dalle difficoltà del paese
(confermate dall’esito dei referendum svoltisi nei primi mesi del 2011) a saldare
alcuni debiti contratti con la Gran Bretagna e i Paesi Bassi durante la fase più acuta
della crisi finanziaria.
Il rebus Turchia
Nel corso dell’anno la Turchia ha confermato la percezione di voler estendere sempre
più la sua influenza regionale, in particolare nell’area che va dai Balcani al Caucaso,
passando per il mondo arabo. In alcuni casi il protagonismo della Turchia è andato in
una direzione gradita all’Ue, come è avvenuto nei Balcani, dove l’intervento di
Ankara ha facilitato i difficili rapporti della Bosnia con Croazia e Serbia.198 Al
contrario, il miglioramento dei rapporti della Turchia con l’Iran e il contemporaneo
197 B92, Kosovo : « La déclaration de Bajram Rexhepi est une menace de guerre». Courrier des Balkans,
http://balkans.courriers.info/article15572.html.
198
European
Commission,
Turkey
2010
Progress
http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/key_documents/2010/package/tr_rapport_2010_en.pdf, p.37.
Report,
164
raffreddamento delle relazioni con Israele, in seguito all’uccisione di nove cittadini
turchi da parte dell’esercito di Tel Aviv, nel corso dell’attacco contro le imbarcazioni
di pacifisti dirette a Gaza, hanno provocato perplessità in Europa. Sia Catherine
Ashton che Stefan Fule, il commissario per l’allargamento, hanno comunque
incoraggiato il governo turco a proseguire nell’adeguamento ai parametri necessari
per aderire all’Ue. In giugno Ue e Turchia hanno aperto il tredicesimo capitolo di
negoziazione, un evento positivo, che ha spinto entrambe le parti a ritenere che le
prospettive di integrazione della Turchia siano realistiche. I responsabili europei
hanno inoltre apprezzato il pacchetto di riforme costituzionali promosse dal premier
turco Erdogan e approvato dai cittadini turchi per via referendaria. La riforma
costituzionale ridimensiona il potere dell’esercito nella politica turca e consolida lo
stato di diritto, ma risponde anche all’esigenza di adeguare la legislazione turca ai
parametri europei.199
Da parte sua, il governo turco ha ribadito la ferma volontà di adesione all’Ue, che
secondo il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu rappresenta il più importante
obiettivo strategico del paese. Ma il processo di avvicinamento continua ad essere
molto lento e dopo cinque anni di negoziati, su un totale di 35 capitoli, tredici sono
aperti e solo uno è stato provvisoriamente chiuso. Sulla situazione di stallo ha
continuato a pesare il perdurante rifiuto di Ankara di aprire le proprie frontiere agli
aerei e alle imbarcazioni provenienti da Cipro, tanto più che, come Stato membro
dell’Ue, Nicosia può valersi delle sue prerogative per ritardare l’apertura degli altri
capitoli di negoziato.200 Sull’integrazione della Turchia permangono inoltre
profonde divergenze in seno all’Unione: mentre Francia e Germania hanno
199 N. Tocci, Due scenari per la Turchia. Affari Internazionali,
23/09/2010, http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1554.
200 In proposito si veda N.Birch, Turchia: la questione di Cipro in prima linea. Osservatorio Balcani Caucaso, 2/3/2011,
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Cipro/Turchia-la-questione-di-Cipro-in-prima-linea-89564.
165
continuato a ribadire la loro ritrosia (nonostante la seconda abbia fatto intravedere
degli spiragli), in Gran Bretagna il nuovo premier Cameron ha ribadito, dopo la sua
elezione a maggio, il suo sostegno all’adesione turca. L’integrazione europea di
Ankara continua comunque ad animare accesi dibattiti, e secondo i dati dei
Transatlantic Trends 2010, solo il 23% degli europei la vede ancora con favore, con
un preoccupante calo rispetto agli anni precedenti.
L’adesione della Turchia ha inoltre dato vita a nuove tensioni a livello transatlantico.
Alcuni responsabili statunitensi hanno infatti imputato allo stallo dei negoziati con
l’Ue la ragione delle crescenti aperture di Ankara verso il mondo arabo e l’Iran.201
La Commissione ha respinto le accuse, negando che si possa instaurare una rigida
connessone tra i negoziati di adesione all’Ue e la politica estera di Ankara.202 Ma,
soprattutto, i responsabili comunitari hanno ribadito che il processo di allargamento
deve essere realizzato in base all’adempimento di requisiti politici ed istituzionali
prefissati, e non a considerazioni di natura strategica, e nonostante l’impegno del
governo di Ankara rimangono numerosi ritardi nel processo di adeguamento della
Turchia ai parametri europei.
Il naufragio della politica Euro-mediterranea
Le rivolte esplose nei paesi della sponda sud del Mediterraneo tra la fine del 2010 e
l’inizio del 2011 sono state precedute da una lenta agonia dell’Unione per il
Mediterraneo (Upm). Il vertice dei capi di Stato e di governo previsto per giugno è
stato prima rinviato a novembre, poi ulteriormente procrastinato senza neanche
l’indicazione di una data. Il comunicato di Francia, Egitto e Spagna, emesso il 15
novembre all’indomani del rinvio del vertice, si limitava ad auspicare che esso si
201 R. Alcaro (a cura di), Le relazioni transatlantiche, l’evoluzione dei rapporti tra Stati Uniti e Europa, gennaio-giugno 2010,
pp. 27-28, http://www.iai.it/pdf/Oss_Polinternazionale/pi_f_0002.pdf.
202
Ivi,
p.95.
European
Commission,
Turkey
2010
Progress
http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/key_documents/2010/package/tr_rapport_2010_en.pdf,
Report,
166
potesse tenere nei mesi successivi, e che i negoziati israelo-palestinesi compiessero
nel frattempo i progressi necessari a permettere che leader arabi e israeliani potessero
riunirsi nel quadro di una Unione di cui fanno ugualmente parte.203 Tuttavia, solo
pochi giorni prima i rappresentanti dei governi membri dell’Upm riuniti a Bruxelles
avevano formalizzato l’accordo sul primo bilancio (di 6,2 milioni di euro per un
anno), sul primo piano di lavoro e sul regolamento interno del Segretariato dell’Upm.
Le rivolte esplose nel mondo arabo hanno aperto un ampio dibattito sul ripensamento
della politica euro-mediterranea. Ampio accordo esiste tra gli stati dell’Ue sulla
necessità di appoggiare le trasformazioni politiche in corso. Tuttavia, le proposte
emerse su questo tema all’inizio del 2011 sembrano più orientate a migliorare la
politica seguita fino ad oggi dall’Ue, ovvero essenzialmente la Politica di Vicinato
(Pev), piuttosto che a una profonda revisione strategica che sia all’altezza dei
cambiamenti in atto. Se gli orientamenti emergenti mirano ad un utilizzo più serio e
coerente della condizionalità e a una maggiore attenzione verso il settore privato
dell’economia, sarà anche essenziale sviluppo di un più aperto rapporto con gli attori
politici e sociali interni a quei paesi, per troppo tempo preferiti dai paesi europei al
dialogo con governi autoritari e repressivi.
Il 2010 ha anche confermato il crescente radicamento anche di nuovi attori nella
regione mediterranea, come la Cina, l’India e dei paesi del Consiglio della
cooperazione del Golfo, con cui l’Ue dovrà sempre più misurarsi e davanti ai quali è
apparsa invece profondamente ripiegata su se stessa. Incerto risulta ancora il destino
dell’Upm, di cui alcuni stati, in particolare la Gran Bretagna, vorrebbero fare
un’organizzazione completamente staccata dall’Ue, che cerchi nel mercato
internazionale piuttosto che a livello comunitario i mezzi per la promozione dei suoi
progetti regionali. La politica euro-mediterranea potrà invece avere qualche speranza
203 Si veda R. Aliboni, Che fare dell’Unione per il Mediterraneo? In AffarInternazionali, 21 novembre 2010:
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1603
167
di successo solo se sarà in grado di integrare i piani di assistenza e sviluppo con una
politica estera europea di più alto profilo, in grado di sfruttare tutti gli strumenti della
Pesc e di superare le asfittiche parcellizzazioni perseguite dalle politiche estere e di
sicurezza nazionali.
Il miglioramento dei rapporti con Mosca
Le relazioni tra la Russia e l’Ue hanno parzialmente beneficiato della strategia di
“rassicurazione” dei rapporti con Mosca avviata dal presidente Obama dopo il suo
insediamento. A fine dicembre il Senato americano ha ratificato il nuovo trattato Start
sulla riduzione degli arsenali nucleari delle due ex superpotenze, aprendo la strada
alla ratifica dello stesso da parte della Duma russa. Inoltre nel vertice Nato di Lisbona
del 19 novembre si è consolidata la volontà di coinvolgere la Russia nel sistema di
difesa antimissile, che aveva rappresentato una delle ragioni di maggiore divisione
con Mosca, anche se vero e proprio accordo sembra ancora lontano204. Il
miglioramento dei rapporti Ue –Russia è stato influenzato positivamente anche dal
riavvicinamento tra Mosca e Varsavia, cui hanno contribuito anche le reazioni
responsabili che i governi dei due paesi hanno tenuto in seguito all’incidente aereo di
Smolenk del 10 aprile 2010, nel quale hanno perso la vita il Presidente polacco Lech
Kaczynski e altri esponenti politici e funzionari polacchi. Nel vertice Ue-Russia di
giugno è stato avviato il Partenariato per la modernizzazione, che prevede un
impegno comune o sforzo congiunto per l’attuazione di riforme economiche e sociali
in Russia. Nell’analogo vertice di dicembre, che il presidente della Commissione
europea José Barroso ha definito il più proficuo degli ultimi anni, sono stati compiuti
dei passi avanti verso l’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale del
commercio (Omc), anche se l’atteggiamento di Mosca sul tema rimane non
pienamente lineare.
204 Vedi M.Comelli, Allegro, non troppo, in AffarInternazionali.it, 14 gennaio 2011,
168
Conclusioni
Nel 2010 le conseguenze della crisi finanziaria ed economica e le trasformazioni in
corso nel sistema internazionale hanno approfondito tensioni e divergenze di visione
strategica tra gli stati membri dell’Ue. La Politica estera e di sicurezza comune ne ha
risentito particolarmente, proprio nella delicata fase di attuazione delle innovazioni
introdotte dal trattato di Lisbona. La conseguenza è stata di duplice segno. Da un lato
le nuove figure istituzionali, il presidente stabile del Consiglio europeo e l’Ar/Vp,
hanno confermato il significativo valore aggiunto che potrebbero rappresentare per la
proiezione esterna dell’Ue se i rapporti tra gli stati membri dell’Ue diventassero
meno competitivi. In particolare, il nuovo Servizio diplomatico europeo può
costituire un laboratorio ideale per il consolidamento di una cultura diplomatica
comune e per fornire un attivo contributo all’Ar per un più efficace coordinamento
delle scelte di politica estera compiute in un contesto intergovernativo, con le
politiche e gli strumenti finanziari gestiti dalla Commissione. Con l’obiettivo non
ancora di avere una politica estera unica dell’Ue, ma almeno una politica estera in
grado di utilizzare tutti i propri strumenti in maniera più dinamica e coerente. Anche
gli sviluppi nel corso dell’anno hanno tuttavia confermato che le innovazioni
istituzionali non potranno essere sufficienti finché gli stati membri (o almeno i più
importanti tra essi) non sceglieranno di compiere un investimento più netto e di
carattere
strategico sulla politica estera europea. Lo spettacolo di incertezza,
divisione e competizione manifestata dagli stati membri anche tra la fine del 2010 e
l’inizio del 2011 davanti alle rivolte sulla sponda sud del Mediterraneo e, in
particolare, alla guerra civile in Libia, conferma questa percezione di inadeguatezza.
Divisioni che si riflettono molto negativamente anche sul negoziato di adesione della
Turchia, le cui implicazioni continuano a produrre tensioni tra Ue e Stati Uniti e non
mancheranno di ripercuotersi anche sugli equilibri regionali e sull’influenza (sempre
più debole, nonostante gli ingenti aiuti allo sviluppo investiti) dell’Ue in Medioriente.
169
Si tratta di un rallentamento che, in realtà, ha riguardato il processo di allargamento
anche verso i paesi dei Balcani occidentali (con le parziali anche se rilevanti
eccezioni di Croazia e Serbia) e dell’Islanda. Un’evoluzione positiva ha
caratterizzato, infine,
i rapporti con Mosca, favorita anche dalla politica di
“rassicurazione strategica” avviata dall’amministrazione americana e che ha
consentito di superare una delle principali ragioni di divergenza transatlantica degli
ultimi anni.
170
Rehashed
Commission
Delegations
or
Real
Embassies?
EU
Delegations Post- Lisbon, with M. Comelli, IAI Working Papers No. 1123,
July 2011, http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iaiwp1123.pdf.
Abstract
The entry into force of the Lisbon Treaty and the creation of the European External
Action Service (EEAS) have transformed the delegations of the EU abroad. While
they used to deal with trade and aid only, they are now entitled to deal with foreign
and security policy, coordinating and representing the positions of the EU in third
countries. While this is an important innovation, it also presents new challenges, like
blending the expertise of EU officials with that of national diplomats and developing
a common identity and sense of purpose among new officials. An adequate learning
and training programme would be necessary to address these two challenges. In
addition, EU delegations to international organizations are confronted with specific
problems: the member states’ reluctance to recognize the new competences conferred
by the Treaty to the EU and the discrepancies between the new provisions of the
EU’s external representation and the internal procedures of international
organizations themselves. In order to use all the space for manoeuvre provided for by
the Treaty, EU delegations must pursue a double objective: further adapting the EU’s
external representation to the procedures of the main international organizations; and
promoting deeper coordination between the EU and the member states, particularly
when shared competences are at stake. Delegations represent an important test case
for the effectiveness of the EEAS: they are the face of the EU in third countries and
international organizations.
1.
Introduction
171
All diplomatic services have their own representation in third countries and
international organizations. The European External Action Service (EEAS) is no
exception. Indeed, according to art. 4 of the Council decision that established the
Service, “The EEAS shall be made up of a central administration and of the Union
Delegations to third countries and to international organizations” (Council of the
European Union 2010). This paper analyses the role of EU delegations as a result of
the entry into force of the Lisbon Treaty and the creation of the EEAS. It argues that
while delegations have extended their functions, going as far as representing the EU’s
common foreign policy positions, they are confronted with new political and
functional challenges.
This paper will first analyse the new functions of the EU delegations post-Lisbon in
foreign policy and will then focus on the challenges of carrying them out. In
particular, it will look at the problems of merging seconded member state (MS)
diplomats with EU officials, while creating a common identity and sense of purpose
among the EEAS personnell, and especially among those serving in the delegations.
In fact, the EEAS’s personnell must convey abroad a sense of unity of the EU and of
its foreign policy.
The paper will then turn to a specific challenge concerning the role of EU delegations
to international organizations. While the Lisbon Treaty does not substantially alter
the division of competences in the field of the Common Foreign and Security Policy
(CFSP), the redistribution of competences in other policy areas may have a huge
impact on the EU’s action in international organizations.205 The MS, however, are
reluctant to recognize the new competences conferred by the Treaty to EU
delegations, especially in a period of re-nationalization of foreign policy such as the
current one. The Treaty, furthermore, does not introduce sufficient provisions aimed
205
See, in particular, Art. 5, TUE, and Art. 2-6, TFUE.
172
at adapting the EU’s external representation to the working methods of international
organizations. As a consequence, the implementation of the Lisbon Treaty, and the
related upgrade of EU delegations to international organizations, is proving more
controversial than originally expected.
2.
Coordinating and representing the EU’s common position
Before the entry into force of the Lisbon Treaty in December 2009, the EU as such
was not represented abroad, insofar as the delegations were entitled to represent only
the Commission and dealt exclusively with issues over which the Community had
competence. This meant that the delegations were mostly busy managing large
technical and financial cooperation programmes, and implementing trade and
cooperation agreements. Some delegations also had political officers, but many, such
as most of those based in Africa, did not. Political and security issues thus fell outside
the remit of the delegations and were dealt with by the embassies of individual MS,
whose positions were coordinated and represented externally by the country holding
the rotating EU Presidency. When the MS in charge of the Presidency was not
represented in a particular third country, a complex system was set up, whereby the
MS holding the previous and/or following Presidency would take up the task.
With the entry into force of the Lisbon Treaty, the EU was finally granted legal
personality (art. 47 Treaty on European Union - TEU) and the Commission
delegations were turned into EU delegations, and their functions extended to the
Common Foreign and Security Policy (CFSP). What exactly has this entailed? The
Lisbon Treaty has not provided for a transfer of foreign policy competences from the
MS to the EU, and, therefore, from national embassies to EU delegations. Indeed,
even after Lisbon, CFSP remains essentially intergovernmental in character, as
173
clearly affirmed in declaration No. 14 attached to the Lisbon Treaty.206 Art. 32 of the
Lisbon Treaty states that EU delegations and MS embassies shall cooperate and
contribute to formulating and implementing the common EU approach. This
provision implies, first of all, that EU delegations will have to work closely with MS
embassies and delegations in order to reach a common EU position. In case a
common position is agreed among MS, it is the EU delegation that will represent
such position vis-à-vis third countries.
Before the entry into force of the Lisbon Treaty, the tasks of agreeing on a common
position and representing it externally were carried out by the country holding the EU
Presidency. Today, the common EU position is agreed during a meeting chaired by a
representative of the EU delegation. As a rule, these meetings are organized more or
less once a month, but in a situation of crisis meetings may take place every 2-3 days.
As for their format, usually meetings take place at ambassadorial/head of delegation
level, although they can take place also at lower levels, such as deputy heads of
missions, heads of trade sections, etc.
It would be naïve to assume that the country holding the EU Presidency would
simply give up its leadership role. This is especially true when the country in
question is a large MS, or if the MS is tied to a particular third state by colonial
legacy or special strategic and/or trade interests. In addition and as analysed below,
MS do not easily give up their powers as far as representation in international
organizations is concerned, particular when the matter to be dealt with refers to
shared EU-MS competences.
206
Art. 32 of the Treaty on European Union (TEU) reads: “The provisions covering the Common Foreign and Security
Policy including in relation to the High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy and the
External Action Service will not affect the existing legal basis, responsibilities, and powers of each Member State in
relation to the formulation and conduct of its foreign policy, its national diplomatic service, relations with third
countries and participation in international organizations, including a Member State’s membership of the Security
Council of the United Nations.”
174
3.
New skills for a common diplomatic ésprit de corps
Beyond the technicalities of who and how MS positions are coordinated is the deeper
political problem of reaching a common EU position. Indeed, the different interests
and positions of MS do not always easily merge into a common EU position. This is
particularly true at a time of re-nationalization of foreign policy such as the current
one, when MS are unlikely to seek greater integration in foreign policy as well as in
other policy areas, unless they are induced to do so by an immediate necessity.207
However, the set up of a common EU diplomatic service may gradually lead MS to
share the same appreciation of foreign policy and diplomatic issues, which may in
turn lead to a convergence in their positions. Indeed, when representatives of MS are
grouped together in a common institutional structure, they are more likely to identify
and reach a common EU position and act accordingly, rather than merely follow the
directives received from their capitals. A number of studies208 have found that the
socialization of national diplomats working within EU structures, such as the Policy
Unit, has induced them to act as EU officials, even when they were seconded by a
national foreign ministry, to which they would return after the end of their mandate in
Brussels.
In the case of EU delegations, and more broadly, of the EEAS, this process of
socialization can only be a first step in creating a veritable ésprit de corps, common
identity and sense of purpose. Devising an innovative and effective learning and
training programme for new EU diplomats can respond to the challenge of creating a
common identity. Putting together national diplomats and EU officials does not imply
only a problem of loyalties and allegiances, but also a problem of skills, since the two
207 For the concept of “Europe of necessity” as opposed to “Europe of choice” see (Merlini 2009) and Comelli (2009).
208
See in particular A.E. Juncos and K. Pomorska (2006).
175
categories have traditionally operated in different ways, each one attaching more
importance to specific professional attitudes and related job descriptions.
In fact, the transformation of EU delegations as a result of the Lisbon Treaty and the
establishment of the EEAS have led to an increase of functions carried out by the
delegations. Besides trade and aid offices, EU delegations now have political and
information/communication sections but, unlike national embassies, they still lack
military, consular and cultural sections. In addition, EU delegations are increasingly
equipped to deal with Freedom, Security and Justice (FSJ) policies and, eventually,
assist MS in consular matters (Lloveras Soler 2011:15). In fact, EU delegations may
provide consular protection to EU citizens at the request of MS and on a resourceneutral basis. Some MS, and especially the small ones, went as far as asking that the
EEAS be accorded full consular tasks, like the issuing of short-term Schengen visas,
but this proposal has encountered strong resistance from other MS such as the United
Kingdom.
Generally, while national diplomats are more skilled in shaping foreign and security
policy matters, conducting negotiations, and appreciating the political aspects of a
situation, Commission officials are better equipped at managing large cooperation
programmes. Blending these two types of professionals with their distinct expertise
and working cultures will undoubtedly provide the EEAS with an extraordinary asset,
but it will not be an easy process. On the one hand, a national diplomat who is
appointed as head of an EU delegation in a country where relations with the EU are
mainly about trade and aid may be ill-equipped in managing large assistance
programmes. On the other hand, a Commission official heading an EU delegation
where political relations are sensitive, may not be ready for a job involving fine
diplomatic skills and political sensitivity. Political reporting is another important
activity that will be increasingly carried out by diplomats serving in EU delegations.
176
This will involve expertise that EU officials may lack, requiring apposite training, as
well as the willingness of MS embassies to share information with EU delegations.
The plurality of policy areas dealt with by the Commission delegations also implies
that besides EEAS personnel, delegations will continue to host officials that report
functionally and administratively to the Commission.209 As such, strong coordination
among different offices and an effective leadership by the head of delegation are
imperative.
4.
Towards a Lisbon paradox: EU Delegations to International Organizations
Aside from these general challenges facing the newly established EU delegations, a
specific problem arises regarding EU delegations to international organizations. It is
to this thorny question that the paper now turns. The redistribution of competences
established by the Treaty, in fact, may have a huge impact on the EU’s action in
international organizations. Most MS, however, are very diffident towards the new
competences and powers of external representation that the Treaty grants to the EU.
Consequently, MS are reluctant to recognize the stronger role of EU delegations to
international organizations. This political problem is complemented by a procedural
one. Discrepancies between the new mechanisms of the EU’s external representation
and the working methods of international organizations are undermining the
implementation of the Lisbon Treaty. International organizations, in fact, were
created by states and for states. As such, their internal rules rarely take into account
the role of supranational organizations or the coordination of policies among groups
of member states.
209
However, the Head of Delegation is personally responsible for the whole budget of the delegation.
177
Out of 136 EU delegations, 15 are to international organizations. More precisely, four
delegations are to international organizations – the Organization for Economic
Cooperation and Development (OECD), the United Nations Educational, Scientific
and Cultural Organization (UNESCO), the United Nations (UN), and the World
Trade Organization (WTO) – and nine to regional organizations – the Andean
Community, the Asia Europe Meeting (ASEM), the Association of South East Asian
Nations (ASEAN), the Council of Europe, the European Economic Area (EEA), the
Gulf Cooperation Council, Mercosur, the Organization for Security & Cooperation in
Europe (OSCE), and the South Asian Association for Regional Co-operation
(SAARC). Finally, the EU has one delegation at the G7/G8 and one at the G20.210
4.1. EU Delegations to International Organizations: The Legal Set-Up
The division of competences between the EU and the MS provided by the Treaty is
key to the EU delegations’ evolutionary role within international organizations. Such
a division is established by Art. 5 of the TEU, which underlines that the limits of EU
competences are governed by the principle of conferral, and by Articles 2-6 of the
Treaty on the Functioning of the European Union (TFUE).211 This aspect is becoming
more relevant in the light of the growing competition between the EU and the MS for
representation in international organizations, and in particular of the expectations of
the countries holding the rotating Council Presidency.
In international organizations where exclusive EU competences are involved (such as
trade policy, the Customs Union or monetary policy - art 3 TFUE), the EU is the
210
In addition, the EU has been a contracting party to 37 international organizations (excluding the UN agencies where
it is often only an observer), and the European Communities/EU has entered into 649 bilateral treaties and 249
multilateral ones. See European Commission, Treaties Office Data Base:
http://ec.europa.eu/world/agreements/default.home.do
211
According to the principle of conferral, “the Union shall act only within the limits of the competences conferred
upon it by the Member States in the Treaties”.
178
main subject. It is therefore the only actor allowed to adopt legally binding acts,
while the MS can do so only if empowered by the Union or for the implementation of
EU decisions.212 These cases apply to the WTO and the World Customs Organization
(WCO), where the EU delegation has a preeminent position with respect to the MS,
also in view of the EU long-established experience in the field of trade (Emerson at
al. 2011: 46).
Shared EU competences are at stake in most international organizations and agencies
(UN, FAO OECD, OSCE, etc.). The most controversial cases fall in this category.213
In the international organizations where shared competences are involved, the EU is
generally present with the status of “observer” or, rather, with that of “enhanced
observer” or “virtual member” alongside MS. In the last two cases, the EU has full
functional rights to participate, without however a vote or the full status of a MS.
When so-called parallel competences214 are involved, (research, technological
development and space, development cooperation and humanitarian aid), EU action
cannot prevent MS from exercising their competences. In these cases the EU can at
most act as an observer or, more rarely, as a virtual member.215
Given this situation, the EU should try upgrade its status in each international
organization in the coming years, defining practical arrangements on a case by case
212 Art. 2.1, TFUE.
213 The shared competences in question regard the environment, agriculture, transport, energy, and the area of
freedom, security and justice, (Art. 4, TFUE), and their exercise by the EU is subject to the application of the principle
of subsidiarity (Art. 5.3). At the same time, MS exercise their competences in these areas to the extent that the Union
has ceased exercising its own (Art 2.2, TFUE).
214 i.e., when the Union has competence to carry out activities, in particular to define and implement programmes.
However, the exercise of these competences shall not result in MS being prevented from exercising theirs, as in the case
of shared competences (Artt. 4.3 and 4.4).
215 Finally, there are international organizations in which MS are members or contracting parties and the EU has no
institutional status. Examples include the United Nationas Security Council (UNSC), the North Atlantic Treaty
Organization (NATO) and the World Bank. No EU delegations exist to these orgaizations. The EU delegation at the
UN, however, acts also within the UNSC (see below).
179
basis (as recently accomplished at the UNGA, see below). In particular, when
exclusive or shared competences are at stake, the EU should move towards full
membership and, therefore, full representation. (European Parliament 2011:10). The
MS, however, are not inclined to subscribe to this view.
4.2. EU Delegations to International Organizations: The Practice
Some of the most interesting and controversial cases of EU delegations to
international organizations are those to the UNGA, FAO, WTO, OECD and OSCE. A
brief analysis of these cases highlights some of the challenges EU delegations are
faced with.
The UN General Assembly (UNGA) is one of the international organizations where
the entry into force of the Lisbon Treaty has created new problems for EU
representation and, therefore, for the role of the EU delegation. Before the Treaty, the
country holding the rotating Council Presidency could intervene at the UNGA on
behalf of the EU, and, as a sovereign state, could benefit from the rights associated
with being a full member of the UN. After Lisbon, it is the High Representative
(HR),216 the President of the European Council,217 or the President of the
Commission,218 who represents the EU. However, these EU personalities do not
represent an actor – the EU – with full UNGA membership. The EU, in fact, is just
one of the 67 permanent observers to the UNGA, with the right to take the floor (but
not to vote) after all full UN members have done so. As a consequence of the Lisbon
Treaty, EU representatives and delegation officials, rather than being upgraded, have
been paradoxically excluded from UN executive boards and steering groups, UNGA
committees, working groups and UN conferences, where the most important UN
policies are shaped and defined.
216
Art. 18, TEU
Art. 15, TEU
218
Art. 17, TEU
217
180
In order to solve this problem, on 13 September 2010, a draft resolution was
presented at the UNGA by EU MS for the upgrading of the EU’s status and
modalities of participation within the UN. To the surprise of many in Europe, a
motion was adopted (by 76 votes in favour, 71 against and 26 abstensions) to
postpone the vote on the resolution. The main reasons for this setback have been the
lack of preparation for the negotiation and the exclusion of other regional
organizations from the modalities of participation granted to the EU.219 After months
of tough negotiations with most UN members, as well as of confrontation among EU
MS, on 3 May 2011, the EU’s diplomacy succeeded in obtaining UNGA resolution
65/276, which finally upgraded the EU’s status as observer in the Assembly, with
180 votes in favour and two abstensions (Zimbabwe and Syria). The resolution
represents a notable step in the strengthening of EU representation at the UN, as it
grants the EU some of the most relevant rights of participation and representation of
full UNGA members, with the exception of the right to vote or to field candidates.
The EU has become, therefore, the first regional organization allowed to present
proposals and amendments (albeit orally) and to reply regarding EU positions.220
Since the adoption of the resolution, EU delegation officials have started replacing
the representatives of the rotating Presidency at the Special Committee on
Peacekeeping and in other UNGA working groups. Nevertheless, MS still argue that
where competences are shared, the EU and the MS should be represented by the
country holding the Council Presidency. But according to the Lisbon Treaty, the
rotating Presidency should not play any role of external representation in
219
See also J. Wouters, M. Emerson, 2010
One of the most relevant implications of this resolution, which was not present in the text presented in September
2010, is the possibility for other regional organizations “whose member states have agreed arrangements that allow that
organization’s representatives to speak on behalf of the organization and its member states”, to request and obtain the
same modalities for participation granted to the EU. This opens the prospect for regional organizations (e.g., the Arab
League, the African Union or Asean) to act collectively and play a stronger role within the UN. See UN General
Assembly, 2011, para. 3. See also G. Grevi, 2011.
220
181
international forums. This problem arises not only at the UN, but also in other
international organizations, where MS claim that they are entitled to chair some
working groups dealing with topics that fall under shared competences.
As far as the organization of the EU delegation to the UN is concerned, since the
Lisbon Treaty’s entry into force, the European Commission’s delegation in New
York (established in 1974) and the EU Council Liaison Office (created in 1994), have
been unified under the EU Council’s representative, Pedro Serrano, who acts as Head
of Delegation. The EU delegation has increased its cooperation with the embassy of
the rotating EU Presidency. During recent presidencies, EU and national officials in
New York have worked together in joint teams on specific UN issues (Pirozzi 2011).
After Lisbon, the EU delegation has also increased its representative role at the UN
Security Council, even though the EU does not have an institutional status therein.221
Since the beginning of 2010, the EU delegation in New York has been invited to take
the floor during UNSC open debates on average two or three times per month,
presenting the EU’s common position on behalf of the 27 member states and
replacing the rotating Presidency. Furthermore, the EU delegation played a leading
role (together with the successive Belgian and Hungarian presidencies of the Council
in 2010-2011) in coordinating negotiations on the upgrading of the EU’s status and
modalities of participation within the UNGA (Grevi, 2011).
The case of FAO is one of those where full membership has been granted both to the
EU (since 1991) and to the MS. This is due to the fact that the FAO system involves
exclusive competences of the EU and shared competences with the MS. The EU also
has relevant agricultural competences, which nevertheless are not exclusive. Whether
the representation and the vote are exerted by the EU or by the MS is determined by
221
The Art. 34.2 TEU, establishes that when the Union defines a common position on a topic on the UNSC agenda,
“those member states which sit on the Security Council shall request that the High Representative be invited to present
the Union’s position”.
182
the specific topic on the agenda. On topics of exclusive EU competence, the
European Commission is responsible and its vote is equivalent to that of the 27 MS
(European Parliament, 2010: 18).
After the entry into force of the Lisbon Treaty, however, the Commission has
underlined that the EU Delegation to FAO should be the sole representative on
exclusive and shared competences. Since relevant national interests are at stake, in
particular in the field of agriculture, MS are very jealous of their role and reluctant to
accept the growing coordinating role played by the EU delegation in Rome.222 MS,
therefore, complain that the rotating Council presidency should continue to play a
role when shared competences are involved. After months of tensions between EU
representatives and the MS, which had a negative impact on the functioning of the
EU delegation to FAO, a post-Lisbon transitional arrangement has finally been
reached. It establishes that at any meeting or working group, the EU delegation
would indicate whether the competence belongs to MS or to the EU, and this
determines who is entitled to speak. The transitional arrangement, moreover, is
expected to be revised after the forthcoming increase of personnel in the understaffed
delegation in Rome. The FAO model is a good example of an important EU
delegation, where the implementation of the Lisbon Treaty is hampered by the MS
and the upgrade of the delegation’s role risks being compromised.
The most developed model of EU representation is at the WTO, one of the few cases
where the EU is a full member, alongside the MS, which however do not retain any
powers. This is due to the EU’s long experience in trade matters, one of its most
important exclusive EU competences. At the WTO, therefore, the EU is the sole
negotiator acting on behalf of the MS, whose position is generally negotiated in
222 Interview with an official of the EU delegation to FAO in Rome, April 2011. See also M. Emerson et al,
Upgrading the EU’s role, cit., p. 76
183
Brussels beforehand. This is why competition between MS and EU representatives is
less relevant at the WTO than elsewhere. After the Lisbon Treaty, however, the split
of the Commission delegation in Geneva into two EU delegations (one for WTO and
one for UN affairs), has given rise to problems of coordination and lack of
information exchange. This division was made in order to grant stronger autonomy to
the Commission on trade matters (compared to foreign policy more strictly defined).
But this separation is now risking to nurture new tensions, duplications and overlaps
between the two EU delegations, which could undermine the most advanced EU
representation to international organizations. Moreover, MS maintain expensive
observer missions in Geneva to watch over the activities of the two EU delegations,
and prospects for their withdrawal are low, notwithstading the budgetary austerity
that each national diplomacy is experiencing. In order to cut costs for MS and to
streamline the EU presence in Geneva, in the post-Lisbon era a more effective
circulation of information between the EU delegations and the MS representatives in
Brussels would be of order.
The status of “quasi member” is granted to the EU at the OECD, whereby an
agreement pinpoints the EU Commission as the only actor allowed to speak at the
Trade and Agriculture Committee. In the other committees, both the EU and the MS
may participate. While the EU’s status is not expected to change in the foreseeable
future as a result of the entry into force of the Lisbon Treaty, arrangements for better
coordination between the EU delegation and MS will probably be updated. After
Lisbon, the EU delegation to the OECD is expected to speak on issues of exclusive
and shared competence when a common position has been reached.223 Also here,
however, MS are hesitant to grant more powers to the EU delegation. Given the key
role in development policy played by the OECD, a more consistent EU presence and
223
If the rotating Presidency is invited to speak on behalf of the EU, it does so through the High Representative.
184
a single diplomatic voice would be extremely important for the EU’s enhanced
external action.224
Finally, the OSCE is the largest regional organization existing in Europe, with 56
members (from Europe, Central Asia and North America) all with full participant
status. As a result of the Lisbon Treaty’s innovations in the CFSP domain, the EU
acts as a “virtual member” within the organization, as it has full operational rights to
participate, but without a vote or full member status. The OSCE, moreover, is one of
the organizations with which the EU “shall establish all appropriate forms of
cooperation” (European Parliament 2010: 25).225 The current participation of the
Head of the Delegation at the OSCE proceedings is based on a consolidated practice.
When the issue under discussion falls mainly under the competence of the EU, the
delegation intervenes as an OSCE member. Moreover, the EU delegation to the
OSCE can participate in all proceedings unless the topic under discussion clearly falls
outside EU competences. The EU delegation is gradually playing a stronger role in
the coordination of the MS, despite the reluctance of the larger MS (Germany,
France, the UK, etc.) to devolve powers on security issues. An overall reform of the
OSCE bureaucratic structure in order to adapt it to the new strategic challenges of the
Euro-Atlantic area is very urgent, as often suggested also by Russian President
Medvedev.226 But the lack of consensus among Russia, the EU and the US on the
future role of the organization is slowing down possible changes.
5.
Concluding remarks: Real Embassies for a weak Foreign Policy?
224
The EU delegation at the OECD contributes to the definition of the working programme, and the Head of
Delegation participates in the OECD decision-making body, the Council. The EU representative is not allowed to vote
when legal acts are adopted by the OECD Council, but he/she may be elected as a member of the bureau of subsidiary
bodies and has full right to contribute to the preparation of texts, including legal acts.
225
Art. 220, para 1, TFEU.
226
See, for example, the so called Corfu Process and the conclusions of the Astana Summit on December, 2010, where
OSCE replied to Medvedev’s proposals on European Security.
185
The entry into force of the Lisbon Treaty and the creation of the EEAS have
transformed the delegations of the EU abroad. While the Commission delegations
have traditionally dealt with trade and aid, EU delegations have been entitled to deal
with foreign and security policy matters, coordinating and representing the EU’s
position in third countries. On the one hand, this is an important innovation on the
way to the long and tortuous path towards the supranalization of CFSP, even though
competences have not been transferred to the EU in this area. On the other, this
creates a number of challenges. First, the new delegations will need to adapt to this
transformation and be able to perform well in terms of both representing and
implementing the EU’s common positions, also in foreign and security policy
matters, and managing and implementing large assistance programmes. This means
that the new personnel, and especially heads of delegations, must have the necessary
skills and expertise to live up to these tasks. For this purpose, providing effective
training for EEAS officials, and particularly for those serving in the delegations is of
the essence. Training should not be confined to the moment when officials enter the
service, but throughout their careers therein. An EU training programme will also be
instrumental in developing a common identity and sense of purpose among new
officials, some of whom come from national diplomacies, others from EU
institutions.
A more specific challenge refers to the role of EU delegations to international
organizations. MS’ reluctance to recognize the EU delegations’ competences
conferred by the Lisbon Treaty is undermining the Treaty’s implementation.
Discrepancies between international organizations’ working methods and the new
mechanisms of the EU’s external representation nurture further this problem. The
competition between the EU and the MS confirms that the lack of cohesion and
strategic vision within the EU remains the main obstacle to the upgrade of the EU
delegations. Nevertheless, important steps ahead have been recently accomplished,
186
such as the update of the EU’s status and modalities of participation within the
UNGA. In order to use all the space for manouevre within the Treaty, EU delegations
must pursue a double objective: further adapting the EU’s external representation to
the procedures of the main international organizations; and promoting deeper
coordination in strategic areas, particularly when shared competences are at stake.
Delegations represent an important test case for the effectiveness of the EEAS since
they represent the EU in third countries and international organizations. The role of
EU delegation in representing the EU’s common position is already a step forward,
not least because it conveys a sense of unity to third countries. This may induce third
countries to revise their idea of a fragmented Union when it comes to foreign and
security policy, but it may also raise excessive expectations concerning the
development of a more effective, consistent and visible European foreign policy. The
latter is no doubt a risk. But it is also an opportunity for the EEAS and its delegations
to build, step by step, an effective European foreign policy.
187
La politica estera europea nel 2009 e le potenzialita’ del Trattato di
Lisbona
in Rapporto sull’integrazione europea 2010, B. Cugusi e J.L. Rhi-Sausi (a cura di),
Cespi, Fondazione Gramsci, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 229 - 245
L’Ue e la trasformazione del quadro internazionale
I mutamenti del sistema internazionale che avevano preso avvio nel 2008, in seguito
all’esplosione della crisi finanziaria negli Usa, hanno continuato ad approfondirsi nel
2009, trovando l’Unione europea scarsamente preparata e poco coordinata.
Nonostante alcuni sforzi di cooperazione a livello comunitario, i governi europei
hanno reagito alla crisi economica prevalentemente attraverso l’adozione di misure di
protezione delle principali aziende e istituti di credito nazionali. Questa dinamica ha
avuto un riflesso negativo sulla coesione interna dell’Ue.
L’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti ha rappresentato una
svolta importante per il rilancio di quel “multilateralismo efficace” che l’Unione pone
da tempo al centro del suo approccio strategico. Ma le aperture multilaterali della
nuova amministrazione Usa hanno coinciso anche con la richiesta di maggiori
assunzioni di responsabilità sulla scena internazionale, cui l’Ue e i paesi membri
hanno risposto spesso in modo disomogeneo: dalla richiesta di un maggior numero di
soldati da inviare nei teatri a maggiore intensita’ bellica, all’attenzione per un piu’
rigoroso rispetto degli impegni per gli aiuti allo sviluppo, alla disponibilita’ a nuovi
round di sanzioni verso l’Iran, ecc.227
Rispetto agli anni dell’amministrazione Bush, tuttavia, la convergenza tra le due
sponde dell’Atlantico è tornata a farsi sentire su una serie di punti chiave: la
centralita’ dell’Onu per le piu’ importanti questioni della sicurezza internazionale, la
227
Si veda, al riguardo, J. Shapiro, N Witney: Towards a Post-American Europe: a power audit of EU-US Relations, European
Council on Foreign Relations, Ottobre 2009.
188
“rassicurazione strategica” verso la Russia e il nuovo, problematico approccio sul
nucleare iraniano, l’impegno per “un mondo senza armi nucleari” (rilanciato non a
caso dal presidente americano in occasione del vertice Ue-Usa di aprile a Praga), fino
alla battaglia contro i cambiamenti climatici, che tuttavia non e’ andata oltre i
deludenti risultati della conferenza di Copenaghen di fine anno.
Verso la fine dell’anno, l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, congiunta alle
nuove nomine ai vertici dell’Ue e al rinnovo della Commissione europea, sembrano
aver restituito uno slancio, ancorche’ esile, al motore dell’integrazione e
dell’allargamento, soprattutto verso i Balcani occidentali. La proiezione esterna
dell’Ue continua tuttavia a risentire, al fondo, di dilemmi che neanche il riesame della
Strategia di Sicurezza europea di fine dicembre 2008 e’ riuscito ad affrontare
compiutamente: le persistenti divisioni tra i paesi dell’Europa occidentale su una
serie di dossier chiave (dall’indipendenza energetica, ai rapporti con la Russia, ai
confini dell’Unione, alla politica di vicinato); le profonde differenze di cultura
strategica tra i paesi dell’Europa occidentale e quelli entrati con gli allargamenti del
2004 e del 2007; la persistente chiusura (aggravata ancor piu’ dalla crisi) di molte
opinioni pubbliche europee di fronte all’esigenza di accrescere gli investimenti
necessari a fare dell’Ue un attore di sicurezza credibile sulla scena globale.
Il passaggio dal G8 al G20 e l’ “ombra” del G2
Un’altra importante ripercussione della crisi finanziaria sull’evoluzione del sistema
internazionale si e’ registrata nel passaggio di consegne tra il G8 al G20 nelle
funzioni di gestione dell’economia mondiale. Alle riunioni del G20 partecipa anche,
a pieno titolo, l’Unione europea. Anticipato dal vertice G20 di aprile a Londra e
fortemente voluto dalla nuova amministrazione Usa, l’allargamento dal G8 al G20 e’
stato formalizzato al summit del G20 di Pittsburgh di settembre. Da tempo, del resto,
era avvertita l’esigenza di un’espansione del direttorio dell’economia mondiale, che
189
coinvolgesse soprattutto le economie emergenti (come Cina, India e Brasile),
divenendo piu’ rappresentativo dei nuovi equilibri economici mondiali. La crisi
economica ha dunque fornito l’impulso determinante per realizzare una riforma di cui
si parlava gia’ da diversi anni228. Il G20 diventa cosi’ il principale contesto per la
cooperazione, regolamentazione e vigilanza in campo economico, mentre il G8
continuera’ ad occuparsi delle questioni piu’ politiche229.
Il passaggio dal G8 al G20 ha indotto alcuni analisti a sottolineare l’esigenza di un
consolidamento della cooperazione strategica tra Stati Uniti e Cina, per realizzare una
sorta di “cabina di regia” in grado di orientare il sistema internazionale230, il
cosiddetto G2. L’approccio e’ evidentemente antitetico a quello in corso, volto ad
accrescere la rappresentativita’ dei vertici internazionali, ma risponde all’esigenza dei
due grandi paesi di cercare di fornire risposte rapide alla crisi. Questa prospettiva nel
2009 ha rafforzato, soprattutto in Europa, la percezione di uno spostamento del
baricentro internazionale dall’asse transatlantico a quello transpacifico 231. L’idea che
il G2 possa in tempi rapidi marginalizzare completamente altri attori, a partire
dall’Europa, rischia di sottovalutare tuttavia importanti divergenze di carattere
politico, economico e strategico che esistono tra i due paesi.
228
Il G20 riunisce i membri del G8 (che rappresentano poco più del 50% del Pil mondiale e il 13% della popolazione), le
cinque economie emergenti, ovvero Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica (il cosiddetto G5), più Argentina, Australia,
Indonesia, Arabia Saudita, Corea del Sud, Turchia – e l’Unione europea: una compagine rappresentativa dell’85% del Pil
mondiale e di 4,2 miliardi di cittadini.
229 I tempi di questo passaggio saranno tuttavia piu’ graduali di quanto le prime impressioni non abbiano fatto immaginare:
il G20 include paesi con interessi profondamente eterogenei, alcuni dei quali con una modesta esperienza di vertici
internazionali, con i quali non sara’ facile trovare intese su altri temi dell’agenda internazionale come i cambiamenti climatici,
la liberalizzazione commerciale, la riforma del sistema finanziario internazionale e la proliferazione nucleare. La maggiore
coesione politica esistente su questi temi tra i paesi del G8, garantisce che questo foro continuera’ comunque a svolgere,
ancora per alcuni anni, un ruolo di impulso non irrilevante.
230
Si veda C. Fred Bergsten, A Partnership of Equals, How Washington Should Respond to China's Economic Challenge, in “Foreign
Affairs”, Vol. 87, N. 4, July/August 2008, http://www.foreignaffairs.com/articles/64448/c-fred-bergsten/a-partnership-ofequals
231
Guardando ai dati, tuttavia, l’area economica transatlantica resta, per ora, la più ricca, vasta ed integrata del mondo: per
quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, il rapporto tra Usa e Ue rimane ancora molto più importante, per entrambi,
della relazione con la Cina. L’Ue è oggi, inoltre, la principale potenza commerciale del mondo, e il suo peso nel commercio
globale nell’ultimo decennio ha continuato a crescere.
190
Oltre ad una generale mancanza di fiducia tra le leadership cinesi e americane, che
continuano a concepirsi come rivali piuttosto che alleate, una controversia rilevante
riguarda il tasso di cambio dello yuan , che le autorita’ cinesi non accettano di
rivalutare. Dal punto di vista commerciale, tensioni sono riaffiorate tra i due paesi
ogni volta che gli Usa hanno accennato all’adozione di nuove misure protezionistiche
per affrontare le conseguenze della crisi. Divergenze non secondarie esistono inoltre
sulle politiche ambientali, dove la Cina si oppone ad accordi vincolanti per la
riduzione di emissioni nel timore che possano limitarne la crescita; cosi’ come sul
tema dei labours standards, su cui Pechino non sembra intenzionata a concedere
nulla alle richieste di adeguamento avanzate da europei e americani. Dal punto di
vista strategico, infine, continuano a registrarsi tensioni sulla questione dell’isola di
Taiwan (che la Cina punta a riunificare al paese, mentre gli Usa si sono impegnati a
difendere dai tentativi di annessione per via militare), e la stessa Corea del Nord
(cosi’ come l’Iran), potrebbe costituire un elemento di rottura se gli americani
chiedessero a Pechino maggiore durezza con Pyongyang per bloccarne il programma
nucleare232.
Se dunque il rafforzamento della cooperazione strategica tra Usa e Cina e’ un fatto
auspicabile, la gestione dell’agenda internazionale nei prossimi anni rendera’
imprescindibile il coinvolgimento di una molteplicita’ di attori. Questo apre spazi di
manovra, se vorra’ e sara’ in grado di svolgere un ruolo strategico, soprattutto per
l’Unione europea.
Capacità più in linea con le aspettative
“Ognuno e’ ambizioso. Il punto e’ se e’ ambizioso di essere, o ambizioso di fare”. E’
la frase di Jean Monnet con cui il nuovo Alto Rappresentante per gli affari esteri e la
232
Si veda B. Voltolini, Quale ruolo per il G2?, in “AffarInternazionali”, 6 luglio 2009,
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=1183
191
politica di sicurezza (AR) e vicepresidente della Commissione europea, Catherine
Ashton, il 2 dicembre ha concluso il suo primo discorso ufficiale davanti alla
Commissione Affari esteri del Parlamento europeo233. “Io sono ambiziosa di fare”, ha
poi chiosato la baronessa britannica ed ex commissaria Ue al commercio. Il
rafforzamento degli strumenti dell’AR per “fare” politica estera nel quadro
istituzionale europeo, costituisce una delle piu’ importanti novita’ introdotte dal
Trattato di Lisbona, la cui entrata in vigore il primo dicembre 2009 ha posto un punto
fermo,
almeno per il prossimo decennio, al tormentato processo di riforma
istituzionale dell’Ue.
Nonostante la crisi finanziaria abbia mutato le aspettative degli europei verso l’Ue,
accrescendo la preoccupazione per i temi legati alla vita quotidiana rispetto a quelli
globali, nel 2009 il rafforzamento del ruolo internazionale dell’Unione ha continuato
ad essere tra le principali ambizioni degli europei. Secondo un sondaggio
dell’Eurobarometro realizzato alcune settimane prima delle elezioni del Parlamento
europeo (PE) di giugno, tra le priorita’ che il PE deve promuovere, la politica estera e
di sicurezza comune e’ la piu’ importante per il 32% degli intervistati (rispetto al
36% dell’anno precedente), dopo la protezione dei consumatori e della salute
pubblica (al primo posto per il 36% dei rispondenti rispetto al 33% dell’anno
precedente) e il coordinamento delle politiche economiche e finanziarie (al 34%
rispetto al 26% del 2008)234. Inoltre, l’altissimo apprezzamento degli europei per le
prime scelte compiute dall’amministrazione Obama in politica estera, ha accresciuto
le aspettative verso il ruolo internazionale svolto dall’Ue. Secondo il Transatlantic
Trends 2009, larga parte degli europei continua a ritenere preferibile una leadership
233
Written statement, based on remarks to the Foreign Affairs Committee of the European Parliament, Catherine Ashton,
High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy and Vice President of the European Commission,
European Parliament, Brussels, 2nd December 2009 : http://consilium.europa.eu/uedocs/cmsUpload/ca-writtenstatement02.12.09.pdf
234 Elezioni europee 2009, Eurobarometro Parlamento europeo (EB Standard 71) – Primavera 2009. Bruxelles, 27 marzo
2009, pp. 6 – 7.
192
mondiale dell’Ue piuttosto che statunitense, in misura leggermente superiore in
Europa occidentale rispetto all’Europa orientale235. Il rafforzamento della proiezione
internazionale dell’Ue conseguente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona
dovrebbe dunque anche contribuire a ridurre la distanza tra le aspettative dei cittadini
europei verso la politica estera comune e le capacità dell’Unione (l'arcinoto
“capabilities/expectations gap”, secondo la definizione di Christopher Hill) che da
anni e’ una delle cause dell’insoddisfazione degli europei.
La nuova “cabina di regia” dell’Ue
Le novità più rilevanti del Trattato di Lisbona per la politica estera riguardano la
nuova Presidenza stabile del Consiglio europeo (art. 15), le nuove competenze
dell’AR che diventa anche vicepresidente della Commissione (art. 18) e il Servizio
europeo per l’azione esterna (art. 27). A queste si aggiungono la personalità giuridica
dell’Ue (art. 47), la clausola di difesa reciproca tra tutti i paesi Ue (art. 42, par.3) e
una nuova clausola di solidarietà contro il terrorismo e in caso di catastrofi, l’Agenzia
per la difesa europea (art. 42)236, le cooperazioni rafforzate, che con Lisbona si
possono realizzare, in linea di principio, anche nel settore della Pesc e della Pesd.
Specificamente per il settore della difesa, una nuova forma di cooperazione
rafforzata, denominata “cooperazione strutturata permanente”(art. 42, par. 6)237.
Nel nuovo assetto istituzionale, al vertice dell’Unione c’e’ la nuova figura del
Presidente del Consiglio europeo, che viene eletto dai Capi di stato e di governo
membri del Consiglio a maggioranza qualificata, per due anni e mezzo rinnovabili.
Oltre a presiedere il Consiglio stesso, egli ne assicura la preparazione e la continuità
Il 76% dei cittadini dell’Europa occidentale e il 70% di quelli dell’Europa orientale preferisce una leadership mondiale
dell’Ue, mentre quella Usa e’ desiderata dal 56% dell’Europa occidentale e da un magro 44% dell’Europa orientale.
Transatlantic Trends 2009, Grafico 6, p.11: http://www.affarinternazionali.it/Documenti/TT09_ITA.pdf
236
L’attuazione dell’Agenzia è stata già anticipata con un’azione Pesc del 12 giugno 2004, ma che solo ora è entrata
ufficialmente nel Trattato.
237 Vedi oltre.
235
193
dei lavori, in cooperazione con il presidente della Commissione. Il nuovo Presidente
ha il compito di promuovere e creare consenso all’interno del Consiglio, e dopo ogni
riunione deve riferire al Parlamento europeo le decisioni prese. E’ il Presidente del
Consiglio europeo, inoltre, e non più il Capo di Stato o di governo del paese che
detiene la presidenza semestrale, ad esercitare, “al suo livello”, la “rappresentanza
esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune”.
Dovra’ farlo tuttavia stando bene attento a salvaguardare “le attribuzioni dell'Alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”. Ai vertici tra
l’Ue e i paesi terzi e’ dunque il neo-nominato Herman Van Rompuy a rappresentare
l’Unione al massimo livello. I rischi di sovrapposizione o competizione con gli altri
vertici istituzionali dell’Ue (il Presidente della Commissione, l’Alto Rappresentante,
e il Presidente “di turno” semestrale dell’Unione, che continua ad esistere) sono
rilevanti: il coordinamento politico e personale tra queste quattro figure diventa
dunque sempre piu’ importante per garantire l’effettivo funzionamento delle
istituzioni238.
Le personalita’ per i nuovi incarichi
I nomi che a fine novembre sono stati scelti per ricoprire i due nuovi incarichi
strategici dell’Ue sono il primo ministro belga Herman Van Rompuy come nuovo
presidente stabile del Consiglio europeo e, come accennato,
della baronessa
britannica Catherine Ashton, come AR. Non si tratta di personalità “in grado di
fermare il traffico a Washington e Pechino”, come avevano auspicato i sostenitori
dell’ex premier inglese Tony Blair alla presidenza del Consiglio europeo. Il fatto non
stupisce, anche alla luce della spiccata tendenza “intergovernativa” che la politica
europea di diversi grandi paesi ha assunto nel corso del 2009, come miope reazione
alla crisi finanziaria. Difficile immaginare, inoltre, che i capi di stato e di governo
potessero dare spazio a qualcuno che avrebbe potuto metterli in difficoltà o in
238
Vedi S. Silvestri, L’Europa della Quadriga, in AffarInternazionali (www.affarinternazionali.it), 26 Ottobre 2009
194
secondo piano. Come è stato sottolineato da più parti, tuttavia, la forza dell'Europa
non può risiedere nelle persone, ma nelle istituzioni. Almeno fino a che le cariche
non saranno elette con metodi più democratici anziché in consessi intergovernativi239.
La candidatura dell’ex primo ministro ed ex ministro degli esteri italiano Massimo
D’Alema per la carica di Alto Rppresentante, avanzata dai socialisti europei, è
sfumata davanti alla tenace capacità britannica di reinserirsi nel consenso francotedesco. Ad ulteriore dimostrazione che se l’Italia non riuscirà a rientrare
positivamente nella dialettica tra Germania e Francia, difficilmente potrà svolgere un
ruolo nelle prossime partite per le nomine europee (dalla presidenza dell’Eurogruppo
a quella della Banca centrale europea), su cui sembra coltivare alcune ambizioni.
La personalità del primo ministro belga Van Rompuy, apprezzato (soprattutto dalla
Cancelliera tedesca Angela Merkel) più per la sua sobrietà e per la sottile capacità di
mediazione che per il carisma o l’atout internazionale, potrebbe rivelarsi
particolarmente idonea al nuovo incarico, soprattutto in questo momento di avvio e
sperimentazione dei nuovi equilibri istituzionali. Come ha sottolineato l’ex presidente
della Commissione europea Jaques Delors sul Financial Times alla vigilia delle
nuove nomine, se il nuovo presidente interpretasse il suo ruolo come un “presidente
dell’Ue” piuttosto che come “chairman” del Consiglio europeo e mediatore tra i
governi, non solo violerebbe la lettera del trattato di Lisbona, ma rischierebbe fin
dall’inizio del suo mandato di aprire un conflitto ai vertici dell’Ue.
Le spine di Lady Pesc
Ma è sulla figura dell’AR, che non a caso i britannici non si sono lasciati sfuggire,
che si concentrano le novità più importanti, ma anche le maggiori insidie. La mole di
funzioni che il Trattato di Lisbona assegna al nuovo AR può far impallidire anche il
Sul tema si veda Gianni Bonvicini, Gian Luigi Tosato e Raffaello Matarazzo, "Should the European parties propose a
candidate for the European Commission?", in Gianni Bonvicini (ed.), Democracy in the EU and the role of the European
Parliament,
Roma,
IAI,
2009
(IAI
Quaderni
English
Series
14)
http://www.iai.it/sections/pubblicazioni/iai_quaderni/Indici/quaderno_E_14.htm
239
195
politico più esperto240. Anche per questo la nomina della Ashton come AR, che nel
suo curriculum internazionale può vantare solo un anno, ancorché positivo, come
commissaria al commercio dell’Ue, ha suscitato piu’ di una critica241. Il profilo
istituzionale dell’AR disegnato nel Trattato di Lisbona affronta di petto i due
problemi di fondo che fin dalla sua origine (con il Trattato di Maastricht, nel 1992)
affliggono la Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) e le relazioni esterne: lo
scarso coordinamento tra la dimensione intergovernativa e quella comunitaria (gestita
da quattro diversi commissari europei); la distanza e diffidenza tra le diplomazie
nazionali e i funzionari europei242. È il problema della “voce unica” dell’Ue, che il
Trattato di Lisbona affronta tramite il cosiddetto “doppio cappello”: l’AR guida la
politica estera e di sicurezza comune e anche quella di difesa (in supplenza
dell’ancora inesistente ministro della difesa europeo), ma è anche vicepresidente
della Commissione, con la responsabilità per il coordinamento delle politiche esterne,
compreso l'allargamento, l'aiuto allo sviluppo e la risposta alle crisi. Nella nuova
Commissione, quindi, la Ashton coordina i seguenti commissari: il lettone Andris
Piebags (aiuti allo sviluppo, che siedera’ anche, a nome della Commissione, nel
Consiglio Affari esteri presieduto dalla Ashton), la bulgara Kristalina Georgieva
(aiuto umanitario e risposta alle crisi) ed il ceco Stefan Füle (che gestirà
Allargamento e Politica di vicinato). Se la partecipazione alle riunioni della
Commissione (una volta a settimana) è molto importante, ma queste si aggiungono
gli impegni collegati al “terzo cappello” che deve indossare Lady Pesc: la presidenza
del Consiglio “Affari esteri”, che si riunisce almeno una volta al mese: si tratta infatti
Vedi R. Matarazzo, L’eroica missione del nuovo ministro degli esteri dell’Ue, in AffarInternazionali,
www.affarinternazionali.it ), 20 Novembre 2009.
241
Si veda Tony Barber, Europe is risking irrelevance as the world moves on, in “Financial Times, November” 21/22, p.7, The
EU’s new leaders, in “The International Herald Tribune”, Nov 24, p. 8, We are all Belgian now, Charlemagne, The Economist,
Nov. 28th, 2009, p. 39.
242
Val la pena notare, comunque, che il nuovo AR può avvalersi di un bilancio allocato alla Pesc, ancorche’ limitato, in
costante crescita nel quadro delle prospettive finanziarie 2007-2013: 1,74 miliardi di euro, circa 250 milioni all’anno, con un
deciso aumento rispetto agli anni precedenti (46 milioni nel 2003; 62 nel 2004 e nel 2005; 102 nel 2006). Il budget Pesc
rappresenta circa lo 0,20 % del budget totale previsto dalle prospettive finanziarie 2007-2013, cui andrà aggiunto quello
allocato alle relazioni esterne della Commissione nello stesso periodo: 49 miliardi, che rappresenta circa il 5,68% del budget
totale previsto dalle prospettive finanziarie 2007-2013
240
196
dell’unica formazione del Consiglio Ue a non avere un ministro a rotazione
semestrale nel ruolo di Presidente. E poiché l’AR è anche a capo dell’Agenzia
europea di Difesa, dove si riuniscono i ministri della Difesa, presiede anche le loro
riunioni. Sempre che, in concomitanza, non debba volare a New York per prendere la
parola al Consiglio di Sicurezza dell’Onu quando si discutono temi su cui esiste una
posizione comune europea (art. 34).
Per l’AR si tratta dunque di una vera e propria “mission impossibile”, che neanche la
personalità più dinamica può assolvere senza una eccellente organizzazione e un
efficace sistema di deleghe.
I nuovi strumenti per la politica estera
Tra le altre innovazioni del Trattato per la politica estera, un’importante opportunità è
rappresentata dalla formazione del Servizio diplomatico europeo, su cui il Trattato di
Lisbona non dice molto e la cui organizzazione e funzionamento sono stabiliti da una
decisione del Consiglio, sulla base di una proposta dell’AR dopo aver consultato il
Parlamento europeo ed aver ottenuto il consenso della Commissione. Esso sarà in
larga parte a disposizione dell'AR (oltre che del Presidente del Consiglio), e dovrebbe
essere composto di oltre quattromila funzionari provenienti dal Segretariato Generale
del Consiglio, dalla Commissione e dal personale distaccato dai servizi diplomatici
degli Stati membri243. Un documento dalla presidenza di turno svedese dell’Ue
dell’ottobre 2009 su cui i 27 hanno trovato un consenso costituisce la base della
“decisione” che la Ashton presentera’ entro aprile 2010, prima che la probabile
affermazione dei conservatori britannici alle elezioni di maggio possa produrre
eventuali veti o ripensamenti. Il Servizio dovrà essere il più possibile equidistante sia
dal Consiglio che dalla Commissione, per evitare pericolosi corto circuiti. Da un lato
sarà, probabilmente, un’espansione naturale del Segretariato del Consiglio, dove circa
350 persone in questi anni hanno lavorato per l’ex AR Javier Solana. Dall’altro si
243
Vedi Graham Avery, Europe’s Future Foreign Service, in “The International Spectator, Vol 43, N. 1, March 2008, pp. 29-41.
197
avvarrà inevitabilmente delle oltre 700 persone oggi impegnate nella direzione
generale per le relazioni esterne della Commissione, cui si aggiungerà anche
personale distaccato dai servizi diplomatici degli Stati membri. Le oltre 120
delegazioni in 150 paesi terzi, con 5000 funzionari di cui mille stabili a Bruxelles che
oggi fanno capo alla Commissione, diventeranno le nuove “delegazioni dell’Unione”
previste dal Trattato di Lisbona e probabilmente saranno ricondotte sotto la
responsabilità diretta dell’AR.
Un’altra importante novita’ riguarda l’attribuzione della personalita’ giuridica unica
dell’Ue (art. 47), grazie alla quale l’Unione puo’ stipulare accordi internazionali a suo
nome, vincolanti al tempo stesso per le sue istituzioni e per gli Stati membri,
rafforzandone la credibilita’ interna e esterna come attore di politica internazionale.
Come osservato da vari studiosi, tuttavia, la personalita’ giuridica unica non
determina, di per se’, il superamento della ripartizione delle attivita’ dell’Unione in
tre pilastri, (comunitario, politica estera, cooperazione nella giustizia penale e nella
polizia). Rimangono infatti procedure e strumenti diversi, e gli Stati potranno
continuare a prendere decisioni autonome su questioni di politica estera su cui l’Ue
non ha espresso una posizione comune244. Per quanto riguarda la Politica europea di
sicurezza e difesa (Pesd), viene innanzi tutto inserita una clausola di difesa reciproca
tra tutti i paesi Ue (art. 42, par. 3), secondo cui se “uno Stato membro subisce
un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri stati membri sono tenuti a prestargli
aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in confrormita’ all’art. 51 della
Carta dell’Onu”. La clausola non pregiudica tuttavia la condotta degli Stati neutrali,
ovvero che non appartengono a nessuna alleanza militare, ne’ la conformita’, per i
membri Nato, agli impegni assunti nell’ambito dell’Alleanza che rimane “per gli Stati
che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva”. E’ prevista inoltre
una nuova clausola di solidarietà contro il terrorismo e in caso di catastrofi, che
244
Karen E. Smith, European Foreign Policy in a Changing World, Polity, 2008
198
prevede la mobilitazione da parte dell’Ue di tutti gli strumenti di cui dispone, ma non
puo’ essere invocata per operazioni antiterrorismo fuori dai confini dell’Ue;
l’Agenzia per la difesa europea (art. 42), volta a promuovere misure per rafforzare la
base industriale e tecnologica del settore difesa e contribuire alla definizione di una
politica europea delle capacita’ e degli armamenti. Infine, il Trattato prevede che le
cooperazioni rafforzate si possono realizzare, in linea di principio, anche nel settore
della Pesc e della Pesd, e per quest’ultima ne istituisce una specifica, denominata
“cooperazione strutturata permanente” (art. 42.6), in base alla quale gli Stati membri
che soddisfino alcuni criteri in termini di capacita’ militari, e vogliano assumere
impegni piu’ vincolanti in materia, possano istituirla tra loro. A differenza delle
cooperazioni rafforzate, dove e’ richiesta la partecipazione di almeno un terzo degli
stati membri, per le cooperazioni strutturate non viene fissata alcuna soglia minima, e
cio’ ne favorisce l’avvio.
****
I dilemmi dell’allargamento
Nel 2009 il processo di allargamento ha risentito sia degli effetti della crisi
finanziaria che del ritardo dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Se la crisi
economica ha reso più difficile per i governi europei sostenere i costi legati
all’ingresso di membri non forti dal punto di vista finanziario, nell’opinione pubblica
hanno continuato a manifestarsi evidenti segni di stanchezza dopo il maxiallargamento del 2004. Cio’ nonostante, la Ue ha ricevuto nuove candidature
all’adesione da parte del Montenegro (dicembre 2008), dell’Albania (Aprile 2009),
dell’Islanda (luglio 2009), della Serbia (dicembre 2009) confermando, soprattutto in
un periodo di crisi, una capacita’ di attrazione in termini di sicurezza e stabilita’. Ad
ottobre, il rapporto della Commissione sull’avanzamento del processo di adesione ha
dato luce verde per Croazia ed Islanda, ha approvato l’avvio dei negoziati con la ex
199
Repubblica Yugoslava di Macedonia (Fyrom), ha dato segnali di apertura a tutti i
Paesi dei Balcani, a partire dalla Serbia, mentre ha confermato la condizione di limbo
nella quale versa la candidatura della Turchia245.
In Serbia, la maggioranza guidata dal Presidente Boris Tadic ha seguito una linea di
realismo politico, continuando sulla strada dell’integrazione nell’Ue, ma non
trascurando neanche i buoni rapporti con la Russia, essenziali da un punto di vista
economico. Il 22 dicembre la Serbia ha presentato ufficialmente la sua candidatura di
adesione all’Ue, con l’obiettivo del completamento dell’accesso nel 2014/2015. Il
Cagre del 7-8 dicembre aveva ufficialmente abolito i visti per i cittadini serbi e
sbloccato l’accordo interinale commerciale, rinviando a metà 2010 il processo di
ratifica dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (Asa). A dicembre la
liberalizzazione dei visti e’ stata estesa a tutti i paesi dei Balcani occidentali, con una
priorità, oltre che per i serbi, anche per i cittadini di Montenegro e Macedonia. La
partita più complessa tra Ue e Serbia ha continuato a giocarsi sulla questione del
Kosovo, dove, nel frattempo, e’ proseguita la missione civile Eulex (la più grande
dell’Ue, avviata nel 2008) composta da poliziotti, addetti alle dogane e uomini di
legge. La missione dovrebbe giungere ad un organico di 3.200 membri, di cui 1.950
internazionali (oltre che da cittadini della Ue anche da statunitensi, turchi, croati,
norvegesi e svizzeri) e 1.250 locali. Il bilancio previsto e’ di 265 milioni di euro, e la
durata fino al 14 giugno 2010.
Il 10 gennaio 2010, in Croazia, il candidato dell’opposizione socialdemocratica
(Sdp), Ivo Josipovic, si e’ imposto nettamente nel ballottaggio delle elezioni
presidenziali con il 60,3% dei voti contro il 39,7% del rivale Milan Bandic. Obiettivo
dichiarato del nuovo presidente, che succede a Stjepan Mesic, e’ l’ingresso di
245
Vedi European Commission, “Enlargement Strategy and Progress Reports 2009”:
http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/key_documents/2009/strategy_paper_2009_en.pdf
200
Zagabria nell’Ue durante il suo mandato, nel prossimo quinquennio. Con l’elezione
di Josipovic nel paese si e’ aperto un non facile periodo di coabitazione con il
governo di centro-destra, il cui mandato terminerà nel 2011. La premier Jadranka
Kosor mantiene un buon livello di popolarita’, ma il suo partito è fortemente diviso.
L’adesione all’Ue e’ comunque un obiettivo bipartisan: tra fine 2009 e inizio 2010 il
governo ha approvato un piano per l’approvazione di 12 nuove leggi che
consentirebbero di chiudere tutti i capitoli negoziali e concludere il processo di
adesione246.
In Bosnia-Erzegovina la situazione e’ rimasta stagnante. Tra fine 2008 e inizio 2009
era stato fissato con l’Ue un nuovo round negoziale, indicato come “Prud Process”.
Le trattative si sono però risolte in un insuccesso e dal mese di ottobre una nuova
tornata di colloqui è stata organizzata a Butmir presso il comando dell’Eufor per una
serie di proposte di riforma istituzionale. Ma da un lato l’opposizione del Presidente
della “Republika Srpska” Milorad Dodik a qualunque riforma che limiti l’autonomia
dell’entità statale serbo-bosniaca, dall’altro le resistenze dei partiti croati e dell’Sbih
di Silajdzic, che continuano a ritenere insufficienti le proposte avanzate, non fatto
intravedere grandi prospettive di accordo. Tra i timidi passi avanti compiuti dopo la
firma dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione nel 2008, va sottolineata
l’unificazione delle forze armate, che sono state poste sotto il controllo centrale; il
raggiungimento di un accordo sulla riforma della polizia; una parziale
semplificazione del complicato processo decisionale. Ma la politica bosniaca rimane
divisa su rigide linee etniche e le occasioni di cooperazione continuano ad essere
un’eccezione piuttosto che la regola.
Grandi progressi non si sono registrati neanche nell’avvicinamento all’Ue della
Turchia. Soprattutto nelle capitali europee,
246
le voci contrarie all’ingresso della
Nel corso del 2009 sono stati aperti 6 capitoli e ne sono stati chiusi 10, con un bilancio di 29 dossier aperti su 35.
201
Turchia sembrano essersi rafforzate. Oltre alle conseguenze della crisi, il cambio
della coalizione alla guida del governo tedesco (dove la Grosse Koalition tra
cristiano-democratici e socialdemocratici è stata sostituita da un’alleanza tra i primi
ed i liberali), non ha giovato alla prospettiva turca. Il rapporto della Commissione
europea sullo stato di avanzamento del processo di adesione ha confermato la
condizione di limbo nella quale versa la candidatura della Turchia. La Commissione
ha riconosciuto che Ankara procede nella giusta direzione rispetto alle principali
riforme, ma va invece rilento su diversi capitoli, a partire da quelli relativi al rispetto
dei diritti umani e della protezione delle minoranze e alla normalizzazione dei
rapporti con la Repubblica di Cipro. Il governo turco ha sottolineato le divergenze
che emergono tra il rapporto della Commissione, che contiene luci e ombre, e la
rigidità che persiste in alcune capitali europee contro l’accesso della Turchia. Oltre al
ritardo su alcuni capitoli di riforma, motivazioni di carattere politico e culturale
sembrano continuare ad inficiare l’avvicinamento tra l’Europa e la Turchia247.
Il nuovo Partenariato Orientale e la ridefinizione dei rapporti con la Russia
A maggio, durante la Presidenza Ceca, e’ stato inaugurato senza particolari
trionfalismi il Partenariato orientale dell’Ue, (PO) che costituisce il tentativo di
rafforzare la dimensione orientale della Politica di vicinato, offrendo maggiori
incentivi ai tre paesi dell’Europa orientale (Ucraina, Moldova e Bielorussia) e ai tre
del Caucaso meridionale (Gerogia, Armenia e Azerbaijan). Il PO è stato avviato su
impulso prevalente di Polonia e Svezia, ma gran parte degli altri sembrano esservisi
accodati senza troppa convinzione248. In sostanza, il PO cerca di evitare le richieste di
Ucraina, Moldova e Georgia di ottenere una prospettiva di adesione, offrendo a questi
247
Dall’avvio dei negoziati nel 2005, la Turchia ha aperto 11 capitoli negoziali su 35. Il Cagre di dicembre ha deciso di
avviare i negoziati sull’ambiente, mentre altri otto capitoli rimarranno bloccati a causa delle non risolte controversie con
Cipro.
248
Il vertice inaugurale e’ stato disertato da tutti i leader dei grandi paesi europei, con l’eccezione del Cancelliere tedesco
Angela Merkel.
202
paesi un Accordo di associazione che prevede la creazione di aree di libero scambio
anche per settori protetti come l’agricoltura, una graduale liberalizazione dei visti (su
cui nel 2009 non sono stati realizzati grandi progressi), patti per la mobilita’ e la
sicurezza249. In questo quadro la Ue ha riaperto i rapporti con la Bielorussia di
Lukashenko, ed il premier italiano Berlusconi e’ stato il primo leader di un paese
occidentale a visitare il paese slavo dalla sua indipendenza, anche se l’incontro è stato
seguito da varie polemiche250.
I rapporti con la Russia hanno continuato ad evidenziare una certa divergenza
strategica tra i principali paesi dell’Ue, anche se la nuova politica di appeasement
promossa dall’amministrazione americana ha permesso di rimarginare la ferita
prodotta dalla crisi in Georgia dell’estate del 2008. Le leadership europee hanno
seguito con attenzione la dialettica interna al Cremlino tra le timide aperture
riformiste del Presidente Medvedev e i richiami autoritari del primo ministro
Vladimir Putin, ma senza credere troppo alle reali prospettive di rinnovamento
interno al paese. In questo contesto ha continuato ad essere presa in esame, anche nei
vertici Nato e Osce svoltisi nel 2009, la proposta avanzata da Medvedev di dar vita
ad una nuova architettura di sicurezza in Europa, che potrebbe avvalersi delle
sinergie tra le diverse istituzioni e organizzazioni esistenti nello spazio paneuropeo
(l’Osce, la Nato, l’Ue, la Csi, l’Oasc), ispirandosi alla comunanza di interessi e alla
necessità di una sempre più stretta cooperazione tra Ue, Usa e Russia. Nonostante la
retorica europea sulla diversificazione delle fonti energetiche sia continuata, nel corso
del 2009 la dipendenza energetica dei paesi europei dal grande partner orientale
sembra essersi accresciuta. Anche per questo, a Novembre i paesi europei hanno
firmato con la Russia un accordo per rafforzare un “meccanismo di allerta rapida” in
grado di evitare che in futuro si ripetano crisi di forniture dalla Russia all’Europa.
Si veda M. Comelli, “Partenariato Orientale: una falsa partenza?”, in AffarInternazionali, 11 maggio 2009.
Si veda Joerg Forbig: “Appeasement in our time: Berlusconi goes to Belarus” in
http://blog.gmfus.org/2009/11/30/appeasement-in-our-time-berlusconi-goes-to-belarus/
249
250
203
L’obiettivo e’ quello di concludere l’accordo di partenariato e cooperazione (dopo
quello scaduto nel 2007) in campo economico, commerciale ed energetico, durante la
presidenza spagnola nel primo semestre del 2010.
Conclusioni
Il passaggio delle consegne da George W. Bush a Barack Obama alla presidenza
degli Stati Uniti ha rilanciato la convergenza transatlantica su diversi temi al centro
dell’agenda internazionale. Ciò nonostante, nel 2009 gli effetti della crisi finanziaria
non hanno consentito all’Ue di compiere significativi passi avanti verso il
superamento delle sue tradizionali divisioni interne. Il ritardo europeo nello
sviluppare una comune visione strategica accresce i rischi di una progressiva
marginalizzazione sulla scena internazionale. Il passaggio di consegne dal G8 al G20
per la gestione della crisi finanziaria e il contestuale ma problematico rafforzamento
del cosiddetto G2 tra Stati Uniti e Cina, nel corso dell’anno hanno approfondito
questa percezione tra gli europei. I nuovi strumenti istituzionali messi a disposizione
dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona solo in parte possono consentire di
superare i limiti derivanti dalla mancanza di coesione e coerenza strategica. Ciò
nonostante, l’Unione europea continua a rappresentare un importante polo di
attrazione non solo economica per molti dei paesi oltre i suoi confini, e il
superamento dello stallo istituzionale ha fornito nuovi, ancorché deboli, impulsi al
processo di allargamento. Nel corso dei prossimi anni, tuttavia, il successo della
politica estera europea potra’ essere opportunamente valutato non in base alla
capacità di rivoluzionare l’agenda globale, quanto piuttosto a quella di accrescere la
coesione dell’Ue su alcune grandi sfide di fondo: i rapporti con la Russia, la
diversificazione energetica, il vicinato, il Medio Oriente. C’è da augurarsi che le
nuove personalità scelte per questo compito sappiano essere all’altezza della sfida.
204
Articoli tratti dalla rivista AffarInternazionali (www.affarinternazionali.it )
Servizio diplomatico europeo
La lunga marcia delle nuove “ambasciate” dell’Ue
Michele Comelli, Raffaello Matarazzo
06/09/2011
I recenti sviluppi in Libia e, più in generale, nel Mediterraneo, aprono importanti margini
d’iniziativa per l’Ue. Il ruolo politico dell’Unione potrà, tra l’altro, rivelarsi molto importante per
evitare che la competizione tra i diversi stati membri possa paradossalmente complicare, piuttosto
che agevolare, i proocessi di ricostruzione e transizione verso la democrazia dei paesi della regione.
Per rafforzare la sua azione l’Unione dispone anche di nuovi strumenti politici e istituzionali, non
ultimo il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), il corpo diplomatico dell’Ue entrato in
funzione nel dicembre 2010, dotato di numerose delegazioni presso gli stati terzi e le organizzazioni
internazionali. Se venisse messo a servizio di una strategia europea più vigorosa e efficace, il Seae
potrebbe rappresentare un importante valore aggiunto in vista degli impegnativi appuntamenti dei
prossimi mesi e anni.
Percorso a ostacoli
Molte delle critiche circolate in questi mesi sul Seae nascono da due previsioni opposte, ma
ugualmente sbagliate. Alcuni pronosticavano infatti che l’entrata in vigore del trattato di Lisbona e,
quindi, del nuovo Servizio, avrebbe avuto ripercussioni immediate e positive sulla politica estera
europea. Di qui la frustrazione per gli scarsi progressi, se non addirittura regressi registrati negli
ultimi mesi. Altri, dal lato opposto, scommettevano che tutto sarebbe rimasto come prima.
Se in parte è prematuro giudicare una struttura nuova e ancora in fase di assestamento - il suo
personale è ancora diviso tra varie sedi nel quartiere europeo di Bruxelles - va comunque
riconosciuto che il Servizio introduce novità destinate ad incidere sia sulla politica estera europea
che su quella degli stati nazionali. Tempi e modi di questo processo, tuttavia, non potranno che
essere graduali.
Tra i nodi politici e organizzativi che hanno caratterizzato i primi mesi di vita del Servizio, un ruolo
particolare è ricoperto dalle delegazioni dell’Ue, incluse le otto che hanno sede presso
organizzazioni internazionali: gli stati membri sono infatti riluttanti a riconoscere all’Unione i nuovi
poteri di coordinamento e rappresentanza esterna attribuitigli dal trattato.
Al tempo stesso, divergenze tra i meccanismi di rappresentanza esterna dell’Unione e le regole
interne alle organizzazioni internazionali rischiano di indebolire l’azione europea in alcune dei più
importanti contesti multilaterali.
Salto di qualità
Prima dell’entrata in vigore del trattato le delegazioni rappresentavano solamente la Commissione e
si occupavano prevalentemente di commercio, aiuto allo sviluppo e cooperazione. Oggi sono
diventate invece delegazioni dell’Unione e la rappresentano nel suo insieme. Le delegazioni hanno
così sostituito le ambasciate dei paesi che detenevano la presidenza di turno sia nel coordinamento
205
degli stati membri nei paesi terzi che - in parte - all’interno delle organizzazioni internazionali.
Ciò non significa che le ambasciate degli stati europei siano destinate ad essere rimpiazzate tout
court. Non è infatti pensabile che le rappresentanze diplomatiche di grandi paesi svolgano un ruolo
meno importante, soprattutto nei casi in cui sono in gioco forti interessi nazionali.
Ma il fatto che l’Ue abbia oggi a disposizione strutture e personale propri (proveniente sia dalle
istituzioni comuni che distaccato dalle diplomazie nazionali) per monitorare e analizzare gli
sviluppi politici in un paese terzo, può contribuire non poco alla maturazione di una comune visione
strategica. Ciò implica tuttavia un salto di qualità formale e sostanziale: da rappresentanze della
Commissione e delle sue politiche, le delegazioni devono diventare delle vere e proprie ambasciate
in fieri.
Multilateralismo efficace
Un problema specifico riguarda poi le otto delegazioni presso le organizzazioni e agenzie
internazionali e regionali in cui l’Ue è rappresentata, come ad esempio le Nazioni Unite,
l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), l’Organizzazione mondiale
per il commercio (Omc) e altre.
Purtroppo il trattato non prevede strumenti ad hoc per adattare i nuovi meccanismi di
rappresentanza dell’Ue alle regole procedurali delle organizzazioni internazionali. In alcuni casi, gli
stati membri stanno strumentalizzando queste difficoltà per evitare di riconoscere all’Ue i nuovi
poteri di coordinamento e rappresentanza che gli sono attribuiti dal trattato.
Nel caso dell’organizzazione strategicamente più importante, l’Onu, la Ue ha recentemente ottenuto
un importante successo con il rafforzamento dello status in seno all’Assemblea generale (Ag), che
pone rimedio ai seri problemi di rappresentanza emersi dopo l’entrata in vigore del trattato di
Lisbona. La risoluzione approvata il 3 maggio scorso consente infatti all’Alto rappresentante, al
presidente stabile del Consiglio o alla delegazione dell’Ue di svolgere nell’Ag le funzioni in passato
svolte dal paese che deteneva la presidenza di turno.
In molte occasioni in cui sono in gioco, sia all’Onu che altrove, importanti competenze condivise
tra l’Ue e gli stati membri (ambiente, agricoltura, trasporti, energia o quelle afferenti l’area di
libertà sicurezza e giustizia), questi ultimi vogliono che a rappresentare l’Unione continui ad essere
la presidenza di turno e non la delegazione europea. Problema non da poco, che sta dando luogo a
tensioni di vario tipo sia all’interno delle delegazioni che tra Bruxelles e le capitali.
Uno degli esempi più lampanti (e preoccupanti) riguarda l’unica delegazione dell’Ue presente in
Italia: quella presso la Fao. L’agricoltura è infatti uno dei settori più importanti, su cui l’Ue e gli
stati membri condividono competenze di non poco conto.
Dopo l’entrata in vigore del trattato la Commissione ha chiesto che fosse la delegazione a
rappresentare le posizioni dell’Unione (sia quando sono coinvolte competenze esclusive che
condivise). La ferma opposizione degli stati membri ha fino ad oggi costretto l’Ue ad adottare
complessi meccanismi di transizione che ne indeboliscono significativamente l’azione. Dinamiche
analoghe si stanno registrando più o meno in tutte le altre organizzazioni internazionali e regionali
dove sono presenti delegazioni dell’Ue.
206
Senza politica estera
La resistenza dei paesi europei a coordinarsi e a limitare la loro sovra-rappresentanza nei contesti
multilaterali rischia di produrre crescenti attriti sia con i paesi emergenti che con gli alleati
tradizionali.
È un sintomo della graduale rinazionalizzazione della politica estera in corso a livello europeo. Il
trattato di Lisbona può contribuire ad arginare questa tendenza, ma senza una chiara volontà politica
nessun vero passo avanti è possibile.
Il Seae e il lavoro comune nelle delegazioni possono contribuire significativamente a sviluppare
visioni condivise delle problematiche politico-diplomatiche, a far maturare strategie comuni e,
quindi, a consolidare il profilo unitario dell’Ue. Anche se un vento sempre più freddo sembra
soffiare nella direzione diametralmente opposta. Come, tuttavia, è accaduto in molti passaggi
cruciali del processo d’integrazione europea.
Michele Comelli è responsabile di ricerca dello Iai.
Raffaello Matarazzo è ricercatore dello Iai e caporedattore di “Affarinternazionali”.
Ruolo “rafforzato” nell'Assemblea generale
L'Ue conquista spazio alle Nazioni Unite
Raffaello Matarazzo
09/05/2011
Non c'è molto, di questi tempi, di cui l’Unione europea possa andare orgogliosa, specialmente nel
campo della politica estera. Le divisioni e i tentennamenti dei paesi europei davanti alla crisi libica
e, più in generale, ai rivolgimenti nel mondo arabo hanno ispirato i più cupi presagi sul futuro della
politica estera e di sicurezza comune. Eppure, lontano dal clamore dei media, qualche piccolo seme
viene gettato, anche se nessuno è in grado di dire se, e quando, l'Ue potrà coglierne i frutti.
È il caso del rafforzamento dello status dell’Ue in seno all’Assemblea generale (Ag) delle Nazioni
Unite: il 3 maggio l'Ag ha approvato una risoluzione che conferisce all'Ue alcuni dei diritti di
partecipazione e rappresentanza fino ad oggi riconosciuti solo agli Stati membri dell’Onu,
escludendo tuttavia, tra gli altri, il diritto di voto e di presentazione di candidature.
L’Ue è la prima organizzazione regionale cui viene conferito un rafforzamento di status nell'Ag,
anche se d’ora in avanti le altre organizzazioni regionali potranno avvalersi, se gli stati che ne fanno
parte saranno d'accordo, delle stesse modalità di partecipazione riconosciute all’Ue (par. 3 della
risoluzione).
A settembre 2010 una precedente versione della risoluzione non era andata a buon fine, ed era stato
invece approvato un testo interlocutorio che rinviava la decisione ad una successiva delibera
dell’Ag: anche questa volta si è dovuto negoziare duramente, ma alla fine hanno votato a favore 180
paesi sui 182 presenti (Siria e Zimbabwe si sono astenuti).
Rappresentanza unica
Benché il rafforzamento di status dell’Ue riguardi l’Ag e non il Consiglio di Sicurezza, dove il nodo
207
della rappresentanza europea rimane ben più complesso, l’innovazione ha un certo rilievo politico,
perché pone parziale rimedio a un problema che si è registrato nella rappresentanza esterna
dell’Unione in seguito all’entrata in vigore del trattato di Lisbona (dicembre 2009), e perché apre
nuove prospettive per il ruolo dell’Ue e delle altre organizzazioni regionali in uno dei più importanti
forum multilaterali.
L’Onu rimane infatti un punto di riferimento strategico dell’azione esterna dell’Ue, e quest’ultima,
considerando l'insieme dei suoi stati membri, è il principale contributore netto al bilancio
dell'organizzazione mondiale.
La Carta dell’Onu ammette che solo gli stati possano esserne membri a pieno titolo, mentre alle
organizzazioni regionali è di regola accordato, nell’Assemblea generale, il ruolo di “osservatore”,
che implica la possibilità, tra l’altro, di intervenire solo dopo i rappresentanti degli stati membri.
Nel 1974 è stato riconosciuto alla Comunità economica europea lo status di osservatore. L’Ue è
peraltro parte di più di 50 tra convenzioni e accordi multilaterali stipulate in ambito Onu, e presso
alcune commissioni ha anche ottenuto lo status di “partecipante a pieno titolo”, come nel caso della
Commissione per lo sviluppo sostenibile, o di “membro effettivo”, come in quello della Fao. Lo
stesso dicasi per alcune conferenze convocate sotto gli auspici dell’Onu.
Il trattato di Lisbona, che ribadisce l’impegno strategico dell’Ue al multilateralismo promosso
dall’Onu, ha introdotto nuove figure istituzionali, strutture e competenze volte a rafforzare la
proiezione internazionale dell’Unione, inclusa, tra l’altro, la personalità giuridica.
Prima dell’entrata in vigore del trattato, tuttavia, la Ue era già rappresentata nell’Ag e all’interno
delle sue commissioni e gruppi di lavoro (dove prendono forma alcune delle decisioni più
importanti), dal paese che deteneva la presidenza di turno, spesso affiancato da un rappresentante
della Commissione europea.
Il trattato affida, invece, le competenze di rappresentanza esterna non più alla presidenza di turno,
ma al presidente stabile al Consiglio europeo, all’Alto rappresentante per la politica estera e di
sicurezza, alla Commissione e alle delegazioni dell’Ue. Non essendo tuttavia questi organi
rappresentanti di un singolo stato, bensì di tutta l’Unione, in Ag erano tenuti a parlare per ultimi e
non potevano partecipare all’attività di commissioni e gruppi di lavoro.
La risoluzione approvata il 3 maggio pone rimedio a questo problema, riconoscendo ai
rappresentanti dell’Ue il diritto di partecipare al dibattito in Ag in base all’ordine di iscrizione, così
come a tutte le riunioni e conferenze convocate sotto gli auspici dell’Ag, di presentare proposte ed
emendamenti (anche se solo oralmente) concordate dagli stati membri dell’Unione e, infine, di
replicare quando vengono discusse le posizioni dell’Ue.
Coordinamento e coesione
Dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, e la creazione del Servizio diplomatico europeo
(dicembre 2010), la delegazione della Commissione presso l’Onu (creata nel 1974 e oggi elevata a
“delegazione dell’Ue”) e l’ufficio di collegamento del segretariato del Consiglio a New York
(esistente dal 1994), sono state unificate sotto l’autorità del rappresentante del segretariato del
Consiglio, il diplomatico Pedro Serrano, che oggi opera in qualità di capo delegazione dell’Ue.
Quest’ultimo presiede alcune delle riunioni di coordinamento tra i diversi stati europei e in certe
208
occasioni presenta al Consiglio di Sicurezza le posizioni comuni dell’Ue.
La delegazione dell’Ue a New York ha inoltre stabilito uno stretto rapporto di cooperazione con la
rappresentanza diplomatica del paese detentore della presidenza di turno. Nel primo semestre del
2011 gruppi congiunti dell’Ue e dei funzionari della presidenza di turno ungherese hanno lavorato
insieme su diversi temi dell’agenda Onu.
Il problema della rappresentanza dell’Ue rimane tuttavia acuto in molti altri contesti multilaterali.
Gli stati membri resistono infatti all'applicazione di quanto previsto dal trattato di Lisbona perché
non vogliono che il ruolo dello stato che detiene la presidenza di turno sia ridimensionato rispetto a
quello dei rappresentanti delle istituzioni comuni.
Le resistenze dei paesi europei a coordinare meglio le proprie posizioni e ad affrontare il problema
della loro sovra-rappresentanza nei contesti multilaterali rischiano di creare crescenti attriti sia con i
paesi emergenti che con gli alleati tradizionali, a partire dagli Stati Uniti. Ne è un esempio quanto
accaduto al Fondo monetario internazionale nell'ottobre dello scorso anno: Usa e paesi emergenti
hanno protestato contro la sovra-rappresentazione dei paesi europei, invitandoli ad un
consolidamento della loro presenza anche per dare maggior peso ad altre aree del mondo.
Organizzazioni regionali
La preoccupazione che l'Ue acquisisse una posizione di “privilegio” nell’Ag rispetto alle altre
organizzazioni regionali era stata tra le ragioni per cui il 14 settembre 2010 la maggioranza dell’Ag
si era espressa per un rinvio della decisione di rafforzare lo status dell'Ue, con 76 voti favorevoli, 71
contrari e 26 astenuti. A suscitare sensazione, in quell’occasione, era stato il sostegno al rinvio di
molti paesi di Africa, Carabi e Pacifico, guidati dal gruppo della Comunità caraibica (Caricom), che
sono importanti beneficiari degli aiuti allo sviluppo europei, nonché l'astensione di importanti
alleati dell’Ue, come Canada, Nuova Zelanda e Australia.
Questi ultimi, in particolare, avevano lamentato uno scarso coinvolgimento da parte dei
rappresentanti dell’Ue nella fase preparatoria del testo, come se gli europei avessero “dato per
scontato”, come ha sottolineato un diplomatico del gruppo del Commonwealth, il sostegno degli
altri ad un loro accrescimento di status.
La nuova risoluzione è stata preparata dunque con molta più accuratezza, anche se alcune delle
ambizioni di ulteriore rafforzamento della rappresentanza dell’Ue sono state ridimensionate, anche
a causa delle resistenze di alcuni stati europei, a partire dalla Gran Bretagna. È stata, fra l'altro,
inserita in modo più esplicito la possibilità, anche per le organizzazioni regionali i cui membri siano
d’accordo, di attivare, previo consenso dell’Ag, le modalità di rappresentanza e partecipazione
previste per l’Ue.
Le profonde divergenze di visione strategica registrate tra i paesi europei di fronte ai più recenti
sviluppi in Libia e nel Mediterraneo confermano che l’obiettivo del trattato di Lisbona di
promuovere un coordinamento più efficace tra le scelte di politica estera europea compiute in un
contesto intergovernativo e le politiche e gli strumenti finanziari della Commissione, resta ancora
estremamente ambizioso. Ma la storia del processo d’integrazione insegna che le grandi crisi
possono anche spingere a nuovi, e importanti, scatti in avanti. La discussione in corso sulla
revisione dei trattati nel settore della governance economica europea, inimmaginabile fino a due
anni fa, ne è una delle dimostrazioni più recenti.
209
Il rafforzamento dell’Ue all’interno dell’Onu è un passo nella giusta direzione, anche perché
consolida alcune delle acquisizioni più importanti introdotte dal trattato di Lisbona. Ma può aprire
delle opportunità interessanti anche per le altre organizzazioni regionali, attori sempre più dinamici
e importanti nel complesso processo di riforma del sistema di governo mondiale.
Annuario sulla politica estera
Una direttrice di marcia per l’Italia
Raffaello Matarazzo
10/03/2011
Le recenti rivolte nei paesi della sponda sud del Mediterraneo ripropongono l’esigenza di una
riflessione strategica sulle priorità e gli obiettivi della politica estera italiana nel medio e lungo
termine. Si tratta di trovare un equilibrio più efficace tra la dimensione bilaterale e quella
multilaterale della proiezione esterna del paese, anche attraverso un uso migliore delle sempre più
scarse risorse disponibili.
Incidenza % del bilancio Mae sul bilancio dello Stato.
Aps: Aiuto pubblico allo sviluppo.
Due fattori strutturali rendono quest’esigenza particolarmente urgente. Il primo è la crisi del sistema
multilaterale, cui si aggiungono le incerte prospettive del processo di integrazione europea. Più in
generale, siamo in presenza di una rapida trasformazione del quadro complessivo di riferimento
dell’azione esterna del paese. Il secondo è la fragilità economica e politica dell'Italia, che è
all’origine delle difficoltà a competere, e talora anche a cooperare, con gli altri attori del sistema
internazionale.
210
L’edizione 2011 dell’annuario La politica estera dell’Italia, realizzato dallo Iai di Roma e dall’Ispi
di Milano per la casa editrice Il Mulino, vuole offrire un contributo al rilancio di questo dibattito. Il
rapporto introduttivo dell'annuario sottolinea alcune costanti storiche dell'azione esterna dell'Italia
fin dall’unità nazionale che continuano a manifestarsi anche oggi e, sulla base dell’analisi dei
principali eventi del 2010, indica tre possibili direttrici della politica estera italiana.
Alleanza asimmetrica
L’Italia ha spesso cercato di compensare le proprie debolezze interne attraverso un’alleanza
privilegiata con una delle maggiori potenze. Questo approccio è stato tuttavia bilanciato, soprattutto
dopo la seconda guerra mondiale, dalla partecipazione alle principali organizzazioni multilaterali,
che hanno garantito al paese un rafforzamento del suo profilo internazionale e una relativa libertà di
manovra. La ridefinizione della gerarchia del potere internazionale in corso e la crisi del contesto
multilaterale potrebbero rafforzare oggi la convinzione che il legame asimmetrico con una grande
potenza possa garantire a una “media potenza” come l’Italia certi margini di sicurezza e di
“protezione”.
Ma con quale paese potrebbe essere realizzata questa opzione e quali ne sarebbero i vantaggi e i
costi?
Nello scenario attuale, l’interlocutore obbligato continuerebbero ad essere gli Stati Uniti, unica
grande superpotenza rimasta, a cui l’Italia è legata da consolidati rapporti politici e strategici. Gli
Usa sembrano però rivolgere all’Europa un’attenzione assai minore che in passato, mentre chiedono
ai loro principali alleati contributi sempre più onerosi, e di carattere non solo militare, per affrontare
le crescenti minacce sistemiche provenienti dalle aree extraeuropee di maggiore instabilità.
La scelta di un’alleanza asimmetrica renderebbe questo tipo di impegni sempre più onerosi e
difficilmente sostenibili per l’Italia, mentre altri partner degli Usa, europei e non, manterrebbero
comunque un vantaggio comparativo agli occhi di Washington.
Una più stretta alleanza con gli Usa potrebbe inoltre implicare alcune limitazioni (anche indirette o
autoimposte) alla politica dell’Italia nel Mediterraneo e in Medioriente (dove il vincolo con Israele
si farebbe più stretto) o a quella verso la Russia e, nel medio periodo, anche con la Turchia. Ciò si
rifletterebbe negativamente sia sulla proiezione regionale del paese che sulla possibilità di svolgere
quel ruolo diplomatico e di mediazione che in diversi momenti è stato uno dei tratti distintivi della
politica estera dell’Italia.
Ma la conseguenza più grave di questa scelta strategica sarebbe probabilmente un ulteriore
indebolimento delle istituzioni multilaterali e, in particolare, dell’Ue, che, come dimostrano sia gli
effetti della crisi finanziaria sia gli sviluppi delle rivolte nel Mediterraneo, costituiscono la vera
garanzia di ultima istanza per un paese come l’Italia.
Questo tipo di “alleanza asimmetrica” sarebbe ancor meno praticabile con altri alleati come, ad
esempio, la Germania. Pur essendo il maggiore paese europeo, la Germania non sembra infatti
interessata a ricoprire il ruolo di potenza protettrice, e comunque certo non nei confronti dell’Italia
(semmai verso qualche paese minore dell’Europa centro-orientale).
Enfasi sul bilateralismo
211
La percezione che la crisi del multilateralismo possa avere un carattere strutturale e di lungo
periodo potrebbe alimentare il timore che il paese sia esposto a un alto rischio sistemico. Ne
potrebbero derivare scelte che accentuano i legami bilaterali e l’autonomia politica ed economica,
anche senza necessariamente rimettere in discussione il patrimonio di legami e alleanze sviluppato
per decenni. In questo scenario si punterebbe soprattutto a sviluppare iniziative autonome in campo
bilaterale, in primo luogo economiche e commerciali, con la prospettiva di una loro graduale
estensione al campo politico.
Questa scelta richiederebbe tuttavia la capacità di mobilitare notevoli risorse di carattere economico
e organizzativo per poter dar seguito, con la dovuta efficacia e rapidità, agli impegni assunti e
pretendere un comportamento analogo anche dagli interlocutori. Ma dovrebbe essere condotta
anche con sensibilità diplomatica, per evitare di suscitare reazioni a livello internazionale.
Per perseguire questa strada sarebbe infatti necessario affrontare una serie di nodi strutturali, a
partire dalla profonda riforma del sistema decisionale e operativo nei settori della politica estera,
della sicurezza e difesa e della gestione delle emergenze. Una maggiore autonomia bilaterale
richiede infatti strumenti più articolati e incisivi di azione internazionale. Servono inoltre risorse
significative per orientare rapidamente nella direzione voluta le scelte dei singoli operatori, senza le
quali questa opzione strategica rischia di rivelarsi velleitaria e di diffondere un’immagine di
incoerenza e scarsa affidabilità. Anche in questo caso, infine, si rischierebbe di accelerare la
frammentazione del sistema multilaterale, con conseguenze che potrebbero rivelarsi peggiori di
quelle che ci si prefigge di scongiurare.
Multilateralismo attivo
Una terza possibile direttrice della politica estera italiana è quella del multilateralismo attivo, o
propositivo. Non si tratta, in questo caso, di difendere gli interessi immediati del paese all’interno
degli organismi internazionali, o di evocare retoricamente l’esigenza di una loro profonda riforma,
ma di individuare alcuni obiettivi prioritari, ancorché parziali, di riforma, attorno ai quali costruire
coalizioni e alleanze. Rapporti preferenziali con questo o quel paese non sono, in linea di principio,
incompatibili con questa opzione strategica, a patto che rientrino nel disegno più generale di
rafforzamento del contesto multilaterale.
In questo scenario, diventa ancora più importante la credibilità del “sistema paese”, che si può
ottenere solo attraverso azioni coerenti e ispirate da un disegno organico. Troppo spesso nel recente
passato, anche all’interno dell’Ue, carenze informative e una scarsa reattività ci hanno spinto, per
esigenze difensive, ad assumere posizioni troppo rigide che ci hanno reso meno credibili riducendo
anche il tasso di consenso attorno alle nostre scelte. È questo un esempio di multilateralismo
passivo, o reattivo, che è esattamente l’opposto di quello che sarebbe consigliabile.
Anche in questo caso si pone il problema dell’aggiornamento degli strumenti decisionali e delle
risorse economiche, sia per garantire una maggiore e più qualificata presenza all’interno delle
organizzazioni internazionali, sia per rafforzare la capacità di gestione dei vari dossier.
Determinanti diventano peraltro anche altri aspetti, su cui l’Italia è meno arretrata che in altri
settori, come la preparazione del personale diplomatico, la capacità di elaborazione o quella
negoziale.
Rafforzare le alleanze e i rapporti bilaterali al fine di accrescere l’efficacia del quadro multilaterale
212
è una politica certamente delicata e difficile, ma appare come quella più efficace per gestire con
successo i nuovi problemi regionali e globali e le tante crisi in atto.
Nomine Ue
Italia surclassata a Bruxelles, ma è solo il primo tempo
Raffaello Matarazzo
21/09/2010
Benché sia formalmente scorretto parlare in termini di posti “nazionali” attribuiti a questo o quel
paese, la realtà è che, all’interno dell’Ue, vi è una certa competizione tra gli stati membri. Questo
vale a maggior ragione per il nuovo Servizio diplomatico europeo (Seae), che vede l’impiego
diretto di funzionari “nazionali”. Ed è qui che le posizioni affidate a diplomatici italiani al termine
della prima tornata di nomine - 13 posti di capo missione dell’Ue - hanno sollevato alcune
perplessità. Poiché entro la fine dell’anno l’Alto rappresentante Lady Ashton nominerà una nuova
tornata di personalità ai vertici del Seae, l’analisi sia dell’accaduto che di alcuni aspetti dei rapporti
tra Italia e Ue può, forse, aiutare a ottenere risultati più in linea con le aspettative.
Annus horribilis
Non si tratta dell’unico caso in cui l’Italia, dopo aver avanzato sue candidature, anche di rilievo, ai
vertici di istituzioni europee o internazionali, ha dovuto adattarsi a risultati non soddisfacenti. Ogni
caso fa a sé, ma il loro moltiplicarsi potrebbe configurare un problema complessivo di rapporti tra
una parte dell’establishment europeo e la classe dirigente italiana. E non aiutano i recenti contrasti
politico-istituzionali: dalla questione dei Rom a quella delle quote latte, fino all’ostentata pretesa
che alcuni commissari europei “tacciano” su alcuni dossier. Né aiuta l'attivismo bilaterale italiano
verso paesi problematici, come Libia, Bielorussia o Russia.
In diverse occasioni nel corso dell’ultimo anno le ambizioni dell’Italia sono state frustrate da un lato
dal crescente protagonismo di Francia, Gran Bretagna e Germania, dall’altro dall’emergere di paesi
entrati solo recentemente nel consesso europeo (come ad esempio la Polonia) o di altri
tradizionalmente meno influenti, che si sono però rivelati più abili dell’Italia a sfruttare i margini di
manovra a loro disposizione. Lo si è visto in occasione della candidatura di Mario Mauro,
nell'estate del 2009, alla presidenza del Parlamento europeo, incarico che nessun italiano ha mai
ricoperto da quando il Pe è stato eletto per la prima volta a suffragio universale (1979).
Nonostante l’aperto sostegno alla candidatura di Mauro offerto dal capo del governo italiano (anche
in modo un po’ eterodosso rispetto alle dinamiche negoziali interne ai grandi partiti europei), il
Partito popolare europeo ha preferito sostenere, su impulso determinante della cancelliera tedesca
Merkel, il polacco Jerzey Buzek, che poi è stato eletto. Traiettoria diversa ma con esiti analoghi
quella della candidatura di Massimo D'Alema - avanzata prima dal gruppo dei socialisti e
democratici nel parlamento europeo e poi sostenuta, anche se non troppo caldamente, dal governo
italiano - al posto di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, poi affidato
alla britannica Catherine Ashton.
Forza negoziale
Una conferma della difficoltà dell'Italia ad essere adeguatamente rappresentata in ambito Ue è
venuta dalla prima tornata di nomine dei capi missione dell’Ue nei paesi terzi compiuta da Lady
Ashton, nonché dall’andamento dei negoziati per gli incarichi nella struttura centrale del nuovo
213
Seae. Dei tredici curricola di diplomatici che il Ministero degli esteri italiano ha presentato al
Comitato di selezione - costituito da cinque funzionari della Dg Relex della Commissione, più
alcuni osservatori esterni - per i 29 posti di capo missione (13 destinati a diplomatici degli stati
membri e 16 a funzionari delle istituzioni europee), due soltanto sono stati giudicati idonei ad
affrontare il colloquio finale con Lady Ashton. Di questi, solo uno è arrivato in porto: l’ex inviato
dell’Ue a Kabul, l'ambasciatore Ettore Sequi, che guiderà la missione Ue in Albania. Il diplomatico
italiano che invece non ha superato il colloquio con la Ashton avrebbe dovuto guidare la
delegazione dell’Ue in Iraq. L’altro italiano prescelto, Roberto Ridolfi, che sarà a capo della
delegazione dell’Ue in Uganda, non proviene infatti dalle fila della diplomazia, bensì della
Commissione, ed era già capo della delegazione Ue alle Fiji.
Nello stesso tempo, il diplomatico tedesco Markus Ederer si è aggiudicato la guida dell’ambitissima
delegazione di Pechino e un diplomatico austriaco è riuscito a strappare la rappresentanza di Tokyo.
La nazionalità più rappresentata in questo primo pacchetto di nomine è quella spagnola, con ben
cinque posti: il vice di Pechino, più la guida degli uffici di Argentina, Angola, Namibia e Guinea
Bissau. Tre sono i francesi (Filippine, Ciad e Zambia), tre gli irlandesi (Bangladesh, Botswana e
Mozambico), due gli olandesi (Sudafrica e Libano), due i belgi (Burundi e Senegal), due i
lussemburghesi (Singapore e Haiti), due i polacchi (Corea del Sud e Giordania).
Francesi, tedeschi e polacchi possono trarre motivo di soddisfazione anche dall’andamento dei
negoziati sugli incarichi della struttura centrale del nuovo Servizio, per i quali la diplomazia italiana
ha avanzato candidature di calibro che però, ancora una volta, non hanno incontrato i favori
dell’Alto rappresentante. L’influente incarico di Segretario generale del Seae sembra ormai certo
che verrà assegnato all’attuale ambasciatore francese a Washington, Pierre Vimont, che avrà come
vice la tedesca Helga Schmid e un polacco (sono in lizza il ministro Mikolaj Dowgielewicz e il
diplomatico Maciej Popowski). È previsto anche un “super” direttore generale, che, ormai è quasi
certo, sarà l’irlandese David O’Sullivan, capo della DG commercio della Commissione e già capo
di Gabinetto di Romano Prodi durante la sua presidenza dell'Ue.
Due lezioni
Entro la fine dell’anno Lady Ashton nominerà una nuova tornata di personalità ai vertici del Seae,
probabilmente seguendo le nuove procedure di selezione, previste per il servizio, invece di quelle
vecchie (ovvero della Dg relazioni esterne) attualemte in vigore.
Dall’esperienza che si è appena conclusa la diplomazia italiana può trarre due lezioni utili: la prima
è di operare ex ante un vaglio dei curricula più in conformità con i criteri di selezione che adotterà
il Seae; la seconda, anche alla luce del comportamento delle altre diplomazie, è di seguire ogni
candidatura con attenzione e costanza sia a livello diplomatico che politico, non rinunciando, se
necessario, anche a puntare i piedi. L’argomentazione utilizzata anche dal ministro Frattini per
giustificare l’esito deludente di questa prima selezione, secondo cui i diplomatici italiani con i cv
più competitivi hanno preferito incarichi nella diplomazia nazionale, non sembra infatti
convincente: non si può escludere che alcuni abbiano optato per sedi italiane all’estero proprio
perché consapevoli di avere poche possibilità a livello Ue.
Stile e sostanza
Ma, soprattutto, anche senza rinunciare alla difesa di iniziative diplomatiche proprie, come del resto
fanno anche gli altri paesi, sarebbe opportuno evitare che esse vengano presentate retoricamente
come una sorta di “strappo” o di rivalsa nei confronti delle istituzioni europee. È in larga misura
214
una questione di stile, prima ancora che di contenuto. Si tratta in effetti di un aspetto troppo spesso
sottovalutato, ma che finisce per indebolire le posizioni italiane e per essere usato, magari ad arte,
per suggerire sottovoce una nostra scarsa affidabilità e lealtà istituzionale. Conta poco se questo sia
vero o meno (in genere non lo è): ciò finisce comunque per essere sfruttato dai concorrenti quando,
ad esempio, si tratta di fare le scelte per gli incarichi chiave. Posizioni negoziali meno “clamorose”
in pubblico e, se necessario, più ferme nelle sedi opportune (cui l’Italia non ha mai rinunciato anche
nei decenni passati) sono in genere molto più efficaci.
Più che lamentare una conventio ad excludendum verso l’Italia, bisogna dunque riflettere con
maggiore attenzione sulle conseguenze indirette di comportamenti che, enfatizzando
eccessivamente alcuni rapporti bilaterali, fanno perdere il senso della strategia complessiva e,
quindi, anche del posizionamento internazionale. Questa incertezza strategica viene presentata in
molti (forse troppi) ambienti come una prova di inaffidabilità, il che non può che determinare forme
di marginalizzazione sulla scena europea.
Non ci sono vantaggi economici o imprenditoriali, questo è il punto di fondo, che potranno
compensare gli effetti negativi, di medio e lungo periodo, di una debolezza di linea strategica. La
vicenda delle nomine ne è peraltro solo una delle manifestazioni minori e più periferiche.
Politica estera italiana
Ministero degli esteri, i nervi scoperti della riforma
Raffaello Matarazzo
06/08/2010
La riforma del ministero degli esteri prende corpo proprio mentre all’interno della struttura divampa
la polemica – culminata nello sciopero dei diplomatici del 26 luglio, il primo dopo quasi trent’anni
– sui tagli alle risorse. Il segretario generale della Farnesina, Giampiero Massolo, ha sollevato
l’“allarme funzionamento” a causa di tagli giudicati “demotivanti per la struttura e per il personale”,
mentre il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, incontrando a Roma gli ambasciatori in
occasione della Conferenza annuale di fine luglio, ha sottolineato che i tagli, pur necessari, non
devono “mortificare funzioni e strutture portanti” dello stato, come la diplomazia. A questo
malessere si aggiungono le notizie poco confortanti che giungono sulle nomine del nuovo Servizio
europeo di azione esterna (Seae): la diplomazia italiana corre il serio rischio di rimanere tagliata
fuori sia dai vertici della nuova struttura che dalla guida delle più prestigiose delegazioni
dell’Unione all’estero.
Nozze coi fichi secchi
Lo sciopero dei diplomatici era contro tre punti: l’ulteriore taglio “orizzontale” al bilancio del
ministero degli esteri, che passerà dal già magro 0,27% del bilancio dello Stato nel 2009 a circa lo
0,25% di quest’anno - ben al di sotto dello standard europeo; l’introduzione delle cosiddette
“promozioni bianche” (ovvero senza aumento di stipendio) per almeno due anni; l’obbligo di
pensionamento a sessantacinque anni (queste ultime due misure riguardano, in realtà, tutto il
pubblico impiego). Sebbene l’adesione allo sciopero oscilli tra il 22,19% calcolato dal Dipartimento
della funzione pubblica e il 90% dichiarato dal Sndmae (il sindacato dei diplomatici), l’iniziativa ha
destato scalpore e, almeno in parte, colpito nel segno, se è vero che sono in arrivo alcune
concessioni contrattuali.
215
Ma rimane il problema delle risorse per la riforma: le spese di parte corrente assorbono ben il 99,7
% dello stanziamento pubblico per il ministero (circa due miliardi di euro), lasciando margini di
manovra estremamente esigui per l’attuazione della nuova normativa, entrata ufficialmente in
vigore a luglio.
Nuova catena gerarchica
Al di là degli aspetti economici, l’attuazione della riforma presenta nodi organizzativi di non facile
soluzione. A partire, paradossalmente, dai rischi di appesantimento della struttura derivanti dagli
sforzi di “semplificazione”. La riduzione delle direzioni generali (che passano da tredici a otto)
rende infatti necessaria una riallocazione di personale e responsabilità, che deve ovviamente essere
realizzata cercando di non mortificare professionalità e percorsi di carriera. Anche per questo, tra le
figure dei direttori generali e quelle dei capi ufficio, la riforma ha introdotto le nuove figure dei
vicedirettori/direttori centrali, che saranno venti e verranno nominati direttamente dal ministro.
Della gestione delle risorse economiche rimarranno invece responsabili i direttori generali. Inoltre
sono previsti venti vicari dei vicedirettori, che inevitabilmente tenderanno a creare un altro livello
decisionale. Si rischia così uno svuotamento del ruolo dei capi ufficio, che oggi vantano invece un
rapporto più diretto con i direttori generali, il che agevola il processo decisionale. Il risultato finale
è che la catena di comando si allunga di due passaggi, rischiando di rendere più macchinosa e
dispersiva la trasmissione delle informazioni/decisioni all’interno della struttura.
Nello stesso tempo la riduzione delle direzioni generali (che una larga maggioranza dei diplomatici
vedeva con favore, almeno stando a un sondaggio interno dello scorso marzo), accresce i poteri sia
del Segretario generale (Sg) (l’art. 6 della riforma elenca in modo molto dettagliato i suoi rinnovati
poteri di coordinamento e controllo) sia del Consiglio di amministrazione, che oltre al Sg riunisce
tutti i direttori generali. I critici della riforma hanno sottolineato il rischio di un’eccessiva
“verticalizzazione” del sistema, cui potrebbe tuttavia non corrispondere una maggiore efficienza, a
causa appunto dell’allungamento della catena gerarchica.
Sedi all’estero
Alcune preoccupazioni si registrano anche su un altro snodo chiave della riforma, quello delle sedi
diplomatiche all’estero e delle nuove responsabilità finanziarie degli ambasciatori “manager”. È
difficile infatti promuovere il “sistema paese” dovendo fare i conti con tagli così rilevanti delle
risorse. La riforma del bilancio degli esteri, adottata parallelamente a quella della struttura, ha
introdotto la possibilità per gli ambasciatori di ricorrere a sponsor esterni, ma non è facile per
un’ambasciata individuare soggetti disposti a finanziare iniziative dell’Italia all’estero senza
imporre condizionamenti. Per ovviare a questo rischio, la Farnesina ha approvato un regolamento
attuativo della riforma estremamente rigoroso, con la conseguenza però di rendere molto
complessa, per gli ambasciatori, la ricerca e selezione dei possibili sponsor.
Obiettivo non meno importante, e in cima alle priorità che hanno ispirato la riforma, è di accrescere
il coordinamento dei troppi organismi italiani operanti all’estero, che agiscono spesso in modo tra
loro incoerente. Oltre ai programmi del ministero per il Commercio con l’estero ci sono quelli di Ice
e Sace, cui si aggiungono ben 145 sedi di regioni e enti locali. Un’enorme sovrapposizione di
risorse umane e materiali che la nuova - e fondamentale nelle intenzioni degli ideatori - direzione
generale per il “sistema Paese” dovrà cercare di razionalizzare, anche attraverso la valorizzazione
della rete estera del Mae: oltre 300 tra ambasciate, consolati, istituti di cultura, unità tecniche locali
per la cooperazione, cui la nuova dg dovrà fornire una “visione strategica complessiva”. Ma sarà
estremamente arduo riuscire a farlo mentre si riduce il numero dei consolati (che diverranno 85-86,
216
rispetto ai 116 originari, già scesi a 96) e si cerca di mantenere inalterato il livello di servizi (anche
attraverso l’uso di internet e dei “consolati digitali”) alla comunità degli italiani all’estero (che
conta circa cinque milioni di persone ed è una delle più numerose del mondo).
Sfida europea
Ma la strada si presenta tutta in salita anche per l’altro obiettivo chiave della riforma, quello del
graduale adeguamento del sistema Mae alle esigenze del costruendo Servizio europeo per l’azione
esterna (Seae) dell’Ue. La decisione istitutiva del Seae è stata adottata dal Consiglio dei ministri
degli esteri dell’Ue il 26 luglio, e poiché lo si vuole far entrare in funzione entro il prossimo 1°
dicembre, la definizione delle nomine interne è già in fase avanzata.
Le notizie, per il momento, non sono buone per l’Italia, che rischia di rimanere tagliata fuori dagli
incarichi più importanti. Sembra infatti ormai certo che l’influente incarico di Segretario generale
del Seae verrà ricoperto dall’attuale ambasciatore di Francia a Washington, Pierre Vimont, mentre i
suoi due vice saranno un tedesco e un polacco. Anche tra le ventinove postazioni di capo
delegazione dell’Ue nel mondo - che l’Alto Rappresentante Lady Ashton sta gradualmente
assegnando - le più prestigiose rischiano di non essere appannaggio dell’Italia. A concorrere per i
posti di capo delegazione per l’Italia ci sono nomi di primo piano come quello di Fernando
Gentilini, ex rappresentante civile per la Nato in Afghanistan, e di Ettore Sequi, ex inviato speciale
dell’Ue a Kabul.
Se le notizie sui negoziati per gli incarichi nel Seae dovessero essere confermate, il peso politico
dell’Italia rischierebbe di subire un ridimensionamento, soprattutto rispetto ai principali partner
europei. L’obiettivo fondamentale della riforma del ministero degli esteri appena entrata in vigore è
di sintonizzare il sistema italiano con quello dei principali partner europei, per avvicinarsi ai loro
standard di efficienza e capacità. Sia la portata dei tagli approvati dall’ultima finanziaria che le
oggettive difficoltà di attuazione di una riforma a “costo zero” sollevano non pochi dubbi sulla
raggiungibilità dell’obiettivo. Ma anche sulle effettive possibilità del Mae di continuare a
promuovere efficacemente gli obiettivi politici e culturali dell’Italia nel mondo, come è riuscito a
fare per molti anni, con importanti risultati per tutto il paese. Ancora una volta, la professionalità e
il rigore dei diplomatici italiani dovranno cercare di sopperire alle gravi lacune “di sistema” che
gravano sulle loro spalle. Ma, forse oggi più che in passato, è difficile dire se riusciranno a giocare
con successo questa complessa partita.
Trattato di Lisbona
Servizio diplomatico europeo ai nastri di partenza
Raffaello Matarazzo
27/06/2010
Lady Ashton è riuscita a superare quasi indenne l’ultimo ostacolo sulla strada del nuovo Servizio
diplomatico europeo (Seae), che entrerà in funzione con ogni probabilità subito dopo l’estate.
L’accordo recentemente raggiunto tra l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di
sicurezza dell’Ue (AR) e il Parlamento europeo (Pe) sull’organizzazione e il funzionamento del
Seae, salvaguarda i punti di fondo del compromesso che era stato sottoscritto a fine aprile con gli
Stati membri, anche se riconosce al Pe un maggior ruolo di controllo sulla politica estera e
sull’azione esterna dell’Ue.
217
Banco di prova
Il Seae è l’anello centrale del nuovo sistema di politica estera europea previsto dal Trattato di
Lisbona. Per la sua completa entrata a regime ci vorrà ancora molto tempo, forse l’intera legislatura
europea attuale. Sarà uno dei principali banchi di prova dell’attuazione del nuovo trattato.
Quando Lady Ashton aveva presentato la prima proposta sul Seae, a fine marzo, il Parlamento
aveva immediatamente sollevato, per voce unanime dei tre principali gruppi parlamentari (Ppe,
Asde e Alde, pur se con vari dissensi), una serie di obiezioni all’impianto del progetto. Al centro
dello scontro è stata la natura e la collocazione istituzionale del nuovo Servizio. Il Parlamento si è
fino all’ultimo opposto all’idea, che alla fine è invece prevalsa, che il Seae dovesse essere un
servizio sui generis, autonomo sia dalla Commissione che dal Segretariato del Consiglio, pur
essendo a questi strettamente collegato.
Per il Pe, il Seae doveva essere invece inserito all’interno della struttura della Commissione, sia dal
punto di vista amministrativo che di bilancio. Secondo il Pe questa soluzione avrebbe infatti
garantito alla Commissione di continuare ad esercitare un controllo diretto sulla programmazione
degli strumenti finanziari dell’azione esterna (che rientrerà tra le competenza del Servizio) e sulle
delegazioni dell’Unione all’estero, garantendo un più efficace coordinamento e salvaguardando la
dimensione “comunitaria” dell’azione esterna.
Ma nel Seae rientreranno anche le strutture che presiedono al funzionamento della Politica estera e
di sicurezza Comune (Pesc) e della Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc), la cui gestione
ha un carattere strettamente intergovernativo, e questo rendeva la proposta del Pe particolarmente
indigeribile non solo per gli Stati membri, ma anche per la stessa AR. L’inserimento del Seae nella
Commissione avrebbe implicato, per altro, anche una forzatura rispetto al Trattato di Lisbona, che
contiene specifiche limitazioni a possibili interpretazioni “evolutive” in ambito Pesc e Psdc, come
chiaramente indicato anche nelle dichiarazioni 13 e 14 sulla politica estera allegate al Trattato.
Aiuti allo sviluppo
Il compromesso raggiunto con il Parlamento al termine di un braccio di ferro durato vari mesi,
mantiene l’autonomia amministrativa e di bilancio del Servizio, pur prevedendo un leggero
spostamento (rispetto al testo di aprile) degli equilibri complessivi del Seae a favore della
Commissione. Sul controllo degli strumenti finanziari dell’azione esterna, e in particolare di quelli
per gli aiuti allo sviluppo,si è registrato lo scontro più aspro. La gestione dei programmi per
l’azione esterna dell’Ue rimarrà sotto la diretta responsabilità della Commissione, mentre al Seae
farà capo la loro programmazione strategica. All’AR l’ambizioso compito di garantire il
coordinamento e l’armonizzazione complessiva della struttura.
Nel caso dei fondi per gli aiuti allo sviluppo (il cespite più ricco del bilancio dell’azione esterna,
ammontando a circa sei miliardi di euro all’anno), la responsabilità non solo della gestione, ma
anche della programmazione continuerà a rimanere tuttavia nelle mani del Commissario
competente, il lettone Andris Piebalgs (e che siede anche, a nome del collegio, nel Consiglio affari
esteri presieduto dalla Ashton), che insieme all’AR sottoporrà le decisioni al collegio dei
commissari. Il Parlamento l’ha inoltre spuntata sull’introduzione di una quota minima (60%) di
funzionari del Seae che dovrà provenire dai ranghi delle istituzioni comunitarie.
Per limitare i poteri del Segretario generale “esecutivo” che sarà, sotto l’autorità dell’AR, a capo del
Seae (il nome più accreditato continua a essere quello del dell’ambasciatore di Francia a
218
Washington, Pierre Vimont) il Parlamento ha ottenuto la creazione della figura di un direttore
generale responsabile del bilancio e dell’amministrazione del Servizio che, con ogni probabilità,
proverrà dai ranghi della Commissione. I nomi degli italiani più accreditati per questo o per altri
incarichi di primo livello sono quelli di Stefano Sannino, attuale direttore generale aggiunto della
Dg Relex e di Stefano Manservisi, direttore generale allo Sviluppo e alle relazioni con i paesi Acp,
entrambi nella Commissione, anche se il primo è diplomatico di carriera, fatto non secondario per le
delicate trattative dei prossimi mesi.
Trasparenza e ambizione
Poiché il Parlamento ha puntato, tramite il negoziato sul Seae, ad accrescere il suo controllo
complessivo sulla politica estera dell’Ue (sulla base dell’ambizioso modello del Congresso
americano), il successo più importante riguarda probabilmente gli accresciuti poteri che avrà sia sul
bilancio dell’azione esterna che su quello della Pesc. Oltre, comunque, all’importante voce in
capitolo su ampia parte delle finanze del Servizio. L’AR sarà poi tenuto a informare per tempo il
Parlamento su tutte le principali decisioni strategiche e politiche che adotterà, in ossequio all’art. 36
del Tue, e alcuni parlamentari potranno, su richiesta del presidente della Commissione esteri, avere
accesso a informazioni confidenziali e a documenti classificati sulle missioni civili e militari
dell’Ue. Obiettivo anche quest’ultimo inseguito da molti anni.
I capi delle delegazioni dell’Unione freschi di nomina verranno inoltre auditi dal Pe prima di
assumere il loro incarico nelle sedi strategicamente più importanti e, insieme ai capi delle missioni
Psdc e a funzionari di alto livello del Seae dovranno presentare costanti rapporti al Parlamento. Nel
caso in cui l’AR non fosse nelle condizioni di intervenire in una plenaria del Pe, potrà essere
sostituita solo o da un Commissario competente o, per questioni riguardanti la Pesc, dal ministro
degli esteri del paese che detiene la presidenza di turno. Questo complesso di impegni dell’AR è
contenuto in un’apposita dichiarazione dell’AR sul controllo e la trasparenza dell’azione esterna,
che verrà allegata alla decisione istitutiva del Seae che il Consiglio adotterà ufficialmente a luglio,
dopo il parere dell’Assemblea di Strasburgo.
Non è affatto scontato che il complesso meccanismo messo in piedi a Bruxelles riesca nell’obiettivo
di rendere la proiezione esterna dell’Ue più coerente e efficace. Anzi, a Bruxelles e nelle capitali
sono in molti a scommettere sul suo fallimento. Ma in molti casi sono gli stessi che alla vigilia
dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona presagivano l’imminente avvio di una confusa guerra
di potere tra le nuove figure istituzionali dell’Ue, destinata a paralizzare definitivamente l’Unione.
Si trattava di una previsione naufragata davanti all’intelligente sforzo unitario condotto dalle
principali cariche istituzionali europee per affrontare la crisi economica. Cui, purtroppo, continua
troppo spesso a corrispondere un atteggiamento degli stati membri grettamente arroccato nella
difesa dei propri fortini assediati. Le nuove istituzioni create dal Trattato di Lisbona hanno in sé
tutte le potenzialità per poter far compiere all’azione esterna dell’Unione un passo avanti,
compatibilmente con il difficilissimo contesto internazionale.
Il Seae è l’anello centrale del nuovo “sistema” di politica estera europea configurato dal nuovo
Trattato e sarà il più importante banco di prova del suo successo. Quello che conta è che il nuovo
Servizio aiuti l’AR a coordinare meglio le scelte di politica estera compiute in un contesto
intergovernativo, con le politiche e gli strumenti finanziari gestiti dalla Commissione. Con
l’obiettivo non ancora di avere una politica estera unica dell’Ue, ma una politica estera in grado di
utilizzare tutti propri strumenti in maniera più efficace e coerente.
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