Ricerca - Infanzia e Adolescenza

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Ricerca - Infanzia e Adolescenza
infanzia
e
adolescenza
Ricerca
Vol. 4, n. 3, 2005
Stato della mente rispetto all’attaccamento e organizzazione
della memoria autobiografica: uno studio preliminare su un gruppo
di adolescenti con storia infantile di abusi
CHIARA PAZZAGLI1 e NINO DAZZI2
2
1
Università della Valle d’Aosta
Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Università di Roma “La Sapienza”
RIASSUNTO: Premesse teoriche: Il bambino costruisce e sviluppa durante i primi anni di vita ed in interazione con il contesto circostante peculiari modalità di regolazione degli affetti, caratteristiche specifiche
di organizzazione della memoria autobiografica e dei processi narrativi. I modelli operativi interni, sviluppatisi all’interno di un processo di co-costruzione con il caregiver, contengono le regole per accedere all’informazione e coordinare tra loro i differenti sistemi di memoria. Obiettivo: obiettivo del presente lavoro è quello di proporre un’indagine preliminare sullo stato della mente rispetto all’attaccamento e sull’organizzazione della memoria autobiografica in un gruppo di adolescenti che vivono presso istituti e che hanno
subito abusi e maltrattamenti nell’infanzia. Metodo: la ricerca è stata svolta con un gruppo di 20 adolescenti
a cui sono stati somministrati: l’Autobiographical Memory Interview (A.M.I.) di Kopelman, Wilson, Baddeley (1990) e l’Adult Attachment Interview (A.A.I.) di George, Kaplan, Main (1985). Risultati: i risultati indicano una prevalenza della classificazione distanziante rispetto all’attaccamento e di punteggi bassi nella memoria autobiografica, sia a livello semantico che episodico. Conclusioni: i risultati emersi sono discussi tenendo conto della complessità delle esperienze traumatiche. Lo studio della ricchezza ed organizzazione
della memoria autobiografica permette l’approfondimento del ruolo svolto dal contesto relazionale ed affettivo sullo sviluppo di un’organizzazione coerente della narrazione autobiografica.
PAROLE CHIAVE: attaccamento, memoria autobiografica, trauma
ABSTRACT: Background: During the first year of life, infants develop particular patterns of affect regulation, specific organizations of autobiographical memory and narrative processes, in interaction their environment. The Internal Working Models, developed in the context of co-constructive processes with the
caregiver, contain the rules to access and coordinate the different memory systems. Objective: the aim of
this study is to investigate the organization of autobiographical memory in a sample of institutionalized adolescent victims of abuse during infancy. Method: two instruments were administered to 20 adolescents: the
Autobiographical Memory Interview (A.M.I.) of Kopelman, Wilson, Baddeley (1990) and the Adult Attachment Interview (A.A.I.) of George, Kaplan, Main (1985). Results: findings indicate a prevalence of the dismissing classification with respect to attachment and low scores in both semantic and episodic autobiographical memory. Conclusion: the results are discussed taking into account the complex nature of traumatic experience. The investigation of the richness and organization of autobiographical memory, allows
fuller analyses of the affective and relational context, influencing the development of a coherent organization of autobiographical narratives.
KEY WORDS: attachment, autobiographical memory, trauma
■ Introduzione
La teoria dell’attaccamento, ed il suo costrutto dei
modelli operativi interni, possono costituire un utile
ponte concettuale per legare le esperienze infantili alla organizzazione della memoria autobiografica. Si
può ipotizzare che, alla base dell’integrità personale,
vi sia l’esperienza del bambino di maggiore integra-
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zione delle memorie procedurali, semantiche ed episodiche, e quindi delle informazioni rispetto al collegamento tra la realtà esterna e il proprio comportamento, credenze e sentimenti.
Secondo tale prospettiva il processo di co-costruzione con il caregiver dell’organizzazione della memoria autobiografica e dei processi narrativi sia particolarmente problematico in persone che abbiano subito traumi ed abusi nell’infanzia perpetrati
principalmente in ambito familiare. L’impossibilità a
confrontarsi su abusi e traumi può costituire, infatti,
una “rottura” nella propria storia, portando a restare
privi sia della capacità di dare un ordine e di contestualizzare l’esperienza traumatica, sia della funzione
organizzatrice della narrazione che permette di dare
un significato a tale esperienza (Barclay, 1995)
Il presente lavoro nasce dall’esigenza di approfondire le connessioni esistenti fra l’organizzazione cognitivo-affettiva che sottende le narrative relative all’attaccamento ed il funzionamento della memoria autobiografica alla luce dei recenti sviluppi avvenuti sia
in ambito della prospettiva dell’attaccamento sia nelle
teorie sul funzionamento della memoria. Partendo da
tali premesse teoriche, riporteremo dei dati iniziali di
una ricerca nata dall’esigenza di approfondire le connessioni esistenti fra l’organizzazione cognitivo-affettiva che sottende le narrative relative all’attaccamento e
il funzionamento della memoria autobiografica in un
campione costituito da un gruppo di adolescenti che
hanno subito traumi e abusi nell’infanzia e che vivono presso istituti.
Sviluppi nella concezione della memoria
autobiografica: i sistemi mnestici
I cambiamenti paradigmatici nella modellizzazione
della memoria, sviluppatisi a partire dagli anni ’60 e
’70, hanno permesso di articolare maggiormente tale
concetto e di porre le premesse per lo studio e la ricerca sulla prima forma basilare di memoria autobiografica, di quella memoria cioè che costituisce l’ossatura della propria teoria personale sul sé e che influenza la persona nel processo di elaborazione delle
informazioni autobiografiche.
Prevalentemente a partire dagli anni ’80, si è assistito al diffondersi delle “teorie ricostruttive” della memoria in cui si ipotizza che, quando un’informazione
viene ricordata, le conoscenze autobiografiche di se
stessi guidino la ricostruzione delle elaborazioni plausibili, ma spesso inaccurate, delle precedenti espe-
rienze (Barclay, 1986). Tale prospettiva si contrappone alla cosiddetta “teoria della riproduzione”, in cui
cioè i ricordi personali sono concepiti come copie veritiere dell’esperienza originaria.
Le teorie ricostruttive della memoria fanno riferimento al concetto di schema, introdotto da Bartlett
agli inizi del ‘900 all’interno degli studi della memoria,
che ha poi conosciuto una vasta diffusione a partire
dagli anni ’70 ed è all’origine di concetti più attuali
quali “script” o “frames”.
Per Bartlett il concetto di schema poteva essere utile anche nella spiegazione dei fenomeni psicologici.
Egli riteneva che una persona, nel tentativo di ricordare una particolare situazione, potesse evocare uno
schema tipico di tale situazione per guidare il proprio
ricordo. In particolare, l’Autore sottolineò due modalità
prevalenti di agire degli schemi: costrittiva e generativa. L’aspetto costrittivo fa riferimento alla tendenza a
dimenticare quanto non può essere organizzato o previsto dallo schema stesso. L’aspetto generativo degli
schemi fa invece riferimento ad una visione maggiormente flessibile del loro funzionamento, e cioè alla tendenza ad aggiungere sfumature e particolari al ricordo
in base alle necessità del contesto circostante al narratore al momento della rievocazione.
L’applicazione di tale concetto fu poi estesa ad altri campi, così autori quali Epstein (1973), e successivamente Markus (1977), avanzarono l’idea di “schemi
del sé” considerati come la prima forma basilare della
memoria autobiografica: la struttura della propria teoria personale sul sé influenza e guida la persona nel
processamento delle informazioni autobiografiche.
In generale, la prospettiva avanzata inizialmente da
Bartlett e poi sviluppata intorno agli anni ‘70, ed in
particolare l’introduzione del concetto di schema, ha
portato ad una rivoluzione nella concettualizzazione
della memoria considerata sempre più una ricostruzione e non una riproduzione speculare degli eventi.
Sempre intorno agli anni ’60 e ’70 si è assistito anche al diffondersi della discussione sull’esistenza di
forme multiple di memoria, e, anche nella concettualizzazione della memoria a lungo temine, al passaggio
dalla visione di tale memoria come sistema unitario a
ciò che Baddeley (1995) definisce un “frazionamento
della memoria” .
Sebbene l’organizzazione della memoria a lungo termine rimanga un’area piuttosto controversa, si è progressivamente affermata la rivisitazione proposta dallo
stesso Squire nel 1992 che distingue due componenti
principali, denominate dichiarativa e non dichiarativa, a
loro volta suddivise in altre sottocomponenti. La me-
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moria non dichiarativa si riferisce quindi ad un insieme
eterogeneo di abilità attraverso cui l’esperienza altera il
comportamento in maniera non consapevole, senza
stabilire quindi un accesso ad alcun contenuto specifico della memoria. La memoria dichiarativa fa riferimento al richiamo consapevole degli eventi (episodici)
e dei fatti (semantici). È quindi questa forma di memoria a comprendere la suddivisione in sistemi episodico
e semantico, proposta inizialmente da Tulving nel 1972
e che all’epoca suscitò numerose discussioni.
Tale distinzione tra memoria episodica e semantica,
basata su differenti tipi e fonti dell’informazione che
devono essere ricordati (eventi sperimentati personalmente versus fatti generici), ha poi conosciuto un primo cambiamento nel libro Elements of Episodic Memory pubblicato nel 1983 in cui Endel Tulving amplia
ed approfondisce la precedente teorizzazione, accostando ai due differenti sistemi di memoria (episodica
e semantica), anche un terzo sistema, denominato
procedurale, riguardante l’apprendimento di abilità
motorie e cognitive.
La memoria procedurale rende gli organismi capaci di apprendere le connessioni tra stimoli e risposte,
includendo le relazioni tra stimoli complessi e risposte concatenate, e di rispondere in maniera adattiva all’ambiente. Essa non contiene tracce discrete di memoria, ma la rappresentazione dell’informazione è più
prescrittiva che descrittiva, ed opera ad un livello automatico più che consapevole, in tal senso la coscienza è anoetica.
La memoria semantica è caratterizzata dalla capacità
aggiuntiva di rappresentare internamente gli stati del
mondo che non sono direttamente percettibili. La memoria semantica riguarda informazioni che sono state
acquisite probabilmente attraverso contesti differenti e
possono essere utilizzate, a loro volta, in situazioni differenti. In questo sistema la consapevolezza è noetica;
essa riguarda una conoscenza simbolica del mondo
sulla quale l’organismo può agire in maniera flessibile.
Il sistema episodico possiede la capacità, aggiuntiva rispetto al precedente sistema, di acquisire e ritenere la conoscenza su eventi vissuti personalmente, le
loro relazioni temporali nel tempo soggettivo e la capacità di viaggiare mentalmente indietro nel tempo. La
sua essenza risiede nell’unione di tre concetti: il sé, la
consapevolezza autonoetica e il tempo percepito soggettivamente. Per essere vissuta come ricordo, quindi,
l’informazione deve essere rievocata nel contesto di
un determinato tempo e luogo, con qualche riferimento a se stessi in quanto partecipanti all’episodio.
Da un punto di vista evolutivo, la memoria episo-
dica viene considerata come il sistema che si è evoluto per ultimo nella specie e che, a sua volta, evolve
per ultimo nello sviluppo dell’individuo. Tulving
(1985, 2002) sottolinea come il sistema al livello più
basso della gerarchia, quello procedurale, contenga la
memoria semantica come un suo sottosistema specializzato, e la memoria semantica, allo stesso modo,
contenga la memoria episodica. Viene inoltre assunto
da Tulving (2002) che il richiamo dell’informazione sia
indipendente tra i sistemi. Ciò significa che il richiamo
da un sistema può non avere alcuna implicazione per
il richiamo dell’informazione dagli altri sistemi, anche
se spesso l’informazione proveniente da sistemi differenti è congiunta nell’atto di rievocare.
Possiamo quindi vedere come i cambiamenti che
sono andati sviluppandosi a partire dagli anni ’60 abbiano permesso di ipotizzare la relativa indipendenza
dei processi di recupero ed il loro ruolo nella rievocazione del ricordo stesso. Storicamente si è passati da
una visione dei processi di richiamo visti semplicemente come lettura dei contenuti immagazzinati nella
memoria, ad una prospettiva che considera il richiamo
di informazioni come espressione di un complesso
insieme di processi.
Lo sviluppo della memoria autobiografica
nelle relazioni interpersonali:
il linguaggio ed i processi narrativi
Le conoscenze implicite sono non verbali, non simboliche, procedurali e inconsce in quanto non oggetto di riflessione consapevole. La comunicazione verbale si sviluppa intorno ai 18 mesi, essa quindi non
può che affondare le sue radici sulle conoscenze implicite che si sono organizzate nelle interazioni con le
figure di riferimento (Stern, 2004).
Lo sviluppo delle capacità verbali, inevitabilmente,
è interconnesso e intrecciato con le esperienze interpersonali sociali ed affettive precedenti e registrate ad
un livello implicito. L’indipendenza tra i sistemi mnestici ha, infatti, portato ad ipotizzare che con lo sviluppo del linguaggio non vi sia un trasferimento dell’esperienza implicita in esplicita, quanto che gran parte della conoscenza che la persona ha acquisito sul
come essere con gli altri risieda ad un livello implicito e che rimanga tale anche con lo sviluppo.
Ricerche nell’ambito sia della prospettiva dell’attaccamento sia degli studi sulla memoria hanno indagato lo sviluppo del linguaggio all’interno della diade
bambino-caregiver.
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Per quanto riguarda lo sviluppo della memoria autobiografica, vari autori ipotizzano che avvenga durante l’infanzia attraverso un processo di “collaborazione sociale” tra gli adulti ed il bambino; in particolare, attraverso “discussioni collaborative” il bambino
internalizzerebbe la struttura narrativa delle conversazioni condivise e le utilizzerebbe per guidare il proprio richiamo delle esperienze significative precedenti. Tali conversazioni tra bambino e genitori vengono
considerate cruciali per il processo di sviluppo della
memoria autobiografica, conversazioni dette “memory
talk” (Farrar, Fasig, Welch-Ross, 1997).
Varie ricerche concordano sul fatto che sia attraverso le conversazioni con il caregiver che il bambino apprenda le forme e la funzione di tali scambi. A
questo proposito, Nelson e Fivush (2000) commentano come la rappresentazione mnemonica del bambino sia influenzata dalla capacità dello stesso di discutere un evento quando esso accade e dalla modalità
con cui ne discute con il caregiver: tali caratteristiche
influenzano la modalità con cui tale evento viene rappresentato.
Ricerche hanno inoltre evidenziato come vi siano
notevoli differenze individuali nella modalità con cui
le madri ricordano eventi passati con i loro figli. Nonostante le differenze teoriche e metodologiche degli
studi che si sono occupati di quest’aspetto, Nelson e
Fivush (2000) osservano come esista un accordo nel
considerare le narrative delle madri con i figli come disposte su un continuum contraddistinto da differenti
livelli di elaborazione. Mentre alcune madri si impegnano con i figli in lunghe ed elaborate narrazioni sugli eventi passati, altre tendono a parlarne poco ed in
maniera scarna. Proprio tale stile di elaborazione è risultato essere un fattore importante nel facilitare lo sviluppo della capacità del figlio di richiamare episodi
passati in maniera dettagliata (Reese, Haden, Fivush,
1993). Sullo stesso piano sono i risultati di ricerche
longitudinali che hanno mostrato come in età prescolastica figli di madri che pongono maggiormente
l’accento sugli aspetti spazio-temporali tendano anch’essi a fornire nelle proprie narrative una gran quantità di informazioni sull’orientamento (Haden, Haine,
Fivush, 1997). Allo stesso modo, figli di madri attente
agli aspetti valutativi delle esperienze tendono a costruire narrative fortemente valutative (Fivush, 1991).
Le ricerche svolte in quest’ambito non solo hanno
quindi messo in luce come differenti modalità narrative del caregiver comportino differenze di contenuto
nelle narrazioni dei figli, ma anche che i bambini imparano come strutturare le proprie memorie all’inter-
no di una narrativa coerente: la memoria deve essere
organizzata coerentemente per poter essere condivisa
con gli altri.
La teoria dell’attaccamento può quindi costituire
una cornice per un esame più dettagliato del legame
tra la relazione bambino-genitore e lo sviluppo della
memoria autobiografica. Partendo dal concetto cardine di modelli operativi interni (MOI), definiti dalla
Main come regole che guidano non solo i sentimenti
ed i comportamenti ma anche l’attenzione (Main, Kaplan, Cassidy, 1985), la memoria e la cognizione, viene ipotizzato che la natura delle memorie autobiografiche da una parte possa differire in funzione dei modelli operativi che riflettono la relazione di
attaccamento, dall’altra sia un agente attivo nella costruzione di tali modelli.
I modelli operativi interni e le discussione sulle memorie autobiografiche si influenzerebbero quindi reciprocamente. Non solo, infatti, i modelli operativi interni influirebbero sulla selezione dei temi emotivi
trattati nel discutere il passato, ma le conversazioni tra
genitori e figli influenzerebbero la formazione dei modelli operativi stessi. In generale, la modalità con cui
madre e bambino discutono i ricordi autobiografici
può essere considerata sia una componente attiva nella costruzione dei modelli rappresentazionali sia
espressione dei modelli operativi interni del genitore
e del bambino (Bretherton, 1993). La comunicazione
all’interno della diade bambino – caregiver, quindi,
svolge il ruolo fondamentale non solo di scambio di
informazione e di mantenimento della relazione, ma
anche di creazione di una realtà condivisa. Il bambino che utilizza il linguaggio, inoltre, è attivo anche
nelle relazioni interpersonali partecipando alla costruzione di specifici eventi interpersonali. Il linguaggio
svolge, infine, un altro ruolo essenziale: nel caso in cui
i processi di deformazione e di esclusione difensiva divengano pervasivi, “il linguaggio serve a distorcere la
comunicazione e a creare discordanze e confusioni”
(Bretherton, 1993).
In tal senso, la relazione tra attaccamento e memoria autobiografica sarebbe bi-direzionale. Mentre quindi l’attaccamento influenza non solo i tipi di conversazioni che genitori e bambino hanno rispetto al passato, queste conversazioni ed altri pattern interattivi e
comunicativi possono a loro volta contribuire allo stabilizzarsi della relazione di attaccamento (Farrar et al.,
1997).
Interessante a questo proposito sono gli studi che
hanno indagato la relazione tra strutture cognitive e
memoria. Da queste ricerche emerge come non solo
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le persone tendano a notare le informazioni congruenti con i propri schemi, ma anche successivamente siano in grado di richiamare più facilmente tali informazioni. In particolare, una ricerca ha mostrato come persone, con stili di attaccamento differenti,
ricordino meglio episodi concordanti con le proprie
relazioni con i caregiver rispetto ad episodi discordanti
(Koh-Rangarajoo, 1991). I modelli operativi, quindi,
sembrano selezionare non solo le informazioni, ma
anche influenzare l’accesso all’informazione da richiamare.
Le esperienze giocano quindi un ruolo fondante
per la modalità con cui rievochiamo gli eventi del
passato e costruiamo il racconto della nostra vita. Considerare la memoria autobiografica come una capacità
appresa attraverso le interazioni con gli adulti, infatti,
significa anche che le strategie della memoria sono acquisite in tal modo e sono soggette a simili variazioni.
La ricchezza della conoscenza di sé e le narrative autobiografiche sembrano quindi essere mediate dai dialoghi interpersonali con cui vengono co-costruite le
narrative sugli eventi esterni e sull’esperienza soggettiva interna (Siegel, 1999).
Ricerche nell’ambito dell’attaccamento hanno mostrato come la modalità con cui i genitori narrano le
proprie esperienze infantili sia altamente predittiva
del modello di attaccamento che il figlio nascituro
mostrerà intorno al secondo anno di età. La struttura
del processo narrativo costituisce quindi un aspetto
importante per prevedere la capacità di un adulto di
sviluppare un sano e responsivo legame di attaccamento con il proprio bambino.
In altre parole, la coerenza narrativa e la valenza affettiva di una narrazione riflettono la propria storia
personale. Gli aspetti impliciti della memoria, in particolare, sembrano avere una funzione rilevante nell’influenzare la struttura delle successive narrative autobiografiche. Nel ricordare e nel narrare la propria
storia siamo influenzati dalle esperienze passate anche
a livello della cosiddetta memoria implicita, e gli effetti
impliciti delle esperienze passate possono plasmare ed
organizzare le nostre reazioni emotive.
Le memorie autobiografiche, quindi, si esprimono
attraverso le conversazioni e sono forgiate dalle stesse (Hirst e Manier, 1995). Da osservazioni come questa deriva l’importanza di studiare le memorie autobiografiche non solo con un’analisi quantitativa e contenutistica, ma anche attraverso un’analisi qualitativa
delle narrazioni prodotte. In tal senso, l’analisi delle
narrazioni autobiografiche può essere intesa come lo
studio dei meccanismi che la mente utilizza per cer-
care di organizzare le sue diverse componenti mnestiche in un sistema coerente. Tale prospettiva costituisce uno dei presupposti dell’Adult Attachment Interview, intervista semi-strutturata che indaga l’attaccamento adulto.
■ La
ricerca
La ricerca presentata fa parte di un lavoro più ampio nato dall’esigenza di approfondire le connessioni
esistenti fra l’organizzazione cognitivo-affettiva che
sottende le narrative relative all’attaccamento e il funzionamento della memoria autobiografica, così come
emerge da narrative autobiografiche non necessariamente focalizzate sulle passate esperienze di attaccamento. L’interesse per l’organizzazione della memoria
nei differenti stati della mente rispetto all’attaccamento ha preso le mosse dalla constatazione della non
esaustività della letteratura scientifica sull’argomento,
letteratura che spesso fa riferimento a modelli e teorie
differenti che non sempre permettono di raggiungere
una comprensione ampia e sistematica dei diversi stati della mente.
In questo lavoro ci soffermeremo su una parte di tale più ampio progetto che riguarda una ricerca svolta
su un sottogruppo del nostro campione composto da
soggetti adolescenti che hanno subito traumi e abusi
nell’infanzia e che vivono presso istituti. La peculiarità
e la complessità dei soggetti del sottogruppo che presentiamo, ma anche l’interesse che i risultati preliminari emersi sollecitano da un punto di vista teorico e
clinico, ci hanno indotto a trattare qui in maniera più
approfondita i dati di questa ricerca.
■ Metodo
Strumenti
Nella ricerca sono stati utilizzati due tipi di interviste semi-strutturate: una rivolta alla valutazione della
memoria autobiografica prendendo in considerazione
la distinzione tra memorie semantiche ed episodiche,
l’altra alla classificazione degli stati della mente rispetto all’attaccamento.
L’“Autobiographical Memory Interview” (AMI) di
Kopelman, Wilson e Baddeley (1990), consiste in
un’intervista semi-strutturata che comprende due componenti: la prima riguarda gli aspetti semantici della
memoria, in quanto misura la capacità di richiamare
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alla mente informazioni riguardanti il passato della
persona; la seconda concerne più specificamente gli
eventi autobiografici, poiché misura la capacità di ricordare specifici momenti episodici. L’intervista semistrutturata AMI si articola in tre parti riguardanti periodi differenti della propria vita: infanzia, prima giovinezza e ricordi attuali.
L’AMI è risultata essere, dalla ricerca bibliografica
effettuata, uno strumento validato che indaga sulla
memoria autobiografica e che permette di testare separatamente la memoria semantica e la memoria episodica. In particolare, intenzione degli autori (Baddeley e Wilson, 1986) è quella di individuare differenze qualitative tra le varie perfomance di memoria
autobiografica, aspetto che si riflette nella modalità di
codifica degli episodi narrati, considerando caratteristiche quali la specificità e la completezza degli eventi narrati, oltre alla capacità di contestualizzarli spazio-temporalmente. Un limite di tale strumento è l’essere stato creato nell’ambito di studi su popolazioni
con danni neurologici. Comunque, tale intervista è
stata utilizzata anche in popolazioni con disturbi clinici, quali la depressione, dipendenza da sostanze
psicoattive e disturbi psichiatrici. La particolare popolazione per cui l’intervista è nata ha richiesto un
adattamento nella nostra ricerca: mentre l’indicazione degli autori è di insistere affinché il soggetto narri l’episodio riguardante un particolare periodo di vita, nella nostra ricerca abbiamo deciso di non insistere, lasciando aperta la narrazione. Tale
accorgimento si è reso necessario sia per la diversità
della popolazione, sia per l’importanza che riveste
per la nostra ricerca la modalità di organizzare la
narrazione.
L’“Adult Attachment Interview” (AAI) di George,
Kaplan e Main (1985) consiste in un’intervista semistrutturata, della durata di un’ora circa, e si articola in
18 domande standardizzate che indagano ripetutamente sui ricordi e sulle esperienze passate a due livelli: uno generale e uno specifico. Main e Goldwyn
(1998) hanno elaborato un sistema di codifica per le
interviste della Berkeley Adult Attachment Interview di
George, Kaplan e Main del 1985. Lo scopo di tale sistema è quello di fornire una valutazione e, da ultimo,
una classificazione delle “stato della mente dell’adulto in merito all’attaccamento”.
L’Adult Attachment Interview è stata sottoposta ad
una serie di test sulla sua stabilità e validità discriminante. È emerso come la classificazione non dipenda
dall’influenza di differenti intervistatori e tenda ad essere stabile nel tempo (Bakermans-Kranenburg e Van
Ijzendoorn, 1993). Inoltre, è stato trovato come l’AAI
non sia correlata con la desiderabilità sociale (Bakermans-Kranenburg e Van Ijzendoorn, 1993), sia solo
moderatamente associata all’adattamento sociale
(Crowell, Fraley, Shaver, 1999) e sia indipendente da
misure generali della personalità (Van Ijzendoorn,
1995). La classificazione dell’attaccamento su un continuum sicuro-insicuro è risultata non correlata all’intelligenza, includendo la valutazione della fluidità
verbale (Crowell et al., 1999). Le categorie di attaccamento sono risultate indipendenti anche dalle capacità mnemoniche riguardanti eventi non connessi alla storia di attaccamento (Bakermans-Kranenburg e
Van Ijzendoorn, 1993).
Caratteristiche del campione
La ricerca è stata svolta con un gruppo di 20 soggetti, di classe sociale bassa, che hanno subito un
abuso nell’infanzia, di età compresa tra i 15 ed i 20 anni (età media = 16.7; d.s. = 1.6); i soggetti vivono
presso Comunità - Case famiglia (vedi tab. 1).
Tabella 1 - Caratteristiche del gruppo di soggetti.
Numero
sogg.
Percentuale
Sesso:
Maschi
Femmine
18
2
90%
10%
Età:
15- 18
19 – 20
16
4
80%
20%
Età ingresso comunità:
<10 anni
>10 anni
12
8
60%
40%
Età abuso:
<10 anni
>10 anni
18
2
90%
10%
Autori abuso:
Genitori
Altri
19
1
95%
5%
9
7
4
45%
35%
20%
Tipo di abuso:
Maltrattamenti fisici
e/o psicologici
Patologia delle cure
Abuso sessuale
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Procedura della ricerca
A tutti i soggetti sono state somministrate le interviste in forma anonima. È stata somministrata dapprima l’Autobiographical Memory Interview e, successivamente, l’Adult Attachment Interview.
Entrambe le interviste, audioregistrate e trascritte integralmente, sono state codificate da giudici indipendenti: l’AAI secondo il sistema di codifica di Main e
Goldwyn (1998) e l’AMI seguendo la modalità indicata dagli autori. I dati dell’Autobiographical Memory Interview sono stati analizzati sulla base di ogni sua
componente, semantico ed episodico, prendendo in
considerazione anche i tre periodi temporali indagati
dalla intervista semi-strutturata.
■ Risultati
Nel nostro gruppo gli stati della mente rispetto all’attaccamento sono risultati distribuiti nella seguente
maniera (vedi fig.1):
Come mostrato dal grafico, nel nostro gruppo di
soggetti che hanno avuto un abuso nell’infanzia è
maggiormente rappresentata le classificazione “Distanziante” (50%), seguita da quella “Irrisolto” (20%),
“Sicuro” (15%), “Non Classificabile” (10%), e “Preoccupato” (5%). Facendo riferimento alla classificazione
a tre categorie, emerge nettamente come i soggetti
Distanzianti risultino essere i più rappresentati (65%),
seguiti dai Sicuri (20%) ed, infine, dai Preoccupati
(15%).
Per comprendere in maniera più approfondita le caratteristiche del gruppo abbiamo confrontato la distribuzione dei nostri soggetti con campioni riportati in
letteratura (van Ijzendoorn, Bakermans-Kranenburg,
Figura 1 - Distribuzione degli stati della mente rispetto
all’attaccamento.
CC
10%
U
20%
Ds
55%
E
5%
F
15%
1996). Mentre la differenza tra le distribuzioni è risultata statisticamente significativa nel confronto tra il
nostro gruppo con un campione costituito da adolescenti e giovani adulti (χ2 (3, N = 245) = 12.8, p >.05)
e con un campione clinico composto da soggetti con
disturbi psichiatrici (χ2 (3, N = 185) = 8.05, p > .05), si
è evidenziata una omogeneità nelle distribuzioni della categorie nel confronto tra un campione composto
da soggetti appartenenti a minoranze etniche e da
soggetti di livello socio-economico basso ed il nostro
gruppo (χ2 (3, N = 370) = 7.65, p < .05).
I punteggi dell’AMI e le classificazioni dell’AAI sono stati elaborati con l’analisi della varianza (ANOVA
a misure ripetute). Nel discutere i risultati provenienti dall’AMI faremo riferimento al confronto proveniente da un campione di classe sociale medio-alta costituito da 20 soggetti e di età compresa tra i 25 ed i
32 anni (età media = 27; d.s. = 2.38), bilanciato per
sesso (10 M, 10 F) e reperito attraverso un campionamento casuale. Nel commentare tali dati bisogna tenere conto di un limite della nostra ricerca dato dal
confronto tra due gruppi, quello di confronto e quello di soggetti abusati, di età e situazioni di vita differenti. Tale diversità è nata dalla difficoltà di reperire
soggetti maggiorenni con una storia infantile di maltrattamenti/abuso, essendo le comunità e le case famiglia rivolte a minorenni. È importante tenere conto
che la variabile età nei due campioni è risultata non
essere, attraverso l’analisi della regressione multipla,
una predittore significativo dei risultati ottenuti con
l’AMI sulla memoria semantica e sulla memoria episodica. Inoltre, i nostri dati sono confermati in letteratura da altre ricerche che hanno indagato, con uno
strumento derivato dall’AMI, la memoria autobiografica in adolescenti con storie traumatiche e che utilizzano un campione di controllo bilanciato per età e
condizioni di vita.
Per quanto riguarda i dati dell’AMI, a livello della
memoria semantica il nostro gruppo si differenzia significativamente dal gruppo di confronto (F (1/39) =
79.001, p < .001). Il Test di Duncan (p < .001) indica
punteggi significativamente inferiori nel gruppo dei
soggetti abusati rispetto al gruppo di confronto. Ugualmente risulta significativa la differenza tra i due gruppi rispetto all’andamento dei punteggi nei tre periodi
temporali sempre a livello semantico. In particolare,
l’andamento temporale del nostro gruppo costituito da
soggetti che hanno subito maltrattamenti/abusi nell’infanzia mostra una crescita significativa dei punteggi relativi alla memoria semantica nel periodo attuale
rispetto all’infanzia (t-test (19) = -3.05, p<.01) e ri-
162
C. Pazzagli, N. Dazzi: Stato della mente rispetto all’attaccamento e organizzazione della memoria autobiografica
spetto alla prima adolescenza (t-test (19) = -2.11,
p<.05). Anche dal confronto tra i soli soggetti distanzianti nella classificazione a tre categorie appartenenti al gruppo di confronto ed al gruppo “abuso” emerge una differenza significativa nei punteggi sulla memoria semantica (F (1,21) = 46.203, p < .001) con
post-test di p < .001.
Per quanto riguarda i punteggi sulla memoria episodica, dall’analisi della varianza risulta una differenza significativa a livello della memoria episodica tra il
gruppo costituito da soggetti che hanno subito abusi
nell’infanzia e il gruppo di confronto (F (1,39) =
10.880, p <.01) e con il Test di Duncan (p < .01). Il
gruppo costituito da persone che hanno subito abuso
si contraddistingue significativamente dal gruppo di
confronto per punteggi più bassi anche a livello episodico, pur non presentando differenze nell’andamento generale dei punteggi lungo i tre periodi temporali valutati dall’AMI. Anche confrontando i soli soggetti con lo stato della mente “Distanziante”
appartenenti al gruppo di confronto ed al gruppo
“abuso”, comunque, si conferma una differenza significativa nei punteggi a livello della memoria episodica (F (1,21) = 6.136, p < .05; test di Duncan p < .05).
■ Discussione
Nel commentare i risultati emersi dalla nostra ricerca ci soffermeremo dapprima separatamente sui dati
relativi all’attaccamento e alla memoria autobiografica,
per proporre successivamente una riflessione più ampia su tali risultati.
Discussione dei risultati sullo stato della mente
rispetto all’attaccamento
Un primo aspetto riguarda l’alta presenza dello stato della mente rispetto all’attaccamento distanziante
nel nostro gruppo di soggetti. In particolare, abbiamo
trovato la presenza di un attaccamento insicuro nell’85% dei soggetti; questo dato è in linea con le ricerche che evidenziano la presenza di un legame tra cure inappropriate e/o traumatizzanti e modelli di attaccamento insicuri e/o disorganizzati (Carlson, Cicchetti,
Barnett, Braunwald, 1989; Lyons-Ruth e Jacobvitz,
1999). Allo stesso tempo, l’alta presenza di un attaccamento Distanziante, che ricordiamo è un modello
insicuro ma organizzato, si discosta dall’ipotesi basata
sulla letteratura di una prevalenza della classificazio-
ne “Non risolto rispetto ad un lutto/trauma” (U) e/o
“Non Classificabile” (CC) (Hesse, 1996; Lyons-Ruth e
Jacobvitz, 1999).
Tale numerosità della classificazione distanziante
può essere spiegata attraverso varie ipotesi, proveremo ad avanzarne qualcuna.
Abbiamo riportato la presenza di una omogeneità
tra le distribuzione delle categorie di attaccamento nel
nostro gruppo e nel campione composto da soggetti
di minoranze etniche e di livello socio-economico basso. Questo campione si contraddistingue rispetto ai
campioni normali per una sovra-rappresentazione della categoria Distanziante e di quelle Irrisolto e Non
Classificabile, mentre la categoria dei sicuri è sottorappresentata. L’omogeneità tra il nostro gruppo e
quello riportato in letteratura sembra indicare che nel
nostro gruppo il contesto familiare presumibilmente
caratterizzato da povertà relazionale, affettiva e cognitiva abbia inciso fortemente sulla modalità di organizzare lo stato della mente rispetto all’attaccamento,
portando alla prevalenza della categoria distanziante
tipicamente associata con una notevole assenza di
espressioni di vulnerabilità emotiva (Hesse, 1999).
Un secondo aspetto fa riferimento a quanto osservato da Mary Main (1999) su un gruppo di adolescenti
che, mentre nell’infanzia presentavano un attaccamento disorganizzato, nell’adolescenza avevano uno
stato della mente distanziante. La Main, per comprendere la peculiarità di questi soggetti classificati distanzianti in adolescenza pur non avendo una storia di attaccamento di tipo evitante nell’infanzia, osserva come
lo stress potrebbe svolgere un importante ruolo in
questo cambiamento, nello specifico, l’aumentata produzione di cortisolo documentata nei bambini disorganizzati durante la Strange Situation. La difficoltà a riconoscere l’importanza delle proprie figure di riferimento e l’insistenza sulla difficoltà a ricordare
l’infanzia potrebbe quindi essere di natura difensiva.
Ma, allo stesso tempo, l’insistenza sulla mancanza di
ricordi, tipica dei soggetti distanzianti, potrebbe essere anche legata ai precoci e continui stress dovuti alle
esperienze infantili che potrebbero interferire con la
memoria a lungo termine, aspetto su cui ci soffermeremo tra breve.
L’osservazione della Main sulla natura difensiva dello stato della mente distanziante concorda con quanto descritto in letteratura sulle caratteristiche delle narrazioni fornite da soggetti abusati nell’infanzia che, a
loro volta, hanno modalità di accudimento abusanti. In
particolare, tali narrazioni sarebbero caratterizzate da
rimozione e idealizzazione, aspetti che abbiamo visto
163
Infanzia e adolescenza, 4, 3, 2005
contraddistinguono la classificazione distanziante
(Egeland, Jacobvitz, Sroufe, 1988).
Un terzo aspetto riguarda la peculiarità del gruppo
da noi preso in considerazione. È importante tenere
conto che il 60% dei soggetti è entrato in Comunità
prima dei 10 anni. La lunga permanenza all’interno
della comunità potrebbe avere inciso sulla modalità di
organizzare cognitivamente ed affettivamente le esperienze ed i ricordi relativi all’attaccamento. In tale direzione va anche una ricerca di Howes e Segal (1993)
che riporta come l’affidamento a nuove famiglie di minori abusati dai propri caregiver conduca a cambiamenti dei modelli di attaccamento nella direzione di
una maggiore sicurezza. In tal senso potremmo pensare che la casa famiglia o la comunità abbia costituito per i soggetti del nostro gruppo un contesto di riferimento abbastanza sicuro per permettere un passaggio da un’organizzazione disorganizzata ad una
maggiormente organizzata, sebbene insicura.
Per quanto riguarda le capacità mnemoniche di
soggetti classificati come distanzianti, senza una storia
di abusi o traumi, è importante sottolineare come
Bakermans-Kranenburg e Van Ijzendoorn (1993) abbiano trovato che le categorie di attaccamento sono
indipendenti dalla memoria riguardante eventi non
connessi all’attaccamento. L’insistenza dei distanzianti sulla mancanza di ricordi per le prime relazioni ed
interazioni non riguardano quindi una generale difficoltà a richiamare le memorie infantili, ma concernono lo stato della mente specifico della loro storia di attaccamento.
Nel trattare l’insistenza sull’impossibilità di ricordare eventi della propria infanzia tipica dei soggetti distanzianti, è importante tenere conto della forte funzione organizzatrice delle relazioni interpersonali e
dello sviluppo del linguaggio nel contesto interpersonale. Il bambino che utilizza il linguaggio, infatti, è attivo anche nelle relazioni interpersonali partecipando
alla costruzione di specifici eventi interpersonali. Interessante in tal senso è l’osservazione di Fonagy e
Target (1997) a proposito della difficoltà presente nei
bambini maltrattati di utilizzare parole sugli stati interni. Gli Autori osservano che tali bambini sembrano
controllare la loro ansia attraverso la modificazione del
linguaggio che esclude certi aspetti e contesti associati al maltrattamento, evidenziando così maggiormente
anche l’utilizzo di una strategia attiva da parte del
bambino.
Facendo riferimento ai sistemi mnestici possiamo
quindi pensare che in questi casi vi siano ostacoli all’integrazione tra memorie procedurali, semantiche ed
episodiche. Tale difficoltà di integrazione influenzerebbe così anche il collegamento tra la realtà esterna
e il proprio comportamento, credenze e sentimenti.
■
Discussione dei risultati sulla memoria
autobiografica
Rispetto alla misurazione della memoria autobiografica con l’AMI, abbiamo riportato come i soggetti
del nostro gruppo che hanno subito un abuso nell’infanzia si distinguano nettamente dal gruppo di confronto per punteggi particolarmente bassi sia a livello
della memoria semantica sia a livello della memoria
episodica.
Un primo aspetto da prendere in considerazione
trattando la memoria autobiografica in soggetti che
hanno subito forti traumi nell’infanzia è indubbiamente il fondamentale ruolo svolto dalle emozioni nel
selezionare le informazioni. Il coinvolgimento affettivo, in particolare, nel vivere un’esperienza influisce
sul livello di attenzione evocato, e, quindi, sulla modalità di registrare tali eventi come più o meno importanti. Il ruolo delle emozioni, e della loro intensità,
sulle capacità di ricordare gli eventi è comunque complessa. Mentre, infatti, esperienze prive di coinvolgimento emotivo sembrano destinate ad essere dimenticate, esperienze che comportano un’eccessiva attivazione possono invece portare ad un’inibizione della
memoria esplicita; tale blocco, in particolare, avverrebbe a livello dell’ippocampo che sembra giocare un
ruolo fondamentale nella capacità di ricordare gli
eventi quotidiani, portando ad un blocco nella registrazione esplicita di tali esperienze. Abbiamo riportato come anche la Main (1999), commentando i dati sugli adolescenti con un attaccamento disorganizzato
nell’infanzia che hanno virato in adolescenza verso un
modello distanziante, si interroghi sull’influenza delle
continuate esperienze stressanti sul cervello, evidenziata dalle scoperte nell’ambito delle neuroscienze sull’effetto di stress prolungati sulle strutture cerebrali e
sulla memoria a lungo termine, e si chieda se anche
questi aspetti possano influire sulla difficoltà a ricordare le esperienze di attaccamento. I punteggi particolarmente bassi nella memoria episodica e semantica del gruppo che ha subito abusi rispetto al gruppo
dei soggetti di confronto possono essere letti in accordo con la letteratura che riporta come esperienze
eccessivamente terrorizzanti possano portare un’inibizione dei processi della memoria esplicita (Siegel,
1999).
164
C. Pazzagli, N. Dazzi: Stato della mente rispetto all’attaccamento e organizzazione della memoria autobiografica
Bisogna però tenere conto che nel nostro gruppo le
difficoltà a ricordare non sono circoscritte all’evento
traumatico, ma riguardano la memoria autobiografica
ad un livello più generale. Nella letteratura viene riportato come sia stata rilevata la difficoltà a rievocare
episodi autobiografici dell’infanzia e dell’adolescenza
in un gruppo di donne che avevano subito abusi fisici e sessuali ripetuti e con normali capacità mnestiche
esplicite (Parks e Balon, 1995; Schacter, 1996).
In particolare, i nostri dati vengono ribaditi dal lavoro di Meesters, Merckelbach, Muris, Wessel del 2000
riguardante la memoria autobiografica in adolescenti
che avevano subito numerosi traumi nell’infanzia, quali maltrattamenti fisici, trascuratezza e abuso sessuale.
La ricerca è stata condotta con un gruppo di 10 soggetti adolescenti (età media di 16 anni), che vivevano
presso un istituto. Tra gli strumenti utilizzati dagli Autori vi è il Semantic Autobiographical Memory Test
(SAMT), strumento derivato dall’AMI da noi utilizzato,
che indaga i ricordi autobiografici a livello della memoria semantica. I risultati della ricerca indicano come
gli adolescenti con una storia di traumi abbiano maggiori difficoltà a ricordare la propria storia autobiografica a livello semantico rispetto al gruppo di controllo, costituito da adolescenti della stessa età che vivevano anche loro in istituto, ma che non avevano
una storia di traumi nell’infanzia. Gli Autori hanno
inoltre indagato la memoria semantica non autobiografica a lungo termine, i risultati della ricerca indicano che il gruppo di soggetti che avevano subito traumi nell’infanzia non presentavano differenze significative con il gruppo di controllo.
Gli Autori concludono come tali risultati indichino
che adolescenti con una storia di traumi abbiano maggiori difficoltà nel riportare fatti autobiografici rispetto ad un gruppo di adolescenti non traumatizzati, che
ugualmente vive all’interno di un’istituzione. Il ruolo
del trauma, dunque, sembra riguardare la memoria autobiografica ad un livello generale piuttosto che la
memoria per l’evento traumatico di per sé.
La ricerca di Meesters et al. (2000) sembra indicare
la presenza di un ruolo specifico dei traumi ripetuti
sulla memoria autobiografica a livello semantico, non
imputabile quindi solo alla povertà relazionale ed affettiva che solitamente caratterizza il contesto ambientale familiare di minori che vivono presso comunità o case famiglia. Significativo è che tale differenza
sia emersa confrontando due gruppi di adolescenti
che vivevano entrambi presso istituti. Abbiamo riportato come un fattore non secondario che influenza la
capacità di organizzare una narrativa sulla propria sto-
ria sia costituto anche dai legami con le figure significative nell’infanzia: lo sviluppo della rappresentazione
mnemonica è influenzata dalla capacità del bambino
di discutere un evento quando esso accade e dalla
modalità con cui ne discute con il caregiver.
La letteratura sull’argomento, quindi, permette di
ipotizzare che un fattore che influisce fortemente sulle difficoltà a ricordare eventi autobiografici nel gruppo di soggetti con storia di abusi, nel nostro gruppo
prevalentemente di tipo intra-familiare, sia espressione anche dell’impossibilità per tali soggetti a reperire
figure con funzioni di caregiver con l’aiuto delle quali co-costruire una realtà condivisa, come fonte di continuità e potente organizzatore per il senso di identità.
Nella stessa direzione vanno i risultati delle ricerche
di Beeghly e Cicchetti (1994) che hanno dimostrato
come bambini maltrattati sicuri siano maggiormente
capaci di discutere emozioni negative in presenza della madre rispetto ai bambini maltrattati insicuri. La
possibilità di confrontarsi con i propri caregiver permette di nominare, condividere affettivamente ed elaborare la propria storia, fornendo anche un senso di
continuità personale ad eventi così dirompenti quali
gli abusi ed i traumi. L’incapacità e l’impossibilità di integrare tali eventi comportano una “rottura” nella propria storia, non permettendo di integrare tali aspetti in
una organizzazione narrativa coerente. Barclay (1995)
commenta come la conseguenza di essere incapaci di
ricostruire interpretazioni significative, comprensione
e spiegazioni del perché una persona ha sperimentato un trauma comporta una frammentazione della propria storia e isola momenti di orrore e conoscenze non
esprimibili attraverso le parole.
Meares (2000) ha in particolare teorizzato che l’esperienza di traumi possa portare la persona ad assumere strategie di evitamento con una funzione protettiva. Per l’Autore i ricordi di eventi traumatici sono
raccolti in un sistema separato, che denomina sistema
delle memorie traumatiche, che può riguardare il sistema semantico oppure sistemi di memoria più primitivi a seconda del periodo di sviluppo in cui l’evento avviene.
Quello che viene proposto è quindi l’esistenza di sistemi dissociati, organizzati intorno a particolari stati
emotivi, quali la forte ansia vissuta al momento dell’evento traumatico. La persona che ha subito un trauma sarebbe costantemente sotto la minaccia di tali
forme “parassite”, che in ogni momento potrebbero
emergere rompendo il senso di continuità del sé. Per
far fronte a questo, l’individuo utilizzerebbe come strategia dei sistemi di protezione per prevenire l’attiva-
165
Infanzia e adolescenza, 4, 3, 2005
zione del sistema delle memorie traumatiche. Tra tali
strategie di protezione, il soggetto farebbe ricorso a
modalità e strategie relazionali di evitamento che gli
permettono di proteggersi dal pericolo proveniente da
relazioni personali intime e di difendersi dalla paura di
abbandono stabilendo ciò che viene definito “un attaccamento non-intimo”.
Tale chiusura in un “guscio protettivo” di isolamento concorda con quanto riportato in letteratura
sulla presenza in persone che hanno subito forti traumi di sentimenti di distacco o estraneità dai familiari e
dagli altri in generale, accanto alla percezione di essere emozionalmente intorpiditi (Bower e Sivers,
1998).
Vediamo quindi come Mears proponga un’integrazione tra meccanismi di “dissociazione” e di “repressione” per spiegare il ruolo degli eventi traumatici sulla memoria. Egli ipotizza, infatti, la presenza sia di sistemi di memorie traumatiche dissociati, sia di
strategie attuate dal soggetto con una funzione protettiva.
Nella nostra ricerca i dati relativi alla memoria esplicita autobiografica, a livello semantico ed episodico,
indicano una generale difficoltà a rievocare fatti ed
episodi della propria storia personale in un gruppo di
soggetti che hanno subito abusi nell’infanzia. Possiamo ipotizzare che nelle situazioni di abuso intrafamiliare proprio l’imprevedibilità del contesto ambientale
in cui i bambini sono immersi potrebbe rendere difficile la capacità di astrarre invarianti dalla propria esperienza non permettendo così lo sviluppo di un modello esplicito coerente ed integrato. In tal senso, l’esperienza traumatica avrebbe un impatto dirompente
sulla possibilità di organizzare le esperienze, dal momento che per il bambino diviene estremamente difficile collocare il trauma in un sistema coerente di relazioni. Le memorie autobiografiche, quindi, sarebbero presenti e attive sotto forma di esperienze non
comunicabili non essendosi sviluppati i processi e
un’organizzazione tale da permettere a queste memorie di accedere ad un livello dichiarativo, determinando così l’organizzazione della memoria dichiarativa.
In tal senso, possiamo comprendere quanto osserva Siegel “gli schemi che derivano dalla memoria implicita partecipano all’organizzazione della memoria
esplicita autobiografica” (1999, p.55). Il senso che
ognuno ha di se stesso è plasmato sia da ciò che una
persona ricorda esplicitamente, sia da ricordi impliciti che conformano i propri modelli mentali e la coloritura soggettiva attribuita alle esperienze. Possiamo allo stesso tempo ipotizzare, seguendo l’ipotesi di Mea-
res (2000), che traumi ripetuti nella prima infanzia all’interno di contesti familiari abusanti e ad alto rischio,
nel nostro gruppo di adolescenti istituzionalizzati, abbiano portato all’assunzione di strategie protettive di
evitamento dei pensieri ed emozioni riguardanti le situazioni connesse al trauma e alla propria storia autobiografica più in generale. In tal senso si sarebbe sviluppata una strategia organizzativa più ampia della
propria memoria autobiografica che rende difficile
l’accesso ad informazioni generali e ad episodi specifici della propria storia personale, non solo quindi circoscritte agli eventi traumatici.
Da tale prospettiva possiamo leggere la differenza
tra il gruppo di confronto e quello composto da persone che hanno subito abusi nell’andamento della
memoria semantica lungo i tre periodi temporali presi in considerazione dall’AMI; differenza presente anche nel confronto dei soli soggetti classificati come distanzianti appartenenti ai due gruppi. Diviene, infatti,
possibile ipotizzare che nel gruppo di adolescenti abusati nell’infanzia la presenza di uno stato della mente
distanziante, che ricordiamo è un modello organizzato sebbene insicuro, abbia permesso lo sviluppo della capacità di astrarre schemi generali che organizzano l’esperienza, e, quindi, della memoria a livello semantico. In altre parole, l’utilizzo di una strategia che
permette di mantenere il sistema di attaccamento relativamente “de-attivato” avrebbe consentito una maggiore organizzazione delle esperienze ad un livello di
conoscenza generico e fattuale. L’ipotesi di un tale
sviluppo permette così di interpretare la presenza di
una differenza significativa nei tre periodi temporali ad
un livello semantico e non episodico: ricordiamo infatti come i soggetti del nostro campione presentino
un andamento crescente nel tempo delle capacità
mnestiche ad un livello semantico. La conferma di tale ipotesi richiederebbe, oltre ad un ampliamento del
campione, studi longitudinali per essere confermata.
Ciò che stiamo proponendo, sulla base della letteratura, riguarda quindi l’ipotesi che nei soggetti del
nostro gruppo la situazione ambientale fortemente
carente e gli abusi nell’infanzia possano avere ostacolato lo sviluppo di un’organizzazione coerente della propria memoria. Allo stesso tempo, il drammatico
contesto violento intra-familiare e l’esperienza di vivere presso contesti stabili da molto tempo, abbiano
contribuito all’utilizzo da parte dei nostri adolescenti
di una strategia attiva, con funzioni protettive, di evitamento delle situazioni connesse al trauma e alla
propria storia più in generale. Nel nostro campione,
la lunga permanenza dei soggetti presso contesti
166
C. Pazzagli, N. Dazzi: Stato della mente rispetto all’attaccamento e organizzazione della memoria autobiografica
maggiormente stabili potrebbe avere permesso lo sviluppo di modelli maggiormente organizzati in cui sono presenti strategie che permettono di mantenere il
sistema di attaccamento relativamente “de-attivato” e
di proteggere la persona attraverso un evitamento
delle informazioni concernenti la propria storia autobiografica.
Conclusioni
Il campo della memoria, e nello specifico della memoria autobiografica, è sicuramente complesso e ricco di interrogativi. I cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nella concettualizzazione della memoria
hanno portato diversi studiosi a porre maggiore attenzione alla funzione rivestita dall’esperienza soggettiva nel richiamo di eventi personalmente significativi.
L’atto del ricordare diviene non scindibile dall’atto
del comunicare: l’organizzazione della narrazione autobiografica acquista così sempre maggiore rilievo. I
processi narrativi possono essere difatti considerati
come espressione della modalità con cui la mente integra rappresentazioni differenti: essi permettono all’uomo di auto-organizzarsi e di orientare la propria
proiezione sul futuro. Le esperienze ed i dialoghi interpersonali con i caregiver ricoprono un importante
ruolo di mediatori nella co-costruzione delle narrative
sugli eventi autobiografici: le esperienze di attaccamento possono influenzare direttamente la modalità di
rievocare la propria storia autobiografica.
Ponendo sempre maggiore interesse al ruolo svolto dai processi di richiamo dell’informazione, l’attenzione è stata posta anche sul ruolo del contesto in cui
gli eventi vengono rievocati. La salienza di un ricordo
o la pregnanza emotiva muta nel tempo: la diversa coloritura emotiva che gli stessi eventi possono assumere è forgiata dai sentimenti attuali del ricordante, in tal
senso le emozioni attuali guidano la ricostruzione della memoria.
Gli eventi sono di fatto filtrati e modificati dalla
memoria, dalla fantasia e dai molti fattori motivazionali, affettivi e cognitivi, attuali e storici, che determinano la loro elaborazione ed utilizzazione nella vita
mentale. Esperienze infantili di maltrattamenti e abusi, in particolar modo intrafamiliari, possono “minare”
lo sviluppo e l’accessibilità dei ricordi autobiografici,
indebolendo così l’ossatura della propria teoria personale sul sé.
Numerose ricerche sulla memoria e traumi si sono
occupate del disturbo post-traumatico da stress (PT-
SD). Una delle caratteristiche cliniche peculiari di tale
disturbo, come viene descritto anche nel DSM-IV, riguarda la presenza di memorie intrusive che irrompono nella coscienza e la presenza di incubi ricorrenti, affianco all’utilizzo di reazioni protettive, quali l’intorpidimento emotivo, l’amnesia, e l’evitamento
cognitivo. Una caratteristica essenziale in tale quadro,
quindi, è l’esperienza alternata tra il rivivere l’evento
come un’irruzione nella coscienza e il tentativo di evitare le memorie del trauma.
Una parte sostanziale della letteratura sui disturbi
post-traumatici supporta l’ipotesi che la fonte della
sofferenza riguardi essenzialmente la memoria procedurale ovvero, usando un’altra terminologia, è la memoria implicita ad essere fonte di sofferenza nei disturbi post-traumatici, mentre la memoria esplicita può
addirittura essere anche assente; negli adulti, sofferenti
di disturbi post-traumatici quindi, la memoria implicita sarebbe ben conservata, laddove quella esplicita
potrebbe essere deficitaria. Tale concezione viene anche suffragata dalle conoscenze neurologiche e biochimiche attuali.
Brewin, Dalgleish e Joseph (1996) si sono soffermati sui possibili esiti del processamento degli eventi
traumatici. All’interno delle teorie dei sistemi multipli
di memoria, gli Autori hanno proposto una teoria della rappresentazione duale di un evento traumatico:
memorie accessibili verbalmente, narrative e richiamabili volontariamente, e memorie accessibili contestualmente, evocate automaticamente da stimoli ambientali. Gli Autori individuano tre possibili esiti del
processamento di un evento traumatico: un’integrazione completa, un cronico processamento del trauma
oppure una prematura inibizione del processamento.
Nel processamento cronico la persona è permanentemente preoccupata per le conseguenze del trauma e
per le memorie intrusive, presentando ciò che è definibile un cronico disturbo post-traumatico da stress.
Differentemente, un’inibizione cronica del processamento riguarda l’utilizzo, che col tempo diviene automatico, di strategie di evitamento dai pensieri ed emozioni riguardanti il trauma: l’utilizzo di tali “schemi
evitanti” può portare la persona a mostrare anche un
evitamento fobico delle situazioni connesse al trauma
e ad un danneggiamento della memoria.
Sverre Varvin (2004), psicoanalista che lavora ad
Oslo e che si occupa di profughi politici, evidenzia come il trauma costituisca una rottura della continuità
temporale. Una mente traumatizzata viene infatti riportata a momenti specifici, che possono improvvisamente comportare la perdita dell’ancoraggio dal sen-
167
Infanzia e adolescenza, 4, 3, 2005
timento di fluidità soggettivo del tempo, e prevenire le
capacità della mente di organizzare il proprio sentimento del tempo e della cronologia in cui il passato
precede, e si distingue dal presente e dal futuro. Tale
“collasso temporale” può comportare sia la tendenza
a vivere come presente l’esperienza passata, per cui
ogni segno viene letto come riferito a tale esperienza
che si riattualizza, oppure l’esperienza può essere vissuta come frammentata e disconnessa dalle altre esperienze e dal sé, come intrusioni nella mente in una
modalità non simbolica, percettiva e immediata.
In questo senso un evento diviene traumatico in
quanto non elaborabile secondo gli schemi mentali, i
copioni abituali di condotta e le strutture narrative solite. La psiche, infatti, è in grado di accogliere ed elaborare gli stimoli non solo per elaborare l’informazione, ma anche al fine di preservare il proprio senso di
continuità ed identità, nonché la propria capacità di
desiderare e di agire.
Traumi estremi possono comportare deficit nella
capacità di simbolizzare (trasformazione di materiale
“rozzo” in simboli mentali a differenti livelli) e di mentalizzare (processo sottostante all’organizzazione della mente, riguarda la possibilità del soggetto di discernere i propri ed altrui stati mentali identificandoli
come rappresentazioni che sono distinte dalla realtà
esterna e che influenzano in modo determinante il
comportamento) (Fonagy e Target, 1996). Le difficoltà,
dunque, divengono ascrivibili non solo alle esperienze traumatiche di per sé, ma anche alla deficiente o assente capacità di simbolizzare e mentalizzare anche
esperienze successive.
Nel commentare i risultati della nostra ricerca abbiamo ipotizzato che accanto a forti carenze ambientali, che inficiano fortemente la possibilità di sviluppare un sistema organizzativo coerente, sia presente
una strategia attiva di evitamento adattivo.
Tale condizione mentale conseguente al trauma
può essere studiata a più livelli aprendo nuovi spazi
terapeutici: come disorganizzazione della vita psichica e come espressione del tentativo di riorganizzazione di un quadro complesso, neurobiologico e psicologico allo stesso tempo.
Varvin (2004) sottolinea come il lavoro psicoterapeutico debba prendere in considerazione tutte queste dimensioni. Lavorando sul “qui ed adesso” della relazione terapeutica riparare il collasso temporale presente nel trauma e così raggiungere una
storicizzazione delle esperienze traumatiche, affinché
esse non disturbino e non colorino, o colorino meno,
le relazioni presenti e la realtà.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Chiara Pazzagli
Università della Valle d’Aosta
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11100 Aosta
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