La crisi che uccide i caratteri di un`emergenza
Transcript
La crisi che uccide i caratteri di un`emergenza
dossier S.O.S. LAVORO La crisi che uccide i caratteri di un’emergenza sociale Di Rossella Colonna, psicologa-psicoterapeuta, presidente dell’Associazione di volontariato “Psicologi per i Popoli - Bari e Bat” e consulente psicologa per gli Sportelli Integrati di Ascolto Urp - Informagiovani del Comune di Bari. “Lo chiamerei assordante il silenzio che ho avvertito il 18 aprile scorso guardando le immagini della fiaccolata organizzata al Pantheon di Roma, chiamata appunto “Silenziosamente”. Più di mille persone hanno voluto denunciare ciò che ormai riveste tutti i caratteri di un’emergenza sociale: la congiuntura economica negativa che stiamo vivendo sta scatenando pericolosi disagi esistenziali ed effetti valanga spaventosi su imprenditori, artigiani e giovani disoccupati. I dati sono allarmanti, senza tener conto dei casi non denunciati o che non trovano eco sulla stampa: nel triennio 2009-2011 più di 12 mila aziende fallite, più di 1.000 suicidi tra imprenditori e lavoratori e già 23 vittime dall’inizio del 2012. Non mi è nuovo vedere gente “pescare” nella spazzatura o nei cassonetti degli abiti dismessi, mi risulta sorprendente però se a farlo cominciano ad essere persone che hanno avuto, hanno posseduto, hanno guadagnato e che ora devono rinunciare senza possibilità di scampo alla propria identità. Oserei dire che si tratta di una povertà diversa, più umiliante, perché subita e non cercata. Il nuovo povero diventa il diverso, quello che non ce l’ha fatta, quello che si assume la colpa e prova la vergogna di non essere stato capace di proporsi come concorrente valido nella competizione e che ne è uscito vinto, il disperato che se l’è cercata, che non era all’altezza delle aspettative della collettività e che sceglie, non a caso, di mettere fine alla sua vita proprio nelle piazze o nei posti di lavoro, lasciando lettere e testimonianze che la dicono lunga sulla scelta estrema del suicidio. La situazione è tale che ci impone un rovesciamento di prospettiva: non si tratta più solo di soggetti incapaci di adattamento alla realtà ma di una realtà che si è fatta patogena e produttrice di psicosi. Il problema va rovesciato: è la realtà in cui si vive che non risulta più funzionale e rispondente ai bisogni esistenziali. Accade che ci si sente soli e l’angoscia che ne deriva rende impotenti, oppressi, perseguitati da un mondo che si mostra ostile, pretenzioso, frustrante. Dietro un suicidio vi è la disperazione mista al disincanto e vi è una sfida rabbiosa al Potere, all’Autorità che non ascolta, all’Altro che non vede e al Sé che ha perso, che non è stato in grado, che non è degno. La mia professione mi porta costantemente ad accogliere e prendere in carico giovani adulti, padri e madri di famiglia e neo- pensionati che arrivano a consulenza con una richiesta di aiuto confusa: “Sto male e non so come mai!”. Un’analisi della domanda attenta e illuminante permette di riconoscere nel disagio manifestato storie di disperazione, paura ed annichilimento, rabbia e frustrazione, rassegnazione che, il più delle volte, si generano come effetto di un malessere ben più generale e disgregante: l’angoscia per il futuro della propria famiglia, il terrore di non farcela a risalire, la paura invalidante di non essere più utile per nessuno. Non è cosa facile né immediata prendere consapevolezza delle emozioni connesse al proprio disagio: il panico, uno stato depressivo o disturbi di natura psicosomatica non sono solo i sintomi di cui liberarsi con il bisturi chirurgico ma diventano l’espressione di un vissuto fatto di rabbia e di frustrazione per qualcosa che si desidera e che non si riesce ad ottenere; l’ansia generalizzata sino alla fobia sociale acquistano un senso se inscritti in un processo di paura ed allarme continuo davanti ad un pericolo, reale o immaginario, che non si è sicuri di controllare e arginare; l’impotenza e la rassegnazione diventano il corollario di un vissuto di perdita di ciò che un attimo prima si aveva tra le mani e che ormai è andato disperso senza ragione. La crisi economica e le preoccupazioni ad essa connesse arrivano sullo sfondo a decolorare e a sbiadire le figure in superficie. Ogni storia di vita che mi viene raccontata ha come denominatore comune il senso di sfiducia per quello che c’è e profonda angoscia per ciò che potrebbe accadere. È uno stato di sospensione che attanaglia, che imprigiona, che toglie il fiato per un tempo indefinito, quasi senza sosta, che non permette di progettare, promuovere, attivare energie. È un Sé che perde ogni giorno la sua energia creativa e propulsiva, che sceglie di uscire dai giochi e di farla finita una volta per tutte. Per molti di loro non bastano più le sicurezze della propria famiglia o le gioie del tempo trascorso con gli amici. Il pensiero è fisso: devo sopravvivere! E, come un tarlo che si inchioda nelle parti più nascoste, così il pensiero della ricerca del lavoro diventa un’ossessione e connota di senso negativo ogni evento della propria vita: “Non c’è speranza per me, qualsiasi cosa farò non porterà a nulla!”. Ci si chiude in sé, l’Altro non ha più valore perché non può aiutare o perché non ci si fida e isolarsi diventa la scelta migliore da compiere. Nella mia attività di consulente per gli “Sportelli integrati di ascolto”, istituiti presso l’Urp - Informagiovani del Comune di Bari, è dall’inizio del corrente anno che ho registrato un incremento di richieste di orientamento professionale e sostegno psicologico connesso alla ricerca attiva del lavoro. La maggior parte dell’utenza si rivolge al servizio con la richiesta esplicita di essere facilitato nel processo di ricerca del lavoro in quanto molti di loro manifestano, non senza incredulità, di non sapere nemmeno verso quale scelta dirigersi o di non esserne più capace. Da un lato vi sono giovani inoccupati alla ricerca della prima occupazione lavorativa che riscontrano difficoltà nel proporsi e nel promuoversi, dall’altro vi sono disoccupati di media età che devono affrontare la trasformazione repentina nella gestione della propria vita lavorativa e che sono disposti ad “accettare qualsiasi cosa” pur di lavorare. Da un lato vi sono giovani promettenti che, usciti dal circuito universitario, vogliono cominciare a mostrare quello che valgono: hanno sogni, ideali ed energie e rimangono spiacevolmente delusi quando cominciano a rendersi conto che “non c’è spazio per tutti!” e che bisognerà cominciare ad accontentarsi se si vuole lavorare. Sono giovani arrabbiati che si vedono rifiutati nel loro processo di crescita ed assunzione di responsabilità, a cui non è più permesso sognare perché “Non c’è tempo! Non ne vale la pena!”. Dall’altro ci sono adulti che hanno visto svanire il proprio progetto di vita dopo che l’ennesima azienda è stata chiusa e che non hanno più l’energia e l’età per ricominciare; sono padri e madri di famiglia, soprattutto separati, che di quel lavoro avevano proprio bisogno non certo per acquistare un cellulare di ultima generazione al proprio figlio ma almeno per permettergli di farlo sentire “come”gli altri bambini portandolo al cinema ogni tanto. Sono adulti che chiedono di essere ascoltati senza vergogna e di essere compresi nella propria disperazione senza sentirsi giudicati. Sono adulti che si permettono di raccontarsi nelle proprie fragilità e nelle proprie debolezze e che chiedono una nuova chiave di lettura agli eventi inesorabili affinché possano smetterla di pensare al suicidio come unica strada percorribile. Non siamo più di fronte a casi isolati, il pericolo minaccia di farsi normalità e, in quanto tale, comincia ad acquisire il peso e la problematicità dell’emergenza. È proprio alla luce di questo, infatti, che l’Associazione di Volontariato “Psicologi per i Popoli- Bari e Bat”, di cui sono Presidente, sente l’esigenza di raccogliere tali testimonianze e di considerare la possibilità di perfezionare, rendendola attuale, la nostra mission associativa. Sarebbe interessante, infatti, pensare di affiancare alle attività primarie della maxi- emergenza (calamità naturali, disastri, incidenti maggiori, sostegno alle famiglie degli scomparsi…) previste dal nostro Statuto, attività e progetti di sostegno e assistenza alle vittime di una nuova forma di emergenza, quella appunto della crisi economica che uccide. Curare non può solo significare preoccuparsi della persona malata di fronte alla morte, quanto piuttosto di quella sana per essere insieme di fronte alla vita. Solo in una dimensione sociale la cura può autenticamente significare sollecitudine e partecipazione: c’è guarigione del singolo, ma anche lo straordinario sviluppo delle potenzialità collettive.”