Mancata “ricalibratura” o “retrenchment”?

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Mancata “ricalibratura” o “retrenchment”?
Mancata “ricalibratura” o “retrenchment”?
Gli sviluppi delle politiche di tutela per gli anziani non
autosufficienti nel caso italiano
di
Marco Arlotti*
Paper for the Espanet Conference
“Italia, Europa: Integrazione sociale e integrazione politica”
Università della Calabria, Rende, 19 - 21 Settembre 2013
(si prega di non citare senza il consenso dell’autore)
*Assegnista di ricerca DISES – Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali,
Università Politecnica delle Marche, [email protected]
Abstract: Nell’ambito della letteratura sui nuovi “rischi sociali” l’Italia si colloca fra i paesi a maggior
ritardo nella ricalibratura del welfare. Di tale ritardo è paradigmatico il settore delle politiche di tutela
degli anziani non autosufficienti dove peraltro, in parallelo all’inerzia dell’intervento pubblico, si è
assistito ad una crescente privatizzazione della cura in termini di mercato. L’obiettivo del paper è quello,
tuttavia, di esplorare una diversa ipotesi interpretativa che lega le difficoltà attuali nella cura degli
anziani non autosufficienti non tanto ad un presunto ritardo nei processi di ricalibratura quanto, in
prima istanza, ad un processo di retrenchment, ovvero di negazione di diritti. A sostegno di tale ipotesi
verranno utilizzante varie fonti: dall’analisi normativa-istituzionale ad interviste con testimoni
privilegiati e familiari di anziani non autosufficienti. I risultati principali intendono delineare un nuovo
quadro interpretativo per comprendere i meccanismi che conducono alle attuali criticità nel campo della
tutela degli anziani non autosufficienti. Inoltre forniscono degli spunti di riflessione, su un piano più
generale, per comprendere le dinamiche di retrenchment in un settore specifico, ovvero quello delle
politiche universalistiche di tutela della salute.
1. Le trasformazioni del welfare e le politiche di tutela per gli anziani non autosufficienti
Nel corso degli ultimi decenni i processi di mutamento che hanno investito la dimensione sociodemografica e socio-economica hanno sottoposto a crescenti tensioni i sistemi nazionali di welfare
frutto dei trent’anni gloriosi di sviluppo post-bellico (cfr. Ferrera, 2007; Ascoli, 2011). Dal punto di
vista teorico la letteratura sociologica e politologica ha fornito diverse interpretazioni circa le
trasformazioni, in tale quadro, del welfare state. Seppur in estrema sintesi, si può dire che nel corso
degli anni ’90, in particolare la prospettiva neo-istituzionalista ha messo in luce una certa inerzia
del welfare al cambiamento in base ad una supposta dinamica di “path-dependency” (cfr. Pierson,
1994). In direzione opposta, l’approccio delle “risorse di potere” (cfr. Korpi e Palme, 2003) ha
invece evidenziato una dinamica di “retrenchment”, ovvero di ridimensionamento del welfare a
fronte dell’affermazione del paradigma neo-liberista.
Entrambe queste prospettive sono state tuttavia oggetto di critiche. Sul versante neo-istituzionalista
è montata, infatti, una riflessione di carattere “post-determinista” volta ad analizzare più
attentamente le dinamiche e i meccanismi del cambiamento istituzionale (cfr. Streeck e Thelen,
2005). In alcuni studi, come quelli di Hacker (2004), vengono per esempio rilevati processi di
“retrenchment “nascosto” in paesi fino ad allora considerati paradigmatici per supposta stabilità
istituzionale. Al contempo, i processi di riforma comunque attuati nei paesi europei e volti alla
copertura dei cosiddetti “nuovi” rischi sociali (es. conciliazione, attività di cura, disoccupazione di
lungo periodo) (cfr. Taylor-Gooby, 2004; Bonoli, 2006), hanno evidenziato come riforme di
carattere espansivo si possano realizzare pur in una fase di austerità permanente, attraverso processi
di “ricalibratura” del welfare, intesi, da un punto di vista funzionale, come ri-equilibrio delle risorse
dai “vecchi” ai “nuovi” rischi sociali (es. “meno pensioni; più servizi sociali e prestazioni alle
famiglie”) (cfr. Ferrera, 2007).
In tale scenario le politiche rivolte alla tutela degli anziani non autosufficienti, ovvero persone con
limitazioni notevoli della propria autonomia a causa di patologie invalidanti e di gravi condizioni
fisiche e psichiche (cfr. Santanera 2010), hanno registrato un notevole interesse d’approfondimento
(cfr. La Rivista delle Politiche Sociali, 2011). Ovviamente, in ciò incide la progressiva centralità
che assume, nelle società europee, tale tipo di bisogno, ma anche il fatto che questa area di policy
costituisce un osservatorio privilegiato per testare le ipotesi sui processi di “ricalibratura” del
welfare.
Rispetto tali processi la letteratura rileva per il caso italiano una specifica caratterizzazione. In
termini generali, l’Italia si colloca infatti fra i paesi a maggior ritardo nella “ricalibratura” del
welfare (cfr. Ranci e Migliavacca, 2011), mentre sono state ampiamente adottate politiche di
‘retrenchment’ e di contenimento della spesa (cfr. Ascoli e Pavolini, 2012). Un caso esemplare di
2
questo ritardo sono proprio le politiche di tutela degli anziani non autosufficienti dove il mancato
riconoscimento di un diritto garantito alla cura (cfr. Costa, 2011) si è accompagnato all’inerzia
dell’intervento istituzionale e al persistere dell’attribuzione alle famiglie, anche attraverso un esteso
sistema di obbligazioni familiari (cfr. Naldini e Saraceno, 2007), dei principali compiti di cura e di
assistenza.
A ciò si aggiunge recentemente, una tendenza alla privatizzazione della cura verso sviluppi di
mercato attraverso il ricorso delle famiglie all’assistenza privata delle “badanti”, che ha comportato
una ri-articolazione del tratto familista del sistema di welfare italiano (cfr. Da Roit e Sabatinelli,
2005). Nonostante l’assenza di riforme sul piano nazionale si sarebbe, dunque, in presenza di
processi di cambiamento graduale (cfr. Costa, 2011), sospinti da vari fattori. Sul fronte della
domanda sociale incide il tendenziale indebolimento delle reti familiari nel far fronte ai bisogni di
cura degli anziani, mentre sul fronte dell’offerta svolgono un ruolo cruciale la presenza di un vasto
settore di immigrazione irregolare, che rende accessibile una cura a basso costo ad ampi strati
sociali, e un sistema di protezione sociale inerziale, sbilanciato sui trasferimenti monetari (pensioni
e indennità di accompagnamento) che sostiene la solvibilità della domanda (cfr. Pugliese, 2011; Da
Roit e Sabatinelli, 2012).
Tuttavia, come si è avuto modo di evidenziare in altri contributi (cfr. Arlotti, 2012a), se si adotta
una diversa prospettiva d’indagine più attentamene rivolta all’analisi a livello micro del contenzioso
fra pubbliche amministrazioni, associazioni di tutela e famiglie di anziani non autosufficienti, ciò
che emerge è un quadro differente. Di fatto la familizzazione della cura contrasta non solo con un
ordinamento che pone dei limiti a un coinvolgimento indiscriminato delle solidarietà intergenerazionali, ma anche con l’esistenza di un quadro normativo che riconosce, nell’ambito delle
responsabilità del Servizio sanitario nazionale, diritti soggettivi esigibili per quanto riguarda la
garanzia della continuità di cura alle persone anziane non autosufficienti (cfr. Santanera, 2010).
2. Ipotesi di ricerca, metodologia e struttura del paper
A partire dal quadro teorico ed analitico supra l’obiettivo del paper è quello di approfondire
l’ipotesi di un processo di “retrenchment”, a partire dal quale si ritiene debba essere ricondotta
principalmente la tendenza alla familizzazione e privatizzazione della cura che costituisce il tratto
dominante negli assetti di tutela degli anziani non autosufficienti nel caso italiano. Questo tipo di
ipotesi comporta un’integrazione del quadro interpretativo consolidato a livello di letteratura in base
al quale, come si è cercato di sintetizzare, le problematiche connesse alla tutela degli anziani non
autosufficienti vengono piuttosto associate ad un ritardo nella “ricalibratura” del welfare e
all’assenza di riforme in questo settore.
In termini di traduzione operativa, l’ipotesi del “retrenchment” si aggancia ad una negazione di
diritti di cura e di assistenza riconosciuti dal nostro ordinamento alle persone anziane
autosufficienti. Tale negazione prende le forme dello “scarico” di responsabilità dal settore sanitario
a quello socio-assistenziale per arrivare, in ultima istanza, alle famiglie.
A sostegno di tale ipotesi, da un punto di vista metodologico, verrà adottata una duplice strategia di
ricerca principalmente di carattere “qualitativo”. In primo luogo verrà effettuata una ricognizione
del filone sentenziale più recente che ha riguardato il contenzioso fra pubbliche amministrazioni,
associazioni di tutela e famiglie di anziani non autosufficienti. Questa prospettiva di ricerca, del tipo
legal studies (cfr. Arlotti, 2012a) risulta ancora poco sviluppata, se non del tutto assente, nello
studio sociologico delle politiche di welfare nel nostro paese.
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A seguire i processi di negazione di diritti verranno indagati sia dal punto di vista della dinamica
processuale, cogliendo in questo le indicazioni della letteratura sul process tracing (cfr. Vennesson,
2008), sia attraverso una ricostruzione della dinamica “macro-meso-micro” con l’intento di
individuare l’insieme di fattori che influiscono da un punto di vista istituzionale-organizzativo e
delle interazioni fra attori. A livello empirico verranno utilizzate varie fonti che vanno da alcune
sentenze più recenti, per arrivare a contributi di letteratura specialistica, bollettini e riviste di
associazioni di tutela nonché interviste semi-strutturate condotte con testimoni privilegiati e
famiglie1.
La struttura del paper prevede a seguire (par. 3) una sintetica ricostruzione del sistema delle
politiche di tutela degli anziani non autosufficienti. In particolare verrà ricostruito il quadro
normativo-istituzionale e specificato attentamente il livello di diritti soggettivi esigibili che il nostro
ordinamento riconosce a tutela degli anziani non autosufficienti. A partire da tale ricostruzione
verranno analizzate alcune pratiche sostantive di negazione di diritti (par. 4). L’esistenza di un
quadro normativo che tutela la condizione degli anziani non autosufficienti, anche attraverso la
garanzia della continuità di cura, verrà inoltre esplicitato attraverso un’analisi processuale e il
racconto di una persona che ha vissuto le conseguenze dei processi di negazione dei diritti e di
scarico delle responsabilità dal settore sanitario sulle famiglie (par. 5). A partire da tali risultanze si
cercherà di abbozzare un primo quadro interpretativo (par. 6), mentre nelle conclusioni verranno
tirate le file dell’analisi svolta, con alcune considerazioni su un piano più generale rispetto alle
dinamiche di “retrenchment” nell’ambito delle politiche universalistiche di tutela della salute.
3. Il sistema delle politiche di tutela degli anziani non autosufficienti nel caso italiano
Come si è già accennato in apertura l’anziano non autosufficiente è una persona la cui autonomia è
fortemente limitata (impossibilità di camminare, incapacità di alimentarsi da sola, incontinenza
urinaria e/o sfinterica, anche impossibilità di manifestare esigenze vitali come fame, sete, caldo,
freddo) a causa di patologie invalidanti e della gravità delle condizioni fisiche e psichiche (cfr.
Santanera, 2010). Il fatto che la non autosufficienza derivi, primariamente, da condizioni di malattia
emerge peraltro in maniera chiara dall’indagine ISTAT (2010) sulla popolazione disabile.
In base alle rilevazioni ISTAT tra le persone anziane disabili più del 64.7% di queste presenta
almeno una malattia cronica grave (ibidem: 51). Il 70% addirittura tre o più. E per malattie croniche
si considerano tutta una serie di patologie che vanno dal diabete all’infarto del miocardio, all’angina
pectoris ad altre malattie del cuore, l’ictus e l’emorragia cerebrale, la bronchite cronica e
1
Le interviste sono state effettuate nell’ambito di due progetti di ricerca sulle politiche di tutela degli anziani non
autosufficienti in alcuni contesti regionali del Centro-Nord Italia:
a) PRIN 2008 – Nuovi rischi sociali e risposte di policy. La riconfigurazione tra pressioni sovra-nazionali e subnazionali: il caso dell’assistenza ai non autosufficienti (Prof. ssa Fargion, Università degli studi di Firenze): sono state
condotte in Piemonte e Lombardia 10 interviste, di cui in ciascuna regione: 1 referente regionale; 1 referente politico; 1
referente organizzazioni sindacali pensionati; 1 referente associazioni di tutela; 1 referente enti gestori servizi
residenziali.
b) ISSMA 2012 – Politiche e servizi per anziani non autosufficienti nelle Marche (Prof. Yuri Kazepov, Università degli
studi di Urbino). Come approfondimento sui casi locali di Pesaro e Ancona sono state condotte complessivamente 26
interviste, di cui: 2 coordinatori d’ambito; 2 direttori di distretto; 2 referenti area anziani; 2 medici; 4 infermieri; 8
assistenti sociali; 6 con familiari di anziani non autosufficienti.
Parte delle considerazioni contenute in questo paper riprendono, inoltre, un percorso di ricerca svolto nell’ambito di una
tesi di dottorato in sociologia economica (XXIII ciclo, Dipartimento di Studi Sociali, Università degli Studi di Brescia:
Fra sanità ed assistenza. La tutela degli anziani cronici non autosufficienti in Italia). In questo ho potuto beneficiare di
una borsa di studio del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. La responsabilità dei contenuti del
paper sono esclusivamente dell’autore ed esonerano i referenti e le istituzioni suindicate.
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l’enfisema, la cirrosi epatica, il tumore maligno (inclusi linfoma/leucemia), il parkinsonismo;
l’alzheimer e le demenze senili (ibidem: 50).
Da ciò ne discende che le responsabilità istituzionali riguardo la tutela degli anziani non
autosufficienti ricadono principalmente all’interno del sistema della tutela della salute, ovvero sul
Servizio sanitario nazionale. Non a caso la normativa vigente che ha definito i LEA – Livelli
essenziali di assistenza (dpcm 29 novembre 2001, convertito in legge dall’art. 54 della l. 289/2002),
prevede nell’allegato 1C sull’area “integrazione socio-sanitaria”, una serie di prestazioni
(aggiuntive a quelle ospedaliere) che devono essere garantite, in quanto diritto soggettivo esigibile e
senza limiti, a tutela delle condizioni degli anziani non autosufficienti. Tali prestazioni, che
spaziano dall’assistenza domiciliare, per arrivare agli interventi di carattere semi-residenziale e
residenziale, sono sia “sanitarie” che “sanitarie di rilevanza sociale”, ovvero prestazioni nelle quali,
come recita il dpcm: “la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente
distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo non attribuibile alle risorse
finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale”. In questo caso viene, dunque, prevista una
quota di compartecipazione a carico dell’utente/Comune, in base a percentuali stabilite all’interno
della stessa normativa LEA (tab. 1).
Tab. 1 - Livelli essenziali di assistenza (LEA) anziani non autosufficienti: livello di assistenza, prestazioni, %
costi a carico utente/Comune
Livello di assistenza
Prestazioni
% costi a carico
utente/ Comune
Assistenza domiciliare
Servizi semiresidenziali
Medicina generale e specialistica
Infermieristiche
Riabilitative
Assistenza tutelare
Assistenza farmaceutica, protesica e integrativa
Terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità
0%
0%
0%
50%
0%
50%
Servizi residenziali
Cura e recupero funzionale in fase intensiva e estensiva
Terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità
0%
50%
Fonte: ri-elaborazione su dpcm 29/11/2001
Per un’individuazione più precisa della fattispecie di prestazioni e dell’articolazione dei rapporti fra
sanità e sociale occorre, tuttavia, integrare la lettura del dpcm sui LEA con un ulteriore dpcm,
quello del 14/2/2001 (“Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie”).
In tale dpcm, a cui la stessa normativa sui LEA fa riferimento, l’articolazione delle prestazioni
socio-sanitarie rimanda a tre livelli: “elevata integrazione sociosanitaria”, “sanitarie a rilevanza
sociale” e “sociali a rilevanza sanitaria”. A ciascuna di queste prestazioni corrisponde una fase
specifica dell’intervento assistenziale e una specifica copertura dei costi (tab. 2). Si va dalla totale
copertura degli oneri a carico del Fondo sanitario nazionale nel caso delle cosiddette prestazioni ad
“elevata integrazione sociosanitaria”, caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità
della componente sanitaria, ad una suddivisione dei costi al 50% fra sanità e sociale per quanto
riguarda, invece, le cosiddette prestazioni “sanitarie a rilevanza sociale”.
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Tab. 2 - Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie: sintesi principale
Prestazioni
Definizione
Fase assistenziale
Copertura
dei costi
Elevata integrazione
sociosanitaria
- Particolare rilevanza terapeutica e
intensità della componente sanitaria
Sanitarie a rilevanza
sociale
- finalizzate alla promozione della
salute,
prevenzione,
individuazione,
rimozione,
contenimento di esiti degenerativi o
invalidanti
- intensiva
- copertura del bisogno socio-sanitario
inerente funzioni psicofisiche e
limitazione delle attività del soggetto
nelle fasi estensive e lungo-assistenza
100% SSN
50% SSN –
50% sociale
- estensive e lungo-assistenza
- erogate contestualmente ad adeguati
interventi sociali
Sociali a rilevanza
sanitaria
- estensive e lungo-assistenza
- attività sistema sociale con
obiettivo di supportare la persona
100%
sociale
Fonte: ri-elaborazione su dpcm 14/02/2001
Se le competenze del Servizio sanitario nazionale rimangono quelle centrali si è visto, tuttavia,
come in entrambi i decreti si faccia riferimento anche ad una componente di carattere sociale. In
questo caso il riferimento va da un lato alla quota di compartecipazione prevista, a carico
dell’utente/Comune, per la copertura dei costi non a carico del fondo sanitario nazionale per
prestazioni “sanitarie a rilevanza sociale”, mentre dall’altro lato a quelle che sono state definite
come prestazioni “sociali a rilevanza sanitaria”, di competenza dei Comuni (con partecipazione alla
spesa) che riguardano in particolare gli interventi di sostegno e di aiuto domestico nel caso di
permanenza a domicilio oppure l’integrazione delle rette a favore di anziani indigenti. Le
prestazioni sociali rappresentano dunque la seconda “gamba” nel sistema di tutela degli anziani non
autosufficienti nel nostro paese. Come evidenziato da alcuni autori (cfr. Fargion, 2013), tuttavia,
tale sistema sconta di una strutturale debolezza stante la mancata approvazione di una normativa sui
livelli essenziali di assistenza (di parte sociale).
Al sistema delle prestazioni di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Comuni si
aggiunge, inoltre, un terzo livello d’intervento: si tratta dell’Indennità di accompagnamento (d’ora
in avanti IDA). La crescita ed espansione dell’IDA è già stata ampiamente analizzata ed
approfondita in altri studi (cfr. Ranci, 2008; Costa, 2011). Sicuramente la possibilità di impiego di
questo trasferimento monetario al di fuori di ogni sistema di controllo ha favorito e sostenuto lo
sviluppo di un ampio settore della cura di mercato, in larga parte sommerso (il fenomeno delle
badanti) (cfr. supra). Altra criticità è il fatto che l’IDA non presenta alcuna forma d’integrazione né
di coordinamento con il sistema territoriale dei servizi socio-sanitari, con evidenti problemi di
efficacia ed efficienza nell’impiego delle risorse. Stando ai dati della Ragioneria centrale dello Stato
(cfr. Massicci, 2012), limitatamente agli anziani over 65 e in termini di incidenza sul Pil, nel 2010
le risorse destinate all’IDA hanno rappresentato lo 0,65% sul Pil, mentre la componente sanitaria e
quella sociale rispettivamente lo 0,51% e 0,15%.
L’importanza che ha assunto sostantivamente l’IDA non deve, tuttavia, far dimenticare il fatto che
nell’ambito della tutela degli anziani non autosufficienti le responsabilità istituzionali rimandano in
prima battuta al Servizio sanitario nazionale, in relazione alla previsione di diritti soggetti esigibili
(cfr. supra). Come vedremo nei prossimi paragrafi è semmai a partire da una sistematica negazione
6
dei suddetti diritti che l’IDA ha assunto in via crescente centralità nelle strategie di cura delle
famiglie.
4. La familizzazione illegittima della cura e degli oneri nella tutela degli anziani non
autosufficienti: alcuni esempi
Nonostante il riconoscimento di un diritto soggettivo esigibile e senza limiti alla cura, la realtà
quotidiana mostra una situazione in cui servizi ed interventi di supporto risultano spesso assenti. Né
discende una totale delega alle famiglie e una privatizzazione della cura e degli oneri di tutela degli
anziani non autosufficienti. Di seguito analizzeremo due aspetti che sostanziano come tale
privatizzazione prenda luogo proprio a partire da una negazione del diritto alle prestazioni sancito
dai LEA. Ci riferiamo al fenomeno delle liste d’attesa e alla ripartizione dei costi sanità-sociale.
4.1. Il fenomeno delle liste d’attesa
Una delle modalità principali attraverso cui si sostanzia la negazione dei diritti riguarda il fenomeno
delle liste d’attesa. Da un punto di vista procedurale, in estrema sintesi, l’accesso alla rete dei
servizi socio-sanitari, come l’assistenza domiciliare oppure il ricovero in struttura, prevede
generalmente un primo passaggio che è quello della valutazione attraverso apposite equipe
multidimensionali. Una volta che l’unità di valutazione accerta la condizione di non autosufficienza
e il tipo di bisogno, vengono definiti dei piani individualizzati d’intervento dove, in accordo con la
famiglia, sono individuati gli interventi da attivare, previsti a livello di LEA (tab. 1).
Tuttavia l’attivazione di tali servizi, oppure la stessa copertura degli oneri sanitari stabiliti dalla
normativa (tab. 1 e tab. 2), non avviene generalmente in maniera concomitante nonostante le
condizioni del bisogno dell’anziano possono essere particolarmente critiche. In altre parole vengono
definite delle “liste d’attesa”, ovvero delle graduatorie a scorrimento che portano in ultima istanza
all’accesso al servizio stesso. Si tratta, in altre parole, di una forma di razionamento dei servizi che
può derivare o dal fatto che l’offerta non riesce a coprire la domanda oppure da un vincolo alle
risorse disponibili che impedisce di attivare i servizi nonostante gli stessi possono essere comunque
nelle disponibilità. Per esempio, nel caso dei ricoveri residenziali ciò può condurre ad un esito
paradossale di posti letto che rimangono vuoti in strutture convenzionate con il SSN (cfr. Brizioli e
Masera, 2011: 131). E’ tuttavia da evidenziare che, stante l’esigibilità degli interventi sancito dai
LEA, le liste d’attesa sono illegittime e pertanto costituiscono una violazione dei diritti vigenti. Per
dare sostanza empirica faremo riferimento ad alcune sentenze ed ordinanze che negli anni hanno
sanzionato tali pratiche2.
La prima sentenza che riportiamo è del 2010 ed è stata emanata dal Tribunale di Firenze (n.
1154/2010). Nel merito i familiari di persone anziane non autosufficienti, riconosciute invalidi civili
al 100% dall’Asl di Firenze e ricoverate in apposite strutture residenziali convenzionate (Rsa –
Residenze sanitaria assistenziale), citano in giudizio la stessa Asl a fronte del mancato
riconoscimento, in base ad un sistema di liste d’attesa, della copertura della quota sanitaria, ovvero
quel 50% dei costi che, nell’ambito delle cosiddette prestazioni “sanitarie a rilevanza sociale” sono
a carico del Ssn nella fase di lungo-assistenza (cfr. tab. 1 e 2). In base alla posizione difensiva l’Asl
ha giustificato, infatti, la mancata attribuzione della quota sanitaria stante la mancanza di un diritto
2
Limitandoci in questo contributo alla sola area degli anziani non autosufficienti, non riporteremo di seguito le diverse
sentenze che hanno riguardato negli stessi termini anche persone disabili non anziane. Per ulteriori approfondimenti si
rimanda al sito della Fondazione promozione sociale (http://www.fondazionepromozionesociale.it/) in cui è presente
un’ampia e dettagliata raccolta delle varie sentenze ed ordinanze su questo tema.
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soggettivo perfetto, sul presupposto che: “… l’accesso al beneficio economico sarebbe stato
condizionato ad una positiva valutazione, di carattere essenzialmente tecnico, di una pluralità di
fattori (reddituali, familiari, sanitari e sociali), emessa all’esito di una complessa procedura
amministrativa necessaria a fini del rispetto dei vincoli di spesa e di bilancio previsti dalla legge
(art. 81 Cost.)”.
Secondo il Tribunale di Firenze, tuttavia, l’assunto difensivo non può condividersi perché: “… è
documentalmente provato, e comunque, non contestato che il Piano sanitario regionale 2002-2004
e quello del 2005, approvato con Legge regionale n. 40/05, assicurasse a tutti i cittadini presenti
sul territorio regionale l’assistenza sanitaria, in ossequio al principio costituzionale del diritto alla
salute (art. 32 Cost.). In particolare, la legge prevedeva a favore degli anziani non autosufficienti
con patologie cronico-degenerative che gli oneri finanziari relativi a tutte le prestazioni di
assistenza sanitaria fossero poste a totale carico del SSN …”.
Stante tale previsione, segue la sentenza: “ … deve ritenersi che, in assenza di una norma che
attribuisse alla Pubblica Amministrazione il potere di operare una valutazione comparativa tra le
posizioni degli aventi diritto e, in assenza di una predeterminazione dei criteri e dei parametri in
base ai quali effettuare tale scelta, l’unico requisito necessario e sufficiente ai fini del
riconoscimento del beneficio economico previsto dalla legge è rappresentato dalla condizione di
totale non autosufficienza”.
Per cui: “’l’atto amministrativo contenente una sorta di “liste a scorrimento” effettuata sulla base
di una valutazione comparativa, seppur di carattere essenzialmente tecnico, delle posizioni dei
richiedenti e lo stesso atto amministrativo che l’ha prevista, devono ritenersi radicalmente nulli o,
comunque illegittimi”. In base a questa sentenza che ha sancito, dunque, l’illegittimità del sistema
delle liste d’attesa l’Asl di Firenze è stata condannata a versare oltre 40 mila euro a titolo di
rimborso delle quote sanitarie non attribuite a persone anziane non autosufficienti (riconosciute
invalidi civili al 100%) e ricoverate in Rsa.
Più di recente è stato, invece, il TAR del Piemonte a sospendere con due successive ordinanze (n.
609/2012 e n. 141/2013) ed in termini cautelari (ovvero in attesa di sentenza) la validità delle
delibere regionali della Giunta del Piemonte sui sistemi di lista d’attesa per il ricovero di anziani in
Rsa. In particolare, con la dgr 45-4248 del 30 luglio 2012 (all. n. 6, paragrafo: “Selezione e
Attivazione”), la giunta ha previsto per l’accesso ai servizi residenziali, e qualora le risorse previste
dal progetto individualizzato non siano immediatamente disponibili, la compilazione da parte
dell’unità valutativa geriatrica: “di graduatorie distinte per tipologie di Progetti individuali,
mediante l’attribuzione ad ogni richiedente di un punteggio derivante dalla somma della
valutazione sociale e sanitaria […]”. Secondo l’ordinanza del TAR (n. 609/2012) , che accoglie il
ricorso avanzato da tre associazioni di tutela, tale previsione ravvisa “[…] profili di fondatezza del
gravame, trattandosi di una previsione che incide su prestazioni rientranti nei livelli essenziali di
assistenza (d.P.C.M 29 novembre 2001, Allegato 1.C, punti 8 e 9), i quali devono essere garantiti,
in modo uniforme, su tutti il territorio nazionale”.
Per ultimo segnaliamo, invece, due sentenze del TAR Lombardia (n. 459/2012 e 461/2012) che
avendo come oggetto il ricorso avanzato da alcuni enti gestori di strutture per anziani contro il
sistema di remunerazione regionale delle RSA (ricorso peraltro respinto dallo stesso tribunale),
hanno confermato l’esigibilità, in termini di diritti, delle prestazioni socio-sanitarie definite dai
LEA. Nello specifico la sentenza n. 459/2012 afferma che: “[…] Il servizio sanitario regionale è
pertanto tenuto ad erogare prestazioni non inferiori a quelle definite con provvedimento statale (i
LEA sono attualmente definiti con d.p.c.m. 29 novembre 2001) e, di conseguenza, i soggetti
bisognosi hanno comunque diritto ad ottenere tali prestazioni (eventualmente supportando parte
8
dei costi in conformità alla vigente normativa) indipendentemente dai budget assegnati dalla
Regione che, se insufficienti, debbono essere da questa integrati”. In altre parole, come sopra, il
vincolo di bilancio non può giustificare il razionamento dell’offerta attraverso sistemi di liste
d’attesa, stante la presenza di un diritto soggettivo esigibile alle cure socio-sanitarie così come
previsto dalla normativa LEA.
4.2. La ripartizione degli oneri sanità-sociale3
Un secondo fronte a partire dal quale prende luogo empiricamente il meccanismo di scarico è quello
che riguarda la ripartizione degli oneri nella copertura dei costi per interventi e prestazioni di
carattere socio-sanitario. Come si è visto nel par. 3 i LEA, oltre ad elencare le prestazioni sociosanitarie che costituiscono diritto soggettivo esigibile, definiscono anche un’apposita ripartizione
degli oneri fra fondo sanitario (la cosiddetta quota sanitaria) e utenti/Comuni (la cosiddetta quota
sociale).
Da un punto di vista empirico sono poche le ricerche che hanno approfondito questo tema (cfr.
Pesaresi, 2008; Brizioli e Masera, 2011). Riprendendo alcuni casi regionali, che peraltro
rappresentano delle esperienze virtuose in termini di gestione del sanitario, emerge tuttavia un
quadro in cui si delinea la mancata garanzia della ripartizione dei costi stabilita dai LEA. Per
esempio, considerando i ricoveri residenziali nella cosiddetta fase di lungo-assistenza (dove la
previsione è del 50% a carico della sanità) (cfr. supra) per la Lombardia alcuni studi hanno rilevato
una partecipazione di parte sanitaria poco superiore al 40% (Guerrini, 2010: 228). Dati più recenti
confermano sostanzialmente questo quadro, con una media di copertura della tariffa regionale del
44% (Tidoli, 2013). Ne discende che sulla quota sociale, a carico di anziani non autosufficienti e
Comuni, vengano scaricati parte di costi sanitari (ibidem).
Sulla stessa linea anche un’altra regione, le Marche, presenta criticità relativamente alla copertura
delle quote sanitarie. Per le cosiddette “residenze protette”, ovvero strutture socio-sanitarie
individuate dalla normativa regionale per la cura ed assistenza degli anziani non autosufficienti, la
regione ha recepito nei primi anni 2000 il decreto LEA stabilendo una tariffa giornaliera di
remunerazione del ricovero pari a 66 euro (con un minutaggio assistenziale giornaliero di 100
minuti), con una ripartizione al 50% degli oneri fra sanità e sociale (ovvero una retta sociale di 33
euro al giorno, con una possibilità di aumento del 25% a determinate condizioni). Per diversi anni,
tuttavia tale ripartizione non è stata concretamente garantita a livello territoriale tanto che la stessa
Regione ha dovuto avviare nel 2008 un percorso di allineamento volto a garantire entro il primo
gennaio 2013 ed in tutti i posti letto convenzionati gli standard previsti dalla normativa regionale.
Stando al monitoraggio regionale (cfr. Ragaini, 2013) nel 2012 circa il 25% dei ricoverati sosteneva
ancora una retta ben superiore a quanto stabilito dalla Regione (in molti casi con quote superiori ai
50 euro giornalieri).
Il processo di scarico di oneri sanitari emerge anche dall’analisi di diverse sentenze che, a vario
titolo, hanno affrontato questo tema. Per esempio nella sentenza n. 1584/2010 del TAR di Milano
emerge come il trasferimento di oneri sanitari riguardi non solo il mancato rispetto delle quote di
3
Solo per ragioni di spazio non trattiamo ulteriori modalità attraverso cui si sostanzia il processo di scarico, come per
esempio il ricorso alle strutture socio-sanitarie territoriali per il ricovero di anziani in condizioni di instabilità clinica che
dovrebbero essere, invece, ricoverati - in maniera più appropriata - nell’ambito del sistema ospedaliero post-acuzie (cfr.
Brizioli e Masera, 2011: 125). A ciò si aggiunge, inoltre, sul versante dei rapporti fra Comuni e famiglie la questione
del coinvolgimento illegittimo dei parenti nella compartecipazione al costo di servizi socio-sanitari (cfr. Arlotti, 2012),
una materia su cui è montato un contenzioso abnorme anche con elementi, talvolta, contraddittori a livello sentenziale e
su cui, politicamente, è in procinto d’intervenire la riforma dell’ISEE, in corso di esame parlamentare (al momento in
cui scriviamo: agosto 2013).
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ripartizione nei casi di suddivisione dei costi sanità-sociale, ma anche i casi che, stante la particolare
condizione di gravità ed intensità assistenziale, dovrebbero risultare interamente a carico del
Servizio sanitario nazionale (cfr. tab. 1 e 2 supra: le cosiddette prestazioni “ad elevata integrazione
socio-sanitaria). Nello specifico la sentenza del TAR ha affrontato il caso di un’anziana ricoverata
in una RSA, affetta da patologia degenerativa in stato di come vigile, e necessitante di prestazioni di
natura prevalentemente sanitaria, ovvero: “[…]l’adeguata nutrizione ed idratazione, monitoraggio
dei parametri vitali e degli indicatori ematici, terapie finalizzate a mantenere un complesso
emodinamico ed ad assicurare la funzionalità respiratoria di PEG e del catetere vescicale, la
prevenzione e le medicazioni delle piaghe da decubito, gli interventi di mobilitazione passiva,
cambiamenti di postura ed igiene […]”. A seguito del ricorso dei familiari dell’anziana, che si
erano accollati integralmente i costi di ricovero in Rsa, il TAR ha riconosciuto, invece, l’intera
copertura dei costi a carico dell’ASL stante il fatto che:“[…]ai sensi dell’art. 3 septies del D.Lgs
504/92, dell’art. 3 comma 3 del dpcm 14/02/2001 e dell’art.30 del dpcm 20/11/2001 le prestazioni
di cui necessitava la Sig.ra [...] debbano essere inquadrate fra quelle socio sanitarie ad elevata
integrazione sanitaria di cui deve farsi integralmente carico il SSN […]”
Sulla stessa linea, una sentenza significativa è stata inoltre quella della Cassazione (n. 4558/2012)
che ha stabilito il carattere prevalentemente sanitario delle prestazioni residenziali ricevute da una
persona affetta da morbo di Alzheimer, da cui discende l’intero accollo della retta a carico del
Servizio sanitario nazionale. Nel caso specifico la vicenda parte dalla richiesta avanzata dai parenti
di una persona ricoverata in Rsa e malata di Alzheimer per la restituzione delle somme fino ad
allora versate al Comune per il ricovero dell’anziana. In primo grado il giudice ha riconosciuto la
posizione del Comune, e dunque la legittimità delle somme versate dai familiari mentre, in secondo
grado, è stata riconosciuta, invece, la richiesta dei parenti stante: “la natura di carattere sanitario
delle prestazioni eseguite nei confronti dell’anziana, gravemente affetta dal morbo di Alzheimer e
sottoposta a terapie continuative, a fronte delle quali le prestazioni di natura non sanitaria
assumevano un carattere marginale e accessorio”. Secondo il giudizio della Corte di Cassazione
che ha confermato la decisione della Corte d’Appello: “appare quindi evidente che, ove sussista
quella stretta correlazione, […] fra prestazioni sanitarie e assistenziali, tale da determinare la
totale competenza del servizio sanitario nazionale, non vi sia luogo per una determinazione di
quote, nel senso invocato dal Comune ricorrente […] che presuppongono una scindibilità delle
prestazioni, non ricorrente in ipotesi, come quella in esame, di stretta correlazione con netta
prevalenza degli aspetti di natura sanitaria”.
5. Il diritto alla cura senza limiti: il caso delle opposizioni alle dimissioni e la garanzia della
continuità di cura
L’esistenza di un diritto alla cura senza limiti può essere, inoltre, messo in evidenza analizzando in
termini processuali il cosiddetto fenomeno delle opposizioni alle dimissioni ospedaliere (cfr.
Santanera, 2010). Considerando le particolari condizioni di gravità e malattia che colpiscono le
persone anziane non autosufficienti (cfr. supra), la fase del ricovero ospedaliero e quella successiva
della dimissione rappresentano, infatti, dei passaggi centrali nella determinazione dei processi di
privatizzazione e scarico della cura. Infatti, le dimissioni avvengono, nella gran parte dei casi, con
una forma di scarico diretto sulle famiglie, senza alcuna forma di supporto e di attivazione di
servizi, senza alcuna forma di garanzia della continuità assistenziale (per esempio, qualora il rientro
a domicilio sia impossibile e risulta necessario il ricovero in strutture residenziali). Si parla, non a
caso, di vere e proprie “dimissioni ospedaliere selvagge” (Fargion, 2013: 46).
Talvolta, gli stessi anziani che vengono dimessi presentano addirittura delle situazioni cliniche non
stabilizzate a fronte dell’assenza di un adeguato sistema di degenza “post-acuta”. Insomma, le
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famiglie si trovano a fronteggiare queste situazioni nella più totale emergenza e drammaticità ed, in
molti casi, la soluzione diventa quella della badante, oppure del ricovero nella prima struttura
residenziale disponibile (quando si trova, e come si trova). Il ricorso a queste soluzioni non è,
tuttavia, “a somma zero” e così da un lato l’anziano cronico non autosufficiente si trova a non
essere assistito e curato come dovrebbe, mentre dall’altro lato le famiglie si trovano a sostenere dei
carichi notevoli (con pesanti ricadute anche psicologiche e sociali) nonchè costi economici che
possono addirittura divenire causa d’impoverimento (cfr. Doglia e Spandonaro, 2008).
In questo quadro può essere ripreso direttamente il racconto di un familiare che ha agito in prima
persona, attraverso l’opposizione alle dimissioni, per garantire la continuità di cura alla madre
anziana cronica non autosufficiente. Il fatto è quello raccontato da Antonio Ronga (Ronga, 2002)4.
A seguito di un evento acuto (la rottura del bacino) la madre anziana, che fino ad allora non
presentava particolari problemi di salute e che riusciva proprio per questo a gestirsi in larga parte in
maniera autonoma, viene ricoverata in una struttura ospedaliera. Nella stessa giornata del ricovero,
nonostante le proteste della famiglia, viene direttamente dimessa con una prognosi di trenta giorni e
di assoluto riposo a letto. L’assistenza dell’anziana ricade interamente sulle spalle di Antonio e
della sua famiglia, non essendoci altri parenti in grado di fornire supporto. Inoltre
“ […] L’assistenza esterna fu praticamente irrilevante: l’Asl mise a disposizione del personale
infermieristico, ma solo per un paio d’ore e per due o tre giorni alla settimana. Per la pulizia e
l’igiene di mia madre consigliarono di rivolgerci al servizio assistenza del Comune. […] Mia
madre si è dimostrata una paziente difficile da gestire: era capricciosa ed irrequieta, si alzava
continuamente nonostante i forti dolori che accusava, voleva andare in bagno, fare la spesa,
cucinare, ecc. […]”
A seguito di ulteriore aggravamento, la madre viene nuovamente ricoverata in ospedale, dove
rimane per un certo periodo terminato il quale Antonio e la moglie decidono di accettare le
dimissioni in attesa di un ricovero in una struttura residenziale:
“[…] le pressioni da parte dei medici erano ormai quotidiane; l’ospitammo a casa nostra in attesa
di inserirla in una struttura per lungodegenti. In precedenza avevamo compilato, con l’assistente
sociale dell’ospedale, una serie di richieste di ricovero in queste strutture; al momento delle
dimissioni la stessa assistente sociale ci fornì una lista delle strutture che avevano accettato la
domanda e assicurò che nell’arco di dieci/quindici giorni la mamma sarebbe stata ricoverata
[…]”.
Tuttavia ben presto Antonio capisce che i tempi non saranno quelli attesi. Per cui si trova ad
affrontare nuovamente la gestione di una persona con un quadro psichico peraltro ormai deteriorato.
Nonostante la buona volontà della famiglia, nel corso di una notte la madre di Antonio cade
nuovamente, provocandosi una profonda ferita in testa. Si ricorre al pronto soccorso e nel tardo
pomeriggio della giornata successiva:
“[…] il medico ci rassicurò sulle condizioni della mamma: non vi erano lesioni craniche interne,
ma la caduta aveva provocato una frattura all’acetabolo sinistro e, visto che – a suo avviso – non
vi erano presupposti per un ricovero, disponeva per le dimissioni […]”.
4
Di seguito verranno utilizzati vari passaggi di questo racconto. Sempre sul sito della rivista “Prospettive Assistenziali”
(http://www.fondazionepromozionesociale.it/), è inoltre possibile consultare diversi racconti ed esperienze analoghe
(cfr. n. 140/2002; 142/2003; n. 164/2008) di opposizione alle dimissioni ospedaliere attraverso le quali è ribadita
l’esistenza del diritto alla continuità di cura nei confronti di anziani malati cronici non autosufficienti.
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Provato dall’esperienza precedente e dall’incapacità di gestire in maniera adeguata i bisogni della
madre, Antonio e la propria famiglia decidono di opporsi alle dimissioni nonostante le pressioni del
personale sanitario:
“[…] fummo oggetti di minacce da parte del sanitario di ricorrere alla Polizia e sporgere denuncia
di abbandono se non portavamo a casa nostra mia madre. Noi fummo irremovibili. […]”
Con l’aiuto e il supporto del comitato di difesa dei diritti degli assistiti (CSA), vengono inviate al
direttore generale dell’Asl e al direttore sanitario due lettere raccomandate con ricevuta di ritorno5,
dove viene confermata l’opposizione alle dimissioni. Nonostante l’assenza di risposta, la madre:
“[…] restò ricoverata al pronto soccorso per un paio di giorni, poi il lunedì successivo, mia moglie
ed io siamo stati invitati a presentarci dal medico responsabile del pronto soccorso. Dopo lunghe e
animate discussioni, si trovò un posto letto presso l’ospedale geriatrico “Luigi Einaudi”, gestito
dalla stessa Asl 4, dove la mamma fu trasferita in serata e finalmente sistemata in un letto adatto
alle sue condizioni. […] Mia madre restò ricoverata in geriatria per circa un mese;
successivamente verso metà marzo con il nostro consenso, fu trasferita nella clinica per
lungodegenti “Villa Grazia” di San Carlo Canavese, dove lentamente si riprese. Le fratture erano
guarite e iniziò con l’aiuto della fisioterapista a camminare. Purtroppo le condizioni mentali non
erano migliorate, per cui continuava a compiere stranezze e a fare discorsi senza senso. […]”
Nel corso dei ricoveri ospedalieri la madre di Antonio registra un lento miglioramento della propria
condizione (“al netto” della situazione ormai compromessa dal punto di vista psichico). Viene
inoltre sottoposta ad una valutazione geriatrica che la riconosce idonea all’inserimento in Rsa. Nei
mesi successivi:
“[…] con invio da parte nostra al direttore sanitario di “Villa Grazia” che voleva dimetterla, di
una lettera raccomandata uguale a quella spedita all’ospedale Bosco, la mamma fu trasferita per
accertamenti presso l’ospedale di provenienza. Nel mese di ottobre 2000, a causa della chiusura
dell’ospedale Einaudi, struttura dichiarata obsoleta, mia madre veniva trasferita all’ospedale
Giovanni Bosco, anch’esso gestito direttamente dall’Asl 4, dove rimaneva ricoverata sino al 10
ottobre 2001, quando, su proposta della stessa Asl 4, fu inserita nella Rsa di nuova costruzione
dell’Asl 2 situata in via Gradisca 10, Torino. […]”
A seguito di questo percorso la madre di Antonio viene ricoverata in una struttura residenziale
territoriale. La situazione psichica è compromessa, tuttavia è riuscita a mantenere un grado seppur
minimo di autonomia, alimentandosi da sola e camminando (seppur in modo precario). In tutto il
periodo di ricovero Antonio e la sua famiglia non hanno più ricevuto pressioni per accettare le
dimissioni della madre. Il racconto di Antonio si conclude con una riflessione in cui si domanda:
“[…] come sarebbe la mamma se le cose fossero andate per il verso giusto, e cioè se fosse stata
subito ricoverata, risparmiandole tutti quei traumi che essa accusò in quei continui sballottamenti e
se, assieme a cure e assistenza, le fosse stato fornito un adeguato supporto psichiatrico e
psicologico. […]”
5
Il modulo della lettera di opposizione alle dimissioni dagli ospedali e dalle case di cura private convenzionate per la
richiesta della continuità di cura è scaricabile sul sito della Fondazione Promozione Sociale, sezione: “ Opposizione alle
dimissioni di anziani cronici non autosufficienti (http://www.fondazionepromozionesociale.it/)
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6. Considerazioni sui fattori che sostengono i processi di negazione dei diritti e di familizzazione
della cura
In questo paragrafo cercheremo di mettere in luce alcuni fattori che sembrano sottostare
all’emergenza del fenomeno oggetto di questo paper, ovvero la familizzazione e privatizzazione
della cura in quanto processo di “retrenchment” e di negazione di diritti. In termini analitici,
riprendendo lo schema di Ferrera (2010) faremo un duplice riferimento sia a fattori che riguardano
il lato della domanda sociale sia a quelli che riguardano gli assetti organizzativi ed istituzionali. Da
un punto di vista sociologico (cfr. Paci, 2013), l’attenzione volgerà inoltre al rapporto fra azione e
contesto all’interno del quale l’azione stessa, dotata di senso, prende luogo. A partire da questi
presupposti la trattazione seguirà un approfondimento lungo tre dimensioni, fra loro mutualmente
complementari, ovvero la dimensione “macro-istituzionale”, “meso-organizzativa” e quella “micro”
(cfr. graf. 1).
Graf. 1 – I processi di negazione di diritti e di scarico sulle famiglie: fattori che influiscono su vari livelli
(macro-meso-micro)
Contenimento spesa sanitaria
Macro - istituzionale
Allocazione risorse ass.
ospedaliera vs territoriale
Difficoltà integrazione
sanità-sociale
Negazione diritti e
scarico su famiglie
Meso – organizzativo
Sistema DRG
Cura come fatto privato
Mancanza informazioni
Micro- interazione attori
Gerarchia rapporti e
sudditanza anziano/famiglia
– primari/operatori -sociale
6.1. La dimensione macro-istituzionale
Con tale dimensione ci si riferisce al contesto istituzionale all’interno del quale l’azione degli attori
prende luogo. Una questione cruciale è quella che riguarda le risorse disponibili. Come noto la
spesa sanitaria italiana (pubblica pro-capite) è più contenuta rispetto ad altri paesi europei del
Centro e Nord-Europa (cfr. Pavolini et alt., 2012). In aggiunta, nel corso degli ultimi anni, ed in
particolare nel periodo più recente, il dibattito ha riguardato principalmente il tema della
sostenibilità finanziaria e quello corrispettivo del contenimento della spesa (cfr. ibidem). Non è un
caso che per il triennio 2012-2014 i documenti di programmazione economica hanno previsto tagli
alla sanità per 27 miliardi (cfr. Dirindin, 2012). La mancanza di finanziamenti adeguati ha ovvie
conseguenze in termini di garanzia delle prestazioni previste dai LEA. Da ciò ne discende, non a
caso, l’adozione del sistema delle liste d’attesa nell’accesso alle prestazioni e dunque la negazione
di diritti soggetti esigibili. A fini esemplificativi, riportiamo di seguito il passaggio di una relazione
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delle organizzazioni sindacali dei pensionati (SPI-FNP-UILPN Provincia di Torino, 2011), proprio
sul tema dei forti vincoli all’accesso per le cure socio-sanitarie domiciliari e residenziali, a fronte
dei tagli alla spesa, in un caso specifico provinciale (quello di Torino):
“i tagli lineari del 5% imposti dalla regione alle Asl, già nel 2010 e che continuano anche nel 2011
e per gli anni futuri, hanno avuto una immediata ricaduta sui servizi e gli interventi per la non
autosufficienza, bloccando o rallentando moltissimo l’inserimento in RSA e RAF e gli assegni di
cura per la domiciliarità. […] Nel 2010 avevamo ipotizzato 10.000 anziani malati cronici non
autosufficienti in lista d’attesa dopo le valutazioni delle UVG ma, secondo dati delle Asl e dei
Consorzi tale lista nella Provincia di Torino, a fine 2010, superava il numero di 15.000. Per il
2011, viste le politiche regionali e quelle nazionali, avremo ulteriori gravi peggioramenti”
Al problema delle risorse destinate, su un piano generale al settore sanitario - e considerazioni
analoghe, tuttavia, possono essere fatte anche per quanto riguarda l’andamento delle risorse di parte
sociale (cfr. Arlotti, 2012b) - si aggiunge inoltre una seconda questione, in questo caso tutta
“interna” al sistema sanitario. Ci riferiamo ai rapporti fra componente “ospedaliera” e “territoriale”
dell’assistenza. Di fatto, uno dei temi forti che ha riguardato il dibattito più recente sulla riorganizzazione della sanità, è stato proprio quello sui processi di de-ospedalizzazione (cfr. Fargion,
2013), da attuarsi attraverso un re-distribuzione delle risorse dalla componente ospedaliera a favore
dello sviluppo della rete dei servizi territoriali (inclusi i servizi socio-sanitari per i non
autosufficienti), in un’ottica di riduzione dei ricoveri impropri ospedalieri e di maggiore efficacia ed
efficienza nell’impiego delle risorse. Contrariamente a questo indirizzo i dati più recenti (20002010) mostrano, tuttavia, come l’auspicato spostamento di risorse dall’ospedale al territorio ha
assunto proporzioni modeste tanto che si può dire, riprendendo Gori e Pelliccia (2012): “che la
fisionomia del modello di spesa non è molto cambiata”.
6.2. La dimensione meso-organizzativa
A livello intermedio, organizzativo, fra i fattori che influenzano i processi di scarico e
privatizzazione della cura vanno messi in evidenza due aspetti, fra loro legati. Il primo di questi
riguarda le difficoltà di integrazione fra settore sanitario e sociale. Due settori che ricadono sotto
responsabilità istituzionali differenti (Asl e Comuni), ma la cui integrazione e coordinamento
assume un ruolo cruciale dal punto di vista della garanzia della continuità assistenziale attraverso
percorsi integrati. Può essere interessante, a questo proposito, riportare un breve passaggio di
un’intervista condotta con un ex assessore regionale alla sanità del Piemonte, che spiega delle
difficoltà incontrate nell’attuazione di provvedimenti regionali sui servizi socio-sanitari, anche alla
luce delle difficoltà e delle resistenze all’integrazione fra Asl e Comuni:
“… è molto difficile fare metabolizzare questo tipo di procedimenti [nota: processi di
ospedalizzazione domiciliare, assistenza domiciliare] nel sistema sanitario in quanto tale … posso
dirle questo … questi sono percorsi di cura che o sono fortemente tutelati anche sul piano politico
… fortemente presidiati dalla volontà politica o si smarriscono con una velocità impressionante!
[…] Io per far applicare le cure domiciliari in lungo assistenza, per un anno ho riunito tutti i
direttori generali una volta al mese … perché c’era sempre una buona ragione, per la quale non si
potessero avviare le cure domiciliari in lungo assistenza! … del tipo: “.. ma poi non dobbiamo
essere noi, ma il comune … ma stiamo aspettando la pratica del servizio sociale … e poi ma il
medico di medicina generale non mi ha fatto la visita domiciliare …” … cioè è una di quelle
questioni che richiede il lavoro in equipe e già questa …! È una delle innovazioni più potenti che
nelle pubbliche amministrazioni si possono immaginare … richiede un rapporto interistituzionale:
comune e Asl … mentre l’idea della autosufficienza degli enti è un’idea dominante! …”
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Le difficoltà d’integrazione riguardano non solo i rapporti fra sanità e sociale, ma anche
l’integrazione stessa all’interno della sanità, ovvero fra componente ospedaliera e quella territoriale,
come mette in evidenza questo passaggio di un’intervista con il direttore di un distretto sanitario
delle Marche relativamente al fenomeno delle dimissioni ospedaliere non programmate:
“… In effetti è poi questo il problema che c’è , l’ospedale ha una visione … non in tutti i reparti,
però fondamentalmente ha una visione ospedalocentrica … che significa, cioè il paziente quando
entra in ospedale deve fare una diagnosi, una prognosi ed una terapia, questo è il modus operandi
dell’ospedale … poi però che a questa diagnosi, prognosi, terapia … a questo stato di malattia poi
può seguire un bisogno assistenziale, all’ospedale è un po’ difficile, perché loro ragionano molto
… tipo turnover, posti letto … e quindi cosa succede? Ecco .. per esempio una delle cose che ci
mettono sempre molto in crisi sono le dimissioni non programmate, quindi la dimissione il sabato;
la dimissione … senza che siano state messe in atto tutte quelle procedure di assistenza che è vero
che competono a noi, però hanno bisogno di tempo per essere attuate … ed è su questo … questa è
sempre stata la criticità di tutti i protocolli, perché a voglia fare i protocolli, però dopo la routine,
la quotidianità comunque ti porta ad avere dei determinati atteggiamenti per cui il medico ti dice
che questo lo mandiamo via; la caposala … gestisce la cosa per conto suo … e quindi ti chiamano e
dicono che questo esce, anzi no … non ti chiamano: vengono i familiari e dicono: me lo dimettono e
non so dove metterlo! …”
La tendenza degli ospedali ad espellere in breve tempo dal circuito delle cure ospedaliere i ricoveri
di anziani non autosufficienti trova spiegazione in un secondo aspetto che, da un punto di vista
meso-organizzativo, incide in maniera significativa sui processi di scarico e di privatizzazione della
cura. Si tratta del sistema a pagamento delle prestazioni sanitarie, i cosiddetti Drg. Come
evidenziato dalla letteratura (cfr. Rossi, 1997) tale sistema porta in particolare alla riduzione dei
tempi di degenza che se da un lato può risultare un aspetto positivo, qualora in questo modo
vengono evitati ricoveri inutilmente prolungati e dannosi per il paziente, dall’altro lato può essere
anche negativo, in particolare nei casi di dimissioni anticipata di soggetti ancora in condizioni di
instabilità clinica. Peraltro gli obiettivi stringenti che in molti casi i direttori generali delle Asl
impongono ai primari in termini di risparmio sui giorni di degenza, turn-over ecc … hanno pesanti
conseguenze anche dal punto di vista della determinazione delle condizioni stesse di non
autosufficienza. Come, infatti, riportato nel libro inchiesta di Gramiccia (2013: 214-216):
“la maggior parte dei casi di cronicizzazione si determina a causa di una cattiva gestione della
fase acuta delle malattie, che avviene proprio in ospedale. […] quando un paziente, ricoverato in
ospedale, supera la fase acuta della malattia, spesso si trova in condizioni funzionali e di
autonomia più compromesse rispetto a come ci è arrivato. Anche perché magari è stato otto o dieci
giorni a letto, immobile, con il catetere, sotto sedativi, ed è dunque peggiorato dal punto di vista
della sua autonomia. Ma i primari terrorizzati dal direttore generale che li spinge a risparmiare sui
giorni di degenza e dai Drg, non la prolungano di quei tre o quattro giorni che sarebbero
necessari”.
Sulla stessa linea riportiamo di seguito un breve passaggio di un’intervista con il direttore di un
distretto sanitario delle Marche, in cui si nota:
“l’ospedale fa dei disastri! Non avendo tempo da perdere … non pensando che il tempo da perdere,
non è tempo da perdere, ma guadagno … se l’anziano lo mobilizzi in prima giornata non vai a
creare quella dipendenza che poi ricade sul Ssn … cioè se io vado a dire al primario di medicina:
ma com’è che tutti i pazienti escono con le piaghe? Ma tu quando gli visiti, li vedi questi pazienti o
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no? … mi risponde che la piaga da decubito è un problema infermieristico … non è un problema
medico! … loro nel giro di 10/12 giorni devono mandare il paziente a casa …”
6.3. La dimensione micro
Nei precedenti passaggi abbiamo cercato di evidenziare gli elementi più di carattere istituzionaleorganizzativo che sembrano sostenere il processo di scarico e di mancata garanzia della continuità
di cura. Riprendendo l’indicazione weberiana di ricostruzione del contesto di senso nel quale si
sviluppa l’agire degli attori sociali (cfr. Paci, 2013), in questo passaggio cercheremo di elencare
alcuni elementi che attengono, invece, più propriamente la dimensione “socio-culturale” degli attori
e la loro interazione a livello micro.
A tal proposito possono essere evidenziati due elementi. Il primo è quello che riguarda la
persistenza di un certo orientamento, sia a livello delle prassi professionali sia a quello dell’agire
delle famiglie, che fa della cura un fatto privato (Taccani, 1994: 249). Le famiglie fronteggiano i
bisogni facendo leva esclusivamente sulle proprie risorse di solidarietà interna oppure, quando ciò
diventa impossibile, facendo ricorso al mercato e all’assistenza privata a pagamento. Non è un caso
che dalle interviste condotte con alcune famiglie di anziani non autosufficienti è spesso emersa la
considerazione che si è fatto tutto da soli, che non si è chiesto nulla a nessuno, come ben
esemplifica questo passaggio di un’intervista con un familiare:
“… Guardi, io non ho mai chiesto niente, noi ce la siamo cavata sempre da soli … quindi io non è
che ho chiesto … non è che sono andata a chiedere al comune l’assistente per la spesa, o a pulire
casa, perché noi ci siamo pagati sempre la badante e dove non riusciva essa c’ero io …”
A livello “micro”, questo orientamento è inoltre rinforzato nelle stesse prassi operative dei servizi
dove, riprendendo Taccani (1994: 250-251), si ritiene che la cura informale abbia una sua
giustificazione nella “naturalità” dei rapporti affettivi interni alla famiglia, come ben esemplifica
anche in questo caso il passaggio di un intervista con una famiglia:
“… ho avuto il servizio dal comune (Nota: l’assistenza domiciliare) … però avendo due figli … me
l’hanno dato per tre mesi … è stato qualche anno fa, mio marito era già allettato … mi aiutavamo a
lavarlo, pulivano la stanza … dopo ho chiesto altri tre mesi e l’assistente sociale mi ha detto:
“guardi … glielo do va bè … però lei si deve fare aiutare dai figli …”
Un terzo ed ultimo elemento che può concorrere a spiegare, a livello delle interazioni “micro”,
l’accettazione da parte delle famiglie delle dimissioni ospedaliere selvagge, nella gran parte dei casi
senza alcuna forma di resistenza attraverso il meccanismo delle opposizioni alle dimissioni, è quello
che riguarda la mancanza d’informazioni e la gerarchia dei rapporti fra anziano e familiari da un
lato e medici e operatori sanitari dall’altro. Infatti, nella gran parte dei casi, le famiglie non sono in
alcun modo a conoscenza del fatto che spetta al Servizio sanitario nazionale la responsabilità delle
cure senza limiti a tutela dei malati cronici (inclusi gli anziani non autosufficienti) e che
l’accettazione delle dimissioni (Santanera, 2010: 1912): “significa sottrarre volontariamente il
paziente alle competenze del Servizio sanitario nazionale e assumere tutte le relative
responsabilità, comprese quelle penali, nonché gli oneri economici conseguenti alle cure che
devono essere fornite”. A ciò si aggiunge la condizione di sudditanza che le stesse famiglie
esperiscono in particolare nei confronti delle figure dei primari ospedalieri, come ben esemplificano
a seguire i passaggi di due interviste condotte con un rappresentante delle associazioni di tutela e
con un rappresentante sindacale:
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“ … abbiamo visto che l’unica possibilità di difesa è stata la possibilità di difesa giuridica! …
quindi o nel senso dell’opposizione alle dimissioni … oppure nei ricorsi alla magistratura … Le
opposizioni alle dimissioni hanno praticamente funzionato sempre: però sono molto pochi quelli
che le fanno … perché c’è molto timore dell’autorità … soprattutto nei confronti dei primari …
oppure lo sanno dopo …”
“… spesso si subisce … c’è chi è più attento .. ci chiama per essere … aiutato a come porsi … però
è risaputo che c’è questa reverenzialità nei confronti dei medici … quello che dice il dottore è
vangelo! Quindi noi subiamo … la maggior parte delle persone subisce! … c’è da dire che ci sono
anche molti reparti ospedalieri che sono attenti a queste cose … e quindi non tutti sono così …
grazie al cielo sono casi sporadici e spero che siano il meno possibile … il problema comunque
esiste … insomma, bisognerebbe parlare di più di deontologia medica, di umanizzazione della
sanità …”
7. Considerazioni conclusive
Le varie risultanze empiriche di questo paper sostengono l’ipotesi di un processo di familizzazione
e privatizzazione della cura nella tutela degli anziani non autosufficienti a partire da una negazione
di diritti soggetti esigibili. L’ipotesi del “retrenchment”, piuttosto che quella della mancata
“ricalibratura” pare, dunque, avere maggiore capacità analitica nel risalire ai fattori “genetici” che,
in prima istanza, sembrano influire sui tratti problematici che caratterizzano la tutela degli anziani
non autosufficienti nel nostro paese. Tali risultanze empiriche risultano, inoltre, utili per affrontare
alcune questioni su un piano generale e prospettico.
Riguardo il primo punto, la negazione dei diritti getta, infatti, in luce su come all’interno di un
settore specifico della protezione sociale, ovvero le politiche universalistiche di tutela della salute,
possono essere messi in atto processi di “retrenchment” nascosto pur in assenza di revisioni
esplicite dell’assetto normativo-istituzionale. Come evidenziato da alcuni autori (Ascoli e Pavolini,
2012: 443), in questo settore (al pari dell’istruzione): “l’attenzione sembra concentrarsi non tanto
sulla messa in dubbio dell’universalismo del sistema, quanto sui tagli o sul livello limitato di
aumenti di spesa rispetto all’andamento dei bisogni. In queste politiche il rischio è che avvenga
una forma crescente di privatizzazione strisciante e non dichiarata come tale”. Riprendendo Hacker
(2004) si assisterebbe, dunque, ad una privatizzazione del rischio pur in assenza di privatizzazione
del welfare, attraverso vari meccanismi come, nel nostro caso, le liste d’attesa oppure la mancata
copertura degli oneri a carico del fondo sanitario.
Passando su un piano prospettico, va premesso che all’interno del dibattito più recente sulle riforme
nel campo delle politiche per la non autosufficienza, l’ipotesi ricorrente è quella che riguarda in
particolare il sostegno allo sviluppo di forme assicurative private integrative, a partire anche da una
“valorizzazione” dell’ingente spesa privata per la cura sostenuta dalle famiglie italiane (cfr. Ferrera
e Maino, 2011; Mastrobuono, 2012). Come già evidenziato in altri studi (cfr. Gori e Pelliccia,
2012), la soluzione assicurativa mostra tuttavia diversi limiti ancor più in un settore come quello
della non autosufficienza.
Le risultanze del paper, delineano tuttavia un secondo limite che è quello che le assicurazioni
private, anziché svolgere una funzione “integrativa”, svolgano una funzione “sostitutiva”, stanti le
attuali responsabilità in capo al Servizio sanitario nazionale. Peraltro in un contesto in cui, come
messo in luce dalla negazione dei diritti analizzata nei paragrafi precedenti, tali responsabilità sono
oggetto di disinvestimento strutturale, la spinta allo sviluppo di un sistema assicurativo privato
potrebbe preparare il terreno in prospettiva ad un restringimento delle stesse responsabilità
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pubbliche. Riprendendo la letteratura sul cambiamento istituzionale (Streeck e Thelen, 2005: 22-24)
si potrebbe avanzare l’ipotesi di una dinamica del tipo layering dove, attraverso un meccanismo di
crescita differenziale, il sostegno allo sviluppo di un nuovo dispositivo di policy (ovvero le
assicurazioni private) in un contesto in cui gli assetti di riferimento (ovvero le responsabilità del
Servizio sanitario nazionale), per quanto non messi in discussione, vengono progressivamente
disinvestiti, può far maturare le condizioni per una fuoriuscita di alcune componenti sociali (come i
ceti medi e medio-alti) (cfr. Pavolini et. alt, 2012) che più verrebbero penalizzate dal mantenimento
di un impianto universalistico non in grado, tuttavia, di coprire in misura adeguata questo tipo di
bisogno.
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