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L’OPINIONE di Lapo Pistelli Fondi sovrani: tra protezionismo e capitalismo di stato Con la crisi finanziaria innescata dai mutui subprime e il conseguente rallentamento dell’economia, quello dei Fondi Sovrani è diventato uno dei temi maggiormente dibattuti sia dai tecnici sia dai politici. east se ne è già occupata, sul n. 18, con l’articolo di Franco Locatelli. L’analisi prosegue con l’intervento dell’europarlamentare del PD Lapo Pistelli Dei 32 fondi sovrani – Sovereign Wealth Funds SWF – istituiti ad oggi da 29 autorità di governo, la netta maggioranza ha origine asiatica (56% contro il 30% del Medio Oriente e il 14% dal resto del mondo inclusa la Russia), mentre è in maggioranza europea, anche se di poco, la localizzazione degli investimenti effettuati (35% contro il 34% in America, il 23% in Cina, solo l’8% nel resto del mondo). È perciò assai pertinente che east (European and Asian Strategies) abbia posto nel numero scorso con Franco Locatelli la domanda “Chi ha paura dei Fondi Sovrani ?” Prima di stabilire “chi” ha paura e “come” si intende affrontarla, è il caso di approfondire il “perché” della paura, se essa cioè risieda nella novità di questo strumento, nella sua attuale dimensione, nella velocità di espansione, nei meccanismi di governance, nella loro natura politica o nell’intreccio di tutti questi fattori. Ricordiamo che i fondi sovrani sono strumenti di investimento istituiti direttamente dalle autorità nazionali di un Paese e alimentati con le eccedenze delle riserve ufficiali, originate da elevati surplus commerciali come nel caso dei Paesi asiatici o da surplus specifici come il petrolio per i Paesi del Golfo, il rame in Cile, i diamanti per il Botswana. Il fenomeno non è recente: ill Reserve Fund for Future Generations del Kuwait, capostipite di questo genus, risale al 1953. Tre anni dopo partiva il secondo riuscito esperimento della piccola isola di Kiribati nel Pacifico che decise di accantonare in un Fondo sovrano gli utili della propria industria del guano (in termini più nobili, dei fosfati) per proteggersi dai rischi del futuro, una produzione cessata da tempo che ha creato però un fondo da 400 milio- 62 ni di dollari che genera annualmente un utile del 10% destinato al benessere dell’isola. Negli anni ’70 sono arrivati i fondi dei Paesi petroliferi, poi tutti gli altri fino all’ingresso recente della Russia e della Cina (prossimamente il Giappone). È un problema di dimensioni? In parte sì. Non è facile certificare numeri esatti, sia per la rapidità dei mutamenti che per la modesta trasparenza ma le stime concordano su una raccolta totale di circa 3000 miliardi di dollari. Se confrontati con il volume totale delle attività finanziarie globali, 165.000 miliardi di dollari, con i 55.000 miliardi dei fondi pensione, i fondi sovrani sono ancora poca cosa. Una classifica per dimensione vede al comando, nettamente staccato, un terzetto guidato appunto dai fondi pensione, poi i fondi mutualistici, infine i fondi assicurativi; ben lontano un quartetto costituito dalle riserve nazionali, dai fondi sovrani, dagli hedge fund e infine dal private equity. I SWF sono oggi circa il 50% delle riserve ufficiali dell’intero pianeta e quasi il doppio degli hedge fund. Il solo fondo di Abu Dhabi, il più grande, ammonta a 850 miliardi di dollari, una cifra che fa impallidire i 77 miliardi di dollari gestiti dal Fondo Monetario o i 40 miliardi di dollari della Banca Mondiale. È un problema di velocità di espansione? Sì. Secondo Morgan Stanley, alle attuali condizioni i SWF entro 5 anni eguaglieranno il valore delle riserve ufficiali del mondo e raggiungeranno i 12.000 miliardi di dollari nel 2015, il valore attuale del Pil americano. È un problema di governance? La mobilizzazione di queste immense risorse che escono dal parcheggio delle riserve ufficiali per cercare una migliore remunerazione può avere finalità dichiarate assai diverse: la Norvegia, a tutti gli effetti un caso speciale, ci paga le proprie pensioni, Russia e Iran vogliono così compensare la volatilità del mercato dell’energia, India e Cina cercano invece l’accesso a nuovi mercati per sfruttarne idee e potenzialità tecnologiche. Secondo il Peterson Institute, 8 dei 29 Paesi con SWF si organizzano con una holding di partecipazioni industriali e finanziarie che acquista pacchetti di maggioranza, talvolta totalitari, di grandi aziende internazionali. Tutti gli altri preferiscono investimen- L’OPINIONE ti di portafoglio (cioè secondo le classificazioni internazionali sotto il 10% del capitale sociale). Il Fondo norvegese (il terzo al mondo con 300 miliardi di disponibilità originati dal petrolio) acquista piccole quote e adotta rigorosi criteri etici che lo portano ad escludere aziende produttrici di armi o potenzialmente pericolose per l’ambiente e lo vedono partecipare alle assemblee delle compagnie per vigilare sul rispetto dei propri standard; in caso contrario, si liquida l’investimento: negli ultimi 4 anni, oltre al caso eclatante della catena Wal-Mart, il disinvestimento etico è avvenuto ben 27 volte. Fondi Sovrani? Non tutti sono uguali È un problema di natura politica? I primi 6 fondi, Emirati Arabi, Singapore, Norvegia, Kuwait, Cina, Russia gestiscono circa il 90 % del totale delle risorse dei SWF al mondo; se scorriamo la lista dei 29 Paesi che se ne sono dotati e la natura politica dei governi scopriamo che poche sono le democrazie classiche. Va ammesso che, nonostante le perplessità o gli ostracismi su singole operazione (l’acquisto del 20% di BP da parte del fondo kuwaitiano, gli investimenti di Abu Dhabi sui terminal portuali di New York e New Jersey), i Paesi del Golfo per esempio sono sempre stati partner politicamente moderati e generosi; maggiore preoccupazione ha destato l’arrivo di Paesi come la Russia, la Cina, il Kazakhstan, l’Iran. Questi Paesi sono attori importanti, ciascuno di loro ha un’agenda geopolitica determinata e una leadership forte; in più, tutti posseggono ulteriori e consistenti riserve ufficiali in valuta straniera e in alcuni casi, accanto alle riserve e ai SFW agiscono gruppi economici nazionali parimenti ricchi e potenti, come Gazprom in Russia o Cnooc in Cina. Un fondo sovrano gode di una posizione di potere asimmetrica: non può fallire ma la sua responsabilità può difficilmente essere fatta valere essendo lo Stato giocatore e arbitro. Mentre la stella polare dei fondi pensione o degli hedge fund è la ricerca di un profitto, stabile e a lungo termine o più speculativo e a breve, quella dei SWF può essere anche di natura geopolitica. Entrare nei mercati altrui qualsiasi siano le motivazioni ufficiali e apparenti, assumere il controllo di aziende strategiche per finalità non solo commerciali, poter disporre delle informazioni della propria intelligence può generare fenomeni di protezionismo difensivo. Insomma, fin quando i governi asiatici e arabi tramite le banche centrali si accontentavano di rimanere creditori dell’Occidente tutto andava bene; oggi che è possibile trasformarsi da creditori a proprietari, si apre un intreccio inedito fra politica e finanza globale. Sullo sfondo si staglia lo spettro di una crisi non governata dell’economia fondata sul dollaro e il tramonto sostanziale di Bretton Woods. Gli Stati Uniti sono l’economia più indebitata del pianeta ma – fin quando ne sono stati anche il motore – non c’è stata difficoltà concreta per il Tesoro americano nel reperire sui mercati i 2,5 miliardi di dollari al giorno che servono per andare avanti. Nella Bretton Woods informale a trazione cino-americana, Pechino ha tenuto basso il corso del renminbi, ha accumulato surplus commerciali e immense riserve, ha pazientemente sottoscritto ogni emissione di titoli del tesoro americano, un comportamento coerente con la dottrina strategica low profile della cosiddetta “grande ascesa pacifica”. Washington dal canto suo ha continuato a divorare merci cinesi, non ha controllato la domanda interna, ha tenuto basso il dollaro e altissimo il debito anche a causa delle costosissime campagne militari in corso. Il biglietto verde costituisce tuttora il 64% delle riserve nazionali del mondo ma la moneta americana perde valore e dunque quelle riserve valgono meno; la prima mossa è stata diversificare portando in pochi anni le riserve in euro al 26% del totale con l’obiettivo di uscire gradualmente da un equilibrio monetario della paura che non tiene più riducendo l’esposizione in dollari a una velocità che non ne provochi un’ulteriore caduta. Più in generale però è in evidente crisi l’architettura di Bretton Woods fondata su Banca Mondiale e Fondo Monetario. Oggi è agevole per chiunque reperire sul mercato i capitali necessari per i propri progetti di sviluppo senza passare da Washington e dalla interferenza politica che questo comporta. La Cina ha fatto del “principio di non ingerenza” la chiave di successo della propria penetrazione in Africa, offrendo risorse e investimenti senza fare domande sulla natura dei regimi, sul rispetto dei diritti umani e puntando semmai alle materie prime presenti. Il loro apporto all’economia mondiale Negli ultimi mesi, i SWF hanno aiutato l’economia mondiale. Mentre il Fondo Monetario stimava in circa 1000 miliardi di dollari il danno provocato dalla crisi dei subprime si è compiuto il rovesciamento con il soccorso di circa 70 miliardi di dollari spalmati dagli ex mercati emergenti sulle ferite di colossi come Citigroup, Merryl Linch o UBS. Ma il valore strategico di questa operazione e il suo impatto simbolico distensivo non sono sufficienti per conclidere con soddisfazione che il capitalismo globale è sano e politicamente neutro e che in forma nuova si ripete la storia di sempre, cioè che Paesi con eccesso di risparmio investono i propri soldi in Paesi bisognosi del risparmio altrui. 63 L’OPINIONE Qui siamo oltre il libero incrocio fra domanda e offerta di ricchezza: non a caso, a questo argomento si sono applicati in una sequenza di riunioni ed eventi il segretario al Tesoro americano, poi il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, l’Ocse e infine la Commissione Europea. È stata Washington a muoversi per prima, da sola e in sede di G7, per chiedere alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario e poi all’Ocse di adoperarsi affinché si adottasse un codice di condotta per i SWF. Sulla stessa lunghezza d’onda, nel Consiglio Europeo di marzo, la Commissione ha proposto un codice volontario, senza il quale il vertice esecutivo europeo si sarebbe sentito autorizzato a proporre un insieme di nuove regole legislative. L’acquisizione di una posizione di monopolio in uno specifico settore dell’economia altrui non è in sé ragione sufficiente di preoccupazione: l’acquisto dell’intero comparto delle cerniere lampo non ha in sé alcun valore strategico e basta comunque l’Autorità antitrust nazionale per impedire, se del caso, la riuscita di un’operazione del genere. Così non è se entrano in gioco le aziende che un Paese reputa strategiche per la propria autonomia sulla scena globale, insieme che comprende il trinomio energia/telecomunicazioni/difesa e le grandi reti infrastrutturali ma che può pure andare oltre: gli Stati Uniti, per esempio, hanno obiettato alla richiesta cinese di acquisire la Seagate Technology, la grande azienda Usa di produzione di disk drive e memorie per computer. L’”Economist” ha guidato la linea più liberale: bisogna aprirsi comunque ai SWF anche unilateralmente e senza reciprocità, liberalizzare e privatizzare il proprio mercato perché aiuta innanzitutto chi lo fa e accelera la crescita del sistema e non aggiungere in Europa ulteriori norme di regolazione per non deprimere la già bassa crescita continentale e far scappare altrove i capitali asiatici e arabi. L’ex sottosegretario americano Lawrence Summers ha introdotto una distinzione decisamente partigiana proponendo che i SWF si affidino alla gestione di un altro fondo per fugare i sospetti di scarsa trasparenza (è il caso dell’ingresso del SWF cinese nel fondo Blackstone). Gordon Brown, dal canto suo, per rafforzare il ruolo leader della piazza londinese per i mercati finanziari, ha chiesto al SWF cinese di scegliere la capitale britannica come sede operativa per il nostro continente. Il commissario Peter Mandelson aveva suggerito in un primo tempo di stilare un elenco di imprese nazionali che l’UE avrebbe ritenuto strategiche e dunque non scalabili mediante l’esercizio di una golden share europea. Registrati dei forti dissensi all’interno della Commissione, allora ha rilanciato l’ipotesi di un 64 potere di supervisione affidato alla Commissione, che dovrebbe autorizzare i principali investimenti dei SWF sulla scorta dell’esempio della Commissione sugli Investimenti stranieri del Senato americano. Francia, Germania e Spagna stanno orientandosi verso la definizione di una lista di compagnie nazionali non contendibili. Il governo tedesco ha modificato la legge sugli investimenti stranieri, introducendo il vaglio da parte di un’apposita Commissione (sempre sul modello americano) di ogni investimento destinato ad acquisire più del 25% dei titoli di una compagnia che abbia a che fare con “gli interessi nazionali, le infrastrutture strategiche e la sicurezza pubblica” e attende ora il parere della Commissione UE. La Francia si era invece concentrata sull’ipotesi di un codice di condotta per SWF finché il presidente Sarkozy ha annunciato una ancora non meglio precisata iniziativa a difesa degli interessi nazionali, centrata – in analogia con quanto ha suggerito in Italia Giulio Tremonti – sull’uso della Cassa Depositi come fondo nazionale capace di andare in aiuto delle aziende contese. Va ricordato che nel 2005, a seguito di un tentativo di scalata ostile su Danone, un Decreto aveva già identificato gli 11 settori strategici da proteggere. La difesa nazionale di un’azienda strategica può essere compiuta con una serie progressiva di barriere: il mantenimento in capo allo Stato della golden share, l’individuazione di un tetto massimo all’investimento consentito o la limitazione all’acquisto di azioni senza diritto di voto. Gli scettici verso il principio dell’apertura incondizionata hanno suggerito di agganciare il mercato al principio di reciprocità, come accaduto con la rete di accordi bilaterali in materia di protezione degli investimenti ma l’argomento non pare del tutto convincente, data la natura prevalentemente asimmetrica dei SWF che nascono in contesti di forti avanzi ma si rivolgono verso mercati nei quali l’interlocutore gioca la parte della preda. Alla ricerca di una regolamentazione Il Fondo Monetario assieme alla Banca Mondiale sta terminando il giro di consultazioni per creare il consenso su un Codice di Condotta volontario fra i Paesi detentori. Si dice che, soprattutto dopo l’operazione di recupero della fiducia ottenuta post crisi subprime, l’Arabia Saudita ed altri Paesi del Golfo sarebbero disponibili ad aderire al Codice entro poche settimane. L’Ocse ha elaborato invece ad aprile una prima griglia di cinque principi per i Paesi destinatari: non discriminazione (gli investitori stranieri non possono essere trattati peggio di quelli nazionali), trasparen- L’OPINIONE IL FONDO MONETARIO ASSIEME ALLA BANCA MONDIALE STA TERMINANDO IL GIRO DI CONSULTAZIONI PER CREARE IL CONSENSO SU UN CODICE DI CONDOTTA VOLONTARIO TRA I PAESI DETENTORI DI FONDI SOVRANI. PARE CHE ANCHE L’ARABIA SAUDITA E ALTRI PAESI DEL GOLFO SAREBBERO DISPONIBILI AD ADERIRE AL CODICE NEL GIRO DI POCHE SETTIMANE za (le informazioni sulle restrizioni devono essere accessibili), progressiva liberalizzazione (impegno ad eliminare gradualmente gli ostacoli alla libera circolazione), non arretramento (impegno a non introdurre nuove restrizioni), liberalizzazione unilaterale (impegno a non chiedere reciprocità). Dopo un richiamo a non utilizzare lo scudo dell’interesse nazionale per un malinteso protezionismo finanziario, l’Ocse ha invitato i gestori di SWF ad adottare standard più elevati di trasparenza e responsabilità per facilitare una migliore accoglienza nei Paesi destinatari. Anche la Commissione UE tramite il Presidente Barroso ha rassicurato i mercati: “l’UE rimane aperta agli investimenti esteri e i SWF non sono il grande lupo cattivo che bussa alla porta. Essi hanno immesso liquidità e contribuito a stabilizzare i mercati finanziari e possono offrire alle imprese gli investimenti affidabili a lungo termine di cui hanno bisogno”. L’Ecofin nell’ottobre scorso aveva deciso di rafforzare la regolamentazione e la sorveglianza finanziaria per evitare il ripetersi delle turbolenze: trasparenza e più dettagliate informazioni dalle agenzie di rating, valutazione dei prodotti finanziari, informazioni sulla reale esposizione delle banche, rafforzamento dei requisiti prudenziali e dei sistemi di allarme, comunicazione completa e veloce delle perdite subite. Probabilmente ha ragione Peter Mandelson quando ha affermato che in Europa, almeno fino ad oggi, non si sono verificate azioni aggressive da parte dei SWF che giustifichino allarmi e interventi urgenti di tipo normativo. La stampa inglese ha pure ironizzato sugli annunci di Sarkozy rilevando che non servono barriere per proteggere presunti pezzi pregiati che ad oggi non sollevano gli appetiti di nessuno. Nel caso italiano il tema dei SWF è finora solo uno spunto di discussione teorica. Il nostro Paese infatti è fuori dal radar dei fondi sovrani con la sola eccezione di quello norvegese che detiene da noi il 3,2% dei suoi attivi in circa 60 società quotate nei più diversi settori, con partecipazioni comunque mai superiori all’1 percento. Per il resto, la Mubadala, società del governo di Abu Dhabi, ha acquistato il 35% della Piaggio Aero Industries e il 5% della Ferrari, la Qatar Investment ha comprato l’Hotel Gallia a Milano, la Port of Singapore controllata da Temasek sta valutando collaborazioni con i porti di Genova e Venezia, il fondo della provincia canadese dell’Alberta ha nel nostro Paese lo 0,4% del suo portafoglio (UniCredit ed Eni). L’integrazione europea ha salvato la pace a partire da un’idea semplice e rivoluzionaria, trasformare fattori economici di potenziale conflitto in risorse gestite in comune, in un tempo in cui buona parte delle dottrine economiche consideravano questo un atto di dirigismo o qualcosa di contrario agli interessi nazionali. Una regola comune europea non è amore per il laccio burocratico ma un modo per sottolineare ancora che il mercato è tale quando si fonda sulla libertà degli attori e sulla trasparenza dei loro comportamenti e che è sempre meno tollerabile che il mondo accetti in modo complice la separazione fra mercato e democrazia, cioè fra libertà economica e libertà politica. Se non ci rassegniamo a risolvere tutto con la strizzata d’occhio “it’s the economy, stupid” con la quale tacitiamo ogni obiezione, anche l’azione politica per una comune disciplina dei SWF può aiutarci a rimettere ordine nel nostro bagaglio di valori e principi. 65