La Donna di Gal 4,4. Un`eco sintetica di una

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La Donna di Gal 4,4. Un`eco sintetica di una
La Donna di Gal 4,4. Un’eco sintetica di una mariologia completa
Premessa
Esclusi i Vangeli, l’allusione mariologica in Gal 4,4 - indubbiamente da ritenersi una specie di
hapax neotestamentario, mentre alla figura di Giuseppe non si dedica nemmeno una simile
eccezione1 - è generalmente interpretata come segno di arcaicità teologica o addirittura di
indifferenza anche di Paolo stesso verso l’identità anagrafica e individuale di Maria. La suddetta
allusione paolina, a prima vista solo ‘anonima’2, è il testo mariologico più antico e non può non
condensare in sé la testimonianza di un contenuto essenziale che Paolo stesso ha ricevuto (secondo
il vangelo di Cristo – Gal 1,7) e che egli ora epistolograficamente contestualizza3 all’interno della
sua lettera per quel che va brevemente rievocato. Persino l’espressione dell’anonimato ricerva
velatamente non una mancanza di riflessione ma magari proprio venerazione verso colei che dà
nascita umana al Figlio di Dio, e enfatizza per la precisazione singolarmente una rilevanza di storia
della salvezza già tutta previamente puntualizzata nella ‘legge’. Gal 4,4 cade all’incirca a metà della
serrata e complessa ma anche dialetticamente ineccepibile discussione che occupa i ventotto versetti
del cap. 3 e i trentuno del 4, il corpus epistolare intorno alla decisiva e nevralgica questione della
giustificazione, strategicamente puntellato sulla grafh, con le sue uniche tre occorrenze secondo la
sequenza contestuale della proevangelizzazione a Abramo (Gal 3,9), della universale condizione
hamartiologica (3,22) e dell’allegoresi di Ismaele e Isacco per il rapporto attuale tra i figli della
1
La communis opinio esegetica su Gal 4,4 è che si tratti di sintesi cristologica, da cui si procede con l’analisi del suo
influsso teologico nella patrologia fino al concilio di Efeso in L. F. Mateo-Sec, “’Enviò Dios a su Hijo, nacido de
mujer’ (Gàlatas 4,4 en el pensamiento patristico anteriore al Concilio de Éfeso), ScriptTheol 32 (1, ’00) 13-46. Cf.
anche Ortensio Ds Spineroli, Maria nella Bibbia, Roma, 1964; A. Valentini, “1.1. I testi mariani di Paolo, Marco,
Matteo e Luca 1,46-55”, in Storia della mariologia. Dal modello biblico al modello letterario, cur. E. Dal Cavolo e A.
Serra, Roma, 2007, 29-35 e ID, “Nato da Donna” in Maria secondo le scritture. Figlia di Sion e Madre del Signore,
Bologna, 2008, 29-38.
2
V. Giuseppe Barbaglio, Lettere di Paolo, II (Roma 1980) 9-167; ID., La Teologia di Paolo. Abbozzi in forma
epistolare (Bologna 1999); A. Pitta, Lettera ai Galati. Introduzione, versione e commento (Bologna 1996). A. Vanhoye,
Lettera ai Galati. Nuova versione, introduzione e commento (Milano, 2000), per citare solo alcuni e ovviamente per
un’ulteriore bibliografia si rinvia ad essi.
3
Non si tratta di esclusione dei ‘familiari’ di Gesù di Nazareth, nemmeno materiale per una concentrazione kerigmatica
sulla morte e la resurrezione del Figlio di Dio – cf. A. Vanhoye, “La mère du Fils de Dieu selon Ga 4,4”, in Mar
40(1978), 247 -, poiché non solo il kerigma implicava inevitabilmente il divenire (il venire ad essere) uomo (mortale) e
in un modo del tutto peculiare, ma di non impellenza letteraria perché le comunità non solo sono ‘kerigmatizzate’, ma
già catechizzate, altrimenti non si potrebbe intervenire dogmaticamente contro deviazioni dottrinali, ma al limite solo
kerigmaticamente. Nemmeno la mariologia di Gal 4,4 si può definire secondo il seguente titolo “Galati 4, 4: una
mariologia in germe”, di A. Serra (cf. Theotokos 1 (1993), 7-25) sulla falsariga della visione dell’ ”inizio” dogmatico
dell’ “aggancio della mariologia con la cristologia”, che l’allusione paolina conterrebbe – cf. G. Söll, Storia dei dogmi
mariani, Roma 1981, 31. Se è vero, come è vero, che “Effettivamente il testo di Galati presenta una sintesi teologica
notevole, di tale intensità da orientare efficacemente la mariologia di ogni tempo” - v. Valentini, “1.1. I testi …, cit.,
29, - non può trattarsi di una prospettiva germinale, ma di una mariologia completa e lungamente meditata, già
oralmente esposta in modo particolare e per tanto accennata solo laconicamente e rievocativamente. Anche in Gal 4,2228 tutti i personaggi si citano anonimamente, ad eccezione di Agar per una chiara motivazione etimologica e Isacco per
una motivazione teologica. L’allusione anonima della donna da cui diviene il Figlio di Dio, dovrebbe nascondere un
sentimento di venerazione verso l’Anonima menzionata piuttosto che la citazione di un dettaglio cristologico solo
iniziale.
Gerusalemme di ora e quelli della Gerusalemme di lassù (4,30). La centralità materiale della
menzione della nascita umana del Figlio di Dio da donna rappresenta il punto fondante e il nodo di
raccordo indispensabile dell’intera struttura epistolare ma anche della stessa prova biblica della sua
tematica che cioè si è giusti solo da fede, non generica, ma cristologicamente determinata e quindi
mariologicamente originata.
1. L’unica giustizia da fede e da legge.
Nella sezione di Gal 3,1-4,7, generalmente ritenuta seconda, l’apparente opposizione tra l’avkoh.
pi,stewj (3,2b) e l’avkou,ete to.n no,mon (Gal 4,21), su cui i Galati avno,htoi 4 si stanno facendo trarre in
inganno da suggestioni basate sulla supposizione che la giustizia è da opere di legge5, sarà
inequivocabilmente chiarita come necessaria e sostanziale convergenza benché ineludibilmente
espressa con le diverse categorie a seconda che si tratti dell’uno o l’altro tipo di ascolto6.
Paolo descrive l’incompatibilità tra fede e legge in ordine al conseguimento della giustizia, poiché
le richieste prescrittive e normative della seconda sono esclusivamente oggetto di pratica e non
possono essere finalizzate a essere credute. Chi è giusto per e davanti a legge, dipende dal completo
e indefettibile adempimento di tutto ciò che vi è ordinato di fare. Credere alla legge e non praticarla
è perfettamente inutile e il non praticarla significa incorrere nella sua maledizione poiché vive da
ingiusto chi “non rimane in tutte le cose scritte nel libro della Legge, a farle” 7, cioè non si mantiene
nella pratica ininterrotta e completa delle prescrizioni (del libro) della Legge. Tale modalità
nomologica di vivere la giustizia e quindi riceverne la giustificazione è assolutamente preclusa a
4
Gal 3,1.3. L’apostrofazione avno,htoi richiama il nou/j (cf. ad es. Rm 1,20).
5
(Gal 3,2). Lo stupore velato di sarcasmo per questo regresso giudaizzante dei Galati nasconde l’allusione a
una qualche intensità e anche una certa compiutezza dottrinali già esposte, che ora vengono solo rievocate e
di nuovo provate. L’antitesi spirito-carne si verifica laddove si interpreta il dato scritturistico su categorie
puramente umane come si accennerà in Gal 5,13-26. Cf. D. R. Landay, “Works of Law, Hearing of faith and
Pi,stij Cristou/ in Galatians 2:16-3:5”, Stone-Campbell Journal 3 (1, ’00) 19-88.
6
Sembra che Paolo ‘giochi’ con il termine no,moj per la sua duttilità polisemica nonostante la quale si riserva
tendenzialmente una distinzione sintattica con riflesso semantico attraverso l’uso articolato o meno. Infatti, la presenza
dell’articolo specifica il lemma piuttosto nel significato di Pentateuco (a partire da Gal 3,10); la sua assenza invece
indica piuttosto il riflesso legale del patto sinaitico limitatamente alle sue clausole prescrittive (cf. Gal 3,11.18) per la
loro pratica, specialmente con la famosa formula “opere di legge”, sempre senza articolo e reperibile solo nel secondo e
terzo capitolo ( Gal 2,16; 3,2.5.10), anche se nonostante l’articolo tale senso è chiaro in Gal 3,17.19.21. L’accezione
generale o più larga di no,moj è quasi unica nel NT (completamente assente in Marco) e nell’epistolario autentico
paolino il numero maggiore delle sue occorrenze si trova proprio in Romani e Galati e ancora solo in 1Cor 9,3.9.20 3x;
14,21.34; 15,56, Fil 3,5.6.9, mentre in quello pseudoepigrafico il maggior numero ricorre in Ebrei e ancora solo in Ef
2,15 e in 1Tm 1,8.9; nel resto del NT, oltre a Atti, si trova solo in Gc 1,25; 2,3.8.9.10.11.12 e 4,11. E’ da rilevare che il
lemma in questione è a volte preceduto o seguito da profh,tai presente da solo o meno con una frequenza davvero
cospicua nei vangeli (anche solo al singolare), incluse le cinque occorrenze marciane (ovviamente senza l’altro lemma,
cf. Mc 1,2: 6,4.15; 8,28; 11,32), e in Atti, mentre nell’epistolario autentico paolino è del tutto assente in Galati contro le
tre sole occorrenze di Romani (1,2; 3,21; 11,3) oltre a 1Cor 12,28.29;14,29.37 e 1Ts 2,15; nell’epistolario paolino
pseudoepigrafico è reperibile in Ef 2,20; 3,5; 4,11, Tt 2,15 e Eb 1,1; 11,52; nel resto del NT invece Gc 5,10, 1Pt 1,10,
2Pt 2,16; 3,2 e diverse volte nell’Apocalissi.
7
Il genitivo tou/ poih/sai auvta,, generalmente inteso come di scopo, ha più senso se si recepisce come di contenuto,
poiché il rimanere in tutte le condizioni legislative consiste proprio nell’adempierle tutte praticamente, per cui tale
adempimento che non può essere mancante in nulla, non è il fine ma la precondizione assoluta per non ricevere la
maledizione della legge.
quanti sono sotto legge, cioè agli appartenenti del popolo ebraico, poiché anche essi sono rinchiusi
sotto il regime universale del peccato (Gal 3,22). La legge da loro ricevuta, per tanto, non ha lo
scopo di essere praticata, ma di essere permanentemente e imprescindibilmente connessa con la
proevangelizzazione ad Abramo (Gal 3,8), e concorda contenutisticamente con l’ascolto di fede
(Gal 3,7). Infatti la sentenza della legge che evn no,mw| ouvdei.j dikaiou/tai para. tw/| qew/| è
dogmaticamente inoppugnabile (dh/lon) anche per la dichiarazione profetica (Ab 2,4) che connota il
giusto chi vive da fede (Gal 3,11), confermata ancora in termini prescrittivi dalla legge stessa (Lv
18,5), come già biblicamente si era rievocato inGal 2,16 con l’allusione al Sal 143,2. Per la
soggezione universale harmatiologica la legge non ha potuto fare altro che applicare le conseguenze
peculiari di maledizione a quanti l’hanno dovuta ricevere (il popolo ebraico), come si premette con
la citazione deuteronomistica (Gal 3,10). Questa operazione ermeneutica paolina che occupa Gal
3,10-12 in cui non a caso solo alla fine compare il lemma ev paggeli,a, è finemente costruita su
parallelismi testuali per rimarcare che la netta distinzione tra il dominio della legge (di maledizione)
e il dominio della fede non può rimanere in una condizione di assoluta irriducibilità. Come è stato
paradigmaticamente ed eccezionalmente proevangelizzato a e in Abramo, definito 
,(Gal 3,68), che in qualità di archetipo unico veterotestamentario di giusto per aver creduto a Dio, si deve
prevedere la rimozione dell’impasse della inevitabile maledizione nomologica per permettere la
filiazione abramitica universale secondo la previsione scritturistica (Gal 3,7). La necessita della
promulgazione della legge è necessaria proprio perché essa sola può mantere in vita la giustizia
sulla terra pur conferendo la debita maledizione a quanti la ricevono, anzi in questo preciso atto
quanto sarebbe rimasto esclusivamente e irreversibilmente ingiusto, trova la prima sua
imprescindibile determinazione congrua e assolutamente giusta che si presenta come unico primo
necessario mezzo soteriologicamente disponibile nella giustizia e per la giustizia medesima.
In questa prospettiva antitetica di legge giusta e giustificante e il popolo ingiusto e maledetto che
essa deve proclamare necessariamente come tale a motivo delle trasgressioni (Gal 3,19), altrimenti
si falsificherebbe, l’unica soluzione è la possibilità cristologica, come immediatamente si esplicita
in Gal 3,13, e quindi la consequenziale attuazione della giustizia pisteica per cui si richiama nel
versetto successivo Abramo in modo da profilarsi un’inclusio con Gal 3,6. In merito all’impasse
antitetico tra maledizione nomologica e benedizione abramitica, l’azione soteriologica non può che
essere significata con il verbo evxagora,zein particolarmente eloquente e alquanto singolare,
completamente assente nel resto del NT e rarissimo in tutta la letteratura greca in genere,
specialmente nel senso di riscattare che rievoca l’affrancamento degli schiavi dietro pagamento8.
8
Benché sia da ritenere che il verbo venisse impiegato comunemente e molto frequentemente nell’ambiente del
commercio degli schiavi, la sua costruzione con evk, da quanto risulta dalle poche occorrenze letterarie pervenute, è
esclusiva di Gal 3,12, suffragando che il noi concernente l’oggetto del riscatto in Gal 4,5 è denominato tou.j u`po. no,mon,
cioè i Giudei che sono definiti schiavi per l’ipoteca della situazione non legalmente libera – cf. Rm 3,19 in cui il
dimostrativo in toi/j evn tw/| no,mw è interpretato come maschile plurale e quindi come se fosse riferito ai Giudei, invece si
dovrebbe intendere come neutro plurale con valore strumentale in modo da indicare “con quelle cose (affermazioni o
sentenze) [scritte] nella Legge”, poiché si evince che non si tratta di alludere ai Giudei (cf. 1Cor 14,21 l’unica altra
volta in cui Paolo impiega il termine con l’articolo nella formula con evn dopo 1Cor 9,9 in cui si specifica però “di
Mosé”); si noti che in Galati tre volte si usa il termine con la preposizione evn senza articolo e sempre in relazione alla
giustificazione nomologica appunto (Gal 3,11.21; 5,4; cf. anche l’unica occorrenza in Fil 3,6). Le altre due occorrenze
di Ef 5,16 e Col 4,5 sono riferite al “tempo” (kairo,j) e corrispondono all’unica dei LXX in Dn 2,8, per cui il solo
parallelo con l’uso di Galati è rintracciabile in Diodoro Siculo (I sec. a. C. circa) che racconta il pagamento del riscatto
di una schiava (Biblioth. Histor. XXXVI 2).
Quest’azione è pertanto diretta esclusivamente ai Giudei, poiché essi soli non potevano essere liberi
dalla maledizione specifica della legge e ancor con più pregnanza la filiazione abramitica. In
Romani si tratta dell’opposizione universale tra peccato e giustizia. In Galati si avverte la necessità
di una contestualizzazione del suddetto binomio oppositivo secondo una precisa angolazione e in
tutte le sue pieghe tipicamente giuridico-legali per enuclearne più spiccatamente la dimensione
filiale o la filiazione circoscritta agli componenti del popolo israelitico, che si contrappone a quella
dei credenti in Cristo o per promessa9. Infatti, il processo giustificativo non poteva non contemplare
la soddisfazione piena e anche la realizzazione perfetta delle prescrizioni nel libro della Legge, che
risultavano così necessarie per l’affrancamento dalla sua maledizione, come prescritto dalla legge
stessa, per cui in assoluto e a priori non può essere accessibile nessun’altra giustizia se non “da
opere di legge” o intrinsecamente collegata nel modo nomologicamente dovuto a tali opere. Non
può esistere nessuna giustizia vera e propria per il genere umano se non quella formalizzata nella
Legge medesima che non può rimanere permanentemente disattesa e che deve pienamente
coincidere con quella stessa attribuita ad Abramo mediante il suo credere a Dio 10 per la chiara
previsione scritturistica e la sua proevangelizzazione rivolta a lui. Le trasgressioni definite come
causa della redazione nomologica sinaitica (Gal 3,19) non possono valutarsi come mere violazioni
delle prescrizioni stesse, anche se la loro legale imputazione è legittimabile solo a partire da quando
è redatto il codice sinaitico11 , concorde secondo le sue modalità con le promesse (Gal 3,21) come
premesso nella pericope precedente (Gal 3,15-18). Il movente ultimo della formulazione delle
promesse e della redazione della legge è individuato scritturisticamente nella condizione di peccato
universale (Gal 3,22) in modo da creare un’inclusio con Gal 3,6 12.
Tutto questo discorso imbastito con categorie giuridiche si innesta biblicamente in una prospettiva
e al contempo previsione cristologiche concernenti la discendenza promessa e pertanto
assolutamente inconcepibili in mancanza della piena attuazione della giustizia sinaiticamente
codificata che ha la funzione principale di costituire legittimamente e geneticamente la filiazione
abramitica etnica (e di Cristo stesso) al fine di predisporre la giustizia alla finalità propria dalla
proposta promessa e che la promessa da sola non sarebbe idonea a garantire o a comunicare. Alla
discendenza promessa non poteva mancare la giustizia che solo la legge era in grado di determinare
e assicurare all’interno del popolo ebraico prima e in vista della venuta della fede.
L’azione del riscatto giudaico è ripetuto con lo stesso verbo ancora una volta in Gal 4,5 per una
sua ulteriore precisazione imprescindibile e così preparare in qualche modo la ripresa ermeneutica
allegorica della duplice filiazione abramitica (Gal 4,21ss), che trova fondamento reale solo nella
disposizione sinaitica (Gal 3,17ss), la quale a sua volta esige inevitabilmente il compimento
temporale della rivelazione della fede e quindi del compimento del riscatto stesso che lo determina,
9
In Romani il linguaggio è meno improntato giuridicamente ed è piuttosto cultuale - cf. Rm 3,21-26, in cui per l’unica
volta si definisce Cristo come i`lasth,rion di Dio – il termine ricorre nel NT ancora solo in Eb 9,3.
10
Rm 9,31.
11
La tematica teologica è sostanzialmente identica con Rm 5,13-14. E’ la legge che rappresenta l’unico rimedio giusto
e imprescindibile alle trasgressioni e quindi al peccato dominante su tutto, perché ristabilisce la giustizia altrimenti non
più attivabile riguardo all’umanità e rende proponibili e logiche le premesse veterotestamentarie.
12
Non pare prospettata in Galati la nozione di funzione gnoseologica che si conferisce alla legge in riferimento al
peccato, come in Rm 3,20; 7,7-13. La cornice delle determinazioni nomologico-testamentarie della filiazione abramitica
che Dio pienamente assume da uno stesso orizzonte meramente giuridico (cf. la non sottovalutabile premessa di parlare
kata. a;nqrwpon in Gal 3,15) , senza una valenza di probabilità empirica differenzia le categorie nomologiche di Galati
da quelle più intimamente spirituali e universalizzanti di Romani.
secondo i tempi e le modalità testamentariamente fissati e solo sinaiticamente legittimi
dell’affrancamento di quelli sotto legge, cioè dei figli da serva13 . L’azione riscattatrice in Galati è
rivolta quindi esclusivamente al popolo giudaico, poiché solo i suoi appartenenti potevano incorrere
nella maledizione della legge, maledizione che impediva alla benedizione di Abramo di realizzarsi
nelle nazioni (Gal 3,11) e di includere così tutte le nazioni, come la scrittura aveva proevangelizzato
a lui (Gal 3,8). Infatti l’atto di affrancare “noi” da essa (Gal 3,13) è possibile solo per “quelli sotto
legge” come per l’unica volta si ripete con il verbo in Gal 4,5, al cui versetto precedente si intedente
evidentemente rievocare il contesto cristologico con il duplice impiego di geno,menoj usato una sola
prima in Gal 3,13, come a significare che il suo essere divenuto maledizione dipende
necessariamente dal suo essere nato sia da donna sia sotto legge (qui in Gal 4,4 per la prima volta la
si scrive la formula u`po. no,mon14). La figura cristologica è destinata ad attestare definitivamente con
il compimento della promessa la giustizia da fede che la promessa stessa contiene perché la riceve
esclusivamente dalla legge.
L’assoluta impossibilità di vivere nella giustizia da legge imponeva di conseguenza l’esclusiva
universale possibilità a essere giusto da fede, per la cui produzione si necessita della mediazione
cristologica. Tale produzione richiedeva la realizzazione della giustizia della promessa dalla quale
la fede stessa dipendeva inevitabilmente e quindi includeva sempre obbligatoriamente (legalmente)
l’adempimento della giustizia o la giustificabilità da legge, altrimenti non sarebbe potuta attribuirsi
da fede la giustizia medesima. La legge viene a confermare la promessa in obbligati termini legali e
a fungere da garante unico e indispensabile della giustizia per i soli Giudei che venivano così
dichiarati sotto maledizione (Gal 3,10) potendo essere figli di Abramo solo secondo carne. La
giustizia di legge promulgata è l’unica giustizia possibile per l’unica giustificazione possibile, che la
legge non poteva realizzare universalmente in modo diretto secondo la sua modalità propria, ma che
doveva prestarsi a una modulazione e mediazione in altra via, già preannunciata nella promessa,
cioè potesse attivarsi da fede. La necessità del processo di rimozione legale della maledizione sotto
legge per i vincolati alle sue prescrizioni imponeva la configurazione cristologica, di chi non
maledetto dalla legge sotto di essa, quindi giusto da essa, saldasse sotto di questa stessa (nei suoi
vincoli prescrittivi) il pagamento degli obblighi contratti in essa stessa e la neutralizzasse in sé (la
liquidasse nei termini sanciti e gli unici determinanti in proposito) per svincolare l’unica suddetta
possibile giustizia dalla sua accessibilità ancora unicamente nomologica e modularla indirettamente
per la sua comunicazione pisteologica. Con l’essere divenuto di Cristo stesso maledizione, era
giunta realmente e si mostrava apocalitticamente l’unica assoluta via perché potesse divenire
ricevibile e quindi vivibile la giustizia per tutti.
Il cristologico divenire ‘maledizione’ secondo il preciso ordine legale citato (Dt 21,23), che
prescriveva la condizione di maledetto per chiunque fosse appeso al legno, è un atto di grazia
orientato da e per la giustizia nomologica. Paolo infatti cristologizza la sentenza deuteronomica,
soprattutto perché questa condizione non riguarda personalmente Cristo, ma i Giudei tutti. La
13
In Galati paiono abbastanza chiaramente distinguibili e a seconda del contesto un “noi” ecclesiale che determina la
cancellazione delle loro differenze religiose e etnico-sociali di un ‘noi’ giudaico, che è anche significato con “quelli
sotto legge” (cf. 1Cor 9,20) e un ‘voi’ cristiano, cioè i Galati provenienti dal paganesimo.
14
Paolo non usa mai no,moj con l’articolo quanto è connesso nel caso accusativo con la preposizione u`po,, poiché indica
la dipendenza giuridica concernente le clausole e le prescrizioni per la possibilità della giustificazione nomologica (Gal
4,4.5; 5,18; Rm 6,14.15; 1Cor 9,20); l’unica occorrenza del termine con articolo, però nel caso genitivo, è in Rm 3,21
con la inequivocabile valenza di “la Legge”.
valenza di u`pe.r h`mw/n15 significa in modo più pertinente “riguardo” o “in merito a noi”, poiché i
Giudei sottesi non causano e non possono causare la maledizione che Cristo è divenuto, il quale
pertanto non li sostituisce in forma vicariale o quant’altro, anche se il loro stato di soggezione alla
maledizione derivante dalla legge ne è lo sfondo imprescindibile. Si tratta di un’azione ben precisa
con la quale si pone in essere la cessazione totale della maledizione della legge poiché vengono
annullate le condizioni della sua pendenza giudaica, non in virtù della legge stessa, ma in virtù
dell’essere appeso al legno che lo identifica interamente con la maledizione e con tutta la
maledizione possibile della legge per chi vi dipende. Di conseguenza Cristo appeso al legno non
rappresenta un mero maledetto della legge ma la completa maledizione di questa stessa pendente sui
suoi connazionali. Infatti, a differenza di qualsivoglia giustamente condannato e quindi appeso al
legno che per tanto rimanendo maledetto avrebbe potuto causare la contaminazione della terra di
Israele, come asseriva la Legge (Dt 21,23), Cristo in questa stessa condizione rappresenta il ‘saldo’
della maledizione nella quale si è autotrasformato sottoponendovi ingiustamente, così da
determinare la cessazione di questa stessa giusta condanna nomologica inerente ai Giudei
disattivandola o abrogandola nelle sue giuste esigenze. Cristo fa passare tutta a sé identificandovi la
maledizione che ricevevano i Giudei e ricevono in genere quanti vogliono essere giustificati da
opere di legge, e così può aprire la via pisteica della giustificazione. La realtà della maledizione
legale è esistita finché essa non sia potuta identificarsi con Cristo stesso sul legno. Il divenire
maledizione che concerne quanti dipendono da legge (per la giustificazione), comportava
necessariamente per lui di non averla contratta naturalmente a ogni livello e in nessun caso sotto la
stessa dipendenza legale. Ma questa condizione non poteva essere sufficiente poiché la
trasformazione della maledizione legale in giustificazione da fede comportava necessariamente non
solo la sua propria personale auto trasformazione nella maledizione ma la potenza di Figlio di Dio,
poiché vi si doveva costituire un atto permanente e universale caritologico (benedizione). La
giustizia della maledizione della legge sui Giudei può diventare mezzo e comunicazione di grazia
per la benedizione universale solo perché quel Giudeo che ha potuto abolire in sé la maledizione
nell’essersi reso perfettamente identifico a essa, liberando la stessa giustizia della legge dai sui
termini di maledizione mediante la sua morte sul legno, ma poteva anche e soprattutto rende questa
stessa giustizia non più ricevibile mediante solo opere legali ma applicabile mediante la grazia della
promessa.
1.a. Le promesse in Gal 3,16.
In Gal 3,16 il dato esclusivo del plurale evpaggeli,ai 16, ripetuto solo in Gal 3,21 con il nome divino
filologicamente problematico, è un dato pressoché esclusivo e specifico della lettera in esame17 e
15
Il sintagma succitato si ritrova solo una volta nell’epistolario paolino autentico e cioè in 2Cor 5,21, benché ci si
riferisca al peccato e a Dio che ha reso (epoi,hsen) peccato il Figlio, quel medesimo peccato che riguardava noi, in un
contesto però universalmente hamartiologico che implica un ‘noi’ indicante tutti gli uomini.
16
Poco importa se il testo ebraico sia interpretato secondo l’individualità messianica come già letteralmente in esso
presente – cf. C. J. Collins, “Galatians 3:16: What Kind of Exegete Was Paul”. in TynBull 54 (1, ’03) 75-86 –, o se la
discendenza abramitica sia spirituale o escatologica piuttosto che storica – cf. J. L. Gaballero, “La promessa a Abrahán
según Ga 3, 1-29”, in SciptTheol 36 (1, ’04) 259-272. Indubbiamente si tratta di un passaggio dalla schiavitù alla libertà
secondo l’adozione filiale e l’eredità, ma non si spiega davvero né come né perché – cf. B. D. De Campos Samapio, “O
homem ‘filho e herdeiro’ de Deus. Um estudo sobre Gl 3-4” Annales Theologici 15 (1, ’01) 81-116 –; inoltre la storicità
ne è una condizione essenziale.
non può che indicare una dualità per l’evidenza numerica dei loro destinatari. Se da una parte le
suddette promesse sono mere formulazioni di uno stesso messaggio, cioè la notificazione della
giustificazione per fede; dall’altra parte, la promessa alla sola discendenza abramitica, per la sua
identificazione con Cristo, non è rintracciabile in nessun altro testo paolino18 (e tanto meno
neotestamentario) nemmeno nei passi paralleli di Rm 4,16-18 e 9,7-8 solo perché i contesti e le
articolazione delle stesse tematiche sono diversificate senza potersi affatto sospettare una qualche
autocritica revisionistica per una resipiscenza su a una eventuale ‘spropositata’ forzatura esegetica
anche per il caso dell’applicazione del metodo allegorico al noto passo genesiaco di cui Paolo si
sarebbe successivamente accorto, come si può anche desumere dal linguaggio ‘ebraizzante’ di
Galati certamente per una sua pertinenza semantica più incisiva 19.
In Gal 4,22-26 l’allegoresi, che non compare in nessun altro testo del NT è per un verso preparata
dalla tematizzazione della duplice modalità della giustificazione (da legge o da fede), ma a sua volta
le fonda definitivamente, per dimostrare soprattutto esegeticamente il rischio di un assurdo regresso
che sta per correre (Gal 4,21). L’allegoresi non può valutarsi come una mera aggiunta ulteriore o
una prova collaterale e altra tra le poche o le tante che si sarebbero potuto rapsodicamente trovare e
addurre, ma è ‘sistematicamente’ organica all’orditura retorico-biblica dell’epistola stessa e nel
complesso per la sua caratteristica il suo fondamento ultimo irrinunciabile anche per le ineludibili
implicazioni dirette e indirette relative al sintagma “divenuto da donna”.
L’esegesi sulla discendenza abramitica identificata con Cristo quale destinatario della promessa
corrispettiva, almeno nella sua individualità storica, che non trova paralleli in questi termini
‘tecnici’ e vigorosi, sembrerebbe una forzatura implausibile di Paolo se non del tutto assurda.
Emerge sin da subito una indubbia distinzione tra la individualità, per così dire, anagraficobiografica della figura cristosologica che si concentra quasi tutta sul suo divenire maledizione per
riscattare da essa fondato ineluttabilmente sugli altri due componenti del suo divenire originario, e
la sua caratterizzazione, per così dire, ecclesiologica concernente la sua determinazione spirituale.
Si doveva concepire una qualche distinzione delle due promesse, anche perché la figura storica di
Isacco poteva interessare al limite la promessa abramitica ma non quella cristologica funzionale
solo al suo essere suo figlio evk th/j evleuqe,raj esclusivamente in base agli avllhgorou,mena (hapax
neotestamentario, Gal 4,24-25). L’allegoresi dei personaggi veterotestamentari non solo non
17
Le uniche altre occorrenze paoline del plurale evpaggeli,ai sono: 2Cor 1,20 con il nome divino senz’articolo e 2Cor
7,1 senza nome divino e Rm 9,4 in un contesto assolutamente generico - quest’ultima si paragoni con quella al singolare
in Rm 4,14 in cui l’unica promessa abramitica si dice rivolta anche per i cristiani e per costoro operante (Rm 4,23),
benché si riferisca solo alla giustificazione per fede secondo la citata formula evlogi,sqh auvtw/| e non si menziona affatto
a Cristo ma solo ai suoi credenti.
18
Pare poco rilevante che l’argomentazione di Paolo in Gal 3,16 sia il risultato di una sintesi tra l’alleanza abramiticopatriarcale e il vangelo – cf. R. J. Kagarise, “The ‘Seed’ in Galatians 3:16 - A Window to Paul’s Thinking”, in
EvangJourn 18 (2, 00) 67-73. Ciò che va derubricato in modo enfatico è che il termine spe,rma altrove, specialmente in
Romani, non è esclusiva specificazione cristologica. In Rm 4,16 si accenna all’intera discendenza e ai molti popoli che
la rappresentano in Rm 4,18, mentre Isacco è il figlio e quindi il simbolo dei figli della promessa ad Abramo in Rm 9,7
in parallelo a Gal 4,28, da cui, oltre a contesti ermeneutici diversi, si differenzia per l’assenza della decodificazione
allegorica.
19
Cf. la citazione generica in Rm 9,7: evn vIsaa.k klhqh,setai soi spe,rma (cf. la coincidenza in Eb 11,18 in un contesto
che rievoca piuttosto Rm 4,16ss), ma tale pensiero ermeneutico non è discontinuo in Romani con quanto supposto e già
dimostrato in Gal 4,22-28. Tuttavia, la prospettiva di Romani sembra spingere a scorgere una ‘de-cristologizzazione’ e
di conseguenza a una ‘de-allegorizzazione’, come se non fossero più funzionale economicamente, più che
esegeticamente, all’interno del suo ordito epistolare, nel quale non si fa cenno al contesto nomologico specifico.
contraddice la loro storicità, ma la suppone necessariamente e ne evidenzia il primo segno concreto
della promessa stessa, poiché Isacco per il modo della sua nascita e per la donna che lo partorisce
da Abramo (giustificato per aver creduto a Dio), non può non essere soprattutto segno storico che
rinvia in se stesso a quanto precisamente proevangelizzato di lui, e per l’appunto allegorizzato
attraverso lui. La Legge stessa esprime l’allegoria che l’individuo Isacco non è lo spe,rma w/|
evph,ggeltai (Gal 3,19) e non può fisicamente o storicamente appartenervi, poiché solo i cristiani
sono kata. VIsaa.k evpaggeli,aj te,kna (Gal 4,28) a tutti gli effetti.
La promessa rivolta ad Abramo comporta la sua giustificazione personale, come personale è stato
il suo credere. Con questa promessa limitata a lui storicamente viene costituito unico principio
umano della medesima filiazione, duplicemente allegorizzata a seconda del figlio ricevuto da
schiava o da libera, filiazione che trova il suo senso per il fine della fede futura e la possibilità di
determinazione della discendenza per promessa o semplicemente promessa, allegorizzata da e in
Isacco. Si può evincere che la promessa di Abramo è realizzata solo con la promessa cristologica
nel senso che la sua promessa contiene la proevangelizzazione della promessa alla sua discendenza.
Infatti, nel momento in cui la promessa abramitica si realizza, si rende attiva anche la promessa per
cui si diventa sua discendenza per essa appunto, per cui la promessa in vista della giustificazione o
benedizione da fede debba valere in due momenti diversi, immediato per il solo Abramo e futuro
per la sua discendenza. Inoltre, solo le promesse sono connesse con la fede in vista della
giustificazione. Tuttavia la qualifica di libero per Isacco e ugualmente di libera per Sara non sembra
comportare rispettivamente una attribuzione (personale) di giustizia, poiché non si parla di una loro
fede e la loro libertà si riferisce per allegoria rispettivamente ai credenti in Cristo e alla
Gerusalemme di lassù (Gal 4,26-29)20 senza contemplarvi nessuna forma di estensione della
attribuzione giustificativa abramitica per fede a questi altri due personaggi veterotestamentari e
quindi a tutti gli altri, poiché in realtà la fede non può configurarsi se non dopo la disponibilità della
“promessa dello spirito” (Gal 3,14) o cristologicamente realizzata, che è da identificare con la
promessa alla discendenza e dipende dalla venuta della fede21 non riferibile se non ai cristiani e
quindi non può esserlo nemmeno ad Abramo. La promessa cristologica, che prevede quindi la
venuta dell’unica discendenza abramitica alla quale essa deve essere rivolta, è la vera finalità della
promessa abramitica, la quale a sua volta è formulabile al patriarca solo in forma proevangelizzante
e comporta il suo personale credere in ciò che Dio promette e raffigurava solo allegoricamente nel
figlio da libera, cioè nella giustizia da fede di cui egli rappresenta l’originario e unico paradigma
proevangelizzato; tanto è vero che Abramo può essere graziato solo mediante la promessa (Gal
20
Cf. Rm 4,23-25 in cui si asserisce la tesi che la giustificazione di Abramo è ciò che riguarda solo gli attuali credenti in
Cristo risorto. Si noti che in Galati evgei,rein ricorre solo nel primo versetto, mentre in Romani a partire da 4,24 è
presente 10 volte, e il verbo è inserito sempre nello stesso sintagma riferito all’azione di Dio nei confronti di Cristo (con
variazioni sintattiche nella forma passiva) a esclusione dell’unica eccezione in Rm 13,11, richiamando ovviamente la
formula essenziale kerigmatica.
21
L’elaborazione teologica della fede, esemplificata dai maggiori personaggi veterotestamentari, nel cap. 11 di Ebrei
non pare registrare affatto la tematica giustificativa paolina e si concentra su un piano piuttosto ‘interiore’ secondo la
prospettiva di attesa di quanto è attualmente creduto, quindi non la giustizia o l’eredità filiale che si ottiene per fede, ma
il bene futuro non conseguibile attualmente e solo da sperarsi per la vita presente; basti qui menzionare in Eb 10,38 la
cornice ermeneutica e concettuale in cui è inserita la stessa citazione di Abacuc, che Paolo impiega solo in Gal 3,11 e
Rm 1,17, citazione che in Ebrei introduce la succitata elaborazione sulla fede esposta nel capitolo seguente. In questa
lettera pseudopaolina si sviluppa un aspetto ‘conoscitivo’, ‘contemplativo’ e ‘intensivo’ della fede e commisurata
all’identità e missione di ciascun personaggio, nel senso che ciò che vale per Raab non vale per la caduta delle mura in
relazione alla fede relativa (Eb 11,30-31). Questo tipo di fede comunque non attiene alla promessa della giustificazione.
3,18) per aver creduto alla sua proevangelizzazione, ma non può ricevere la fede cristologica
storicamente effettiva per la promessa dello spirito (Gal 3,14). Il credere22 di Abramo è suscitato
dalla promessa stessa della discendenza cristologica, radicalmente e indissolubilmente derivante da
quella storica, e rimane un suo atto personale e limitatamente alla sua individualità, mentre la fede
non solo promessa ma anche rivelata rende i cristiani kat’evpaggeli,an klhrono,moi (Gal 3,29) e
necessita della fede cristologica nella sua imprescindibile mediazione battesimale (Gal 3,27), che
indica la sua effettiva cristologizzazione nella sua tipologia pneumatologico-ecclesiologica.
1.b. La funzione suppletivo-integrativa della promulgazione della legge
Alle promesse deve seguire cronologicamente la promulgazione sinaitica della legge, posta vicino
o semplicemente data inoltre23 (come del resto Agar era stata posta accanto a Sara riguardo a
Abramo). Tale promulgazione tuttavia è data perché necessariamente integrativa del testamento
delle promesse, successivamente poiché non inglobabile direttamente e intrinsecamente nel
suddetto testamento. La generazione di Ismaele da Agar allude allegoricamente alla discendenza
storica di Abramo, costituita dagli appartenenti della Gerusalemme di ora e siglata dall’alleanza
sinaitica. Tale generazione è segnata da schiavitù per l’implicita dipendenza dalle determinazioni
delle disposizioni sinaitiche ratificate e dispiegate per la filiazione abramitica sotto legge che in tal
modo sancisce anche il contenuto preciso e la funzione specifica dell’alleanza veterotestamentaria.
Infatti, la già avvenuta giustificazione di Abramo per aver creduto a Dio (non per allegoria) esclude
che Agar, essendo serva, gli possa generare figli liberi, poiché la sua giustificazione non può
propagarsi per via carnale. Ancor di più, la costituzione di Abramo come giusto non ‘ri-costituisce’
integralmente a tutti i livelli la giustizia antropologica e protologica prima dell’ingresso del peccato,
che è necessariamente presupposto, nel senso che la giustizia pisteica non ‘resetta’ totalmente il
credente in modo che poi possa essere giusto automaticamente, come se la vita di fede non
22
e per Abramo si usa pisteu,ein forse per mera registrazione del dato dalla lettera scritturistica, anche se per indicare
l’atto personale inerente alla pi,stij si preferisce quasi sempre il verbo in genere nelle tre sole occorrenze di Gal 2,16 e
3,6,22 , come pure in genere in Romani in cui forse fa eccezione solo Rm 1,12, il cui sintagma tuttavia indica piuttosto
un suo possesso ecclesiale che un atto di fede – per ulteriori dettagli cf. V. Ricci, “La fede di Gesù Cristo in Rm 3,2126”, Rivista Biblica (1, 2008) 61-85, spec. 62 n. 2 e 81 n. 20, in cui si avanza l’interpretazione sintattica del genitivo
cristologico, che è presente quasi esclusivamente nelle due suddette epistole, come nomen agentis nel senso che il
contenuto ‘pisteologico’ da credere è una realtà prodotta da Cristo e di sua assoluta proprietà, altrimenti non si potrebbe
conferire con tale contenuto la giustizia ai credenti a cui è data la sua promessa (Gal 3,22b). In Rm 4,5 comunque si
pronuncia il principio teologico della giustificazione pisteologica in cui impiega per l’unica volta il sostantivo con un
senso personale poiché si intende la fede individuale di chi crede “in colui che giustifica l’empio”, come si premette
nell’immediato, per cui h` pi,stij, cioè l’atto del credente a tale giustificatore, cioè Abramo è stata attribuita a giustizia
(Rm 4,10). Questa fede è possibile solo se suscitata dalla promessa, la quale è destinata solo a questo patriarca (Rm
4,13ss), benché questo fu scritto solo per lui ma anche per i futuri cristiani (Rm 4,24), per cui, escluso Abramo nella sua
personale tipologia veterotestamentaria, il credere giustificativo vale solo per chi è cristiano.
23
Il polisemico prostiqe,naiè usato da Paolo solo in Gal 3,19; nel corpus paulinum si trova ancora solo in Eb 12,19 con
l’accezione di continuare in contesto narrativo, frequente nella LXX. Escludendo nella stessa pericope in Mt 6,27
l’occorrenza con l’accezione di aggiungere numericamente o quantitativamente e la seconda e ultima in Mt 6,33 con
una valenza alquanto simile a quella unica paolina, e ancora l’unica in Mc 4,24 senza esatti paralleli e che assume
l’accezione di questa seconda matteana, nel NT ricorre diverse volte ancora solo nell’opera lucana, quasi sempre con la
valenza sinonimica della prima matteana – cf. Lc 3,20; 12,35.31; 17,5; 19,11; 20,11.12; At 2,41.47; 5,14; 11,24; 12,3;
13,36.
continuasse più a essere necessaria e il credente potesse essere ristabilito in quella giustizia per ‘riviverla naturalmente nella condizione precedente il peccato e quindi come se il credente non fosse
stato mai rinchiuso sotto il peccato dalla Scrittura. Tuttavia, i figli carnali da schiava sono sempre e
comunque figli di lui e per legge oltre che per natura, sui quali la promessa non poteva esercitare
nessun’altra azione se non quella concernente i suoi termini testamentari prima della venuta della
discendenza cristologica. L’alleanza sinaitica, in quanto legalizza e codifica il carattere di schiavitù
per i figli di Abramo secondo carne, assume una funzione essenziale e imprescindibile di garantire
in concreto una certa ineludibile continuità tra la filiazione carnale e quella spirituale e quindi tra
l’Israele storico e la discendenza promessa, sia perché l’alleanza sinaitica è imprescindibile e
necessariamente propedeutica alla filiazione derivante dalla Gerusalemme di lassù e quindi alla
discendenza cristologica, sia perché solo tale alleanza può essere il contesto in cui si può
determinare l’origine dell’alleanza allegorizzata in Sara. Per questa discendenza libera abramitica
era necessaria una costituzione intermedia relativa a una filiazione abramitica, anzi all’unica
filiazione, quella carnale, prima della realizzazione della discendenza cristologica. La promessa
abramitica non poteva formularsi senza la fissazione delle predisposizioni testamentarie per gli
appartenenti alla figliolanza storica abramitica e quindi senza la sua caratteristica determinante di
alleanza sinaitica con le peculiari disposizioni nomologiche. Questa alleanza legale è l’unica
possibilità per la giustizia di continuare a essere in qualche modo operativa all’interno della
dimensione storica dell’umanità e ne rappresentava una sorta di salvataggio o recinto di
contenimento inattaccabile e si ‘congelasse’ in vista della sua futura e definitiva accessibilità
all’umanità. Questo rimedio di primo intervento mediante la formazione legittima e legittimata,
quindi dotata di giustizia che così non è suscettibile di irrimediabile compromesso, era l’unico
modo perché quei figli di Abramo, destinatari della testamentarietà delle promesse, ne ricevessero
l’unica guida tutelare idonea e l’unica salvaguardia possibile del loro diritto di figli veri e propri,
anzi di unici figli realmente possibili fino alla stipulazione della alleanza allegorizzata in Sara. La
legge è l’unico mezzo per permettere a tali figli carnali di esser agganciati legalmente alle promesse
stesse in virtù delle loro clausole testamentarie e per connotare nell’unico modo possibile queste
stesse di giustizia di cui altrimenti esse sarebbero rimaste inconsistentemente prive.
Promesse e legge agiscono come due registri reciprocamente e imprescindibilmente interrelati
durante la transizione dalla promessa abramitica a quella cristologica nella cui realizzazione la
legge non può esser abolita, in quanto rimane come prova testimoniale della giustizia di Dio stesso
e di tutto il processo scritturistico, essendone elemento immancabile. Promessa e legge hanno la
stessa finalità benché in due domini diversi e per due interlocutori non omologabili, ma
reciprocamente interconnessi, per cui l’assenza dell’una comporterebbe irrimediabilmente la
vanificazione dell’altra. Infatti, la illustrazione della promessa nei suoi intrinseci e organici aspetti
testamentari non può essere approntata fondatamente senza il riferimento a quanto, già menzionato,
si descrive con l’allegorizzazioni delle due figure femminili, Agar e Sara, che appunto significano
simbolicamente le du,o diaqh/ kai (Gal 4,24), dualità specificata poiché non può essere segnata da
un’unità di fondo a differenza delle evpaggeli,ai. Queste alleanze non si esauriscono in un rapporto
meramente giuridico tra due contraenti, ma si configurano piuttosto come una dinamica generativa
benché con proprie modalità reciprocamente incompatibili, determinando così una relazione di
filiazione vera e propria che pur rinviando a una paternità riferita inevitabilmente allo stesso
Abramo non può non alludere in se stessa a quella di chi le formula allegoricamente in quel
momento per poi debitamente storicizzarle, cioè Dio, anche perché Abramo non può redigere
nessun’alleanza e nemmeno nessun testamento di questo rispetto a qualsiasi suo figlio24 . In Rm 9,4
l’ui`oqesi,a , che comincia l’elenco dei sei privilegi di Israele25 , non è riducibile a quella etnicostorica di Abramo, sia perché si accenna ai padri e quindi a una condizione, per così dire,
identificativa, sia perché si nomina Cristo quale loro discendente carnale. Si allude pertanto a una
relazione peculiare di filiazione di Israele con Dio, che non contraddice la sua paternità universale,
passa umanamente attraverso quella storica di Abramo e la rende cristologicamente operante
secondo la modalità propria di ciascuna alleanza. Senza questa fondativa paternità divina quella
abramitica non avrebbe nessun senso, biblicamente parlando. Questo privilegio filiale israelitico
concerne sempre Dio anche se non secondo la promessa o la libertà spirituale, ma è correlata con il
quarto privilegio della nomoqesi,a.
La figliolanza promessa non destinabile di per sé alla discendenza carnale sarebbe rimasta
assurdamente inaccessibile se essa non fosse in qualche modo posseduta, anzi se non lo fosse
nell’unico modo possibile prima della sua liberazione affrancatrice e quindi della sua
universalizzazione. L’unica figliolanza possibile da e attraverso Abramo e quindi promessa e cioè di
Dio si sarebbe potuta conservare funzionalmente e operativamente, per così dire, solo attraverso la
diaqh,kh avpo. o;rouj eivj doulei,an (Gal 4,24), altrimenti sarebbe stata persa del tutto e non si sarebbe
potuto determinare il tempo per la venuta della discendenza libera generata dalla Gerusalemme di
lassù (Gal 4,24-25), tempo necessario affinché il popolo allegorizzato in Ismaele o da schiava
(Israele) potesse essere tenuto sotto le condizioni della minorità, paragonabile a quelle dello schiavo
(Gal 4,1-2), in termini testamentari secondo le promesse e in termini legali secondo la legge con il
suo risvolto di alleanza. Infatti il testamento delle promesse che, per essere esecutivo, richiede lo
stato di maggiorità filiale, non è destinabile a chi è generato “in schiavitù” dalla Gerusalemme di
ora, per cui era necessaria l’alleanza sinaitica per salvaguardare proprio la stessa filialità minorile
per non rimanere costituiti e confusi con i ‘non-figli’, cioè tutto il resto del genere umano. Le due
alleanze, prestabilite in vista e a motivo delle promesse, erano e rimangono indissolubilmente
correlate e si illuminano reciprocamente, poiché l’una sarebbe infondabile e irrealizzabile senza
l’altra, come la figura teologica di Abramo non sarebbe delineabile e concretizzabile solo con la
moglie Sara senza la serva Agar. Inoltre la discendenza carnale abramitica dalla seconda non
24
In Ef 2,12 in cui si definiscono ta. e;qna evn sarki,, identificati con il destinatario, come xevnoi tw/n diaqhkw/n th/j
avpaggeli,aj, che invece erano proprie di Israele. Probabilmente si allude al fatto che la promessa cristologica rivolta ad
Abramo, richiedeva la realizzazione dei due patti, il sinaitico e il cristologico finalmente compiuto. Ad eccezioni di Gal
3,15.12, in cui il lemma al singolare è impiegato nell’accezione giuridica di testamento, esso sempre al singolare indica
la nuova o la vecchia alleanza in tutto il resto del NT - cf. i paralleli nei racconti sinottici dell’ultima cena Mt 26,28; Mc
14,24; Lc 22,20 (ancora esclusivamente Lc 1,72); anche At 3,25; 7,8; escludendo l’unica occorrenza in Ap 11,19 e le
numerose in Ebrei, rimangono le uniche paoline autentiche in 1Cor 11,25 e 2Cor 3,6.14 e dall’unica nella citazione di Is
59,21 in Rm 11,27. Nella occorrenza in Galati, l’unica numericamente specificata (Gal 4,24), pur riferendosi alle
alleanze inequivocabilmente, non si allude al sacrificio o sacrifici con cui esse vengono stipulate, come più o meno
fanno tutti gli altri loro contesti, ma se ne circoscrive la portata generativa, che nemmeno in Rm 9,4, l’unica altra
occorrenza paolina al plurale (filologicamente problematica), pare possibile reperire. Tuttavia, è da osservare che per
Paolo sia le promesse sia le alleanze appartengono entrambi al patrimonio storico di Israele.
25
Al di là della incertezza filologica che colpisce entrambi i due soli plurali dell’elenco, lezione risalente per entrambi a
46
P , si può evidenziare che la sequenza dei sei termini paiono disporsi in forma chiastica per cui l’adozione a figli si
collega con le promesse, evocando la relazione (paterna) di Dio con Israele, la gloria si collega al culto, evocando la
relazione (religiosa) tra Dio e Israele, e le alleanze con la legislazione, evocando la funzione fondamentale della legge
nella duplice funzione di codice nomologico-giuridico e di economia intermediaria per quanti attendevano la fine dei
termini testamentari delle promesse.
avrebbe potuto ricevere i termini effettivi della sua legittimazione senza l’alleanza sinaitica e la
allegoria che le riguardava sarebbe stata inconcepibile. Ma ancora più gravemente, la fede sarebbe
rimasta improducibile e quindi la promessa cristologica non sarebbe potuta essere formulata non
potendosi del resto costituire nessuna discendenza cristologica.
La legge è data secondo il testamento delle promesse per la necessaria preparazione dell’azione
riscattatrice del Figlio di Dio che non poteva avvenire indipendentemente dalla legge o
indifferentemente a essa, altrimenti nessuna filialità né consequenziale eredità sarebbe stata
nemmeno ipotizzabile. l’essere sotto legge non comporta di per sé automaticamente la minorità
filiale, ma questa scaturiva e quindi diveniva inevitabile se non ne fossero rispettate integralmente
le inevitabili condizioni, suggellate con la circoncisione (Gal 5,3).
La attribuzione legalistico-testamentaria di nh,pioi al noi giudaico (Gal 4,3) non è identificabile
completamente con la universale schiavitù idolatrica agli elementi del mondo (Gal 4,3), benché ne
sia intrinsecamente condizionata e permetta la loro assimilazione a schiavi e quindi costituisca la
loro inidoneità a gestire liberamente secondo la maggiorità l’unica figliolanza effettiva e possibile
pur possedendola, per la quale in tal modo richiede inevitabilmente la tutela legale. Infatti la nascita
del figlio di Abramo da serva precede storicamente quella del figlio da libera, ma entrambi seguono
la giustificazione di Abramo da fede per la premessa, significando inequivocabilmente anche la
partecipazione genetica e costituiva (naturale) del patriarca al dominio della schiavitù universale,
che in lui doveva rimanere come ipoteca naturale hamartiologica anche dopo che viene reso il
giusto e il graziato per la promessa. La giustificazione pisteica di Abramo, il quale in tal modo
conferisce valore alla stessa proevangelizzazione, che altrimenti non sarebbe potuta affatto entrare
in vigore, per così dire, era finalizzata a originare l’unica figliolanza che si doveva strutturare
secondo la minorità per la condizione servile, che significava anche essere sotto (la maledizione o il
giogo della) legge, sotto la quale il rifiuto di credere alla promessa cristologica fa persistere i Giudei
attuali che vogliono rimanere figli della Gerusalemme di ora.
Nel tempo previsto era necessaria l’alleanza sinaitica codificata con la redazione della legge 26 che
a sua volta è accaduta 430 anni (Gal 3,17) e non ha valore testamentario ma ne mette in atto le
duplici condizioni (di minorità e di maggiorità). Questa annotazione cronologica perderebbe di
senso se le due promesse in effetti fossero intese per una sola in tutto e per tutto, dato che ad
Abramo è stato promesso di essere padre di molti popoli, irrealizzabile prima della venuta storica di
Cristo. Ne consegue evidentemente che la promessa fatta alla discendenza abramitica secondo
Isacco, è cronologicamente simultanea alla promessa rivolta ad Abramo perché doveva essere
confermata costitutivamente e non affatto smentita o addirittura invalidata, come pretendono i
giudaizzanti, dalla redazione sinaitica della legge dal momento che essa non può essere affatto kata.
tw/n evpaggeliw/n äÎtou/ qeouÐå/ (Gal 3,21). Ma la figliolanza carnale abramitica doveva essere, per così
dire, non solo formalizzata, ma anche necessariamente, anzi originariamente vincolata in qualche
modo alle promesse, poiché il popolo storicamente nato da Abramo stesso non poteva essere
escluso per sempre dalla benedizione universale promessa anzi era l’unico a dover essere affrancato
Non si può essere del tutto d’accordo con Heinrich Schlier che attribuisce alla legge di non essere né ab aeterno né in
aeternum – cf. La lettere ai Galati, tr. it. Maria Bellincioni, Brescia 1966, 160. Nonostante la chiara storicità e
funzionalità soprattutto pedagogico-procristologica della legge nella sua redazione sinaitica, essa esprime in forma
testamentaria la giustizia eterna e immutabile – cf. Rm 7,12. Inoltre la legge sinaitica non può essere abolita in se stessa
poiché indirettamente dichiara e attesta la necessità non della circoncisione ma del battesimo per essere giusti, dal
momento che per essa si è schiavi o piuttosto figli non liberi mediante l’appartenenza carnale (circoncisa) alla
discendenza di Abramo.
26
nomologicamente e quindi a divenire in qualche modo indiretta mediazione soteriologica. Già nelle
promesse stesse si preannuncia implicitamente l’alleanza sinaitica che nomologicamente riconosce
e certifica il senso teologico della costituzione filiale minorile schiavizzante di quanti vi sono
sottoposti. Le promesse stesse non avrebbero potuto funzionare nelle modalità testamentarie e
quindi sarebbero state sostanzialmente nulle o inefficaci senza la precedente obbligata realizzazione
di tali modalità. La legge sinaitica è stata posta accanto o data inoltre come una sorta di atto dovuto
e inevitabile in quanto rappresenta il codice nomologico che, stabilendo divinamente “grazie alle
trasgressioni” (Gal 3,19) le motivazioni formali e costitutive della maledizione in cui versavano (in
cui versa sempre chi ricerca la giustificazione da legge) i figli carnali, è già simboleggiato nella
Legge mediante la pattuizione allegorizzata in Agar e già in qualche modo attivo prima della sua
redazione sul Sinai. La legge nel codificare e quindi costituire la figliolanza minorile sancisce di se
stessa per Israele in questo modo peculiare che essa non era stata emessa per poter zw|opoih/sai, cioè
è impedita al conferimento della dikaiosu,nh, ma la deve contenerla in sé poiché la deve conferire
alle promesse stesse, realizzando in concreto e storicamente quanto era solo significato nelle
allegorizzazioni delle due alleanze. La legge non può non essere che in totale accordo con la verità
che sune,kleisen h` grafh. ta. pa,nta u`po. a`marti,an (Gal 3,22)27, cioè ha registrato definitivamente e
ineluttabilmente con certezza indiscutibile la soggezione universale al dominio del peccato, visto
che pa/sa sa,rx non può essere giustificata da opere di legge (Gal 2,16), inclusi i Giudei fu,sei, che
non per tale prerogativa possono non considerarsi a`martwloi, (Gal 2,15) al pari di tutti.
Le promesse erano totalmente subordinate alla legge, le devono permanentemente la loro ‘vita’ di
giustizia oltre a garantire loro quanto era precondizionante per esse, ovvero ciò che Paolo paragona
alla funzione momentanea e transitoria dell’azione pedagogica (Gal 3,23-25) o amministrativotutoriale (Gal 4,1) che sussiste finché sussistono le condizioni della filiazione minorile abramitica.
La redazione sinaitica per tanto genera uno stato di fatto indispensabile in una codificazione
positiva e propedeutica perché dà vita alla filialità e quindi retrospettivamente alla paternità
abramitica e in fondo a quella divina che altrimenti sarebbe stata inattiva e inattivabile
soteriologicamente. L’atto di fede abramitico è sì già giustificante ma solo perché la scrittura
prevede la giustificazione da fede e proevangelizza la benedizione universale (Gal 3,8) ma anche
perché rende indirettamente manifesta la giustificazione da legge, dell’unica finora possibile
giustificazione che la legge si riserva e conserva in sé generando nell’alleanza i figli anche se questi
rimangono nella schiavitù però risignificata per la giustizia.
L’universale rinchiudere hamartiologico da parte della Scrittura (Gal 3,22) applicato ai Giudei con
il medesimo verbo in forma passiva (Gal 3,23) significa il processo germinale della loro gestazione
verso la giustizia per opera della legge, indica la mancanza della venuta della fede a cui con
pertinente “custodia” propedeuticamente protettiva e preventiva la legge unicamente e per
27
Nel NT il verbo sugklei,ein, oltre a Lc 5,6 in forma attiva, si trova nelle due occorrenze in Gal 3,22.23 e Rm 11,32;
tuttavia solo in Gal 3,22 Paolo lo si ricorre alla sua coordinazione con u`po, + acc., inteso non come complemento
d’agente, che richiederebbe il genitivo, ma con il significato di soggezione. Questa azione di rinchiudere attribuita alla
Scrittura con efficacia e ricaduta universali e persistente in un tempo indefinito, come connotazione essenziale di tutto,
non può non alludere alla narrazione genesiaca del peccato di Adamo, perché prima era impossibile un’attribuzione
simile alla Scrittura, anche perché tale azione sempre universalmente e senza limitazioni rispetto a tutto preesiste al
dono della “promessa da fede”, che è il suo fine.
imparagonabile privilegio la legge sopperisce per loro28 (Gal 3,23). In virtù della custodia legale la
partecipazione israelitica alla universale soggezione schiavizzante degli “elementi del mondo” (Gal
4,3) come si può ascoltare dalla sola ‘Legge’ (Gal 4,21), assume una piega peculiare, ovvero una
caratterizzazione di tempo e mezzo idonei e determinanti per la venuta apocalittica della fede
cristologica, ma anche per loro di giudizio di maledizione nomologica perché si aprisse la via a
questa venuta. Per il solo popolo israelitico si trova la legge non solo attiva il suddetto rimedio
provvisorio tutelare, ma anche un’economia operativa e strutturale, biblicamente prevista secondo i
suoi vincoli essenziali per la costituzione stessa della fede, poiché si custodisce intatta la giustizia e
anzi comunque si potesse compiere come dovuto. La legge fa in tal modo acquisire la giustizia a
quanti, benché generati nell’ingiustizia da Agar, sono i titolari naturali e i titolati ad averne diritto di
possesso di questa assoluta generazione, benché abbiano tale diritto alienato o sospeso per le
condizioni che li riguarda come minori e come sottoposti alla sua maledizione. La legge è redatta
per difendere e conservare il quid essenziale per sostanziare la dinamica ancora non realizzabile in
sé e per sé della promessa alla e per la discendenza cristologica, cioè di rendere plasmabile nella
pienezza del tempo prestabilito la giustizia stessa nella forma e sul piano del processo giustificativo
da fede. Il mondo israelitico per l’alleanza sinaitica, perché non si perdesse quanto allegorizzato in
Agar, cioè la ‘naturalità’ giudaica (e di conseguenza quanto allegorizzato in Sara) con la
consequenziale vanificazione delle promesse stesse che sarebbero rimaste infondate, può e deve
essere la suddetta discendenza solo nella schiavitù e nella minorità filiale (da circoncisi). L
La promulgazione sinaitica della legge, oltre a legittimare la futura venuta filiale dell’individuo
Gesù, doveva anche istituire i termini effettivi della figliolanza da schiava del popolo israelitico e la
possibilità della giustizia per tutti in modo che si potesse rievocare la differenza irriducibile tra la
giustizia che deriva da opere di legge e quella da fede dichiarata nelle promesse stesse – è
impossibile che ad Abramo non si notificasse una tale differenza essenziale con le opposte
conseguenze poiché altrimenti le promesse non sarebbero inspiegabili, benché la connessa alleanza
della legge non fosse ancora positivamente promulgata, ma solo allegoricamente significata da
Agar.
La promessa cristologica non è quindi riferibile a Cristo, poiché costui non può originarsi da ciò
che solo da lui ha origine, la fede stessa giustificativa. Per lui, in quanto individuo storico, cioè in
quanto discendente israelitico e quindi ‘naturale’ di Abramo, l’essere divenuto sotto legge non può
essere nella schiavitù o nella sua maledizione, ma nella libertà filiale assoluta e nella giustizia totale
che egli realizza individualmente e anche naturalmente secondo le condizioni di figlio libero e
maggiore poiché egli non poteva conoscere sin dal primissimo istante del suo esistere come israelita
nessuna forma di minorità e quindi di schiavitù in questo senso. Tanto meno Cristo poteva avere
bisogno di custodia tutelare della legge, dalla quale egli in modo singolare riceve senza mediazione
di fede l’unica giustizia universalmente possibile prima della fede che da lui deve formarsi. Egli
necessariamente a partire dalla sua struttura protologico-genetica, non potendo non essere generato
e quindi concepito (divenuto antropologicamente) nella giustizia che è chiamato a vivere anche
nella sua pratica naturalmente richiestagli quale unico circonciso che compie, deve e può compiere
tutta la legge (Gal 5,3) in cui dal suo primo esistere umano è posto, a differenza di tutti i suoi
connazionali. Per lui la legge stabilisce e a lui assegna come sua benedizione quanto essa stabiliva
28
Questa prospettiva fondamentale del compimento della legge da doversi custodire comunque, viene inquadrata in una
angolazione universalizzate che contempla la dialettica ‘diatribica’ tra l’incirconcisione naturale e la circoncisione
legale in Rm 2,25-29.
per i suoi connazionali e assegnava loro come sua maledizione. Cristo non può e non deve essere
giusto da fede, ma lo può e lo deve solo per natura e israeliticamente da legge dalla quale riceve la
vita e non la morte, a differenza dello stesso Paolo (Gal 2,19) che deve essere morto alla legge
mentre Cristo assolutamente vi deve essere vivo. La giustificazione da fede infatti non poteva essere
sostitutiva della giustizia da opere di legge, come se la scrittura avesse sentenziato in vano o
paradossalmente che la legge dà o permette la vita solo nell’adempierla (Gal 2,11-12), ma doveva
essere affrancatrice, cioè doveva porre il popolo ebraico in condizioni di ricevere e vivere la stessa
giustizia della legge senza dovere percorrerne la via nomologica esigitavi. Allora Gesù doveva
essere anche e primariamente il ‘discendente’ che in qualità di libero fu,sei e per maggiorità filiale,
erede da legge e quindi vivo alla legge tramite la legge, doveva entrare in relazione con le
condizioni della legge per realizzare la giustizia della promessa cristologica che si attiva perla
venuta della fede apocalittica. Cristo non può assolutamente essere giusto da fede per la promessa,
non può essere un credente alla maniera abramitica ma vive la giustizia in modo naturale da opere
di legge secondo anche quanto imponeva la circoncisione carnale 29.
Solo l’unico incondannato e incondannabile dalla legge, cioè non soggetto alla sua maledizione
ma vivificato da essa con l’operarne tutte le prescrizioni ed esclusivamente dichiarabile giusto da
essa e sotto di essa, poteva accettare di divenire maledizione per abolire quella che si riferiva ai
Giudei, e così rendere universalmente accessibili l’eredità e la libertà per promessa, cioè realizzare
la grazia giustificante da fede che implicava innanzitutto per il Cristo l’essere Figlio di Dio. L’unica
giustizia possibile che Cristo sotto legge realizza da legge in modo totale con la sua esistenza e
operare umane, sarebbe rimasto un che di personale e circoscritto alla sua individualità senza
potersi abilitare a divenire maledizione legale appartenente a tutti i Giudei, se il suo operare in
questo preciso momento non fosse derivante dalla potenza di Figlio di Dio e in ultima analisi da Dio
stesso, e quindi poter togliere la maledizione legale per donare la sua giustizia da legge ai suoi
connazionali. La morte del giusto legale, dell’unico proclamabile e proclamato tale da legge senza
necessitare nessun processo caritologico per la giustizia doveva e poteva configurarsi come la morte
dell’unico che sul legno è divenuto maledizione da legge stessa, non per una determinazione
mistica, ma per autometamorfosi giuridico-giudiziale che lo rendeva ontologicamente coincidente
con la sola maledizione nomologicamente effettiva e vigente, cioè quella pendente sui Giudei, con
la conseguenza di costituire proprio la grazia di giustizia (da legge) o la giustizia (da legge)
trasmissibile a essi o compibile in essi per grazia mediante l’invio del suo spirito nei loro cuori da
parte di Dio (Gal 4,6). Solo l’unico maledetto da legge che ripaga con la morte della sua vita giusta
la vita ingiusta di tutti i Giudei, doveva essere l’altrettanto unico giusto dotato di prerogativa divina
nel suo essere connaturale discendente da Abramo, quindi un israelita, poiché solo in quanto posto
sotto legge e quindi giusto da essa, e non solo privato dalla condizione hamartiologica, può divenire
maledizione da e sotto legge e quindi il fondamento ultimo di tutto quanto già descritto. Altrimenti
il riscatto stesso sarebbe irrimediabilmente compromesso, poiché tutto ciò che concerne la giustizia
legale non può essere aggirato o rimanere incompiuto, anzi a rigor di termini non può rimanere un
tale incompiuto negli stessi cristiani 30.
29
Paolo dà a vedere che conosce in qualche modo la parentela di Gesù nel menzionare Giacomo come “il fratello del
Signore” (Gal 2,19) e quindi non poteva non conoscere l’evento della sua circoncisione.
30
Cf. R 8,3-4, in cui, benché nella variante tipica di Romani del contesto hamartiologico universale, si asserisce che il
peccato è stato condannato “nella carne” per permettere di camminare “secondo spirito” ed è stato possibile realizzare
ciò perché mediante quella condanna avvenuta nella carne del Figlio di Dio, si è potuta compiere (plhrou/n) to. dikai,wma
tou/ no,mou in quelli che camminano spiritualmente, cioè i credenti in Cristo. Il termine dikai,wma si trova quasi
2 La Donna della discendenza abramitica nella pienezza cronologica.
La formula cronologica to. plh,rwma tou/ cro,nou31 concerne un intervento divino peculiare e unico
da cui dipende assolutamente la realizzazione della promessa abramitica e quindi della discendenza
cristologica a cui poter rivolgere la promessa (della eredità della figliolanza libera) con la
conseguenza della fine temporale della minorità filiale di schiavitù della discendenza carnale e il
preambolo necessario della discendenza per la maggiorità filiale di libertà. In Gal 4,4 il gesto di Dio
rivolto a suo Figlio è significato con l’aoristo di evxaposte,llein32 ripetuto per l’unica e seconda volta
in tutto il NT con la medesima forma nell’immediato contesto (v. 6) per definire il medesimo gesto
di Dio indirizzato allo spirito del Figlio nei cristiani. Il verbo per quanto concerne il Figlio si
potrebbe interpretare mandare fuori, far uscire o far partire33, sinonimicamente al giovanneo
semplice avposte,llein o allo stesso hapax paolino pe,mpein in Rm 8,3 34 in relazione all’Incarnazione.
In Romani si contempla l’invio del Figlio evn o`moiw,mati sarko.j a`marti,aj, modalità che è la
motivazione di fondo del momento della sua morte, descritta secondo l’azione specifica di Dio
rievocata per l’effetto giustificativo in Rm 8,13. Quindi Paolo intenderebbe l’azione di pe,mpein
secondo la specificazione del quadro della morte del Figlio suo con il significato di mandare o
portare a similitudine, quindi di assimilare semplicemente per la condanna del peccato evn th/| sarki,
e per tanto non può non l’assimilazione nell’Incarnazione, perché la suddetta specificazione non è
pertinente a determinare il momento della morte non essendoci nessuna segnalazione di
simultaneità dei due fattore, oltre a altri inconvenienti semantici che implicherebbe una tale visione
esegetica. L’assimilazione allude all’invio del Figlio perché si incarnasse, come il sintagma
coordinato peri. a`marti,aj sottolinea ulteriormente.
Dato che evxaposte,llein può assumere l’accezione di licenziare, congedare, mandare nel senso di
incaricare o permettere per qualche impresa o impegno, il suo uso in Gal 4,4 non può ritenersi
dotato di tale valenza semantica ma dovrebbe condividere quella dell’unico parallelo all’interno del
corpus paulinum rappresentato dal succitato verbo di Rm 8,3. In Gal 4,4 tale iniziativa divina non
dovrebbe rivolgersi in vista dell’ingresso del Figlio nell’esistenza terrena, ma al contrario in vista
della sua uscita da essa, quindi essa non sarebbe indirizzata al Figlio prima di essere uomo, ma
all’uomo che è suo Figlio per incaricarlo specificamente dell’impegno dell’affrancamento. Manca
qualsiasi appiglio per una tale ermeneutica. Tuttavia, un mandato di questo genere in relazione
esclusivamente in Romani (1,32; 2,26 al plurale; 5,16.18) ma mai specificato con tou/ no,mou – le altre uniche occorrenze
neotestamentarie sono tutte al plurale Eb 9,1.10; Lc 1,6; Ap 15,4; 19,8 con il senso di sentenze, decreti.
31
Gal 4,4, un hapax in tutto il NT, in cui il solo termine plh,rwma, se si escludono le cinque occorrenze evangeliche (Mt
9,16; Mc 2,21; 6,43; 8,20; Gv 1,16), le altre 11 (senza la citata di Galati) appartengono tutte all’epistolario paolino (Rm
11,12.25; 13,10; 15,29; 1Cor 10,26; Ef 1,10.23; 3,19; 4,13; Col 1,19; 2,9). L’unico parallelo più o meno rintracciabile è
nella prima occorrenza di Efesini in cui però il termine si specifica con il plurale tw/n kairw/n.
32
Nel NT si trova, oltre alle due occorrenze di Gal 4,4.6, solo in Lc 1,53; 20,10.11; 24,49 (l’invio della promessa del
Padre del Risorto sui discepoli) e At 7,12; 9,30; 11,22; 12,11; 13,26; 17,14. Per l’immagine dell’invio del Figlio suo da
parte del Padre Paolo usa pe,mpein, all’incirca un suo sinonimo, solo in Rm 8,3.
33
Il verbo nella LXX è impiegato per descrivere quanto il Faraone si rifiuta di fare verso il popolo ebraico a partire da
Es 4,21.22.23; ma può avere anche un senso negativo di scacciare (Gn 3,23).
34
L’immagine cristologica dell’Inviato nel mondo per descrivere l’Incarnazione è segnalata quasi esclusivamente in
Giovanni e quasi sempre con il mero avposte,llein (cf. anche 1Gv 4,9) e con la formula completa di “nel mondo” in Gv
3,17 e 17,18 e viene spesso viene scambiato in modo più o meno sinonimico con pe,mpein, che Paolo usa in questa
concezione chiaramente incarnazionistico solo in Rm 8,3 e in Gal 4,4.
specifica al riscatto da parte di Dio non solo sarebbe alquanto superfluo ma non sarebbe
sostanzialmente distinguibile con lo stessa gesto di Dio per il processo incarnazionistico che
sarebbe assurdo non postulare. Infatti la pienezza del tempo indica il culmine della storia fino al
momento in cui avviene l’invio del Figlio.
Nemmeno evxaposte,llein potrebbe riservare un’accezione negativa come scacciare, mandare via,
espellere o ripudiare in questo caso come figlio, perché potesse essere non più figlio ma schiavo,
come in qualche modo è descritto in Fil 2,7, per cui Dio assumerebbe l’iniziativa per il processo
kenotico del Figlio, come se fosse sottinteso il possibile aggettivo keno,j. Osta l’insuperabile
ostacolo che la kenosi cristologica è un’azione e un’iniziativa riflessive, come il pronome indica
inequivocabilmente nel versetto succitato di Filippesi, atto libero di Cristo che non può iniziare con
la sua Incarnazione, ma con l’assumere la forma di schiavo evocativo della maledizione di Galati.
Nemmeno si può illustrare secondo il concetto che Dio non abbia risparmiato il proprio Figlio per
consegnarlo secondo Rm 8,32, anche per le ragioni su evidenziate circa il raffronto dei due passi. In
Galati l’interesse di Paolo nel descrivere l’evento della morte in croce cade completamente sulla
tematizzazione dell’affrancamento e del binomio dialettico di libertà e schiavitù filiali.
La proposizione finale concernente l’atto del riscatto in Galati non può riferirsi al verbo in
questione ma al ripetuto participio geno,menoj, anche perché una simile connessione sintattica al
posto di una forma infinitiva o almeno participiale sarebbe un fenomeno linguistico singolare, come
Paolo stesso attesterebbe in Gal 4,6 ma anche qui il verbo è in forma assoluta poiché il gridare del
suo spirito nei cuori è una sua propria qualità e non l’esecuzione del fine dell’invio divino.
L’iniziativa di Dio che scatta allo scadere del tempo previsto, non può riferirsi che al contesto del
processo incarnazionistico, magari con un’accentuazione di licenziamento o di autorizzazione. Il
mandare di Dio è rilasciare il Figlio, concedendogli la licenza o il mandato in vista anzi forse
meglio a seguito della sua volontà di incarnarsi. Questa sfumatura caratterizza l’intento semantico
in Galati rispetto a quello giovanneo e di Romani, poiché l’unicità dell’impiego di evxaposte,llein
prospetta un’angolazione piuttosto dal punto di vista del Mandato e non del Mandante per una
enfatizzazione sull’effetto dell’invio o cosa comporti precisamente per l’Inviato.
In sintonia con l’ordito della lettera si intende menzionare che il Figlio di Dio dall’istante in cui
diventa uomo e quindi è concepito, cioè dall’inizio assoluto della sua fisicizzazione antropica, non
può essere né schiavo né minore, ma deve essere per definizione l’erede a tutti gli effetti giuridici
della filiazione ‘carnale’ piena35 secondo legge e non secondo promessa e tanto meno secondo i
termini testamentari appena accennati nel versetto precedente. L’esistere temporale del Figlio di
Dio deve avvenire necessariamente sin dal suo assoluto istante originario “sotto legge”, che attesta
il suo contesto genetico-etnico unicamente compatibile alla maggiorità filiale senza dipendenza
alcuna dal dominio universale harmatiologico sotto cui tutto è rinchiuso dalla Scrittura (Gal 3,2122). Il rapporto della legge con Gesù da sempre e per sempre attiene alla sua filialità abramitica
piena e ‘maggiorenne’ necessariamente sin dall’inizio in modo che solo per lui la prima alleanza
mette in atto un rapporto di tale forma nel vincolo della discendenza carnale con Abramo, altrimenti
non sarebbe stato possibile il suo stesso invio36, che non può assolutamente postulare previamente
35
In Rm 4,16 si denomina la discendenza abramitica carnale come evk tou/ no,mou.
Gal 4,5. Il sintagma u`po. no,mon, una peculiarità di Galati, indica la condizione servile e legalistica della redazione
testamentaria sinaitica per colui a cui è stata promulgata (il popolo israelitico) - si notino le occorrenze in Gal 3,23;
4,4.5.21; 5,18.
36
un qualche riscatto o ancor più paradossalmente ‘autoriscatto’ dell’Inviato, compatibile con la sola
giustificazione legale, che dovrà consumare al suo estremo possibile nell’essere appeso al legno.
Il suo essere geno,menoj u`po. no,mon deve essere il contesto esclusivo esistenziale in cui si esprime
integralmente e continuamente dal suo esordio alla sua conclusione la libertà filiale israelitica
secondo carne. La legge stessa non può non dichiararlo apertamente per non contraddirsi
assurdamente con l’indicare in lui l’unico circonciso non sotto la schiavitù, ma sotto la libertà
rispetto a essa. La condizione giuridico-legale sotto cui Cristo è venuto ad essere per l’intera
esistenza terrena dall’inizio del suo essere concepito alla sua fine tanatologica sul legno,
garantiscono la sua totale e indefettibile libertà per la giustizia vissuta in tutte le opere di legge,
anche quella della maledizione pur non potendo mai essere dichiarato ‘maledetto’ per aver
commesso ingiustizia poiché l’ui`oqesi,a minorile sotto legge potesse prima diventare in lui ui`oqesi,a
di maggiorità e poi per lui trasformarsi in quella da fede ormai imminente in totale ottemperanza
alle clausole testamentarie.
L’allusione all’intera realtà dell’origine umana del Figlio di Dio, quindi del suo essere divenuto un
israelita doveva precedere per ovvietà logica e lo si menziona anche sintatticamente prima con il
suo essere geno,menoj evk gunaiko,j , frammento mariologico più antico che non può non contenere la
traccia di una riflessione del tutto pertinente e ineccepibile in nulla anche se solo estremamente
sintetica perché assolutamente immancabile e del tutto organica all’interno della trama epistolare e
prima del suo contesto immediato. In primo luogo questa traccia non poteva non rinviare al
processo del concepimento stesso del Figlio di Dio per divenire mortale e viverlo pienamente e
liberamente sotto il vincolo della legge fino all’ultima estrema opera di giustizia legale (l’assumere
la sua maledizione inflitta ai Giudei). E’ lampante che tale evocazione dovesse fondare tutto il
discorso epistolare appena esposto e ancora da elaborare. Infatti il Figlio di Dio deve umanamente
divenire sotto il regime dell’alleanza sinaitica ma non da schiava secondo Ismaele ma da libera
secondo Isacco, e non per la promessa ma per la carne stessa in base alle stesse determinazioni
teologico-bibliche emerse nella composizione dell’epistola.
E a tale fine era necessaria non una ebrea qualsiasi ma esclusivamente la creazione di una israelita
adatta. Si doveva prospettare una sua singolare personalizzazione nomologica o nomologizzazione
individualizzante e quindi doveva essere essenzialmente dotata di qualità e di un’attitudine
specifiche a concepire l’unico discendente abramitico libero, cioè ad accogliere geneticamente e
fisicamente il divenire antropico del Figlio di Dio e quindi a iniziare storicamente quanto si
prometteva ad Abramo e si allegorizzava in Isacco. Se Paolo non avesse pensato con l’anonimo
gunh, a una simile donna anagraficamente individuale e conosciuta secondo il nome proprio, ovvero
quanto non poteva non essere materia di tradizione evangelica e kerigmatico-catechetica presso le
comunità cristiane, tutta l’architettura argomentativa dell’epistola verrebbe irrimediabilmente a
crollare, anzi non si sarebbe potuto nemmeno progettre. La sua singolare natura femminile
israelitica è conditio sine qua non per dipanare il contenuto della identità filiale antropica del Figlio
di Dio in relazione alla legge e alle complesse conseguenze e relazioni scritturistiche e alludere
comunque ciò che vi è anche genealogicamente basilare e determinante, anzi assolutamente
originario e fontale nella configurazione cristologica.
La donna e solo quella donna anonimamente menzionata, perché ‘mariologicamente’ notissima a
tutti, poteva assolvere a questo compito. Il concepimento bio-fisiologico è la prima e originaria
attuazione della sua stessa dinamica ‘legalistica’ fondata su una genealogia etnico-israelitica di lui,
poiché quanto in Isacco si allegorizzava per la promessa, in Cristo si doveva realizzare storicamente
per la legge. Il Figlio di Dio doveva derivare dal ‘seme’ fisio-genealogico abramitico, per sottoporsi
liberamente quale unico figlio libero per natura alle condizioni legali in vista della realizzazione
delle promesse. Cristo è dunque l’unico discendente abramatico di diritto unico erede legittimo e
legittimabile da legge e quindi secondo la giustizia dalle sue opere. Era pertanto necessario attivare
il divenire del Figlio divino da donna non solo mediante la dinamica fisiologica della sua nascita in
vista della pienezza del tempo, ma secondo la compatibilità assoluta e perfetta delle stesse
determinazioni fisiche umane con le condizioni di giustizia da legge già analizzate. La formula
relativa alla menzione anonima della singolare concepente e generante il Figlio divino non può
assumere un quasi superfluo tono generico e intercambiabile con formulazioni incarnazionistiche
simili 37, in contrasto con lo stesso tono della lettera estremamente calcolato e rigorosamente
architettato, e per quanto riguarda lo specifico della nascita di Cristo non si poteva omettere affatto
il suo indispensabile spessore mariologico38.
La formula gennhto.j gunaiko,j è esclusiva di Giobbe nell’AT e il sintagma gene,sqai evk si trova con
un parco impiego nel mondo classico insieme a ti,ktein già in Omero39 in elenchi genealogici o in
sezioni del genere, ma mai connesso con un nome proprio femminile da solo e tanto meno con
quello comune di gunh, . La formula paolina quindi è del tutto eccezionale, se non decisamente
discontinua rispetto a ogni contesto culturale dell’epoca, poiché si deve innanzitutto evidenziare
l’assenza assoluta di un origine materiale e fisica evk avndro,j, come distintivo irriducibile a tutte le
possibili genealogie antiche 40. La genericità della formula di Giobbe allusiva del concorso di un
seme maschile per un generato di donna cela un intento antigenealogico o almeno di indifferenza a
un tale comune valore ‘onorifico’. Paolo non può non alludere implicitamente a questo aspetto in
discontinuità sia con Giobbe sia con la valenza culturale genealogica in genere, che invece
sottoscrive per i due figli anonimamente menzionati di Abramo (Gal 4,21ss), per differenziale il
tratto genealogico di Cristo che non può contemplare la presenza di un padre biologico, anche per
l’indizio dell’uso del participio aoristo di gi,nesqai tipicamente formulare in contesti genealogici
extrabiblici, mentre genna/n lo è in quelli biblici 41.
37
L’unanime concordanza esegetica che tende a minimizzarne la portata semantica e teologica (cristologica) della
formula paolina, come se essa non volesse dire nulla altro se non il mero ingresso nella storia umana di Gesù tanto da
distinguere una “Incarnazione in sé” e una “Incarnazione servile” attraverso cui egli vi sarebbe entrato come un comune
uomo cioè soggetto “alle leggi della discendenza (“formato da una donna”) e della convivenza umana (“formato sotto la
legge”)” (Spinetoli, cit., 16-17). Ma se davvero fosse questione solo di rispettare queste leggi puramente fisicogeneaologiche e sociali per qualificare la ‘servilità’ dell’Incarnazione, non si dà vera ragione del perché usare un hapax
di tal genere e un altro hapax immediatamente dopo (a parte la strana traduzione di geno,menoj con “formato”). In
Valentini, “1.1. I testi …”, cit. 34 n° 9, oltre alla menzione delle cinque ricorrenze greche di Giobbe e delle ricorrenze
qumraniche, si assimila la formula paolina a quella di evn gennhtoi/j gunaiko,j nelle due occorrenze evangeliche in
riferimento a Giovanni Battista (Mt 11,11 e Lc 7,29). Si può essere nati di donna, legalmente o illegalmente, per
violenza o quant’altro, ma il Figlio di Dio nella sua incarnazione non può essere solo un mero nato di donna al pari di
tutti.
38
Anche nella prima delle due solo menzioni marciane di Maria (Mc3,35) non si avverte la necessità di inserirne il
nome proprio che è nel contesto ovviamente inevitabile in Mc 6,3. Anche il mero titolo giovanneo di Madre di Gesù
(2,1.12; 19,25) giudicato sufficiente per il fine identificativo serve a enfatizzante piuttosto il suo aspetto teologico.
39
V. ad es. Il 5, 547-549.
40
V. ad es. la prima genealogia biblica di Caino in 4,17-22 o di Adamo in 5,3 che termina in 5,32 con la menzione dei
tre figli di Noè.
41
In formule con o senza combinazioni con ti,ktein - specificamente ‘partorire’ se si tratta di donna -, genna/n è
esclusivo di Matteo, specialmente alla fine della sua genealogia quando si riferisce a Maria (1,16), ma precisato nel
contesto, non per puro gusto storico, con l’incipit definendo Gesù Cristo figlio di Davide e Davide figlio di Abramo.
2.a. L’originalità assoluta della formula paolina.
Le sue cinque occorrenze greche di Giobbe, estremamente eccezionale all’interno dell’AT42,
enfatizzano prevalentemente la connotazione di ‘mortalità’ umana43, che nel contesto paolino
comporta una pienezza rivelativa di tipo immediatamente cronologica, ma anche e soprattutto
‘dogmatica’. Paolo con il suo sintagma genealogico assolutamente essenziale44 enfatizza invece una
valenza causale e di provenienza, ma anche in qualche modo di materia, dell’unico fondamento
antropologico e l’unico materiale biologico ‘utili’, ma anche l’unico possibile soggetto genitoriale
per gestire la nascita temporale del Figlio di Dio. L’unicità di tale maternità deve dispiegare
l’orizzonte della discendenza del suo concepito e nascituro che immancabilmente deve divenire
innanzitutto da (‘seme’ di) donna (solo)45, e quindi l’origine bio-fisica circostanziato all’essere
umano del Figlio di Dio deve anche ineluttabilmente concordare con tutti i termini testamentari
delle promesse perpetuamente siglati e convalidati dalla legge.
La donna allusa è quell’unica discendente di Abramo che nel concepire il Figlio da Dio deve
essere idonea a far iniziare indirettamente, anche se necessariamente in forma protologica, la
imminente discendenza promessa. Maria non solo è una soggettività femminile che serve in forma
esclusiva per generare il Figlio di Dio, come se tale genesi fosse indifferente o neutra in termini di
giustizia. Al contrario, questa donna è colei che è chiamata a connettere umanamente e
individualmente le promesse con la discendenza cristologica secondo le determinazioni
nomologiche, a permettere la transizione dell’essere sotto legge e il non essere più sotto la legge, a
promuovere il passaggio della mancanza israelitica di filiazione libera alla universale
Luca preferisce la ripetizione “figlio di” e il genitore maschile (3,23ss). La nascita umana di Gesù in Paolo non è
significata mai con esso (cf. Rm 1,3; Fil 2,7), come anche in Gv 1,14, poiché si tratta più di un ‘divenire’, un ‘accadere’
nella configurazione antropica del Figlio di Dio e non di un mero essere generato. Si confronti l’uso di genna/n per Agar
(Gal 4,24), in cui il fenomeno del concepimento in sé di un essere umano non viene focalizzato affatto.
42
Si badi che manca qualsiasi accenno genealogico riguardo a Giobbe, anche se egli stesso cita la madre e anche i
fratelli (cf. ad es. 19,17) – suo padre anonimamente è menzionato da un altro personaggio (v. Gb 15,10).
43
Cf. Gb 11,2 euvloghme,noj gennhto.j gunaiko.j ovligo,bioj, espressa da Zofar che la ripete in Gb 11,12 con la sostituzione
del primo lemma con Broto,j, che non ha corrispettivo in ebraico e non si trova mai nel NT. Queste prime due
occorrenze non si trovano nella versione masoretica che riporta la prima occorrenza (la terza greca) e l’unica espressa
da Giobbe stessa in 14,1, che ripete nella versione greca la seconda formula di Zofar, rendendo con Broto,j l’ebraico ~d'a'
e sostituendo l’ultimo aggettivo con plh,rej ovrgh,j che traduce zg,r-o [b;F.. Il termine zg,r,o in genere interpretato con
“inquietudine”, (cf. Gb 3,26 e Is 14,3), può contenere il senso della traduzione greca perché in seguito Giobbe fa
rifermento esplicitamente all’ira di Dio di cui egli è oggetto (cf. Gb 37,2 e Ab 3,2, Sir 5,6 e 16,11 - solo in Gb 39,24
forse indica il nitrire equino davanti alla battaglia). Le ultime due occorrenze sono Gb 15,14 (Elifaz) e Gb 25,4 (Bildad).
44
La preposizione evk con il verbo in questione è impiegata in Rm 1,3 in cui si preferisce richiamare la discendenza
davidica kata. sa,rka del Figlio di Dio, il che non poteva non essere una formula sincopata di quanto oralmente o
tradizionalmente veniva circostanziato nei dettagli anche biblicamente orientati, come la sua coordinazione con
genna/nin Mt 1,16 attesta. Paolo nel testo di Romani, anche se ancora più indirettamente, non può non alludere alla
“donna” di Galati, poiché sa o suppone che questo riferimento è parte della fede comune rievocata in Rm 1,12. In Rm
9,5 si rievoca tutto questo semplicemente con evx w-n (sc. padri) o` Cristo.j to. kata. sa,rka. Questo essere di Cristo
secondo la carne dai padri non poteva non includere la donna di Galati, poiché la nascita umana di lui può e deve essere
dai padri ma assolutamente non da padre umano.
45
Sembra del tutto peregrino escludere l’allusione allo spe,rma della donna in Gn 3,15 e magari a una sua
interpretazione anche stricto sensu biologica, anche perché non può iniziare in questo contesto la maledizione (cf.
e`pikata,ratoj in Gn 1,14.17) universale del peccato sotto il cui potere il tutto è stato rinchiuso dalla Scrittura e che è la
motivazione radicale della successiva specificazione della maledizione della legge per il solo Israele.
comunicabilità di questa filiazione per promessa con giustizia di grazia e viceversa. In quella donna
e solo da lei poteva concepirsi e quindi nascere il Figlio di Dio, che solo della sua unica umanità
dotato di tale capacità genetica può servirsi per incarnarsi quale unico discendente abramitico libero
per natura. Tale capacità poteva derivare solo per la sua dotazione di filialità completamente
‘libera’ in forza della sola legge non solo poiché non era ancora accessibile per promessa ma
soprattutto perché la premessa non sarebbe utile ad abilitarla alla tale sua funzione propria nella
giustizia nomologica, poiché dove è la promessa non c’è più la legge. Questa transizione non poteva
essere rivolta a lei ma doveva trovare in lei la sua unica possibilità. Se Cristo non fosse il figlio
libero a titolo pieno nella carne sotto le condizioni giuridico-legali46, egli sarebbe stato
antropologicamente del tutto inconcepibile e tale sua qualità poteva derivargli solo geneticamente.
2.b. Donna ‘concepente’ il Figlio di Dio sotto legge
La donna paolina non può non marcare la genesi protologica e nomologica della fase cronologica
dell’imminenza della venuta della fede giustificante, fase che coincide con quella finale del tempo
della legge stessa. Il divenuto da donna nella condizione di figlio geneticamente e nomologicamente
libero, quale israelita e simultaneamente Figlio di Dio, esigeva la necessità che questa stessa donna
a sua volta dovesse essere immancabilmente relazionata in modo singolare alla legge.
Paolo, in base a tutto il suo discorso appena articolato in analogia a una qualsiasi procedura
giuridico-testamentaria e in vista dell’allegoresi che sta per offrire, non poteva non intendere che il
nato da donna e Figlio di Dio avesse ricevuto vita da figlio abramitico libero, cioè figlio secondo
Isacco, non però da promessa ma solo da legge. Tale sua filiazione naturalmente e legalmente
israelitica è consumata completamene nella sua vita umana di giustizia solo perché è potuto divenire
esclusivamente da colei che analogicamente doveva essere naturalmente giusta anch’essa sotto
legge e quindi figlia libera di Abramo secondo carne, altrimenti nulla di quanto tematizzato sarebbe
nemmeno potuto progettarsi. La giustizia naturalmente trasmissibile non è compatibile con
nessun’altra forma se non in quella integralmente fisico-antropica nel modo in cui
nomologicamente è stato fissato e regolato in accordo con il senso delle promesse. Nell’istante in
cui il Figlio di Dio viene concepito non può non essere simultaneamente nello stesso istante il figlio
di Abramo secondo Isacco ma da legge, poiché non gli si può assolutamente imputare una qualche
condizione di schiavitù filiale. Questa stessa qualità fisico-genetica non può non appartenere in tutto
e per tutto anche alla sua concepente verginale e sotto legge in pieno rispetto della sua giustizia che
in lei doveva essere integrità di vita di israelita figlia libera indipendentemente dalla giustizia per
promessa e quindi dalle condizioni testamentarie di questa che anche per lei come per il Figlio non
potevano affatto valere. Senza una tale imprescindibile sua incompatibiltà a divenire giustificata da
ingiustizia contratta la donna in questione avrebbe dovuto generare solo alla maniera di Agar come
tutte le altre israelite e come a queste anche a lei sarebbe stato impossibile concepire l’Incarnantesi
che non poteva ricevere carnalmente nulla da schiava secondo Ismaele. La giustificazione da fede,
ammesso che fosse stata possibile anche dal punto di vista cronologico, per la madre del Figlio di
Dio non sarebbe servita a nulla in proposito, poiché chi è giusto da fede non può generare
46
Cf. la specificazione di Gal 5,1 in cui si afferma che la liberazione universale, inerente alla discendenza abramitica, è
avvenuta th/ evleuqeri,a| (dativo strumentale) senza la libertà del liberatore non sarebbe stata possibile nessuna
liberazione.
fisicamente un figlio giusto, anche perché non si può essere costitutivamente e ipso facto esenti da
colpa (Gal 6,1), come già accennato per la genitorialità fisica di Abramo.
Il concepimento verginale assolutamente necessario47 non era da solo sufficiente a spiegare una
tale nascita ‘teandrica’ nel regime nomologico nel quale solo si doveva. Il fatto che si dica divenuto
da donna, allude solo in parte al processo concezionale e differisce irriducibilmente da qualsiasi
altro processo prodigioso concernente sempre e solo madri sterili, come Paolo stesso riferisce di
Sara con la citazione isaiana in Gal 4,27. Si trattava di concepire in modo del tutto imparagonabile
l’autofecondantesi dal solo ‘seme’ della fertile genitrice48 che da sola doveva dare vita umana al
Rilasciato a incarnarsi, a un uomo che a partire del primo istante di concepito conservasse
fisicamente la pienezza divina. Il concorso di un qualsiasi seme maschile avrebbe impedito
fisicamente l’origine anche necessariamente divina di quest’uomo. Dall’umanità verginale della
donna il Figlio di Dio incarnandosi crea e fisicamente forma una individualità ‘creaturale’
assumendola, cioè fondendosi e identificandosi con essa. Nell’attimo in cui si compie il fenomeno
del suo concepimento umano l’Incarnantesi e l’Incarnato si devono identificare reciprocamente in
forma assoluta, devoni risultare un’unica ipostatizzazione personificata distinta e inconfondibile
dell’unione della duplice perfezione di Figlio di Dio e di nato da donna. Nel momento in cui il
Figlio di Dio si inserisce come tale nel materiale gametico della donna , si fonde con la fisicità
umana in virtù della propria potenza incarnazionistica e la fecondabilità riproduttiva di lei, produce
se stesso dal quel ‘preciso’ materiale cellulare esclusivamente femminile, l’unico capace
fisicamente di concepirlo biologicamente uomo giusto da legge. Colei che lo riceve in tutta la sua
realtà di Figlio di Dio in questo stesso materiale cellulare, ne riceve a sua volta la potenza
fecondatrice con cui essa lo può concepire e procreare (generare) come un individuo qualsiasi a
partire dalla sua primissima forma embrionale. Il Figlio di Dio per incarnarsi non può servirsi di una
riproduzione gametica completa, di una sua conformazione già fecondata, anche preformata nello
stesso istante della sua Incarnazione, cioè di un concepimento umano che non coincida in tutto e per
tutto con la sua stessa Incarnazione e si attivi solo in virtù di essa. Il Figlio di Dio nel identificarsi
nella sua interezza divina con un preciso uovo maturo della suddetta donna concorre divinamente
alla sua procreazione umana fisica ipostatizzandosi con lo stesso principio genetico della sua
concepente. Una fecondazione spermatica simultanea avrebbe reso impossibile al Figlio di Dio di
divenire un essere umano per la compresenza di un concepito pienamente e individualmente
autonomo e ontologico separato da lui. In tal modo mostruosamente si sarebbe dato un uomo in cui
47
Secondo la nozione pseudoscientifica antica, si supponeva l’esistenza di un qualche sperma femminile (in genere
identificato con il sangue mestruale) e attivo riproduttivamente. Nonostante l’obiezione di Aristotele motivata sulla
incompatibilità di due secrezioni spermatiche per un unico atto procreativo, Ippocrate e soprattutto Galeno esprimono
una posizione mediana consistente nell’assegnare la funzione di coadiuvante all’apporto femminile e di solo principio
attivo all’elemento maschile - cf. ad es. GALENO, Microtegni seu De spermate, a cura di V. Passalacqua, Istituto di
Storia della medicina dell’Univ. di Roma (Roma 1958). Tuttavia, dal punto di vista linguistico, anche in ambito medico,
b
b
il verbo sullamba,nein - lat. concipere (cum + capere) - (cf. Aristotele, Hist. Animal. 583 29, Generat. Animal. 727 8 e
soprattutto Ippocrate, Aph. 5,446 evn gastri, ; ID., Steril. 220 sullabou/sa th.n gonh,n ) indica l’azione concepente
femminile, come recepisce chiaramente la LXX (v. Gn 4,17.25) e Luca registra nell’annunciazione (1,31) e di nuovo
senza ripetere evn gastri, nell’annuncio a Zaccaria che anche Elisabetta “ha concepito” supponendo la sua fecondazione
poiché si specifica che lei gli genererà un figlio (1,13).
48
Sara partorisce ad Abramo Isacco, il quale è figlio biologicamente inteso in tutto e per tutto di Abramo (Gn 21,1ss);
per la nascita di Samuele è detto espressamente l’atto sessuale (1Sam 1,19-20), mentre non è chiarito per il
concepimento di Sansone (Gdc 13,1ss); quanto a Giovanni Battista v. fine nota precedente.
si sarebbe dovuto incarnare il Figlio di Dio e non uno uomo che è il Figlio di Dio con le necessarie
identità e unità ontologiche ‘teandriche’. Oppure la donna avrebbe dovuta concepire ibridamente o
del tutto paradossalmente con uno stesso ovulo due embrioni umani reciprocamente originali
(gemellari), uno per l’attività riproduttiva di un uomo e l’altro per la potenza incarnazionistica del
Figlio di Dio. La potenza incarnazionistica non può avere però in tal modo una funzione suppletiva
o sostitutiva di quella spermatica maschile, ‘procreante’ in se stesso o addirittura creante un seme
maschile all’occorrenza, che incorrerebbe nelle medesime assurdità di un qualsiasi concorso
maschile, ma fa attivare in se stesso e al contempo rende attiva la sola cellula gametica della donna
feconda e così fecondata viene geneticamente abilitata a concepire umanamente lo stesso Figlio di
Dio. Infatti, il Figlio concentrandosi interamente nella cellula riproduttiva e gametica della donna e
identificandosi totalmente con essa non può non essere anche fecondante questo preciso ovulo da
cui lo zigote appena formato deve essere realmente e carnalmente in tutto e per tutto il Figlio di Dio
il quale solo così può ricevere il suo primo istante di vita umana secondo la comune tipologia
embrionale.
Questa stessa obbligata generazione fisica doveva essere compatibile completamene con la libertà
legale, cioè la totale esenzione dalla universale situazione hamartiologica (Gal 3,22) e dal punto di
vista nomologico la totale esenzione di minorità. La donna da cui tale discendente abramitico ma al
contempo divino, non poteva non essere creata e procreata in qualche modo parimenti secondo la
libertà filiale abramitica sotto legge e rispetto alla sudditanza hamartiologica universale in modo da
poter ricevere vita di giustizia esclusivamente da legge. La donna nella pienezza del tempo
rappresentava l’unica matrice umana della benedizione abramitica e della imminente alleanza
allegorizzata in Sara. E’ la legge che legalizza e così rende realizzabile il fondamento della
discendenza cristologica e quindi la sua promessa, e solo la donna da cui diviene il Figlio di Dio, lo
poteva far nascerne nella legalità e nella realtà fisico-genealogica in sintonia della libertà naturale
della discendenza carnale dal seme abramitico. Per una tale generazione era assolutamente
necessaria una israelita libera non solo allegoricamente, come Sara (dall’utero morto49), ma
secondo il principio fisico-genetico armonizzato con la giusta istanza nomologica (Sara non è
nemmeno allegoricamente figlia di Abramo). La sola figlia abramitica libera secondo carne (con
l’utero fisiologicamente vivo e intatto) rappresenta la legittimazione della legge stessa che è stata
data per il fine cristologico, che proprio per lei si impedisce alla la legge di contraddire e quindi di
non essere messa in condizione di contraddire se stessa illegalmente, poiché sarebbe stata costretta
senza la sua configurazione propria mariologica a sospendere la propria legittimità in vista della
funzione di convalidazione in merito alle clausole testamentarie delle promesse che pertanto
sarebbero rimaste vuote e irrealizzabili anche cristologicamente.
La donna “concepente” il Figlio di Dio deve realizzare la giustizia perché potessero realizzabili
cristologicamente le promesse e compiersi così la giustizia stessa della legge. L’unico Israelita
giusto e libero per natura da opere nomologiche non poteva concepirsi umanamente se non da una
concepente a lui omologata in tale senso con una creazione e concepimento privi di condizione
fisico-nomologica di paidi,skh secondo la allegoria di Agar la quale non è nemmeno di origine
israelitica (Gal 4,24), anche se il suo figlio da Abramo lo è a pieno titolo. Non era risolutiva la
liberazione del Figlio dalla schiavitù carnale, se la sua genitrice fosse una comune paidi,skh
israelitica nell’istante in cui lo concepisce verginalmente, perché avrebbe comunque richiesto una
atto di grazia che rendesse libero il concepito secondo carne, atto che sarebbe stato incompatibile
49
Cf. Rm 4,19.
con il suo concepimento naturale in stato di giustizia completa. il Figlio di Dio non può essere
suscettibile a ricevere la giustizia genetico-protologica per mezzo della grazia perché avrebbe avuto
bisogno di una qualche forma di liberazione che nessuno e nulla avrebbe potuto determinare per lui.
Attribuire concezionalmente la giustizia al Figlio di Dio e non riceverla per natura avrebbero
richiesto un atto di affrancamento individuale dalla ingiustizia in cui altrimenti sarebbe dovuto
essere concepito, e avrebbe compromesso irrimediabilmente la giustizia e per sempre ogni sua
forma di possibilità di realizzazione. Per questo egli deve vivere da vivere per poter divenire l’unico
liberatore dalla ingiustizia nomologicamente inflitta ai suoi connazionali. Il Figlio di Dio nella sua
umanità non può mai essere un generato liber(at)o per concepimento da schiava come anche non
può essere un generato per concepimento da libera(ta), ma solo generato libero (non liberabile) per
concepimento da libera(ta). Che Maria dovesse essere una e unica concepita nella libertà filiale
abramitica (e quindi ricevere la figliolanza divina piena) per natura da legge e non essere mai
suscettibile di attribuzione della giustizia per fede, è una condizione inobiettabile e fisiologicamente
strutturale alla realtà teologica stessa. Paolo con l’allusione anonima non può non sottendere la
libertà filiale per il concepimento e quindi la nascita della sua futura concepente e generante la cui
giustizia non poteva originarsi per pisteologica attribuzione, poiché la giustizia da fede per
promessa vale per sé e non può conseguirsi geneticamente e ‘gameticamente’, come deve essere per
lei.
Questa condizione genetico-antropologica assolutamente irrinunciabile50 di lei poteva soddisfarsi
solo se si fosse attivata una nuova speciale determinazione protologica che completasse la giustizia
prelapsaria ma anche nomologicamente adeguata a motivo dello stato harmatologico universale a
cui la legge aveva giustamente e necessariamente impresso una ‘curvatura’ etnico-giuridico e di
alleanza nella schiavitù. La creazione e procreazione della donna quale israelita filialmente libera,
mai soggetta quindi alla genetica e universale condizione postlapsaria e quindi alle sue conseguenze
nomologiche di maledizione, comporta l’azione di grazia in sé derivante dalla promessa abramitica
(Gal 3,18b) che quindi Abramo può ricevere solo da fede, Maria deve ricevere solo
concezionalmente e antropologicamente e Cristo, essendo non originariamente liberabile da grazia
alcuna, non può mai ricevere in nessun modo, altrimenti l’intera Scrittura sarebbe stata destituita
paradossalmente di qualsiasi fondamento. L’unico possibile agente della grazia è proprio il
singolare uomo concepito eccezionalmente da sola donna singolare poiché costui deve produrre la
suddetta grazia naturalmente durante la sua esistenza terrena e la deve rendere trasmissibile per fede
(l’Incarnazione non è solo un divenire carne per il Figlio di Dio, ma anche e soprattutto un divenire
carne di grazia, carne idonea a produrre grazia, quindi carne graziante perché la giustizia potesse
essere realizzata effettivamente e comunicata universalmente).
Si doveva costituire il seme di Abramo idoneo a concepire il suo unico Libero (Figlio) per natura
e perciò universalmente liberante, che doveva valere solo geneticamente per la madre. Questa
libertà cristologica liberatrice doveva valere individualmente per la madre solo come grazia di
genesi, di quella genesi che doveva concepire e generare quella stessa libertà nel suo concepito
perché potesse essere comunicata naturalmente e per la giustizia da legge allo stesso suo figlio.
Senza tale libertà filiale geneticamente costitutiva la donna non potrebbe al limite e inutilmente
qualificarsi libera se non per allegoria, come la stessa Sara e lo stesso seme di Abramo per Isacco
50
L’unico testo neotestamentario in cui si parla della fede o dell’aver creduto di Maria è Lc 1,45 che trova parallelo
negativo in Zaccaria (Lc 1,20). Questo credere totalmente individuale non è per la non computazione dell’empietà a chi
la compie, ma è di tipo cognitivo, contemplativo e soprattutto vocazionale circa l’apocalissi del mistero di Dio.
secondo carne (inidoneo a procreare nella libertà), e oltre a tutte le inconvenienze su accennate, e
per lei sarebbe assurdo concepire solo allegoricamente come libera poiché ciò non avrebbe avuto
nessun senso, nemmeno per allegoria. Per procreare colui che la feconda per essere procreato solo
da lei, lei avrebbe avuto bisogno della liberazione posteriore al suo stesso concepimento e ancor di
più non avrebbe potuto effettivamente prestare la sua carne di figlia libera per tal processo, perché
avrebbe dovuto assurdamente concepire sempre e comunque con l’ipoteca harmartiologica che la
legge non avrebbe potuto non infliggere anche a lei e ancora di più il suo generato sarebbe potuto
essere solo un eventuale liberabile.
Il processo concezionale o procreativo nel quale la Donna viene concepita, è da uomo in tutto e
per tutto uguale a qualsiasi altro; ma questo evento doveva coincidere anche con l’inizio della fine
del tempo legale per l’imminenza della pienezza del tempo che segna la fine alla minorità filiale
sotto legge e insieme origina la liberazione da essa per la grazia della promessa, realizzando la
benedizione universale di fede, che solo a lei era stata conferita geneticamente e legalmente per
grazia in virtù della promessa. Si doveva permettere per lei e in lei la vita da legge per natura in
accordo con la promessa abramitica da cui si traeva la singolare grazia per tale liberazione
originaria, originale e individuale che la legge da sola per sua definizione non poteva conferire
quanto a giustizia. La grazia per promessa che ad Abramo fu conferita in virtù del suo credere, a
Maria viene conferita in virtù della sua futura maternità, quindi geneticamente. Nella Donna
confluiva così armoniosamente e liberamente, il binomio promessa-legge, per cui la grazia della
promessa rendeva singolarmente possibile la giustificazione da legge in lei nella quale per la sua
intera esistenza creaturale e terrena si doveva registrare sempre nomologicamente compiuta la
giustizia, a differenza di tutti gli altri discendenti etnico-carnali di Abramo (Gal 3,21). Infatti se
Maria è stata sempre e totalmente capace di essere giusta da legge per la grazia protologicamente
ricevuta, che il parto del suo primogenito viene ad attestare inequivocabilmente e la rivelava in tutto
e per tutto la solo integralmente graziata per essere stata concepita nella giustizia come nessun altro.
Sembra davvero illogico e inattendibile che questo suo stato che doveva rimanere tale fino al parto
del suo Primogenito, venisse meno in qualche modo o in qualche tempo dopo il parto divino, anche
e soprattutto perché non sarebbe stato possibile un’appropriata ulteriore azione liberatrice e in
questo caso anche necessariamente giustificativa, poiché la legge nella sua codificazione
nomologica solo per lei avrebbe dovuto registrare una destituzione dalla sua stessa giustizia che
l’avrebbe posta in una decadenza dal suo personale stato di grazia e quindi di maledizione per cui
nulla avrebbe più potuto la promessa cristologica e quindi a nulla sarebbe valso l’essere divenuto
maledizione dello stesso Figlio. Per lei, se si fossero assurdamente realizzate tali condizioni, non
sarebbe più attivabile nessuna grazia poiché non sarebbe potuta essere formula nessun’altra forma
di promessa né di legge e quelle che valevano erano nulle per lei in qualsiasi condizione esistenziale
in cui si trovava51. Maria, anche da questo punto di vista personale, è in se stessa e per se stessa la
sola che serva (a) Dio perché non appaia impotente e inadempiente secondo le sue stesse divine
promesse e soprattutto secondo la sua legge emanata sul Sinai, poiché Dio aveva proevagelizzato
che la divina ‘carne’ non era concepibile se non dall’unica carne protologicamente concepita come
51
Una simile dimensione dovrebbe rendere assurda l’ipotesi di un altro o altri parti di Maria da Giuseppe perché
l’eventuale concepito sarebbe naturalmente libero (per parte di madre) e al contempo naturalmente schiavo (per parte di
padre), ma anche Maria non avrebbe potuto concepire del tutto come libera anche se si fosse prospettato un uomo
concepito per grazia libero perché si sarebbe suscitata una discendenza naturalmente libera parallela a quella giustificata
per fede. Era indispensabile e prevedibile che Maria fosse eccezionalmente la sola primipara verginale del suo
Primogenito e quindi suo Unigenito.
liberata per la grazia della promessa e quindi sempre libera per la legge della discendente di
Abramo che doveva essere creata come l’unica effettiva e totale ‘genesi’ umana possibile per
concepire l’altra ‘carne’ solo giusta che divinamente rendesse produttiva e efficace la stessa grazia
per la giustizia da fede.