La Donna di Gal 4,4. Un`eco sintetica di una
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La Donna di Gal 4,4. Un`eco sintetica di una
La Donna di Gal 4,4. Un’eco sintetica di una mariologia completa Premessa Esclusi i Vangeli, l’allusione mariologica in Gal 4,4 - indubbiamente da ritenersi una specie di hapax neotestamentario, mentre alla figura di Giuseppe non si dedica nemmeno una simile eccezione1 - è generalmente interpretata come segno di arcaicità teologica o addirittura di indifferenza anche di Paolo stesso verso l’identità anagrafica e individuale di Maria. La suddetta allusione paolina, a prima vista solo ‘anonima’2, è il testo mariologico più antico e non può non condensare in sé la testimonianza di un contenuto essenziale che Paolo stesso ha ricevuto (secondo il vangelo di Cristo – Gal 1,7) e che egli ora epistolograficamente contestualizza3 all’interno della sua lettera per quel che va brevemente rievocato. Persino l’espressione dell’anonimato ricerva velatamente non una mancanza di riflessione ma magari proprio venerazione verso colei che dà nascita umana al Figlio di Dio, e enfatizza per la precisazione singolarmente una rilevanza di storia della salvezza già tutta previamente puntualizzata nella ‘legge’. Gal 4,4 cade all’incirca a metà della serrata e complessa ma anche dialetticamente ineccepibile discussione che occupa i ventotto versetti del cap. 3 e i trentuno del 4, il corpus epistolare intorno alla decisiva e nevralgica questione della giustificazione, strategicamente puntellato sulla grafh, con le sue uniche tre occorrenze secondo la sequenza contestuale della proevangelizzazione a Abramo (Gal 3,9), della universale condizione hamartiologica (3,22) e dell’allegoresi di Ismaele e Isacco per il rapporto attuale tra i figli della 1 La communis opinio esegetica su Gal 4,4 è che si tratti di sintesi cristologica, da cui si procede con l’analisi del suo influsso teologico nella patrologia fino al concilio di Efeso in L. F. Mateo-Sec, “’Enviò Dios a su Hijo, nacido de mujer’ (Gàlatas 4,4 en el pensamiento patristico anteriore al Concilio de Éfeso), ScriptTheol 32 (1, ’00) 13-46. Cf. anche Ortensio Ds Spineroli, Maria nella Bibbia, Roma, 1964; A. Valentini, “1.1. I testi mariani di Paolo, Marco, Matteo e Luca 1,46-55”, in Storia della mariologia. Dal modello biblico al modello letterario, cur. E. Dal Cavolo e A. Serra, Roma, 2007, 29-35 e ID, “Nato da Donna” in Maria secondo le scritture. Figlia di Sion e Madre del Signore, Bologna, 2008, 29-38. 2 V. Giuseppe Barbaglio, Lettere di Paolo, II (Roma 1980) 9-167; ID., La Teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (Bologna 1999); A. Pitta, Lettera ai Galati. Introduzione, versione e commento (Bologna 1996). A. Vanhoye, Lettera ai Galati. Nuova versione, introduzione e commento (Milano, 2000), per citare solo alcuni e ovviamente per un’ulteriore bibliografia si rinvia ad essi. 3 Non si tratta di esclusione dei ‘familiari’ di Gesù di Nazareth, nemmeno materiale per una concentrazione kerigmatica sulla morte e la resurrezione del Figlio di Dio – cf. A. Vanhoye, “La mère du Fils de Dieu selon Ga 4,4”, in Mar 40(1978), 247 -, poiché non solo il kerigma implicava inevitabilmente il divenire (il venire ad essere) uomo (mortale) e in un modo del tutto peculiare, ma di non impellenza letteraria perché le comunità non solo sono ‘kerigmatizzate’, ma già catechizzate, altrimenti non si potrebbe intervenire dogmaticamente contro deviazioni dottrinali, ma al limite solo kerigmaticamente. Nemmeno la mariologia di Gal 4,4 si può definire secondo il seguente titolo “Galati 4, 4: una mariologia in germe”, di A. Serra (cf. Theotokos 1 (1993), 7-25) sulla falsariga della visione dell’ ”inizio” dogmatico dell’ “aggancio della mariologia con la cristologia”, che l’allusione paolina conterrebbe – cf. G. Söll, Storia dei dogmi mariani, Roma 1981, 31. Se è vero, come è vero, che “Effettivamente il testo di Galati presenta una sintesi teologica notevole, di tale intensità da orientare efficacemente la mariologia di ogni tempo” - v. Valentini, “1.1. I testi …, cit., 29, - non può trattarsi di una prospettiva germinale, ma di una mariologia completa e lungamente meditata, già oralmente esposta in modo particolare e per tanto accennata solo laconicamente e rievocativamente. Anche in Gal 4,2228 tutti i personaggi si citano anonimamente, ad eccezione di Agar per una chiara motivazione etimologica e Isacco per una motivazione teologica. L’allusione anonima della donna da cui diviene il Figlio di Dio, dovrebbe nascondere un sentimento di venerazione verso l’Anonima menzionata piuttosto che la citazione di un dettaglio cristologico solo iniziale. Gerusalemme di ora e quelli della Gerusalemme di lassù (4,30). La centralità materiale della menzione della nascita umana del Figlio di Dio da donna rappresenta il punto fondante e il nodo di raccordo indispensabile dell’intera struttura epistolare ma anche della stessa prova biblica della sua tematica che cioè si è giusti solo da fede, non generica, ma cristologicamente determinata e quindi mariologicamente originata. 1. L’unica giustizia da fede e da legge. Nella sezione di Gal 3,1-4,7, generalmente ritenuta seconda, l’apparente opposizione tra l’avkoh. pi,stewj (3,2b) e l’avkou,ete to.n no,mon (Gal 4,21), su cui i Galati avno,htoi 4 si stanno facendo trarre in inganno da suggestioni basate sulla supposizione che la giustizia è da opere di legge5, sarà inequivocabilmente chiarita come necessaria e sostanziale convergenza benché ineludibilmente espressa con le diverse categorie a seconda che si tratti dell’uno o l’altro tipo di ascolto6. Paolo descrive l’incompatibilità tra fede e legge in ordine al conseguimento della giustizia, poiché le richieste prescrittive e normative della seconda sono esclusivamente oggetto di pratica e non possono essere finalizzate a essere credute. Chi è giusto per e davanti a legge, dipende dal completo e indefettibile adempimento di tutto ciò che vi è ordinato di fare. Credere alla legge e non praticarla è perfettamente inutile e il non praticarla significa incorrere nella sua maledizione poiché vive da ingiusto chi “non rimane in tutte le cose scritte nel libro della Legge, a farle” 7, cioè non si mantiene nella pratica ininterrotta e completa delle prescrizioni (del libro) della Legge. Tale modalità nomologica di vivere la giustizia e quindi riceverne la giustificazione è assolutamente preclusa a 4 Gal 3,1.3. L’apostrofazione avno,htoi richiama il nou/j (cf. ad es. Rm 1,20). 5 (Gal 3,2). Lo stupore velato di sarcasmo per questo regresso giudaizzante dei Galati nasconde l’allusione a una qualche intensità e anche una certa compiutezza dottrinali già esposte, che ora vengono solo rievocate e di nuovo provate. L’antitesi spirito-carne si verifica laddove si interpreta il dato scritturistico su categorie puramente umane come si accennerà in Gal 5,13-26. Cf. D. R. Landay, “Works of Law, Hearing of faith and Pi,stij Cristou/ in Galatians 2:16-3:5”, Stone-Campbell Journal 3 (1, ’00) 19-88. 6 Sembra che Paolo ‘giochi’ con il termine no,moj per la sua duttilità polisemica nonostante la quale si riserva tendenzialmente una distinzione sintattica con riflesso semantico attraverso l’uso articolato o meno. Infatti, la presenza dell’articolo specifica il lemma piuttosto nel significato di Pentateuco (a partire da Gal 3,10); la sua assenza invece indica piuttosto il riflesso legale del patto sinaitico limitatamente alle sue clausole prescrittive (cf. Gal 3,11.18) per la loro pratica, specialmente con la famosa formula “opere di legge”, sempre senza articolo e reperibile solo nel secondo e terzo capitolo ( Gal 2,16; 3,2.5.10), anche se nonostante l’articolo tale senso è chiaro in Gal 3,17.19.21. L’accezione generale o più larga di no,moj è quasi unica nel NT (completamente assente in Marco) e nell’epistolario autentico paolino il numero maggiore delle sue occorrenze si trova proprio in Romani e Galati e ancora solo in 1Cor 9,3.9.20 3x; 14,21.34; 15,56, Fil 3,5.6.9, mentre in quello pseudoepigrafico il maggior numero ricorre in Ebrei e ancora solo in Ef 2,15 e in 1Tm 1,8.9; nel resto del NT, oltre a Atti, si trova solo in Gc 1,25; 2,3.8.9.10.11.12 e 4,11. E’ da rilevare che il lemma in questione è a volte preceduto o seguito da profh,tai presente da solo o meno con una frequenza davvero cospicua nei vangeli (anche solo al singolare), incluse le cinque occorrenze marciane (ovviamente senza l’altro lemma, cf. Mc 1,2: 6,4.15; 8,28; 11,32), e in Atti, mentre nell’epistolario autentico paolino è del tutto assente in Galati contro le tre sole occorrenze di Romani (1,2; 3,21; 11,3) oltre a 1Cor 12,28.29;14,29.37 e 1Ts 2,15; nell’epistolario paolino pseudoepigrafico è reperibile in Ef 2,20; 3,5; 4,11, Tt 2,15 e Eb 1,1; 11,52; nel resto del NT invece Gc 5,10, 1Pt 1,10, 2Pt 2,16; 3,2 e diverse volte nell’Apocalissi. 7 Il genitivo tou/ poih/sai auvta,, generalmente inteso come di scopo, ha più senso se si recepisce come di contenuto, poiché il rimanere in tutte le condizioni legislative consiste proprio nell’adempierle tutte praticamente, per cui tale adempimento che non può essere mancante in nulla, non è il fine ma la precondizione assoluta per non ricevere la maledizione della legge. quanti sono sotto legge, cioè agli appartenenti del popolo ebraico, poiché anche essi sono rinchiusi sotto il regime universale del peccato (Gal 3,22). La legge da loro ricevuta, per tanto, non ha lo scopo di essere praticata, ma di essere permanentemente e imprescindibilmente connessa con la proevangelizzazione ad Abramo (Gal 3,8), e concorda contenutisticamente con l’ascolto di fede (Gal 3,7). Infatti la sentenza della legge che evn no,mw| ouvdei.j dikaiou/tai para. tw/| qew/| è dogmaticamente inoppugnabile (dh/lon) anche per la dichiarazione profetica (Ab 2,4) che connota il giusto chi vive da fede (Gal 3,11), confermata ancora in termini prescrittivi dalla legge stessa (Lv 18,5), come già biblicamente si era rievocato inGal 2,16 con l’allusione al Sal 143,2. Per la soggezione universale harmatiologica la legge non ha potuto fare altro che applicare le conseguenze peculiari di maledizione a quanti l’hanno dovuta ricevere (il popolo ebraico), come si premette con la citazione deuteronomistica (Gal 3,10). Questa operazione ermeneutica paolina che occupa Gal 3,10-12 in cui non a caso solo alla fine compare il lemma ev paggeli,a, è finemente costruita su parallelismi testuali per rimarcare che la netta distinzione tra il dominio della legge (di maledizione) e il dominio della fede non può rimanere in una condizione di assoluta irriducibilità. Come è stato paradigmaticamente ed eccezionalmente proevangelizzato a e in Abramo, definito ,(Gal 3,68), che in qualità di archetipo unico veterotestamentario di giusto per aver creduto a Dio, si deve prevedere la rimozione dell’impasse della inevitabile maledizione nomologica per permettere la filiazione abramitica universale secondo la previsione scritturistica (Gal 3,7). La necessita della promulgazione della legge è necessaria proprio perché essa sola può mantere in vita la giustizia sulla terra pur conferendo la debita maledizione a quanti la ricevono, anzi in questo preciso atto quanto sarebbe rimasto esclusivamente e irreversibilmente ingiusto, trova la prima sua imprescindibile determinazione congrua e assolutamente giusta che si presenta come unico primo necessario mezzo soteriologicamente disponibile nella giustizia e per la giustizia medesima. In questa prospettiva antitetica di legge giusta e giustificante e il popolo ingiusto e maledetto che essa deve proclamare necessariamente come tale a motivo delle trasgressioni (Gal 3,19), altrimenti si falsificherebbe, l’unica soluzione è la possibilità cristologica, come immediatamente si esplicita in Gal 3,13, e quindi la consequenziale attuazione della giustizia pisteica per cui si richiama nel versetto successivo Abramo in modo da profilarsi un’inclusio con Gal 3,6. In merito all’impasse antitetico tra maledizione nomologica e benedizione abramitica, l’azione soteriologica non può che essere significata con il verbo evxagora,zein particolarmente eloquente e alquanto singolare, completamente assente nel resto del NT e rarissimo in tutta la letteratura greca in genere, specialmente nel senso di riscattare che rievoca l’affrancamento degli schiavi dietro pagamento8. 8 Benché sia da ritenere che il verbo venisse impiegato comunemente e molto frequentemente nell’ambiente del commercio degli schiavi, la sua costruzione con evk, da quanto risulta dalle poche occorrenze letterarie pervenute, è esclusiva di Gal 3,12, suffragando che il noi concernente l’oggetto del riscatto in Gal 4,5 è denominato tou.j u`po. no,mon, cioè i Giudei che sono definiti schiavi per l’ipoteca della situazione non legalmente libera – cf. Rm 3,19 in cui il dimostrativo in toi/j evn tw/| no,mw è interpretato come maschile plurale e quindi come se fosse riferito ai Giudei, invece si dovrebbe intendere come neutro plurale con valore strumentale in modo da indicare “con quelle cose (affermazioni o sentenze) [scritte] nella Legge”, poiché si evince che non si tratta di alludere ai Giudei (cf. 1Cor 14,21 l’unica altra volta in cui Paolo impiega il termine con l’articolo nella formula con evn dopo 1Cor 9,9 in cui si specifica però “di Mosé”); si noti che in Galati tre volte si usa il termine con la preposizione evn senza articolo e sempre in relazione alla giustificazione nomologica appunto (Gal 3,11.21; 5,4; cf. anche l’unica occorrenza in Fil 3,6). Le altre due occorrenze di Ef 5,16 e Col 4,5 sono riferite al “tempo” (kairo,j) e corrispondono all’unica dei LXX in Dn 2,8, per cui il solo parallelo con l’uso di Galati è rintracciabile in Diodoro Siculo (I sec. a. C. circa) che racconta il pagamento del riscatto di una schiava (Biblioth. Histor. XXXVI 2). Quest’azione è pertanto diretta esclusivamente ai Giudei, poiché essi soli non potevano essere liberi dalla maledizione specifica della legge e ancor con più pregnanza la filiazione abramitica. In Romani si tratta dell’opposizione universale tra peccato e giustizia. In Galati si avverte la necessità di una contestualizzazione del suddetto binomio oppositivo secondo una precisa angolazione e in tutte le sue pieghe tipicamente giuridico-legali per enuclearne più spiccatamente la dimensione filiale o la filiazione circoscritta agli componenti del popolo israelitico, che si contrappone a quella dei credenti in Cristo o per promessa9. Infatti, il processo giustificativo non poteva non contemplare la soddisfazione piena e anche la realizzazione perfetta delle prescrizioni nel libro della Legge, che risultavano così necessarie per l’affrancamento dalla sua maledizione, come prescritto dalla legge stessa, per cui in assoluto e a priori non può essere accessibile nessun’altra giustizia se non “da opere di legge” o intrinsecamente collegata nel modo nomologicamente dovuto a tali opere. Non può esistere nessuna giustizia vera e propria per il genere umano se non quella formalizzata nella Legge medesima che non può rimanere permanentemente disattesa e che deve pienamente coincidere con quella stessa attribuita ad Abramo mediante il suo credere a Dio 10 per la chiara previsione scritturistica e la sua proevangelizzazione rivolta a lui. Le trasgressioni definite come causa della redazione nomologica sinaitica (Gal 3,19) non possono valutarsi come mere violazioni delle prescrizioni stesse, anche se la loro legale imputazione è legittimabile solo a partire da quando è redatto il codice sinaitico11 , concorde secondo le sue modalità con le promesse (Gal 3,21) come premesso nella pericope precedente (Gal 3,15-18). Il movente ultimo della formulazione delle promesse e della redazione della legge è individuato scritturisticamente nella condizione di peccato universale (Gal 3,22) in modo da creare un’inclusio con Gal 3,6 12. Tutto questo discorso imbastito con categorie giuridiche si innesta biblicamente in una prospettiva e al contempo previsione cristologiche concernenti la discendenza promessa e pertanto assolutamente inconcepibili in mancanza della piena attuazione della giustizia sinaiticamente codificata che ha la funzione principale di costituire legittimamente e geneticamente la filiazione abramitica etnica (e di Cristo stesso) al fine di predisporre la giustizia alla finalità propria dalla proposta promessa e che la promessa da sola non sarebbe idonea a garantire o a comunicare. Alla discendenza promessa non poteva mancare la giustizia che solo la legge era in grado di determinare e assicurare all’interno del popolo ebraico prima e in vista della venuta della fede. L’azione del riscatto giudaico è ripetuto con lo stesso verbo ancora una volta in Gal 4,5 per una sua ulteriore precisazione imprescindibile e così preparare in qualche modo la ripresa ermeneutica allegorica della duplice filiazione abramitica (Gal 4,21ss), che trova fondamento reale solo nella disposizione sinaitica (Gal 3,17ss), la quale a sua volta esige inevitabilmente il compimento temporale della rivelazione della fede e quindi del compimento del riscatto stesso che lo determina, 9 In Romani il linguaggio è meno improntato giuridicamente ed è piuttosto cultuale - cf. Rm 3,21-26, in cui per l’unica volta si definisce Cristo come i`lasth,rion di Dio – il termine ricorre nel NT ancora solo in Eb 9,3. 10 Rm 9,31. 11 La tematica teologica è sostanzialmente identica con Rm 5,13-14. E’ la legge che rappresenta l’unico rimedio giusto e imprescindibile alle trasgressioni e quindi al peccato dominante su tutto, perché ristabilisce la giustizia altrimenti non più attivabile riguardo all’umanità e rende proponibili e logiche le premesse veterotestamentarie. 12 Non pare prospettata in Galati la nozione di funzione gnoseologica che si conferisce alla legge in riferimento al peccato, come in Rm 3,20; 7,7-13. La cornice delle determinazioni nomologico-testamentarie della filiazione abramitica che Dio pienamente assume da uno stesso orizzonte meramente giuridico (cf. la non sottovalutabile premessa di parlare kata. a;nqrwpon in Gal 3,15) , senza una valenza di probabilità empirica differenzia le categorie nomologiche di Galati da quelle più intimamente spirituali e universalizzanti di Romani. secondo i tempi e le modalità testamentariamente fissati e solo sinaiticamente legittimi dell’affrancamento di quelli sotto legge, cioè dei figli da serva13 . L’azione riscattatrice in Galati è rivolta quindi esclusivamente al popolo giudaico, poiché solo i suoi appartenenti potevano incorrere nella maledizione della legge, maledizione che impediva alla benedizione di Abramo di realizzarsi nelle nazioni (Gal 3,11) e di includere così tutte le nazioni, come la scrittura aveva proevangelizzato a lui (Gal 3,8). Infatti l’atto di affrancare “noi” da essa (Gal 3,13) è possibile solo per “quelli sotto legge” come per l’unica volta si ripete con il verbo in Gal 4,5, al cui versetto precedente si intedente evidentemente rievocare il contesto cristologico con il duplice impiego di geno,menoj usato una sola prima in Gal 3,13, come a significare che il suo essere divenuto maledizione dipende necessariamente dal suo essere nato sia da donna sia sotto legge (qui in Gal 4,4 per la prima volta la si scrive la formula u`po. no,mon14). La figura cristologica è destinata ad attestare definitivamente con il compimento della promessa la giustizia da fede che la promessa stessa contiene perché la riceve esclusivamente dalla legge. L’assoluta impossibilità di vivere nella giustizia da legge imponeva di conseguenza l’esclusiva universale possibilità a essere giusto da fede, per la cui produzione si necessita della mediazione cristologica. Tale produzione richiedeva la realizzazione della giustizia della promessa dalla quale la fede stessa dipendeva inevitabilmente e quindi includeva sempre obbligatoriamente (legalmente) l’adempimento della giustizia o la giustificabilità da legge, altrimenti non sarebbe potuta attribuirsi da fede la giustizia medesima. La legge viene a confermare la promessa in obbligati termini legali e a fungere da garante unico e indispensabile della giustizia per i soli Giudei che venivano così dichiarati sotto maledizione (Gal 3,10) potendo essere figli di Abramo solo secondo carne. La giustizia di legge promulgata è l’unica giustizia possibile per l’unica giustificazione possibile, che la legge non poteva realizzare universalmente in modo diretto secondo la sua modalità propria, ma che doveva prestarsi a una modulazione e mediazione in altra via, già preannunciata nella promessa, cioè potesse attivarsi da fede. La necessità del processo di rimozione legale della maledizione sotto legge per i vincolati alle sue prescrizioni imponeva la configurazione cristologica, di chi non maledetto dalla legge sotto di essa, quindi giusto da essa, saldasse sotto di questa stessa (nei suoi vincoli prescrittivi) il pagamento degli obblighi contratti in essa stessa e la neutralizzasse in sé (la liquidasse nei termini sanciti e gli unici determinanti in proposito) per svincolare l’unica suddetta possibile giustizia dalla sua accessibilità ancora unicamente nomologica e modularla indirettamente per la sua comunicazione pisteologica. Con l’essere divenuto di Cristo stesso maledizione, era giunta realmente e si mostrava apocalitticamente l’unica assoluta via perché potesse divenire ricevibile e quindi vivibile la giustizia per tutti. Il cristologico divenire ‘maledizione’ secondo il preciso ordine legale citato (Dt 21,23), che prescriveva la condizione di maledetto per chiunque fosse appeso al legno, è un atto di grazia orientato da e per la giustizia nomologica. Paolo infatti cristologizza la sentenza deuteronomica, soprattutto perché questa condizione non riguarda personalmente Cristo, ma i Giudei tutti. La 13 In Galati paiono abbastanza chiaramente distinguibili e a seconda del contesto un “noi” ecclesiale che determina la cancellazione delle loro differenze religiose e etnico-sociali di un ‘noi’ giudaico, che è anche significato con “quelli sotto legge” (cf. 1Cor 9,20) e un ‘voi’ cristiano, cioè i Galati provenienti dal paganesimo. 14 Paolo non usa mai no,moj con l’articolo quanto è connesso nel caso accusativo con la preposizione u`po,, poiché indica la dipendenza giuridica concernente le clausole e le prescrizioni per la possibilità della giustificazione nomologica (Gal 4,4.5; 5,18; Rm 6,14.15; 1Cor 9,20); l’unica occorrenza del termine con articolo, però nel caso genitivo, è in Rm 3,21 con la inequivocabile valenza di “la Legge”. valenza di u`pe.r h`mw/n15 significa in modo più pertinente “riguardo” o “in merito a noi”, poiché i Giudei sottesi non causano e non possono causare la maledizione che Cristo è divenuto, il quale pertanto non li sostituisce in forma vicariale o quant’altro, anche se il loro stato di soggezione alla maledizione derivante dalla legge ne è lo sfondo imprescindibile. Si tratta di un’azione ben precisa con la quale si pone in essere la cessazione totale della maledizione della legge poiché vengono annullate le condizioni della sua pendenza giudaica, non in virtù della legge stessa, ma in virtù dell’essere appeso al legno che lo identifica interamente con la maledizione e con tutta la maledizione possibile della legge per chi vi dipende. Di conseguenza Cristo appeso al legno non rappresenta un mero maledetto della legge ma la completa maledizione di questa stessa pendente sui suoi connazionali. Infatti, a differenza di qualsivoglia giustamente condannato e quindi appeso al legno che per tanto rimanendo maledetto avrebbe potuto causare la contaminazione della terra di Israele, come asseriva la Legge (Dt 21,23), Cristo in questa stessa condizione rappresenta il ‘saldo’ della maledizione nella quale si è autotrasformato sottoponendovi ingiustamente, così da determinare la cessazione di questa stessa giusta condanna nomologica inerente ai Giudei disattivandola o abrogandola nelle sue giuste esigenze. Cristo fa passare tutta a sé identificandovi la maledizione che ricevevano i Giudei e ricevono in genere quanti vogliono essere giustificati da opere di legge, e così può aprire la via pisteica della giustificazione. La realtà della maledizione legale è esistita finché essa non sia potuta identificarsi con Cristo stesso sul legno. Il divenire maledizione che concerne quanti dipendono da legge (per la giustificazione), comportava necessariamente per lui di non averla contratta naturalmente a ogni livello e in nessun caso sotto la stessa dipendenza legale. Ma questa condizione non poteva essere sufficiente poiché la trasformazione della maledizione legale in giustificazione da fede comportava necessariamente non solo la sua propria personale auto trasformazione nella maledizione ma la potenza di Figlio di Dio, poiché vi si doveva costituire un atto permanente e universale caritologico (benedizione). La giustizia della maledizione della legge sui Giudei può diventare mezzo e comunicazione di grazia per la benedizione universale solo perché quel Giudeo che ha potuto abolire in sé la maledizione nell’essersi reso perfettamente identifico a essa, liberando la stessa giustizia della legge dai sui termini di maledizione mediante la sua morte sul legno, ma poteva anche e soprattutto rende questa stessa giustizia non più ricevibile mediante solo opere legali ma applicabile mediante la grazia della promessa. 1.a. Le promesse in Gal 3,16. In Gal 3,16 il dato esclusivo del plurale evpaggeli,ai 16, ripetuto solo in Gal 3,21 con il nome divino filologicamente problematico, è un dato pressoché esclusivo e specifico della lettera in esame17 e 15 Il sintagma succitato si ritrova solo una volta nell’epistolario paolino autentico e cioè in 2Cor 5,21, benché ci si riferisca al peccato e a Dio che ha reso (epoi,hsen) peccato il Figlio, quel medesimo peccato che riguardava noi, in un contesto però universalmente hamartiologico che implica un ‘noi’ indicante tutti gli uomini. 16 Poco importa se il testo ebraico sia interpretato secondo l’individualità messianica come già letteralmente in esso presente – cf. C. J. Collins, “Galatians 3:16: What Kind of Exegete Was Paul”. in TynBull 54 (1, ’03) 75-86 –, o se la discendenza abramitica sia spirituale o escatologica piuttosto che storica – cf. J. L. Gaballero, “La promessa a Abrahán según Ga 3, 1-29”, in SciptTheol 36 (1, ’04) 259-272. Indubbiamente si tratta di un passaggio dalla schiavitù alla libertà secondo l’adozione filiale e l’eredità, ma non si spiega davvero né come né perché – cf. B. D. De Campos Samapio, “O homem ‘filho e herdeiro’ de Deus. Um estudo sobre Gl 3-4” Annales Theologici 15 (1, ’01) 81-116 –; inoltre la storicità ne è una condizione essenziale. non può che indicare una dualità per l’evidenza numerica dei loro destinatari. Se da una parte le suddette promesse sono mere formulazioni di uno stesso messaggio, cioè la notificazione della giustificazione per fede; dall’altra parte, la promessa alla sola discendenza abramitica, per la sua identificazione con Cristo, non è rintracciabile in nessun altro testo paolino18 (e tanto meno neotestamentario) nemmeno nei passi paralleli di Rm 4,16-18 e 9,7-8 solo perché i contesti e le articolazione delle stesse tematiche sono diversificate senza potersi affatto sospettare una qualche autocritica revisionistica per una resipiscenza su a una eventuale ‘spropositata’ forzatura esegetica anche per il caso dell’applicazione del metodo allegorico al noto passo genesiaco di cui Paolo si sarebbe successivamente accorto, come si può anche desumere dal linguaggio ‘ebraizzante’ di Galati certamente per una sua pertinenza semantica più incisiva 19. In Gal 4,22-26 l’allegoresi, che non compare in nessun altro testo del NT è per un verso preparata dalla tematizzazione della duplice modalità della giustificazione (da legge o da fede), ma a sua volta le fonda definitivamente, per dimostrare soprattutto esegeticamente il rischio di un assurdo regresso che sta per correre (Gal 4,21). L’allegoresi non può valutarsi come una mera aggiunta ulteriore o una prova collaterale e altra tra le poche o le tante che si sarebbero potuto rapsodicamente trovare e addurre, ma è ‘sistematicamente’ organica all’orditura retorico-biblica dell’epistola stessa e nel complesso per la sua caratteristica il suo fondamento ultimo irrinunciabile anche per le ineludibili implicazioni dirette e indirette relative al sintagma “divenuto da donna”. L’esegesi sulla discendenza abramitica identificata con Cristo quale destinatario della promessa corrispettiva, almeno nella sua individualità storica, che non trova paralleli in questi termini ‘tecnici’ e vigorosi, sembrerebbe una forzatura implausibile di Paolo se non del tutto assurda. Emerge sin da subito una indubbia distinzione tra la individualità, per così dire, anagraficobiografica della figura cristosologica che si concentra quasi tutta sul suo divenire maledizione per riscattare da essa fondato ineluttabilmente sugli altri due componenti del suo divenire originario, e la sua caratterizzazione, per così dire, ecclesiologica concernente la sua determinazione spirituale. Si doveva concepire una qualche distinzione delle due promesse, anche perché la figura storica di Isacco poteva interessare al limite la promessa abramitica ma non quella cristologica funzionale solo al suo essere suo figlio evk th/j evleuqe,raj esclusivamente in base agli avllhgorou,mena (hapax neotestamentario, Gal 4,24-25). L’allegoresi dei personaggi veterotestamentari non solo non 17 Le uniche altre occorrenze paoline del plurale evpaggeli,ai sono: 2Cor 1,20 con il nome divino senz’articolo e 2Cor 7,1 senza nome divino e Rm 9,4 in un contesto assolutamente generico - quest’ultima si paragoni con quella al singolare in Rm 4,14 in cui l’unica promessa abramitica si dice rivolta anche per i cristiani e per costoro operante (Rm 4,23), benché si riferisca solo alla giustificazione per fede secondo la citata formula evlogi,sqh auvtw/| e non si menziona affatto a Cristo ma solo ai suoi credenti. 18 Pare poco rilevante che l’argomentazione di Paolo in Gal 3,16 sia il risultato di una sintesi tra l’alleanza abramiticopatriarcale e il vangelo – cf. R. J. Kagarise, “The ‘Seed’ in Galatians 3:16 - A Window to Paul’s Thinking”, in EvangJourn 18 (2, 00) 67-73. Ciò che va derubricato in modo enfatico è che il termine spe,rma altrove, specialmente in Romani, non è esclusiva specificazione cristologica. In Rm 4,16 si accenna all’intera discendenza e ai molti popoli che la rappresentano in Rm 4,18, mentre Isacco è il figlio e quindi il simbolo dei figli della promessa ad Abramo in Rm 9,7 in parallelo a Gal 4,28, da cui, oltre a contesti ermeneutici diversi, si differenzia per l’assenza della decodificazione allegorica. 19 Cf. la citazione generica in Rm 9,7: evn vIsaa.k klhqh,setai soi spe,rma (cf. la coincidenza in Eb 11,18 in un contesto che rievoca piuttosto Rm 4,16ss), ma tale pensiero ermeneutico non è discontinuo in Romani con quanto supposto e già dimostrato in Gal 4,22-28. Tuttavia, la prospettiva di Romani sembra spingere a scorgere una ‘de-cristologizzazione’ e di conseguenza a una ‘de-allegorizzazione’, come se non fossero più funzionale economicamente, più che esegeticamente, all’interno del suo ordito epistolare, nel quale non si fa cenno al contesto nomologico specifico. contraddice la loro storicità, ma la suppone necessariamente e ne evidenzia il primo segno concreto della promessa stessa, poiché Isacco per il modo della sua nascita e per la donna che lo partorisce da Abramo (giustificato per aver creduto a Dio), non può non essere soprattutto segno storico che rinvia in se stesso a quanto precisamente proevangelizzato di lui, e per l’appunto allegorizzato attraverso lui. La Legge stessa esprime l’allegoria che l’individuo Isacco non è lo spe,rma w/| evph,ggeltai (Gal 3,19) e non può fisicamente o storicamente appartenervi, poiché solo i cristiani sono kata. VIsaa.k evpaggeli,aj te,kna (Gal 4,28) a tutti gli effetti. La promessa rivolta ad Abramo comporta la sua giustificazione personale, come personale è stato il suo credere. Con questa promessa limitata a lui storicamente viene costituito unico principio umano della medesima filiazione, duplicemente allegorizzata a seconda del figlio ricevuto da schiava o da libera, filiazione che trova il suo senso per il fine della fede futura e la possibilità di determinazione della discendenza per promessa o semplicemente promessa, allegorizzata da e in Isacco. Si può evincere che la promessa di Abramo è realizzata solo con la promessa cristologica nel senso che la sua promessa contiene la proevangelizzazione della promessa alla sua discendenza. Infatti, nel momento in cui la promessa abramitica si realizza, si rende attiva anche la promessa per cui si diventa sua discendenza per essa appunto, per cui la promessa in vista della giustificazione o benedizione da fede debba valere in due momenti diversi, immediato per il solo Abramo e futuro per la sua discendenza. Inoltre, solo le promesse sono connesse con la fede in vista della giustificazione. Tuttavia la qualifica di libero per Isacco e ugualmente di libera per Sara non sembra comportare rispettivamente una attribuzione (personale) di giustizia, poiché non si parla di una loro fede e la loro libertà si riferisce per allegoria rispettivamente ai credenti in Cristo e alla Gerusalemme di lassù (Gal 4,26-29)20 senza contemplarvi nessuna forma di estensione della attribuzione giustificativa abramitica per fede a questi altri due personaggi veterotestamentari e quindi a tutti gli altri, poiché in realtà la fede non può configurarsi se non dopo la disponibilità della “promessa dello spirito” (Gal 3,14) o cristologicamente realizzata, che è da identificare con la promessa alla discendenza e dipende dalla venuta della fede21 non riferibile se non ai cristiani e quindi non può esserlo nemmeno ad Abramo. La promessa cristologica, che prevede quindi la venuta dell’unica discendenza abramitica alla quale essa deve essere rivolta, è la vera finalità della promessa abramitica, la quale a sua volta è formulabile al patriarca solo in forma proevangelizzante e comporta il suo personale credere in ciò che Dio promette e raffigurava solo allegoricamente nel figlio da libera, cioè nella giustizia da fede di cui egli rappresenta l’originario e unico paradigma proevangelizzato; tanto è vero che Abramo può essere graziato solo mediante la promessa (Gal 20 Cf. Rm 4,23-25 in cui si asserisce la tesi che la giustificazione di Abramo è ciò che riguarda solo gli attuali credenti in Cristo risorto. Si noti che in Galati evgei,rein ricorre solo nel primo versetto, mentre in Romani a partire da 4,24 è presente 10 volte, e il verbo è inserito sempre nello stesso sintagma riferito all’azione di Dio nei confronti di Cristo (con variazioni sintattiche nella forma passiva) a esclusione dell’unica eccezione in Rm 13,11, richiamando ovviamente la formula essenziale kerigmatica. 21 L’elaborazione teologica della fede, esemplificata dai maggiori personaggi veterotestamentari, nel cap. 11 di Ebrei non pare registrare affatto la tematica giustificativa paolina e si concentra su un piano piuttosto ‘interiore’ secondo la prospettiva di attesa di quanto è attualmente creduto, quindi non la giustizia o l’eredità filiale che si ottiene per fede, ma il bene futuro non conseguibile attualmente e solo da sperarsi per la vita presente; basti qui menzionare in Eb 10,38 la cornice ermeneutica e concettuale in cui è inserita la stessa citazione di Abacuc, che Paolo impiega solo in Gal 3,11 e Rm 1,17, citazione che in Ebrei introduce la succitata elaborazione sulla fede esposta nel capitolo seguente. In questa lettera pseudopaolina si sviluppa un aspetto ‘conoscitivo’, ‘contemplativo’ e ‘intensivo’ della fede e commisurata all’identità e missione di ciascun personaggio, nel senso che ciò che vale per Raab non vale per la caduta delle mura in relazione alla fede relativa (Eb 11,30-31). Questo tipo di fede comunque non attiene alla promessa della giustificazione. 3,18) per aver creduto alla sua proevangelizzazione, ma non può ricevere la fede cristologica storicamente effettiva per la promessa dello spirito (Gal 3,14). Il credere22 di Abramo è suscitato dalla promessa stessa della discendenza cristologica, radicalmente e indissolubilmente derivante da quella storica, e rimane un suo atto personale e limitatamente alla sua individualità, mentre la fede non solo promessa ma anche rivelata rende i cristiani kat’evpaggeli,an klhrono,moi (Gal 3,29) e necessita della fede cristologica nella sua imprescindibile mediazione battesimale (Gal 3,27), che indica la sua effettiva cristologizzazione nella sua tipologia pneumatologico-ecclesiologica. 1.b. La funzione suppletivo-integrativa della promulgazione della legge Alle promesse deve seguire cronologicamente la promulgazione sinaitica della legge, posta vicino o semplicemente data inoltre23 (come del resto Agar era stata posta accanto a Sara riguardo a Abramo). Tale promulgazione tuttavia è data perché necessariamente integrativa del testamento delle promesse, successivamente poiché non inglobabile direttamente e intrinsecamente nel suddetto testamento. La generazione di Ismaele da Agar allude allegoricamente alla discendenza storica di Abramo, costituita dagli appartenenti della Gerusalemme di ora e siglata dall’alleanza sinaitica. Tale generazione è segnata da schiavitù per l’implicita dipendenza dalle determinazioni delle disposizioni sinaitiche ratificate e dispiegate per la filiazione abramitica sotto legge che in tal modo sancisce anche il contenuto preciso e la funzione specifica dell’alleanza veterotestamentaria. Infatti, la già avvenuta giustificazione di Abramo per aver creduto a Dio (non per allegoria) esclude che Agar, essendo serva, gli possa generare figli liberi, poiché la sua giustificazione non può propagarsi per via carnale. Ancor di più, la costituzione di Abramo come giusto non ‘ri-costituisce’ integralmente a tutti i livelli la giustizia antropologica e protologica prima dell’ingresso del peccato, che è necessariamente presupposto, nel senso che la giustizia pisteica non ‘resetta’ totalmente il credente in modo che poi possa essere giusto automaticamente, come se la vita di fede non 22 e per Abramo si usa pisteu,ein forse per mera registrazione del dato dalla lettera scritturistica, anche se per indicare l’atto personale inerente alla pi,stij si preferisce quasi sempre il verbo in genere nelle tre sole occorrenze di Gal 2,16 e 3,6,22 , come pure in genere in Romani in cui forse fa eccezione solo Rm 1,12, il cui sintagma tuttavia indica piuttosto un suo possesso ecclesiale che un atto di fede – per ulteriori dettagli cf. V. Ricci, “La fede di Gesù Cristo in Rm 3,2126”, Rivista Biblica (1, 2008) 61-85, spec. 62 n. 2 e 81 n. 20, in cui si avanza l’interpretazione sintattica del genitivo cristologico, che è presente quasi esclusivamente nelle due suddette epistole, come nomen agentis nel senso che il contenuto ‘pisteologico’ da credere è una realtà prodotta da Cristo e di sua assoluta proprietà, altrimenti non si potrebbe conferire con tale contenuto la giustizia ai credenti a cui è data la sua promessa (Gal 3,22b). In Rm 4,5 comunque si pronuncia il principio teologico della giustificazione pisteologica in cui impiega per l’unica volta il sostantivo con un senso personale poiché si intende la fede individuale di chi crede “in colui che giustifica l’empio”, come si premette nell’immediato, per cui h` pi,stij, cioè l’atto del credente a tale giustificatore, cioè Abramo è stata attribuita a giustizia (Rm 4,10). Questa fede è possibile solo se suscitata dalla promessa, la quale è destinata solo a questo patriarca (Rm 4,13ss), benché questo fu scritto solo per lui ma anche per i futuri cristiani (Rm 4,24), per cui, escluso Abramo nella sua personale tipologia veterotestamentaria, il credere giustificativo vale solo per chi è cristiano. 23 Il polisemico prostiqe,naiè usato da Paolo solo in Gal 3,19; nel corpus paulinum si trova ancora solo in Eb 12,19 con l’accezione di continuare in contesto narrativo, frequente nella LXX. Escludendo nella stessa pericope in Mt 6,27 l’occorrenza con l’accezione di aggiungere numericamente o quantitativamente e la seconda e ultima in Mt 6,33 con una valenza alquanto simile a quella unica paolina, e ancora l’unica in Mc 4,24 senza esatti paralleli e che assume l’accezione di questa seconda matteana, nel NT ricorre diverse volte ancora solo nell’opera lucana, quasi sempre con la valenza sinonimica della prima matteana – cf. Lc 3,20; 12,35.31; 17,5; 19,11; 20,11.12; At 2,41.47; 5,14; 11,24; 12,3; 13,36. continuasse più a essere necessaria e il credente potesse essere ristabilito in quella giustizia per ‘riviverla naturalmente nella condizione precedente il peccato e quindi come se il credente non fosse stato mai rinchiuso sotto il peccato dalla Scrittura. Tuttavia, i figli carnali da schiava sono sempre e comunque figli di lui e per legge oltre che per natura, sui quali la promessa non poteva esercitare nessun’altra azione se non quella concernente i suoi termini testamentari prima della venuta della discendenza cristologica. L’alleanza sinaitica, in quanto legalizza e codifica il carattere di schiavitù per i figli di Abramo secondo carne, assume una funzione essenziale e imprescindibile di garantire in concreto una certa ineludibile continuità tra la filiazione carnale e quella spirituale e quindi tra l’Israele storico e la discendenza promessa, sia perché l’alleanza sinaitica è imprescindibile e necessariamente propedeutica alla filiazione derivante dalla Gerusalemme di lassù e quindi alla discendenza cristologica, sia perché solo tale alleanza può essere il contesto in cui si può determinare l’origine dell’alleanza allegorizzata in Sara. Per questa discendenza libera abramitica era necessaria una costituzione intermedia relativa a una filiazione abramitica, anzi all’unica filiazione, quella carnale, prima della realizzazione della discendenza cristologica. La promessa abramitica non poteva formularsi senza la fissazione delle predisposizioni testamentarie per gli appartenenti alla figliolanza storica abramitica e quindi senza la sua caratteristica determinante di alleanza sinaitica con le peculiari disposizioni nomologiche. Questa alleanza legale è l’unica possibilità per la giustizia di continuare a essere in qualche modo operativa all’interno della dimensione storica dell’umanità e ne rappresentava una sorta di salvataggio o recinto di contenimento inattaccabile e si ‘congelasse’ in vista della sua futura e definitiva accessibilità all’umanità. Questo rimedio di primo intervento mediante la formazione legittima e legittimata, quindi dotata di giustizia che così non è suscettibile di irrimediabile compromesso, era l’unico modo perché quei figli di Abramo, destinatari della testamentarietà delle promesse, ne ricevessero l’unica guida tutelare idonea e l’unica salvaguardia possibile del loro diritto di figli veri e propri, anzi di unici figli realmente possibili fino alla stipulazione della alleanza allegorizzata in Sara. La legge è l’unico mezzo per permettere a tali figli carnali di esser agganciati legalmente alle promesse stesse in virtù delle loro clausole testamentarie e per connotare nell’unico modo possibile queste stesse di giustizia di cui altrimenti esse sarebbero rimaste inconsistentemente prive. Promesse e legge agiscono come due registri reciprocamente e imprescindibilmente interrelati durante la transizione dalla promessa abramitica a quella cristologica nella cui realizzazione la legge non può esser abolita, in quanto rimane come prova testimoniale della giustizia di Dio stesso e di tutto il processo scritturistico, essendone elemento immancabile. Promessa e legge hanno la stessa finalità benché in due domini diversi e per due interlocutori non omologabili, ma reciprocamente interconnessi, per cui l’assenza dell’una comporterebbe irrimediabilmente la vanificazione dell’altra. Infatti, la illustrazione della promessa nei suoi intrinseci e organici aspetti testamentari non può essere approntata fondatamente senza il riferimento a quanto, già menzionato, si descrive con l’allegorizzazioni delle due figure femminili, Agar e Sara, che appunto significano simbolicamente le du,o diaqh/ kai (Gal 4,24), dualità specificata poiché non può essere segnata da un’unità di fondo a differenza delle evpaggeli,ai. Queste alleanze non si esauriscono in un rapporto meramente giuridico tra due contraenti, ma si configurano piuttosto come una dinamica generativa benché con proprie modalità reciprocamente incompatibili, determinando così una relazione di filiazione vera e propria che pur rinviando a una paternità riferita inevitabilmente allo stesso Abramo non può non alludere in se stessa a quella di chi le formula allegoricamente in quel momento per poi debitamente storicizzarle, cioè Dio, anche perché Abramo non può redigere nessun’alleanza e nemmeno nessun testamento di questo rispetto a qualsiasi suo figlio24 . In Rm 9,4 l’ui`oqesi,a , che comincia l’elenco dei sei privilegi di Israele25 , non è riducibile a quella etnicostorica di Abramo, sia perché si accenna ai padri e quindi a una condizione, per così dire, identificativa, sia perché si nomina Cristo quale loro discendente carnale. Si allude pertanto a una relazione peculiare di filiazione di Israele con Dio, che non contraddice la sua paternità universale, passa umanamente attraverso quella storica di Abramo e la rende cristologicamente operante secondo la modalità propria di ciascuna alleanza. Senza questa fondativa paternità divina quella abramitica non avrebbe nessun senso, biblicamente parlando. Questo privilegio filiale israelitico concerne sempre Dio anche se non secondo la promessa o la libertà spirituale, ma è correlata con il quarto privilegio della nomoqesi,a. La figliolanza promessa non destinabile di per sé alla discendenza carnale sarebbe rimasta assurdamente inaccessibile se essa non fosse in qualche modo posseduta, anzi se non lo fosse nell’unico modo possibile prima della sua liberazione affrancatrice e quindi della sua universalizzazione. L’unica figliolanza possibile da e attraverso Abramo e quindi promessa e cioè di Dio si sarebbe potuta conservare funzionalmente e operativamente, per così dire, solo attraverso la diaqh,kh avpo. o;rouj eivj doulei,an (Gal 4,24), altrimenti sarebbe stata persa del tutto e non si sarebbe potuto determinare il tempo per la venuta della discendenza libera generata dalla Gerusalemme di lassù (Gal 4,24-25), tempo necessario affinché il popolo allegorizzato in Ismaele o da schiava (Israele) potesse essere tenuto sotto le condizioni della minorità, paragonabile a quelle dello schiavo (Gal 4,1-2), in termini testamentari secondo le promesse e in termini legali secondo la legge con il suo risvolto di alleanza. Infatti il testamento delle promesse che, per essere esecutivo, richiede lo stato di maggiorità filiale, non è destinabile a chi è generato “in schiavitù” dalla Gerusalemme di ora, per cui era necessaria l’alleanza sinaitica per salvaguardare proprio la stessa filialità minorile per non rimanere costituiti e confusi con i ‘non-figli’, cioè tutto il resto del genere umano. Le due alleanze, prestabilite in vista e a motivo delle promesse, erano e rimangono indissolubilmente correlate e si illuminano reciprocamente, poiché l’una sarebbe infondabile e irrealizzabile senza l’altra, come la figura teologica di Abramo non sarebbe delineabile e concretizzabile solo con la moglie Sara senza la serva Agar. Inoltre la discendenza carnale abramitica dalla seconda non 24 In Ef 2,12 in cui si definiscono ta. e;qna evn sarki,, identificati con il destinatario, come xevnoi tw/n diaqhkw/n th/j avpaggeli,aj, che invece erano proprie di Israele. Probabilmente si allude al fatto che la promessa cristologica rivolta ad Abramo, richiedeva la realizzazione dei due patti, il sinaitico e il cristologico finalmente compiuto. Ad eccezioni di Gal 3,15.12, in cui il lemma al singolare è impiegato nell’accezione giuridica di testamento, esso sempre al singolare indica la nuova o la vecchia alleanza in tutto il resto del NT - cf. i paralleli nei racconti sinottici dell’ultima cena Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20 (ancora esclusivamente Lc 1,72); anche At 3,25; 7,8; escludendo l’unica occorrenza in Ap 11,19 e le numerose in Ebrei, rimangono le uniche paoline autentiche in 1Cor 11,25 e 2Cor 3,6.14 e dall’unica nella citazione di Is 59,21 in Rm 11,27. Nella occorrenza in Galati, l’unica numericamente specificata (Gal 4,24), pur riferendosi alle alleanze inequivocabilmente, non si allude al sacrificio o sacrifici con cui esse vengono stipulate, come più o meno fanno tutti gli altri loro contesti, ma se ne circoscrive la portata generativa, che nemmeno in Rm 9,4, l’unica altra occorrenza paolina al plurale (filologicamente problematica), pare possibile reperire. Tuttavia, è da osservare che per Paolo sia le promesse sia le alleanze appartengono entrambi al patrimonio storico di Israele. 25 Al di là della incertezza filologica che colpisce entrambi i due soli plurali dell’elenco, lezione risalente per entrambi a 46 P , si può evidenziare che la sequenza dei sei termini paiono disporsi in forma chiastica per cui l’adozione a figli si collega con le promesse, evocando la relazione (paterna) di Dio con Israele, la gloria si collega al culto, evocando la relazione (religiosa) tra Dio e Israele, e le alleanze con la legislazione, evocando la funzione fondamentale della legge nella duplice funzione di codice nomologico-giuridico e di economia intermediaria per quanti attendevano la fine dei termini testamentari delle promesse. avrebbe potuto ricevere i termini effettivi della sua legittimazione senza l’alleanza sinaitica e la allegoria che le riguardava sarebbe stata inconcepibile. Ma ancora più gravemente, la fede sarebbe rimasta improducibile e quindi la promessa cristologica non sarebbe potuta essere formulata non potendosi del resto costituire nessuna discendenza cristologica. La legge è data secondo il testamento delle promesse per la necessaria preparazione dell’azione riscattatrice del Figlio di Dio che non poteva avvenire indipendentemente dalla legge o indifferentemente a essa, altrimenti nessuna filialità né consequenziale eredità sarebbe stata nemmeno ipotizzabile. l’essere sotto legge non comporta di per sé automaticamente la minorità filiale, ma questa scaturiva e quindi diveniva inevitabile se non ne fossero rispettate integralmente le inevitabili condizioni, suggellate con la circoncisione (Gal 5,3). La attribuzione legalistico-testamentaria di nh,pioi al noi giudaico (Gal 4,3) non è identificabile completamente con la universale schiavitù idolatrica agli elementi del mondo (Gal 4,3), benché ne sia intrinsecamente condizionata e permetta la loro assimilazione a schiavi e quindi costituisca la loro inidoneità a gestire liberamente secondo la maggiorità l’unica figliolanza effettiva e possibile pur possedendola, per la quale in tal modo richiede inevitabilmente la tutela legale. Infatti la nascita del figlio di Abramo da serva precede storicamente quella del figlio da libera, ma entrambi seguono la giustificazione di Abramo da fede per la premessa, significando inequivocabilmente anche la partecipazione genetica e costituiva (naturale) del patriarca al dominio della schiavitù universale, che in lui doveva rimanere come ipoteca naturale hamartiologica anche dopo che viene reso il giusto e il graziato per la promessa. La giustificazione pisteica di Abramo, il quale in tal modo conferisce valore alla stessa proevangelizzazione, che altrimenti non sarebbe potuta affatto entrare in vigore, per così dire, era finalizzata a originare l’unica figliolanza che si doveva strutturare secondo la minorità per la condizione servile, che significava anche essere sotto (la maledizione o il giogo della) legge, sotto la quale il rifiuto di credere alla promessa cristologica fa persistere i Giudei attuali che vogliono rimanere figli della Gerusalemme di ora. Nel tempo previsto era necessaria l’alleanza sinaitica codificata con la redazione della legge 26 che a sua volta è accaduta 430 anni (Gal 3,17) e non ha valore testamentario ma ne mette in atto le duplici condizioni (di minorità e di maggiorità). Questa annotazione cronologica perderebbe di senso se le due promesse in effetti fossero intese per una sola in tutto e per tutto, dato che ad Abramo è stato promesso di essere padre di molti popoli, irrealizzabile prima della venuta storica di Cristo. Ne consegue evidentemente che la promessa fatta alla discendenza abramitica secondo Isacco, è cronologicamente simultanea alla promessa rivolta ad Abramo perché doveva essere confermata costitutivamente e non affatto smentita o addirittura invalidata, come pretendono i giudaizzanti, dalla redazione sinaitica della legge dal momento che essa non può essere affatto kata. tw/n evpaggeliw/n äÎtou/ qeouÐå/ (Gal 3,21). Ma la figliolanza carnale abramitica doveva essere, per così dire, non solo formalizzata, ma anche necessariamente, anzi originariamente vincolata in qualche modo alle promesse, poiché il popolo storicamente nato da Abramo stesso non poteva essere escluso per sempre dalla benedizione universale promessa anzi era l’unico a dover essere affrancato Non si può essere del tutto d’accordo con Heinrich Schlier che attribuisce alla legge di non essere né ab aeterno né in aeternum – cf. La lettere ai Galati, tr. it. Maria Bellincioni, Brescia 1966, 160. Nonostante la chiara storicità e funzionalità soprattutto pedagogico-procristologica della legge nella sua redazione sinaitica, essa esprime in forma testamentaria la giustizia eterna e immutabile – cf. Rm 7,12. Inoltre la legge sinaitica non può essere abolita in se stessa poiché indirettamente dichiara e attesta la necessità non della circoncisione ma del battesimo per essere giusti, dal momento che per essa si è schiavi o piuttosto figli non liberi mediante l’appartenenza carnale (circoncisa) alla discendenza di Abramo. 26 nomologicamente e quindi a divenire in qualche modo indiretta mediazione soteriologica. Già nelle promesse stesse si preannuncia implicitamente l’alleanza sinaitica che nomologicamente riconosce e certifica il senso teologico della costituzione filiale minorile schiavizzante di quanti vi sono sottoposti. Le promesse stesse non avrebbero potuto funzionare nelle modalità testamentarie e quindi sarebbero state sostanzialmente nulle o inefficaci senza la precedente obbligata realizzazione di tali modalità. La legge sinaitica è stata posta accanto o data inoltre come una sorta di atto dovuto e inevitabile in quanto rappresenta il codice nomologico che, stabilendo divinamente “grazie alle trasgressioni” (Gal 3,19) le motivazioni formali e costitutive della maledizione in cui versavano (in cui versa sempre chi ricerca la giustificazione da legge) i figli carnali, è già simboleggiato nella Legge mediante la pattuizione allegorizzata in Agar e già in qualche modo attivo prima della sua redazione sul Sinai. La legge nel codificare e quindi costituire la figliolanza minorile sancisce di se stessa per Israele in questo modo peculiare che essa non era stata emessa per poter zw|opoih/sai, cioè è impedita al conferimento della dikaiosu,nh, ma la deve contenerla in sé poiché la deve conferire alle promesse stesse, realizzando in concreto e storicamente quanto era solo significato nelle allegorizzazioni delle due alleanze. La legge non può non essere che in totale accordo con la verità che sune,kleisen h` grafh. ta. pa,nta u`po. a`marti,an (Gal 3,22)27, cioè ha registrato definitivamente e ineluttabilmente con certezza indiscutibile la soggezione universale al dominio del peccato, visto che pa/sa sa,rx non può essere giustificata da opere di legge (Gal 2,16), inclusi i Giudei fu,sei, che non per tale prerogativa possono non considerarsi a`martwloi, (Gal 2,15) al pari di tutti. Le promesse erano totalmente subordinate alla legge, le devono permanentemente la loro ‘vita’ di giustizia oltre a garantire loro quanto era precondizionante per esse, ovvero ciò che Paolo paragona alla funzione momentanea e transitoria dell’azione pedagogica (Gal 3,23-25) o amministrativotutoriale (Gal 4,1) che sussiste finché sussistono le condizioni della filiazione minorile abramitica. La redazione sinaitica per tanto genera uno stato di fatto indispensabile in una codificazione positiva e propedeutica perché dà vita alla filialità e quindi retrospettivamente alla paternità abramitica e in fondo a quella divina che altrimenti sarebbe stata inattiva e inattivabile soteriologicamente. L’atto di fede abramitico è sì già giustificante ma solo perché la scrittura prevede la giustificazione da fede e proevangelizza la benedizione universale (Gal 3,8) ma anche perché rende indirettamente manifesta la giustificazione da legge, dell’unica finora possibile giustificazione che la legge si riserva e conserva in sé generando nell’alleanza i figli anche se questi rimangono nella schiavitù però risignificata per la giustizia. L’universale rinchiudere hamartiologico da parte della Scrittura (Gal 3,22) applicato ai Giudei con il medesimo verbo in forma passiva (Gal 3,23) significa il processo germinale della loro gestazione verso la giustizia per opera della legge, indica la mancanza della venuta della fede a cui con pertinente “custodia” propedeuticamente protettiva e preventiva la legge unicamente e per 27 Nel NT il verbo sugklei,ein, oltre a Lc 5,6 in forma attiva, si trova nelle due occorrenze in Gal 3,22.23 e Rm 11,32; tuttavia solo in Gal 3,22 Paolo lo si ricorre alla sua coordinazione con u`po, + acc., inteso non come complemento d’agente, che richiederebbe il genitivo, ma con il significato di soggezione. Questa azione di rinchiudere attribuita alla Scrittura con efficacia e ricaduta universali e persistente in un tempo indefinito, come connotazione essenziale di tutto, non può non alludere alla narrazione genesiaca del peccato di Adamo, perché prima era impossibile un’attribuzione simile alla Scrittura, anche perché tale azione sempre universalmente e senza limitazioni rispetto a tutto preesiste al dono della “promessa da fede”, che è il suo fine. imparagonabile privilegio la legge sopperisce per loro28 (Gal 3,23). In virtù della custodia legale la partecipazione israelitica alla universale soggezione schiavizzante degli “elementi del mondo” (Gal 4,3) come si può ascoltare dalla sola ‘Legge’ (Gal 4,21), assume una piega peculiare, ovvero una caratterizzazione di tempo e mezzo idonei e determinanti per la venuta apocalittica della fede cristologica, ma anche per loro di giudizio di maledizione nomologica perché si aprisse la via a questa venuta. Per il solo popolo israelitico si trova la legge non solo attiva il suddetto rimedio provvisorio tutelare, ma anche un’economia operativa e strutturale, biblicamente prevista secondo i suoi vincoli essenziali per la costituzione stessa della fede, poiché si custodisce intatta la giustizia e anzi comunque si potesse compiere come dovuto. La legge fa in tal modo acquisire la giustizia a quanti, benché generati nell’ingiustizia da Agar, sono i titolari naturali e i titolati ad averne diritto di possesso di questa assoluta generazione, benché abbiano tale diritto alienato o sospeso per le condizioni che li riguarda come minori e come sottoposti alla sua maledizione. La legge è redatta per difendere e conservare il quid essenziale per sostanziare la dinamica ancora non realizzabile in sé e per sé della promessa alla e per la discendenza cristologica, cioè di rendere plasmabile nella pienezza del tempo prestabilito la giustizia stessa nella forma e sul piano del processo giustificativo da fede. Il mondo israelitico per l’alleanza sinaitica, perché non si perdesse quanto allegorizzato in Agar, cioè la ‘naturalità’ giudaica (e di conseguenza quanto allegorizzato in Sara) con la consequenziale vanificazione delle promesse stesse che sarebbero rimaste infondate, può e deve essere la suddetta discendenza solo nella schiavitù e nella minorità filiale (da circoncisi). L La promulgazione sinaitica della legge, oltre a legittimare la futura venuta filiale dell’individuo Gesù, doveva anche istituire i termini effettivi della figliolanza da schiava del popolo israelitico e la possibilità della giustizia per tutti in modo che si potesse rievocare la differenza irriducibile tra la giustizia che deriva da opere di legge e quella da fede dichiarata nelle promesse stesse – è impossibile che ad Abramo non si notificasse una tale differenza essenziale con le opposte conseguenze poiché altrimenti le promesse non sarebbero inspiegabili, benché la connessa alleanza della legge non fosse ancora positivamente promulgata, ma solo allegoricamente significata da Agar. La promessa cristologica non è quindi riferibile a Cristo, poiché costui non può originarsi da ciò che solo da lui ha origine, la fede stessa giustificativa. Per lui, in quanto individuo storico, cioè in quanto discendente israelitico e quindi ‘naturale’ di Abramo, l’essere divenuto sotto legge non può essere nella schiavitù o nella sua maledizione, ma nella libertà filiale assoluta e nella giustizia totale che egli realizza individualmente e anche naturalmente secondo le condizioni di figlio libero e maggiore poiché egli non poteva conoscere sin dal primissimo istante del suo esistere come israelita nessuna forma di minorità e quindi di schiavitù in questo senso. Tanto meno Cristo poteva avere bisogno di custodia tutelare della legge, dalla quale egli in modo singolare riceve senza mediazione di fede l’unica giustizia universalmente possibile prima della fede che da lui deve formarsi. Egli necessariamente a partire dalla sua struttura protologico-genetica, non potendo non essere generato e quindi concepito (divenuto antropologicamente) nella giustizia che è chiamato a vivere anche nella sua pratica naturalmente richiestagli quale unico circonciso che compie, deve e può compiere tutta la legge (Gal 5,3) in cui dal suo primo esistere umano è posto, a differenza di tutti i suoi connazionali. Per lui la legge stabilisce e a lui assegna come sua benedizione quanto essa stabiliva 28 Questa prospettiva fondamentale del compimento della legge da doversi custodire comunque, viene inquadrata in una angolazione universalizzate che contempla la dialettica ‘diatribica’ tra l’incirconcisione naturale e la circoncisione legale in Rm 2,25-29. per i suoi connazionali e assegnava loro come sua maledizione. Cristo non può e non deve essere giusto da fede, ma lo può e lo deve solo per natura e israeliticamente da legge dalla quale riceve la vita e non la morte, a differenza dello stesso Paolo (Gal 2,19) che deve essere morto alla legge mentre Cristo assolutamente vi deve essere vivo. La giustificazione da fede infatti non poteva essere sostitutiva della giustizia da opere di legge, come se la scrittura avesse sentenziato in vano o paradossalmente che la legge dà o permette la vita solo nell’adempierla (Gal 2,11-12), ma doveva essere affrancatrice, cioè doveva porre il popolo ebraico in condizioni di ricevere e vivere la stessa giustizia della legge senza dovere percorrerne la via nomologica esigitavi. Allora Gesù doveva essere anche e primariamente il ‘discendente’ che in qualità di libero fu,sei e per maggiorità filiale, erede da legge e quindi vivo alla legge tramite la legge, doveva entrare in relazione con le condizioni della legge per realizzare la giustizia della promessa cristologica che si attiva perla venuta della fede apocalittica. Cristo non può assolutamente essere giusto da fede per la promessa, non può essere un credente alla maniera abramitica ma vive la giustizia in modo naturale da opere di legge secondo anche quanto imponeva la circoncisione carnale 29. Solo l’unico incondannato e incondannabile dalla legge, cioè non soggetto alla sua maledizione ma vivificato da essa con l’operarne tutte le prescrizioni ed esclusivamente dichiarabile giusto da essa e sotto di essa, poteva accettare di divenire maledizione per abolire quella che si riferiva ai Giudei, e così rendere universalmente accessibili l’eredità e la libertà per promessa, cioè realizzare la grazia giustificante da fede che implicava innanzitutto per il Cristo l’essere Figlio di Dio. L’unica giustizia possibile che Cristo sotto legge realizza da legge in modo totale con la sua esistenza e operare umane, sarebbe rimasto un che di personale e circoscritto alla sua individualità senza potersi abilitare a divenire maledizione legale appartenente a tutti i Giudei, se il suo operare in questo preciso momento non fosse derivante dalla potenza di Figlio di Dio e in ultima analisi da Dio stesso, e quindi poter togliere la maledizione legale per donare la sua giustizia da legge ai suoi connazionali. La morte del giusto legale, dell’unico proclamabile e proclamato tale da legge senza necessitare nessun processo caritologico per la giustizia doveva e poteva configurarsi come la morte dell’unico che sul legno è divenuto maledizione da legge stessa, non per una determinazione mistica, ma per autometamorfosi giuridico-giudiziale che lo rendeva ontologicamente coincidente con la sola maledizione nomologicamente effettiva e vigente, cioè quella pendente sui Giudei, con la conseguenza di costituire proprio la grazia di giustizia (da legge) o la giustizia (da legge) trasmissibile a essi o compibile in essi per grazia mediante l’invio del suo spirito nei loro cuori da parte di Dio (Gal 4,6). Solo l’unico maledetto da legge che ripaga con la morte della sua vita giusta la vita ingiusta di tutti i Giudei, doveva essere l’altrettanto unico giusto dotato di prerogativa divina nel suo essere connaturale discendente da Abramo, quindi un israelita, poiché solo in quanto posto sotto legge e quindi giusto da essa, e non solo privato dalla condizione hamartiologica, può divenire maledizione da e sotto legge e quindi il fondamento ultimo di tutto quanto già descritto. Altrimenti il riscatto stesso sarebbe irrimediabilmente compromesso, poiché tutto ciò che concerne la giustizia legale non può essere aggirato o rimanere incompiuto, anzi a rigor di termini non può rimanere un tale incompiuto negli stessi cristiani 30. 29 Paolo dà a vedere che conosce in qualche modo la parentela di Gesù nel menzionare Giacomo come “il fratello del Signore” (Gal 2,19) e quindi non poteva non conoscere l’evento della sua circoncisione. 30 Cf. R 8,3-4, in cui, benché nella variante tipica di Romani del contesto hamartiologico universale, si asserisce che il peccato è stato condannato “nella carne” per permettere di camminare “secondo spirito” ed è stato possibile realizzare ciò perché mediante quella condanna avvenuta nella carne del Figlio di Dio, si è potuta compiere (plhrou/n) to. dikai,wma tou/ no,mou in quelli che camminano spiritualmente, cioè i credenti in Cristo. Il termine dikai,wma si trova quasi 2 La Donna della discendenza abramitica nella pienezza cronologica. La formula cronologica to. plh,rwma tou/ cro,nou31 concerne un intervento divino peculiare e unico da cui dipende assolutamente la realizzazione della promessa abramitica e quindi della discendenza cristologica a cui poter rivolgere la promessa (della eredità della figliolanza libera) con la conseguenza della fine temporale della minorità filiale di schiavitù della discendenza carnale e il preambolo necessario della discendenza per la maggiorità filiale di libertà. In Gal 4,4 il gesto di Dio rivolto a suo Figlio è significato con l’aoristo di evxaposte,llein32 ripetuto per l’unica e seconda volta in tutto il NT con la medesima forma nell’immediato contesto (v. 6) per definire il medesimo gesto di Dio indirizzato allo spirito del Figlio nei cristiani. Il verbo per quanto concerne il Figlio si potrebbe interpretare mandare fuori, far uscire o far partire33, sinonimicamente al giovanneo semplice avposte,llein o allo stesso hapax paolino pe,mpein in Rm 8,3 34 in relazione all’Incarnazione. In Romani si contempla l’invio del Figlio evn o`moiw,mati sarko.j a`marti,aj, modalità che è la motivazione di fondo del momento della sua morte, descritta secondo l’azione specifica di Dio rievocata per l’effetto giustificativo in Rm 8,13. Quindi Paolo intenderebbe l’azione di pe,mpein secondo la specificazione del quadro della morte del Figlio suo con il significato di mandare o portare a similitudine, quindi di assimilare semplicemente per la condanna del peccato evn th/| sarki, e per tanto non può non l’assimilazione nell’Incarnazione, perché la suddetta specificazione non è pertinente a determinare il momento della morte non essendoci nessuna segnalazione di simultaneità dei due fattore, oltre a altri inconvenienti semantici che implicherebbe una tale visione esegetica. L’assimilazione allude all’invio del Figlio perché si incarnasse, come il sintagma coordinato peri. a`marti,aj sottolinea ulteriormente. Dato che evxaposte,llein può assumere l’accezione di licenziare, congedare, mandare nel senso di incaricare o permettere per qualche impresa o impegno, il suo uso in Gal 4,4 non può ritenersi dotato di tale valenza semantica ma dovrebbe condividere quella dell’unico parallelo all’interno del corpus paulinum rappresentato dal succitato verbo di Rm 8,3. In Gal 4,4 tale iniziativa divina non dovrebbe rivolgersi in vista dell’ingresso del Figlio nell’esistenza terrena, ma al contrario in vista della sua uscita da essa, quindi essa non sarebbe indirizzata al Figlio prima di essere uomo, ma all’uomo che è suo Figlio per incaricarlo specificamente dell’impegno dell’affrancamento. Manca qualsiasi appiglio per una tale ermeneutica. Tuttavia, un mandato di questo genere in relazione esclusivamente in Romani (1,32; 2,26 al plurale; 5,16.18) ma mai specificato con tou/ no,mou – le altre uniche occorrenze neotestamentarie sono tutte al plurale Eb 9,1.10; Lc 1,6; Ap 15,4; 19,8 con il senso di sentenze, decreti. 31 Gal 4,4, un hapax in tutto il NT, in cui il solo termine plh,rwma, se si escludono le cinque occorrenze evangeliche (Mt 9,16; Mc 2,21; 6,43; 8,20; Gv 1,16), le altre 11 (senza la citata di Galati) appartengono tutte all’epistolario paolino (Rm 11,12.25; 13,10; 15,29; 1Cor 10,26; Ef 1,10.23; 3,19; 4,13; Col 1,19; 2,9). L’unico parallelo più o meno rintracciabile è nella prima occorrenza di Efesini in cui però il termine si specifica con il plurale tw/n kairw/n. 32 Nel NT si trova, oltre alle due occorrenze di Gal 4,4.6, solo in Lc 1,53; 20,10.11; 24,49 (l’invio della promessa del Padre del Risorto sui discepoli) e At 7,12; 9,30; 11,22; 12,11; 13,26; 17,14. Per l’immagine dell’invio del Figlio suo da parte del Padre Paolo usa pe,mpein, all’incirca un suo sinonimo, solo in Rm 8,3. 33 Il verbo nella LXX è impiegato per descrivere quanto il Faraone si rifiuta di fare verso il popolo ebraico a partire da Es 4,21.22.23; ma può avere anche un senso negativo di scacciare (Gn 3,23). 34 L’immagine cristologica dell’Inviato nel mondo per descrivere l’Incarnazione è segnalata quasi esclusivamente in Giovanni e quasi sempre con il mero avposte,llein (cf. anche 1Gv 4,9) e con la formula completa di “nel mondo” in Gv 3,17 e 17,18 e viene spesso viene scambiato in modo più o meno sinonimico con pe,mpein, che Paolo usa in questa concezione chiaramente incarnazionistico solo in Rm 8,3 e in Gal 4,4. specifica al riscatto da parte di Dio non solo sarebbe alquanto superfluo ma non sarebbe sostanzialmente distinguibile con lo stessa gesto di Dio per il processo incarnazionistico che sarebbe assurdo non postulare. Infatti la pienezza del tempo indica il culmine della storia fino al momento in cui avviene l’invio del Figlio. Nemmeno evxaposte,llein potrebbe riservare un’accezione negativa come scacciare, mandare via, espellere o ripudiare in questo caso come figlio, perché potesse essere non più figlio ma schiavo, come in qualche modo è descritto in Fil 2,7, per cui Dio assumerebbe l’iniziativa per il processo kenotico del Figlio, come se fosse sottinteso il possibile aggettivo keno,j. Osta l’insuperabile ostacolo che la kenosi cristologica è un’azione e un’iniziativa riflessive, come il pronome indica inequivocabilmente nel versetto succitato di Filippesi, atto libero di Cristo che non può iniziare con la sua Incarnazione, ma con l’assumere la forma di schiavo evocativo della maledizione di Galati. Nemmeno si può illustrare secondo il concetto che Dio non abbia risparmiato il proprio Figlio per consegnarlo secondo Rm 8,32, anche per le ragioni su evidenziate circa il raffronto dei due passi. In Galati l’interesse di Paolo nel descrivere l’evento della morte in croce cade completamente sulla tematizzazione dell’affrancamento e del binomio dialettico di libertà e schiavitù filiali. La proposizione finale concernente l’atto del riscatto in Galati non può riferirsi al verbo in questione ma al ripetuto participio geno,menoj, anche perché una simile connessione sintattica al posto di una forma infinitiva o almeno participiale sarebbe un fenomeno linguistico singolare, come Paolo stesso attesterebbe in Gal 4,6 ma anche qui il verbo è in forma assoluta poiché il gridare del suo spirito nei cuori è una sua propria qualità e non l’esecuzione del fine dell’invio divino. L’iniziativa di Dio che scatta allo scadere del tempo previsto, non può riferirsi che al contesto del processo incarnazionistico, magari con un’accentuazione di licenziamento o di autorizzazione. Il mandare di Dio è rilasciare il Figlio, concedendogli la licenza o il mandato in vista anzi forse meglio a seguito della sua volontà di incarnarsi. Questa sfumatura caratterizza l’intento semantico in Galati rispetto a quello giovanneo e di Romani, poiché l’unicità dell’impiego di evxaposte,llein prospetta un’angolazione piuttosto dal punto di vista del Mandato e non del Mandante per una enfatizzazione sull’effetto dell’invio o cosa comporti precisamente per l’Inviato. In sintonia con l’ordito della lettera si intende menzionare che il Figlio di Dio dall’istante in cui diventa uomo e quindi è concepito, cioè dall’inizio assoluto della sua fisicizzazione antropica, non può essere né schiavo né minore, ma deve essere per definizione l’erede a tutti gli effetti giuridici della filiazione ‘carnale’ piena35 secondo legge e non secondo promessa e tanto meno secondo i termini testamentari appena accennati nel versetto precedente. L’esistere temporale del Figlio di Dio deve avvenire necessariamente sin dal suo assoluto istante originario “sotto legge”, che attesta il suo contesto genetico-etnico unicamente compatibile alla maggiorità filiale senza dipendenza alcuna dal dominio universale harmatiologico sotto cui tutto è rinchiuso dalla Scrittura (Gal 3,2122). Il rapporto della legge con Gesù da sempre e per sempre attiene alla sua filialità abramitica piena e ‘maggiorenne’ necessariamente sin dall’inizio in modo che solo per lui la prima alleanza mette in atto un rapporto di tale forma nel vincolo della discendenza carnale con Abramo, altrimenti non sarebbe stato possibile il suo stesso invio36, che non può assolutamente postulare previamente 35 In Rm 4,16 si denomina la discendenza abramitica carnale come evk tou/ no,mou. Gal 4,5. Il sintagma u`po. no,mon, una peculiarità di Galati, indica la condizione servile e legalistica della redazione testamentaria sinaitica per colui a cui è stata promulgata (il popolo israelitico) - si notino le occorrenze in Gal 3,23; 4,4.5.21; 5,18. 36 un qualche riscatto o ancor più paradossalmente ‘autoriscatto’ dell’Inviato, compatibile con la sola giustificazione legale, che dovrà consumare al suo estremo possibile nell’essere appeso al legno. Il suo essere geno,menoj u`po. no,mon deve essere il contesto esclusivo esistenziale in cui si esprime integralmente e continuamente dal suo esordio alla sua conclusione la libertà filiale israelitica secondo carne. La legge stessa non può non dichiararlo apertamente per non contraddirsi assurdamente con l’indicare in lui l’unico circonciso non sotto la schiavitù, ma sotto la libertà rispetto a essa. La condizione giuridico-legale sotto cui Cristo è venuto ad essere per l’intera esistenza terrena dall’inizio del suo essere concepito alla sua fine tanatologica sul legno, garantiscono la sua totale e indefettibile libertà per la giustizia vissuta in tutte le opere di legge, anche quella della maledizione pur non potendo mai essere dichiarato ‘maledetto’ per aver commesso ingiustizia poiché l’ui`oqesi,a minorile sotto legge potesse prima diventare in lui ui`oqesi,a di maggiorità e poi per lui trasformarsi in quella da fede ormai imminente in totale ottemperanza alle clausole testamentarie. L’allusione all’intera realtà dell’origine umana del Figlio di Dio, quindi del suo essere divenuto un israelita doveva precedere per ovvietà logica e lo si menziona anche sintatticamente prima con il suo essere geno,menoj evk gunaiko,j , frammento mariologico più antico che non può non contenere la traccia di una riflessione del tutto pertinente e ineccepibile in nulla anche se solo estremamente sintetica perché assolutamente immancabile e del tutto organica all’interno della trama epistolare e prima del suo contesto immediato. In primo luogo questa traccia non poteva non rinviare al processo del concepimento stesso del Figlio di Dio per divenire mortale e viverlo pienamente e liberamente sotto il vincolo della legge fino all’ultima estrema opera di giustizia legale (l’assumere la sua maledizione inflitta ai Giudei). E’ lampante che tale evocazione dovesse fondare tutto il discorso epistolare appena esposto e ancora da elaborare. Infatti il Figlio di Dio deve umanamente divenire sotto il regime dell’alleanza sinaitica ma non da schiava secondo Ismaele ma da libera secondo Isacco, e non per la promessa ma per la carne stessa in base alle stesse determinazioni teologico-bibliche emerse nella composizione dell’epistola. E a tale fine era necessaria non una ebrea qualsiasi ma esclusivamente la creazione di una israelita adatta. Si doveva prospettare una sua singolare personalizzazione nomologica o nomologizzazione individualizzante e quindi doveva essere essenzialmente dotata di qualità e di un’attitudine specifiche a concepire l’unico discendente abramitico libero, cioè ad accogliere geneticamente e fisicamente il divenire antropico del Figlio di Dio e quindi a iniziare storicamente quanto si prometteva ad Abramo e si allegorizzava in Isacco. Se Paolo non avesse pensato con l’anonimo gunh, a una simile donna anagraficamente individuale e conosciuta secondo il nome proprio, ovvero quanto non poteva non essere materia di tradizione evangelica e kerigmatico-catechetica presso le comunità cristiane, tutta l’architettura argomentativa dell’epistola verrebbe irrimediabilmente a crollare, anzi non si sarebbe potuto nemmeno progettre. La sua singolare natura femminile israelitica è conditio sine qua non per dipanare il contenuto della identità filiale antropica del Figlio di Dio in relazione alla legge e alle complesse conseguenze e relazioni scritturistiche e alludere comunque ciò che vi è anche genealogicamente basilare e determinante, anzi assolutamente originario e fontale nella configurazione cristologica. La donna e solo quella donna anonimamente menzionata, perché ‘mariologicamente’ notissima a tutti, poteva assolvere a questo compito. Il concepimento bio-fisiologico è la prima e originaria attuazione della sua stessa dinamica ‘legalistica’ fondata su una genealogia etnico-israelitica di lui, poiché quanto in Isacco si allegorizzava per la promessa, in Cristo si doveva realizzare storicamente per la legge. Il Figlio di Dio doveva derivare dal ‘seme’ fisio-genealogico abramitico, per sottoporsi liberamente quale unico figlio libero per natura alle condizioni legali in vista della realizzazione delle promesse. Cristo è dunque l’unico discendente abramatico di diritto unico erede legittimo e legittimabile da legge e quindi secondo la giustizia dalle sue opere. Era pertanto necessario attivare il divenire del Figlio divino da donna non solo mediante la dinamica fisiologica della sua nascita in vista della pienezza del tempo, ma secondo la compatibilità assoluta e perfetta delle stesse determinazioni fisiche umane con le condizioni di giustizia da legge già analizzate. La formula relativa alla menzione anonima della singolare concepente e generante il Figlio divino non può assumere un quasi superfluo tono generico e intercambiabile con formulazioni incarnazionistiche simili 37, in contrasto con lo stesso tono della lettera estremamente calcolato e rigorosamente architettato, e per quanto riguarda lo specifico della nascita di Cristo non si poteva omettere affatto il suo indispensabile spessore mariologico38. La formula gennhto.j gunaiko,j è esclusiva di Giobbe nell’AT e il sintagma gene,sqai evk si trova con un parco impiego nel mondo classico insieme a ti,ktein già in Omero39 in elenchi genealogici o in sezioni del genere, ma mai connesso con un nome proprio femminile da solo e tanto meno con quello comune di gunh, . La formula paolina quindi è del tutto eccezionale, se non decisamente discontinua rispetto a ogni contesto culturale dell’epoca, poiché si deve innanzitutto evidenziare l’assenza assoluta di un origine materiale e fisica evk avndro,j, come distintivo irriducibile a tutte le possibili genealogie antiche 40. La genericità della formula di Giobbe allusiva del concorso di un seme maschile per un generato di donna cela un intento antigenealogico o almeno di indifferenza a un tale comune valore ‘onorifico’. Paolo non può non alludere implicitamente a questo aspetto in discontinuità sia con Giobbe sia con la valenza culturale genealogica in genere, che invece sottoscrive per i due figli anonimamente menzionati di Abramo (Gal 4,21ss), per differenziale il tratto genealogico di Cristo che non può contemplare la presenza di un padre biologico, anche per l’indizio dell’uso del participio aoristo di gi,nesqai tipicamente formulare in contesti genealogici extrabiblici, mentre genna/n lo è in quelli biblici 41. 37 L’unanime concordanza esegetica che tende a minimizzarne la portata semantica e teologica (cristologica) della formula paolina, come se essa non volesse dire nulla altro se non il mero ingresso nella storia umana di Gesù tanto da distinguere una “Incarnazione in sé” e una “Incarnazione servile” attraverso cui egli vi sarebbe entrato come un comune uomo cioè soggetto “alle leggi della discendenza (“formato da una donna”) e della convivenza umana (“formato sotto la legge”)” (Spinetoli, cit., 16-17). Ma se davvero fosse questione solo di rispettare queste leggi puramente fisicogeneaologiche e sociali per qualificare la ‘servilità’ dell’Incarnazione, non si dà vera ragione del perché usare un hapax di tal genere e un altro hapax immediatamente dopo (a parte la strana traduzione di geno,menoj con “formato”). In Valentini, “1.1. I testi …”, cit. 34 n° 9, oltre alla menzione delle cinque ricorrenze greche di Giobbe e delle ricorrenze qumraniche, si assimila la formula paolina a quella di evn gennhtoi/j gunaiko,j nelle due occorrenze evangeliche in riferimento a Giovanni Battista (Mt 11,11 e Lc 7,29). Si può essere nati di donna, legalmente o illegalmente, per violenza o quant’altro, ma il Figlio di Dio nella sua incarnazione non può essere solo un mero nato di donna al pari di tutti. 38 Anche nella prima delle due solo menzioni marciane di Maria (Mc3,35) non si avverte la necessità di inserirne il nome proprio che è nel contesto ovviamente inevitabile in Mc 6,3. Anche il mero titolo giovanneo di Madre di Gesù (2,1.12; 19,25) giudicato sufficiente per il fine identificativo serve a enfatizzante piuttosto il suo aspetto teologico. 39 V. ad es. Il 5, 547-549. 40 V. ad es. la prima genealogia biblica di Caino in 4,17-22 o di Adamo in 5,3 che termina in 5,32 con la menzione dei tre figli di Noè. 41 In formule con o senza combinazioni con ti,ktein - specificamente ‘partorire’ se si tratta di donna -, genna/n è esclusivo di Matteo, specialmente alla fine della sua genealogia quando si riferisce a Maria (1,16), ma precisato nel contesto, non per puro gusto storico, con l’incipit definendo Gesù Cristo figlio di Davide e Davide figlio di Abramo. 2.a. L’originalità assoluta della formula paolina. Le sue cinque occorrenze greche di Giobbe, estremamente eccezionale all’interno dell’AT42, enfatizzano prevalentemente la connotazione di ‘mortalità’ umana43, che nel contesto paolino comporta una pienezza rivelativa di tipo immediatamente cronologica, ma anche e soprattutto ‘dogmatica’. Paolo con il suo sintagma genealogico assolutamente essenziale44 enfatizza invece una valenza causale e di provenienza, ma anche in qualche modo di materia, dell’unico fondamento antropologico e l’unico materiale biologico ‘utili’, ma anche l’unico possibile soggetto genitoriale per gestire la nascita temporale del Figlio di Dio. L’unicità di tale maternità deve dispiegare l’orizzonte della discendenza del suo concepito e nascituro che immancabilmente deve divenire innanzitutto da (‘seme’ di) donna (solo)45, e quindi l’origine bio-fisica circostanziato all’essere umano del Figlio di Dio deve anche ineluttabilmente concordare con tutti i termini testamentari delle promesse perpetuamente siglati e convalidati dalla legge. La donna allusa è quell’unica discendente di Abramo che nel concepire il Figlio da Dio deve essere idonea a far iniziare indirettamente, anche se necessariamente in forma protologica, la imminente discendenza promessa. Maria non solo è una soggettività femminile che serve in forma esclusiva per generare il Figlio di Dio, come se tale genesi fosse indifferente o neutra in termini di giustizia. Al contrario, questa donna è colei che è chiamata a connettere umanamente e individualmente le promesse con la discendenza cristologica secondo le determinazioni nomologiche, a permettere la transizione dell’essere sotto legge e il non essere più sotto la legge, a promuovere il passaggio della mancanza israelitica di filiazione libera alla universale Luca preferisce la ripetizione “figlio di” e il genitore maschile (3,23ss). La nascita umana di Gesù in Paolo non è significata mai con esso (cf. Rm 1,3; Fil 2,7), come anche in Gv 1,14, poiché si tratta più di un ‘divenire’, un ‘accadere’ nella configurazione antropica del Figlio di Dio e non di un mero essere generato. Si confronti l’uso di genna/n per Agar (Gal 4,24), in cui il fenomeno del concepimento in sé di un essere umano non viene focalizzato affatto. 42 Si badi che manca qualsiasi accenno genealogico riguardo a Giobbe, anche se egli stesso cita la madre e anche i fratelli (cf. ad es. 19,17) – suo padre anonimamente è menzionato da un altro personaggio (v. Gb 15,10). 43 Cf. Gb 11,2 euvloghme,noj gennhto.j gunaiko.j ovligo,bioj, espressa da Zofar che la ripete in Gb 11,12 con la sostituzione del primo lemma con Broto,j, che non ha corrispettivo in ebraico e non si trova mai nel NT. Queste prime due occorrenze non si trovano nella versione masoretica che riporta la prima occorrenza (la terza greca) e l’unica espressa da Giobbe stessa in 14,1, che ripete nella versione greca la seconda formula di Zofar, rendendo con Broto,j l’ebraico ~d'a' e sostituendo l’ultimo aggettivo con plh,rej ovrgh,j che traduce zg,r-o [b;F.. Il termine zg,r,o in genere interpretato con “inquietudine”, (cf. Gb 3,26 e Is 14,3), può contenere il senso della traduzione greca perché in seguito Giobbe fa rifermento esplicitamente all’ira di Dio di cui egli è oggetto (cf. Gb 37,2 e Ab 3,2, Sir 5,6 e 16,11 - solo in Gb 39,24 forse indica il nitrire equino davanti alla battaglia). Le ultime due occorrenze sono Gb 15,14 (Elifaz) e Gb 25,4 (Bildad). 44 La preposizione evk con il verbo in questione è impiegata in Rm 1,3 in cui si preferisce richiamare la discendenza davidica kata. sa,rka del Figlio di Dio, il che non poteva non essere una formula sincopata di quanto oralmente o tradizionalmente veniva circostanziato nei dettagli anche biblicamente orientati, come la sua coordinazione con genna/nin Mt 1,16 attesta. Paolo nel testo di Romani, anche se ancora più indirettamente, non può non alludere alla “donna” di Galati, poiché sa o suppone che questo riferimento è parte della fede comune rievocata in Rm 1,12. In Rm 9,5 si rievoca tutto questo semplicemente con evx w-n (sc. padri) o` Cristo.j to. kata. sa,rka. Questo essere di Cristo secondo la carne dai padri non poteva non includere la donna di Galati, poiché la nascita umana di lui può e deve essere dai padri ma assolutamente non da padre umano. 45 Sembra del tutto peregrino escludere l’allusione allo spe,rma della donna in Gn 3,15 e magari a una sua interpretazione anche stricto sensu biologica, anche perché non può iniziare in questo contesto la maledizione (cf. e`pikata,ratoj in Gn 1,14.17) universale del peccato sotto il cui potere il tutto è stato rinchiuso dalla Scrittura e che è la motivazione radicale della successiva specificazione della maledizione della legge per il solo Israele. comunicabilità di questa filiazione per promessa con giustizia di grazia e viceversa. In quella donna e solo da lei poteva concepirsi e quindi nascere il Figlio di Dio, che solo della sua unica umanità dotato di tale capacità genetica può servirsi per incarnarsi quale unico discendente abramitico libero per natura. Tale capacità poteva derivare solo per la sua dotazione di filialità completamente ‘libera’ in forza della sola legge non solo poiché non era ancora accessibile per promessa ma soprattutto perché la premessa non sarebbe utile ad abilitarla alla tale sua funzione propria nella giustizia nomologica, poiché dove è la promessa non c’è più la legge. Questa transizione non poteva essere rivolta a lei ma doveva trovare in lei la sua unica possibilità. Se Cristo non fosse il figlio libero a titolo pieno nella carne sotto le condizioni giuridico-legali46, egli sarebbe stato antropologicamente del tutto inconcepibile e tale sua qualità poteva derivargli solo geneticamente. 2.b. Donna ‘concepente’ il Figlio di Dio sotto legge La donna paolina non può non marcare la genesi protologica e nomologica della fase cronologica dell’imminenza della venuta della fede giustificante, fase che coincide con quella finale del tempo della legge stessa. Il divenuto da donna nella condizione di figlio geneticamente e nomologicamente libero, quale israelita e simultaneamente Figlio di Dio, esigeva la necessità che questa stessa donna a sua volta dovesse essere immancabilmente relazionata in modo singolare alla legge. Paolo, in base a tutto il suo discorso appena articolato in analogia a una qualsiasi procedura giuridico-testamentaria e in vista dell’allegoresi che sta per offrire, non poteva non intendere che il nato da donna e Figlio di Dio avesse ricevuto vita da figlio abramitico libero, cioè figlio secondo Isacco, non però da promessa ma solo da legge. Tale sua filiazione naturalmente e legalmente israelitica è consumata completamene nella sua vita umana di giustizia solo perché è potuto divenire esclusivamente da colei che analogicamente doveva essere naturalmente giusta anch’essa sotto legge e quindi figlia libera di Abramo secondo carne, altrimenti nulla di quanto tematizzato sarebbe nemmeno potuto progettarsi. La giustizia naturalmente trasmissibile non è compatibile con nessun’altra forma se non in quella integralmente fisico-antropica nel modo in cui nomologicamente è stato fissato e regolato in accordo con il senso delle promesse. Nell’istante in cui il Figlio di Dio viene concepito non può non essere simultaneamente nello stesso istante il figlio di Abramo secondo Isacco ma da legge, poiché non gli si può assolutamente imputare una qualche condizione di schiavitù filiale. Questa stessa qualità fisico-genetica non può non appartenere in tutto e per tutto anche alla sua concepente verginale e sotto legge in pieno rispetto della sua giustizia che in lei doveva essere integrità di vita di israelita figlia libera indipendentemente dalla giustizia per promessa e quindi dalle condizioni testamentarie di questa che anche per lei come per il Figlio non potevano affatto valere. Senza una tale imprescindibile sua incompatibiltà a divenire giustificata da ingiustizia contratta la donna in questione avrebbe dovuto generare solo alla maniera di Agar come tutte le altre israelite e come a queste anche a lei sarebbe stato impossibile concepire l’Incarnantesi che non poteva ricevere carnalmente nulla da schiava secondo Ismaele. La giustificazione da fede, ammesso che fosse stata possibile anche dal punto di vista cronologico, per la madre del Figlio di Dio non sarebbe servita a nulla in proposito, poiché chi è giusto da fede non può generare 46 Cf. la specificazione di Gal 5,1 in cui si afferma che la liberazione universale, inerente alla discendenza abramitica, è avvenuta th/ evleuqeri,a| (dativo strumentale) senza la libertà del liberatore non sarebbe stata possibile nessuna liberazione. fisicamente un figlio giusto, anche perché non si può essere costitutivamente e ipso facto esenti da colpa (Gal 6,1), come già accennato per la genitorialità fisica di Abramo. Il concepimento verginale assolutamente necessario47 non era da solo sufficiente a spiegare una tale nascita ‘teandrica’ nel regime nomologico nel quale solo si doveva. Il fatto che si dica divenuto da donna, allude solo in parte al processo concezionale e differisce irriducibilmente da qualsiasi altro processo prodigioso concernente sempre e solo madri sterili, come Paolo stesso riferisce di Sara con la citazione isaiana in Gal 4,27. Si trattava di concepire in modo del tutto imparagonabile l’autofecondantesi dal solo ‘seme’ della fertile genitrice48 che da sola doveva dare vita umana al Rilasciato a incarnarsi, a un uomo che a partire del primo istante di concepito conservasse fisicamente la pienezza divina. Il concorso di un qualsiasi seme maschile avrebbe impedito fisicamente l’origine anche necessariamente divina di quest’uomo. Dall’umanità verginale della donna il Figlio di Dio incarnandosi crea e fisicamente forma una individualità ‘creaturale’ assumendola, cioè fondendosi e identificandosi con essa. Nell’attimo in cui si compie il fenomeno del suo concepimento umano l’Incarnantesi e l’Incarnato si devono identificare reciprocamente in forma assoluta, devoni risultare un’unica ipostatizzazione personificata distinta e inconfondibile dell’unione della duplice perfezione di Figlio di Dio e di nato da donna. Nel momento in cui il Figlio di Dio si inserisce come tale nel materiale gametico della donna , si fonde con la fisicità umana in virtù della propria potenza incarnazionistica e la fecondabilità riproduttiva di lei, produce se stesso dal quel ‘preciso’ materiale cellulare esclusivamente femminile, l’unico capace fisicamente di concepirlo biologicamente uomo giusto da legge. Colei che lo riceve in tutta la sua realtà di Figlio di Dio in questo stesso materiale cellulare, ne riceve a sua volta la potenza fecondatrice con cui essa lo può concepire e procreare (generare) come un individuo qualsiasi a partire dalla sua primissima forma embrionale. Il Figlio di Dio per incarnarsi non può servirsi di una riproduzione gametica completa, di una sua conformazione già fecondata, anche preformata nello stesso istante della sua Incarnazione, cioè di un concepimento umano che non coincida in tutto e per tutto con la sua stessa Incarnazione e si attivi solo in virtù di essa. Il Figlio di Dio nel identificarsi nella sua interezza divina con un preciso uovo maturo della suddetta donna concorre divinamente alla sua procreazione umana fisica ipostatizzandosi con lo stesso principio genetico della sua concepente. Una fecondazione spermatica simultanea avrebbe reso impossibile al Figlio di Dio di divenire un essere umano per la compresenza di un concepito pienamente e individualmente autonomo e ontologico separato da lui. In tal modo mostruosamente si sarebbe dato un uomo in cui 47 Secondo la nozione pseudoscientifica antica, si supponeva l’esistenza di un qualche sperma femminile (in genere identificato con il sangue mestruale) e attivo riproduttivamente. Nonostante l’obiezione di Aristotele motivata sulla incompatibilità di due secrezioni spermatiche per un unico atto procreativo, Ippocrate e soprattutto Galeno esprimono una posizione mediana consistente nell’assegnare la funzione di coadiuvante all’apporto femminile e di solo principio attivo all’elemento maschile - cf. ad es. GALENO, Microtegni seu De spermate, a cura di V. Passalacqua, Istituto di Storia della medicina dell’Univ. di Roma (Roma 1958). Tuttavia, dal punto di vista linguistico, anche in ambito medico, b b il verbo sullamba,nein - lat. concipere (cum + capere) - (cf. Aristotele, Hist. Animal. 583 29, Generat. Animal. 727 8 e soprattutto Ippocrate, Aph. 5,446 evn gastri, ; ID., Steril. 220 sullabou/sa th.n gonh,n ) indica l’azione concepente femminile, come recepisce chiaramente la LXX (v. Gn 4,17.25) e Luca registra nell’annunciazione (1,31) e di nuovo senza ripetere evn gastri, nell’annuncio a Zaccaria che anche Elisabetta “ha concepito” supponendo la sua fecondazione poiché si specifica che lei gli genererà un figlio (1,13). 48 Sara partorisce ad Abramo Isacco, il quale è figlio biologicamente inteso in tutto e per tutto di Abramo (Gn 21,1ss); per la nascita di Samuele è detto espressamente l’atto sessuale (1Sam 1,19-20), mentre non è chiarito per il concepimento di Sansone (Gdc 13,1ss); quanto a Giovanni Battista v. fine nota precedente. si sarebbe dovuto incarnare il Figlio di Dio e non uno uomo che è il Figlio di Dio con le necessarie identità e unità ontologiche ‘teandriche’. Oppure la donna avrebbe dovuta concepire ibridamente o del tutto paradossalmente con uno stesso ovulo due embrioni umani reciprocamente originali (gemellari), uno per l’attività riproduttiva di un uomo e l’altro per la potenza incarnazionistica del Figlio di Dio. La potenza incarnazionistica non può avere però in tal modo una funzione suppletiva o sostitutiva di quella spermatica maschile, ‘procreante’ in se stesso o addirittura creante un seme maschile all’occorrenza, che incorrerebbe nelle medesime assurdità di un qualsiasi concorso maschile, ma fa attivare in se stesso e al contempo rende attiva la sola cellula gametica della donna feconda e così fecondata viene geneticamente abilitata a concepire umanamente lo stesso Figlio di Dio. Infatti, il Figlio concentrandosi interamente nella cellula riproduttiva e gametica della donna e identificandosi totalmente con essa non può non essere anche fecondante questo preciso ovulo da cui lo zigote appena formato deve essere realmente e carnalmente in tutto e per tutto il Figlio di Dio il quale solo così può ricevere il suo primo istante di vita umana secondo la comune tipologia embrionale. Questa stessa obbligata generazione fisica doveva essere compatibile completamene con la libertà legale, cioè la totale esenzione dalla universale situazione hamartiologica (Gal 3,22) e dal punto di vista nomologico la totale esenzione di minorità. La donna da cui tale discendente abramitico ma al contempo divino, non poteva non essere creata e procreata in qualche modo parimenti secondo la libertà filiale abramitica sotto legge e rispetto alla sudditanza hamartiologica universale in modo da poter ricevere vita di giustizia esclusivamente da legge. La donna nella pienezza del tempo rappresentava l’unica matrice umana della benedizione abramitica e della imminente alleanza allegorizzata in Sara. E’ la legge che legalizza e così rende realizzabile il fondamento della discendenza cristologica e quindi la sua promessa, e solo la donna da cui diviene il Figlio di Dio, lo poteva far nascerne nella legalità e nella realtà fisico-genealogica in sintonia della libertà naturale della discendenza carnale dal seme abramitico. Per una tale generazione era assolutamente necessaria una israelita libera non solo allegoricamente, come Sara (dall’utero morto49), ma secondo il principio fisico-genetico armonizzato con la giusta istanza nomologica (Sara non è nemmeno allegoricamente figlia di Abramo). La sola figlia abramitica libera secondo carne (con l’utero fisiologicamente vivo e intatto) rappresenta la legittimazione della legge stessa che è stata data per il fine cristologico, che proprio per lei si impedisce alla la legge di contraddire e quindi di non essere messa in condizione di contraddire se stessa illegalmente, poiché sarebbe stata costretta senza la sua configurazione propria mariologica a sospendere la propria legittimità in vista della funzione di convalidazione in merito alle clausole testamentarie delle promesse che pertanto sarebbero rimaste vuote e irrealizzabili anche cristologicamente. La donna “concepente” il Figlio di Dio deve realizzare la giustizia perché potessero realizzabili cristologicamente le promesse e compiersi così la giustizia stessa della legge. L’unico Israelita giusto e libero per natura da opere nomologiche non poteva concepirsi umanamente se non da una concepente a lui omologata in tale senso con una creazione e concepimento privi di condizione fisico-nomologica di paidi,skh secondo la allegoria di Agar la quale non è nemmeno di origine israelitica (Gal 4,24), anche se il suo figlio da Abramo lo è a pieno titolo. Non era risolutiva la liberazione del Figlio dalla schiavitù carnale, se la sua genitrice fosse una comune paidi,skh israelitica nell’istante in cui lo concepisce verginalmente, perché avrebbe comunque richiesto una atto di grazia che rendesse libero il concepito secondo carne, atto che sarebbe stato incompatibile 49 Cf. Rm 4,19. con il suo concepimento naturale in stato di giustizia completa. il Figlio di Dio non può essere suscettibile a ricevere la giustizia genetico-protologica per mezzo della grazia perché avrebbe avuto bisogno di una qualche forma di liberazione che nessuno e nulla avrebbe potuto determinare per lui. Attribuire concezionalmente la giustizia al Figlio di Dio e non riceverla per natura avrebbero richiesto un atto di affrancamento individuale dalla ingiustizia in cui altrimenti sarebbe dovuto essere concepito, e avrebbe compromesso irrimediabilmente la giustizia e per sempre ogni sua forma di possibilità di realizzazione. Per questo egli deve vivere da vivere per poter divenire l’unico liberatore dalla ingiustizia nomologicamente inflitta ai suoi connazionali. Il Figlio di Dio nella sua umanità non può mai essere un generato liber(at)o per concepimento da schiava come anche non può essere un generato per concepimento da libera(ta), ma solo generato libero (non liberabile) per concepimento da libera(ta). Che Maria dovesse essere una e unica concepita nella libertà filiale abramitica (e quindi ricevere la figliolanza divina piena) per natura da legge e non essere mai suscettibile di attribuzione della giustizia per fede, è una condizione inobiettabile e fisiologicamente strutturale alla realtà teologica stessa. Paolo con l’allusione anonima non può non sottendere la libertà filiale per il concepimento e quindi la nascita della sua futura concepente e generante la cui giustizia non poteva originarsi per pisteologica attribuzione, poiché la giustizia da fede per promessa vale per sé e non può conseguirsi geneticamente e ‘gameticamente’, come deve essere per lei. Questa condizione genetico-antropologica assolutamente irrinunciabile50 di lei poteva soddisfarsi solo se si fosse attivata una nuova speciale determinazione protologica che completasse la giustizia prelapsaria ma anche nomologicamente adeguata a motivo dello stato harmatologico universale a cui la legge aveva giustamente e necessariamente impresso una ‘curvatura’ etnico-giuridico e di alleanza nella schiavitù. La creazione e procreazione della donna quale israelita filialmente libera, mai soggetta quindi alla genetica e universale condizione postlapsaria e quindi alle sue conseguenze nomologiche di maledizione, comporta l’azione di grazia in sé derivante dalla promessa abramitica (Gal 3,18b) che quindi Abramo può ricevere solo da fede, Maria deve ricevere solo concezionalmente e antropologicamente e Cristo, essendo non originariamente liberabile da grazia alcuna, non può mai ricevere in nessun modo, altrimenti l’intera Scrittura sarebbe stata destituita paradossalmente di qualsiasi fondamento. L’unico possibile agente della grazia è proprio il singolare uomo concepito eccezionalmente da sola donna singolare poiché costui deve produrre la suddetta grazia naturalmente durante la sua esistenza terrena e la deve rendere trasmissibile per fede (l’Incarnazione non è solo un divenire carne per il Figlio di Dio, ma anche e soprattutto un divenire carne di grazia, carne idonea a produrre grazia, quindi carne graziante perché la giustizia potesse essere realizzata effettivamente e comunicata universalmente). Si doveva costituire il seme di Abramo idoneo a concepire il suo unico Libero (Figlio) per natura e perciò universalmente liberante, che doveva valere solo geneticamente per la madre. Questa libertà cristologica liberatrice doveva valere individualmente per la madre solo come grazia di genesi, di quella genesi che doveva concepire e generare quella stessa libertà nel suo concepito perché potesse essere comunicata naturalmente e per la giustizia da legge allo stesso suo figlio. Senza tale libertà filiale geneticamente costitutiva la donna non potrebbe al limite e inutilmente qualificarsi libera se non per allegoria, come la stessa Sara e lo stesso seme di Abramo per Isacco 50 L’unico testo neotestamentario in cui si parla della fede o dell’aver creduto di Maria è Lc 1,45 che trova parallelo negativo in Zaccaria (Lc 1,20). Questo credere totalmente individuale non è per la non computazione dell’empietà a chi la compie, ma è di tipo cognitivo, contemplativo e soprattutto vocazionale circa l’apocalissi del mistero di Dio. secondo carne (inidoneo a procreare nella libertà), e oltre a tutte le inconvenienze su accennate, e per lei sarebbe assurdo concepire solo allegoricamente come libera poiché ciò non avrebbe avuto nessun senso, nemmeno per allegoria. Per procreare colui che la feconda per essere procreato solo da lei, lei avrebbe avuto bisogno della liberazione posteriore al suo stesso concepimento e ancor di più non avrebbe potuto effettivamente prestare la sua carne di figlia libera per tal processo, perché avrebbe dovuto assurdamente concepire sempre e comunque con l’ipoteca harmartiologica che la legge non avrebbe potuto non infliggere anche a lei e ancora di più il suo generato sarebbe potuto essere solo un eventuale liberabile. Il processo concezionale o procreativo nel quale la Donna viene concepita, è da uomo in tutto e per tutto uguale a qualsiasi altro; ma questo evento doveva coincidere anche con l’inizio della fine del tempo legale per l’imminenza della pienezza del tempo che segna la fine alla minorità filiale sotto legge e insieme origina la liberazione da essa per la grazia della promessa, realizzando la benedizione universale di fede, che solo a lei era stata conferita geneticamente e legalmente per grazia in virtù della promessa. Si doveva permettere per lei e in lei la vita da legge per natura in accordo con la promessa abramitica da cui si traeva la singolare grazia per tale liberazione originaria, originale e individuale che la legge da sola per sua definizione non poteva conferire quanto a giustizia. La grazia per promessa che ad Abramo fu conferita in virtù del suo credere, a Maria viene conferita in virtù della sua futura maternità, quindi geneticamente. Nella Donna confluiva così armoniosamente e liberamente, il binomio promessa-legge, per cui la grazia della promessa rendeva singolarmente possibile la giustificazione da legge in lei nella quale per la sua intera esistenza creaturale e terrena si doveva registrare sempre nomologicamente compiuta la giustizia, a differenza di tutti gli altri discendenti etnico-carnali di Abramo (Gal 3,21). Infatti se Maria è stata sempre e totalmente capace di essere giusta da legge per la grazia protologicamente ricevuta, che il parto del suo primogenito viene ad attestare inequivocabilmente e la rivelava in tutto e per tutto la solo integralmente graziata per essere stata concepita nella giustizia come nessun altro. Sembra davvero illogico e inattendibile che questo suo stato che doveva rimanere tale fino al parto del suo Primogenito, venisse meno in qualche modo o in qualche tempo dopo il parto divino, anche e soprattutto perché non sarebbe stato possibile un’appropriata ulteriore azione liberatrice e in questo caso anche necessariamente giustificativa, poiché la legge nella sua codificazione nomologica solo per lei avrebbe dovuto registrare una destituzione dalla sua stessa giustizia che l’avrebbe posta in una decadenza dal suo personale stato di grazia e quindi di maledizione per cui nulla avrebbe più potuto la promessa cristologica e quindi a nulla sarebbe valso l’essere divenuto maledizione dello stesso Figlio. Per lei, se si fossero assurdamente realizzate tali condizioni, non sarebbe più attivabile nessuna grazia poiché non sarebbe potuta essere formula nessun’altra forma di promessa né di legge e quelle che valevano erano nulle per lei in qualsiasi condizione esistenziale in cui si trovava51. Maria, anche da questo punto di vista personale, è in se stessa e per se stessa la sola che serva (a) Dio perché non appaia impotente e inadempiente secondo le sue stesse divine promesse e soprattutto secondo la sua legge emanata sul Sinai, poiché Dio aveva proevagelizzato che la divina ‘carne’ non era concepibile se non dall’unica carne protologicamente concepita come 51 Una simile dimensione dovrebbe rendere assurda l’ipotesi di un altro o altri parti di Maria da Giuseppe perché l’eventuale concepito sarebbe naturalmente libero (per parte di madre) e al contempo naturalmente schiavo (per parte di padre), ma anche Maria non avrebbe potuto concepire del tutto come libera anche se si fosse prospettato un uomo concepito per grazia libero perché si sarebbe suscitata una discendenza naturalmente libera parallela a quella giustificata per fede. Era indispensabile e prevedibile che Maria fosse eccezionalmente la sola primipara verginale del suo Primogenito e quindi suo Unigenito. liberata per la grazia della promessa e quindi sempre libera per la legge della discendente di Abramo che doveva essere creata come l’unica effettiva e totale ‘genesi’ umana possibile per concepire l’altra ‘carne’ solo giusta che divinamente rendesse produttiva e efficace la stessa grazia per la giustizia da fede.