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AIAF 2009/2
SOMMARIO
Editoriale
2
Ulteriori riflessioni sui criteri di quantificazione degli assegni
Milena Pini
Focus
3
I provvedimenti economici a favore del coniuge e della prole alla luce dell’interpretazione
giurisprudenziale
Gloria Servetti
15
L’assegno in favore dei figli, in particolare del figlio maggiorenne, e l’assegnazione della casa coniugale
Umberto Roma
30
Criteri di quantificazione degli assegni di mantenimento. I fogli di calcolo
Fiorella Buttiglione
55
I criteri di quantificazione dell’assegno per il coniuge e i figli. Riflessioni, proposte e orientamenti
del Tribunale di Monza
Piero Calabrò
65
Vantaggi e limiti nell’utilizzo di un programma di calcolo dell’assegno di mantenimento.
La prassi del Tribunale di Cagliari
Giorgio Latti
73
Gli strumenti per conoscere la situazione fiscale dell’altro coniuge
Gaudenzia Brunello, Giovanna Tonello
82
Gli assegni periodici corrisposti al coniuge separato o divorziato: il trattamento fiscale
Giampiero Perusi
Contributi e approfondimenti
89
Proposta per una “lettura” del nuovo art. 709 ter c.p.c.
Bruno de Filippis
93
Il procedimento ex art. 709 ter c.p.c.
Marina Marino
105 Il reclamo del provvedimento presidenziale
Giulia Sarnari
111 L’omologazione della separazione consensuale alla luce del d.p.r. 396/2000 e della sentenza dichiarativa
di fallimento: il regime degli acquisti di beni mobili (e diritti equiparati) nella comunione tra coniugi
e l’opponibilità ai creditori esecutanti in sede mobiliare
Renato Culmone
Dalle Regioni
125 I criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge adottati da alcuni Tribunali
del Veneto
a cura di Lorenza Cracco, Gabriella de Strobel, Damiana Stocco
132 Veneto. Raccolta di giurisprudenza relativa all’assegno di mantenimento
AIAF
RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
Anno XIV n° 2, maggio-agosto 2009 - nuova serie quadrimestrale
Direttore responsabile Milena Pini
Redazione Galleria Buenos Aires 1, 20124 Milano - tel. e fax 02 29535945
[email protected] www.aiaf-avvocati.it
Stampa O.GRA.RO. srl - vicolo dei Tabacchi 1, 00153 Roma
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
ULTERIORI RIFLESSIONI SUI CRITERI DI QUANTIFICAZIONE DEGLI ASSEGNI
Milena Pini
Avvocato, Foro di Milano
Ritorniamo a trattare in questo numero la
quantificazione degli assegni periodici a favore
del coniuge e dei figli, in sede di separazione e
divorzio, tema al quale abbiamo già dedicato il
n. 2/2008.
È sempre più avvertita dai giudici di merito l’esigenza di fondare i criteri di quantificazione degli assegni, indicati dalla legge, su concreti
princìpi di equità così da ripartire le risorse economiche in proporzione ai bisogni di tutti i
componenti del nucleo familiare, affinché tutti
godano dopo la separazione di un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello pregresso.
Alcuni Tribunali hanno elaborato fogli di calcolo che tengono conto dei dati di natura personale ed economica dei componenti del nucleo familiare (quali Palermo e Cagliari), altri fanno
riferimento a modelli di calcolo più complessi
fondati su criteri statistici (Firenze, modello
Mo.Cam.), altri ancora si rifanno a criteri proporzionali e aritmetici (Monza).
Queste nuove prassi conducono a risultati sufficientemente equi nel caso di situazione economiche e patrimoniali “semplici”, dove uno o entrambi i coniugi svolgono attività di lavoro dipendente, e non vi sono situazioni attive o passive che incidono in misura rilevante sul tenore
di vita della famiglia. Risultati discutibili scaturiscono invece dall’applicazione di fogli di calcolo o di criteri astrattamente proporzionali nel
caso di situazioni complesse, ad esempio connotate da una collaborazione di entrambi i coniugi in una impresa familiare e in una società di
persone, o da un regime di separazione dei beni che abbia consentito l’accumulo dei risparmi
familiari in capo ad un solo coniuge, o nel caso
di redditi e patrimoni di una certa importanza.
Vero è che nei procedimenti contenziosi di sepa-
2
razione e divorzio la quantificazione degli assegni da parte del Tribunale è quasi sempre contestata da entrambe le parti: il coniuge economicamente più debole, o il genitore collocatario
dei figli, lamenta l’insufficienza dell’importo liquidato, mentre il coniuge obbligato alla corresponsione ne critica l’eccessiva onerosità.
Non è pertanto inutile proseguire la nostra riflessione e ricerca di strumenti che potrebbero
consentire risultati più equi e prassi giudiziarie
condivise.
FOCUS
I PROVVEDIMENTI ECONOMICI A FAVORE DEL CONIUGE E DELLA PROLE ALLA LUCE
DELL’INTERPRETAZIONE GIURISPRUDENZIALE 1
Gloria Servetti
Magistrato, coordinatrice della sezione IX civile, Tribunale di Milano
Gli assegni di mantenimento e di divorzio
La legge 8 febbraio 2006 n. 54, intitolata “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, ha riformulato, sostituendola, la norma di cui all’art. 155 c.c. (Provvedimenti riguardo ai figli) e ha introdotto in via innovativa gli artt. 155 bis, 155 ter, 155 quater,
155 quinquies, 155 sexies, utilizzando una tecnica legislativa che già in precedenza ha avuto “fortuna” nell’ambito delle disposizioni d’ordine processuale, vale a dire ad esempio nella predisposizione del cosiddetto procedimento cautelare uniforme; per effetto di ciò non solo la norma originaria è stata sostituita, ma anche il suo contenuto precettivo si è articolato in una serie di nuove
disposizioni, complementari e specificative della prima.
Il legislatore non è, invece, intervenuto a modificare la norma di cui all’art. 156 c.c. (Effetti della
separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi), il che potrebbe far pensare che con riguardo
alla regolamentazione economica dei rapporti tra i coniugi nulla è mutato rispetto al passato e che
l’entrata in vigore dell’affidamento cosiddetto condiviso non ha avuto su di essa alcun effetto.
Eppure, esaminando le più recenti pronunce, in particolare di legittimità, si avverte la sensazione
che il nuovo impianto normativo abbia in qualche misura influenzato anche l’approccio interpretativo alle tematiche economiche riguardanti la coppia genitoriale, come se i forti princìpi innovativi siano stati di stimolo per un parzialmente diverso modo di affrontare questi aspetti nonostante la volontà del legislatore di non intervenire a espressamente modificarli.
E, del resto, l’art. 155 quater (Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza) è di per sé destinato a produrre conseguenze rilevanti anche sul piano dei rapporti economici tra i coniugi e, per effetto della disposizione finale di cui all’art. 4, comma secondo, che ne estende l’applicazione “anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio”, anche tra gli ex coniugi.
L’elaborazione giurisprudenziale in tema di assegno di mantenimento e di assegno periodico di natura divorzile ha visto nel tempo una progressiva omologazione delle due tipologie di prestazione,
quantunque2 ne sia stata reiteratamente confermata l’autonomia concettuale attraverso la precisazione che “la determinazione dell’assegno di divorzio è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, anche per accordo tra le parti, in sede di separazione”; ciò nondimeno, la stessa Corte
di legittimità non ha mostrato esitazione ad affermare “l’identità di ratio, riconducibile alla funzione eminentemente assistenziale” dell’assegno di mantenimento rispetto a quello divorzile3, così co-
1
Intervento tenuto al Convegno La legge sull’affido condiviso a due anni dall’entrata in vigore: problemi aperti, organizzato da
AIAF Abruzzo, Tribunale di Pescara, Aula Alessandrini, 19 aprile 2008.
2 Cfr. Cass. n. 5302 del 10 marzo 2006; Cass. n. 2510 del 30 novembre 2007; Cass. n. 1758 del 28 gennaio 2008 e Cass. n. 4424
del 21 febbraio 2008.
3 Cass. n. 10344 del 17 maggio 2005.
3
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
me già in epoca più risalente4 era stata riconosciuta “l’identità del riferimento all’adeguatezza dei
mezzi, posto dall’art. 156, primo comma, c.c. e dall’art. 5, sesto comma, legge n. 898 del 1970”, restando in tal modo confermato che per entrambi gli assegni “vige il principio secondo il quale il tenore di vita goduto durante il matrimonio... è quello al quale deve essere rapportato il giudizio di
adeguatezza dei mezzi a disposizione del soggetto richiedente”.
Appare, dunque, innanzitutto evidente il costante riferimento, comune ad entrambe le prestazioni
economiche, al tenore di vita goduto in costanza di convivenza, parametro che, non esplicitato nell’originaria formulazione dell’art. 155 c.c., ha invece fatto ingresso attraverso la legge n. 54 [art. 155,
comma quarto n. 2) di nuovo conio] quale criterio essenziale ai fini della quantificazione della contribuzione di ciascun genitore al mantenimento della prole (“il tenore di vita goduto dal figlio in
costanza di convivenza con entrambi i genitori”).
Da un lato può, allora, dirsi che la giurisprudenza della Corte di legittimità, sempre più orientata
verso la valorizzazione della natura eminentemente assistenziale dell’assegno di divorzio, ha compiuto una sostanziale omologazione dei due tipi di assegni, con una tendenza ad omogeneizzare
le conseguenze patrimoniali del divorzio e della separazione che non tiene conto della linea di
confine che il legislatore (anche, e soprattutto, quello della Novella del 1987) aveva mostrato di voler porre tra i due istituti, così che a ragione può oggi dirsi che alla solidarietà coniugale (senza
dubbio sussistente nel regime di separazione, laddove l’obbligo di mantenimento rappresenta ancora espressione dell’obbligo di assistenza, siccome funzionale a consentire a ciascun coniuge di
condividere, pur dopo la cessazione della convivenza, la medesima condizione sociale dell’altro)
è venuta ad equipararsi la solidarietà post coniugale, la quale avrebbe dovuto essere invece connotata da un ambito più ridotto e fors’anche residuale, in linea con le raccomandazioni espresse
nella Relazione Lipari al Senato volte ad escludere la realizzazione di rendite cosiddette parassitarie e a promuovere l’acquisizione da parte del coniuge più debole di una progressiva e accettabile autonomia.
Dall’altro lato, poi, si deve oggi riconoscere che il parametro di riferimento rappresentato dal tenore di vita proprio del periodo della convivenza è divenuto comune a tutte le prestazioni economiche tipiche del momento della crisi familiare, sia di quelle inerenti i rapporti tra i coniugi sia – e
proprio per espressa opzione legislativa – di quelle riguardanti il mantenimento dei figli.
Ma, ancora, ben recentemente5 è stato affermato (riprendendo un principio già enunciato in Cass.
n. 20838/04) che ai fini della quantificazione dell’assegno ex art. 156 c.c. deve anche tenersi conto “della durata del matrimonio e del contributo apportato dalla donna alla formazione del patrimonio del coniuge, elementi che integrano parametri utilizzabili in occasione della quantificazione dell’assegno di mantenimento in caso di separazione personale”, mentre proprio nei mesi scorsi6 è stato precisato che il giudice deve dare giustificazione della propria decisione in tema di quantificazione dell’assegno di divorzio alla luce dei criteri che siano stati puntualmente dedotti e richiamati dalle parti, sì che si rileva un’omissione quando abbia il giudice trascurato di considerare “il
criterio basato sul contributo offerto alla conduzione familiare attraverso il lavoro casalingo e la
cura diretta della prole”, per tale via imponendo una significativa quanto indispensabile valorizzazione della componente contributiva rappresentata dal lavoro domestico.
Troviamo, allora, anche in queste recenti pronunce un riferimento esplicito ad un altro dei criteri
espressamente dettati dal legislatore del 2006 ai fini della quantificazione del contributo a favore
dei figli, atteso che l’art. 155, comma quarto n. 5) impone di considerare “la valenza economica
dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”: la sintesi cui possiamo ora giungere
è che, grazie al costante sforzo interpretativo affrontato dalla Suprema Corte, si è pervenuti all’individuazione di taluni parametri per l’attribuzione e la quantificazione degli assegni di mantenimento e di divorzio a favore del coniuge (in particolare il tenore di vita e la valenza del lavoro dome-
4
Cass. n. 10465 del 26 novembre 1996.
5
Cass. n. 25618 del 7 dicembre 2007.
6
Cass. n. 593 del 14 gennaio 2008.
4
FOCUS
stico) che sono sostanzialmente coincidenti con quelli che il legislatore ha voluto in via espressa
prevedere nel novellato art. 155 c.c. con diretto riferimento agli obblighi contributivi a favore della prole.
Ma vediamo che cosa è ancora di recente accaduto.
Sono dell’opinione che nell’ultimo periodo, grazie a plurimi e articolati interventi della Corte di legittimità, si sia anzitutto rafforzata la tutela del credito relativo a tutti gli assegni qui in discussione, dal momento che è stato precisato che:
1. l’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato integra un credito pecuniario e, quindi, a norma dell’art. 1282 c.c. produce interessi corrispettivi ope legis dal momento in cui sia liquido ed esigibile: ne consegue che, quando l’assegno medesimo venga fissato in importi differenziati per il periodo intercorrente dalla domanda alla decisione, su ciascuna rata, a partire
dalla relativa scadenza, devono essere riconosciuti i suddetti interessi, anche quando la decisione medesima non ne contenga un’espressa attribuzione7;
2. nell’ipotesi in cui l’assegno, sia per il coniuge che per i figli, sia quantificato in sentenza in misura maggiore rispetto a quella fissata in via provvisoria dal presidente (o dal giudice istruttore) in ragione della svalutazione monetaria intervenuta nelle more, la decorrenza di tale maggiore misura non può farsi coincidere con la data della decisione senza alcun conguaglio per il
periodo intermedio, dovendosi invece riconoscere l’adeguamento secondo scaglioni progressivi, rapportati ad un anno o al diverso periodo di tempo ritenuto opportuno, fino a raggiungere, a partire dalla decisione, la quantità aggiornata al valore della moneta all’epoca corrente8;
3. in tema di separazione, l’art. 156, sesto comma, c.c. postula una valutazione di opportunità che
prescinde da qualsiasi comparazione tra le ragioni poste a fondamento della richiesta avanzata
e quelle addotte a giustificazione del ritardo nell’adempimento, implicando esclusivamente un
apprezzamento in ordine all’idoneità del comportamento dell’obbligato a suscitare dubbi circa
l’esattezza e la regolarità del futuro adempimento, e quindi frustrare le finalità proprie dell’assegno di mantenimento9;
4. il limite della impignorabilità della retribuzione oltre il quinto non opera con riferimento all’esecuzione promossa dal creditore per contributo al mantenimento della prole, avendo questo funzione alimentare10.
Appare, in sintesi, evidente l’orientamento volto a sempre più garantire l’effettività del credito per
prestazioni di mantenimento, sia sotto il profilo della produzione di interessi corrispettivi sia sotto
quello della tutela di fronte all’inadempimento; e proprio a tale secondo riguardo sono oltremodo
rilevanti la “caduta” del discusso limite del quinto per il pignoramento (che si ripercuote sull’operatività dell’ordine di corresponsione diretta ex art. 156 sesto comma c.c. per l’intero assegno di
mantenimento, potendo questo giungere ad assorbire anche l’intera retribuzione, alla sola condizione che quest’ultima rappresenti solo “una parte” del reddito dell’obbligato) e la non necessità
di un pregresso inadempimento (che di norma si richiedeva fosse provato o attraverso un’esplicita ammissione o per il tramite della notifica di un precetto per ratei scaduti e non corrisposti) ai fini dell’ordine al terzo, essendo oggi sufficiente una ragionevole previsione di mancata ottemperanza, anche sotto il profilo del mero ritardo, il che sembra persino poter spostare la natura della misura da coercitiva a cautelare.
L’assegnazione della casa coniugale
Nessun dubbio può essere prospettato in ordine alla fermezza e alla solidità dell’orientamento di
legittimità volto a negare il potere del giudice di procedere all’assegnazione della casa coniugale
7
Cass. n. 3336 del 14 febbraio 2007.
8
Cfr. Cass. n. 3336/07, cit.
9
Cfr. Cass. n. 23668 del 6 novembre 2006.
10 Cfr. Cass. n. 15374 del 10 luglio 2007.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
ove non siano presenti figli minori o figli maggiorenni ma non ancora indipendenti11, con l’effetto
che è ormai incontroverso ravvisare l’interesse protetto dall’istituto dell’assegnazione in quello vantato dalla prole alla stabilità delle proprie abituali condizioni di vita, così come si sono create nel
periodo della convivenza dell’intero nucleo familiare.
Ciò spiega le perplessità sorte nell’immediato di fronte alle disposizioni contenute nell’art. 155 quater di nuovo conio laddove è previsto che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno
nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva
more uxorio o contragga nuovo matrimonio”, fermo restando che sulle prime due ipotesi non può
esservi seria contestazione e che, per contro, la perdita, o la cessazione ex lege, del diritto all’assegnazione in caso di convivenza o matrimonio fa sì che una vicenda personale del genitore, affidatario o convivente, esplichi effetti dirompenti proprio su quell’assetto di vita dei figli che la norma
si pone come obiettivo di tutelare.
La disposizione in questione è stata nell’immediatezza investita da sospetto di incostituzionalità dalla larga maggioranza dei commentatori, e i giudici di merito hanno recepito simili dubbi: la Corte
d’Appello di Firenze (ord. 13 dicembre 2006), la Corte d’Appello di Bologna (ord. 22 febbraio
2007), il Tribunale di Firenze (ord. 13 gennaio 2007) e ancor prima il Tribunale di Busto Arsizio,
con ordinanza del 20 ottobre 2006, hanno infine sollevato la relativa eccezione con riferimento agli
artt. 2, 3 e 30 Cost., segnalando la contraddittorietà e l’irrazionalità insite nella scelta legislativa di
sacrificare in modo pressoché automatico e perentorio l’interesse stesso che la norma si ripromette di tutelare in via primaria; come noto, la Corte investita della questione ha rilevato la preliminare inammissibilità della stessa (ord. n. 421 del 22 novembre-5 dicembre 2007), sì che ancora oggi
non è dato avere certezza alcuna in ordine alla legittima persistenza nel nostro ordinamento di una
disposizione di siffatto contenuto.
Vero è che da talune parti12 si è propugnata, se pur su diversi presupposti, una lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo in questione, tale da consentire di superare il dubbio di
incostituzionalità, ma è altrettanto vero che qualsiasi interpretazione, di fronte a un dettato legislativo dall’apparenza chiara e univoca, non potrebbe che aprire il varco al fiorire di prassi oltremodo diversificate e finanche contrastanti, con l’effetto ultimo e inquietante della perdita di certezza
del diritto.
Sul punto è recentemente intervenuta la Corte di legittimità con la sentenza n. 26574 dell’8 novembre-17 dicembre 2007 che, dopo avere premesso che l’assegnazione della casa coniugale è finalizzata in via esclusiva alla tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, ha rilevato come la norma di cui all’art. 155 quater non si ponga
in contraddizione con detta finalità, trattandosi “di mera conseguenza dell’avere l’abitazione perduto, nei primi due casi, oggettivamente la sua funzione, e negli altri due casi per essere venuto
meno, secondo la valutazione del legislatore, in conseguenza della formazione di un nuovo nucleo familiare da parte del coniuge assegnatario, quell’ habitat che si intendeva conservare, finché
possibile, ai figli”.
La pronuncia pare rifarsi a un già espresso orientamento13 secondo il quale l’espressione casa familiare non dovrebbe connotare materialmente il bene immobile all’interno del quale si è svolta,
in un determinato periodo di tempo comunque giunto a conclusione, la vita coniugale e familiare, bensì “il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza”, nel senso di luogo degli affetti, degli interessi e delle consuetudini di quel nucleo familiare originario; da qui la conclusione che l’ingresso di un terzo soggetto in quell’habitat domestico avrebbe non solo l’effetto di
alterare le relazioni personali ma, anche, di far perdere alla casa la sua valenza di centro di aggre-
11 Vedi anche Cass. n. 10994 del 14 maggio 2007, Cass. n. 16398 del 24 luglio 2007 e la già ricordata Cass. n. 25010 del 30 novembre 2007, che sul punto rileva, fra l’altro, l’inderogabilità della scelta legislativa che presume un danno psicologico per la prole derivante dal mutamento del proprio originario ambiente domestico.
12 In dottrina, Paladini, e in giurisprudenza Trib. Firenze, decreto 16 maggio 2007.
13 Cass. n. 13065 del 9 settembre 2002.
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FOCUS
gazione del nucleo originario, non più esistente perché caratterizzato da un nuovo partecipante e
così sostanzialmente modificatosi.
Poiché tuttora ritengo affatto infondati i dubbi di incostituzionalità già espressi dai diversi richiamati uffici (e si veda Cass. n. 17043 del 3 agosto 2007, che significativamente esclude l’incidenza
della convivenza del genitore ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento dovuto per
il figlio dall’altro genitore, così mostrando di voler tenere ben distinte le posizioni dei due soggetti) penso che in attesa di una definitiva soluzione della questione non ci si possa che rifare, nell’applicazione della controversa disposizione normativa, al consolidato orientamento della Corte di
legittimità (tra le più recenti, Cass. n. 17643 del 10 agosto 2007) in ordine alla qualificazione e alla struttura stessa della convivenza more uxorio, ben differenziata rispetto al mero concetto di coabitazione: intendo con ciò richiamarmi al più volte ribadito principio che per acquisire rilievo giuridico la convivenza deve non solo essere stabile e sorretta dalla comune volontà di dare origine
a un consortium vitae del tutto similare a uno di tipo familiare ma deve, anche e soprattutto, vedere una reciproca assistenza di ordine materiale ed economico, sì che al convivente siano garantite prestazioni abituali, continuative e di rilievo che, ancorché riconducibili al novero delle obbligazioni naturali, siano idonee ad alterare in melius la posizione economica del percipiente14.
La sintesi è che spetterà al giudice di merito vagliare con massima attenzione, sotto il profilo dell’assolvimento dell’onere probatorio, gli elementi indicatori di una convivenza così complessivamente connotata, consapevole dell’importanza che una simile valutazione assume anche ai fini della persistente assegnazione del domicilio coniugale, per evitare che ad un’erronea qualificazione
del rapporto intercorrente tra il genitore, affidatario o con lui convivente, con terza persona faccia
seguito un danno irreversibile per il figlio destinatario della tutela dall’ordinamento predisposta.
Il mantenimento dei figli
L’art. 155 co. 4 prevede che “salvo accordi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”.
Il dettato normativo ha posto immediati problemi all’attenzione dell’interprete.
a) Il criterio della proporzionalità è già previsto dagli artt. 143, 147 e 148 c.c. ed è quindi principio fondamentale e normalmente ritenuto inderogabile, così che ci si deve domandare se esso
possa essere invece oggi derogato attraverso un diverso accordo delle parti sottoscritto “liberamente”, con riconoscimento di una supremazia dell’autonomia privata sulle generali disposizioni di legge.
Prima di tutto deve essere precisato che al giudice compete la verifica che il diverso accordo
sia di per sé valido, ovvero che sia stato raggiunto in piena libertà e coscienza, al di fuori di
pressioni, condizionamenti o valutazioni estranee all’interesse precipuo del minore; se non fosse consentito effettuare questo controllo preliminare, e quindi apprezzare se l’accordo si ponga in termini di efficace tutela dell’interesse del minore, si avrebbe la conseguenza – inaccettabile – che sul piano economico gli accordi delle parti sfuggono alla verifica giudiziale e non sarebbe neppure rispettato il disposto dell’art. 155 co. 2 riformulato (“... prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”).
È stato al riguardo osservato che un accordo totalmente derogatorio rispetto al criterio di proporzionalità non sarebbe accettabile, in quanto confliggente con il principio generale dell’art.
148 c.c., a sua volta espressione del principio di eguaglianza costituzionalmente garantito: da
qui la consequenziale ipotesi interpretativa secondo la quale la disposizione in esame dovrebbe essere letta nel senso che è consentito ai genitori accordarsi circa le rispettive modalità di
mantenimento, con ciò intendendosi che questo può essere prestato in forma diretta o indiretta per il tramite di un assegno, ma fermo il rispetto del criterio di proporzionalità previsto da
14 Cass. n. 24056 del 10 novembre 2006.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
una norma generale, e non modificata, che trova riconoscimento negli stessi superiori princìpi
d’ordine costituzionale.
Resta sempre salvo, a mio avviso, il compito del giudice di valutare a fondo la regolamentazione privata, chiedere chiarimenti, valorizzare i compiti di accudimento diretto e le cure domestiche eccetera, così che non potrà il medesimo del tutto passivamente fare propri accordi che
non siano improntati all’attuazione del principio di proporzionalità ma dovrà, per converso, in
via complessiva apprezzare se l’apparente non puntuale proporzione trovi invece ragion d’essere in una pertinente diversificazione dei singoli apporti e della loro rispettiva natura.
b) L’assegno è previsto “ove necessario” e in quel caso deve essere determinato tenendo conto di
cinque parametri, due dei quali nuovi rispetto all’applicazione giurisprudenziale più consolidata, e cioè quello dei “tempi di permanenza presso ciascun genitore” e della “valenza dei compiti domestici e di cura svolti da ciascuno”.
È stato a tale riguardo osservato che, stando alla lettera della legge, con accordi scritti i genitori possono prevedere di assumere direttamente parte degli oneri di mantenimento, mediante attribuzione di un bene o il pagamento diretto di beni o prestazioni nell’interesse dei figli, ferma
restando la funzione “riequilibratrice” dell’assegno, anche se questo non può più essere definito perequativo (come nelle precedenti stesure della legge).
Non è mancato chi ha invece ritenuto che l’art. 155 co. 5 (“l’assegno è automaticamente adeguato agli indici Istat in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice”), l’art. 155
quinquies (“Disposizioni a favore dei figli maggiorenni”) e l’art. 3 (“Disposizioni penali”) sembrano attestare una generale eliminazione del mantenimento diretto e la scelta legislativa finale di prevedere come forma di contribuzione ordinaria quella indiretta attraverso il versamento
di un assegno.
Una soluzione concretamente prospettabile può essere quella che, dove gli accordi non siano
convincenti o vi sia acceso contrasto tra le parti (come di norma avviene nei procedimenti contenziosi), il giudice può sempre stabilire l’assegno, anche se nel contempo può opportunamente prevedere una concorrente ripartizione tra i genitori delle spese per i figli con modalità dirette: è prevedibile, ma anche ragionevole, la conclusione che, in presenza di una consistente
conflittualità in ordine alla ripartizione o alla quantificazione degli obblighi di mantenimento, il
giudice finirà con il ravvisare necessaria la determinazione di un assegno periodico, in questi
termini dando conto del rispetto della volontà legislativa espressa attraverso l’introduzione dell’inciso “ove necessario”.
Sul punto disponiamo di dati abbastanza significativi nell’ambito del distretto milanese: il mantenimento con modalità “dirette” non è mai disposto nelle procedure contenziose, neppure
quando è al riguardo avanzata richiesta da parte del genitore non collocatario; più della metà
degli uffici procede, invece, in tal senso quando a richiederlo siano congiuntamente entrambi i
genitori.
In caso di mantenimento diretto diversi Tribunali attribuiscono ai genitori il compito di provvedere del tutto liberamente alle esigenze dei figli, mentre pare non avere riscontrato alcun successo l’ipotesi (fatta propria dal legislatore nelle prime stesure della Riforma) che sia il giudice
a ripartire gli oneri secondo “capitoli di spesa”.
Quale corollario di simile evidente diffidenza verso il mantenimento in forma diretta, la prevalente parte dei Tribunali ricorre alla determinazione di un assegno periodico sempre e in ogni
caso, il che equivale a dire che l’assegno non è meramente perequativo ma destinato ad assolvere in via del tutto prevalente l’obbligazione di mantenimento, fatta salva in linea pressoché
generale la concorrente previsione di un accollo percentuale (di massima al 50%) delle spese
mediche, scolastiche e, più in generale, straordinarie.
c) L’art. 155 co. 4 riferisce la proporzionalità al reddito, mentre il punto 4) dello stesso comma fa
riferimento alle “risorse economiche” di ciascun genitore.
Nonostante tale contraddizione lessicale, secondo una tesi che ritengo condivisibile ciò starebbe a significare che nulla è cambiato rispetto al passato e che deve aversi riguardo alla previsione di cui all’art. 148 c.c., con la conseguenza che dovranno venire in considerazione tutte le
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FOCUS
sostanze dei coniugi nel loro complesso, in linea con la costante elaborazione giurisprudenziale inerente a tutte le tipologie di prestazione periodica.
d) Tra i cinque criteri da seguire e applicare per la determinazione dell’assegno in favore dei figli
non è espressamente previsto quello dell’assegnazione della casa coniugale (art. 155 co. 4),
mentre l’art. 155 quater (“Dell’assegnazione della casa il giudice tiene conto nella regolamentazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”) lo considera elemento da valutare nei rapporti economici tra i coniugi.
La discrasia è a mio avviso solo apparente e non deve essere enfatizzata dall’interprete, perché
l’assegnazione della casa, che pure rappresenta un beneficio anche per il genitore collocatario
o affidatario della prole, è destinata a incidere sulle rispettive situazioni economiche e costituisce un’importante forma di contribuzione diretta alle esigenze di mantenimento della prole (si
veda l’interessante Cass. n. 4203 del 24 febbraio 2006 che sul punto ha affermato che “il godimento della casa familiare costituisce un valore economico – corrispondente, di regola, al canone ricavabile dalla locazione dell’immobile – del quale il giudice deve tenere conto ai fini della
determinazione dell’assegno dovuto all’altro coniuge per il suo mantenimento o per quello dei
figli”); a ciò si aggiunga, come già osservato, lo stabile orientamento che esclude la possibilità
di assegnazione a un coniuge in difetto di prole (v. a conferma la recente Cass. n. 24407 del 23
novembre 2007 che, riaffermando il carattere eccezionale del potere di assegnazione, ha ribadito che la norma “non è applicabile, neppure in via di interpretazione estensiva, con riferimento alla posizione del coniuge non affidatario, ancorché avente diritto al mantenimento, neppure ai sensi dell’art. 156 c.c.”), di guisa che il problema interpretativo si risolve sol che si pensi
che laddove non c’è prole non può esserci assegnazione.
e) Per il mantenimento dei figli maggiorenni l’art. 155 quinquies prevede solo la corresponsione
di un assegno, così che sembrerebbe doversi escludere l’ipotesi che alle esigenze del maggiorenne possa provvedersi con modalità dirette: ci si deve, allora, domandare se possa in ipotesi
il giudice procedere egualmente in tal senso, ripartendo tra i genitori i singoli titoli di spesa.
Seguendo una prima tesi, ancorata al dato letterale, sembrerebbe doversi dare una risposta negativa, sia perché il dettato non pare consentirlo sia perché “di norma” l’assegno per il figlio
maggiorenne deve essere versato direttamente al beneficiario medesimo; resta però da verificare se una soluzione di questo tipo non crei un contrasto poco accettabile nel raffronto con le
disposizioni in tema di mantenimento della prole minore, tenuto conto che a livello applicativo, e di garanzia dei diritti del soggetto beneficiario, non si rinvengono ragioni ostative a che
ciascuno dei genitori assolva agli obblighi su di lui pro quota gravanti mediante l’assunzione in
via diretta di talune voci di spesa.
Mantenimento diretto e mantenimento indiretto
Abbiamo già visto come lo stesso legislatore, dopo non poche oscillazioni di pensiero e manifestazioni di aperto dissenso provenienti da più parti, abbia infine desistito dall’originario progetto volto ad imporre in via generalizzata e tassativa la forma di mantenimento cosiddetto diretto e la suddivisione tra i genitori dei relativi oneri mediante individuazione di “capitoli di spesa”, in qualche
misura riproduttivi di quelle “sfere di competenza” che avrebbero dovuto fra loro ripartire l’esercizio della potestà genitoriale, con una complessiva parcellizzazione dei corrispondenti diritti e doveri che tante perplessità e critiche aveva suscitato.
In linea del tutto prevalente la prima giurisprudenza applicativa dei nuovi princìpi si è mossa nella direzione di un persistente maggior favore verso il sistema tradizionale, all’evidenza sensibile al
problema delle garanzie di un corretto adempimento e convinta che, in presenza di una conflittualità, che pure non risulta di per sé ostativa all’applicazione del regime prioritario dell’affidamento
condiviso, la contrapposizione all’interno della coppia genitoriale è foriera di ulteriore contenzioso sul piano economico, con detrimento delle esigenze di mantenimento della prole.
Non va, infatti, trascurata la difficoltà di tutela esecutiva che si accompagna a statuizioni generiche
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e, in sintesi, affermative del principio di contribuzione proporzionale alle proprie capacità, tanto
che di recente15 la Suprema Corte non ha potuto che ribadire che “in materia di assegno di mantenimento, nel caso in cui il coniuge onerato alla contribuzione delle spese straordinarie, sia pure
pro quota, non adempia, al fine di legittimare l’esecuzione forzata occorre adire nuovamente il
giudice affinché accerti l’effettiva sopravvenienza degli specifici esborsi contemplati dal titolo e la
relativa entità”, il che sta a significare che il credito deve essere verificato nella sua liquidità ed esigibilità perché ne possa essere ingiunto il pagamento e che solo dopo di ciò potrà procedersi alla
fase esecutiva. È pertanto evidente che in caso di inadempimento all’obbligo di mantenimento in
forma diretta sarà precluso il ricorso immediato alla notifica di un precetto e, del pari, l’utilizzo degli importanti strumenti di garanzia rispettivamente rappresentati dall’art. 156, sesto comma, c.c. e
dall’art. 8 legge n. 898/1970, come opportunamente riformulato a detti fini dalla Novella n. 74/1987.
Ciò nondimeno, già con sentenza 16 giugno-12 luglio 2006 il Tribunale di Catania ha adottato una
statuizione favorevole al mantenimento diretto in un caso in cui, adottato il regime di affidamento
condiviso, in presenza di pressoché pari periodi di permanenza del figlio presso l’uno e l’altro genitore e di una pari potenzialità di reddito (si trattava nella specie di due insegnanti), ha ritenuto
che non vi fosse necessità di stabilire alcun assegno periodico “fermo restando che ciascuno dovrà
provvedere al mantenimento diretto nei periodi di rispettiva permanenza e sarà tenuto al 50% delle spese scolastiche e di vestiario e di quelle per le attività sportive o ricreative cui abbia dato il suo
assenso, nonché al 50% di quelle di carattere sanitario”.
Interessante è anche vedere come la giurisprudenza si è posta il problema del contributo diretto al
mantenimento, nell’ambito del più generale problema della motivazione della quantificazione dell’assegno, e dell’indicazione di quali spese (ordinarie o straordinarie) esso serva a coprire.
Così, ad esempio, sempre il Tribunale di Catania (ord. 24.04.2006), premessa una valutazione complessiva delle esigenze del minore secondo quanto documentato dai genitori e una valutazione del
“costo” annuo del mantenimento, ha distribuito in misura proporzionale tra i coniugi il costo rilevato, tenendo conto anche del contributo domestico, ha stabilito una quota in percentuale di spese cui il genitore doveva provvedere direttamente e ha coperto il resto con l’assegno periodico di
mantenimento.
Al contrario, la Corte d’Appello di Torino con decreto del 27 ottobre 2006 ha ritenuto preferibile,
pur riconoscendo nel mantenimento diretto una nuova regola, stabilire un assegno mensile a carico del padre, argomentando che la madre, presso la quale la prole aveva il prevalente collocamento, aveva lamentato come da parte dell’altro genitore vi fosse la tendenza a sostenere spese non
necessarie, se non persino voluttuarie, lasciando in buona sostanza tutto il carico delle spese ordinarie alla madre.
Ancora il Tribunale di Catania, con sentenza del 14 aprile 2006, ha in modo articolato affrontato il
tema della concorrenza tra mantenimento diretto e mantenimento indiretto, ritenendo quest’ultimo
come conguaglio “ove il modo diretto non copra interamente il budget a proprio carico” e valga a
integrare la quota parte a carico di un genitore, fermo restando l’insopprimibile margine di discrezionalità devoluto al giudice nel caso in cui “la contribuzione diretta appaia improbabile per inaffidabilità dell’uno dei genitori (ad esempio perché questi non si è mai occupato in prima persona
di provvedere ai bisogni del figlio)”, così da integrare quella necessità che è il presupposto condizionante la fissazione di un assegno periodico.
A qualunque soluzione si voglia pervenire sul piano della rigorosa interpretazione del nuovo dato
normativo, è in ogni caso certo che la formula del mantenimento diretto non ha trovato nelle aule di giustizia il successo forse auspicato e la spiegazione sta nel fatto che laddove il contenzioso
è più acceso (e cioè nelle controversie giudiziali, rispetto alle quali viene a formarsi l’orientamento giurisprudenziale) più basse sono le probabilità che le parti riescano a collaborare sul piano economico e a coordinare i propri individuali interventi di spesa, con il rischio affatto remoto che il
figlio abbia tutto il superfluo ma sia privo di ciò che gli è invece essenziale.
15 Cass. n. 1758 del 28 gennaio 2008.
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FOCUS
E, del resto, un significativo sostegno in questa direzione è giunto dalla Suprema Corte che, con la
nota sentenza n. 18187 del 18 agosto 2006, ha affermato che “l’affidamento congiunto non può
comportare necessariamente, in ordine al mantenimento dei figli, un pari obbligo patrimoniale a
carico dei genitori, nel senso che dall’affidamento congiunto debba discendere l’obbligo per ciascun
genitore di provvedere ‘in via diretta’ al mantenimento dei figli” così che “l’affidamento congiunto è istituto che, per le sue finalità riguardanti l’interesse dei figli, non esclude l’obbligo del versamento di un contributo, ove ne sussistano i presupposti, a favore del genitore con il quale i figli stessi convivono”.
Il sistema che, comunque, sembra oggi prevalente è quello della determinazione di un assegno
mensile e di un ampliamento delle voci di spesa che, in presenza di un affidamento condiviso, rappresentano una forma di contribuzione diretta: così, infatti, mentre in precedenza la larga maggioranza dei provvedimenti prevedeva un concorso, di norma al 50%, alle sole spese mediche non
mutuabili e straordinarie, oggi sempre più diffuso è l’ampliamento di una siffatta previsione alle
spese scolastiche, a quelle sportive, a quelle culturali (come i viaggi studio all’estero) e finanche a
quelle ricreative, sì da realizzare un maggiore coinvolgimento del genitore non convivente nelle
scelte di questa natura e nel pagamento dei correlati oneri economici, con l’effetto che il sistema
che il più delle volte viene a crearsi potrebbe dirsi “misto”.
Il mantenimento dei figli maggiorenni
Un problema ancora aperto è quello riguardante il mantenimento dei figli maggiorenni, ovviamente quando siano privi di autonomia economica e ancora conviventi con un genitore, posto che in
mancanza di tale rapporto è incontroversa la cessazione della legittimazione attiva del genitore e
le questioni economiche non possono che essere oggetto di regolamentazione diretta per iniziativa del figlio, unico legittimato iure proprio.
Laddove, per contro, permanga la convivenza, ci si è a lungo interrogati sugli effetti anche processuali delle nuove norme e, in particolare, sull’individuazione del soggetto legittimato a chiedere e
ricevere detto contributo al mantenimento, atteso che da una prima lettura sembrava doversi desumere la volontà legislativa di rendere, sempre e comunque, il figlio maggiorenne destinatario diretto, e percipiente, dell’assegno in questione, siccome titolare di un’autonoma posizione giuridica
soggettiva; molte sono state le critiche mosse a una siffatta opzione, destinata a produrre un nuovo contenzioso tra il figlio e il genitore convivente, chiamato a sollecitare il versamento di somme
dal primo ricevute per poter far fronte alla gestione domestica, nonché a porre consistenti problemi in ordine all’ammissibilità dell’intervento del figlio in procedimenti di separazione, di divorzio
o di relativa modifica, per loro natura destinati ad accogliere unicamente “contese endoconiugali”
(in senso negativo, Trib. Marsala, 26 febbraio 2007).
Tralasciando, di necessità, di rivisitare le plurime argomentazioni portate dalla dottrina a sostegno
dell’una e dell’altra soluzione, è invece il caso di rilevare subito come la prassi non abbia sino ad
oggi registrato un incremento delle iniziative autonome dei figli maggiorenni e come non sia stata
negata la persistente legittimazione del genitore convivente, in difetto di un’azione direttamente intrapresa dal figlio (azione che in tal caso dovrebbe necessariamente essere promossa nei confronti di entrambi i genitori, in via separata e con giudizio a cognizione ordinaria); in diversi casi si è
invece optato per una soluzione per così dire intermedia, comportante una suddivisione dell’assegno dovuto dall’altro genitore tra i due destinatari della prestazione, sì da consentire al genitore
convivente di avere garantita la diretta utilizzazione di parte dell’assegno per far fronte agli oneri
di conduzione domestica e al figlio maggiorenne di disporre di una porzione del contributo a lui
destinato, per lasciargli un margine di autonomia e, in qualche misura, consentire di testare la stessa sua capacità di gestire in prima persona il denaro destinato al suo mantenimento16.
16 In questi termini, App. Milano, 6 giugno 2007.
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È peraltro opportuno precisare che il versamento diretto, anche ove ritenuto conveniente in rapporto a tutte le circostanze del caso, può essere disposto solo se al momento della pronuncia il figlio abbia già raggiunto la maggiore età, mentre se il regime era quello previsto per il figlio minore (con la legittimazione esclusiva del genitore convivente) dovrà, eventualmente, essere instaurato un procedimento di revisione delle condizioni (ex artt. 710 c.p.c. e 9 legge div.), in difetto del
quale continuerà ad essere efficace la corresponsione al genitore già in precedenza destinatario del
pagamento (contra, Finocchiaro, il quale sostiene la sopravvenuta inefficacia dei provvedimenti
emessi in precedenza a favore del genitore affidatario o convivente, con la conseguenza che l’obbligato, per essere stimato adempiente, deve versare l’assegno direttamente al figlio maggiorenne).
A mio avviso, in via di estrema sintesi, il precedente assetto deve necessariamente conservare piena validità sino a diverso provvedimento, sia perché i genitori (e anche il figlio) potrebbero non
avere alcun interesse a una diversa regolamentazione, sia perché debbono tendenzialmente evitarsi situazioni di “vuoto” nel regime di contribuzione, dal momento che eventuali inadempimenti darebbero luogo, nell’incertezza sulla legittimazione attiva, a situazioni creditorie di ben difficile soddisfacimento sul piano del recupero coattivo.
Inoltre, la norma di cui all’art. 155 quinquies, seconda parte, c.c. presuppone sempre un controllo del giudice su chi debba essere il destinatario del pagamento, con la possibilità che – tenuto
conto di tutte le circostanze del caso – sia conservata la corresponsione a favore del genitore: anche da qui l’impossibilità di aderire ad una soluzione che veda la perdita automatica di efficacia
del provvedimento nella sua conformazione antecedente al solo raggiungimento della maggiore età
da parte del figlio destinatario del contributo periodico.
La valutazione delle richiamate complessive circostanze ha, del resto, indotto il Tribunale di Bologna (sent. 16 maggio 2006) a stabilire a carico di un padre il versamento diretto a favore delle figlie pure stabilmente ancora conviventi con la madre, essendo stato in quel caso valorizzato un sistema di pagamento (accredito sulla carta Postepay di una figlia) già da tempo in essere ed essendo stata del pari segnalata la particolare situazione derivante da ripetuti, e non sempre noti, spostamenti del nucleo quanto a residenza e domicilio.
In conclusione, pare potersi oggi affermare che la linea interpretativa volta a sostenere la carenza di legittimazione del genitore convivente non abbia incontrato il favore della giurisprudenza e
che sia invece prevalente l’orientamento che riconosce una legittimazione alternativa, tale da consentire l’azione (autonoma) del figlio solo in presenza di un comportamento processuale omissivo del genitore; inoltre, forte è la tendenza a verificare caso per caso la situazione del nucleo familiare e, non ultima, la maturità del figlio e la sua verosimile capacità di assumersi con responsabilità la gestione del contributo, in relazione alla sua età, alle sue abitudini di vita, al suo pregresso comportamento e, quindi, a tutte le circostanze concrete che sia possibile accertare nell’ambito del giudizio.
Significativa conferma dei riferiti assunti è, peraltro, di recente giunta da Cass. n. 21437 del 12 ottobre 2007, la quale ha ribadito che la legittimazione del genitore convivente con il figlio maggiorenne, ma non ancora autonomo, è concorrente con la diversa legittimazione, in capo a quest’ultimo, del diritto al mantenimento, con la precisazione che non può ravvisarsi un’ipotesi di solidarietà attiva, trattandosi di diritti autonomi, fondati su presupposti in parte diversi (nel caso del genitore il presupposto della legittimazione è la sua coabitazione con il figlio), e non del medesimo
diritto attribuito a più soggetti.
I provvedimenti economici del T.M.
Un problema, che ancora oggi resta almeno in parte “aperto”, si è presentato all’interprete a seguito dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 8362 del 22 marzo-3 aprile 2007 che ha risolto il conflitto negativo di competenza tra il Tribunale ordinario e il Tribunale per i Minorenni relativamente all’affidamento e al mantenimento di minori figli di genitori non coniugati.
Era stato, infatti, osservato che l’accorpamento di tali procedimenti innanzi all’organo minorile
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FOCUS
avrebbe avuto l’effetto di produrre un provvedimento giudiziale privo della qualificazione di titolo esecutivo, laddove è incontroverso che in tema di obblighi di mantenimento, rispetto ai quali il
problema dell’inadempimento si pone come uno dei più seri ed importanti, la tutela dell’avente diritto richiede la diretta azionabilità del titolo, così come peraltro avviene con riguardo alle sentenze e ai decreti resi in materia dal giudice ordinario: la perplessità nasceva dal dettato normativo di
cui all’art. 474 c.p.c. che, prevedendo che costituiscono titolo esecutivo “le sentenze e i provvedimenti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva”, avrebbe comportato la non
estensibilità di tale connotazione ai decreti emessi dal giudice minorile ex art. 317 bis c.c. nelle forme previste dall’art. 737 c.p.c.
Vale la pena di ricordare che questa sorta di anomalia era stata individuata dal Tribunale per i Minorenni di Milano come uno degli argomenti rafforzativi della tesi volta a sostenere la competenza del giudice ordinario, ma subito è stato obiettato che nessuno aveva mai dubitato del fatto che
il decreto reso dal Tribunale ordinario all’esito di procedimenti instaurati ex art. 710 c.p.c. o art. 9
legge n. 8989/1970 e successive modificazioni (entrambi regolati dagli artt. 737 e ss. c.p.c.) costituisse idoneo titolo per l’esecuzione forzata, così come del resto sono titoli esecutivi il verbale ex
art. 711 c.p.c. una volta omologato, il decreto emesso a mente dell’art. 148 c.c., il provvedimento
conseguito ex art. 446 c.c., aventi tutti forma diversa da quella di sentenza ma natura del tutto assimilabile.
E, invero, benché l’art. 710 c.p.c. nulla preveda in ordine alla natura di titolo esecutivo del decreto che definisce il relativo procedimento (di talché analogo rilievo circa la sua estraneità alla previsione di cui all’art. 474 c.p.c. avrebbe ben potuto essere avanzato), la giurisprudenza di legittimità ha ben presto ritenuto che, essendo stato a seguito della legge 29 luglio 1988, n. 331 previsto il
rito camerale in luogo di quello ordinario precedentemente vigente, il procedimento di nuovo conio si configura pur sempre come procedimento contenzioso che si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, titolari di confliggenti diritti soggettivi, e che si chiude con un decreto “che ha natura sostanziale di sentenza”, cosicché, fra l’altro, il provvedimento reso dalla Corte d’Appello in
sede di reclamo è impugnabile con ricorso per cassazione17.
Non poteva, infatti, sfuggire l’insita contraddittorietà di una difforme soluzione, atteso che sarebbe stato inaccettabile ritenere che i provvedimenti economici della sentenza di separazione sono
assistiti da efficacia di titolo esecutivo e che, invece, la stessa natura difetta ai provvedimenti resi
in successiva sede di modifica di quelli originari, interpretazione che avrebbe tra l’altro fatto seriamente dubitare della costituzionalità della scelta del legislatore del 1988 a favore del rito camerale in luogo di quello ordinario precedentemente previsto per le modifiche delle condizioni di
separazione.
In tema di applicazione dell’art. 155 c.c. da parte del giudice minorile si è, rifacendosi a questa impostazione sistematica, pronunciato il Tribunale per i Minorenni di Milano con decreto del 14 dicembre 2007, segnalando tra l’altro che una contraria interpretazione, oltre che manifestamente illogica, sarebbe anche stata lesiva del principio di uguaglianza e parità di trattamento dei figli.
Problematiche in larga parte analoghe si pongono, tuttavia, con riferimento al profilo della provvisoria esecutività o meno di tali decreti, così come in passato si sono posti relativamente ai decreti
emessi ex art. 710 c.p.c. ove non assistiti dal contestuale utilizzo della clausola di cui all’art. 741
secondo comma c.p.c.: infatti, tale ultimo articolo al primo comma dispone che “i decreti acquistano efficacia quando sono decorsi i termini di cui agli articoli precedenti senza che sia stato proposto reclamo”, il che comporta che nella pendenza del termine per impugnare ex art. 739 c.p.c. l’efficacia del provvedimento, e della sue statuizioni, dovrebbe rimanere sospesa.
La situazione è di per sé alquanto grave, sol che rifletta sul fatto che in presenza di una notificazione su istanza di parte il termine per proporre reclamo è di dieci giorni ma in difetto si applica
il termine ordinario annuale, nel mentre perché il giudice possa fare ricorso alla clausola di cui al
comma secondo dell’art. 741 c.p.c. sono necessari non solo il riscontro di particolari ragioni d’ur-
17 Cass. n. 11042 del 18 ottobre 1991.
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genza ma anche l’istanza di parte, fatto salvo il caso di statuizioni riguardanti figli minori rispetto
alle quali può legittimarsi l’intervento officioso del giudice.
La Corte d’Appello milanese con ordinanza del 16 marzo 2004 ha tentato di percorrere una via interpretativa che, riconosciuta connotata da condivisibile sistematicità, ha trovato il consenso di certa parte della dottrina e che potrebbe essere esportata anche con riguardo ai provvedimenti del
giudice minorile qui in discussione, sul presupposto che ancora una volta sarebbe irrazionale un
trattamento differenziato tra decreti resi dal giudice ordinario e decreti pronunciati dal giudice minorile in tema di regolamentazione economica a favore dei figli, rispettivamente nati da genitori
coniugati e da genitori non coniugati.
La Corte, in quel caso, ha sottolineato come la giurisprudenza di legittimità18 avesse escluso l’applicazione al giudizio camerale delle disposizioni specificamente previste per il processo di cognizione ordinaria, così che ha stimato non risolutivo il fatto che la precedente giurisprudenza avesse riconosciuto ai decreti ex art. 710 la natura sostanziale di sentenza e la ricorribilità per cassazione siccome incidenti su diritti soggettivi (di guisa che avrebbero potuto dirsi applicabili le disposizioni generali che oggi attribuiscono, a mente dell’art. 282 c.p.c. riformulato dall’art. 33 della l.
26.11.1990, n. 353, in vigore dal 1° gennaio 1993, con le precisazioni di cui all’art. 90 legge citata,
efficacia esecutiva immediata a tutte le sentenze di primo grado aventi ad oggetto statuizioni di
condanna), mentre ha dato rilievo a quanto previsto dall’art. 4, comma undicesimo, legge n.
898/1970 laddove è in via espressa previsto che “per la parte relativa ai provvedimenti di natura
economica la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva”, concludendo nel senso che
“l’esecutività provvisoria deve assistere la corresponsione dell’assegno per i figli e per il coniuge anche nei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, attesa l’identica natura dei diritti e degli interessi oggetto della controversia e della parimenti identica esigenza di approntare una loro sollecita tutela”.
Ciò che, in sintesi, emerge con chiarezza dal pur poco sistematico quadro normativo è la volontà
del legislatore di riconoscere ai provvedimenti relativi a prestazioni di mantenimento efficacia di titolo esecutivo e per di più immediatamente esecutivo perché tale connotazione è indispensabile
per garantire la tutela che l’ordinamento ha individuato come primario obiettivo, di guisa che anche un decreto (sia esso reso dal Tribunale ordinario in sede di modifica o dal T.M. ex art. 317 bis
c.c.) sprovvisto della clausola di cui all’art. 741, secondo comma, c.p.c. sarà idoneo all’apposizione della formula esecutiva ancor prima della scadenza dei termini per la sua impugnazione ex art.
739 c.p.c., fattore di non scarso rilievo ove ancora una volta si pensi che, in difetto di notificazione ad istanza di parte19, il decreto reso nei confronti di più parti soggiace all’ordinario termine annuale di impugnazione, ex art. 327 c.p.c., decorrente dalla sua pubblicazione.
E, del resto, proprio la legge n. 54/06 ha chiaramente inteso, attraverso la norma finale di cui all’art. 4, comma secondo, unificare e tendenzialmente omologare fra loro tutti i procedimenti nel
cui ambito si dibatta dell’affidamento dei minori e, deve intendersi, dei correlati diritti e doveri di
mantenimento gravanti sui genitori secondo il particolare quadro normativo di nuovo conio, di guisa che ancora meno accettabile sarebbe un’interpretazione volta a distinguere sul piano dell’effettività della tutela provvedimenti di contenuto economico resi, rispettivamente, a favore di figli legittimi o naturali.
18 Cass. n. 986/1996 e Cass. n. 14022/2000.
19 Cfr. per tutte, Cass. SS.UU. 29 aprile 1997, n. 3670.
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FOCUS
L’ASSEGNO IN FAVORE DEI FIGLI, IN PARTICOLARE DEL FIGLIO MAGGIORENNE,
E L’ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE 1
Umberto Roma
Avvocato del Foro di Treviso, professore aggregato di Diritto privato presso l’Università di Padova
1. Il mantenimento della prole minorenne e maggiorenne
La riforma attuata con la l. n. 54/2006, si segnala per le innovazioni introdotte in tema di mantenimento dei figli.
Le novità che intendo esaminare sono, in primo luogo, l’ambito operativo accordato dalla legge all’autonomia dei genitori rispetto al provvedimento giudiziale sul mantenimento; in secondo luogo,
le modalità di adempimento del dovere di mantenimento e l’eventuale, e discussa, esistenza di una
modalità privilegiata scelta dal riformatore; in terzo luogo, il problema della legittimazione a chiedere e riscuotere il mantenimento per il figlio maggiore di età.
Mi pare siano, infatti, questi i profili innovativi di maggiore interesse. La loro analisi, condotta alla
luce delle nuove disposizioni e delle applicazioni giurisprudenziali, porterà ad una conclusione che
pare riscuotere crescenti consensi: quella secondo cui non molto è cambiato rispetto alla prassi giudiziale anteriore alla novella.
Dirò subito che questo rilievo è dovuto a due caratteri rinvenibili nella legge n. 54:
1) alcune disposizioni non costituiscono che consacrazione legislativa di princìpi giurisprudenziali da tempo consolidati (così è per alcuni dei criteri di quantificazione dell’assegno e per l’enunciazione del diritto al mantenimento del maggiorenne non indipendente economicamente);
2) proprio dove la novità doveva, almeno secondo le intenzioni proclamate, corrispondere ad una
innovazione reale e sostanziale ad opera del legislatore – come in tema di modalità privilegiata di mantenimento ed individuazione degli spazi rimessi all’autonomia privata – la sciatteria redazionale, cui da tempo siamo abituati, ha consegnato all’interprete disposizioni ambigue e talora oscure.
Mi riferisco, principalmente, ai rapporti cruciali tra il 2° comma e il 4° comma dell’art. 155 c.c., nella parte in cui entrambi enunciano il dovere genitoriale di mantenimento e contemplano accordi
dei genitori con funzione rispettivamente: imprecisata nel 2° comma, oscura o illogica, come dirò,
nel 4° comma. Ancora, nel 4° comma, si ribadisce superfluamente il principio di proporzionalità
nell’adempimento del dovere in parola; di più, si prevede la derogabilità del principio per effetto
dell’accordo tra le parti, e, poi, incredibilmente, si accorda al giudice il potere di disporre un “assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità”, si noti, quello stesso principio
di proporzionalità che, in forza dell’esordio del 4° comma, sembra poter essere derogato dalla volontà privata. A questo risultato si perviene attribuendo alla legge il “senso (...) fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. Il problema è che la stessa “intenzione del legislatore” non è agevolmente ricostruibile.
1
Relazione tenuta al Corso di formazione in diritto di famiglia, organizzato da AIAF Veneto, Treviso, 18 giugno 2008.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
Se, infatti, la disposizione del 4° comma è quella che è, in tutta la sua ossimorica portata, ciò si deve al fatto che, passando dalla stesura iniziale a quella definitiva, si sono omesse tre parole (“in
forma diretta”) che, indubbiamente, restituivano un senso al testo. Ma, potremmo parafrasare, resolutis verbis, resolvitur et sensus legis. In altri termini, una volta eliminate le tre parole, è forse eliminata l’opzione legislativa per il cosiddetto mantenimento diretto; ma che senso ha la disposizione se non quello di consentire la deroga del principio di proporzionalità? Il che è assai discutibile, sia per la dubbia abdicabilità a tale principio, sia per la funzione che la legge, subito dopo, riconosce all’assegno periodico, quella di realizzare il principio medesimo.
L’oscurità delle disposizioni legislative ha come conseguenza, per quanto risulta sino ad oggi, un’interpretazione delle medesime che ne depotenzia l’auspicata carica innovatrice.
1.1. Accordi dei genitori e provvedimento giudiziale nel rapporto tra i commi 2° e 4° dell’art.
155 c.c.
Nel nuovo articolato codicistico, il mantenimento della prole è considerato nel 2° e nel 4° comma
dell’art. 155 c.c..
La duplicazione pone all’interprete due questioni: a) quella di comprendere le ragioni della duplice menzione di tale dovere e b) quella di spiegare il rapporto tra le due disposizioni laddove entrambe contemplano gli accordi dei genitori, stabilendo diversi requisiti di rilevanza, ovvero la non
contrarietà all’interesse dei figli, nel 2° comma, e la forma scritta, nel 4° comma.
Prima questione. Perché la duplicazione? Perché le due norme hanno destinatari diversi. Il 2° comma si indirizza al giudice, stabilendo che qualunque sia la forma di affidamento prescelta, egli dovrà sempre provvedere anche in ordine al mantenimento; più precisamente dovrà stabilire la misura e il modo con cui ciascun genitore dovrà adempiere il relativo obbligo. Il 4° comma si rivolge ai genitori, ribadendo, per le ipotesi di patologia della coppia, il dovere stabilito dall’art. 147 e
la modalità del relativo adempimento, che è il principio di proporzionalità di cui all’art. 1482.
Seconda questione. Perché per i soli accordi del 2° comma, espressamente si dispone che il giudice ne prende atto “se non contrari all’interesse dei figli”, mentre di ciò si tace per gli accordi del
4° comma? E perché solo per questi ultimi si richiede la forma scritta?
Secondo l’interpretazione più accreditata in dottrina3 gli accordi del 2° comma costituirebbero più
che atti di autonomia in senso tecnico, comportamenti di auto-organizzazione; sarebbero, cioè, un
substrato di modus vivendi, già in atto tra i genitori e informalmente concordato, di cui il giudice
si limita a prendere atto a condizione che tale autoregolamentazione della quotidianità familiare
non si ponga in contrasto con l’interesse della prole.
Gli accordi del 4° comma costituiscono, invece, veri e propri atti di autonomia negoziale; in ragione della loro bilateralità e patrimonialità essi hanno natura contrattuale e sono volti a disciplinare
esclusivamente i rapporti interni tra i genitori quali condebitori solidali dell’obbligazione, di risultato, del mantenimento dei figli. Il silenzio di legge circa la necessaria non contrarietà all’interesse
di questi ultimi si spiegherebbe col fatto che tali accordi, disciplinando le modalità di suddivisione
dell’obbligazione di risultato su di essi gravante, sarebbero di per sé inidonei a compromettere il
diritto di credito dei figli, e come tali “indifferenti” per costoro.
A tale interpretazione credo sia possibile aggiungere un rilievo che consente di sottoporre al vaglio giudiziale di non contrarietà all’interesse della prole anche gli accordi di cui al 4° comma. Si
tratta, in sostanza, di intendere quest’ultimo comma come necessariamente integrativo, limitatamente al mantenimento, del comma 2°, dedicato anche agli altri profili, e cioè alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Se così è, allora, l’accordo sul mantenimento richiede la forma scrit-
2 Roma, sub art. 155 c.c., in Mantovani (a cura di), Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso
dei figli. Commentario, in Nuove leggi civ. comm., 2008, 113 ss.
3 In particolare, Di Gravio, Gli accordi tra genitori in sede di separazione, in Patti e Rossi Carleo (a cura di), L’affidamento condiviso, Milano, 2006, 54 ss.
16
FOCUS
ta ai sensi del comma 4° e la valutazione giudiziale di conformità all’interesse dei figli ai sensi del
comma 2°4.
Escluderei decisamente, invece, l’interpretazione secondo cui il 4° comma sarebbe applicabile in
caso di separazione consensuale o divorzio a firma congiunta, laddove il 2° comma varrebbe nel
caso di separazione e divorzio contenziosi. Un primo ostacolo sta nel silenzio della legge circa le
due forme di separazione e divorzio. Ma il maggiore impedimento a questa ricostruzione è rappresentato dal fatto che, seguendo la tesi criticata, si dovrebbe coerentemente escludere, in caso di separazione e divorzio contenziosi, l’applicabilità diretta dello stesso assegno periodico e dei criteri
di determinazione per esso previsti dallo stesso 4° comma5.
1.2. Il “misterioso” oggetto degli “accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti” di cui al
4° comma dell’art. 155 c.c.
Vengo, ora, all’esame del 4° comma dell’art. 155, la cui rilevanza nelle controversie che ci occupano è ben nota a tutti. Si tratta di “una delle norme peggio formulate della legge, atteso che ciascuna proposizione di cui si compone, quasi ciascuna parola, potrà dare luogo a discussioni”6.
“Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la
corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinarsi considerando (...)”.
Fermiamoci al primo periodo. Che cosa afferma, almeno prima facie? Che ciascuno dei genitori
provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, salvo un accordo
diverso sottoscritto dalle parti. Pare, in sostanza, che la volontà privata possa derogare, non ovviamente al dovere di mantenimento, ma alla misura nella quale ciascuno dei genitori è tenuto: quella proporzionale al proprio reddito.
L’interrogativo che sorge spontaneo è se sia derogabile il principio di proporzionalità nell’adempimento dell’obbligo in esame.
Nel silenzio, per quanto mi consta, della giurisprudenza, va rilevato che la dottrina è divisa.
Secondo un orientamento, l’autonomia privata può derogare al principio di proporzionalità a condizione che non sia pregiudicato l’interesse della prole: “indipendentemente dalle modalità di ripartizione tra i genitori, al figlio deve infatti essere garantito il mantenimento in via integrale”7.
Personalmente credo sia preferibile la soluzione opposta8, per almeno tre ragioni:
a) la tesi della derogabilità contrasta con il principio espresso dall’art. 148, il quale trova ancoraggio nel principio di uguaglianza tra i coniugi, stabilito dall’art. 29, 1° comma, Cost., 143, 1° comma, e 147, e tra i genitori, desumibile dall’art. 30 Cost. nonché dal combinato disposto degli
artt. 147, 261 e 277. Per come è configurato, il principio di proporzionalità è espressione del
principio di uguaglianza;
b) in secondo luogo, non si comprende come quel principio inderogabile nella coppia unita, diventi derogabile in caso di separazione, in senso lato, della coppia genitoriale: il sospetto di illegittimità costituzionale è più che fondato;
4
Roma, sub art. 155 c.c., cit., 115.
5
Roma, sub art. 155 c.c., cit., 115 ss.
6
Casaburi, I nuovi istituti di diritto di famiglia: prime istruzioni per l’uso, in Giur. merito, Speciale riforma di diritto di famiglia, marzo 2006, 52.
7 Così Balestra, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, in Familia, 2006, 662; in senso analogo,
Basini, Ancora in tema di affidamento condiviso della prole, in Fam., pers. e success., 2007, 302 s.; Bellisario, Autonomia dei genitori tra profili personali e patrimoniali, in Patti e Rossi Carleo (a cura di), L’affidamento condiviso, cit., 90 ss.
8 Ipotesi sostenuta anche da Sesta, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: A) profili sostanziali, in Fam. e dir., 2006, 384;
Scalisi, Il diritto del minore alla “bigenitorialità” dopo la crisi o la disgregazione del nucleo familiare, in Fam. e dir., 2007, 530 ss.;
Casaburi, op. cit., 52; Padalino, L’affidamento condiviso dei figli, Torino, 2006, 65.
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c) sul piano sistematico, ancora, diventa difficile affermare la derogabilità del principio anche alla
luce del secondo periodo dello stesso comma 4° (che dal primo è separato da un semplice punto e virgola), in cui si attribuisce al giudice il potere di disporre un assegno periodico con la finalità, espressamente enunciata, di “realizzare il principio di proporzionalità”.
Ma, allora, seguendo questa seconda interpretazione, bisogna chiedersi quale sia l’oggetto degli accordi in deroga: cioè, a che cosa essi derogano? Il tenore letterale della disposizione non offre alcuno spunto: la ragione di tale oscurità l’ho indicata in precedenza. Prima dell’approvazione definitiva, la norma ragionava di “mantenimento in forma diretta”. La scelta iniziale ed espressa del
legislatore consisteva nel cosiddetto mantenimento diretto.
La soppressione del riferimento alla forma diretta di mantenimento assume un’importanza centrale non solo per la comprensione della disposizione in esame ma per quella del nuovo sistema del
mantenimento.
Se, infatti, la disposizione in esame ha carattere dispositivo, si applica cioè salvo diversa volontà
delle parti, è di essenziale rilievo stabilire quale sia la portata precettiva della norma stessa. In altri termini, per definire quali siano le diverse modalità di mantenimento che i genitori possono convenire derogando alla legge, bisogna individuare previamente quale sia la modalità tipica, ordinaria di mantenimento scelta dal legislatore.
1.3. La discussa modalità ordinaria di mantenimento: diretta o indiretta?
La novella non stabilisce espressamente se la modalità ordinaria di mantenimento sia quella diretta o quella indiretta.
La dottrina è divisa; la giurisprudenza, sino ad oggi pronunciatasi, è divisa tra regole effettivamente applicate dalle decisioni di merito ed enunciazioni di principio della Cassazione.
Coloro che sostengono la tesi del mantenimento diretto fanno leva sul principio fondamentale attuato con la riforma, quello della bigenitorialità: in sostanza, se, anche dopo la crisi della coppia,
i rapporti con i figli, sul versante personale, devono conservarsi come erano prima della disgregazione, così, sul versante patrimoniale, l’assetto organizzativo volto a soddisfare il mantenimento dei
figli deve restare, tendenzialmente e se possibile, inalterato9.
Sul piano sistematico, poi, si osserva10 che il giudice deve stabilire un assegno periodico solo “ove
necessario”. Tale riferimento alla necessità comproverebbe che l’assegno di concorso nel mantenimento avrebbe oggi carattere eventuale e residuale o, al più, funzione integrativa del mantenimento diretto.
In quali ipotesi, allora, secondo questa tesi, può essere disposto l’assegno periodico?
a) Quando i genitori convengano per iscritto che la contribuzione al mantenimento avvenga, integralmente o parzialmente, tramite l’assegno;
b) quando, in assenza di tale accordo, il giudice ritenga contrastante con l’interesse della prole il
mantenimento diretto: ciò può accadere quando per situazioni di fatto esso sia particolarmente
difficile e/o faccia temere ritardi o inadempimenti (come nel caso di accesa conflittualità circa
la ripartizione dei rispettivi oneri ovvero di controversia circa le scelte educative comportanti
immediate ricadute economiche);
c) quando i genitori convengano di assumersi direttamente solo parte degli oneri di mantenimento, o mediante l’attribuzione di un bene o mediante il pagamento diretto di prestazioni necessarie per i figli (quando il figlio trascorra più tempo presso uno dei genitori). In tal caso, l’assegno avrà la funzione di riequilibrare l’apporto di ciascuno assicurando il principio di proporzionalità.
9 Per questo argomento, tra gli altri, vedi Sesta, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: A) profili sostanziali, cit., 385; Villani, La nuova disciplina sull’affidamento condiviso dei figli di genitori separati, in Studium iuris, 2006, 670; Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della casa familiare: la recente riforma, in Familia, 2006, 407.
10 De Filippis, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, Padova, 2006, 105; Scalisi, op. cit., 531.
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FOCUS
Secondo un’altra ricostruzione11, la modalità ordinaria di mantenimento sarebbe anche dopo la riforma quella indiretta. In tal senso depongono vari elementi: sia l’eliminazione della forma diretta quale modalità espressa nell’art. 155, sia considerazioni di ordine sistematico.
Il 5° comma dell’art. 155, prevedendo l’adeguamento automatico dell’assegno, lascia intendere la
necessità ordinaria della corresponsione dello stesso. Inoltre, l’art. 155 quinquies, nel prevedere
che il giudice possa disporre un assegno in favore del figlio maggiore di età, non prevede forme
alternative di contribuzione rispetto a quella indiretta12.
A favore della tesi della persistenza del mantenimento indiretto pare anche Cass., 18 agosto 2006,
n. 1818713, la quale nega la premessa di fondo della tesi opposta; premessa secondo cui sussisterebbe, nello spirito della riforma, una sorta di nesso di consequenzialità automatica tra affidamento condiviso e mantenimento diretto. La Cassazione spezza tale nesso, distinguendo nettamente i
piani su cui ciascuno dei suoi elementi si pone: l’affidamento attiene all’“interesse ‘esistenziale’” del
minore, ma tale interesse nel contempo prescinde “sia dal rapporto patrimoniale tra i due ex coniugi, sia dagli aspetti economici riguardanti la vita del minore”, i quali trovano autonoma disciplina nel 4° comma dell’art. 155. L’affidamento condiviso (come quello congiunto) non comporta
come “conseguenza ‘automatica’” il “principio che ciascuno dei genitori provvede in modo diretto
ed autonomo alle esigenze dei figli”.
Secondo questa tesi, allora, i diversi accordi fatti salvi dall’esordio del 4° comma potranno prevedere solo parzialmente l’assegno periodico e/o altre modalità di mantenimento, quali la corresponsione di un assegno in unica soluzione o l’attribuzione definitiva di beni o l’obbligo, per uno o entrambi i genitori, di effettuare tale attribuzione14.
1.4. I criteri di determinazione dell’assegno
Solo qualche cenno posso fare, premettendo due osservazioni:
1) si tratta del recepimento legislativo di orientamenti giurisprudenziali consolidati;
2) ai cinque criteri enumerati in questo articolo, deve aggiungersi quello dell’art. 155 quater, secondo cui dell’assegnazione della casa familiare il giudice “tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori”.
Il primo criterio considera “le esigenze attuali del figlio”: l’assegno va commisurato escludendo le
esigenze future, anche perché il provvedimento è sempre modificabile. Si dovranno considerare le
esigenze della vita quotidiana e quelle ragionevolmente prevedibili, non quelle imprevedibili implicanti oneri e spese straordinarie.
Il secondo criterio contempla “il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”: si tratta di un
criterio tendenziale e non assoluto, da correlare con il criterio base che è quello costituito dalle “risorse economiche di entrambi i genitori”. Il criterio in esame non può giungere sino a ridurre i genitori (o uno di essi) in uno stato di quasi indigenza.
Il terzo criterio considera “i tempi di permanenza presso ciascun genitore”: durante tali periodi è il
genitore che tiene il figlio che provvede personalmente e direttamente alle necessità di costui. Si
potrà, pertanto, evitare l’arricchimento che in passato traeva l’affidatario il quale, secondo la giurisprudenza prevalente, aveva diritto di percepire l’intero ammontare dell’assegno mensile anche
quando la prole convivesse per apprezzabili periodi con il non affidatario.
A questo criterio è, ovviamente, connesso quello di cui al n. 5 che si incentra sulla “valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. Tali compiti saranno, infatti,
tanto maggiori quanto maggiore è il tempo concretamente trascorso dalla prole con ciascuno dei
11 Padalino, op. cit., 57 ss.; Napolitano, L’affidamento dei minori nei giudizi di separazione e di divorzio, Torino, 2006, 201 ss.
12 Vedi, amplius, Padalino, op. cit., 59 ss.
13 Anche in Fam. e dir., 2007, 345, con nota di Dogliotti, e in Giur. it., 2007, 2193, con nota di Gandolfi.
14 Padalino, op. cit., 63 ss.
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genitori. Si tratta della monetizzazione del lavoro domestico attuabile con il raffronto del costo corrispondente di una collaboratrice domestica o di una bambinaia.
1.5. Il mantenimento del figlio maggiorenne
Consacrazione legislativa dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il dovere di mantenimento si protrae oltre la maggiore età, sino a quando il figlio abbia raggiunto una propria indipendenza economica o, in alternativa, versi in colpa per non aver conseguito un titolo di studio o per non
essersi procurato un reddito mediante un’attività lavorativa o, ancora, per avere ingiustificatamente
rifiutato una tale attività15. Va, quindi, decisamente escluso che il verbo “potere” ricorrente nella lettera della legge possa intendersi come se il giudice godesse di un margine discrezionale circa la
possibilità stessa di riconoscere o meno il diritto del maggiorenne a conseguire il mantenimento16.
Perché, allora, la legge dice che il giudice “può disporre il pagamento di un assegno periodico” e
quali solo le circostanze da valutare?
La risposta ai due quesiti può dipendere dalla soluzione della questione, già esaminata, circa la modalità ordinaria di mantenimento del figlio minore.
Se si ritiene che tale modalità sia quella del mantenimento diretto, dovrà concludersi che il giudice potrà disporre la corresponsione di un assegno in luogo del mantenimento diretto (oppure anche la corresponsione di un assegno con funzione integrativa del parziale m. diretto). Quali sono
però le circostanze da valutare per derogare, in tal modo, alla regola del mantenimento diretto?
A mio modo di vedere, deve muoversi dalla premessa che rispetto all’obbligo di mantenimento,
che vede i genitori debitori solidali, sono, in primo luogo, le esigenze e gli interessi di costoro che
vanno valutati; in seconda battuta, si dovrà accertare se le modalità preferite dai genitori in base
alle loro esigenze siano contrastanti o meno con quelle della prole17.
Allora le circostanze da valutare sono le seguenti:
a) l’eventuale accordo dei genitori sulle modalità di mantenimento a condizione che non contrastino con oggettive esigenze logistiche del figlio18;
b) in mancanza di accordo ovvero ove l’accordo contrasti con l’interesse del figlio, sarà il giudice
a stabilire la modalità più idonea, sempre considerando che la preferenza di legge è per il mantenimento diretto.
Vanno allora considerate le seguenti ipotesi:
• se il figlio convive con uno dei genitori e questi convengano che uno provveda direttamente e
l’altro tramite assegno, il giudice disporrà conformemente;
• allo stesso modo il giudice recepirà l’eventuale accordo di contribuzione diretta da parte di entrambi, ove il figlio conviva con uno dei due;
• se i genitori nulla convengono o se appare probabile l’inadempimento o il ritardo nel mantenimento diretto di un genitore, il giudice potrà disporre il mantenimento diretto solo da parte del
genitore convivente che non prospetti rischi di inadempimento;
• infine, ove il figlio non conviva con nessuno dei due e abiti in località assai distante da entrambi i genitori e ove sussista dissidio tra i due circa modalità e quota gravante su ciascuno, il giudice potrebbe disporre il mantenimento indiretto da parte di entrambi.
Se si segue l’avviso secondo cui modalità ordinaria di mantenimento è quella indiretta, la disposizione deve essere interpretata diversamente per l’ovvia ragione che, per tale tesi, il mantenimento non può aver luogo che mediante un assegno periodico. “Il giudice, valutate le circostanze, può
15 Ex multis, Cass., 28 maggio 2007, n. 12457, in Fam. e dir., 2007, 947.
16 Amplius, Roma, sub art. 155 quinquies, in Mantovani (a cura di), Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli. Commentario, cit., 169 ss.
17 Roma, sub art. 155 quinquies, cit., 171, riprendendo un spunto di Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della casa coniugale: la recente riforma, cit., 411.
18 Sull’essenzialità dell’accordo tra i genitori, Casaburi, op. cit., 54.
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disporre un assegno periodico” significa, allora, che tale assegno potrà essere disposto solo qualora il giudice ritenga non sussistenti, nel caso sottopostogli, quelle circostanze tipizzate dalla costante giurisprudenza che escludono lo stesso diritto al mantenimento19.
La seconda parte del 1° comma dell’art. 155 quinquies dispone che l’assegno “salva diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.
Si tratta di una scelta legislativa che, rispetto alla prassi giurisprudenziale pacificamente consolidata, pone qualche interrogativo in ordine alla legittimazione a riscuotere l’assegno e anche a richiederlo. Come è noto, infatti, la giurisprudenza riteneva legittimato il genitore del maggiorenne con
lui convivente a chiedere e riscuotere il mantenimento per il figlio, e non già ex capite filii, ma iure proprio20. La legittimazione del genitore era conservata dopo la maggiore età del figlio, a condizione che costui continuasse a convivere con il genitore già affidatario, ma diveniva concorrente
con quella di costui21.
Primo interrogativo: che effetto ha la nuova disciplina, che sembra conferire al figlio una legittimazione esclusiva, sulla legittimazione del genitore convivente? Il genitore conserva, anche nel nuovo sistema, una legittimazione concorrente con quella del figlio divenuto maggiorenne?
Come è noto si temeva un’estensione della conflittualità, che sarebbe stata spostata dai figli contro
i genitori. Ma così non è stato, poiché le prime pronunce non paiono discostarsi dell’orientamento tradizionale.
Un autorevole orientamento dottrinale ritiene che, con la maggiore età, unico legittimato alla richiesta in giudizio e alla riscossione sia il figlio22. La soluzione adottata dalla giurisprudenza dopo
la novella è, tuttavia, più articolata e richiede non poche distinzioni.
a) Figlio, non convivente con nessuno dei genitori, maggiore di età al momento della domanda di
assegno.
Chi è legittimato a chiedere l’assegno? Il figlio maggiore di età con procedimento ordinario e/o ai
sensi dell’art. 147 e 148, nei confronti di uno o entrambi i genitori. L’assegno dovrà essere versato
direttamente al figlio.
b) Figlio convivente con uno dei genitori, maggiore di età al momento della domanda di assegno.
In base alla nuova disposizione, la soluzione dovrebbe essere identica alla precedente. Tuttavia, si
registrano decisioni che riprendono l’orientamento giurisprudenziale anteriore alla novella. Il fatto
della convivenza con il genitore fonderebbe la legittimazione attiva di quest’ultimo a chiedere l’assegno (verosimilmente secondo il procedimento di modifica delle condizioni di separazione o divorzio). Il giudice potrebbe, poi, disporre che l’assegno sia versato al figlio o al genitore istante23.
Ove il giudice disponga che l’assegno sia versato al figlio, si riscontra la novità di un provvedimento giurisdizionale in favore di un terzo che non è parte processuale24. Si precisa, peraltro, che quella del genitore è una legittimazione concorrente, che sussiste nell’inerzia da parte del figlio, il quale attivandosi autonomamente estingue la legittimazione genitoriale25.
19 Così, in coerenza con la premessa, De Marzo, L’affidamento condiviso. I, Profili sostanziali, in Foro it., 2006, V, 94.
20 Di recente, Cass., 12.10.2007, n. 21437.
21 Cass., 16.7.1998, n. 6950, per riferimenti di giurisprudenza e dottrina, Roma, La nozione di convivenza/coabitazione ai fini
della legittimazione del genitore già affidatario a chiedere l’assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne, in Nuova giur. civ.
comm., 2006, I, 460 ss.).
22 Finocchiaro, Assegno versato direttamente ai maggiorenni, in Guida al dir., 2006, n. 11, 42; la tesi, contrastante con l’avviso
maggioritario di giurisprudenza e dottrina, era stata sostenuta anche in passato da Finocchiaro, Chi è legittimato a chiedere l’assegno di mantenimento per il figlio divenuto maggiorenne?, in Giust. civ., 1982, I, 1337, e Id., in A. e M. Finocchiaro, Diritto di
famiglia, I, Milano, 1985, 568 ss.).
23 Trib. Catania, 31.3.2006 in Dir. fam. e pers., 2007, 182; Trib. Marsala, 2.3.2007, in Dir. fam. e pers., 2007, 799; Trib. Modena,
28.6.2007, in Fam. pers. succ., 2007, 1040; Trib. Modena, 6.9.2007, in Fam., pers. succ., 2007, 947.
24 Trib. Catania, 31.3.2006, cit.; Trib. Modena, 6.9.2007, cit.; favorevole, in dottrina, Cea, L’affidamento condiviso. I, Profili processuali, in Foro it., 2006, V, 97; dubbioso, invece, almeno in ordine ad una pronuncia d’ufficio in favore dei figli maggiori non
gravemente disabili, Tommaseo, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: B) profili processuali, in Fam. e dir., 2006, 398.
25 Trib. Catania, 31.3.2006, cit.; Trib. Marsala, 2.3.2007, cit.; Trib. Modena, 28.6.2007, cit.; Trib. Modena, 6.9.2007, cit.; conformemente al sistema giurisprudenziale anteriore: Cass., 24.2.2006, n. 4188, in Guida al dir., 2006, n. 18, 76; Cass., 16.7.1998, n. 6950;
Trib. Vicenza, decr., 7.3.1991, in Dir. fam. e pers., 1991, 1027.
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Ribadisco che è la convivenza con il figlio maggiorenne a conferire al genitore la legittimazione ad
instare per il mantenimento: cessata la convivenza, cessa la legittimazione26.
I vantaggi di questa soluzione sono: a) evitare la caducazione ope legis di un eventuale preesistente titolo esecutivo in favore del coniuge convivente, caducazione che si tradurrebbe in una minorazione di tutela per il figlio maggiore non indipendente; b) evitare l’instaurazione di contenziosi
tra figli e genitori; c) evitare l’intervento dei figli nelle cause tra i genitori.
Deve osservarsi che, secondo alcune pronunce va esclusa l’ammissibilità di un intervento del figlio
in causa27, laddove per altre decisioni esso è ammissibile sia come intervento volontario ex art. 105
c.p.c. sia su istanza di parte ex art. 106 c.p.c.28. In particolare, seguendo un orientamento dottrinale, è stato deciso che l’intervento può configurarsi come intervento principale, ove il figlio faccia valere la pretesa all’assegno nei confronti di entrambi i genitori, o come intervento adesivo dipendente, qualora il figlio affermi il suo diritto all’assegno sostenendo la domanda avanzata dal genitore29.
c) Figlio minore di età al tempo della domanda avanzata dal genitore convivente, che raggiunge
l’età maggiore in pendenza del giudizio.
Il giudice dovrebbe disporre il versamento in favore del figlio divenuto maggiore. E ciò anche se
il genitore ha chiesto il versamento a sé medesimo. Sotto il profilo processuale, quanto alla partecipazione al giudizio del figlio maggiore, si riscontrano tre tesi: quella che ne esclude l’intervento,
quella che ammette l’intervento volontario, e quella, più radicale, che impone l’integrazione del
contraddittorio nei suoi confronti30.
d) Figlio che raggiunge la maggiore età, dopo che sia già stato pronunciato sul mantenimento in
favore del genitore convivente con il figlio stesso.
Le prime pronunce riprendono l’orientamento sviluppatosi ante riforma: il genitore conserva la legittimazione alla riscossione e a richiedere la modifica del quantum31.
Va esaminata, tuttavia, la possibilità che sia modificato il destinatario del pagamento stante la formula dell’art. 155 quinquies.
Ciò può avvenire su iniziativa dell’obbligato, il quale dovrà necessariamente proporre domanda
giudiziale secondo il procedimento di modifica delle condizioni di separazione o divorzio32, dovendosi escludere che possa versare l’assegno direttamente al figlio per il solo raggiungimento dell’età
maggiore di costui.
Secondo alcune pronunce, il figlio sarebbe legittimato ad intervenire ai fini dell’individuazione, da
parte del giudice, del soggetto destinatario del versamento33.
Ma la modifica potrebbe avvenire anche su istanza del figlio stesso. Il quasi unanime orientamento dottrinale esclude che il figlio possa attivare i procedimenti di modifica delle condizioni di separazione e divorzio di cui agli artt. 710 c.p.c e 9 l. n. 898/1970, poiché la relativa legittimazione
spetta esclusivamente ai coniugi (o ex coniugi), quali uniche parti dell’originario giudizio di separazione e divorzio. La domanda dovrebbe proporsi, ex art. 147 c.c., nelle forme ordinarie34.
26 Trib. Marsala, 2.3.2007, cit.; Trib. Modena, 6.9.2007, cit.; anteriormente alla riforma, Cass., 27.5.2005, n. 11320, in Fam., pers.
e success., 2005, 557, e in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 454, nota di Roma.
27 Trib. Marsala, 2.3.2007, cit.; Trib. Modena, 28.6.2007, cit.
28 Trib. Messina, 5.5.2006, in www.affidamentocondiviso.it; Trib. Genova, 6.2.2007, in Foro it., 2007, I, 946.
29 Trib. Venezia, 18.4.2007; secondo la prospettazione di Napolitano, op. cit., 259 ss.; in dottrina, favorevole all’intervento è anche Tommaseo, op. cit., 398.
30 Graziosi, Profili processuali della legge n. 54 del 2006, sul c.d. affidamento condiviso dei figli, in Dir. fam. e pers., 2007, 1869,
il quale aggiunge che, se il ricorso è proposto quando il figlio è già maggiore, la causa deve radicarsi ab origine anche nei suoi
confronti.
31 Trib. Messina, 5.5.2006, cit.; la quasi totalità della dottrina concorda: Sesta, op. cit., 386; de Filippis, op. cit., 131; Casaburi, op.
cit., 54; Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della casa familiare: la recente riforma, cit., 411; Napolitano, op. cit., 259;
Balestra, op. cit., 663 ss., contra, M. Finocchiaro, op. cit., 42.
32 Trib. Napoli, 9.11.2006, in Corr. merito, 2007, 26.
33 Trib. Messina, 5.5.2006, contra Trib. Modena, 28.6.2007, cit.
34 In luogo di molti, Tommaseo, op. cit., 398;. Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della casa familiare: la recente riforma, cit., 412.
22
FOCUS
2. L’assegnazione della casa coniugale
2.1. Finalità dell’istituto: la tutela della prole
L’art. 155 quater si segnala per tre ragioni:
a) la semichiara individuazione della finalità dell’assegnazione;
b) l’elencazione delle cause estintive del diritto dell’assegnatario al godimento della casa;
c) un’innovativa scelta circa il regime di opponibilità che privilegia le ragioni della proprietà rispetto alle esigenze della prole.
Prevedendo che il “godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”, il riformatore stabilisce espressamente che la finalità dell’assegnazione è la tutela della prole. Si tratta di un’affermazione sconosciuta alla formula precedente dell’art. 155 c.c. e
a quella dell’art. 6 della l. n. 898/1970, che, col prevedere che la casa spettava di preferenza all’affidatario, non accordavano all’interesse della prole quell’essenzialità che oggi ispira l’istituto dell’assegnazione.
Oggi è la presenza dei figli il solo fatto legittimante il provvedimento di assegnazione. Se figli non
vi sono, non vi è luogo a discutere di assegnazione35.
Il primo periodo dell’art. 155 contiene, tuttavia, un avverbio “prioritariamente”: il godimento è attribuito considerando prioritariamente l’interesse filiale, il che lascerebbe spazio per attribuire il godimento tenendo conto, sia pure secondariamente, anche di altri fattori (così, ad esempio, le esigenze abitative del coniuge36).
Ciò tuttavia, a mio avviso, non esclude che la presenza della prole sia condizione necessaria perché si faccia questione di assegnazione. Se la prole non vi è, e quindi non è possibile tener conto
prioritariamente del suo interesse, non vi è neppure possibilità di considerare secondariamente altri interessi.
In tal modo, ci si conforma all’orientamento della Cassazione, sempre più frequentemente e anche
di recente ribadito, secondo cui l’assegnazione è finalizzata all’esclusiva tutela della prole e del suo
interesse a permanere nell’ambiente domestico in cui è vissuta e non può essere disposta a titolo
di componente degli assegni previsti di mantenimento o di divorzio37.
A mio giudizio, tuttavia, una volta assodato che la presenza della prole è condizione necessaria per
l’assegnazione, non si dovrebbe escludere che con la finalità di tutela della prole possano coesistere, in secondo ordine, finalità ulteriori da considerare ai fini dell’assegnazione.
Prima di esaminare questo problema, bisogna indagare come si combina l’interesse dei figli alla
conservazione dell’habitat con le modalità con le quali si atteggia in concreto l’affidamento.
In caso di affidamento esclusivo, non può dubitarsi che valga la soluzione del passato: la localizzazione prevalente dei figli presso il genitore affidatario determina l’assegnazione della casa a quest’ultimo38.
In caso di affidamento condiviso, è inevitabile che il provvedimento, dopo aver fissato i tempi e
le modalità della permanenza dei figli presso ciascun genitore, debba assegnare la casa a quello
che trascorrerà maggior tempo con i figli o, in altri termini, a quello con il quale i figli vivranno
prevalentemente. La collocazione privilegiata (o localizzazione prevalente) del figlio presso uno dei
genitori comporta l’assegnazione della casa e, nel contempo, l’individuazione della residenza nonché del domicilio del minore39.
35 Assai chiaramente Cass., 18.2.2008, n. 3934, in Mass. Giur. it., 2008; Cass., 24.7.2007, n. 16398.
36 Sesta, op. cit., 387.
37 Da ultimo Cass., 17.12.2007, n. 26574; Cass., 22.3.2007, n. 6979.
38 Così pure Quadri, Nuove prospettive in tema di assegnazione della casa familiare, in Corr. giur., 2006, 1143; Casaburi, op. cit., 55.
39 Roma, sub art. 155 quater c.c., in Mantovani (a cura di), Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento
condiviso dei figli. Commentario, cit., 153; Quadri, Nuove prospettive in tema di assegnazione della casa familiare, cit., 1143; Padalino, op. cit., 140; de Filippis, op. cit., 121.
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Nel caso in cui il provvedimento stabilisca una ripartizione pressoché paritaria dei tempi di permanenza del figlio presso ciascuno dei genitori40, si riscontrano, in dottrina, soluzioni diverse: vi è chi
invoca la considerazione di altre istanze, come la tutela del coniuge più debole41; altri fanno leva
su elementi di valutazione integrativi relativi alla prole42, ad esempio, trattandosi di figli in età scolare, in considerazione della vicinanza della scuola alla casa, quest’ultima potrà assegnarsi al genitore che accompagni il figlio a scuola e ve lo riprenda al termine.
È decisamente da escludere, invece, l’assegnazione della casa in favore del figlio; da un lato, invero, la titolarità del diritto di godimento riconosciuto al figlio potrebbe confliggere con le situazioni
reali o personali di godimento dei genitori, creando complicazioni in tema di affido e mantenimento; dall’altro lato, la praticabilità dell’ipotesi è smentita dal fatto che tra le cause di estinzione dell’assegnazione è contemplato il nuovo matrimonio dell’assegnatario43. Si è, piuttosto, decisa, sia pure in via provvisoria, un’assegnazione alternata della casa a ciascun genitore per tre settimane ciascuno, affidando i figli ad entrambi i genitori, sul presupposto che tale assetto di rapporti garantiva, nel caso concreto, le esigenze di stabilità e serenità della prole ed attenuava l’aspro conflitto
tra i genitori proprio in ordine all’uso dell’immobile44.
Tornando, ora, alla questione dell’eventuale rilevanza, nella decisione sull’assegnazione, di interessi diversi da quello della prole, riterrei che anche le esigenze del genitore economicamente più debole possano venire in campo, ma solo in via secondaria. Si tratta, forse, di ipotesi abbastanza improbabili, come quella sopra descritta della paritaria divisione dei tempi di permanenza del figlio
presso ciascun genitore. L’ancoraggio testuale per conferire rilievo alle condizioni economiche dei
genitori mi pare quello contenuto nello stesso art. 155 quater: il dovere giudiziale di tener conto
dell’assegnazione nella regolazione dei rapporti economici. Si rinvengono decisioni, peraltro isolate, che hanno attribuito rilievo ad interessi diversi da quelli dei figli: quali la “debolezza economica o morale di un coniuge rispetto all’altro”; secondo una pronuncia, la lettera dell’art. 155 quater
non impedisce che, in assenza di prole, ove la casa sia in comproprietà, ne sia possibile l’assegnazione in base ad un criterio economico per favorire la parte meno abbiente45.
2.2. Cause estintive del diritto al godimento
Con previsione espressa, ignota per il passato, il riformatore ha enunciato quattro cause di estinzione del diritto al godimento dell’assegnatario che sussistono: a) quando costui non abiti nella casa familiare, o b) cessi di abitarvi stabilmente, o c) conviva more uxorio o, da ultimo, d) contragga nuove nozze.
Le prime due cause di estinzione costituiscono recepimento dell’avviso giurisprudenziale che individua i caratteri distintivi della casa familiare in relazione alla funzione che le è propria46, e cioè
l’essere “il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza”47 o anche “centro di affetti, di interessi di consuetudini di vita”48; più precisamente, il “complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l’esistenza domestica della comunità familiare”49. Qualora la funzione pro-
40 Per un caso concreto, Trib. Chieti, 28.6. 2006, in www.affidocondiviso.it
41 De Filippis, op. cit., 121.
42 Napolitano, op. cit., 214 ss.
43 Paladini, L’abitazione della casa familiare nell’affidamento condiviso, in Fam. e dir., 2006, 330.
44 Trib. Palermo, 27.3.2007, in Fam., pers. succ., 2007, 759.
45 Trib. Viterbo, 12.10.2006, in Corr. merito, 2007, 313; in dottrina, minoritariamente, D’Auria, Interesse dei figli nell’assegnazione della casa familiare, in Corr. merito, 2007, 1109 ss.
46 Amplius Quadri, Nuove prospettive in tema di assegnazione della casa familiare, cit., 1147.
47 Cass., 20.1.2006, n. 1198, in Giur. it., 2006, 1595; Cass., 16.7.1992, n. 8667, in Giust. civ., 1992, I, 3002.
48 Corte cost. 13.5.1998, n. 166, in Giur. it., 1998, 1783.
49 Cass., 22.5.1993, n. 5793, in Giur. it., 1994, I, 1, 242.
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FOCUS
pria della casa coniugale sia già cessata al momento della crisi della coppia genitoriale ovvero cessi in seguito, non vi è motivo per provvedere all’assegnazione50 e, corrispondentemente, secondo
la nuova disciplina, si estingue il diritto di godimento dell’assegnatario.
Le due cause di estinzione consistenti nella contrazione di nuove nozze o nella convivenza more
uxorio sono state oggetto di censure in sede dottrinale e giurisprudenziale, giunte sino alla proposizione di questioni di legittimità costituzionale. La principale critica mette in luce come le ipotesi
di estinzione in parola frustrino la funzione stessa dell’assegnazione: è irragionevole, si afferma,
prevedere la cessazione dell’operatività di un istituto funzionale alla tutela della prole per effetto
della condotta sopravvenuta di un genitore51; ancora, si osserva, l’interesse del coniuge, per nulla
rilevante in sede di assegnazione, lo diviene in misura preponderante nella vicenda estintiva dell’assegnazione: le cause estintive in esame considerano, invero, il mutamento della situazione personale del coniuge e non l’interesse prioritario del figlio52.
La norma è poi censurata sotto il profilo della violazione di un diritto fondamentale, qual è la libertà matrimoniale (artt. 2 e 29 Cost.), dell’assegnatario, il cui esercizio sarebbe condizionato dalla prospettiva di perdere l’assegnazione della casa familiare53.
Premesso che a me pare fuorviante considerare l’interesse dell’adulto assegnatario, tanto più se lo
si riguarda in termini assoluti, e cioè prescindendo dalla sua connessione con l’interesse della prole, ritengo che la disposizione criticata si sottragga alle censure di illegittimità costituzionale e, comunque, sia suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata, come, in effetti, ha deciso la Consulta54.
Secondo un orientamento dottrinale, che pure ha trovato credito in giurisprudenza55, il verificarsi
delle due cause estintive (nuovo matrimonio e convivenza more uxorio) non comporterebbe
l’estinzione ope legis dell’assegnazione, ma richiederebbe un provvedimento giudiziale di revoca.
In tale sede, nell’esercizio dei poteri discrezionali di cui sarebbe investito, il giudice dovrebbe riconsiderare ex novo, alla luce dei fatti sopravvenuti, l’opportunità dell’assegnazione della casa,
sempre tenendo prioritariamente conto dell’interesse della prole. Convivenza more uxorio e nuovo matrimonio potrebbero risultare contrastanti con tale interesse oppure no, legittimando rispettivamente la revoca o la conferma dell’assegnazione56. Questo avviso dottrinale ha trovato conforto nella pronuncia di Corte cost., 30 luglio 2008, n. 308, per la quale il contesto normativo e giurisprudenziale, anche antecedente alla novella del 2006, rivela come non solo l’assegnazione della
casa familiare, ma anche la cessazione della stessa, è stata sempre subordinata, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione giudiziale di rispondenza all’interesse della prole. La disposizione –
conclude la Consulta – si sottrae alla censura di illegittimità costituzionale se interpretata, non già
sulla base del dato letterale, ma nel senso che l’assegnazione non viene meno di diritto al verificarsi dell’instaurazione di una convivenza di fatto o alla contrazione di nuove nozze, ma che la decadenza dall’assegnazione è subordinata ad un giudizio di conformità all’interesse del minore.
50 Cass., 13.2.2006, n. 3030, in Foro it., 2007, I, 237: “l’assegnazione non può essere pronunciata in favore del coniuge affidatario ove in concreto al momento della domanda l’immobile non si configuri più come casa familiare, per essersi per qualsiasi ragione quell’habitat domestico già disciolto”; Cass., 23.5.2000, n. 6706, in Mass. Foro it., 2000.
51 Casaburi, op. cit., 56.
52 Da qui la violazione dell’art. 30 Cost.; Cubeddu, L’assegnazione della casa familiare, in Patti e Rossi Carleo (a cura di), L’affidamento condiviso, cit., 197; Basini, Cause di estinzione del diritto al godimento della casa familiare e sospetti di incostituzionalità, in Fam., pers. e success., 2006, 619.
53 Sesta, op. cit., 387; Balestra, Brevi notazioni sulla recente legge in tema di affidamento condiviso, cit., 666.
54 Corte cost., 30.7.2008, n. 308, di cui vedi almeno l’ampio commento di Villani, Assegnazione della casa familiare e cause della perdita del diritto al godimento dell’immobile: l’interpretazione dell’art. 155 quater c.c. operata dalla corte costituzionale, in
Nuove leggi civ. comm., 2008, 1255.
55 Trib. Napoli, 9.11.2006, in Foro it., 2007, I, 302; Trib. Firenze, 16.5.2007, in Fam. e dir., 2007, 834.
56 Lenti, La legge sull’affidamento condiviso: nell’interesse dei figli o dei padri separati?, in Minori giustizia, 2006, n. 3, 260; Ferrando, L’assegnazione della casa familiare, in Dogliotti (a cura di), Affidamento condiviso e diritti dei minori, Torino, 2008, 139
ss.; Villani, La nuova disciplina sull’affidamento condiviso dei figli di genitori separati, cit., 674 ss.; contra, in diversa prospettiva,
Quadri, Nuove prospettive in tema di assegnazione della casa familiare, cit., 1148; Basini, Cause di estinzione del diritto al godimento della casa familiare e sospetti di incostituzionalità, cit., 620; Padalino, op. cit., 156 ss.
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Secondo altro orientamento dottrinale57, che pare avallato da un obiter della Cassazione, le due cause di estinzione in esame non contrasterebbero con i princìpi costituzionali di tutela della prole e
di libertà matrimoniale. L’assegnazione della casa familiare al genitore non titolare di diritti reali
sull’immobile costituisce previsione di carattere eccezionale che consente la compressione del diritto del proprietario in vista della tutela di un interesse legislativamente reputato di rango superiore, quello dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico. La scelta legislativa che riconnette
alla convivenza more uxorio o alle nuove nozze dell’assegnatario l’estinzione dell’assegnazione è
“mera conseguenza dell’avere l’abitazione perduto (...) la sua funzione (...) per essere venuto meno, secondo la valutazione del legislatore, in conseguenza della formazione di un nuovo nucleo familiare da parte del coniuge assegnatario, quell’habitat che si intendeva conservare, finché possibile, ai figli”58.
A questa tesi interpretativa è evidentemente sotteso il riconoscimento di una duplice componente
dell’habitat domestico: l’una di carattere oggettivo, fisico-materiale, sostanziantesi nella casa familiare come “centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza”59, l’altra di carattere soggettivo, personale-relazionale, costituita dal nucleo familiare originario, sia pure privato, a seguito della crisi familiare, di uno dei genitori, composto, quindi, dai figli conviventi e dal genitore assegnatario60.
L’istituto dell’assegnazione è funzionale alla conservazione dell’ambiente domestico in quanto tale
habitat sia rimasto immutato nella sua duplice componente, quella oggettiva e quella soggettiva. È
coerente, allora, con questa premessa la conclusione secondo cui l’assegnazione viene caducata
ove nel nucleo familiare residuo si inserisca un nuovo componente estraneo a tale nucleo; in tal
modo, si realizza, invero, una modifica di quell’habitat originario che la legge intende conservare.
È significativo rilevare come questo argomento sia stato sviluppato e impiegato anche anteriormente alla novella del 2006. Già nel 1997, la Cassazione aveva deciso che la compressione del diritto
reale o personale di godimento del coniuge titolare non potesse avere luogo “allorché il nucleo familiare, formato dal coniuge assegnatario e dai figli con lui conviventi, abbia perso la propria identità originaria, come nel caso della formazione di un proprio aggregato familiare da parte del figlio convivente con il coniuge assegnatario, comportante l’ingresso di persone estranee nel nucleo
esistente quando l’assegnazione venne decisa dal giudice ed il prevalente interesse di sopravvivenza del nuovo nucleo rispetto a quello originario”61.
A conclusione, deve aggiungersi che il verificarsi delle quattro cause estintive del diritto di godimento non comporta mai la caducazione automatica del provvedimento di assegnazione, ritenendosi necessario un provvedimento giudiziale di revoca ai sensi dell’art. 155 ter c.c.62. La necessità
di quest’ultimo provvedimento – che avrebbe secondo una ricostruzione63 lo scopo di dichiarare
l’estinzione del diritto e revocare l’assegnazione – è desumibile dal sistema pubblicitario previsto
dalla quarta parte del comma 1° dell’art. 155 quater, dove è stabilito che sia il provvedimento di
assegnazione sia quello di revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi mediante trascrizione. La
cessazione del vincolo gravante sul bene sarà opponibile ai terzi mediante annotazione, ex art.
2655 c.c., del provvedimento di revoca dell’assegnazione64.
57 Paladini, Le nuove cause di estinzione dell’assegnazione della casa familiare al vaglio del giudice delle leggi, in Fam. e dir.,
2007, 839 ss.; Padalino, op. cit., 154 ss.
58 Cass., 17.12.2007, n. 26574, in Fam. e dir., 2008, 299.
59 Cass., 9.9.2002, n. 13065.
60 Di “gruppo familiare residuo” ragiona Cass., sez. un., 26.7.2002, n. 11096, in Foro it., 2003, I, 183.
61 Cass., 17.7.1997, n. 6559, in Dir. fam. e pers., 1998, 52.
62 Roma, sub art. 155 quater c.c., cit., p. 163 ss.; Quadri, Nuove prospettive in tema di assegnazione della casa familiare, cit.,
1147; Cubeddu, op. cit., 198.
63 Cubeddu, op. cit., 197 ss.
64 Quadri, Nuove prospettive in tema di assegnazione della casa familiare, cit., 1147.
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FOCUS
2.3. L’opponibilità del provvedimento di assegnazione (e di revoca)
Ebbene, è proprio con riguardo all’opponibilità dell’assegnazione che il riformatore ha dato “il meglio di sé”, in termini di sciatteria redazionale, superficialità nell’approccio al sistema della trascrizione, bilanciamento degli interessi contrapposti. La soluzione adottata fa un balzo indietro di vent’anni, cancellando quel minuzioso lavorio giurisprudenziale che aveva ricostruito uno statuto uniforme a divorzio e separazione raggiungendo un equilibrio tra ragioni proprietarie e interesse familiare e della prole che oggi pare fondamentalmente riscritto.
“Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili ed opponibili ai terzi ai sensi dell’art. 2643”.
Prima imprecisione o, meglio, oscurità: la trascrivibilità ai sensi dell’art. 2643 poco si comprende,
poiché tale articolo non formula altro che un elenco di atti trascrivibili; si sarebbe dovuto, piuttosto, menzionare nell’elenco il provvedimento di assegnazione e revoca della casa coniugale.
Seconda imprecisione: l’opponibilità ai sensi dell’art. 2643 non significa nulla, poiché tale articolo
non prevede gli effetti della trascrizione degli atti soggetti a trascrizione; tali effetti sono previsti dal
successivo art. 2644.
Come può ricostruirsi “ortopedicamente” la disposizione? La tesi dottrinale più condivisibile interpreta la lettera della legge nel senso che i provvedimenti di assegnazione e di revoca vanno trascritti, ai sensi dell’art. 155 quater, agli effetti dell’art. 2644 c.c.65. Ciò significa che quei provvedimenti non sono opponibili ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sulla casa familiare in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione di quei provvedimenti.
Allora, per effetto della novella, solo la trascrizione del provvedimento di assegnazione garantisce
l’opponibilità ai terzi di quest’ultima (la dottrina maggioritaria è in questo senso66). Incolmabile è
la distanza rispetto al sistema previgente che consentiva, tramite il rinvio all’art. 1599 c.c. contenuto nell’art. 6, comma 6°, l. n. 898/70, l’opponibilità, al terzo acquirente, del provvedimento di assegnazione entro il novennio dalla data del provvedimento, anche se non trascritto, e anche dopo
i nove anni, se trascritto67.
Non manca tuttavia una sia pure minoritaria tesi dottrinale68 che ritiene ancora vigente l’art. 6. comma 6°, l. n. 898/70 e, in conseguenza, il meccanismo di opponibilità fondato sull’art. 1599 c.c.
Occorre, in particolare, distinguere il conflitto tra assegnatario e terzo acquirente dell’immobile dal
conflitto tra assegnatario e terzo titolare di altro diritto incompatibile con quello dell’assegnatario
(ad esempio diritto del conduttore in base ad un contratto ultranovennale).
Nel primo caso, l’opponibilità è quella prevista dall’art. 1599, quindi opponibilità novennale in assenza di trascrizione; nel secondo, opponibilità ai sensi dell’art. 2644, in base alla priorità della trascrizione.
2.4. Trascrivibilità dell’ordinanza presidenziale e del ricorso per separazione e divorzio
Un’altra questione che la novella non affronta è quella di quale sia il provvedimento trascrivibile:
solo quello definitivo o anche quello provvisorio pronunziato dal presidente del Tribunale con la
forma dell’ordinanza?
Il quesito acquista una portata considerevole ove si ritenga, con l’orientamento maggioritario,
l’inapplicabilità, a seguito dell’abrogazione tacita dell’art. 6, comma 6°, l. 898/70, del meccanismo
65 Zaccaria, La nuova disciplina in materia di pubblicità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale, in Studium
iuris, 2006, 258; Id., Opponibilità e durata dell’assegnazione della casa familiare, dalla riforma del diritto di famiglia alla nuova
legge sull’affidamento condiviso, in Fam., pers. e success., 2006, 775; Casaburi, op. cit., 57.
66 Per riferimenti: Roma, sub art. 155 quater c.c., cit., 164 ss., ed amplius Ferrando, L’assegnazione della casa familiare, cit., 132 ss.
67 Per la regola e la sua applicabilità anche alla separazione Cass., sez. un., 26.7.2002, n. 11096, anche in Fam. e dir., 2002, 461,
con nota di Carbone.
68 Paladini, L’abitazione della casa familiare nell’affidamento condiviso, cit., 334 ss.
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di opponibilità fondato sull’art. 1599 c.c. Se, infatti, in passato, anche il provvedimento presidenziale di assegnazione era opponibile, pur in assenza di trascrizione, per il semplice fatto di essere pronunciato e di avere data certa (v. art. 1599, comma 1°, c.c.), oggi può esserlo esclusivamente in forza di trascrizione. Ritenere intrascrivibile l’ordinanza presidenziale, perché non figura tra
i titoli per la trascrizione elencati dall’art. 2657 c.c., significa esporre l’assegnazione stessa, per tutta la pendenza del processo, alle manovre elusive del genitore proprietario dell’immobile. Si ritiene, allora, che l’ordinanza possa trascriversi o in forza dell’art. 2645 c.c.69, oppure in forza della
disposizione dell’art. 155 quater, che, ragionando solo di “provvedimento di assegnazione”, non
distingue tra provvedimento definitivo e provvedimento provvisorio, imponendo, comunque, la
trascrizione70.
Nulla ha previsto la novella circa la trascrivibilità dei ricorsi per separazione o divorzio contenenti la domanda di assegnazione. Come è noto, la trascrizione delle domande giudiziali ha un effetto, per così dire, prenotativo dell’effetto proprio della sentenza, consentendo così di evitare che
quest’ultimo sia vanificato da atti dispositivi (o, comunque, incompatibili) compiuti in pendenza
del giudizio.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, la trascrizione dei ricorsi in parola va esclusa in considerazione del principio di tassatività delle domande soggette a trascrizione indicate dagli artt. 2652 e
265371. Lo stesso argomento è posto a base di una recente sentenza di merito72.
Due isolate pronunce di merito, risalenti alla metà degli anni ’90, hanno, tuttavia, ammesso la trascrizione della domanda giudiziale di separazione, in forza di applicazione sistematica degli artt.
2652 e 2653, riferiti all’art. 2643 c.c., come integrato dall’art. 6, comma 6°, della l. n. 898/1970, che
ha previsto la trascrizione dell’assegnazione della casa familiare73. La motivazione dei provvedimenti afferma che la tutela introdotta con la sentenza della Corte costituzionale 27 luglio 1989, n. 454,
che ha esteso alla separazione la trascrivibilità del provvedimento di assegnazione, “deve essere necessariamente estesa alla fase prodromica dell’introduzione del giudizio, ossia fin dal momento della proposizione della domanda di assegnazione già con il ricorso per separazione (...), al fine di
evitare possibili elusioni della norma nelle more del giudizio, in forza dei principi desumibili dagli
artt. 2652-2653 c.c. atteso che il riferimento agli atti soggetti a trascrizione di cui all’art. 2643 c.c.
(norma che del resto non contempla solo diritti reali, ma anche situazioni meramente obbligatorie)
deve essere inteso non alla lettera, ma in via di interpretazione sistematica, mediante opportuna integrazione richiesta dall’incidenza della sentenza n. 454 del 1989 della Corte costituzionale quanto al provvedimento di assegnazione dell’abitazione coniugale”. Aggiunge il Tribunale di Venezia
che, “diversamente opinando, la lettura restrittiva della disciplina sulla trascrizione degli atti suggerita dall’ufficio resistente [la Conservatoria dei registri immobiliari] comporterebbe un’inammissibile lacuna dell’ordinamento, in totale contrasto con le esigenze di tutela del coniuge assegnatario
già evidenziate” dalla Consulta.
È evidente che il Tribunale veneziano, volendo evitare di affermare l’esistenza di una lacuna che
provocherebbe una declaratoria di incostituzionalità (evitabile, eventualmente, con un intervento
legislativo), formula un’interpretazione contrastante con il principio di tassatività delle domande
trascrivibili, fondata sulla regola per cui “alla trascrivibilità di un provvedimento prevista dalla legge deve sempre corrispondere la trascrivibilità della domanda volta ad ottenerlo”74.
Va segnalato, peraltro, che è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2652
e 2653 c.c., in riferimento agli artt. 3, 24, 29, 30 e 31 Cost., laddove non prevedono la trascrivibili-
69 Gazzoni, La trascrizione immobiliare, I, Milano, 1998, 347 il quale precisa che la successiva sentenza andrà annotata a margine della trascrizione e a sua volta autonomamente trascritta ex art. 2643, n. 14.
70 Gragnani, La tutela del diritto all’assegnazione della casa familiare, in Fam., pers. e sucess., 2008, 322.
71 Cass., 30.8.2004, n. 17391, in Foro it., 2005, I, 411; Cass., 21.10.1993, n. 10434, ivi, 1994, I, 1427.
72 Trib. Pisa, 13.2.2008, in Famiglia e minori, n. 8, 91, con nota di La Marca.
73 Trib. Venezia, 20.7.1993, in Giust. civ., 1994, I, 262; Trib. Milano, 26.4.1997, in Dir. fam. e pers., 1999, 669.
74 Gragnani, op. cit., 324.
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FOCUS
tà nei registri immobiliari della domanda giudiziale di assegnazione del diritto di abitazione. La questione è stata, purtroppo, dichiarata manifestamente inammissibile per l’inesattezza della sua formulazione nell’ordinanza di rimessione75.
L’esigenza di tutela, pendente iudicio, del potenziale assegnatario della casa familiare è rimasta invariata pur dopo la novella del 2006. Resta da verificare se l’art. 155 quater consenta oggi, laddove ragiona, sia pure scorrettamente, di “provvedimenti (...) trascrivibili ed opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643”, la trascrivibilità delle domande di separazione e divorzio.
In effetti, proprio da tale scadente formulazione dell’articolo codicistico, una tesi dottrinale76 ha tratto uno spunto positivo, che giunge al risultato della trascrivibilità della domanda evitando la discutibile applicazione analogica delle disposizioni dell’art. 2652 e rispettando il principio di tassatività
ad essi sotteso. L’espresso richiamo all’art. 2643 c.c. operato dall’art. 155 quater varrebbe, secondo
questa tesi, ad “integrare automaticamente” quell’articolo con un ulteriore previsione, quella dell’assegnazione della casa familiare. Da ciò conseguirebbe, “per ragioni di completezza”, l’automatica integrazione anche degli artt. 2652 e 2653 c.c.
75 Corte cost., ord., 27.4.2007, n. 142.
76 Gragnani, op. cit., 324 ss.
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CRITERI DI QUANTIFICAZIONE DEGLI ASSEGNI DI MANTENIMENTO.
I FOGLI DI CALCOLO 1
Fiorella Buttiglione
Consigliere della Corte d’Appello di Cagliari
1. Situazione attuale
Siamo qui perché vogliamo tentare di dare una risposta alla prima domanda che il cliente vi pone:
“Avvocato quanto devo pagare?... Avvocato quanto mi spetta per legge?”.
Spesso non si sa cosa dire e allora non resta che chiederlo al giudice, pur sapendo che molto probabilmente neppure lui ci darà la risposta “esatta” perché quasi mai lo mettiamo in grado di conoscere
i redditi effettivi del coniuge obbligato al mantenimento e i bisogni del coniuge debole e dei figli.
Fino a non molto tempo fa, le cause di famiglia erano la Cenerentola delle liti giudiziarie per la
scarsa attenzione che veniva loro riservata; i figli nella maggior parte dei casi, per tradizione e per
convinzione degli psicologi infantili, restavano affidati alla madre, il più delle volte casalinga e con
poca possibilità di far valere i diritti suoi e dei figli in un lungo e costoso processo; a carico del
padre era posto un assegno di mantenimento liquidato “a sentimento”, spesso in un importo che
può definirsi “penoso”, del tutto inadeguato a conservare ai soggetti deboli, seppure lontanamente, il medesimo tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale, e qualche volta insufficiente persino a soddisfare le minime esigenze di vita.
Lo scenario sociale, culturale ed economico è cambiato e i problemi della famiglia in crisi si sono
fatti più complessi, tanto più in questo momento di grave crisi economica e di “impoverimento”
generalizzato.
E così anche la gestione delle cause di separazione e di divorzio è diventata più complessa e sempre più grande è il disagio di chi è impegnato nel tentativo di comporre il conflitto.
Da qualche tempo è salito alla “ribalta” il problema, certamente sussistente e da affrontare con la
giusta ottica, dell’impoverimento dei padri separati: occupa numerose trasmissioni televisive e radiofoniche e intere pagine di importanti giornali nazionali; è oggetto di convegni, di numerose e
costose indagini di tipo statistico2.
Mi piacerebbe però che si evitasse di parlare della famiglia separata in termini di “guerra di genere”.
I problemi, anche economici, riguardano entrambi “i poveri coniugi” e i figli.
Non bisogna dimenticare decenni di “silente povertà” delle madri separate con figli a carico, oggetto
di sporadici studi di “nicchia” da parte di qualche sociologo o di qualche docente di diritto della famiglia, riportati in testi destinati ad un numero limitato di persone, e per il resto pressoché ignorata.
Bisogna perciò cambiare il modo di affrontare il problema e assicurare la giusta tutela a chi si trova nella situazione di maggiore debolezza, senza trattamenti diversi a seconda del genere.
1
Intervento tenuto al Convegno I criteri di quantificazione dell’assegno per il coniuge e i figli, organizzato da AIAF Lombardia,
Milano, 14 novembre 2008.
2 Vedi da ultimo gli articoli pubblicati in “La Repubblica”, venerdì 31.10.2008, pp. 41-43 “Poveri padri (separati)”, “Se papà non
arriva a fine mese”, “Perdita d’immagine che ricade sui figli”.
30
FOCUS
1.1. La disciplina legislativa non garantisce l’attuazione concreta dei diritti dei figli e del coniuge debole riconosciuti in astratto
Nella fase patologica del matrimonio si hanno a disposizione le coordinate teoriche che dovrebbero consentire di dividere “equamente” le risorse economiche realizzate dalla coppia durante la convivenza secondo la rispettiva capacità di lavoro professionale o casalingo, ma sappiamo tutti che,
alla resa dei conti, chi dei due ha più soldi non ha piacere di dividerli con l’ex coniuge; cerca in
ogni modo di “nasconderli” e comincia ad essere “parsimonioso” anche con i propri figli3.
Il legislatore dovrebbe più opportunamente fornire alla coppia “ancora innamorata” e ancora animata da uno spirito di solidarietà e generosità, gli strumenti giuridici per regolamentare le sorti economiche di quel che resterà della famiglia dopo la separazione; dovrebbe dare ai coniugi la possibilità di stipulare dei patti prematrimoniali consentendo di modulare il regime dei loro rapporti
economici autonomamente, adattandolo alle loro particolari necessità.
I coniugi sin dall’inizio decidono cosa sarà del loro futuro economico dopo la separazione (che
mai possa succedere! ma se succede...); impostano la soluzione del problema su basi di chiarezza
e di lealtà e, accantonato l’accordo, continuano serenamente il loro rapporto d’amore.
Non c’è dubbio che “prevenire” sia meglio che “bisticciare” e la scelta secca tra il regime della separazione dei beni e quello della comunione è inidonea a creare le condizioni per una pace familiare presente e futura:
• se si sceglie il regime di separazione, come avviene nella maggior parte dei casi, la famiglia parte senza la condivisione dei beni ma con la sola condivisione degli obblighi e alla fine dell’amore al coniuge economicamente più debole, che a discapito della propria professionalità ha profuso un impegno maggiore in termini di tempo e di fatica per la cura della famiglia, non rimane altro che l’aspettativa di un assegno di mantenimento “adeguato”. E siccome i coniugi non
concordano mai sull’importo dell’assegno necessario per mantenere lo stesso tenore di vita,
quell’aspettativa si rivela spesso “vana” e diventa inevitabile il ricorso agli avvocati e al giudice
per cercare di comporre il conflitto;
• se si sceglie, invece, il regime della comunione dei beni, alla fine dell’amore il coniuge economicamente più forte, che è stato l’unico o il maggior produttore di reddito, si trova a dover dividere i beni che sente solo “suoi” con chi ormai considera un nemico o nella migliore delle
ipotesi un estraneo.
La famiglia in cui prima tutto si condivide e alla fine tutto “giustamente” si divide il più delle volte resta un “sogno” del legislatore, perché nella “realtà” dei nostri processi si assiste, tuttora, alle
ingiustizie che, nella maggioranza dei casi, patiscono il coniuge economicamente più debole e i figli, costretti a ridurre drasticamente il loro stile di vita passando “dalle ‘stelle’ del periodo della famiglia unita ‘alle stalle’ della convivenza con il genitore più debole economicamente”4.
È vero che la maggior parte delle nostre cause riguarda famiglie che non nuotano certo nell’oro,
ma il problema è quello di trovare la soluzione giusta per ogni tipo di famiglia, perché subire un
ingiustizia è doloroso per il povero ma anche per il ricco.
3
Nell’articolo di Giovanni Parente “Figli affidati, assegni da 630 euro” ne “Il Sole 24 ore”, Lunedì 20 ottobre 2008 n. 290, 11,
si legge : “... sul mantenimento si gioca un braccio di ferro particolare nella ‘guerra fredda’ che in gran parte dei casi caratterizza l’epilogo del matrimonio. «Da una parte ci sono i mariti che vogliono pagare il meno possibile, che cercano di dimostrare di essere meno ricchi di quello che appaiono – afferma Gassani. Dall’altra parte ci sono mogli e figli pronti a chiedere anche l’intervento della Guardia di Finanza per stanare i redditi del marito-padre»”.
4 Vedi articolo di Giovanni Parente “Figli affidati, assegni da 630 euro” cit.
31
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1.2. Il processo non riesce a dare una risposta veloce
In un contesto di cronica carenza di mezzi e risorse umane, il processo è al collasso.
Neppure nelle cause di famiglia, che certamente necessiterebbero di una pronta soluzione, è possibile intervenire con la celerità necessaria.
Il risultato alla fine è spesso deludente:
• per le famiglie della fascia socio-economica medio-alta, difficilmente si riesce ad accertare i reali
redditi (indagini tributarie e bancarie spesso si rivelano inutili5) e quasi mai gli assegni riescono a
garantire il soddisfacimento dei bisogni dei soggetti deboli secondo il pregresso stile di vita;
• per la famiglie della fascia socio-economica medio-bassa, gli assegni liquidati di volta in volta
“a sentimento”, senza un criterio di calcolo predefinito, spesso risultano inadeguati a soddisfare anche le minime esigenze di vita.
In ogni caso, nella liquidazione degli assegni si assiste a grandi disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale e a volte nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario, che sono indubbiamente da
evitare.
Ricordo che dall’indagine condotta dalla ANM nel 2002 in oltre 50 Tribunali d’Italia, risultò che per
il figlio venivano liquidati assegni da 50 a 400 euro.
La domanda formulata nel questionario era la seguente:
“Se nell’impossibilità di determinare i redditi in fase presidenziale si opera una determinazione minima dell’assegno per il mantenimento dei figli o come contributo per il mantenimento prima di
rinviare innanzi al g.i. a quanto ammonta l’importo?”.
Le risposte furono le più diverse:
• minimo 50 euro per figlio
• 100 euro: 2
• 125 euro per un figlio
• 100-150 euro
• 125-150 euro per ciascun figlio
• 150 euro: 2
• 175 euro: 3
• 200 euro: 9
• 225 euro
• 200 euro per un figlio e 300-350 per due
• ogni caso va valutato singolarmente
• da 250 a 400 euro
• a seconda dei redditi: 6
• 1/3 del reddito6.
Né la situazione è cambiata per effetto della riforma del 2006.
Il legislatore con la legge 8.2.2006 n. 54 è intervenuto nella materia della famiglia e, nell’ambito
della nuova regolamentazione dell’affidamento condiviso, ha elencato 5 parametri di riferimento
per la liquidazione degli assegni in favore dei figli.
Tutto è rimasto invariato per il coniuge debole.
Non è il luogo per commentare l’efficacia della nuova disciplina; sono state espresse fondate perplessità sull’efficacia delle nuove norme a garantire ai figli la serena presenza di entrambi i genitori nella loro vita e la conservazione dello stesso tenore di vita, riducendo il conflitto tra i coniugi.
Quel che è certo è che i nuovi criteri di quantificazione degli assegni, così puntualmente indicati
5
Per sperare in indagini più utili è necessario che le richieste dei difensori siano formulate in maniera più puntuale.
6
Cfr. atti del convegno Viaggio nei giudizi di separazione e divorzio. Come attuare un processo ragionevole, organizzato dalla
ANM a Roma il 3 giugno 2003, in cui vennero discussi tutti i problemi di carattere sostanziale e processuale messi in luce da
un’approfondita indagine nei Tribunali di tutta Italia. E sullo specifico punto anche la relazione di Buttiglione “Provvedimenti di
natura patrimoniale”.
32
FOCUS
nell’art. 155 comma 4, c.c., non hanno aiutato più di tanto i giudici a liquidare l’assegno di mantenimento in misura “obiettivamente” più “giusta” in relazione al singolo caso concreto, sicché permangono quelle disparità nella liquidazione degli assegni denunciate nel corso degli ultimi anni nell’ambito di più sedi7.
1.3. La mediazione familiare, nei fatti, non costituisce ancora un valido rimedio alternativo
al processo per la composizione del conflitto familiare
Si verifica così che i coniugi e i figli vengono trascinati nel vortice del processo per tanti anni, il
loro disagio si amplifica, chi ha pochi soldi diventa più povero perché deve anche anticipare le
spese della lite, e alla fine, forse, arriverà un assegno liquidato sulla base della situazione economica più recente.
Per il passato, come si dice a Napoli, “chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato...” e, infatti, raramente si valuta l’evoluzione della situazione intervenuta medio tempore, perché ricostruire i mutamenti nelle disponibilità economiche dei coniugi e nelle esigenze dei figli nel corso dei lunghi anni di causa diventa una opera ciclopica, che nessuno
se la sente di affrontare, oltre tutto avendo a disposizione dati il più delle volte incompleti.
2. Che fare? Rendere più prevedibile la risposta del giudice e più adeguati gli assegni
Bisogna però riconoscere che da qualche tempo, dopo avere preso atto delle prassi seguite nei procedimenti di separazione e di divorzio e delle ragioni di un processo che certamente non funzionava al meglio8, ANM, CSM e un numero sempre maggiore di giudici si stanno adoperando per cercare di dare una soluzione ai vari problemi di carattere organizzativo, processuale e sostanziale.
In particolare, si sta tentando di individuare dei criteri di liquidazione degli assegni di mantenimento che rendano più prevedibile la risposta del giudice, quantomeno per alcune tipologie “normali”
di situazioni familiari, in modo tale da evitare ai poveri coniugi un’interminabile e antieconomica
odissea processuale e ai figli i traumi psicologici causati dalla “guerra fredda” tra i loro genitori.
Criteri di quantificazione che rendano gli assegni liquidati più adeguati alle disponibilità dell’onerato e alle necessità degli aventi diritto, realizzando l’obiettivo voluto dal legislatore di assicurare
ai nuclei familiari che si generano dalla separazione e dalla disgregazione dell’originaria famiglia,
un medesimo tenore di vita: soffrendo tutti alla stessa maniera per la sopravvenuta “povertà” o godendo in pari misura della “ricchezza” sopravvissuta alla famiglia separata.
Certamente è illusorio il tentativo di individuare dei criteri oggettivi valevoli per i casi più diversi,
giacché ogni famiglia ha una propria storia, presenta un particolare intreccio di legami sentimentali ed economici e delle variabili che sfuggono ad essere ingabbiate tutte in tabelle e conteggi prestabiliti.
7
Nell’articolo “È il momento dei tribunali specializzati” di Annanaria Bernardini de Pace e Alessandro Simeone, in “Il Sole 24
ore”, lunedì 20 ottobre 2008 n. 290, 11, ci si lamenta del fatto che: “... molti Giudici riducono il criteri dell’art. 155 del Codice Civile a mere clausole di stile, le disattendono come fanno anche per altri principi, alla fine l’ammontare dell’assegno finisce per essere l’espressione delle convinzioni del magistrato, invece che l’applicazione della legge”. Personalmente ho sempre ritenuto che è
vero che c’è il rischio che il giudice sovrapponga, anche inconsapevolmente, la propria visione della vita e della gestione dei rapporti familiari alla ratio legis delle norme in materia, ma onestamente occorre anche riconoscere che non è facile tradurre in un
importo monetario concreto i concetti astratti di “tenore di vita goduto dal figlio” o di “valenza economica dei compiti domestici
e di cura assunti da ciascun genitore” tanto più se manca ogni dimostrazione di quanto costava il figlio quando la famiglia era
unita.
8 Cfr. atti del convegno Viaggio nei giudizi di separazione e divorzio. Come attuare un processo ragionevole, organizzato dall’ANM, Roma, 3 giugno 2003.
33
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
Tuttavia, l’esigenza di individuare un criterio base che possa essere utilizzato, sia pure limitatamente ad alcune tipologie di famiglie con situazioni economiche meno complesse, è sentita molto forte da tutti gli operatori del diritto: avvocati, giudici e anche dagli stessi coniugi.
Il coniuge obbligato al mantenimento vorrebbe sapere in anticipo quanti soldi “rischia” di pagare
per i figli e per il coniuge economicamente più debole se dovesse decidere di separarsi; questi ultimi hanno necessità di “disporre subito”, e non all’esito del lungo processo, di quanto necessario
per le loro normali necessità di vita.
La questione si è fatta più complessa rispetto al passato, perché adesso bisogna valutare quanto
“valgono” economicamente i “compiti domestici e di cura dei figli” al fine di ridurre l’importo dell’assegno perequativo che il genitore economicamente più forte dovesse versare all’altro genitore
presso il quale risiedono prevalentemente i figli, in caso di affido condiviso. Compiti di cura che
prima venivano svolti solo dalla madre affidataria esclusiva; che avevano uguale valenza economica e che, tuttavia, ben poco venivano considerati al momento di liquidare l’assegno di mantenimento a carico del padre.
Ma questo della quantificazione monetaria dei compiti di cura è un problema nel problema, e di
non scarso rilievo, come è comprensibile se solo si considera la varietà dei compiti domestici e di
cura e la diversissima incidenza in termini di costi o di mancati guadagni per chi se li assume.
Nonostante ciò, sono sempre convinta dell’utilità dell’individuazione di criteri che consentano una
liquidazione più obiettiva degli assegni e rendano più prevedibili le risposte del giudice.
Deve essere chiaro, però, che qualunque sia il criterio di calcolo, occorrerà sempre personalizzare
il risultato in considerazione delle specificità del caso esaminato.
3. Necessità di accertare di quanti soldi dispone la famiglia separata, ricostruire il bilancio familiare,
trovare un criterio per dividere i soldi tra i vari componenti: la statistica non c’entra
Prima di cercare un criterio di quantificazione degli assegni è necessario chiarire alcuni presupposti da cui non si può prescindere.
È pacifico che l’assegno di mantenimento deve consentire ai figli e al coniuge debole di mantenere inalterato, per quanto possibile, lo stesso tenore di vita di cui godeva la famiglia unita.
Non mi stanco di ripetere che il concetto di assicurare lo stesso tenore di vita è in fondo un concetto molto semplice, perché in concreto significa assicurare a ciascuno dei componenti di quella
specifica famiglia presa in considerazione, la stessa capacità di spesa che aveva prima, ovvero assicurargli la quantità di danaro necessaria per fare le stesse cose, per continuare a condurre lo stesso stile di vita precedente alla separazione. È ovvio che ciò presuppone che le risorse economiche
lo consentano; ma, in caso contrario, come ho già detto, l’impoverimento deve riguardare tutti alla stessa maniera.
Per tradurre il tenore di vita nel suo equivalente monetario, le strade sono due:
1. si accertano le ENTRATE in senso ampio della famiglia, dalle quali può implicitamente desumersi il tenore di vita;
2. si accertano le USCITE, cioè i soldi che venivano concretamente spesi per le necessità familiari.
Compito del giudice è quello di conservare ai figli e al coniuge debole una capacità di spesa analoga a quella goduta in precedenza e, comunque, analoga a quella che può ancora permettersi il
coniuge economicamente più forte.
Onere della parte e del suo avvocato è quello di fornire gli elementi di prova utili per accertare quali fossero le ENTRATE e quali le USCITE.
In sostanza, occorre ricostruire il BILANCIO dell’azienda famiglia.
In questa operazione sarà necessario, per accertare le entrate e le spese, il ricorso a nozioni della
scienza tributaria e della scienza economica, ma poco potrà soccorrere la cosiddetta scienza statistica perché qui non si tratta di stabilire quanto consuma in media la famiglia italiana, ma si tratta
34
FOCUS
di accertare di quanto ha bisogno e quanto consuma ogni singolo componente di quella specifica
famiglia.
D’altronde, per la scienza statistica è indifferente che il pollo lo abbia mangiato io e che il mio coniuge sia rimasto a digiuno, perché le esigenze della statistica sono quelle di stabilire il consumo
medio alimentare nel caso in cui vi sia a disposizione solo un pollo e siano due i soggetti che devono mangiare. Il compito del giudice è, invece, quello di assicurare che ciascuno dei coniugi mangi effettivamente il mezzo pollo.
4. Accertamento dei redditi ed evasione fiscale
Il problema dell’accertamento dei redditi deve fare anche i conti con la diffusa tendenza all’evasione fiscale o alla cosiddetta elusione legittima di cui soffre il nostro Paese.
La scorsa estate, tra luglio e agosto, la Guardia di Finanza ha fatto 3.000 controlli tra i natanti ormeggiati nei vari porti d’Italia:
• c’era l’imprenditore che dichiarava € 800,00 lordi al mese e pagava una rata di € 4.000,00 al mese per il leasing del suo 14 metri nuovo di zecca;
• al molo di via Caracciolo, a Napoli, era ormeggiato un 12 metri di un dipendente dell’ospedale che percepiva solo € 1.300,00 di stipendio;.
• c’era pure la casalinga, nulla facente e nulla tenente, a parte una barca di 14 metri;
• c’era l’avvocato di Napoli che dichiarava € 150,00 di reddito netto all’anno ma che pagava €
3.000,00 di rata mensile per il leasing della barca.
Strumenti giuridici del tutto legali: leasing, società di charter, intestazioni fittizie, sono alcuni degli innumerevoli sistemi per apparire poveri e non pagare le tasse.
Con le barche intestate a società di charter non solo il bene non risulta del vero proprietario, ma questi risparmia anche sul gasolio.
A Chiavari la Guardia di Finanza ha scoperto:
• un 42 metri che in pochi mesi ha evaso imposte per € 100.000,00 consumando 142.000 litri di
gasolio;
• un ex ambasciatore americano, che bazzica ancora dalle nostre parti, che ha basato in Gran Bretagna la società di charter formalmente proprietaria del suo 35 metri e in pochi anni ha risparmiato, per le accise sul carburante e le imposte, 2 milioni di euro;.
• il ristoratore di Mogliano che dichiara € 0 di reddito e compra un cabinato da € 130.000;
• l’ingegnere che dichiara € 7.000,00 lordi per anno e compra una barca per € 160.000,00, due
BMW e un’Alfa Romeo per € 200.000,00, che si aggiungono ai suoi 45 immobili tra cui una
splendida villa in Veneto.
Dei 37 evasori accertati, il 47% sono proprietari di Porsche:
• una cinquantenne senza redditi compra una Porsche 911 coupé per € 112.000,00;
• una trentenne, che non dichiara nulla, compra una Porsche Carrera coupé per € 109.000,00;
• il titolare di una vetreria, che dichiara appena € 10.000,00 all’anno, compra una Porsche Carrera cabrio per € 115.000,00.
Infine, c’è un grossista della provincia di Napoli che dichiara un reddito imponibile di € 33.000,00
e sfreccia su un cabinato di 15 metri per il quale paga € 1.500,00 al mese il leasing9.
9
Dati tratti dall’articolo “Evasori in alto mare”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 4.9.2008.
35
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4.1. Il signor AA di Firenze
Anche il signor AA di Firenze, secondo quanto accertato nella nota sentenza di separazione pronunciata dal Tribunale di Firenze10, nella quale si è fatto ricorso ad un programma di calcolo per
la quantificazione degli assegni di mantenimento conosciuto come software Mo.Cam., presentato
in più sedi, nel 2004 disporrebbe di un reddito di circa € 39.000 all’anno, ovvero € 3.250,00 al mese, e nello stesso anno compra una Porsche Cayenne 4.5. turbo e paga una rata di leasing di €
3.000,00 all’anno.
Si tratta di un caso concreto che ben può rappresentare la notoria difficoltà di accertare, nelle cause di separazione e di divorzio, quale sia la complessiva situazione economica dei coniugi, le loro
reali disponibilità reddituali, patrimoniali e finanziarie.
Nei nostri processi, spesso e con buona pace del dovere di collaborazione e di lealtà sancito dall’art. 5 della l. div.11, al giudice, e forse anche all’avvocato, non si dice tutta la verità.
La diffusa pratica della evasione fiscale ed il frequente ricorso ai numerosi strumenti giuridici attraverso i quali è possibile interrompere il nesso apparente tra beni e titolarità degli stessi, sono un
ostacolo sulla via della prova dei redditi, che il più delle volte si rivela insormontabile nonostante
il ricorso ad accertamenti tributari, bancari eccetera, sicché alla fine il giudice non riesce a sapere
di quanto veramente dispone il coniuge più ricco.
4.2. Il coniuge ricco si impoverisce. Il coniuge debole e i figli passano dalle stelle alle stalle
I sociologi hanno rilevato che nella maggior parte dei casi il coniuge economicamente più forte,
man mano che la coppia entra in crisi e matura l’idea della separazione, fa di tutto per apparire
più povero, e che, d’altra parte, le donne separate con figli minori mediamente spendono per questi ultimi tre volte di più di quanto spende il marito; le donne separate, secondo gli studi in materia, “oltre a dover far quadrare il bilancio familiare con assegni di mantenimento spesso inadeguati, devono fare i conti con la necessità di riorganizzare i tempi e l’intensità dell’impegno lavorativo
in funzione di quello domestico e di cura”, alla fine impoverendosi notevolmente12.
Anche il signor AA di Firenze, che in media dichiarava circa € 57/58.000,00 all’anno, durante gli ultimi anni della convivenza familiare, dopo l’esplosione della crisi matrimoniale, ha dichiarato un
reddito di circa € 39.000,00 eppure, nello stesso anno, come abbiamo visto, ha comprato beni altamente voluttuari, con un impegno per il pagamento delle rate di leasing.
Non è stato accertato in causa, come pure aveva dedotto, che avesse licenziato quattro dipendenti a causa di una contrazione della sua attività per perdita clientela e con conseguente riduzione
dei redditi; lo stesso consulente tecnico nominato dal giudice nella causa di separazione aveva dato atto che risultava dalla dichiarazione fiscale una riduzione del reddito ma che non era affatto
chiaro se fosse dipesa dalla “asserita” riduzione della clientela, ovvero dalla “indicata” maggiore
incidenza dei costi del lavoro. Lo stesso consulente aveva anche chiarito che, in tale ultimo caso,
la maggiore incidenza dei costi del lavoro avrebbe potuto essere interpretata come indizio dell’occultamento di ricavi, per cui si sarebbe potuto ipotizzare, al contrario, la concreta sussistenza di
maggiori ricavi e conseguentemente di maggiori redditi.
10 Trib. di Firenze, 3 ottobre 2007 - Pres. Aloisio - Rel. Governatori, in Famiglia e Diritto, 1/2008, 39-52.
11 Art. 5 l. n. 898/70: “I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune”.
12 Sul punto molto interessante l’indagine sociologica condotta in Italia sulle donne separate da Chiara Saraceno e Marzio Barbagli e riportata nel bel libro Separarsi in Italia, Bologna, 1998.
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FOCUS
4.3. Il tenore di vita della famiglia di Firenze
Comunque, è utile evidenziare che sino a pochi mesi prima della separazione la famiglia di Firenze, composta di tre persone, con circa € 57/58.000,00 annui dichiarati (pari a circa € 4.800,00 al
mese) si consentiva di vivere:
• in una casa di mq. 240 nel centro storico di Firenze, arredata con mobili e arredi di pregio;
• utilizzava i servizi di una collaboratrice domestica a tempo pieno, che spesso serviva la cena in
guanti bianchi e alla quale veniva dato uno stipendio di L. 700.000 al mese (ai quali aggiungere i contributi Inps, la tredicesima mensilità e annualmente anche la quota di TFR);
• era solita frequentare ristoranti e alberghi di lusso anche a cinque stelle, viaggiando con set di
valigie Vuitton, Prada e Ferragamo;
• disponeva di auto prestigiose;
• consentiva alla figlia di praticare sport costosi (equitazione, danza, sci, tennis) e di frequentare
scuole private;
• si recava in vacanza in rinomate località di turismo invernale ed estivo (Londra, Disneyland,
Santorini, Irlanda, Stati Uniti...) e affittava per l’intero anno una casa di vacanza a Courmayeur
(per un canone annuo di L. 20.000.000 nel 2000).
A giudizio dello stesso marito la famiglia aveva un OTTIMO tenore di vita;
secondo la moglie si trattava di un tenore di vita ALTO, ELEVATO;
secondo il Tribunale, nella sentenza citata, di un tenore di vita CERTAMENTE AGIATO.
5. Valorizzazione delle presunzioni. Redditometro
Tenuto conto della notoria scarsa tendenza a dichiarare al fisco i propri redditi effettivi, si dovrebbe fare un maggiore uso delle presunzioni per ritenere provata la sussistenza di redditi maggiori
di quelli dichiarati.
D’altronde la legittimità del ricorso alle presunzioni è stata ora formalizzata anche in sede tributaria.
Con la “manovra di luglio 2008”, l’Agenzia delle Entrate ha rilanciato l’istituto del REDDITOMETRO
che è appunto uno strumento di accertamento dei redditi sulla base di INDICI e COEFFICIENTI
presuntivi che consente all’Amministrazione finanziaria di verificare se “un certo livello di spesa e
tenore di vita sia compatibile con i redditi dichiarati da soggetti persone fisiche”13.
Livello di spesa e tenore di vita desunti da indicatori quali: possesso di aeromobili, imbarcazioni,
autoveicoli e altri mezzi di trasporto, residenze principali e secondarie, collaboratori familiari, assicurazioni eccetera.
L’Agenzia delle Entrate, sulla base della spesa, “costruisce il reddito” imputabile al contribuentepersona fisica al quale spetta l’onere di provare il contrario.
La Cassazione ha confermato la legittimità del ricorso a presunzioni semplici per l’accertamento dei
redditi anche di recente con le sentenze n. 20708/07, 16284/07 e 16348/08.
Mi parrebbe che anche in una situazione quale quella del signor AA di Firenze, risultavano con certezza numerosi elementi in base ai quali poter presumere che i redditi dichiarati ante separazione
forse non rispondevano del tutto alla realtà delle disponibilità economiche, perché con € 57/58.000,00
all’anno, circa € 4.800,00 al mese, difficilmente 3 persone conducono quello stile di vita.
Il signor AA di Firenze aveva la titolarità esclusiva della prima casa familiare, un “signorile” e “pregevole immobile” di mq. 130, oltre la proprietà esclusiva dell’immobile adibito a studio professionale; ed aveva acquistato, intestandone alla moglie il 50%, un’altra casa, adibita a nuova residenza
della famiglia, di mq. 240 e “di categoria A/1, con finiture di pregio e arredamento costoso”.
13 Cfr. Tozzi, “Il rilancio del redditometro”. Per approfondimenti vedi la recente pubblicazione di Tozzi, Il redditometro e le indagini finanziarie, Sistemi editoriali, 2009 (ndr).
37
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
Inoltre, andava considerato che il signor AA di Firenze aveva dei depositi bancari che, tuttavia, non
sono stati ritenuti una risorsa finanziaria da computare ai fini della liquidazione degli assegni di
mantenimento (come non si è tenuto conto del valore intrinseco dello studio commerciale).
Il ctu, infatti, ha considerato la provvista bancaria azzerata dall’importo capitale di un mutuo pari
a circa € 100.000,00 contratto dal signor AA di Firenze, anche se le somme depositate in banca nel
corso degli anni di riferimento (min. circa € 22.000,00 max. circa € 150.000,00) costituivano una risorsa tutta disponibile nell’attualità, mentre il mutuo di € 100.000,00 andava restituito a rate nel corso degli anni a venire, per cui l’importo depositato in banca forse non si poteva ritenere tanquam
non esset.
Pur senza entrare nello specifico dei singoli criteri adottati dal commercialista per individuare il reddito effettivamente disponibile, anche solo le considerazioni più generali sopra richiamate, avrebbero potuto far presumere che il dato di partenza dei redditi di cui disponeva il signor AA di Firenze non poteva considerarsi un elemento certo e credibile. Il fatto di ancorare il calcolo per la liquidazione delle assegni a quel dato di partenza viziato, ha necessariamente viziato per ciò solo la bontà di ogni passaggio successivo.
6. Proposte: fogli di calcolo. In quali casi utilizzarli e con quali avvertenze
Dopo aver messo in chiaro la notevole difficoltà di accertare i redditi dei coniugi, dobbiamo porci il problema di stabilire come dividere i soldi.
Va ribadito che nella ricerca di un criterio di quantificazione degli assegni di mantenimento, il principio cardine da tenere sempre a mente è quello secondo cui, dopo la separazione, le risorse della famiglia si dividono in funzione della conservazione a ciascuno, ove possibile, del precedente
tenore di vita (come detto: si divide la ricchezza se c’è ancora, nel rispetto anche del principio della parità tra i coniugi e del diritto dei figli a conservare lo stesso tenore di vita, altrimenti si divide
la maggiore povertà che consegue alla separazione).
Ritengo, inoltre, che in questo tentativo di elaborare programmi di calcolo da utilizzare per la liquidazione degli assegni di mantenimento bisogna:
a) rinunciare in partenza alla speranza di un foglio di calcolo o un software magico che risolva i
problemi di tutte le più svariate categorie di famiglie; non è assolutamente concepibile pensare di elaborare tabelle del tipo di quelle riguardanti la liquidazione del danno biologico;
b) sarebbe sufficiente limitare l’obiettivo all’elaborazione di un foglio di calcolo che riguardi solo
le famiglie “normali”, i cui redditi si consumano quasi completamente per i fabbisogni quotidiani. In tal caso, è chiaro che i redditi che non consentono grandi risparmi, non possono che
essere divisi in tante quote quanti sono i componenti della famiglia perché ciascuno abbia
quanto serve per vivere “normalmente”. Certamente bisognerà tenere conto da un lato degli
oneri di produzione del reddito e dall’altro dei vantaggi derivanti dalle cosiddette economie di
scala. Entro questi limiti si può anche pensare a un foglio di calcolo per ripartire equamente il
danaro, tenendo sempre a mente che l’obiettivo è quello di assicurare a ciascuno il medesimo
tenore di vita;
c) per quanto riguarda, invece, le famiglie appartenenti alla fascia sociale medio-alta, nelle quali
le risorse economiche sono eccedenti rispetto ai consumi, sicché restano margini più o meno
ampi di risparmio, mi sembra che si possa rinunciare, per ora, a pensare ad un programma di
calcolo. È evidente la difficoltà di stabilire astrattamente e in via generale quale fosse la quota
di reddito destinata al risparmio in quella specifica famiglia e comunque bisognerebbe prima
chiarire se e in quale percentuale andrebbe divisa tra i vari componenti la famiglia divisa.
In tali casi, mi sembra più proficuo concentrarsi sull’accertamento e sulla quantificazione delle
spese che in concreto si affrontavano per assicurare a ciascun nuovo nucleo familiare analoga
capacità di spesa, liquidando tuttavia un assegno che consenta ai beneficiari anche di accanto-
38
FOCUS
nare, come si faceva prima, delle somme in vista di impreviste necessità future;
d) ugualmente non ritengo utile il ricorso ad un qualche programma di calcolo quando, pur in presenza di famiglie ricomprese nella fascia di reddito bassa, siano presenti molte variabili di cui
si deve necessariamente tenere conto.
Ribadisco, ancora, che occorrerà sempre che “a monte” sia accertato il reddito effettivo di cui dispongono i due coniugi; e che “a valle” il giudice verifichi ed eventualmente adatti il risultato alle
concrete necessità di spesa del nuclei familiari originatisi dalla separazione.
In ogni caso, il presupposto imprescindibile perché si possano affidare le aspettative di tutela dei
soggetti deboli della famiglia ad un foglio di calcolo, pur entro i limiti suddetti, è che lo stesso dia
una affidabile garanzia di un risultato “giusto”.
In caso contrario, si rischiano effetti ancor più gravi di quelli causati dalla liquidazione degli assegni “a sentimento”, perché nel “buon sentimento” del giudice si può anche sperare, mentre dalla
macchina “cattiva” si avrà sempre e solo la stessa risposta “cattiva”, senza speranza alcuna di un risultato diverso e migliore.
Ciò significa che la bontà di qualunque foglio di calcolo non la si può verificare a posteriori sulle
spalle dei poveri figli e del coniuge debole.
Non si può farne prima applicazione nei vari processi per poi vedere se è andato più o meno bene.
Sarà, dunque, necessario controllare prima la correttezza dei risultati testando il programma su un
campione significativo di cause già decise e di assegni già liquidati, per verificare la rispondenza del
risultato ottenuto con gli assegni mediamente liquidati dai giudici.
7. Software Mo.Cam. e statistica nella sentenza del Tribunale di Firenze
La già richiamata sentenza del Tribunale di Firenze ci dà l’opportunità di verificare l’utilizzo del
software Mo.Cam. e la sua efficacia in relazione alla liquidazione degli assegni di mantenimento.
7.1. Incarico al consulente tecnico statistico
Abbiamo visto sommariamente come sono state accertate le “ENTRATE” e in generale le “disponibilità economiche” della famiglia di Firenze con l’ausilio del ctu dottore commercialista.
Successivamente, si è fatto ricorso alle cognizioni di un “tecnico statistico” al fine di:
a. accertare le “USCITE”, individuando il “presumibile livello di spesa della famiglia antecedente alla separazione... ed il conseguente tenore di vita del nucleo familiare in costanza di convivenza dei coniugi”; nucleo composto da tre persone: il Signor AA, la Signora BB e la comune figlia X;
b. individuare l’importo del trasferimento di danaro dal coniuge economicamente più forte (marito AA) a quello debole (moglie BB) e alla figlia X, necessario per assicurare ai due distinti nuclei (padre+figlia/madre+figlia) un tenore di vita analogo tra loro, “ripartendo l’assegno per categorie di spesa, individuando sulla base di opportune indagini statistiche, la ripartizione dell’assegno fra voci di spesa”.
Vorrei ricordare che l’obiettivo da raggiungere nel processo era quello di fare in modo che i soggetti deboli avessero la “PROVVISTA” necessaria per acquistare i beni di consumo, per godere dell’utilità e conservare lo stile di vita proprio della famiglia di Firenze all’epoca della convivenza e,
in definitiva, di realizzare un equilibrio economico tra i due nuclei familiari.
Il tecnico statistico ha stabilito che la famiglia di Firenze affrontava 12 categorie di spesa presunte secondo la stima statistica e non con riferimento alla realtà di quella famiglia.
Quindi, sembra che abbia poi stimato, sempre in via presuntiva, i costi che i due nuclei formatisi
a seguito della separazione dovrebbero affrontare, avendo come punto di riferimento una “presun-
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
ta” spesa per le necessità abitative della famiglia originaria, valutata in € 81.240,00 annui (pari al reddito figurativo di locazione ritraibile dalle due case di proprietà).
Si tratta, in particolare, delle spese indicate nel prospetto di seguito riportato:
Famiglia originaria
Nucleo padre+figlia
Nucleo madre+figlia
5.036,00
4.234,00
2.179,00
834,00
787,00
268,00
3.753,00
3.594,00
452,00
81.240,00
30.000,00
51.240,00
1.565,00
1.449,00
866,00
mobili e beni durevoli
1.605,00
1.677,00
264,00
servizi sanitari
1.387,00
1.352,00
220,00
5.092,00
4.682,00
1.139,00
698,00
625,00
287,00
1.
generi alimentari
2.
bevande
3.
vestiario
4.
spese abitazione
5.
combustibili ed energia
6.
7.
8.
trasporti
9.
comunicazioni
10. istruzione
11. ricreazione
12. altri beni
TOTALE
266,00
135,00
4,00
2.678,00
2.609,00
357,00
4.821,00
5.078,00
853,00
108.975,00
56.222,00
58.130,00
7.2. Inattendibilità della ricostruzione delle spese su basi statistiche
Salta all’occhio evidente la singolarità dei dati indicati nella scheda: a titolo esemplificativo rilevo
che il nucleo madre+figlia, mangia complessivamente meno, beve e si veste ancor meno eccetera,
rispetto al nucleo padre+figlia.
Anche le cifre riportate nella tabella relativa alla stima statistica delle spese della “famiglia originaria”, al netto dei redditi figurativi delle case di abitazione (€ 81.240,00), non sembrano corrispondere, nel loro complessivo importo (€ 27.000,00 circa) al reddito disponibile per il periodo ante separazione, indicato dal ctu commercialista in circa € 57/58.000,00 annui.
Ma a parte questo, ciò che conta è che il risultato finale dell’utilizzo della scienza statistica e del
software Mo.Cam., che avrebbe dovuto realizzare l’obiettivo di consentire a ciascun componente
della famiglia di Firenze di mantenere lo stesso tenore di vita, ha portato, e pure con la correzione in aumento del Tribunale, alla liquidazione di un assegno per la moglie di € 1.400,00 al mese
e per la figlia di € 600,00 al mese.
La somma onnicomprensiva di € 1.400,00 al mese dovrebbe assicurare alla signora BB di Firenze,
alla quale peraltro non è stata riconosciuta alcuna capacità di produrre reddito, la possibilità di:
• provvedere al proprio mantenimento in modo consono al pregresso stile di vita;
• provvedere alla gestione e manutenzione della casa, approntandola anche nell’interesse della
figlia;
• poter utilizzare se non una Porsche un’autovettura equivalente e comprare un set di valigie analogo a quello a disposizione del marito;
• fare le vacanze, e non solo quelle estive “gratis” a Forte dei Marmi in casa dei suoi genitori, ma
anche le vacanze invernali a Courmayeur, fare viaggi all’estero eccetera;
• risparmiare qualcosa per le spese imprevedibili (in conseguenza di malattie, di un incidente
d’auto ecc. secondo quanto riconosciuto anche dal Tribunale);
• e, infine, dovrebbe anche pagare il 20% delle spese extra per la figlia (l’80% è a carico del padre) il cui importo è prevedibilmente consistente.
Con € 1.400,00 al mese dovrebbe essere più o meno parificato lo squilibrio tra le situazioni economiche dei due coniugi.
40
FOCUS
7.3. Illogicità del metodo di ricostruzione delle spese
Non entro nel merito della bontà dei dati sui quali è stato impostato il software Mo.Cam. utilizzato nella causa decisa dal Tribunale di Firenze.
Nel 2005 avevo discusso con coloro che lo hanno programmato, sollecitando una ulteriore riflessione sui princìpi giuridici da tenere in considerazione e sugli altri parametri di ordine matematico
ed economico utilizzati, che apparivano poco convincenti. Sin da allora avevo avuto la sensazione
che il risultato non sarebbe stato congruo, che gli assegni liquidati con quel programma non avrebbero consentito di ripartire equamente le risorse economiche tra i vari componenti della famiglia
divisa.
La vicenda della famiglia di Firenze ha dimostrato, a mio parere, che il software Mo.Cam., almeno in quel caso, non ha funzionato:
a) in pratica, è risultato chiaramente inefficace rispetto all’obiettivo che vuole raggiungere: assicurare ai vari componenti della famiglia la stessa capacità di spesa;
b) in teoria è illogico.
Lo stesso tecnico statistico ha dovuto convenire che “le stime fornite possono delimitare un ambito in cui l’assegno alimentare è connotato da una significatività statistica, ovvero corrisponde ad
una media di comportamenti rilevati, ma che di fatto le peculiarità del caso in esame, tra cui non
ultimo il rilievo dei redditi figurativi delle abitazioni disponibili, potrebbe attenuare la congruità
dell’ambito delineato”.
Ma nel caso in esame, come già accennato, non sono stati rilevati i comportamenti concreti della
famiglia di Firenze; in particolare la spesa di € 81.240,00 per necessità abitative non è mai esistita
nella realtà dei comportamenti della famiglia prima della separazione e così, dopo la separazione,
il signor AA non ha speso € 30.000,00 e la signora BB non ha speso € 51.240,00 per assicurarsi un
tetto sotto il quale abitare.
I risultati cui è giunto il consulente non si basano sui reali comportamenti di spesa per necessità
abitative tenuti da quella famiglia, ma solo su un’idea astratta che sta nel mondo ideale dello statistico e non nella realtà e che, tuttavia, viene illogicamente posta sullo stesso piano delle spese che
si sostanziano in reali comportamenti di spesa per soddisfare le altre necessità di vita.
A ben vedere, anche per le altre spese indicate nel prospetto non si tratta dei reali comportamenti
della famiglia di Firenze ma di astratte categorie di spese, che forse quella famiglia non ha mai scelto di affrontare tutte e, comunque, non necessariamente in quel rapporto proporzionale tra le stesse. Inoltre, non è chiaro in quale voce di spesa dovrebbe rientrare, per esempio, il costo per la colf
che si è accertato ammontare a L. 700.000 al mese per il solo stipendio, oltre 13a mensilità, contributi INPS, rateo TFR eccetera.
È perciò evidente che la media dei comportamenti di spesa di astratte famiglie di riferimento e la
semplice significatività statistica di un certo risultato, sganciato dai comportamenti concreti della famiglia di Firenze, è del tutto inidonea al fine di accertare quale fosse il suo reale tenore di vita, che
non può affatto desumersi da ipotetici comportamenti di spesa che non le sono propri.
Ribadisco che non mi sembra logico, comunque, mettere sullo stesso piano spese che effettivamente devono essere affrontate e che richiedono un esborso di danaro e spese che, invece, non ci sono nella realtà dei comportamenti.
Non si può mettere sostanzialmente nell’ATTIVO del bilancio del nucleo madre+figlia il reddito figurativo che sarebbe in ipotesi ritraibile dall’affitto della casa familiare di mq. 240 rimasta nella loro esclusiva disponibilità, come se non fosse abitata.
L’assegnazione della casa familiare alla signora BB (peraltro anche di sua proprietà per il 50%) assume rilievo come un risparmio della spesa necessaria per soddisfare i bisogni di abitazione, come una MANCATA USCITA ma non può conteggiarsi come se si trattasse di un esborso di danaro
effettivamente da affrontare e affrontato. In tal caso nelle tasche della Signora BB dovrebbero esserci € 4.270,00 al mese o € 51.240,00 all’anno.
Tale somma (pari al presumibile valore locativo dell’immobile) non si spendeva neppure prima della separazione; mentre si spendevano i soldi che effettivamente entravano nelle casse della famiglia
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
e che erano concretamente nella disponibilità delle parti per il soddisfacimento delle altre esigenze di vita, diverse dall’abitazione.
Quindi, al massimo, ove fosse stato ritenuto di una qualche utilità concreta, si sarebbe dovuto accertare come effettivamente erano spesi dalla famiglia di Firenze 57/58.000,00 euro a disposizione prima della separazione e come andavano distribuiti i 54.000,00 euro disponibili dopo la separazione.
7.4. Altre ipotesi da verificare con il software Mo.Cam.
La verifica della inutilizzabilità dell’illogico criterio di considerare come una spesa affrontata (e dunque come un valore ATTIVO precedentemente a disposizione) il reddito figurativo ritraibile dagli
immobili, si ha ipotizzando che il coniuge economicamente più forte sia da un lato titolare esclusivo della ex casa familiare (rimasta a sua disposizione in mancanza di figli a carico), alla quale attribuire un reddito figurativo annuo di € 30.00,00, ovvero € 2.500,00 al mese; e dall’altro percepisca uno stipendio di € 1.000,00 al mese.
Egli dovrebbe dare alla moglie, priva di ogni reddito, una quota rapportata alla disponibilità di €
3.500,00 mensili, anche se in concreto ha solo € 1.000,00 perché, abitando nella ex casa familiare
non ritrae dalla stessa alcun reddito e dispone del solo stipendio?
Sarebbe interessante verificare la soluzione a cui si arriva in tal caso con l’utilizzo del programma
Mo.Cam.
Si potrebbe anche verificare come risponde il foglio Mo.Cam. nell’ipotesi in cui alla signora BB,
che convive con la figlia, sia assegnata la casa familiare – che avrebbe un valore locativo di € 51.240
all’anno ovvero di € 4.270 mensili – e il signor AA abbia solo il reddito di circa € 54.000,00 annui,
ovvero di € 4.500 al mese e, non disponendo di una casa per sé, debba pagare un canone di locazione ad esempio di € 500,00 al mese.
Detratto l’importo del canone, gli resterebbe la somma di € 4.000,00 mensili.
Secondo la logica del foglio Mo.Cam. nessun assegno di mantenimento dovrebbe corrispondersi al
nucleo madre+figlia giacché la casa dove abitano ha un astratto valore locativo di € 4.270,00 al mese, superiore al reddito dell’altro coniuge.
Lo stesso Tribunale di Firenze ha rilevato che l’intero valore locativo considerato come consumo
della famiglia “altera la ripartizione delle varie categorie di consumi”.
Condivido l’osservazione e sottolineo che, quando la ripartizione delle varie categorie di spesa non
tiene conto delle reali risorse economiche a disposizione della famiglia, quella “alterazione” è una
conseguenza inevitabile. E in tal caso, la ricostruzione su basi statistiche diventa tanto più lontana
dal vero quanto più è consistente il reddito “figurativo” preso in considerazione.
Anche l’assegno di mantenimento calcolato sulla base del software Mo.Cam. era talmente poco rispondente alla realtà della famiglia di Firenze e così poco “adeguato” che si è reso necessario e
indispensabile il ricorso a significativi correttivi, rimessi alla discrezionalità del giudice.
8. Fogli di calcolo elaborati da altri Tribunali
Si tratta di fogli di calcolo che si basano tutti sul medesimo concetto di base che è quello di dividere i redditi accertati in causa tra i nuclei familiari che si originano dalla separazione, facendo uso
di una scala di equivalenza, che permette di rappresentare i minori oneri dovuti alle economie di
convivenza tra più componenti. Si ritiene, infatti, che “la divisione del reddito familiare semplicemente per il numero di componenti non condurrebbe ad un risultato equo considerato che i costi
di una famiglia non sono perfettamente proporzionali al numero di componenti”.
Ogni foglio di calcolo ha delle particolarità proprie per cui i risultati dell’applicazione di ciascuno
42
FOCUS
non sono del tutto omogenei; la stessa scelta di una scala di equivalenza piuttosto che di un’altra
modifica il risultato finale.
Indubbiamente si tratta di una strada da percorrere (ricordando però il famoso monito: adelante...
con juicio) perché almeno nell’ambito del medesimo Tribunale, in presenza di situazioni di fatto
simili, si avrebbe una liquidazione degli assegni tendenzialmente omogenea. Senza considerare poi
il risultato, certamente positivo, di consentire ai difensori di dare una risposta, sia pure approssimativa, a quella famosa domanda che per prima gli rivolgono i clienti: “Avvocato quanto devo pagare?.. Avvocato quanto mi spetta per legge?”.
9. Foglio di calcolo in corso di elaborazione nel Tribunale di Cagliari
A Cagliari, presso il Tribunale, è in corso di sperimentazione un programma di calcolo sviluppato
in ambiente Excel. Nelle pagine successive riporto i vari passaggi da percorrere nell’utilizzo del programma, con l’indicazione delle operazioni da compiere via via.
Il foglio di calcolo consente sia di liquidare gli assegni spettanti al coniuge debole, in caso di coppia senza figli; sia gli assegni spettanti a coniuge debole+figli, tenendo conto, in caso di affidamento condiviso, del tempo di permanenza presso l’altro genitore.
Secondo quanto chiarito nella relazione illustrativa predisposta dal collega che ha messo a punto
il programma,
“... nella prima fase della liquidazione dell’assegno si procede ad una suddivisione del reddito tale
da ripristinare un equilibrio economico tra i nuclei familiari formatisi a seguito della separazione.
A questa prima fase svolta sulla base di criteri standardizzati e predeterminati segue una seconda
fase di liquidazione diretta a personalizzare il risultato raggiunto tenendo conto delle circostanze
del caso concreto.
Appare, tuttavia, evidente, ..., come la personalizzazione del risultato presupponga sempre l’intervento discrezionale del giudice e l’attività dell’interprete debba continuamente adeguare la base di
calcolo, determinata secondo il criterio dell’equilibrio economico, con le variabili del caso concreto”.
a) Reddito ultimo periodo
Vengono inseriti i dati relativi al reddito percepito dai coniugi.
reddito ultimo periodo
Obbligato
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
€ 0,00
Richiedente
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
€ 0,00
€ 0,00
reddito mensile netto
Totale
€ 0,00
Totale
retribuzione mensile
43
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b) Media tre periodi
I
II
III
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
€ 0,00
€ 0,00
Media mensile tre periodi di imposta
€ 0,00
€ 0,00
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
€ 0,00
€ 0,00
Media mensile tre periodi di imposta
€ 0,00
€ 0,00
Totale
€ 0,00
Obbligato
Richiedente
c) Detrazioni spese e oneri vari
Vengono detratte alcune spese sostenute nell’interesse della famiglia già prima della separazione
(oneri di mutuo ipotecario contratto per la casa familiare, di finanziamenti per acquisto di beni mobili per la famiglia, oneri di produzione del reddito eccetera).
oneri
Obbligato
oneri di mutuo ipotecario
oneri di locazione
oneri di mutuo
oneri di produzione del reddito
€ 0,00
€ 0,00
44
Richiedente
oneri di mutuo ipotecario
oneri di locazione
oneri di mutuo
oneri di produzione del reddito
€ 0,00
Totali oneri mensili
FOCUS
d) Applicazione scala di equivalenza
Viene applicata una scala di equivalenza di tipo soggettivo (si è fatto riferimento alla scala OCSE
impiegata dall’Istat e da Eurostat per il calcolo degli indicatori di disuguaglianza compresi nelle statistiche ufficiali dell’Unione europea) tenendo conto del numero dei componenti dei due nuclei familiari post separazione e dell’età dei figli (minore o maggiore degli anni 14).
La scala OCSE è stata leggermente modificata nel senso che “lasciando immutato il coefficiente 1
per il primo adulto, si ritiene opportuno inserire il coefficiente 0,7 (in luogo del coefficiente 0,5 utilizzato dalla scala Ocse) per ogni componente maggiore di 14 anni e 0,5 (in luogo di 0,3) per ogni
minore di 14 anni”.
componenti nucleo con figli con carico genitoriale disuguale
componenti famiglia obbligato
capo famiglia
maggiore di 14 anni
minore di 14 anni
totale quote figli
totale quote nucleo familiare
0
1
componenti famiglia richiedente
capo famiglia
maggiore di 14 anni
minore di 14 anni
totale quote figli
totale quote nucleo familiare
numero di quote complessive
valore quota
0
1
2
€ 0,00
A commento di tale passaggio si legge nella relazione illustrativa:
“Ponendo ad esempio un nucleo familiare composto da due coniugi ed un figlio minore di 14 anni, se a seguito della separazione il figlio avrà la permanenza prevalente presso uno dei genitori, si
avranno due nuclei con il coefficiente rispettivamente di 1 e di 1,5, per un totale di 2,5.
Se la somma dei redditi netti dei due coniugi è pari, sempre a titolo di esempio, a 1.000 euro mensili (800 euro un coniuge e 200 euro l’altro coniuge che ha il carico genitoriale prevalente), avremo il valore di una quota pari a 400 euro (1.000/2,5).
Pertanto al coniuge che ha il carico genitoriale prevalente, con il coefficiente di 1,5, spetterà un reddito “equivalente” di 600 euro (400*1,5), mentre all’altro coniuge un reddito di 400 euro.
Poiché il coniuge richiedente (con il carico genitoriale prevalente) già percepiva un reddito proprio
di 200 euro, l’assegno dovrà essere calcolato in 400 euro, di cui 200 euro a titolo di proprio mantenimento e 200 euro a titolo di mantenimento del figlio”.
e) Considerazione di altre circostanze
Nel foglio di calcolo del Tribunale di Cagliari, dopo l’operazione descritta in precedenza, vengono
inseriti i cosiddetti fattori di moderazione in percentuale (capacità lavorativa dei coniugi, potenzia-
45
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
lità reddituali e patrimoniali, contributi familiari, nuova famiglia, ragioni della decisione, contributo personale ed economico, durata del matrimonio, accudimento dei figli da parte dell’obbligato).
Altre circostanze
Aumento assegno
Diminuzione assegno
0,00%
0,00%
0,00%
capacità lavorativa
potenzialità reddituali e patrimoniali
contributi familiari
nuova famiglia
ragioni della decisione
contributo personale ed economico
durata del matrimonio
accudimento dei figli da parte dell’obbigato
(giorni della settimana)
0,00%
Liquidazione
Si ottiene, quindi, l’importo finale degli assegni.
liquidazione
€ 0,00
€ 0,00
€ 0,00
€ 0,00
assegno coniuge
costo totale di mantenimento figli
assegno coniuge e figli
assegno figli
prospetto redditi
situazione precedente
escluse spese straordinarie
situazione successiva
obbligato
figli>14 anni
figli<14 anni
€ 0,00
0
0
€ 0,00
richiedente
figli>14 anni
figli<14 anni
€ 0,00
0
0
€ 0,00
46
FOCUS
10. Foglio di calcolo elaborato a Palermo
Anche a Palermo è stato elaborato un foglio di calcolo reperibile nel sito www.giustiziasicilia.it
11. Considerazioni conclusive sui fogli di calcolo
Come abbiamo visto, in varie sedi d’Italia, diversi giudici specializzati nei processi di famiglia stanno elaborando programmi di calcolo per la liquidazione degli assegni di mantenimento.
Il fenomeno interessa anche non addetti direttamente ai lavori e questo è certamente un fatto positivo.
Tuttavia, e ciò vale per chiunque ritenga di dedicarsi a questo studio, sarebbe in ogni caso opportuno che vi fosse una collaborazione di più persone, che si costituisse un team formato da diverse
“competenze” (giuridica, matematica, economica eccetera, teorica e pratica), perché anche in questo caso vale la regola che “nessuno di noi è più intelligente di tutti noi messi assieme” e il problema, se esaminato da ottiche diverse, ha più probabilità di essere risolto nel miglior modo possibile.
Anche con riferimento ai soli aspetti più propriamente matematici implicati nell’elaborazione di un
programma di calcolo, occorrerebbe, infatti, un lavoro di confronto più ampio.
Tanto per rimanere al foglio Mo.Cam., Enrico Al Mureden – docente di Diritto di famiglia presso
la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna – ha criticamente rilevato che “il metodo di
misurazione del tenore di vita adottato dal CTU del Tribunale di Firenze si basa su strumenti matematici ed econometrici scelti dal consulente stesso con un certo grado di discrezionalità; ciò significa che una analisi econometria delle conseguenze patrimoniali della separazione può essere
effettuata anche facendo riferimento a parametri diversi da quelli utilizzati nel caso in esame (si
pensi ad esempio alla possibilità di adottare una scala di equivalenza diversa)”14.
14 Al Mureden, Tenore di vita ed assegni di mantenimento tra diritto ed econometria, in Famiglia e Diritto, 1/2008, 52 ss.
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Dunque, anche la scelta della scala di equivalenza tra le varie disponibili, piuttosto che la costruzione di una scala ad hoc, va discussa e ragionata con riferimento ai princìpi giuridici e all’obiettivo, proprio dei processi della famiglia, del riequilibrio delle diseguaglianze economiche, liquidando un assegno “giusto” per tutti.
Appaiono evidenti la delicatezza del problema e le mille riserve per un uso immediato di qualunque programma di calcolo che non sia stato preventivamente testato.
12. E se usassimo un criterio-base più semplice?
Nella Corte d’Appello dove presto servizio, da tempo nella liquidazione degli assegni di mantenimento partiamo dal criterio-base di dividere il reddito complessivamente disponibile dopo la separazione in tante quote quanti sono i componenti della famiglia. Se il livello di reddito lo consente
si riconosce però al produttore di reddito una quota maggiore, a seconda dei casi anche doppia,
in considerazione delle spese di produzione del reddito e dell’impegno personale.
Si tratta di un criterio-base che è risultato utile per risolvere tutti i casi in cui si avevano a disposizione redditi sostanzialmente destinati ad essere assorbiti dalle normali esigenze di vita della famiglia.
Naturalmente, la Corte ha sempre opportunamente adattato il risultato del calcolo alle particolari
esigenze dei vari componenti il nucleo familiare.
Ad esempio, nel caso in cui il coniuge tenuto a pagare l’assegno di mantenimento avesse al contempo l’onere di pagare un canone di locazione per la propria abitazione, essendo stata assegnata la casa familiare all’altro coniuge convivente con i figli, la Corte detrae dai redditi dell’obbligato quanto è
necessario a quest’ultimo per pagare il canone e poi procede a ripartire per quote il residuo.
Senza necessità di fare ricorso a lunghe e costose consulenze, quel criterio si è rivelato spesso una
buona base di calcolo per la quantificazione degli assegni. E, comunque, ha consentito di dare delle risposte omogenee.
Vorrei anche far presente che applicando il criterio della ripartizione del reddito in quote, quale
sommariamente descritto, si arriva allo stesso risultato cui perviene il foglio di calcolo in corso di
elaborazione nel Tribunale di Cagliari.
Per stare all’esempio riportato al Capitolo 9-d, a commento di quel foglio di calcolo, ovvero di una
famiglia con un reddito di € 1.000 al mese (€ 800 guadagnati dal marito, € 200 dalla moglie), la
somma complessiva di € 1.000 sarebbe stata divisa per 5 quote, prevedendosi una quota doppia
per ogni produttore di reddito:
numero di quote = 5 (2 madre, 2 padre, 1 figlio)
valore di una quota = € 200 (€ 1000:5).
Quindi, avremmo assegnato: 2 quote, pari ad € 400, a ciascun coniuge, e 1 quota pari ad € 200 per
il figlio.
In definitiva, al nucleo costituito dalla madre e dal figlio sarebbero spettati ugualmente € 600, di
cui € 400 per la madre (alla quale, disponendo di soli € 200 viene riconosciuto un assegno integrativo di altri € 200) ed € 200 per la quota spettante al figlio; al padre resterebbero le sue 2 quote pari ad € 400.
Sussiste l’esatto rapporto di 1 a 1,5 di cui alla scala di equivalenza applicata dal Tribunale.
Naturalmente, come ho già accennato, si tratta di un criterio base che va adattato al caso concreto; nell’esempio appena fatto, se la madre non lavorasse, al padre non si riconoscerebbe una quota doppia perché in tal caso avrebbe una disponibilità di € 500 per sé solo e la madre+figlio la stessa somma per due.
Vorrei chiarire che mi sembra opportuno pensare a criteri di liquidazione degli assegni che siano
semplici e non richiedano complicati calcoli e soprattutto siano basati su una logica complessiva
condivisibile.
48
FOCUS
Per fare un esempio mi sembra comprensibile e condivisibile una formula proposta in Svizzera.
Sulla base della giurisprudenza cantonale, Emanuela Epiney-Colombo – giudice del Tribunale d’Appello del Canton Ticino – nel corso del colloquio “Promemoria per il calcolo del contributo di mantenimento”, tenutosi l’8 giugno 2004 presso il Circolo dei giuristi di Lugano, ha tradotto i criteri di
liquidazione degli assegni di mantenimento precedentemente illustrati in una formula matematica
in cui si prevede, anche qui per i casi “normali” che:
“Stabilito l’ammontare del reddito complessivo di tutta la famiglia (RC) e dei fabbisogni di ogni singolo membro della famiglia (FC) si può procedere al calcolo della quota di eccedenza (E) che spetta a ogni coniuge seguendo la formula:
RC meno FC = eccedenza : 2 = E
Il contributo alimentare dovuto al coniuge richiedente si ottiene poi con il calcolo:
(fabbisogno personale + E) - reddito personale = contributo”.
13. Suggerimenti in attesa di tempi migliori
La materia di cui ci occupiamo richiede ormai avvocati e giudici specializzati.
È fondamentale che, in questa situazione in cui ancora non vi è certezza sui criteri concreti da utilizzare per la quantificazione degli assegni di mantenimento, i difensori si concentrino nell’attività
di prova dei redditi dei coniugi ma anche e soprattutto delle spese che la famiglia affrontava per
le varie necessità, per desumerne in via diretta il tenore di vita goduto prima della separazione e
che i soggetti deboli tendenzialmente devono poter conservare.
Quando nel processo il coniuge debole dimostra le spese sostenute in costanza di matrimonio e
l’altro coniuge ha disponibilità economiche sufficienti, non restano margini di dubbio su quanto è
necessario liquidare per assicurare la conservazione dello stesso tenore di vita.
Si pone, quindi, un problema di prova in relazione al quale sarebbe necessario approfondire le tematiche relative ai poteri officiosi del giudice e a quelli dispositivi delle parti15.
È utile che il difensore sappia fornire elementi di prova sui redditi effettivi traendoli ad esempio
dalla consapevole lettura degli studi di settore; saper formulare pertinenti e specifiche richieste di
indagini a mezzo della Polizia tributaria e così di indagini bancarie o sulle gestioni fiduciarie; conoscere cos’è l’Anagrafe dei conti correnti e dei depositi, eccetera e, perché no, sapere anche fare
delle osservazioni critiche relativamente ai programmi di calcolo che dovessero essere adoperati
per la quantificazione degli assegni.
Non potendo procedere a tali approfondimenti in questa sede, mi limito ad alcuni suggerimenti
minimi che i difensori potrebbero seguire.
Anzitutto, occorrerebbe non dimenticare di introdurre nel processo di separazione e di divorzio,
sin dal primo momento, tutte le notizie utili a fornire un quadro, il più completo possibile, da un
lato delle spese normalmente affrontate e dall’altro delle risorse economiche di cui dispone la famiglia, considerato che l’assegno liquidato dal Presidente in via temporanea e urgente “è destinato a durare a lungo”.
Più elementi si mettono a disposizione del giudice e più congrua sarà verosimilmente la misura
dell’assegno liquidato.
15 Cfr. Buttiglione “Assegni di Mantenimento del coniuge e dei figli. Assegno di divorzio. Poteri istruttori d’ufficio. Indagini Tributarie. Istruzioni per l’uso” in Mariani e Passagnoli (a cura di), Diritti e tutele nella crisi familiare, Padova, 2007, 31-94. In particolare si richiamano i seguenti capitoli: “6. Poteri istruttori d’ufficio nell’accertamento della capacità reddituale e patrimoniale dei
coniugi. Mezzi di prova disposti dal giudice. Ordini di esibizione. - 7. Capacità reddituale e patrimoniale, la lettura delle dichiarazioni dei redditi. Studi di settore - 8. Indagini a mezzo della polizia tributaria. - 9. Anagrafe dei Conti Correnti e dei Depositi.
Potenziamento delle attività di indagine della Guardia di Finanzia. Indagini sulle gestioni fiduciarie. -10. Istruzioni per l’uso”.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
13.1. Notizie da fornire
• Generalità del coniuge:
– Nome e cognome
– Data di nascita
– Titolo di studio
• Lavoro attuale dal ...
– Tipo (es.: dipendente o autonomo)
– Durata (a tempo indeterminato, a tempo determinato)
– Lavoro precedente
• Redditi: importo mensile e numero mensilità
– Redditi occasionali
– Partecipazioni societarie
– Titoli o depositi
– Conti correnti intestati, contestati o con sola delega di operare
– Uso di carte di credito
– Altri introiti periodici: es. pensioni, indennità ecc;
– Contributi non occasionali delle famiglie di origine
• Immobili
– In proprietà
– In uso per vacanze o per lavoro
– Locati a terzi
– Ubicazione, dimensioni, valore di mercato
– Titolo di acquisto
– Fondi agricoli: estensione e tipo di coltura
• Mobili registrati
– Autovettura e motocicli in proprietà o in uso
– Barche
– Velivoli
– Beni di lusso: cavalli e collezioni
• Viaggi e stile di vita dei componenti la famiglia (es. ristorante, teatri, sport, frequentazione cir-
coli)
• Collaborazioni domestiche
• Spese correnti
– utenze domestiche
– spese casa
– condominio
– vitto
• Mutui, finanziamenti e pagamenti rateali
• Addebiti mensili su carte di credito e bancomat16.
13.2. Prospetti riassuntivi
Sarebbe opportuno, per una più facile comprensione della vicende economiche della famiglia, richiamare in prospetti riassuntivi le varie voci delle ENTRATE e delle SPESE. Una sorta di fotografia che renda più difficile che qualcosa possa sfuggire all’attenzione del giudice al momento della
decisione.
16 Elenco elaborato durante il corso di aggiornamento professionale strutturato in tre sessioni, Prassi nella cause di separazione e di divorzio, organizzato dal CSM nel 2005.
50
FOCUS
Ad esempio, se nel caso della nostra famiglia di Firenze si fossero allegati agli atti dei prospetti
riassuntivi del tipo di quelli di seguito proposti, forse sarebbe balzato evidente agli occhi, al di là
di ogni teorica e astratta ricostruzione statistica, che la disparità tra la posizione economica dei due
coniugi era notevole e che non avrebbe potuto colmarla un assegno di soli € 1.400,00 al mese in
favore della signora BB.
Sarebbe stata evidente la sproporzione tra le entrate dichiarate e le somme spese per gli acquisti
di mobili e immobili nel medesimo periodo di tempo.
Disponibilità economiche complessive
MOGLIE
MARITO
Disponibilità
economiche
Redditi finanze
Beni immobili
e mobili
1
2
3
4
5
6
7
8
...
Reddito netto
effettivo
Valore intrinseco
immobili
Disponibilità
economiche
Redditi finanze
Beni immobili
e mobili
Reddito lavoro
Depositi bancari
Casa via P. 100%
Casa via S. 50%
Studio 100%
Porsche Cayenne
Mini Cooper
Casa via S. 50%
TOTALE
TOTALE
Reddito netto
effettivo
Valore intrinseco
immobili
Rapporto tra redditi dichiarati e spese
ANNO
DI IMPOSTA
1
2005
2
2004
3
4
5
6
7
8
2003
2002
2001
2000
1999
1998
REDDITO
COMPLESSIVO
NETTO MARITO
36.317,00 + 14.000,00
assegno provvisorio
39.313,00
57.998,00
60.042,00
65.378,00
61.836,00
56.770,00
9 1997
10 1996
ALCUNI
ACQUISTI PIÙ
SIGNIFICATIVI
SPESE
Gennaio 2004
Porsche Cayenne 4.5.T
Canterano del 1600
66.500,00
in leasing
11.000,00
2001 compra studio
465.000,00
1998 compra casa
in via S. mq. 240
260.000,00
dichiarati in atto
Compra casa
in via P. mq. 130
490.634,00
stimati da ctu
TOTALE
escluso valore Porsche
1.227.634,00
11
12
TOTALE
377.661,00
51
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
Spese concretamente affrontate
COSTI ANNUALI
MOGLIE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
COSTI ANNUALI
MANUTENZIONE CASA
COLF
CONDOMINIO
BOLLETTE:
luce, gas, acqua, telefono
ALIMENTAZIONE
SPORT
SVAGHI
CULTURA
VIAGGI
SALUTE
VARIE
AUTO
ASSICURAZIONE
#####
TOTALE
Spese per la figlia
FIGLIA
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
MARITO
COSTI ANNUALI
ISTRUZIONE
SALUTE
ALIMENTAZIONE
ABBIGLIAMENTO
MEZZI TRASPORTO
SPORT
SVAGHI
VIAGGI
TOTALE
52
#####
#####
FOCUS
Prospetti riassuntivi di entrate ed uscite
MARITO
MOGLIE
Voci di reddito
o di spesa
Entrate
Uscite
Voci di reddito
o di spesa
Entrate
Uscite
TOTALE
#####
#####
TOTALE
#####
#####
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
14. Conclusioni
Materia dolente quella dell’affidamento e dell’assegnazione della casa.
Materia dolente anche quella dei contributi al mantenimento.
Soffre il figlio perché ha perso il padre; soffre il padre perché viene ostacolato il suo rapporto con
il figlio; soffre la madre perché non ha alcuna collaborazione dall’uomo con il quale ha vissuto per
una vita, e deve anche fare i conti con i soldi che magicamente sono volati via.
Nella sofferenza si intrecciano le ragioni del cuore e le ragioni del danaro.
Non si sa quali vengono prima e quali dopo.
Ci si sposa solo per amore?
Le fiabe ci dicono che la fanciulla sposa il “principe azzurro” ma che bacia il “rospo” per pietà. È
solo quando il “rospo” si trasforma in “principe” che nasce l’amore e si convola a giuste nozze.
Il premio Nobel per l’economia, l’americano Gary S. Becker, ha scritto che sposarsi e mettere su
famiglia sono comportamenti di valenza economica. Sin dai primordi si aveva necessità di “forza
lavoro” per coltivare i campi, occorrevano perciò tanti figli e una moglie che provvedesse a tenere vivo il focolare e a rifocillare il marito e la prole quando tornavano dal lavoro.
Jean Carbonnier, professore di Diritto all’Università di Poitiers, ha scritto che “gli sposi fanno del
danaro e dell’amore un unico indivisibile pacchetto”.
Nella cosiddetta relazione Lipari, con la quale fu illustrato al Senato il disegno di legge sulle modifiche alla legge sul divorzio n. 898/70, si rilevava che il contenzioso aveva carattere prevalentemente economico.
Ma in una bellissima relazione della dott.ssa Irene Bernardini, Presidente della SIMEF, si scopre che
è vero che spesso i coniugi litigano perché chi deve pagare l’assegno fa resistenza a tutti i costi;
53
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
ma che è anche vero che a volte le questioni economiche si smontano se si risolve il conflitto interiore, se si abbandonano il rancore e il risentimento.
Quindi, neppure io so dire se nel processo viene prima il problema dei cuori infranti o dei soldi
che si volatilizzano o si dimezzano.
Dico che sono però aspetti dello stesso unico problema che è quello di tutelare i soggetti deboli
della famiglia in crisi, cercando di distribuire le risorse economiche in modo equo ma anche salvaguardando i rapporti personali, per quello che ancora resta.
Ciò comporta che anche l’avvocato del genitore economicamente più forte non dovrebbe dimenticare che la salvaguardia del rapporto con i figli è un bene prezioso per il suo stesso cliente.
Gli avvocati di entrambi i coniugi dovrebbero evitare di alimentare la “guerra fredda”; dovrebbero
deporre per un momento le armi e cercare di “mediare” il conflitto familiare17.
Condivido quanto scrive l’avv. Milena Pini nell’editoriale “Il Diritto delle Persone e delle Famiglie.
Una questione sempre più aperta”18; effettivamente occorre “una ‘negoziazione’ in cui l’avvocato –
specializzato e ‘formato’ in materia, e particolarmente attento ai princìpi deontologici, (...) svolge
una funzione fondamentale, sia nella fase stragiudiziale che in quella giudiziale, poiché ‘il risultato auspicabile è rappresentato dalla riorganizzazione degli assetti familiari, dalla determinazione di nuovi equilibri...’”.
Anch’io penso che sia necessario tendere a realizzare “un equilibrio familiare adeguato alle esigenze di vita del minore coinvolto” che porti “certezza e garanzia con riferimento ai soggetti coinvolti
ed alle relazioni tra di loro intercorrenti”, come scrive l’avvocato Anna Galizia Danovi19 ricordando che si tratta anche di una questione di “deontologia professionale”.
17 Nell’articolo di Giovanni Parente “Figli affidati, assegni da 630 euro” citato, si legge: “A volte la prova della reale capacità patrimoniale è difficile: «Passa attraverso prove complicate che raccolgono indizi sul tenore di vita, livello di spesa voluttuaria, utilità economiche provenienti da società» spiega Maria Giovanna Ruo, docente di Diritto di famiglia alla Lumsa e presidente della Camera minorile (...). Il risultato? Tempi che si allungano «a tutto detrimento dei figli minori e giovani adulti, che spesso passano, insieme al genitore convivente, dalle ‘stelle’ del periodo della famiglia unita ‘alle stalle’ della convivenza con il genitore più debole
economicamente»”. Personalmente soggiungerei che è proprio l’incapacità di mediare il conflitto o anche solo di dialogare la ragione prima dell’infinita “cattività delle liti”.
18 Pini, Il diritto delle persone e delle famiglie... una questione sempre più aperta, in Rivista AIAF, 2004/1, 3.
19 Danovi, L’assistenza e la consulenza dell’avvocato nella fase stragiudiziale. Questioni di deontologia”, in Rivista AIAF, 2004/1,
35.
54
FOCUS
I CRITERI DI QUANTIFICAZIONE DELL’ASSEGNO PER IL CONIUGE E I FIGLI.
RIFLESSIONI, PROPOSTE E ORIENTAMENTI DEL TRIBUNALE DI MONZA 1
Piero Calabrò
Magistrato, Tribunale di Monza
1. Premessa
La “novella” legislativa in materia di diritto sostanziale e processuale della famiglia sta, ormai, avviandosi al raggiungimento del terzo anno di vita e, dunque, ben presto non potrà neppure più essere definita come tale.
L’inevitabile carenza di consolidati riferimenti giurisprudenziali di legittimità sta iniziando, man mano, ad essere ovviata dalle numerose decisioni dei giudici di merito, favorite anche dai necessari
requisiti di celerità dei processi in materia di famiglia.
Se, però, molte delle innovazioni introdotte dalla legge n. 54/2006 sono state ampiamente e approfonditamente sviscerate (si pensi alle tematiche dell’affido condiviso, dell’assegnazione della casa
coniugale, della corresponsione diretta dell’assegno ai figli maggiorenni), non altrettanto può dirsi
quanto alla liquidazione del contributo al mantenimento del coniuge e dei figli e ai criteri che dovrebbero orientarla.
In effetti, la legge n. 54/2006 nulla ha innovato con riferimento al mantenimento del coniuge e si
è limitata, quanto a quello dei figli, ad elencare una serie di parametri sinceramente assai generici
e di difficile applicazione concreta.
Ancora una volta, dunque, dottrina e giurisprudenza sono chiamate a sopperire all’assenza di sicuri e indiscutibili criteri di quantificazione dell’assegno di mantenimento: conclusione che può considerarsi per certi aspetti inevitabile, ma che avrebbe necessitato del supporto di altri e ben più certi punti di riferimento, quantomeno rispetto alle situazioni maggiormente ricorrenti e statisticamente più usuali.
Questa evidente carenza si appalesa ancor più deleteria con riferimento alle decisioni assunte o da
assumersi in sede di udienza presidenziale: nel momento di maggiore conflitto tra le parti, con
l’inevitabile e giustificato coinvolgimento psicologico e umano di tutti i protagonisti del processo,
il presidente è chiamato ad assumere provvedimenti destinati a durare nel tempo e ad incidere in
profondità nella vita altrui, operando “senza rete” e con poche certezze.
In attesa di tempi e normative migliori, di fondamentale importanza è il raffronto tra le prassi dei
vari organi giudicanti e la diffusione della conoscenza sui criteri concretamente adottati.
1
Intervento tenuto al Convegno I criteri di quantificazione dell’assegno per il coniuge e i figli, organizzato da AIAF Lombardia,
Milano, 14 novembre 2008.
55
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
2. Il rispetto delle regole procedurali e la valorizzazione dell’opzione conciliativa
La legge n. 54/2006 ha introdotto una notevole semplificazione delle procedure di attivazione del
giudizio e ha imposto alle parti, ai loro difensori e allo stesso magistrato una serie di comportamenti virtuosi, destinati a garantire trasparenza e rapidità di giudizio.
Il Tribunale di Monza ha immediatamente sposato questa linea applicativa, consapevole che, come suol dirsi, non vi è giustizia senza certezza di tempi e regole.
Con precipuo riferimento alla rapida instaurazione del processo, è stato sino ad oggi sempre garantito il rispetto del breve termine (5 giorni dal deposito in cancelleria del ricorso) per la fissazione dell’udienza presidenziale, nonché la sua collocazione nel termine di 90 giorni dallo stesso deposito dell’atto introduttivo.
Personalmente ho anche interpretato come tassativo e inderogabile il rispetto, da parte del coniuge resistente, del termine assegnato per il deposito di “memoria difensiva e documenti”.
La legge non ha, in verità, qualificato tutti gli anzidetti termini come perentori, di talché una esplicita sanzione destinata al loro mancato rispetto non può dirsi codificata.
La prassi precedente la riforma ha, in particolare, consentito alla parte resistente, in una percentuale elevatissima di casi, di presentare memoria e documenti in limine litis, vale a dire all’udienza
stessa fissata innanzi al presidente.
Tale consuetudine, non sanzionabile in alcun modo, ha ingenerato nel giudice e nelle parti un circuito vizioso e un modus procedendi tutt’altro che votati alla celerità: il presidente aveva solo in
udienza una rapida e inevitabilmente superficiale conoscenza delle difese della parte resistente,
mentre il difensore del coniuge ricorrente spesso invocava la concessione di un rinvio allo scopo
di esaminare le allegazioni e produzioni avversarie.
Il rispetto sostanziale delle nuove norme, invece, consente al presidente di esaminare con un congruo anticipo (dallo stesso fissato e valutato ex ante) le difese e i documenti delle parti e di garantire una piena conoscenza del caso sottoposto alla sua provvisoria giurisdizione, quantomeno nei
limiti delle allegazioni e produzioni già agli atti del processo.
È perfino superfluo sottolineare come l’adozione di una simile prassi virtuosa contribuisca a facilitare il compito del magistrato che, in prima battuta, si occupa della vicenda coniugale, anche con
precipuo riferimento alla liquidazione degli assegni di mantenimento.
La stessa funzione conciliativa dell’udienza presidenziale, accentuata dalla novella del 2006, ne trae
indubbio giovamento.
Quanto a quest’ultimo aspetto, se i primi due commi del novellato art. 708 c.p.c. ripropongono sostanzialmente il testo previgente (“All’udienza di comparizione il presidente deve sentire i coniugi
prima separatamente e poi congiuntamente, tentandone la conciliazione. Se i coniugi si conciliano, il presidente fa redigere il processo verbale della conciliazione”), l’adozione del termine “conciliazione” in luogo della precedentemente auspicata “riconciliazione” non può apparire del tutto
casuale.
In effetti, se la “riconciliazione tra i coniugi” continua ad avere diritto di cittadinanza nell’ordinamento (in quanto, ai sensi dell’all’art. 154 c.c., “comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta”), con l’espressione “conciliazione” il legislatore non ha, invece, inteso imporre al magistrato la sola tentata ricostruzione dell’unione familiare.
Dunque, il tentativo di conciliazione dovrà riguardare non solo l’eventuale possibilità di una ricomposizione della frattura coniugale, ma anche e soprattutto, una volta verificata in modo negativo
tale eventualità, il raggiungimento di un accordo, globale o parziale, sulle questioni dibattute tra le
parti, non ultima quella relativa al mantenimento del coniuge e dei figli.
Anche la prevista “assistenza del difensore” appare come un prezioso supporto alla funzione conciliativa svolta dal magistrato, nonché un incentivo all’attività preventiva (volta ad una possibile soluzione della controversia) esplicata dagli avvocati in epoca antecedente alla comparizione dei coniugi in sede contenziosa.
La presenza nel Foro di professionisti adusi a trattare controversie di famiglia, la conoscenza dei
56
FOCUS
criteri e delle prassi del Tribunale adìto, l’enucleazione del materiale rilevante ai fini della adozione dei provvedimenti economici provvisori, sono tutti elementi che, anche al di là dell’inevitabile
gioco delle parti, possono contribuire all’individuazione di una soluzione (almeno parziale) delle
questioni patrimoniali e all’affermazione di duraturi parametri per i casi a venire.
Tutto ciò, però, dovrà essere inevitabilmente supportato dalla conoscenza preventiva degli atti da
parte del presidente e dalla propria presumibile esperienza professionale.
3. Gli accertamenti sommari antecedenti l’emanazione dei provvedimenti provvisori
La struttura dell’udienza presidenziale, nel disciplinare i poteri di cognizione sommaria e di decisione provvisoria del presidente, appare improntata a criteri in apparenza antitetici: l’obbligo di lealtà e di informazione imposto ai coniugi e l’assenza di veri e propri vincoli o limiti ai provvedimenti del giudice.
Tali criteri, invece, ove opportunamente coordinati, consentono il raggiungimento di risultati il più
possibile aderenti alla realtà e ai princìpi di giustizia.
Nel processo civile ordinario, il dovere “di comportarsi in giudizio con lealtà e probità” imposto alle parti dall’art. 88 c.p.c., al di là della scarsa rilevanza delle sanzioni previste in caso di inosservanza, non è mai stato considerato alla stregua di un obbligo di attivazione, ancor più in materia
di produzioni documentali2.
Il nuovo rito della famiglia, invece, impone alle parti, sin dall’udienza presidenziale, non solo il
preventivo dovere di indicare notizie riguardanti la prole, ma anche e soprattutto di allegare “le ultime dichiarazioni dei redditi” (art. 706 c.p.c.; art. 4 legge 898/70).
Come interpretare questa prima esplicita eccezione al principio dispositivo e ai tradizionali criteri
regolatori dell’onus probandi, se non nell’ottica di individuare, nelle scelte operate dal legislatore,
l’affermazione di un dovere di lealtà ben più pregnante rispetto a quello dettato dal già citato art.
88 c.p.c.?
Del resto, tale conclusione appare del tutto conforme allo spirito della norma di cui all’articolo 29
della Carta Costituzionale, laddove è sancita la pari dignità morale e giuridica dei coniugi (che, ovviamente, non viene meno nei momenti di patologia del rapporto familiare).
Può, di conseguenza, essere affermata nei procedimenti di separazione e divorzio l’esistenza, a carico delle parti e dei loro difensori, di un obbligo di lealtà più intenso di quello sancito generalmente nel rito processuale civile e caratterizzato, in particolare, da un non astratto dovere di informazione su alcuni aspetti rilevanti della vicenda coniugale, quali le notizie sui figli e sulle capacità economiche e patrimoniali dei coniugi.
L’adempimento a tale obbligo non potrà non apparire essenziale, ai fini della trasparenza ed effettività dei provvedimenti provvisori, se si tiene conto che i rimedi consentiti al presidente nell’ipotesi
di reticenza ovvero di insufficiente documentazione delle informazioni di carattere economico (art.
155 ultimo comma c.c.) sono, nell’attualità, spesso paragonabili ad un’arma in gran parte spuntata.
L’ottemperanza delle parti al dovere di adeguata e leale informazione, riguardo alle loro condizioni economiche e personali, apparirà addirittura fondamentale laddove si consideri che lo stesso magistrato, una volta valutato come concretamente impraticabile o non compatibile con i tempi dell’udienza presidenziale l’accertamento di Polizia tributaria, dovrà avvalersi necessariamente di elementi presuntivi o di carattere notorio (magari suscettibili di introdurre decisioni approssimative),
pena l’abdicazione al dovere di rendere giustizia di fronte alla non corretta e non collaborativa posizione di uno dei coniugi.
Giova rammentare quanto statuito in materia dalla Suprema Corte (“in tema di divorzio, il giudice
2
Vedi Cass. 19.11.1994 n. 9839.
57
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
del merito, ove ritenga ‘aliunde’ raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria”3) detti princìpi, chiaramente, ben possono trovare applicazione sin dall’udienza presidenziale.
In tale ottica, può considerarsi inevitabile o, comunque, opportuna l’adozione di strumenti e di criteri di valutazione oggettivi e predeterminati, fatta salva, in ogni caso, la possibilità per il giudice
di valutare il comportamento tenuto dalle parti nel processo (quindi, anche all’udienza di cui all’art.
708 c.p.c.) e le risposte fornite dai coniugi come elemento di giudizio, anche in sede di adozione
dei provvedimenti presidenziali provvisori, ai sensi dell’art. 116 c.p.c.
4. La necessaria adozione di criteri oggettivi e predeterminati
L’esperienza maturata, anche successivamente all’entrata in vigore della novella legislativa, unita a
quella vissuta tra centinaia di controversie regolate dal rito antecedente, consente di affermare che,
purtroppo, il vero oggetto del contendere tra i coniugi sovente è, fin dalle prime battute della loro vicenda processuale, la regolazione economica dei reciproci rapporti.
Anche la civilissima previsione di legge riguardante l’affido condiviso viene, in realtà, troppo spesso utilizzata allo scopo di limitare gli effetti negativi della rottura dell’unità della famiglia sui redditi dei suoi componenti.
In questo contesto, l’udienza presidenziale assume un’importanza a volte esiziale, in quanto le deliberazioni adottate appaiono suscettibili di regolare per lungo tempo (anche) la delicata materia
dei rapporti economici tra i coniugi.
I provvedimenti del presidente, peraltro, oltre che sorretti da una cognizione inevitabilmente sommaria dei fatti, sono per definizione temporanei e urgenti.
Ciò significa che, oltre che provvisori, sono destinati a regolare nell’immediato una situazione di
conflitto, che solo al momento della decisione finale troverà, previa adeguata istruttoria, una definitiva soluzione processuale.
Già si è detto del potere conferito al giudice (quindi, anche al presidente) di disporre tramite la
Polizia tributaria accertamenti “sui redditi e sui beni” non sufficientemente documentati e oggetto
di contestazione (art. 155 ultimo comma c.c.).
Peraltro, l’art. 155 sexies c.c. consente al giudice (quindi, anche al presidente) di assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, veri e propri “mezzi di prova” solamente in relazione alle questioni affrontate dalla stessa norma, vale a dire quelle riguardanti i figli minori.
La legge, dunque, nell’attribuire al presidente un ampio potere in ordine al contenuto di tutti i provvedimenti reputati necessari e urgenti nell’ambito della controversia di separazione, ne circoscrive
al tempo stesso le facoltà istruttorie escludendo, quanto ai rapporti economici tra i coniugi, quelle
individuabili strictu sensu come “mezzi di prova”.
Obbligato, perciò, deve considerarsi il ricorso prudenziale a criteri oggettivi e predeterminati, idonei ad impedire disparità di trattamento in situazioni obbiettivamente simili.
Criteri che, in ossequio ai cennati princìpi di trasparenza e di leale collaborazione tra gli attori del
processo, debbono essere resi pubblici (come da tempo è avvenuto nel Foro Monzese), anche al
non secondario scopo di favorire un accordo, almeno sulle questioni economiche.
Nel delicato confronto tra le informazioni e la documentazione offerte dalle parti, le motivate loro
contestazioni e allegazioni, i criteri oggettivi e predeterminati predisposti dall’organo giudicante e
le risposte fornite dagli interessati alle domande del presidente (valutabili ai fini, della adozione dei
provvedimenti provvisori, ai sensi del disposto di cui all’art. 116 c.p.c.), può essere realizzata una
3
Cass. 28.04.2006 n. 9861; Cass. 25.05.2007 n. 12308.
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FOCUS
verosimile approssimazione alla realtà dei fatti, tale da consentire un’immediata risposta di giustizia alle domande del coniuge più debole e la valorizzazione di uno dei rari momenti di autentica
oralità del processo.
5. L’incidenza dell’assegnazione della casa coniugale
La giurisprudenza prevalente della Suprema Corte, nella vigenza delle norme antecedenti la recente novella, ha costantemente statuito che il potere di assegnazione della casa coniugale ad uno dei
coniugi può essere esercitato dal giudice solo in considerazione delle esigenze della prole, vale a
dire nei soli casi di convivenza con figli minorenni ovvero con figli maggiorenni non ancora economicamente autosufficienti.
Tali princìpi sono stati riaffermati anche in epoca successiva (vedasi per tutte Cass. 14 maggio 2007
n. 10994, che ribadisce come non sia in alcun modo consentito in sede di separazione o di divorzio al Tribunale “di assegnare la casa coniugale al coniuge che non sia affidatario di figli minori
o maggiorenni incolpevolmente non autosufficienti, in quanto il potere del Giudice di assegnare la
casa coniugale è in funzione degli interessi esclusivi della prole e non delle necessità di mantenimento del coniuge incolpevole”), anche se le nuove disposizioni di legge hanno, in qualche modo,
reso meno lineare la possibilità per il giudice di preferire un coniuge all’altro nell’assegnazione della casa familiare.
L’art. 155 quater c.c. ora dispone, infatti, che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” e, non solo dal punto di vista letterale, sembra segnare un mutamento rispetto alle abrogate previsioni di cui all’art. 155 c.c. e allo stesso art. 6 comma sesto legge 898/70 (ove era stabilito: “l’abitazione familiare spetta di preferenza... al coniuge
cui vengono affidati i figli”).
Potrebbe, dunque, trovare facile ingresso la tesi secondo la quale l’aspettativa del coniuge affidatario dei figli all’assegnazione della casa coniugale non corrisponda più ad un diritto di questi ultimi a mantenere l’habitat domestico, indipendentemente dalle vicende del vincolo che lega i genitori, ma corrisponda ora, tutt’al più, ad un mero interesse valutabile in via prioritaria, ma non
disgiunta da altri possibili interessi.
Pare ragionevole, invece, ritenere che la novella legislativa abbia attribuito alla casa familiare e alla sua assegnazione un’esplicita e marcata valenza economica, come è tra l’altro espressamente dimostrato dalla previsione che “dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori” (art. 155 c.c.).
Di talché, ferma restando la pressoché obbligata assegnazione al coniuge affidatario (o anche solo collocatario) dei figli minori, del godimento della casa coniugale si terrà doverosamente conto
nella regolazione delle altre questioni economiche, mentre dovrà essere ribadita l’impossibilità di
procedere, in assenza di accordo, all’assegnazione della casa coniugale ad una delle parti nell’ipotesi di mancanza di figli meritevoli di tutela.
Peraltro, anche al di là di un formale provvedimento di assegnazione, non potrà non tenersi conto del materiale e temporaneo godimento dell’immobile da parte di uno solo dei coniugi.
6. I criteri oggettivi e predeterminati di liquidazione dell’assegno di mantenimento adottati dal Tribunale di Monza (Tabelle 2008)
Già si è detto del carattere necessariamente e inevitabilmente sommario della cognizione avente
ad oggetto, in sede di udienza presidenziale, la liquidazione in via provvisoria di un contributo al
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mantenimento del coniuge e/o dei figli e dell’opportunità conseguente di porre, in modo chiaro
e trasparente, alcuni punti di riferimento decisionale per il magistrato e per le stesse parti del giudizio.
Il quadro normativo non è, al riguardo, di grande aiuto, posto che solo con riferimento ai figli è
stato introdotto qualche nuovo parametro indicativo.
In tema di mantenimento del coniuge, infatti, le norme applicabili sono rimaste immutate.
L’art. 156 c.c., relativo alle condizioni economiche a seguito della separazione, così recita: “Il giudice pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la
separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato”.
L’art. 5 della legge n. 898/1970, come modificato dall’art. 10 legge n. 74/1987, così statuisce: “Con
la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente
a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può
procurarseli per ragioni oggettive”.
In tema di mantenimento dei figli, l’art. 155 c.c. novellato tra l’altro così dispone:
“Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la
corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
a) le attuali esigenze del figlio;
b) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
c) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
d) le risorse economiche di entrambi i genitori;
e) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L’assegno è automaticamente adeguato agli indici Istat in difetto di altro parametro indicato dalle
parti o dal giudice.
Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”.
L’unica vera innovazione, di possibile contenuto pratico, è dunque quella introdotta in tema di
mantenimento dei figli, con precipuo riferimento alle ipotesi di cui ai nn. 2 e 5 dell’art.155 c.c.
In effetti, le esigenze attuali del figlio, il suo pregresso tenore di vita e le risorse economiche dei genitori erano parametri già ben presenti nell’elaborazione giurisprudenziale precedente la novella
del 2006: la valutazione dei tempi di permanenza presso ciascun genitore e la valenza economica
dei compiti domestici e di cura da questi ultimi assunti appaiono, invece, elementi suscettibili di
essere tradotti nella riflessione prodromica alla liquidazione dell’assegno, oltre che coerenti con la
filosofia dell’affido condiviso.
Ciò nondimeno, il Tribunale di Monza ha ritenuto opportuna, come già in passato, l’adozione di
“Tabelle” motivatamente riassuntive delle ipotesi più ricorrenti e delle possibili ponderate risposte
alle richieste di mantenimento formulate da uno dei coniugi (per sé e/o per i figli).
Ovviamente, le astratte previsioni generali dovranno di volta in volta essere riparametrate e adattate al caso concreto, tenuto conto, quanto al mantenimento dei figli, dei nuovi criteri di cui al citato art. 155 c.c.
Sono, naturalmente, note al Tribunale le esperienze e le sperimentazioni di altri Fori, fondate su
modelli matematici e/o statistici, astrattamente idonei a fornire risposte apparentemente inoppugnabili e di maggiore appeal.
Particolarmente apprezzabili sono le esperienze sviluppate dal Tribunale di Firenze (che, in colla-
60
FOCUS
borazione con la Facoltà di Economia della locale Università, ha elaborato il Mo.Cam. vale a dire
il Modello di Calcolo dell’Assegno di Mantenimento) e dal Tribunale di Palermo (che ha elaborato
un software pubblico, scaricabile dal sito www.giustiziasicilia.it).
Il limite intrinseco e oggettivo di tali orientamenti, pur validi in astratto, è da individuare nella peculiare situazione socio-economica del nostro Paese e nella notoria inaffidabilità dei parametri (in
primis, le dichiarazioni dei redditi e la documentazione valida ai fini tributari e fiscali) necessariamente utilizzati per la liquidazione dell’assegno di mantenimento.
Per non tacere dei rischi di un’asettica applicazione dei “nuovi” parametri dell’ art.155 c.c.: non
sempre, ad esempio, ai “tempi di permanenza” corrispondono esborsi proporzionali (si pensi al vestiario, alle utenze e alle spese di gestione dell’abitazione in cui risiedono i figli).
In estrema sintesi, il rischio – seriamente sperimentato da chi scrive – è quello di onerare in modo assolutamente non sostenibile i percettori di redditi da lavoro dipendente o similari e, per contro, di offrire un ulteriore e immeritato premio a coloro che possono occultare o mascherare le loro reali condizioni patrimoniali.
La separazione è, soprattutto nell’attuale contesto economico, una sicura iattura per gran parte delle famiglie italiane: quel che la somma di due redditi modesti o non eclatanti consentiva (il peso
di un solo canone locatizio o di un solo mutuo fondiario; il pagamento delle utenze per un solo
immobile; l’economia domestica nella gestione della spesa alimentare; la gestione del tempo libero e delle vacanze) diviene dall’oggi al domani materialmente impraticabile, perché alla divisione
delle entrate si sovrappone la duplicazione delle uscite.
L’applicazione di un modello matematico può condurre, perciò, a conclusioni quasi aberranti proprio nelle situazioni reddituali medie o inferiori alla media: la somma di quanto appare necessario
per consentire ad un figlio minore la conservazione del precedente tenore di vita, anche in relazione alle sue attuali esigenze, ha ad esempio condotto a computare in € 600,00 al mese il contributo di un padre percettore di un reddito pari a € 1.200,00 mensili, già onerato dei non indifferenti
costi relativi al reperimento di una nuova soluzione abitativa.
Compito del giudice è, invece, quello di contemperare i dati acquisiti al fascicolo processuale con
le proprie conoscenze e la propria esperienza (non soltanto in campo giuridico), al fine precipuo
e non eludibile di fornire alle parti una risposta improntata a criteri di giustizia: ove così non fosse, il Tribunale potrebbe essere sostituito da un programma informatico, entro il quale gli interessati potrebbero convogliare i medesimi dati acquisiti al processo e ottenere risposte e valutazioni
asettiche, indiscutibili e inoppugnabili, ma non per questo giuste.
Ogni criterio è, di per sé, opinabile e perfettibile, ma solo la leale collaborazione dei soggetti del
processo, nessuno escluso, unita all’esercizio misurato ma indefettibile della giurisdizione, possono consentire di ridurre al massimo i rischi di una decisione che interviene, comunque, in una situazione di nuova sofferenza per alcune o per tutte le parti del giudizio.
Questa è, in sintesi, la filosofia posta alla base delle Tabelle elaborate dal Tribunale di Monza.
Procedimento di separazione giudiziale
Ipotesi di coniugi senza figli
a) Qualora il coniuge richiedente non disponga di alcuna fonte di reddito, dovrà innanzitutto valutarsi se, eventualmente con il consenso dell’altro coniuge, sia possibile individuare un primo
contributo nella assegnazione della casa coniugale.
Come è noto, nell’attualità del nostro contesto territoriale la disponibilità di una abitazione (soprattutto quando, come spesso accade, l’immobile sia di proprietà comune e non divisibile) può
essere equiparata ad un non indifferente contributo economico, quantomeno in termini di risparmio degli esborsi necessari per il pagamento di onerosi canoni locatizi.
Nel territorio della neonata provincia di Monza e Brianza, il canone di locazione di una abita-
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zione economica di medie dimensioni (2 o 3 locali, oltre servizi) è compreso tra € 500,00 ed €
800,00 mensili, in relazione all’ubicazione dell’immobile.
Avendo riferimento a situazioni reddituali medie (operaio/impiegato; € 1.200,00 / € 1.600,00
mensili per 13 o 14 mensilità), in assenza di particolari altre condizioni valutative (ad esempio:
proprietà immobiliari molteplici; depositi o conti correnti di non scarsa entità), la liquidazione
ipotizzabile è la seguente:
• con assegnazione della casa coniugale: assegno pari a circa 1/4 del reddito del coniuge obbligato (cioè da € 300,00 a € 400,00 circa);
• senza assegnazione della casa coniugale: assegno pari a circa 1/3 del reddito del coniuge
obbligato (cioè da € 400,00 a € 535,00 circa).
Ovviamente, la percezione di mensilità aggiuntive oltre la 13a e di eventuali premi fissi annuali può
consentire di integrare l’assegno in misura proporzionale e, comunque, ponderata.
b) Qualora il coniuge richiedente l’assegno sia dotato di redditi propri non adeguati (come tali dovendosi intendere quelli che, pur sufficienti a garantire un minimo di autosufficienza economica, non soddisfino l’esigenza di mantenere un tenore di vita ragionevolmente comparabile a
quello precedente la rottura dell’unità coniugale), i criteri liquidativi sopra enucleati potranno
trovare applicazione operando, quale parametro di riferimento, sul differenziale di reddito tra i
coniugi.
Pertanto, nell’ipotesi spesso ricorrente di un coniuge con occupazione part-time produttiva di
redditi modesti (es: € 600,00 mensili), la liquidazione dell’assegno potrà così essere effettuata:
• con assegnazione della casa coniugale: 1/4 di € 1.200,00 (o € 1.600,00) - € 600,00;
• senza assegnazione della casa coniugale: 1/3 di € 1.200,00 (o € 1.600,00) - € 600,00.
c) Le anzidette esemplificazioni possono trovare applicazione anche con riferimento a situazioni
di reddito assai più elevate, peraltro spesso suscettibili di contemperamenti in relazione a possibili altre attribuzioni economico/patrimoniali.
Se, infatti, la stragrande maggioranza delle controversie riconducibili a situazioni reddituali medie
(operaio/impiegato) appare accomunata da parametri non molto dissimili tra di loro, non altrettanto può dirsi quanto ad altre condizioni professionali (professionista/commerciante/imprenditore).
Innanzitutto, spesso discussa tra le parti è, in tali ipotesi, la reale condizione patrimoniale e reddituale della parte destinataria della richiesta di mantenimento (e, talvolta, anche quella della parte
richiedente).
Il presidente, dunque, sarà chiamato ad operare una cognizione sommaria degli elementi valutativi offerti dalle parti attraverso le produzioni documentali e le dichiarazioni rese all’udienza, onde
stabilire, innanzitutto, il tenore di vita pregresso dei coniugi e le loro attuali condizioni patrimoniali e di reddito.
Spesso tale valutazione impone il superamento delle sole evidenze documentali rappresentate dalle dichiarazioni dei redditi, qualora in particolare queste ultime non appaiano in consonanza con
altri indicatori della ricchezza (ad esempio: il possesso di autovetture di grossa cilindrata, di cospicue disponibilità finanziarie, di un consistente patrimonio immobiliare, di avviate attività commerciali, professionali, aziendali).
Dunque, il criterio della liquidazione di un assegno pari ad un quarto del presunto reddito dell’obbligato (in ipotesi di assegnazione della casa coniugale al coniuge richiedente) ovvero pari ad un
terzo (in ipotesi di non assegnazione) potrà essere rispettato, previo opportuno contemperamento
con la complessiva regolazione delle altre situazioni patrimoniali evidenziate dalle risultanze processuali.
Ipotesi di coniugi con figli
Ferme restando le considerazioni e le distinzioni operate con riferimento all’assegnazione o meno
della casa coniugale, va osservato che, peraltro, nella stragrande maggioranza dei casi l’abitazione
coniugale viene assegnata al coniuge affidatario dei figli minori.
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FOCUS
Appare opportuno, perciò, fornire alcuni elementi valutativi concernenti questa ipotesi maggiormente ricorrente.
Inoltre, deve premettersi che, normalmente, viene posto a carico del coniuge non affidatario anche l’obbligo di contribuire nella misura del 50% al pagamento delle spese mediche e scolastiche
straordinarie, di talché la regolamentazione provvisoria dell’assegno per il mantenimento dei figli
imporrà al presidente l’adozione di criteri prudenziali ancor più strettamente collegati alle peculiarità del caso concreto.
Il Tribunale ha, inoltre, sovente valutato la possibilità di una ripartizione percentuale non paritaria
(ad esempio 60% e 40% oppure 70% e 30%) delle spese straordinarie nelle ipotesi in cui sussista
sproporzione tra i redditi dei genitori
Possono, dunque, essere indicativamente ipotizzate le seguenti situazioni:
a) nel caso in cui al coniuge affidatario dei figli minori e assegnatario della casa coniugale non sia liquidato alcun assegno per il proprio mantenimento la liquidazione del contributo al mantenimento dei figli, da porsi a carico dell’altro coniuge, potrà variare in relazione al numero dei beneficiari.
Nelle situazioni reddituali medie (operaio/impiegato: € 1.200,00/1.600,00 mensili per 13 o 14
mensilità), in assenza di particolari altre condizioni valutative (ad esempio: proprietà immobiliari molteplici; depositi o conti correnti di non scarsa entità), la liquidazione ipotizzabile, in relazione ai redditi dell’obbligato, è la seguente:
• in presenza di un solo figlio: assegno pari al 25% circa del reddito (€ 300,00/€ 400,00);
• in presenza di due figli: assegno pari a circa il 40% del reddito (€ 480,00/€ 640,00);
• in presenza di tre figli: assegno pari al 50% circa del reddito (€ 600,00/€ 800,00).
b) Nel caso in cui al coniuge affidatario dei figli minori ed assegnatario della casa coniugale sia liquidato un assegno per il proprio mantenimento, nelle situazioni reddituali medie i criteri liquidativi sopra ipotizzati dovranno essere opportunamente contemperati alla opportunità di salvaguardare le esigenze di vita del coniuge obbligato (spesso chiamato ad esborsi per il reperimento di una abitazione).
La liquidazione, pertanto, potrà essere effettuata con riferimento ai seguenti parametri:
• in presenza di un solo figlio: assegno pari ad 1/5 circa del reddito (€ 240,00/€ 320,00);
• in presenza di due figli assegno pari a circa 1/3 del reddito (€ 400,00/€ 535,00);
• in presenza di tre figli: assegno pari a 2/5 circa del reddito (€ 480,00/€ 640,00).
Naturalmente, tali parametri dovranno essere opportunamente variati con specifico riferimento
alla misura dell’assegno liquidato per il mantenimento del coniuge affidatario dei figli.
c) Le anzidette esemplificazioni possono considerarsi applicabili, in linea di principio, anche a situazioni di reddito assai più elevate, peraltro spesso suscettibili di contemperamenti in relazione
a possibili altre attribuzioni economico/patrimoniali.
Ovviamente, ribadite le maggiori difficoltà di accertamento anche sommario delle reali condizioni
reddituali dei coniugi, una maggiore presunta disponibilità economico/patrimoniale dell’obbligato
consentirà valutazioni e liquidazioni meno uniformi ma sostanzialmente più congrue, soprattutto
in considerazione della possibilità di garantire ai figli forme indirette di mantenimento (quali, ad
esempio: rette scolastiche private; attività integrative; viaggi, vacanze e tempo libero; garanzie assicurative) non sempre quantificabili in modo rigido e aprioristico.
Procedimento di divorzio
Le regole e i criteri sopra sinteticamente enucleati possono trovare, come è ovvio, applicazione anche nella procedura divorzile.
È opportuno, peraltro, formulare alcune considerazioni strettamente collegate alle residue differenze (procedurali e sostanziali) tra gli istituti giuridici della separazione e del divorzio.
In particolare, il giudicante non potrà, neppure in sede di provvedimenti provvisori presidenziali,
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non rammentare la differente regolazione dell’assegno di mantenimento fornita dall’art. 5 legge
898/70 rispetto all’art. 156 c.c.
Inoltre, deve considerarsi che molto spesso l’udienza presidenziale di divorzio trae origine da una
pregressa separazione consensuale ovvero da una sentenza di separazione giudiziale pronunziata
in epoca non molto lontana e, pertanto, ancora di estrema “attualità”.
È giocoforza, quindi, che il presidente debba, nella stragrande maggioranza di tali ipotesi, confermare in via provvisoria la regolamentazione dei rapporti di mantenimento tra i coniugi già operata
(dagli stessi consensualmente o dal Tribunale in sede di sentenza) nella procedura di separazione.
In tema di rapporti tra assegno divorzile e assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione, la Suprema Corte ha stabilito:
• che “la determinazione dell’assegno divorzile è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti in vigenza di separazione”4;
• che gli assetti patrimoniali definiti in sede di separazione dei coniugi al più possono fungere da
“mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire elementi utili di valutazione”5.
La stessa Corte di Cassazione ha, altresì, affermato che “la determinazione dell’assegno di divorzio,
alla stregua dell’art. 5 della Legge 1 dicembre 1970 n. 898, modificato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987
n. 74, è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di
decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, poiché data la diversità delle discipline
sostanziali, della natura, struttura e finalità dei relativi trattamenti, correlate e diversificate situazioni, e delle rispettive decisioni giudiziali, l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del
matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti, operanti nel regime di convivenza e di separazione, e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio”6.
Ovviamente, il giudicante terrà nel debito conto qualsivoglia modificazione significativa della situazione economica e patrimoniale dei coniugi, pur nella consapevolezza della peculiarità della natura giuridica (in parte alimentare, in parte risarcitoria) dell’assegno previsto dall’art. 5 legge 898/70
e, pertanto, della necessità di una più completa verifica, in sede contenziosa, dei presupposti necessari ai fini della sua liquidazione, che solo la fase istruttoria del giudizio di merito può offrire.
I criteri di liquidazione dell’assegno di mantenimento dei figli possono, invece, considerarsi in tutto identici a quelli già enunziati con riferimento alla procedura di separazione.
4
Vedansi Cass. 28.01.2008, n. 1758 e Cass. 30.11.1997, n. 25010.
5
Vedasi Cass. 11.09.2001, n. 11575.
6
Cass. 11.09.2001, n. 11575; Cass. n. 593/2008; Cass. 28.01.2008, n. 1578; Cass. 2.07.2007, n. 14965; Cass. 12.07.2007, n. 15610;
Cass. n. 4764/2007; Cass. n. 4021/2006.
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FOCUS
VANTAGGI E LIMITI NELL’UTILIZZO DI UN PROGRAMMA DI CALCOLO DELL’ASSEGNO
DI MANTENIMENTO. LA PRASSI DEL TRIBUNALE DI CAGLIARI
Giorgio Latti
Magistrato, Tribunale civile di Cagliari, Sezione Famiglia
1. Premessa
Il programma di calcolo dell’assegno di mantenimento ideato presso il Tribunale di Cagliari si propone lo scopo di rendere espliciti i meccanismi logico-giuridici utilizzabili nella decisione giudiziaria e semplificare i procedimenti di calcolo.
Preliminarmente, occorre osservare come nel meccanismo di calcolo, oltre alla difficoltà di attribuire ai diversi fattori un valore matematico, un ulteriore elemento di complessità sia rappresentato
dalla loro variabilità, così come si riscontra comunemente in tutti i procedimenti di liquidazione.
In presenza di situazioni disomogenee, come avviene ad esempio qualora questioni economiche
si rapportino a questioni personali (l’affidamento dei figli o l’assegnazione della casa coniugale),
occorre, infatti, giungere ad una personalizzazione del risultato adeguando continuamente anche i
meccanismi di liquidazione.
Nonostante tali difficoltà, la prevedibilità della decisione secondo uno standard adeguabile al caso
concreto rappresenta un obiettivo indifferibile in ragione del suo effetto deflativo e di attenuazione della conflittualità anche con riguardo ai profili personali1.
Peraltro, anche a prescindere da tale finalità, al giudice spetta comunque l’obbligo di esplicitare e
rendere comprensibile l’iter logico-giuridico che è stato seguito nella decisione.
In ogni caso, la difficoltà di arrivare a tale risultato può essere temperata da una riflessione sul dato normativo e da una sua puntuale interpretazione.
In tale attività interpretativa occorre, in primo luogo, individuare i valori coinvolti e le scelte operate dal legislatore e dalla giurisprudenza.
La prima scelta di valore viene operata attraverso la differente valutazione del principio di solidarietà nei giudizi di separazione e di divorzio.
Infatti, essendo diversa la disciplina, natura, finalità dei relativi giudizi, nella separazione vi è la tendenza a conservare il più possibile gli effetti del matrimonio che siano compatibili con la cessazione della convivenza2, mentre nel giudizio di divorzio è marcata l’esigenza di evitare quelle posizioni ingiustificatamente privilegiate (le cosiddette rendite parassitarie) e bilanciare tale esigenza con
la tutela del soggetto economicamente più debole.
L’importanza di porre in premessa tale scelta di valore è rappresentata dalla convinzione che nei
giudizi di separazione e di divorzio possa essere adottato un medesimo criterio logico-matematico
1 Tale esigenza è stata riscontrata anche da una ricerca sulle prassi dei vari uffici giudiziari: cfr. Le prassi giudiziali nei procedimenti di separazione e divorzio, a cura del CSM, Torino 2007.
2 Ad esempio gli accordi matrimoniali in merito al tenore di vita o alle attività svolte dai coniugi, Cass. sez. I, n. 555/2004.
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nella determinazione dell’assegno, il cui risultato debba successivamente essere personalizzato con
fattori di moderazione che operano differentemente nelle due fasi della separazione e del divorzio3.
Nella giurisprudenza della Suprema Corte appaiono infatti suscettibili di essere valutate differentemente nei due giudizi, a titolo di esempio, le potenzialità reddituali dei coniugi4.
Un ulteriore profilo di differenziazione è ravvisabile, come vedremo, nella differente valutazione
dell’assegno per i figli e per il coniuge, avendo la giurisprudenza chiarito come, in relazione ai figli, il parametro di riferimento, ai fini della determinazione del concorso negli oneri finanziari, sia
costituito, secondo il disposto dell’art. 148 c.c., non soltanto dalle sostanze, ma anche dalla capacità di lavoro, professionale o casalingo, di ciascun coniuge, ciò che implica una valorizzazione anche delle accertate potenzialità reddituali5.
Nella determinazione del quantum dell’assegno per il coniuge, invece, il giudice deve tener conto anche delle ripercussioni sul piano reddituale della legittima scelta personale del coniuge obbligato al mantenimento di cessare l’attività professionale6.
Così, anche la convivenza more uxorio (che il genitore presso il quale dimorano prevalentemente
i figli abbia iniziato successivamente alla separazione) non viene ritenuta idonea ad incidere nella
determinazione dell’assegno di mantenimento del figlio minore, anche se il terzo convivente contribuisce alle spese di mantenimento del minore7; a differenza di quanto avviene con riguardo alla misura dell’assegno per il coniuge qualora si dia la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che
essa – pur se non assistita da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto consolidata e protraentesi nel tempo – influisca in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto8.
2. Il criterio dell’equilibrio economico
Posta questa premessa, svolgendo un sintetico esame delle due discipline al fine di rendere esplicito il criterio utilizzato nel programma di calcolo, si può rilevare come la norma riconosca nella
separazione il diritto del coniuge di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi propri, in forza del vincolo di solidarietà morale e materiale che ancora unisce i coniugi.
È pacifico in giurisprudenza come l’adeguatezza dei redditi sia riferita al tenore di vita analogo a
quello di cui si godeva in costanza di matrimonio.
Il parametro di riferimento è costituito dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, non assumendo rilievo il più modesto tenore di vita subito o tollerato, e va
identificato avendo riguardo allo standard di vita reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche dei coniugi9.
3
Per una differente determinazione dell’assegno tra il giudizio di separazione e di divorzio vedi anche Rimini, La tutela del coniuge più debole fra logiche assistenziali ed esigenze compensative, in Famiglia e diritto, 4/2008, 427.
4 Sulle potenzialità reddituali cfr. Cass. n. 25010/2007; la durata del matrimonio e il contributo apportato da un coniuge alla
formazione del patrimonio dell’altro coniuge, ovvero di quello comune, rappresentano secondo la giurisprudenza parametri utilizzabili in occasione della quantificazione dell’assegno divorzile e non possono valere al fine di escludere la spettanza dell’assegno di mantenimento in caso di separazione personale, essendo tuttavia siffatti elementi valutabili in quest’ultima sede, ai sensi
dell’art. 156, secondo comma, c.c., allo scopo di stabilire l’importo di detto assegno (Cass. sez. I, n. 20638/2004).
5 Cass. sez. I, n. 3974/2002; n. 6197/2005.
6
Cass. sez. I, n. 4800/2002.
7
Cass. sez. I, n. 17043/2007.
8
Seppure limitatamente a quella parte dell’assegno di divorzio che, in relazione alle condizioni economiche dell’avente diritto, sono destinati ad assicurargli quelle condizioni minime di autonomia economica giuridicamente garantita che l’art. 5 della legge sul divorzio ha inteso tutelare finché questi non contragga un nuovo matrimonio: Cass. n. 24056/2006.
9 Cass. sez. I, n. 20638/2004 e n. 5061/2006.
66
FOCUS
La conservazione del precedente tenore di vita da parte del coniuge beneficiario dell’assegno e dei
figli, tuttavia, costituisce un obiettivo solo tendenziale, poiché quasi mai la separazione ne consente la piena realizzazione anche per i mancati risparmi connessi a consuetudini di vita in comune:
quindi l’obiettivo della conservazione del medesimo tenore di vita va perseguito nei limiti consentiti dalle condizioni economiche10. Nell’ipotesi in cui l’analogo tenore di vita non possa essere raggiunto dai coniugi, bisogna verificare se vi sia una disparità di redditi11 tra i due e determinare l’assegno più idoneo per raggiungere un equilibrio economico.
Con riguardo al giudizio di divorzio, l’assegno può essere attribuito quando un coniuge non abbia
mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive12, cosicché deve essere
ripristinato un equilibrio economico tra i due coniugi.
Le Sezioni unite13 già vent’anni fa evidenziavano il problema del bilanciamento tra la necessità di
evitare rendite economiche ingiustificate in un rapporto oramai sciolto e la tutela del coniuge debole. Sulla scia di quella giurisprudenza si procede ad un accertamento bifasico: nella prima fase
il tenore di vita analogo e l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati sono diretti a verificare l’esistenza del diritto in astratto; nella seconda fase, il giudice deve procedere alla determinazione in
concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nell’art. 5
comma 6 legge divorzile, criteri, quindi, che agiscono come fattori di moderazione e diminuzione
della somma considerata in astratto.
Da questo sommario esame dei presupposti dell’assegno di separazione e di divorzio si può desumere come il criterio logico per accertare la sussistenza del diritto sia il concetto di tenore di vita
goduto in costanza di matrimonio.
Per i redditi medio bassi il tenore di vita può essere desunto dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle disponibilità patrimoniali14, in quanto sulla base delle statistiche sulla propensione al consumo delle famiglie italiane15 è presumibile
che tutti i redditi vengano destinati al consumo.
L’indicatore del tenore di vita è quindi rappresentato in queste ipotesi dal reddito16, cosicché, nell’ipotesi di un’apprezzabile disparità di redditi tra i coniugi, si può desumere che il coniuge economicamente più debole non sia titolare di mezzi adeguati a mantenere il tenore di vita precedente e sia necessario ripristinare un equilibrio economico tra i due nuclei familiari che si formano a
seguito della separazione.
In conclusione, analizzando il concetto di tenore di vita desumiamo che il criterio logico-matematico da utilizzare nella prima fase di liquidazione dell’assegno è quello dell’equilibrio economico,
che si raggiunge mediante la divisione del reddito netto17.
Sulla base di tale criterio, nel programma di calcolo, sviluppato in ambiente Excel, occorre in primo luogo inserire i dati relativi al reddito percepito dai due coniugi.
10 Cass. n. 14707/2003.
11 Si vedrà come nella determinazione dell’assegno oltre al reddito vengono prese in considerazione anche diverse circostanze,
elementi fattuali di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni economiche delle parti.
12 Anche in tale fase è pacifico che l’inadeguatezza dei mezzi sia riferita al tenore di vita analogo a quello goduto in costanza
di matrimonio.
13 Cass. sez. un. n. 11490/1990.
14 Cfr. Cass. sez. I, n. 15610 del 12.07.2007.
15 Vedi sul sito Istat la statistica I consumi delle famiglie (anno 2007)
http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20080708_00/testointegrale20080708.pdf
16 Per i redditi elevati (che si può presumere superiori a 8.000-10.000 euro complessivi per i due nuclei familiari) occorrerà accertare la spesa necessaria per mantenere il precedente tenore di vita e, quindi, si può sostenere che l’indicatore del tenore di vita sia rappresentato dalla spesa.
17 Anche con riguardo al mantenimento dei figli il criterio corretto da utilizzare nella determinazione del contributo appare quello della proporzionalità al proprio reddito, considerando che deve essere anch’esso quantificato considerando le sue esigenze in
rapporto al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con entrambi i genitori e le risorse e i redditi di costoro (Cass. sez. I,
n. 9915/2007).
67
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
3. La valutazione del reddito
È opportuno, al riguardo, svolgere alcune precisazioni in ordine alla valutazione del reddito, con
ciò intendendo non la modalità di assunzione del mezzo probatorio quanto la valutazione del dato probatorio già acquisito.
Il termine reddito è riferito non solo al denaro ma anche a tutte le altre utilità differenti dal denaro, purché suscettibili di una valutazione economica.
È pacifico che non si richieda una valutazione aritmetica dei redditi ma solo un’analisi volta ad accertarne l’ammontare complessivo approssimativo, un’attendibile ricostruzione delle situazioni economiche di entrambi i coniugi18.
Laddove si parta dalla valutazione delle dichiarazioni fiscali19, appare opportuno considerare il reddito complessivo, in luogo di quello imponibile, dovendosi osservare, sul punto, come il legislatore, nell’attribuzione delle deduzioni, svolga valutazioni di politica fiscale differenti rispetto alla finalità del giudice della separazione20.
La valutazione del reddito imponibile esporrebbe inoltre l’interprete al rischio di duplicare le valutazioni di alcuni oneri, come il mutuo contratto per l’acquisto della casa, che verrebbero prese in
considerazione sia sotto mediante il calcolo della detrazione fiscale sia nella determinazione degli
oneri documentati dal coniuge.
Reddito ultimo periodo
Obbligato
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
€ 0,00
Richiedente
reddito complessivo
imposta netta
addizionali regionali
addizionali comunali
contributi previdenziali
€ 0,00
€ 0,00
reddito mensile netto
Totale
1. Scheda di detrazione degli oneri fiscali
Nel reddito da fabbricati e da terreni non dovrà essere considerato quello catastale o fondiario,
qualora il numero e il valore degli immobili sia apprezzabile, bensì dovrà essere svolta una valutazione del valore di mercato ovvero del reddito da locazione21.
Con riguardo al reddito da lavoro autonomo o di impresa individuale o societaria occorre valutare l’eventualità di condotte elusive (imputazione tra i costi di spese personali; ricavi inferiori a quelli effettivi; per le società il valore effettivo della quota potrebbe essere superiore a quello nominale) anche mediante meccanismi presuntivi, ricorrendo a indici analoghi a quelli calcolati dagli stu-
18 Cass. sez. I, n. 19291/2005; n. 25618/2007; n. 9878 del 28.04.2006; n. 3974 del 19.03.2002; n. 2583 del 09.03.1998.
19 Qualora si tratti di redditi variabili negli anni, il programma consente il calcolo del reddito degli ultimi tre periodi di imposta.
20 Ad esempio vengono previste detrazioni per liberalità alle onlus che, per quanto degne di apprezzamento, il giudice della
separazione non può tenere in considerazione poiché prevalgono le esigenze di mantenimento dei figli.
21 Se i beni immobili sono improduttivi di redditi ma suscettibili di alienazione, essi devono essere considerati nella separazione (Cass. n. 7630/97) e nella comparazione con le esigenze di mantenimento dei figli, ma non altrettanto nel giudizio di divorzio.
68
FOCUS
di di settore dall’Agenzia delle entrate, fatta salva per il coniuge, così come per il contribuente, la
possibilità di giustificare redditi non congrui22.
Sebbene la giurisprudenza abbia talvolta attribuito un valore locativo all’assegnazione della casa
coniugale23, tale opzione dovrà essere valutata attentamente al fine di evitare palesi iniquità, essendo pacifico che l’assegnazione non rappresenti un privilegio per il genitore assegnatario, bensì venga stabilita a salvaguardia dell’habitat domestico ed a tutela dei figli.
Dal reddito complessivo devono essere detratti gli oneri fiscali, quali l’imposta netta, le addizionali, l’Irap e i contributi previdenziali; successivamente gli ulteriori oneri sostenuti e documentati, come, ad esempio, gli oneri di mutuo o di locazione, qualora imputabili ad esigenze della famiglia
ovvero resi necessari in conseguenza dell’interruzione della convivenza (ad esempio il finanziamento contratto per l’acquisto di nuovi mobili).
Si ritiene opportuno che, salvo diverso accordo, gli oneri di mutuo per l’acquisto della casa coniugale debbano essere suddivisi per metà, in conformità alla disciplina della comunione, considerata la difficoltà, altrimenti, di regolare i reciproci rapporti di debito e credito in sede di scioglimento della comunione.
Obbligato
oneri di mutuo ipotecario
oneri di locazione
oneri di mutuo
oneri di produzione del reddito
€ 0,00
€ 0,00
Richiedente
oneri di mutuo ipotecario
oneri di locazione
oneri di mutuo
oneri di produzione del reddito
€ 0,00
2. Scheda di calcolo degli oneri sostenuti nell’interesse della famiglia
4. Applicazione della scala di equivalenza
Accertato in tal modo il reddito netto dei due coniugi ridotto degli oneri sostenuti, al fine di pervenire ad una corretta divisione del reddito nell’ipotesi in cui i figli convivano prevalentemente con
uno dei genitori e sussista quindi una differente composizione dei due nuclei che si formano a seguito della frattura familiare, è opportuno applicare una scala di equivalenza che permetta di rappresentare i minori oneri dovuti alle economie di convivenza tra più componenti24.
Applicando una scala di equivalenza di tipo soggettivo (che utilizza cioè coefficienti stabiliti dall’operatore), come la scala Ocse, attualmente impiegata dall’Istat e da Eurostat per il calcolo degli
indicatori di disuguaglianza compresi nelle statistiche ufficiali dell’Unione europea25, appare corretto procedere ad una lieve modifica in ragione del maggior peso che nel formarsi dei due nuclei
familiari a seguito di una separazione personale assume il coniuge con il carico genitoriale prevalente26.
22 Vedi http://www.agenziaentrate.it/ilwwcm/connect/Nsi/Strumenti/Studi+di+settore/
23 Cass. sez I, n. 5443/98.
24 La divisione del reddito familiare semplicemente per il numero di componenti non condurrebbe ad un risultato equo considerato che i costi di una famiglia non sono perfettamente proporzionali al numero di componenti.
25 Vedi il sito: www.istat.it/dati/dataset
26 Lasciando immutato il coefficiente 1 per il primo adulto, si ritiene opportuno inserire il coefficiente 0,7 (in luogo del coefficiente 0,5 utilizzato dalla scala Ocse) per ogni componente maggiore di 14 anni e 0,5 (in luogo di 0,3) per ogni minore di 14 anni.
69
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
La somma del reddito netto dei due coniugi dovrà, quindi, essere divisa per la somma dei coefficienti individuali e si otterrà il valore della quota individuale, che verrà successivamente moltiplicata per i coefficienti di ciascun nucleo familiare.
componenti nucleo
componenti famiglia obbligato
capo famiglia
maggiore di 14 anni
minore di 14 anni
totale quote figli
0
totale quote nucleo familiare
1
componenti famiglia richiedente
capo famiglia
maggiore di 14 anni
minore di 14 anni
totale quote figli
0
totale quote nucleo familiare
1
numero di quote complessive
2
valore quota
0,00
3. Scheda di applicazione della scala di equivalenza
Ponendo ad esempio un nucleo familiare composto da due coniugi e un figlio minore di 14 anni,
se a seguito della separazione il figlio avrà la permanenza prevalente presso uno dei genitori, si
avranno due nuclei con il coefficiente rispettivamente di 1 e di 1,5, per un totale di 2,5.
Se la somma dei redditi netti dei due coniugi è pari, sempre a titolo di esempio, a 1.000 euro mensili (800 euro un coniuge e 200 euro l’altro coniuge che ha il carico genitoriale prevalente), avremo il valore di una quota pari a 400 euro (1.000/2,5).
Pertanto al coniuge che ha il carico genitoriale prevalente, con il coefficiente di 1,5, spetterà un
reddito “equivalente” di 600 euro (400*1,5), mentre all’altro coniuge un reddito di 400 euro.
Poiché il coniuge richiedente (con il carico genitoriale prevalente) già percepiva un reddito proprio di 200 euro, l’assegno dovrà essere calcolato in 400 euro, di cui 200 euro a titolo di proprio
mantenimento e 200 euro a titolo di mantenimento del figlio.
5. I fattori di moderazione
Una volta raggiunto l’equilibrio economico attraverso l’applicazione della scala di equivalenza, le
quote così attribuite possono variare in relazione alle circostanze prese in considerazione dall’art.
156 2° co., nel giudizio di separazione e dall’art. 5 della legge divorzile.
70
FOCUS
Altre circostanze
(percentuale)
aumento assegno diminuzione assegno
capacità lavorativa
potenzialità reddituali e patrimoniali
contributi familiari
nuova famiglia
ragioni della decisione
contributo personale ed economico
durata del matrimonio
0,00%
0,00%
0,00%
4. Scheda relativa ai fattori di moderazione (percentuale)
Peraltro, abbiamo già visto in premessa come tali fattori di moderazione operino in modo differente nella determinazione dell’assegno per i figli e per il coniuge.
La giurisprudenza ha, ad esempio, chiarito come, in relazione ai figli, debbano essere valorizzate
le accertate potenzialità lavorative, purché non vengano svolte mere valutazioni astratte e ipotetiche27 ma vengano considerate la situazione del mercato del lavoro del luogo in cui vive il coniuge, l’esperienza lavorativa o professionale pregressa, il tempo intercorso dall’ultima prestazione di
lavoro, il lavoro casalingo nella cura e crescita dei figli.
Sulla base di tali criteri, il giudice non dovrà limitarsi alla constatazione dell’inattività lavorativa,
bensì richiamare l’attitudine concreta del coniuge al lavoro, mediante meccanismi presuntivi28.
Nella determinazione del quantum dell’assegno per il coniuge, invece, si è ritenuto che possa essere considerata legittima la scelta personale del coniuge obbligato al mantenimento di cessare l’attività professionale29.
Così, anche la convivenza more uxorio del coniuge separato e divorziato con una terza persona
non viene ritenuta idonea ad incidere nella determinazione dell’assegno di mantenimento del figlio minore, anche se il terzo convivente contribuisce alle spese di mantenimento del minore30; a
differenza di quanto avviene con riguardo alla misura dell’assegno per il coniuge qualora si dia la
prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che essa – pur se non assistita da garanzie giuridiche di
stabilità, ma di fatto consolidata e protraentesi nel tempo – influisca in melius sulle condizioni economiche dell’avente diritto31.
Nella determinazione del contributo economico per i figli concorrono ulteriori circostanze quali le
attuali esigenze del figlio; i tempi di permanenza presso ciascun genitore; la valenza economica dei
compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
27 Cass. sez. I, n. 18547 del 25.08.2006; n. 3838 del 22.02.2006; n. 12121 del 02.07.2004; n. 13169 del 16.07.2004.
28 Sez. I, sentenza n. 13169 del 16.07.2004.
29 Vedi giurisprudenza citata alla nota 6.
30 Cass. sez. I, n. 17043 del 03.08.2007; vedi in ordine alla nuova famiglia dell’obbligato, Cass. sez. I, n. 15065 del 22.11.2000:
“La costituzione di un nuovo nucleo familiare da parte dell’obbligato è espressione di una scelta e non di una necessità e lascia
inalterata la consistenza degli obblighi nei confronti della prole”.
31 Seppure limitatamente a quella parte dell’assegno di divorzio che, in relazione alle condizioni economiche dell’avente diritto, sono destinati ad assicurargli quelle condizioni minime di autonomia economica giuridicamente garantita che l’art. 5 della legge sul divorzio ha inteso tutelare finché questi non contragga un nuovo matrimonio Cass. n. 24056/2006.
71
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
accudimento dei figli da parte dell’obbligato (giorni della settimana)
0,00%
5. Scheda di calcolo del fattore di moderazione rappresentato dall’accudimento dei figli
Qualora l’assegno debba essere determinato solo a titolo di mantenimento del coniuge, i fattori di
moderazione hanno un’incidenza diversa nel giudizio di separazione e di divorzio in ragione della scelta di valore ricordata in premessa e cioè della tendenza nella separazione a conservare il più
possibile gli effetti del matrimonio e l’esigenza nel giudizio di divorzio di evitare posizioni economiche vantaggiose non più giustificate32.
Le scelte soggettive con le quali il coniuge obbligato si risolve a non proseguire l’attività professionale, pertanto, potrebbero essere considerate legittime nel giudizio di divorzio, così come nel giudizio di divorzio potrebbe presumersi, valutati i fattori oggettivi sopra ricordati33, l’inserimento del
coniuge richiedente nel mercato del lavoro.
Infine, in un’ottica risarcitoria, le ragioni della decisione – intese con riguardo ai comportamenti
che hanno cagionato la rottura della comunione spirituale e materiale della famiglia – potranno essere prese in considerazione dal giudice, unitamente a tutti gli altri elementi indicati nell’art. 5, sesto comma, della legge 1 dicembre 1970 n. 898, soltanto nella fase della concreta determinazione
della misura dell’assegno divorzile, come criterio di moderazione dell’ammontare del medesimo34.
6. Conclusioni
Riepilogando il meccanismo di liquidazione dell’assegno qui descritto, nella prima fase della liquidazione dell’assegno si procede ad una suddivisione del reddito tale da ripristinare un equilibrio
economico tra i nuclei familiari formatisi a seguito della separazione.
A questa prima fase svolta sulla base di criteri standardizzati e predeterminati segue una seconda
fase di liquidazione diretta a personalizzare il risultato raggiunto tenendo conto delle circostanze
del caso concreto.
€ 0,00
costo totale di mantenimento figli
€ 0,00
assegno coniuge e figli
€ 0,00
assegno figli
€ 0,00
assegno coniuge
6. Scheda di riepilogo della liquidazione
Appare, tuttavia, evidente, sin da questo sintetico esame del meccanismo di calcolo, come la personalizzazione del risultato presupponga sempre l’intervento discrezionale del giudice e l’attività
dell’interprete debba continuamente adeguare la base di calcolo, determinata secondo il criterio
dell’equilibrio economico, con le variabili del caso concreto.
32 Cfr. Rimini, op cit., 425.
33 La situazione del mercato del lavoro del luogo in cui vive il coniuge, l’esperienza lavorativa o professionale pregressa, il tempo intercorso dall’ultima prestazione di lavoro, il lavoro casalingo nella cura e crescita dei figli.
34 Cass. Sez. 1, sentenza n. 12382 dell’11.06.2005; n. 2872 del 24.03.1994; vedi anche Rimini, op. cit., 425.
72
FOCUS
GLI STRUMENTI PER CONOSCERE LA SITUAZIONE FISCALE DELL’ALTRO CONIUGE
Gaudenzia Brunello
Avvocato, Foro di Treviso
Giovanna Tonello
Praticante avvocato, Treviso
Premessa
Quando una persona decide di separarsi o si trova a subire la separazione voluta dal coniuge, si
rende conto, spesso, che poco sa della situazione economica dell’altro.
Meno ancora sa quando incomincia il procedimento di divorzio.
Ed è evidente che, in entrambi i casi, avrebbe uno spiccato interesse a conoscerla a fondo e a poterla documentare.
1. La disciplina legislativa nella separazione e nel divorzio
Com’è noto, in materia di separazione, l’art. 155 c.c., comma 6, così come modificato dalla legge
54/2006, presuppone che già nella fase presidenziale questa situazione debba emergere documentalmente.
La norma appena citata, infatti, stabilisce che “Ove le informazioni di carattere economico fornite
dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della
polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi”.
La disposizione è un po’ bizzarra: stando al dato letterale riguarda infatti soltanto i coniugi con prole, i “genitori” appunto, ma è anche oscura e incompleta: quali informazioni debbano essere fornite e documentate il legislatore infatti non dice.
In ipotesi di divorzio, una disposizione almeno un po’ più precisa (art. 5, comma 9, l. 898/1970)
prevede :
“I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”.
Neppure questa disposizione, però, indica esattamente che cosa dev’essere prodotto e in relazione a che periodo: sicuramente la dichiarazione Irpef, se le parti sono tenute a presentare questa
dichiarazione o il Cud, se esiste e le parti non sono tenute alla dichiarazione Irpef, ma la dichiarazione Ici, le dichiarazioni Irpeg, gli avvisi di rettifica, le eventuali domande di condono devono essere prodotte e, se sì, per quanti anni?
Ma, soprattutto, la disposizione non dice chi deve produrre, né prevede delle sanzioni per l’ipotesi che l’onere di produzione non venga assolto.
L’interpretazione più diffusa, forse unanime, è che ciascuno debba produrre le dichiarazioni che lo
riguardano.
Ma è un’interpretazione non del tutto appagante.
Il criterio di distribuzione dell’onere probatorio nel nostro ordinamento, efficacemente condensato
73
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
nel broccardo “onus probandi incumbit ei qui dicit”, ne risulterebbe irrimediabilmente travolto.
Vero è che in materia di famiglia il principio dispositivo talvolta cede il passo ad un sistema inquisitorio, ad evitare che diritti irrinunciabili delle parti o dei figli possano essere sacrificati perché chi
ha agito in giudizio non ha saputo avvalersi degli strumenti processuali di cui poteva disporre. Ma
neppure in questa ottica si giustifica un obbligo alla parte di produzione di documentazione che
potrebbe ritenere a sé sfavorevole e neppure correlare questo obbligo al dovere di lealtà e correttezza processuale, previsto dall’art 88 c.p.c., appare una soluzione interpretativa solida e rassicurante.
In realtà l’idea che gli artt. 155 c.c. e 5 legge 898/70 impongano una distribuzione anomala dell’onere probatorio sembra discendere, più che dalla convinzione che il legislatore abbia derogato
al principio dispositivo, da quella che, in pratica, solo la parte che ha effettuato la dichiarazione
dei redditi possa disporne e che l’altra non abbia strumenti per procurarsi una dichiarazione che
non gli sia messa volontariamente a disposizione dal coniuge.
Ma è proprio vero?
2. È possibile la richiesta di copia della dichiarazione dei redditi all’Agenzia delle Entrate?
Esiste la possibilità per un coniuge di rivolgersi all’Agenzia delle Entrate1 e ottenere informazioni
sulla situazione fiscale dell’altro coniuge e, magari, copia dei documenti custoditi, in primis delle
dichiarazioni dei redditi?
È chiaro che una risposta affermativa avrebbe una rilevanza pratica che non si esaurisce certo nella valutazione concernente la distribuzione dell’onere della prova di un procedimento in corso.
Sarebbe consentito alla parte, ad esempio, di valutare preventivamente le richieste da formulare in
vista di una separazione consensuale, di accertare la corrispondenza della dichiarazione eventualmente messa a disposizione dal coniuge rispetto a quella inoltrata all’Amministrazione finanziaria,
di conoscere l’eventuale esistenza di dichiarazioni integrative, avvisi di rettifica, domande di condono...
Senza dire che in tutte le ipotesi in cui una delle parti non depositi nulla spontaneamente e il giudice rimanga inerte, l’altro coniuge avrebbe almeno la possibilità di procurarsi da sé i dati che la
controparte non ha interesse a far emergere.
Attingere ai dati di cui dispone l’Agenzia delle Entrate significherebbe poter attingere, di fatto, all’Anagrafe tributaria, cioè alla più grande banca dati italiana.
L’Anagrafe tributaria è, infatti, il risultato di un imponente sistema di raccolta di dati e informazioni avviato dal Ministero delle Finanze a partire dal 19772 e gestito per il tramite della società concessionaria Sogei spa (sicché, al fine del trattamento dei dati, Sogei è la “responsabile”, mentre “titolare” rimane l’Amministrazione finanziaria). Secondo una fonte la cui attendibilità non siamo per
la verità in grado di valutare3, all’Anagrafe tributaria sono connessi, oltre all’Agenzia delle Entrate
con i suoi 36.000 dipendenti, 450 enti esterni (tra cui Inps, Inail, Banche, Poste Italiane), le Regioni, 5.700 Comuni e 150.000 soggetti intermediari e grandi imprese, per un totale che sfiora il milione di utenti. Annualmente vengono elaborati 200 milioni di documenti e sono ricevute circa 43
milioni di dichiarazioni dei redditi e altri documenti rilevanti ai fini fiscali.
Una lettura delle disposizioni sulla “trasparenza amministrativa” sembra fornire una risposta rassicurante al coniuge che desideri copia della dichiarazione dei redditi dell’altro.
1
L’Agenzia delle Entrate è, com’è noto, l’ente pubblico non economico che si occupa della gestione, dell’accertamento e del
contenzioso fiscale. Dotata di autonomia regolamentare, amministrativa, organizzativa, contabile e finanziaria, è sottoposta alla vigilanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze. È operativa dal 1° gennaio 2001, a seguito del d. l.gs. 30 luglio 1999 n. 300,
(riforma Bassanini sull’organizzazione del Governo).
2 I Ministeri economici vengono “accorpati,” come si ricorderà, nel 2001 (ancora con la riforma Bassanini), sicché da allora il
Ministero è “dell’Economia e delle Finanze”.
3 E cioè Wikipedia.
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FOCUS
Le informazioni fiscali, infatti, non sembrano poter rientrare in alcuna delle ipotesi per le quali l’art.
24, comma 1, l. n. 241/19904 prevede l’esclusione dal diritto di accesso e, comunque, il comma VII
dello stesso articolo prevede che debba essere in ogni caso garantito ai richiedenti l’accesso a quei
documenti “la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici”5.
Al più si dovrebbe porre il problema della tutela del “controinteressato”, cioè del soggetto che –
per esprimersi con l’art. 22, comma 1, lett c della l. 241/90, introdotto dalla l. 80/05 – “dall’esercizio dell’accesso vedrebbe compromesso il suo diritto alla riservatezza”6.
A tal proposito va chiarito che, se nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale antecedente alla
l. n° 80 del 2005 la figura del controinteressato aveva una portata esclusivamente processuale (la
parte a cui nel giudizio amministrativo in materia di accesso era necessario notificare il ricorso),
più di recente si è sostenuto che ha anche una valenza sostanziale.
Quanto appena osservato porta a ritenere sussistente, se non proprio l’obbligo dell’istante di inviare la richiesta di accesso anche al controinteressato, quanto meno quello dell’Amministrazione, nella specie dell’Agenzia delle Entrate, di coinvolgere il titolare delle esigenze di riservatezza nel procedimento di accesso, comunicando prontamente la richiesta avanzata dal coniuge.
In realtà, problemi non facilmente superabili nascono da un orientamento giurisprudenziale e dottrinario che, nonostante la definizione molto ampia che ne dà la legge 241/90, nega alle dichiarazioni la qualifica di “documento amministrativo”7.
a) Una prima impostazione, fatta propria dalla Suprema Corte, definisce la dichiarazione dei redditi quale una mera dichiarazione di scienza, ovvero un atto dovuto a contenuto ricognitivo8.
b) Secondo altra tesi, la dichiarazione fiscale sarebbe una confessione stragiudiziale con effetti dichiarativi e con valenza probatoria.
c) Per altra parte della dottrina, la dichiarazione è la formulazione di un giudizio sugli elementi ritenuti rilevanti e, quindi, dichiarati ai fini della determinazione e liquidazione del debito d’imposta.
4
L. 7 agosto 1990, n. 241 (novellata dalla l. n. 80/2005).
Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Art. 24, 1 - Esclusione dal diritto di accesso: “Il diritto di accesso è escluso:
a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di
segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo;
b) nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano;
c) nei confronti dell’attività della Pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione;
d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.
5 Questa testualmente la disposizione richiamata:
“Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n.
196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
6 L. 7 agosto 1990, n. 241.
Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Art. 22 - Definizioni e principi in materia di accesso:
1. Ai fini del presente capo si intende:
a) per “diritto di accesso”, il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi;
b) per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso;
c) per “controinteressati”, tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che
dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”.
7 Qualificando come tale “ogni rappresentazione grafica fotocinematografica elettromagnetica o di qualunque altra specie del
contenuto di atti anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento detenuti dal una Pubblica Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”. Art. 22 lettera d.
8 “La dichiarazione dei redditi non ha natura di atto negoziale e dispositivo, ma reca una mera esternazione di scienza e di
giudizio, modificabile in ragione dell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti”. Cass. 23 maggio 2003, n. 8153; Nello stesso senso: Cass. 26 gennaio 2007, n. 1708; Cass. 8 luglio 2008, n. 18673.
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In tutti i casi si tratta comunque di un atto del dichiarante che la Pubblica amministrazione riceve
senza partecipare al suo perfezionamento.
Tant’è che, proprio in relazione all’ostensibilità della dichiarazione dei redditi, il Consiglio di Stato
ha statuito che:
“L’art. 22, comma 2, l. n. 241 del 1990 consente l’accesso solo ad atti inseriti in un procedimento,
cioè ad atti formati dalla p.a. o comunque utilizzati ai fini dell’attività amministrativa; e, pertanto, è interdetto l’accesso ad una dichiarazione dei redditi resa da un soggetto pubblico, in quanto
l’atto in questione non attiene all’attività amministrativa dell’ente che la compila ma è un obbligo
a cui la p.a. è tenuta al pari dei soggetti privati”9.
E se la denuncia dei redditi non va considerata documento amministrativo nemmeno quando a formarla è un soggetto pubblico, a maggior ragione non lo è se a redigerla è un soggetto privato e
la pubblica amministrazione si limita a riceverla.
Addirittura, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, istituita proprio col compito
di “attuare il principio di piena conoscibilità dell’attività della Pubblica Amministrazione”10, nel parere reso in data 27 settembre 2000 precisava che “i dati anagrafici e gli elenchi dei contribuenti
che hanno presentato le dichiarazioni annuali modello 740/770 ed IVA non hanno nulla a che vedere con i documenti amministrativi la cui accessibilità la legge 241/1990 vuole garantire e quindi esulano dal suo ambito di applicazione”.
E per completare va ricordato che il Ministro delle Finanze, dopo aver sottratto per decreto all’accesso previsto dall’art. 24 legge 241/90 le dichiarazioni dei redditi11, ha precisato, con propria circolare, che “a norma dell’art. 24, ultimo comma, ultimo periodo, della legge n. 241/1990, sono
escluse dall’esercizio del diritto di accesso le dichiarazioni tributarie”12.
Non che manchi, sia in dottrina che in giurisprudenza, un orientamento contrario13.
Ma bisogna prendere atto che l’orientamento giurisprudenziale prevalente e i provvedimenti sopra
richiamati non consentono di confidare sulla collaborazione dell’Agenzia delle Entrate se l’obiettivo è quello di ottenere la dichiarazione dei redditi del coniuge.
Diverso, invece, se l’interesse è volto a conoscere un avviso di accertamento o un qualsiasi altro
provvedimento conclusivo di un “procedimento tributario”: il diritto di accesso è in questi casi pienamente esercitabile.
3. La dichiarazione congiunta e il cassetto fiscale
La questione si prospetta radicalmente diversa ove vi sia una dichiarazione congiunta dei redditi,
possibilità concessa dall’art. 17 l. 13 aprile 1977, n. 114, ai coniugi non separati né legalmente né
di fatto.
In ipotesi di dichiarazione congiunta le cartelle esattoriali e gli avvisi di accertamento devono es-
9 Cons di Stato, sez. VI sentenza 5 ottobre 1995, n. 1083, in Bollettino Tributario, 1996, 397.
10 L. 7 agosto 1990, n. 241.
Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Art. 27 Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi:
“1. È istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi...
5. La Commissione adotta le determinazioni previste dall’articolo 25, comma 4; vigila affinché sia attuato il principio di piena conoscibilità dell’attività della Pubblica amministrazione con il rispetto dei limiti fissati dalla presente legge; redige una relazione
annuale sulla trasparenza dell’attività della Pubblica amministrazione, che comunica alle Camere e al Presidente del Consiglio
dei Ministri; propone al Governo modifiche dei testi legislativi e regolamentari che siano utili a realizzare la più ampia garanzia
del diritto di accesso di cui all’articolo 22”.
11 Decreto Ministro delle Finanze 29 ottobre 1996 n. 603: il riferimento è all’art. 24 nella formulazione previdente le modifiche
introdotte dalla legge del 2005. In quella formulazione l’art 24 escludeva dall’accesso i documenti indicati all’art. 13 che, a sua
volta, escludeva “i procedimenti tributari”.
12 Circolare Ministero delle Finanze, protocollo 1138/1997, n. 213.
13 Es. Tar Lazio, sez. 2, 9 maggio 1995, n. 819, in Bollettino Tributario, 1995, 1669; Tar Friuli 26 gennaio 2006, n. 50 in un’ipotesi in cui l’accesso era stato richiesto all’Agenzia dell’Entrate da un creditore del titolare delle denunce.
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sere notificati soltanto al marito e la Corte Costituzionale ha ritenuto che la scelta legislativa sia comunque legittima e non si ponga in contrasto con il principio di parità, in quanto, se i coniugi ritengono che il diritto dell’uno o dell’altro possa essere pregiudicato da questa modalità di notifica,
possono scegliere di presentare delle dichiarazioni separate14.
Di utilità del tutto differente risulta invece il Cassetto fiscale, un servizio inaugurato in via sperimentale nell’anno 2003 dall’Amministrazione finanziaria di Milano e successivamente attivato a livello nazionale dall’Agenzia delle Entrate, che consente, previa registrazione e con accesso protetto da un codice personale, di consultare unicamente le proprie informazioni fiscali relative anche
a dati reddituali15.
4. È possibile la richiesta di informazioni alla PA?
Esclusa la possibilità di rivolgersi utilmente all’Amministrazione finanziaria invocando la legge
241/90 per ottenere la copia della dichiarazione dei redditi, è opportuno domandarsi se la parte
abbia a disposizione altri strumenti per ottenere, senza intervento del giudice, qualche informazione sui redditi del coniuge.
Va considerato come evento probabilmente non ripetibile la pubblicazione on line, avvenuta il 30
aprile 2008, dei redditi Irpef dei contribuenti che hanno presentato le dichiarazioni relative all’anno di imposta 2005.
Tali elenchi sono rimasti sul sito dell’Agenzia delle Entrate solo poche ore, poiché il Garante della privacy è prontamente intervenuto e ha invitato l’Agenzia a sospendere la pubblicazione.
In quelle poche ore, però, diversi utenti li hanno visionati e scaricati, rendendo ingovernabile la
circolazione e la protezione delle informazioni offerte dall’Agenzia delle Entrate.
Il clamore suscitato dalla vicenda, bloccato dal solerte intervento del Garante, non si spiega per la
semplice pubblicazione di dati fiscali: i giornali hanno spesso fornito ai loro lettori informazioni sui
redditi dei contribuenti, pubblicando annualmente lunghi elenchi compilati in relazione ai più disparati parametri (i cinquecento ricchi d’Italia, tutti i redditi dei contribuenti del Comune di Canicattì, tutti i redditi degli avvocati, tutti i redditi di coloro che superavano un certo imponibile...).
Ciò che ha suscitato scalpore è stato il mezzo utilizzato per la diffusione che ha reso conoscibili le
notizie riguardanti qualsiasi contribuente in tutto il mondo, con evidente lesione non solo del diritto alla riservatezza, ma anche di quello della tranquillità e della sicurezza delle persone titolari
di redditi molto elevati (per l’evidente rischio di estorsioni e rapine).
Prescindendo da giudizi di merito e di opportunità della pubblicazione in internet, va comunque
sottolineato che la pubblicazione di dati fiscali ai fini di consentire la loro conoscibilità da parte di
chiunque appare una precisa scelta legislativa, riconosciuta addirittura dal Garante della privacy,
secondo il quale l’art. 69 d.p.r. n. 600/1973 reca “una precisa scelta normativa di consultabilità da
parte di chiunque di determinate fonti operata per favorire una trasparenza in materia di dati raccolti dalla Pubblica amministrazione attraverso le dichiarazioni fiscali”, sicché “com’è desumibile
dai numerosi pronunciamenti di questa autorità in materia di trasparenza non vi è incompatibi-
14 “L’art. 17, 3° e 4° comma, l. 13 aprile 1977, n. 114, nella parte in cui prevede che le cartelle esattoriali e gli avvisi di accertamento, in caso di dichiarazione congiunta dei redditi, vengano notificati solo al marito, non è in contrasto con l’art. 29 Cost. in
quanto rientra nella libera scelta dei coniugi avvalersi della dichiarazione congiunta o delle dichiarazioni separate”, Corte Cost.
12.04.1989, n. 184.
15 Il Cassetto Fiscale può essere utilizzato da tutti i contribuenti: persone fisiche, ditte individuali e persone giuridiche. Tale servizio permette di conoscere le proprie informazioni fiscali relative a dati anagrafici, reddituali, rimborsi di imposte dirette, versamenti effettuati tramite modello F24 e F23, nonché atti del registro concernenti dati patrimoniali. L’accesso alle informazioni in
esso contenute può risultare particolarmente utile in quei casi frequenti in cui uno dei due coniugi non conosca di fatto la propria posizione fiscale o non sia in possesso di alcun documento utile a ricostruirla. Per accedere al proprio Cassetto Fiscale occorre richiedere all’Agenzia delle Entrate un codice PIN e registrarsi con un’apposita procedura di sicurezza tramite il collegamento internet. Tale servizio in ogni caso esula dal tema qui trattato poiché, come già evidenziato, consente ad un contribuente di
accedere solamente a quei dati che attengono alla propria sfera individuale, essendo invece esclusa la possibilità di apprendere,
tramite questo meccanismo, informazioni riguardanti soggetti terzi.
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lità tra la protezione dei dati personali e determinate forme di pubblicità di dati previste per finalità d’interesse pubblico o della collettività”16.
E infatti il d.p.r. 600/73, nella formulazione originaria e in quella risultante dalle modifiche via via
introdotte, prevede la predisposizione annuale, a cura degli Uffici finanziari, degli elenchi nominativi dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi e dei soggetti che esercitano
imprese commerciali, arti e professioni e il loro deposito per la durata di un anno presso l’Ufficio
delle imposte e presso i Comuni interessati. Ed è esplicitamente prevista la possibilità di “prendere visione ed estrarre copia degli elenchi nei modi e nei limiti stabiliti dalla disciplina in materia di
accesso ai documenti amministrativi”17, addirittura con esonero dei diritti normalmente dovuti per
esercitare il diritto di accesso.
Analoghe scelte di pubblicità sono state compiute dal legislatore con il provvedimento istitutivo
dell’Iva18.
16 Provvedimento 18 ottobre 2007 - doc. web n. 1454901 che esplicitamente richiama quello del 2 luglio 2003, doc. web n.
1081728.
17 D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600.
Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi
Articolo 69 - Pubblicazione degli elenchi dei contribuenti:
“1. Il Ministro delle finanze dispone annualmente la pubblicazione degli elenchi dei contribuenti il cui reddito imponibile è stato
accertato dagli uffici delle imposte dirette e di quelli sottoposti a controlli globali a sorteggio a norma delle vigenti disposizioni nell’ambito dell’attività di programmazione svolta dagli uffici nell’anno precedente.
2. Negli elenchi deve essere specificato se gli accertamenti sono definitivi o in contestazione e devono essere indicati, in caso di rettifica, anche gli imponibili dichiarati dai contribuenti.
3. Negli elenchi sono compresi tutti i contribuenti che non hanno presentato la dichiarazione dei redditi, nonché i contribuenti
nei cui confronti sia stato accertato un maggior reddito imponibile superiore a euro 5.164,57 e al 20 per cento del reddito dichiarato, o in ogni caso un maggior reddito imponibile superiore a euro 25.822,84.
4. Il centro informativo delle imposte dirette, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione delle dichiarazioni dei redditi, forma, per ciascun comune, i seguenti elenchi nominativi da distribuire agli uffici delle imposte territorialmente
competenti:
a) elenco nominativo dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi;
b) elenco nominativo dei soggetti che esercitano imprese commerciali, arti e professioni.
5. Con apposito decreto del Ministro delle finanze sono annualmente stabiliti i termini e le modalità per la formazione degli elenchi di cui al comma 4.
6. Gli elenchi sono depositati per la durata di un anno sia presso lo stesso ufficio delle imposte, sia presso i Comuni interessati. Nel
predetto periodo è ammessa la visione e l’estrazione di copia degli elenchi nei modi e con i limiti stabiliti dalla disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, dalla relativa normativa di attuazione, nonché da specifiche disposizioni di legge. Per l’accesso non sono dovuti i tributi speciali di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 628”.
18 D.p.r. 29 settembre 1972, n. 633.
Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto
Articolo 66 Bis - Pubblicazione degli elenchi di contribuenti:
“Il Ministro delle finanze dispone annualmente la pubblicazione di elenchi di contribuenti nei cui confronti l’ufficio dell’imposta
sul valore aggiunto ha proceduto a rettifica o ad accertamento ai sensi degli articoli 54 e 55. Sono ricompresi nell’elenco solo quei
contribuenti che non hanno presentato la dichiarazione annuale e quelli dalla cui dichiarazione risulta un’imposta inferiore di
oltre un decimo a quella dovuta ovvero un’eccedenza detraibile o rimborsabile superiore di oltre un decimo a quella spettante. Negli elenchi deve essere specificato se gli accertamenti sono definitivi o in contestazione e deve essere indicato, in caso di rettifica,
anche il volume di affari dichiarato dai contribuenti.
Gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto formano [e pubblicano] annualmente per ciascuna provincia compresa nella propria circoscrizione un elenco nominativo dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione annuale ai fini dell’imposta sul valore
aggiunto, con la specificazione, per ognuno, del volume di affari. Gli elenchi sono depositati per la durata di un anno sia presso
lo stesso ufficio delle imposte, sia presso i Comuni interessati. Nel predetto periodo, è ammessa la visione e l’estrazione di copia degli elenchi nei modi e con i limiti stabiliti dalla disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi di cui agli articoli
22 e seguenti nella legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, dalla relativa normativa di attuazione, nonché da specifiche disposizioni di legge. Per l’accesso non sono dovuti i tributi speciali di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 648.
[La pubblicazione dell’elenco di cui al comma precedente avviene mediante deposito per la durata di un anno, ai fini della consultazione da parte di chiunque, sia presso l’ufficio che ha proceduto alla loro formazione sia presso i comuni interessati. Per la
consultazione non sono dovuti i tributi speciali di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 648.]
Gli stessi uffici formano, per le finalità di cui al secondo comma, inoltre, un elenco cronologico contenente i nominativi dei contribuenti che hanno richiesto i rimborsi dell’imposta sul valore aggiunto e di quelli che li hanno ottenuti.
Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, la comunicazione o diffusione, totale o parziale, con qualsiasi mezzo, degli elenchi
o di dati personali ivi contenuti, ove il fatto non costituisca reato, è punita con la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma da cinquemila euro a trentamila euro. La somma può essere aumentata sino al triplo quando risulta inefficace in ragione delle condizioni economiche del contravventore”.
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FOCUS
Tra l’altro l’art. 68 d.p.r. 600/73 prevede esplicitamente che non è considerata violazione del segreto d’ufficio la comunicazione dei dati contenuti nelle dichiarazioni dei redditi.
Certo l’introduzione del “codice della privacy”19 ha posto il problema del bilanciamento all’interno
dell’ordinamento giuridico tra il diritto di accesso, esplicitamente previsto sia dal d.p.r. 600/73 che
dal d.p.r. 633/72, e il diritto alla riservatezza.
In realtà, però, il Codice della privacy non ha imposto nella materia che ci riguarda limiti significativi.
Non essendo i dati fiscali né dati supersensibili, né dati sensibili20, valgono, per quel che li riguarda, i principi espressi dal Consiglio di Stato con decisione 5/97 dell’adunanza plenaria e cioè:
1) qualora l’esigenza di informazione e documentazione venga in rilievo per la cura o la difesa di
propri interessi giuridici, il diritto di accesso (e quindi anche la possibilità di estrarre documenti) deve prevalere rispetto all’esigenza di riservatezza del terzo;
2) qualora l’esigenza di informazioni e documentazione non nasca da un’esigenza di cura o difesa dei propri interessi non è possibile né ottenere copia dei documenti, né trascriverli, ma si
può prendere visione degli “atti”.
Dunque il coniuge ha diritto, se ne ha bisogno per agire in giudizio, ad estrarre gratuitamente copia di quel che risulta dagli elenchi previsti dai d.p.r. 600/1973 e 633/1972, depositati per un anno
presso l’Ufficio delle imposte e presso i Comuni interessati.
Purtroppo, con una serie di provvedimenti recenti21, l’Agenzia delle Entrate ha molto ridotto l’importanza di questa facoltà: interpretando davvero con grande disinvoltura l’art. 69 d.p.r. 600/73, nella parte in cui le attribuisce facoltà di stabilire “termini e modalità di formazione degli elenchi”, dall’anno d’imposta 2001 deposita infatti gli elenchi dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi senza l’indicazione dei redditi (salvo mettere poi on line, com’è stato di recente, tutti i dati!).
Ma rimangono ancora degli spazi che possono giustificare l’interesse ad esercitare il diritto di accesso.
1. L’elenco anche solo nominativo dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi consente di smascherare chi in giudizio non produce nulla asserendo di non esser tenuto
alla dichiarazione.
2. È possibile, consultando l’apposito elenco, verificare se vi sono accertamenti definitivi o in contestazione degli Ufficio delle imposte dirette e, in caso di rettifica, anche quali sono gli imponibili dichiarati dai contribuenti.
3. Può essere molto significativo anche l’elenco dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione annuale ai fini Iva con la specificazione per ognuno del volume di affari.
5. Indagini nel procedimento di separazione e di divorzio
Le due disposizioni sopra riportate (art. 155, 6 c.c., art. 5, 9 l. 898/70) introducono anche la possibilità che i redditi rimasti ignoti per la reticenza del coniuge che ne è titolare possano emergere a
seguito di indagini disposte dal giudice anche avvalendosi della Polizia tributaria.
In base al contenuto testuale delle norme di riferimento, l’attivazione della procedura è subordinata alla contestazione, di una delle parti, circa l’effettiva posizione reddituale e patrimoniale dell’altro coniuge o comunque all’insufficiente documentazione degli aspetti economici della vicenda.
19 D.lgs. n. 196/2003.
20 Dati “super sensibili” ex art. 60 d.lgs 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) sono quelli
“idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale”, dati “sensibili” ex art. 4 dello stesso Codice “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
21 29 settembre 2004, relativo agli anni d’imposta 2001-2002; 29 luglio 2005, relativo agli anni d’imposta 2003; 20 settembre 2006,
relativo agli anni d’imposta 2004.
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A tal proposito va sottolineata la discrezionalità di cui è titolare il giudice nell’esercizio del potere
di disporre indagini sui redditi.
Le norme citate, infatti, non impongono ovviamente al giudice in via diretta e automatica di disporre dette indagini ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimettono
allo stesso la valutazione di detta esigenza, nel rispetto del principio generale di cui all’art. 187
c.p.c. che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti e di ordinare quelli che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza.
In termini concreti, ogni qualvolta un coniuge contesti i redditi dichiarati dall’altro o le sostanze di
cui lo stesso è titolare, indicando elementi che facciano supporre la sussistenza di un livello economico superiore a quello apparente e, dunque, sia in discussione la prova dei dati rilevanti ai fini del riconoscimento e della determinazione dell’assegno di mantenimento, sia in sede di separazione che in sede divorzile, l’autorità giudiziaria dovrebbe esercitare il potere di disporre indagini
d’ufficio sui redditi.
Ove, invece, gli elementi dedotti e prodotti dalle parti consentano una soddisfacente ricostruzione
del fatto da provarsi, il giudice, seppur in presenza di contestazioni, non ha motivo di ricercare
nuovi mezzi istruttori22.
E, anche nell’ipotesi in cui il giudice ritenga di disporre indagini, non necessariamente deve richiedere l’intervento della Polizia tributaria.
La disposizione contenuta nella legge sul divorzio esplicitamente dice che lo fa “se del caso”; l’art.
155 c.c. dal punto di vista letterale è più perentorio, ma è chiaro che non può imporre al giudice
l’uso di uno strumento del quale questi non ritenga opportuno avvalersi.
Quanto all’oggetto dell’attività che il giudice può delegare, l’art. 155 comma 6 c.c. parla di indagini
“sui redditi e sui beni”, mentre l’art. 5 comma 9 l. div. parla di indagini “sui redditi, sui patrimoni
e sull’effettivo tenore di vita”.
Ma l’esperienza insegna
• che i giudici non fanno frequente ricorso alle indagine della Polizia tributaria;
• che quando vi fanno ricorso le indagini danno risultati inconsistenti anche perché, per quanto
collaborativo possa sentirsi un Ufficio dello Stato nei confronti di un altro Ufficio dello Stato,
difficilmente la Polizia tributaria riterrà di doversi far carico delle indagini delegategli dal giudice, come se rientrassero in una sua competenza istituzionale.
E così tra l’altro secondo l’interpretazione più convincente non potrebbe neppure essere: la Polizia tributaria, neppure se lo volesse, potrebbe compiere per conto del giudice atti di indagine e
cioè le vere e proprie verifiche fiscali che spettano alla Guardia di Finanza.
Ciò che il giudice può delegare è esclusivamente ciò che rientra nella propria sfera di attribuzioni
e, siccome il giudice non può svolgere i controlli o le ispezioni fiscali tipiche, non può neppure
delegarne l’effettuazione alla Guardia di Finanza.
D’altra parte, appartengono alla Polizia tributaria non solo vari ufficiali e agenti del Corpo della
Guardia di Finanza, ma anche altri organi dell’Amministrazione finanziaria a cui la legge demanda
i poteri per l’accertamento delle violazioni finanziarie (tipicamente l’Agenzia delle Entrate, quella
delle Dogane, etc.), con una competenza funzionale ratione materiae23.
22 “In tema di divorzio, l’art. 5, nono comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 non impone al tribunale in via diretta ed automatica di disporre indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso giudice la valutazione di detta esigenza, in forza del principio generale dettato dall’art. 187 c.p.c., che
affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e di ordinare gli altri che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza”, Cass. sez. I, 21.05.2002, n. 7435
23 L. 7 gennaio 1929, n. 4.
Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie.
Art. 31 - “1. Sono ufficiali della polizia tributaria gli ufficiali e il personale appartenente ai ruoli “ispettori” e “sovrintendenti” del
Corpo della guardia di finanza.
2. Sono agenti della polizia tributaria gli appartenenti al ruolo “appuntati e finanzieri” della Guardia di finanza.
Qualora una legge finanziaria attribuisca l’accertamento di determinati reati a funzionari ed agenti dell’Amministrazione, questi funzionari ed agenti acquistano nei limiti del servizio a cui sono destinati e secondo le attribuzioni ad essi conferite dalla legge, la qualità di ufficiali e, rispettivamente, di agenti della polizia tributaria. A cura dell’Amministrazione dalla quale dipendono,
la loro qualità è fatta constare a mezzo di una speciale tessera di riconoscimento”.
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FOCUS
Ne discende che il legislatore ha inteso permettere un’eventuale delega non soltanto ai reparti della Guardia di Finanza, ma a tutta la Polizia tributaria, nelle sue diverse articolazioni, militari o civili. Tra i soggetti che potranno essere chiamati a svolgere indagini, quindi, rientrano anche gli uffici locali dell’Agenzia delle Entrate.
D’altra parte la Polizia tributaria non potrebbe neppure compiere quelle valutazioni degli elementi acquisiti che invece può svolgere il giudice “Mentre al giudice infatti l’ordinamento riconosce
una simile facoltà la Polizia tributaria è un organo specialistico che non può – proprio sul piano
tecnico – formulare ipotesi.
Quanto guadagna una persona che viaggia a bordo di una Ferrari ed una proprietaria di un grande attico in un prestigioso quartiere di una grande città? E quanto frutta uno studio odontoiatrico?
O ancora quanto incidono nel tenore di vita i patrimoni della famiglia d’origine? Sono tutte domande alle quali la Guardia di Finanza non può dare una risposta tecnica, perché nessuna legge
stabilisce in questo senso dei parametri”24.
“Non c’è dubbio però che la Poliza tributaria possa invece consultare le banche dati come l’anagrafe tributaria, le camere di commercio, la banca data Inps, il Pra, gli archivi delle Forze di Polizia”25.
6. Richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c. e 213 c.p.c.
Nell’ambito del processo è sempre possibile, inoltre, ricorrere agli strumenti previsti dagli artt. 210
e 213 c.p.c.
Va però ricordato che l’art. 210 c.p.c. esige che la richiesta non abbia finalità esplorative, sicché
chi ha interesse ad utilizzare questo strumento deve indicare specificamente il documento che richiede.
Oltre che documenti fiscali potrebbe essere utile, naturalmente, acquisire dati concernenti aspetti
reddituali e patrimoniali del soggetto che non emergono dalle dichiarazioni fiscali: si pensi, ad
esempio, all’iscrizione a circoli esclusivi, alla frequenza di viaggi, alla disponibilità di autovetture o
natanti, collaboratori domestici e così via.
Quanto all’art. 213 c.p.c., esso può essere utilizzato invece soltanto con riguardo alla PA e, quindi,
con l’ampliarsi del fenomeno della privatizzazione lo strumento perde in parte la sua efficacia.
24 Pezzuto (Colonnello Guardia di Finanza, Roma), Le indagini reddituali e patrimoniali della Polizia Tributaria nei procedimenti di separazione e di divorzio, in Quaderni AIAF, 1/2006, 241 ss.
25 D’Andrea (Colonnello Guardia di Finanza, Milano), L’attività della Guardia di Finanza delegata dal giudice civile nei casi di
scioglimento del matrimonio, in Quaderni AIAF, 1/2006, 252.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
GLI ASSEGNI PERIODICI CORRISPOSTI AL CONIUGE SEPARATO O DIVORZIATO:
IL TRATTAMENTO FISCALE
Giampiero Perusi
Dottore commercialista, Verona
Indeducibile la parte destinata al mantenimento dei figli: se la sentenza non distingue, si deducono nel limite
del 50%. Indeducibili quelli una tantum, i contributi e le altre utilità.
1. Gli assegni periodici
Gli assegni periodici corrisposti al coniuge, con esclusione di quelli destinati al mantenimento dei
figli, in conseguenza di separazione legale, di divorzio o annullamento del matrimonio, sono considerati redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente ai sensi dell’articolo 50, 1° comma, lettera i)
del TUIR.
Seguendo un criterio speculare, il coniuge percipiente li indica nella propria dichiarazione dei redditi mentre il coniuge che li corrisponde li porta in deduzione dal proprio monte redditi ai sensi
dell’art. 10, comma 1, lettera c), conseguendo pertanto un risparmio in termini fiscali.
Detti assegni periodici vanno dichiarati nella misura in cui risultano da provvedimento dell’autorità giudiziaria (la nota n. 984/E del luglio 1997 ha precisato che gli eventuali arretrati degli assegni
per alimenti vanno sempre a tassazione ordinaria e quindi inclusi nella denuncia unitamente alle
altre eventuali tipologie reddituali).
Gli assegni periodici corrisposti al coniuge separato, per il solo mantenimento dei figli, non sono
invece soggetti ad imposizione in quanto estranei alla previsione dell’art. 10, comma 1, lettera c)
del TUIR Se la sentenza non distingue la quota dell’assegno periodico destinato al coniuge da quella destinata ai figli, l’assegno si considera destinato al coniuge per il 50%.
Si ricorda che le somme versate al coniuge separato, in via provvisoria, in base all’ordinanza giudiziale di cui all’art. 708 del codice di procedura civile, sono equiparabili ai fini dichiarativi agli assegni periodici corrisposti al coniuge separato per provvedimento dell’autorità giudiziaria.
2. Gli assegni una tantum
Più volte oggetto d’attenzione da parte della giurisprudenza, atteso che la normativa vigente utilizza il termine “periodici” per disciplinare gli assegni divorzili, gli assegni una tantum meritano un
discorso a parte.
La Suprema Corte di Cassazione intervenendo sull’argomento (sentenza n. 16462 del 3 maggio
2002) ha posto un punto fermo ritenendo indeducibile l’assegno di divorzio una tantum in quanto liberamente concordato dai coniugi per definire, una volta per tutte, i loro rapporti per mezzo
di una attribuzione patrimoniale, in aderenza al dettato legislativo che limita la deducibilità ai soli
assegni periodici, cui va invece riconosciuta una valenza di natura reddituale.
82
FOCUS
L’indeducibilità del versamento una tantum è stata ribadita dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 50/E del 12 giugno 2002.
Corrispondentemente, il coniuge percipiente nulla deve dichiarare in merito agli assegni percepiti
di tale natura.
3. I contributi e le altre utilità a favore del coniuge separato
I contributi e le altre utilità a favore del coniuge separato, diversi dall’assegno periodico, sono assolutamente indeducibili.
Gli unici assegni ad essere deducibili sono quelli alimentari e/o di contributo al mantenimento coniugale e non altri, per espressa disposizione legislativa: l’elencazione non è estensibile per analogia ad altre tipologie di spesa.
Restano pertanto fuori dalla dichiarazione dei redditi, ad esempio, i contributi forfettari alle spese
per servizi, le spese condominiali relative all’appartamento occupato dal coniuge separato pagate
direttamente al condominio, le spese di manutenzione e di arredamento dell’appartamento medesimo, le rate di mutuo pagate dal coniuge che rinuncia all’assegno di mantenimento e gli altri oneri aventi natura similare.
4. Il trattamento fiscale dell’assegno divorzile
Il trattamento fiscale dei redditi costituiti da assegni di mantenimento è piuttosto complesso e non
immediatamente intelliggibile a causa dell’intricato meccanismo di funzionamento della detrazione
fiscale prevista dalla legge per tale tipologia di reddito.
La Legge finanziaria 2008, con apposita modifica all’art. 13 del TUIR ha disposto che se alla formazione del reddito complessivo concorrono gli assegni periodici corrisposti dall’ex coniuge va attribuita una detrazione di misura pari a quella prevista dall’art. 13, comma 3, del TUIR, per i titolari
di pensione di età inferiore ai 75 anni.
Detta detrazione non è cumulabile con le altre previste per spese di produzione e non va rapportata ad alcun periodo dell’anno.
Trattasi di una detrazione d’imposta decrescente all’aumentare del reddito complessivo (al netto
dell’abitazione principale e relative pertinenze) strutturata come di seguito schematizzato:
Reddito complessivo
(al netto dell’abitazione principale e
relative pertinenze)
Fino a € 7.500,00
Detrazione per reddito da pensione (soggetti età inferiore a 75 anni)(***)
€ 1.725,00(**)
oltre € 7.500,00 fino a € 15.000,00
€ 1.255,00 + [€ 470,00 x € 15.000,00 - reddito complessivo(*)](***)
€ 7.500,00
oltre € 15.000,00 fino a € 55.000,00
€ 1.255,00 x [€ 55.000,00 - reddito complessivo(*)](***)
€ 40.000,00
oltre € 55.000,00
€ 00,00
(*) Secondo quanto disposto dalla Finanziaria 2008 si intende reddito complessivo al netto della deduzione per abitazione principale e relative pertinenze.
(**) La deduzione spettante non può essere inferiore a € 690,00.
(***) Come precisato dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 15/2007 gli importi fissati dalla norma di € 1.255,00 e di € 470,00
devono essere riportati al periodo di erogazione della pensione dell’anno.
(****) Il risultato dei rapporti si assume solo se positivo e nelle prime 4 cifre decimali.
83
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
Se si ipotizza che l’assegno divorzile sia l’unico reddito del percipiente, da quanto sopra evidenziato se ne deduce che per assegni di importo inferiore o pari ad € 7.500 la detrazione riesce ad assorbire completamente il carico fiscale; nulla deve pertanto essere pagato per imposte a conguaglio;
man mano che l’assegno supera i 7.500 euro aumenta il carico fiscale mentre la detrazione diminuisce sicché il contribuente si troverà costretto a versare all’erario quanto gli risulta a differenza.
Esempio - Assegno corrisposto al coniuge (importo su base annua € 7.500)
Il contribuente incassa un assegno divorzile pari ad € 7.500,00.
Il suo carico fiscale sulla base delle aliquote vigenti è pari ad € 7.500,00 x 23% = 1.725,00.
La detrazione spettante per redditi fino a 7.500 euro (vedi schema a pag. 83) è pari ad € 1.725,00.
In questo caso il contribuente non verserà nulla all’erario.
Esempio - Assegno corrisposto al coniuge (importo su base annua € 14.000)
Il contribuente incassa un assegno divorzile pari ad € 14.000,00.
Il suo carico fiscale sulla base delle aliquote vigenti è pari ad € 14.000,00 x 23% = 3.220,00.
La detrazione spettante è pari a:
[€ 470,00 x (€ 15.000,00 - € 14.000,00)]
€ 1.255,00 + –––––––––––––––––––––––––––––––––– = € 1.317,66 arrot. ad € 1.318,00
€ 7.500,00
In questo caso il contribuente si troverà a dover versare all’erario la differenza pari ad € 1.902,00.
Esempio - Assegno corrisposto al coniuge (importo su base annua € 22.300)
Il contribuente incassa un assegno divorzile pari ad annui € 22.300,00.
Il suo carico fiscale sulla base delle aliquote vigenti è pari a:
€ 15.000 x 23% = € 3.450,00
€ 7.300 x 27% = € 1.971,00
–––––––––––
= € 5.421,00
La detrazione spettante è pari a:
(€ 55.000,00 - € 22.300,00)
€ 1.255,00 x ––––––––––––––––––––––– = € 1.025,96 arrot. ad € 1.026,00
€ 40.000,00
In questo caso il contribuente si troverà a dover versare all’erario la differenza pari ad € 4.395,00.
5. Le detrazioni per figli a carico
Il complesso sistema delle detrazioni si complica ulteriormente in caso di presenza di figli fiscalmente a carico.
Si rammenta che sono considerati fiscalmente a carico del dichiarante i figli, anche se naturali riconosciuti, adottivi, affidati o affiliati, che non abbiano superato un reddito superiore al limite annuo
di € 2.840,51.
La Legge finanziaria 2007 ha introdotto, a partire dal periodo d’imposta 2007, un sistema di detrazioni per figli a carico, variabili in funzione:
• del reddito complessivo del soggetto dichiarante;
• delle “caratteristiche del figlio”;
• del numero dei figli fiscalmente a carico.
Per le seguenti casistiche sono attribuiti sgravi di maggior ammontare:
• numero elevato di figli;
• figli portatori di handicap;
• figli di età inferiore ai 3 anni;
• casi di assenza del coniuge (soggetto vedovo, ragazza madre eccetera).
84
FOCUS
Detrazione teorica per il figli a carico
n° figli
detrazione base
minore di tre anni
1
800,00
900,00
2
800,00
900,00
3
800,00
900,00
almeno 4
1.000,00
1.100,00
portatore handicap
(art. legge n. 104/1992)
• 1.020,00 se maggiore di tre anni
• 1.120,00 se minore di tre anni
• 1.020,00 se maggiore di tre anni
• 1.120,00 se minore di tre anni
• 1.020,00 se maggiore di tre anni
• 1.120,00 se minore di tre anni
• 1.220,00 se maggiore di tre anni
• 1.120,00 se minore di tre anni
Le detrazioni in esame sono tra loro alternative, sicché se per un figlio si verificano contemporaneamente più condizioni, andrà riconosciuta la detrazione più favorevole.
Inoltre le detrazioni sopra riportate devono intendersi riferite a ciascun figlio fiscalmente a carico.
Tuttavia, per ottenere la detrazione effettivamente spettante, è necessario operare uno specifico
rapporto, trovando innanzitutto il coefficiente “D”, il cui valore dipende, oltre che dal reddito complessivo del contribuente, dal numero di figli fiscalmente a carico.
Nel caso in cui risulti fiscalmente a carico un solo figlio, il coefficiente D si calcola considerando il
seguente rapporto:
€ 95.000,00 - reddito complessivo(*)
D= ––––––––––––––––––––––––––––––––––
€ 95.000,00
Diversamente se vi sono almeno due figli fiscalmente a carico, è previsto che l’importo di €
95.000,00 sia aumentato di € 15.000,00 per ogni figlio successivo al primo.
Pertanto il coefficiente D si calcola considerando il seguente rapporto:
[(n. figli - 1) x 15.000,00] + € 95.000,00 - reddito complessivo(*)
D= –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
[(n. figli - 1) x 15.000,00] + € 95.000,00
(*) Secondo quanto disposto dalla Legge finanziaria 2008 per reddito complessivo si intende quello al netto dell’abitazione principale e relative pertinenze.
La Legge finanziaria 2008 ha introdotto una ulteriore detrazione a favore delle famiglie numerose.
Se ai coniugi spetta la detrazione ordinaria per figli a carico, in presenza di un numero di figli superiore a tre è riconosciuta una ulteriore di € 1.200,00.
Detta detrazione è:
• autonoma rispetto alla detrazione “ordinaria”;
• da considerarsi a valore intero e spetta anche se l’esistenza di almeno quattro figlio si è verificata solo per una parte dell’anno.
Essa spetta ai genitori in proporzione agli affidamenti stabiliti dal giudice.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
Esempio - Contribuente con due figli a carico
Contribuente con reddito complessivo pari ad € 35.000,00 e due figli (maggiori di tre anni) fiscalmente a carico.
Detrazione potenziale: € 800,00 x 2 = € 1.600,00
Detrazione effettiva:
[(2-1) x 15.000,00] + € 95.000,00 - € 35.000,00
D=
––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
[(2 - 1) x 15.000,00] + € 95.000,00
110.000 - 35.000
D=
––––––––––––––
110.000
D=
68,1818...% = 68,18%
Detrazione spettante: € 1.600,00 x 68,18% = € 1.090,88 arrotondato ad € 1.091,00.
6. Ripartizione tra i genitori della detrazione per figli a carico
La Legge finanziaria 2007, intervenendo a regolamentare la ripartizione della detrazione per figli a
carico ha disposto che in caso di genitori legalmente ed effettivamente separati ovvero in caso di
annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio:
• la detrazione in mancanza di accordo spetta al genitore affidatario al 100%;
• nel caso di affidamento congiunto o condiviso, la detrazione è ripartita in mancanza di accordo
nella misura del 50% tra i genitori.
La locuzione “in mancanza di accordo” dovrebbe voler significare che, invece, in caso di presenza
di accordo, i genitori separati dovrebbero poter utilizzare le regole previste per i genitori coniugati
(50% a ciascun genitore o 100% al genitore con reddito più elevato).
La Legge finanziaria 2007 è inoltre intervenuta a regolamentare la ripartizione della detrazione nell’ipotesi in cui i genitori legalmente ed effettivamente separati, non possano beneficiare appieno della detrazione spettante per figli a carico.
In particolare se:
• il genitore affidatario, ovvero
• in caso di affidamento congiunto, uno dei genitori affidatari
non può beneficiare (anche parzialmente) per incapienza d’imposta, della detrazione per figli a carico, la stessa è attribuita per intero all’altro genitore.
Quest’ultimo è tuttavia tenuto, salvo diverso accordo, a riversare all’altro genitore l’intera detrazione, ovvero, in caso di affidamento congiunto, il 50% della stessa.
7. Oneri sostenuti nell’interesse dei familiari
In linea generale le detrazioni o deduzioni fiscali per talune tipologie di spesa spettano al contribuente che li ha effettivamente sostenute per conto proprio e che quindi risulta intestatario del documento di spesa.
Il legislatore ha tuttavia previsto che taluni oneri possono essere detratti/dedotti anche se sostenuti nell’interesse dei familiari così come individuati all’art. 433 del Codice civile.
Detti oneri possono essere distinti a seconda che si tratti di spese sostenute nell’interesse di familiari:
• fiscalmente a carico;
• fiscalmente non a carico.
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FOCUS
Spese sostenute per familiari fiscalmente a carico
Oneri che danno diritto ad una detrazione d’imposta
tra cui si segnalano a titolo indicativo:
• Spese sanitarie
• Spese per veicoli adattati per portatori di handicap
• Spese acquisto cani guida
• Assicurazioni sulla vita e infortuni
• Spese di istruzione
• Spese per addetti all’assistenza personale
• Spese per attività sportive praticate da ragazzi
• Spese per locazioni studenti universitari fuori sede
• Spese frequenza asili nido
Oneri che danno diritto ad una deduzione dal reddito complessivo
tra cui:
• Contributi previdenziali e assistenziali
• Previdenza complementare
• Contributi a fondi integrativi del SSN
Attribuzione della detrazione o deduzione spettante
Il criterio generale prevede che la detrazione o deduzione spetti al contribuente al quale è intestato il documento di spesa.
Se il documento di spesa comprovante gli oneri sostenuti per i figli è intestato:
• ad uno dei genitori, la detrazione/deduzione spetta per intero a questo;
• al figlio, le spese vanno ripartite al 50% tra i due genitori.
È tuttavia ammessa anche una attribuzione diversa tra i genitori purché sul documento di spesa sia
annotata la percentuale di divisione. Ad esempio se un genitore annota sul documento di spesa intestato al figlio di averla sostenuta interamente, la detrazione/deduzione spetta a quest’ultimo per
il 100%.
Spese sostenute per familiari fiscalmente non a carico
È prevista la possibilità di portare in detrazione/deduzione anche alcune tipologie di spese sanitarie sostenute nell’interesse di familiari non a carico:
Detrazioni:
• Spese sanitarie per familiari affetti da patologie che danno diritto all’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria pubblica;
• Spese per addetti all’assistenza personale.
Deduzioni:
• Spese mediche e di assistenza specifica dei portatori di handicap.
8. Conclusioni
Da tutto quanto sopra esposto risulta chiaro che la tassazione in capo al contribuente legalmente
ed effettivamente separato che percepisce assegni periodici dall’ex coniuge dipende dall’effetto
combinato di diversi fattori tra cui:
• il suo reddito complessivo (incluso l’eventuale assegno divorzile);
• se risulta “genitore unico affidatario” dei figli o se “affidatario congiunto/condiviso”;
• dal numero dei figli fiscalmente a carico;
• dalle “caratteristiche dei figli” (età inferiore o superiore ai 3 anni, presenza di handicap...).
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
Detto ciò, ipotizzando che per il contribuente:
• l’assegno corrisposto dall’ex coniuge sia l’unica fonte di reddito;
• risulti affidatario unico dei figli;
• i figli siano tutti di età superiore ai tre anni
con gli esempi che seguono, considerando l’effetto combinato delle detrazioni per tipologia di reddito e quelle per figli a carico, possiamo individuare in maniera abbastanza precisa l’entità del reddito cui corrisponde un effetto fiscale netto pari a zero in capo al coniuge percipiente.
Esempio n. 1 - Assegno pari ad € 9.945,00, figli a carico 1 con età superiore ai 3 anni, genitore
unico affidatario
Su un reddito di € 9.945,00 ad un’aliquota pari al 23% (aliquota relativa
al primo scaglione) corrisponde un’imposta pari a
€ 2.287,00
La detrazione per il figlio a carico (calcolata con il meccanismo sopra
illustrato) ammonta a
€ 716,00
La detrazione per redditi da assegni di mantenimento è pari a
€ 1.572,00
–––––––––
Imposta a debito del coniuge percipiente
0,00
Esempio n. 2 - Assegno pari ad € 12.350,00, figli a carico 2 con età superiore ai 3 anni, genitore
unico affidatario
Su un reddito di € 12.350,00 ad un’aliquota pari al 23% (aliquota relativa
al primo scaglione) corrisponde un’imposta pari a
€ 2.841,00
La detrazione per i due figli a carico (calcolata con il meccanismo sopra
illustrato) ammonta a
€ 1.420,00
La detrazione per redditi da assegni di mantenimento è pari a
€ 1.421,00
–––––––––
Imposta a debito del coniuge percipiente
0,00
Esempio n. 3 - Assegno pari ad € 14.730,00, figli a carico 3 con età superiore ai 3 anni, genitore
unico affidatario
Su un reddito di € 14.730,00 ad un’aliquota pari al 23% (aliquota relativa
al primo scaglione) corrisponde un’imposta pari a
€ 3.388,00
La detrazione per i tre figli a carico (calcolata con il meccanismo sopra
illustrato) ammonta a
€ 2.117,00
La detrazione per redditi da assegni di mantenimento è pari a
€ 1.272,00
–––––––––
Imposta a debito del coniuge percipiente
0,00
I livelli reddituali cui corrisponde un’imposta netta pari a zero non mutano significativamente nel
caso i figli (o alcuni di loro) fossero di età inferiore ai 3 anni.
Gli stessi livelli, invece, si ridurrebbero nel caso di affidamento congiunto, ipotesi nella quale al
coniuge destinatario degli assegni spetterebbe una detrazione per figli a carico del 50%.
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CONTRIBUTI
PROPOSTA PER UNA “LETTURA” DEL NUOVO ART. 709 TER C.P.C.
Bruno de Filippis
Consigliere della Corte d’Appello di Salerno
Allorché viene coniata una nuova norma, gli interpreti sono talora catturati dall’idea di doverla riplasmare attraverso l’attività interpretativa, elevando così quest’ultima ad un livello simile a quello
dell’attività legislativa.
A maggior ragione ciò avviene allorché la norma presenta carenze di formulazione oppure, come
più spesso avviene, è frutto di emendamenti, modifiche od interpolazioni intervenute nel corso dei
lavori parlamentari.
L’interprete tende a divenire, a sua volta, “creatore” del precetto normativo. In tal modo, egli dimentica che, in primo luogo, il suo compito è quello di compiere una lettura della disposizione,
privilegiando le soluzioni più semplici e immediate.
Applicando questa metodologia al nuovo articolo 709 ter, si può con immediatezza rilevare che si
tratta di una norma semplice, che non ha bisogno di essere stravolta per poter essere applicata e
che contiene in sé la soluzione di molti problemi che sono stati sollevati, problemi che alcuni hanno invece cercato di risolvere con artificiose costruzioni, se non con interpretazioni fantasiose.
In primo luogo, si impone una lettura unitaria dell’art. 709 ter che tenga conto della successione
dei suoi capoversi.
Il primo comma del novellato articolo 709 ter descrive l’ambito applicativo della norma e detta norme in ordine alla competenza; il secondo descrive il rito da seguire e traccia un “sottocerchio” relativo alle ipotesi che, pur rientrando nella generale previsione del primo comma, presentano qualcosa in più (gravi inadempienze, pregiudizio o ostacolo), prevedendo le specifiche conseguenze
di tale seconda situazione; il terzo comma è dettato in modo specifico per le impugnazioni.
Questa lettura “semplice” della norma è stata stravolta da alcune interpretazioni, secondo le quali
le indicazioni specifiche contenute nel secondo comma costituirebbero invece una fattispecie autonoma, suscettibile di sovrapporsi e interagire con la prima. In tal modo l’art. 709 ter è stato arbitrariamente duplicato, creando due fattispecie entrambe monche e prive di integrale disciplina.
Allo stesso modo, altri interpreti hanno ignorato il significato letterale e sistematico della norma
nell’esaminare la questione dell’applicabilità della nuova disposizione alle controversie di carattere economico oppure, laddove il legislatore ha espressamente negato la possibilità di costruire nuove forme di impugnazione, hanno ipotizzato l’utilizzabilità di esse.
La lettura dell’art. 709 ter, che si propone, cerca di essere fedele ai princìpi appena espressi, sforzandosi di dare un senso logico a ciascuna disposizione, nel modo più semplice e diretto possibile.
Preliminare appare tuttavia un’analisi dello scopo per il quale la norma è sorta.
È nozione condivisa da ogni operatore del diritto il fatto che, prima della novella normativa, i provvedimenti del giudice della separazione e del divorzio, e in primo luogo i provvedimenti presidenziali, spesso rischiavano di restare ineseguiti per mancanza di strumenti specifici ed efficaci, idonei
ad assicurare la loro esecutività.
La dottrina si interrogava sulla possibilità di applicare, ai procedimenti esecutivi riguardanti i minori, le norme relative all’esecuzione degli obblighi di fare o di consegna e rilascio oppure ancora le
disposizioni relative all’esecuzione in via breve.
Ciascun procedimento risultava inadeguato e non in grado di far fronte al fatto che il minore “da
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
riconsegnare” non era un oggetto, ma una persona, e poteva assumere comportamenti attivi, in
grado di presentare problemi non risolvibili con il meccanismo attivato.
Alla ricorrente domanda, rivolta ai giudici che emanavano i provvedimenti, relativa al come fare
per farli effettivamente eseguire, l’ordinamento (e con esso i giudici interpellati) rischiavano di rimanere senza risposta.
Né accorreva in soccorso in diritto penale, in quanto la possibilità di attivare un procedimento ex
art. 388 c.p. (salvo che non ricorressero i presupposti di cui agli artt. 573 e 574 c.p.), sottoponendo la vicenda ai tempi e alle vicende del giudizio penale, non risolveva affatto, nell’immediato, il
problema del rispetto di quanto disposto dal magistrato.
Ulteriori problemi esistevano in ordine alla competenza, potendo essere invocato l’intervento di autorità giudiziarie diverse, con conseguenti ritardi, sovrapposizioni e conflitti.
L’art. 709 ter è stato scritto per far fronte a tali problemi. Questa circostanza deve essere tenuta presente nel momento dell’interpretazione, per consentire di comprendere in modo adeguato la ratio
della norma e tener conto di essa, tutte le volte che l’interpretazione stessa lo richieda.
L’art. 709 ter è lo strumento utile per evitare che i provvedimenti dettati dal giudice, in particolar
modo al momento della prima comparizione, restino “lettera morta” in questo delicato settore, che
coinvolge interessi primari, come quello dei minori, e suscita situazioni di forte impatto emotivo,
legate al rapporto genitoriale e alle conseguenze della conflittualità coniugale su di esso.
Ci si augura che, nelle situazioni che coinvolgano i minori, i genitori siano capaci di distinguere tra
rancori e senso di conflittualità, che possono avere nei confronti dell’ex partner, ed interesse dei
medesimi. Ove ciò non avvenga, deve tuttavia esservi uno strumento valido per raggiungere ugualmente lo scopo.
Deve perciò essere completamente disattesa la tesi secondo cui la presentazione di un ricorso ex
art. 709 ter c.p.c. sia un atto che “crei” nuova conflittualità.
Al contrario, il ricorso a tale norma serve ad assicurare che la conflittualità, la quale deriva da abusi, inottemperanze e assenza di soluzioni giudiziarie, sia evitata e controllata.
Allorché un genitore consapevolmente e reiteratamente violi le disposizioni impartite, anche in modo non immediatamente visibile e non apparentemente grave (così da non giustificare provvedimenti di altra natura) deve esservi un modo per intervenire e ristabilire la legalità. La legalità, il rispetto delle regole, e la tranquillità, per ciascun “contendente” che ciò comporta, costituiscono un
adeguato rimedio contro la conflittualità. L’esistenza della possibilità di eludere i provvedimenti del
giudice è invece idonea ad incentivarla.
Si noti che l’art. 709 ter è un rimedio particolarmente duttile.
Esso è previsto per sanare situazioni di gravi inadempienze, ma può essere attivato anche a prescindere da esse, per l’esistenza di contrasti di ogni tipo tra i genitori, nell’ambito dell’interpretazione e dell’esecuzione dei provvedimenti in vigore.
La lettura unitaria di tale norma consente di comprendere che il primo strumento per risolvere le
controversie è costituito proprio dalla comparizione delle parti.
Questo atto ha valore anche simbolico, in quanto consente ad esse di aver presente che il giudice
è tenuto, non solo ad emettere i provvedimenti, ma anche a curare la loro esecuzione, nonché consente al giudice stesso di chiarire, interpretare, specificare i propri provvedimenti e far comprendere, ove opportuno, alle parti, la necessità che essi siano rispettati.
Alcuni commentatori hanno sostenuto che l’ammonimento previsto dall’art. 709 ter sarebbe una
sanzione “inutile” o addirittura un mezzo per vanificare l’istanza di parte e l’intero procedimento,
consentendo al giudice di chiudere il tutto con un intervento puramente esortativo e privo di pratica valenza.
Affermare ciò significa non aver compreso che l’art. 709 ter ha funzione soprattutto preventiva: più
che punire, esso intende consentire il raggiungimento del risultato, consistente nella corretta esecuzione delle disposizioni impartite e, quindi, poiché esse dovrebbero garantire la piena realizzazione dell’interesse del minore, nella corretta realizzazione del predetto interesse.
Lo scopo preventivo-dissuasivo della norma richiede una corretta esecuzione della funzione di ammonimento, che risulta pertanto fondamentale.
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CONTRIBUTI
La sanzione da applicare alla parte è un mezzo e non un fine. L’ammonimento in ordine alla possibilità della sanzione costituisce un metodo adeguato per realizzare tale funzione strumentale del
precetto di legge.
A ciò deve aggiungersi che, allorché impartisce l’ammonimento, il giudice non dovrebbe chiudere
il sub procedimento instaurato, bensì rinviare ad altra udienza per verificare l’avvenuta eliminazione spontanea o la non ripetizione del comportamento inadempiente.
Ciò premesso, passando alla lettura della norma, si osserva che l’art. 709 ter si riferisce a tutte le
“controversie” insorte tra i genitori.
Il termine “controversia” consente di ricomprendere ogni questione, di diritto o di fatto, che sia sorta tra i genitori in relazione all’esecuzione dei provvedimenti in vigore.
Sono da respingere le interpretazioni restrittive che vorrebbero negare l’applicabilità dell’art. 709
ter nel caso in cui i provvedimenti in vigore non siano contestati in diritto, ma vengano meramente elusi in punto di fatto.
Il secondo rilievo letterale che la norma determina consiste nella necessità che la controversia sia
insorta “tra i genitori”. Restano perciò escluse le controversie nate tra uno dei genitori e terzi (nonni, parenti, istituto scolastico).
Il primo comma dell’art. 709 ter, come si è detto, è l’unica disposizione dettata per determinare
l’ambito di applicazione della norma. Quest’ultimo resta pertanto circoscritto alle controversie relative all’esercizio della potestà e alle modalità dell’affidamento1.
Rientrano nella previsione tutte le controversie relative al modo in cui il minore deve essere istruito, educato e curato, nonché tutte le controversie relative al modo in cui il minore deve relazionarsi con ciascun genitore, incontrarlo e vivere il proprio tempo con esso.
Restano escluse le controversie relative al pagamento dell’assegno di mantenimento per il minore.
L’esclusione si desume, sia dal chiaro tenore letterale della norma, sia dal fatto che, in ordine ad
esse, la legge 54 ha previsto un articolo ad hoc, con disposizioni specifiche.
Le disposizioni del primo comma relative alla competenza, accolgono, come si è detto, il principio
secondo cui il giudice che ha emanato i provvedimenti è l’autorità più idonea a curare la loro corretta esecuzione. Egli, infatti, può comprendere con immediatezza quali parti dei provvedimenti hanno
determinato problemi e quale sia la via migliore, nel rispetto dell’interesse del minore, per risolverli.
Inoltre, il giudice del provvedimento è idoneo a rispondere alle istanze proposte in “tempo reale”,
in quanto l’esistenza di un procedimento in corso pone le premesse per eliminare i tempi tecnici
e burocratici, normalmente necessari per coinvolgere e far intervenire un altro organo giudiziario.
Il riferimento al procedimento di cui all’art. 710 c.p.c. crea, dal punto di vista interpretativo, difficoltà, in quanto non si comprende con immediatezza se esso abbia istituito o meno una nuova figura di ricorso, ai sensi del combinato disposto tra l’art. 709 ter e l’art. 710 oppure richieda comunque la pendenza di un ricorso ai sensi di quest’ultima norma.
La prima soluzione è preferibile. Di conseguenza, la competenza per i procedimenti in corso ex
art. 710 c.p.c. resta invariata (senza che l’ingresso in essa di una domanda ex art. 709 ter ne determini spostamento), mentre la competenza per un nuovo ricorso (709 ter e 710) si radica nel senso previsto dalla norma.
Il secondo comma dell’art. 709 ter detta le formalità in rito2.
1
Per la soluzione di controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il Tribunale del
luogo di residenza del minore.
2 A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti
che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un
massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
La procedura si svolge in modo semplificato. Per la sua instaurazione è necessaria una richiesta
scritta, ma la stessa può anche (nel caso di procedimento in corso) essere espressa nel verbale di
causa.
Il secondo comma prevede anche l’ipotesi di “gravi inadempienze e atti pregiudizievoli”. Si tratta
di un’ipotesi ulteriore, non indispensabile per attivare la norma.
Ove vi sia un mero contrasto tra i genitori, il giudice può intervenire (dopo essere stato sollecitato ai sensi dell’art. 709 ter), per correggere, chiarire, modificare i provvedimenti). Ove, oltre al contrasto, vi siano anche inadempienze idonee a danneggiare il minore, il giudice può adottare le misure sanzionatorie previste.
Per quanto riguarda le misure, la competenza, nel caso di procedimento in corso, compete al giudice istruttore e non al Collegio. Ciò può desumersi da ragioni logiche, legate alla ratio della norma e alle esigenze di speditezza, e da ragioni formali, legate al fatto che la norma considera unitariamente tutte le misure e, quindi, poiché sia la modifica dei provvedimenti che l’applicazione di
una sanzione pecuniaria (si veda l’art. 179 c.p.c.) competono al giudice istruttore, anche le altre
possibilità devono essere attribuite, per esigenza di unitarietà, al medesimo.
Per quanto riguarda la natura giuridica dei provvedimenti previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art.
709 ter, si deve ritenere che costituiscano misure coercitive indirette, vale a dire, sanzionino l’inadempimento di un’obbligazione civile, allo scopo di indurre l’obbligato ad adempiere.
Essi non rientrano nel sistema previsto dagli artt. 2043 e 2059 c.c., ma introducono, nel nostro codice, misure analoghe ai “danni punitivi” esistenti in ordinamenti stranieri.
Ciò significa che la misura dei danni da risarcire non dipende solo dal pregiudizio subìto, ma anche, se non principalmente, dall’entità della violazione.
L’espressione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 709 ter, secondo cui “i provvedimenti assunti
dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari” significa che il legislatore non
ha inteso creare nuovi strumenti di impugnazione e che, quindi, questa operazione non può essere compiuta dall’interprete.
I provvedimenti assunti nel corso di un procedimento ex art. 710 c.p.c. potranno essere impugnati dinanzi alla Corte d’Appello, ai sensi dell’art. 739 c.p.c.
I provvedimenti emessi nel corso del giudizio di separazione o di divorzio saranno invece impugnabili, ex art. 178, con richiesta di riesame da parte del Collegio, nel momento della decisione finale da parte di tale organo e, successivamente, con appello avverso la sentenza che abbia respinto o ignorato la richiesta.
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CONTRIBUTI
IL PROCEDIMENTO EX ART. 709 TER C.P.C.
Marina Marino
Avvocato, Foro di Roma
Prima di procedere all’esame delle caratteristiche di detto procedimento è utile chiarire come lo stesso sia, solo dopo un certo lasso di tempo dall’entrata in vigore della norma, utilizzato come strumento utile anche ad affrontare gli inadempimenti di ordine economico da parte dell’obbligato.
1. La natura del procedimento ex art. 709 ter c.p.c. La competenza
Il legislatore, quando ha modificato l’art. 155 c.c. con la legge 54/2006 e ha introdotto l’affidamento condiviso quale forma preferenziale di affidamento dei figli, si è reso conto che questa norma
avrebbe potuto essere all’origine di seri conflitti tra i due affidatari al punto che ha introdotto una
nuova norma nel codice di procedura civile e precisamente l’art. 709 ter c.p.c. allo scopo di fornire ai cittadini la “soluzione delle controversie e procedimenti in caso di inadempienze o violazioni”.
Va anzitutto chiarito come detto articolo sia applicabile anche alle ipotesi di affidamento esclusivo,
proprio perché la novella ha fissato che la regola alla quale i genitori devono attenersi, a prescindere dal tipo di affidamento, sia quella dell’accordo e, di conseguenza, nei casi in cui i genitori
non riescano a raggiungere un accordo in ordine alle decisioni da assumere per i figli minori, questi dovranno ricorrere al giudice e lo faranno con le modalità di cui all’art. 709 ter c.p.c., ciò ovviamente fino a quando il contrasto tra i genitori sia riconducibile ad un conflitto sulle modalità di
esercizio della potestà o sulle modalità dell’affidamento condiviso.
A distanza di quasi tre anni dall’entrata in vigore della norma è necessario interrogarsi se il legislatore con questa normativa abbia effettivamente dotato i cittadini di uno strumento in sede civile
utile a risolvere le controversie nelle ipotesi di inadempienze e ai contrasti insorti tra genitori:
1) che siano parti di un giudizio di separazione giudiziale o consensuale ancora pendente;
2) che siano già separati;
3) che siano parti di un giudizio di divorzio ancora pendente;
4) che siano già divorziati;
5) che siano parti di un giudizio di invalidità del matrimonio pendente di fronte al giudice ordinario e non di fronte al Tribunale ecclesiastico;
6) che abbiano già ottenuto un giudicato dichiarativo dell’invalidità del matrimonio;
7) ai genitori che non siano coniugati.
In ordine alla natura del procedimento ex art. 709 ter c.p.c. va detto come parte della dottrina lo
consideri come appartenente alla volontaria giurisdizione. Al riguardo è necessario però interrogarsi sulla circostanza che il presupposto della realizzazione dell’interesse del minore è costituito dalla soluzione dei conflitti dei genitori e sull’ulteriore circostanza che una delle domande proponibili in questo procedimento è quella di vedersi riconosciuto il risarcimento del danno derivante dal
comportamento doloso o colposo di uno dei due genitori. Non si comprende pertanto come si possa negare al procedimento ex art. 709 ter c.p.c. natura contenziosa.
La lettura del primo comma dell’art. 709 ter c.p.c. in ordine all’individuazione del giudice compe-
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tente a conoscere di detto procedimento fa comprendere come sia necessario porre una distinzione in relazione al momento in cui insorgono controversie tra i genitori.
Se sorgono controversie in ordine all’esercizio della potestà genitoriale durante la pendenza del
procedimento, sarà competente a decidere il giudice della separazione o del divorzio o di altri giudizi quali quelli dianzi indicati pendenti e di conseguenza il ricorso ex art. 709 ter c.p.c. diventerà
una domanda incidentale rispetto alla domanda principale.
Nell’ipotesi in cui si debba proporre un ricorso per la modifica delle condizioni di separazione o di
divorzio nel quale si affrontino esclusivamente questioni attinenti l’affidamento o le modalità di
esercizio della potestà parentale la competenza sarà del giudice del luogo di residenza del minore.
Abbiamo appena accennato al fatto che la norma stabilisce la competenza del giudice del procedimento in corso (separazione, divorzio o procedura ex art. 317 bis c.c., giudizio di invalidità del
matrimonio pendente di fronte al giudice ordinario) a conoscere delle controversie che abbiano ad
oggetto l’esercizio della potestà genitoriale e le modalità di affidamento. Detto principio era già stato affermato dalla l. 898/70 e successive modifiche all’art. 6 decimo comma dove si legge “all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito”. Un
primo problema di competenza si pone nei riguardi dell’art. 333 c.c., in virtù del quale, in caso di
condotta di un genitore pregiudizievole ai figli, il giudice (individuato dall’art. 38 att. c.c. nel Tribunale per i Minorenni) può adottare i “provvedimenti convenienti”.
In relazione a tale analogia è interessante leggere quanto affermato dal Tribunale per i Minorenni
di Catania con l’ordinanza del 6 giugno 2006 nel decidere una richiesta ex art. 333 c.c. posta nei
confronti di un genitore durante la pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi, si
dichiarava incompetente a decidere il ricorso propostogli e indicava come giudice competente il
Tribunale ordinario, affermando che: «In pendenza del giudizio di separazione personale dei coniugi, spetterà al Tribunale ordinario la cognizione anche per eventuali domande di limitazione della potestà genitoriale avanzate da uno dei coniugi nei confronti dell’altro; ferma restando la cognizione del Tribunale per i Minorenni per le richieste dei coniugi ex art. 330 c.c., in quanto il giudice della separazione, stante la normativa attualmente in vigore, non potrebbe comunque mai arrivare a dichiarare la decadenza di uno dei coniugi dalla potestà genitoriale” (...). “Qualora uno dei
coniugi proponga prima al Tribunale ordinario, ex art. 709 ter c.p.c., e, poi, al Tribunale per i Minorenni, ex art. 333 c.c., due azioni aventi ad oggetto sostanzialmente la stessa condotta (pregiudizievole al figlio) ed il medesimo petitum (limitazione della potestà genitoriale) spetterà a quest’ultimo dichiarare la litispendenza ex art. 39, comma 1, c.p.c., con sentenza, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo. Ove le cause, invece, siano diverse, occorrerà stabilire se possa
ritenersi sussistere la ipotesi della continenza di cause, di cui all’art. 39, comma 2, c.p.c. (Fattispecie in cui la causa promossa dinanzi al Tribunale per i Minorenni, successiva alla proposizione del
giudizio di separazione personale, pur presentando gli stessi soggetti e la medesima causa petendi, aveva un petitum meno ampio di quella presentata innanzi al Tribunale Ordinario, comprensiva anche della richiesta di provvedimenti limitativi della potestà)».
All’affermazione di questi princìpi la sentenza perviene sulla scorta di due considerazioni:
1) i fatti costitutivi di cui all’art. 709 ter comma 2, c.p.c. (“gravi inadempienze”, “atti che comunque arrechino pregiudizio al minore”, e, infine, “atti che ostacolino il corretto svolgimento delle
modalità dell’affidamento”) sono analoghi a quelli previsti dall’art. 333 c.c. (“condotta pregiudizievole al figlio”);
2) i poteri attribuiti al giudice della separazione dalla novella sono i medesimi attribuiti al Tribunale per i Minorenni dall’art. 333 c.c.; la ratio della novella intende garantire pari trattamento ai
figli indipendentemente dal fatto che i genitori siano coniugati o meno. Pertanto, sulla scorta di
detta sentenza il Tribunale per i Minorenni sarà competente a decidere sulle ipotesi di 333 c.c.
proposte da genitori non separati, né divorziati, che non abbiano pendente uno dei due procedimenti e da genitori non uniti in matrimonio.
Il tema della suddivisione delle competenze tra Tribunale ordinario e Tribunale per i Minorenni,
com’è noto, è stata affrontata dalla dottrina e dalla giurisprudenza un numero assai consistente di
volte e una delle decisioni più rilevanti prima dell’ordinanza della Cassazione che ha risolto, sia
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CONTRIBUTI
pure in modo non condivisibile, la questione relativa al conflitto di competenza sollevato successivamente all’entrata in vigore della presente normativa, è la sentenza 3159/971 che, nel definire come debba suddividersi la competenza tra Tribunale ordinario e Tribunale per i Minorenni sulle domande di limitazione della potestà genitoriale nei confronti dei figli, aveva stabilito che: “Alla stregua del disposto dell’art. 38 (nuovo testo) att. c.c., sulla competenza del Tribunale per i minorenni,
coordinato con le norme dettate dagli artt. 155 e 317 c.c., 9 della legge primo dicembre 1970, n.
898 e 710 c.p.c., i provvedimenti di revisione delle condizioni di affidamento dei figli minori di coniugi separati, in forza di separazione giudiziale o separazione consensuale omologata, ovvero di
coniugi il cui matrimonio sia stato annullato o sciolto, rientrano nella suddetta competenza del Tribunale dei minorenni nei soli casi in cui, come causa di quella revisione, si chieda un intervento
ablativo o limitativo della potestà parentale sulla prole, a norma degli artt. 330 e 333 c.c., mentre,
in ogni altro caso, sono devoluti alla competenza del Tribunale ordinario”. La nota a detta sentenza a firma di Chizzini, osserva come: “la tutela della prole rispetto alla condotta dei genitori eventualmente pregiudizievole per i minori, non costituisce ragione esclusiva per individuare la fattispecie dell’art. 333 c.c. e la competenza del Tribunale per i minorenni che su di esso si radica, ben potendo essa rientrare nella competenza del Tribunale ordinario, sia come causa nella separazione
legale, sia come causa di provvedimenti relativi all’esercizio della potestà sui figli nella stessa sentenza di separazione ovvero nei provvedimenti modificativi previsti dall’ultimo comma dell’art. 155
c.c. ... La fattispecie dell’art. 333 c.c., si distingue da quella degli artt. 155 e 317, secondo comma
c.c. per il fatto che quest’ultima presuppone la famiglia legale fondata sul matrimonio nonché la
pendenza (o l’avvenuta definizione con omologa o con sentenza nei casi di modifica), di una causa di separazione consensuale, di separazione legale, di annullamento, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili, mentre l’art. 333 dispone soltanto per i casi di matrimonio
senza separazione legale, o comunque, per i casi di separazione di fatto dei genitori, coniugati o
non”, tra le altre decisioni del medesimo tenore si segnala la sentenza 6953/2004 della Cassazione2. Di segno del tutto contrario è invece la sentenza 3529/20043 della Cassazione, che ha negato
l’identità di petitum e di causa petendi tra procedimento ex artt. 330-333 c.c. e giudizio di separazione personale dei coniugi, in quanto: “la litispendenza, che determina la competenza in base ai
criteri della prevenzione, sussiste solamente quando fra due o più cause vi sia, oltre all’identità di
‘petitum’ e di ‘causa petendi’, di guisa che la stessa non è configurabile – stante la comunanza soggettiva soltanto parziale e la diversità oggettiva – tra il giudizio di separazione personale dei coniugi e il procedimento per la pronunzia di decadenza dalla potestà dei figli ex art. 330 c.c. nonché
per l’emanazione degli ulteriori provvedimenti di cui all’art. 333 c.c.: infatti, quest’ultimo procedimento, da un lato, contempla espressamente il pubblico ministero tra i legittimati al relativo avvio,
dall’altro, in ordine alla ‘causa petendi’ e al ‘petitum’, fa riferimento ad una condotta di uno o di
entrambi i genitori necessariamente pregiudizievole al figlio (sia o non sia quest’ultima tale da dar
luogo alla suindicata pronuncia di decadenza) ed ha ad oggetto l’emanazione degli anzidetti provvedimenti di cui all’art. 330 e ss. c.c., laddove, nel giudizio di separazione personale, le (eventuali) statuizioni relative ai figli minorenni, di cui all’art. 155 c.c., si inseriscono nel quadro di una
regolamentazione della vita familiare consequenziale all’allentamento del vincolo matrimoniale
(onde vengono ad incidere soltanto sulle modalità di esercizio della potestà genitoriale e non postulano il pregiudizio o il pericolo di pregiudizio per la prole medesima)”.
Nell’ipotesi in cui si debba proporre un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. e i due genitori non abbiano
in corso alcun contenzioso tra di loro per essere gli stessi definiti, la competenza a decidere del ricorso sarà quella del Tribunale ove ha la residenza il minore; a questo proposito la dottrina più
sensibile4 ha manifestato non poche perplessità. È infatti difficile ipotizzare che sia possibile, e di
1
Cfr. Cass. sentenza dell’11 aprile 1997, n. 3159 , in Fam e dir., 1997, 431.
2
Cfr. Cass. 8 aprile 2004, n. 6953, in Foro it., Rep., 2004, voce Potestà dei genitori, n. 4.
3
Cfr. Cass. 21 febbraio 2004, n. 3529, in Foro it., Rep., 2004, voce Competenza civile, n. 135.
4
Cfr. Salvaneschi, I procedimenti di separazione e divorzio, in Fam e Dir., 2006, 372 ss.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
fatto frequente, un procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio nel quale siano avanzate domande volte alla modificazione dell’affidamento o domanda volte a risolvere
i contrasti verificatisi tra i coniugi in merito alla gestione della potestà tra i genitori nei confronti
dei figli, scisse da domande aventi un contenuto economico che può discendere sia dalla modifica dell’affidamento, che dall’accoglimento della richiesta di risarcimento del danno causato da una
delle parti, risarcimento che potrà essere sia in favore del minore che in favore del genitore. Pertanto la norma, che indica come criterio in base al quale definire la competenza quello della residenza del minore, appare configgente con i princìpi generali dell’ordinamento a riguardo, in considerazione del fatto che il luogo di residenza del convenuto potrebbe non coincidere con quello
del minore. Sarebbe quindi più in linea con i princìpi generali che sottendono al nostro codice di
rito utilizzare come criterio individuatore del giudice competente quelli contenuti nell’art. 20 c.p.c.
ben vero che la norma in questione fa riferimento all’art. 710 c.p.c. per individuare la competenza
del luogo di residenza del minore, ma va detto che analogo criterio dovrà essere utilizzato anche
nei procedimenti ex art. 9, l. 898/70 e successive modificazioni, anche se in merito è necessario tenere conto del fatto che alcuni importanti autori5 sono di avviso del tutto contrario ritenendo applicabili alle modifiche delle condizioni di divorzio il criterio del Foro generale delle persone fisiche e quello del Foro facoltativo delle obbligazioni, di cui all’art. 12 quater 1. div. (aggiunto dall’art. 18, della legge 74/87).
Una formulazione tanto generica della norma in esame lascia irrisolti molti problemi, primo tra tutti quello della competenza a decidere dette questioni da parte del Tribunale per i Minorenni. In
particolare si dovrà ricorrere al Tribunale per i Minorenni per le questioni di cui all’art. 316 c.c. ovvero si dovrà ricorrere al Tribunale ordinario ex art. 709 ter c.p.c. e, via di seguito, dinanzi ad una
condotta pregiudizievole di un genitore non coniugato si dovrà proporre un ricorso al Tribunale
ordinario ex art. 709 ter c.p.c. ovvero un ricorso al Tribunale per i Minorenni ex art. 333 c.c.?
Chi scrive si rende conto delle difficoltà interpretative, ma è necessario ricordare che anziché verso un’accentuazione delle differenze tra figli di genitori coniugati e figli di genitori non coniugati
si dovrebbe, a distanza di tanti anni dall’approvazione della Carta Costituzionale, realizzare la parità di trattamento dei figli; pertanto non essendo pensabile che il Tribunale per i Minorenni possa applicare l’art. 709 ter c.p.c. stante la mancata previsione dell’art. 38 dis. att. c.c., ai figli nati fuori dal matrimonio rimarrebbero inapplicabili le norme di cui all’art. 709 ter c.p.c. che attengono il
risarcimento del danno e quindi ci si troverebbe dinanzi ad una disparità di trattamento sanzionabile dai giudici delle leggi. Ovviare a tutti questi inconvenienti è semplice, oltre che consentito dalla lettera della norma, e anche il genitore non legato dal vincolo del matrimonio potrà ricorrere al
Tribunale ordinario ex art. 709 ter c.p.c.
Alla stregua di quanto detto ci si chiede che cosa ne sia dell’art. 337 c.c. dato che, da quanto detto, sembrerebbe ulteriormente ridotta e limitata la competenza dei giudici tutelari ai quali è, di fatto, sottratta tutta la materia del controllo e della vigilanza sull’adempimento delle disposizioni contenute nelle sentenze di separazione e divorzio. Al riguardo si deve segnalare l’opinione contraria
di Tommaseo, che ritene tutt’ora in vita l’art. 337 c.c. caratterizzato appunto dal potere di vigilanza del giudice tutelare sull’osservanza delle condizioni stabilite per l’esercizio della potestà. Questa opinione è convincente se si riflette sulla circostanza che compito ben diverso è quello del giudice tutelare rispetto a quello del Tribunale in un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. dato che questo potere di vigilanza non ha certo necessità del ricorso da parte di alcuno, mentre il Tribunale potrà intervenire ex art. 709 c.p.c. solo a seguito di una specifica richiesta di una parte. A ciò si aggiunga
che i poteri dei due sono decisamente difformi e quindi certo non è possibile parlare di abrogazione tacita dell’art. 337 c.c.
5
Cfr. Tommaseo, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: profili processuali, in Fam. dir., 2006, 393.
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CONTRIBUTI
2. Ricorso introduttivo, procedimento, forma e contenuto del provvedimento conclusivo del procedimento ex art. 709 ter c.p.c.
Alcuni tra i primi commentatori della novella ritengono che, in pendenza di giudizio di separazione, divorzio o procedura ex art. 317 bis c.c., giudizio di invalidità del matrimonio pendente di fronte al giudice ordinario, la richiesta possa essere formulata oralmente al giudice istruttore. Chi scrive non ritiene che ciò sia rispondente ai princìpi del nostro ordinamento. Infatti, partendo dal presupposto, generalmente condiviso, che la domanda ex art. 709 ter c.p.c., avanzata nel corso di uno
dei giudizi appena elencati, abbia la natura di domanda accessoria che dà luogo ad un subprocedimento, non può essere revocato in dubbio che detta domanda vada necessariamente formulata
per iscritto con tutti i requisiti richiesti dalle norme generali del procedimento civile, ciò anche per
consentire l’esplicazione a pieno del diritto di difesa della parte resistente. Ovviamente laddove il
procedimento di separazione o di divorzio sia definito, il ricorso ex art. 709 c.p.c. si dovrà presentare al Tribunale ordinario del luogo di residenza del minore, ma è utile richiamare l’attenzione del
lettore all’opportunità nel futuro di sollevare eccezioni di legittimità costituzionale con l’intento di
ricondurre la normativa appena richiamata ai princìpi generali del diritto processuale civile.
Il contenuto del ricorso sarà quello di cui all’art. 125 c.p.c. e quindi dovrà contenere l’indicazione:
a) del nome del genitore ricorrente e del genitore resistente;
b) dei motivi del contrasto sull’esercizio della potestà;
c) di quale provvedimento si chiede al giudice.
Tutti coloro che sostengono che il procedimento in esame sia un procedimento di volontaria giurisdizione ritengono che tale circostanza trovi conferma nel fatto che detto procedimento si dovrebbe svolgere nelle forme del procedimento camerale ai sensi degli artt. 737 e ss. c.p.c. Tale osservazione non appare molto convincente se solo si riflette quanti siano i procedimenti camerali contenziosi che si svolgono secondo il medesimo rito a cominciare proprio dal procedimento ex art.
710 c.p.c. Pertanto per i motivi ampiamente spiegati al paragrafo precedente chi scrive ritiene trattarsi di un procedimento contenzioso.
Una domanda che legittimamente ci si pone è quella relativa alla partecipazione del pubblico ministero al procedimento.
Alcuni commentatori6 ritengono che non sia necessaria la presenza del pubblico ministero in considerazione della mancata previsione di questo tra quelli previsti dall’art. 70 c.p.c.
Altri7, invece, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale del 9 novembre 1992, n. 416 che
ha affermato l’imprescindibile presenza del p.m. nei procedimenti ex art. 710 c.p.c. ogni qual volta vi siano modifiche dei provvedimenti che riguardano i figli minori, poiché al termine del procedimento ex art. 709 ter c.p.c. si possano modificare i provvedimenti relativi alla prole, porta a far
ritenere che sia necessaria anche in quest’ultimo tipo di procedimenti la presenza del p.m., con la
conseguenza che il ricorso introduttivo dovrà essere comunicato al p.m.
Il giudice istruttore o il Tribunale dovranno disporre il termine per la notifica del ricorso al resistente, assegnare al medesimo un termine per la costituzione e il deposito di documenti; successivamente all’espletamento di detti incombenti, si procederà all’ascolto del minore e ad ammettere i
mezzi istruttori che si riterranno utili tra quelli proposti dalle parti e, nell’ipotesi in cui raggiunga il
consenso delle parti, si potrà sospendere il procedimento perché le parti effettuino un tentativo di
mediazione. Se anche questo non desse esito si dovrà emettere il provvedimento a chiusura della
procedura così come previsto dall’art. 709 ter c.p.c.
Nell’imbarazzante silenzio della norma che non indica quale tipo di provvedimento dovrebbe concludere il procedimento, non potrà che farsi riferimento all’art. 131, secondo comma c.p.c. che prevede: “in mancanza di tali prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al rag-
6
Cfr. Finocchiaro, Ricorso solo con l’assistenza di un legale, in Guida al diritto, 2006, 11, 57.
7
Cfr. Balena in Balena e Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari 2006.
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giungimento dello scopo”. Credo quindi che sia agevole ipotizzare, per quel che attiene le richieste ex art. 709 ter c.p.c. avanzate nel corso del giudizio di separazione o divorzio, che, ove i provvedimenti siano dati dal giudice istruttore questo avvenga con la forma dell’ordinanza, mentre se
il provvedimento verrà assunto dal collegio in sede di pronuncia anche sulle domande principali
la forma non potrà essere che quella della sentenza. Per quel che attiene alle richieste ex art. 709
ter c.p.c. proposte successivamente alla definizione della separazione o del divorzio o del giudizio
di invalidità del matrimonio, evidentemente svolgendosi il giudizio con le forme del rito camerale
ex art. 737 c.p.c., non potrà che essere definito con un decreto motivato. Un ulteriore interrogativo assai pratico, al quale la norma non dà risposta, è quello relativo all’immediata efficacia o meno degli stessi. Ritengo che, per quel che attiene il provvedimento adottato con la sentenza che
decide la domanda principale, non possano esservi dubbi sull’immediata eseguibilità del provvedimento; per quel che attiene le ordinanze, essendo esse provvedimenti che riguardano i minori,
sono provvisoriamente esecutive come tutti i provvedimenti assunti nel corso dei giudizi di separazione e divorzio inerenti i minori; per i procedimenti che si concludono con decreto, o il collegio che lo emette lo dichiara provvisoriamente esecutivo per ragioni di urgenza oppure sarà necessario attenderne il passaggio in giudicato.
Il legislatore del 2006 ha individuato nel dettaglio il tipo di provvedimenti che potranno essere assunti al termine del procedimento ex art. 709 ter c.p.c. e precisamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) condannare il genitore autore della condotta pregiudizievole al risarcimento dei danni a carico
del minore;
3) condannare il genitore autore della condotta pregiudizievole al risarcimento dei danni causati
all’altro genitore;
4) condannare il genitore autore della condotta pregiudizievole al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro ad un massimo di 5.000 euro da versare alla
Cassa delle ammende. Ciò non sta certo a significare che il giudice non possa decidere il procedimento nei modi che riterrà più opportuni e ciò in considerazione del fatto che l’art. 709 ter
c.p.c. al secondo comma prevede che: “il giudice adotta i provvedimenti opportuni”. L’articolo
in esame è caratterizzato dalla natura sanzionatoria, in relazione alla quale si deve chiarire che
lo stesso è applicabile ai genitori che abbiano figli minorenni non emancipati dal momento che
trattandosi delle sanzioni da imporre ai genitori in conseguenza di contestazioni sulle modalità
di esercizio della potestà, è del tutto evidente che, dal momento che l’art. 316 c.c. prevede che
“il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all’età maggiore o all’emancipazione”, fatta salva l’ipotesi di un figlio maggiorenne portatore di handicap che l’art. 155 quinquies parifica al
figlio minorenne.
Tale considerazione trova peraltro un’eccezione nell’art. 155 quinquies c.c. che afferma: “ai figli
maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3, terzo comma, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori”, pertanto non sembra possa essere revocato in dubbio che l’art. 709 ter c.p.c. si applichi anche ai genitori di figli maggiorenni portatori di handicap8.
L’aspetto sanzionatorio della norma ha suscitato un vivace dibattito a partire dall’interpretazione da
dare alle “sanzioni” individuate dal legislatore ed estranee alle categorie previste dal nostro ordinamento, iniziando proprio dalla prima definita dal legislatore come ammonizione al genitore inadempiente. A tale riguardo ritengo debba essere chiarito che la norma non intenda riferirsi agli inadempimenti di carattere economico, posto che a questi l’art. 3 della novella ha esteso l’applicazione dell’art. 12 sexies della legge 74/87.
Va detto che l’ammonizione sembra avere una funzione solamente simbolica se contemporaneamente non si proceda alla applicazione di altra sanzione; a tale riguardo la dottrina9 ha fatto uno
8
Cfr. Finocchiaro, in Guida al diritto, 11, 2006, 53 ss.
9
Cfr. Greco, La responsabilità civile nell’affidamento condiviso, in Resp. civ., 2006, 745 ss.
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CONTRIBUTI
sforzo interpretativo non indifferente, giungendo ad affermare che: “per comprendere il significato
della sanzione in commento si dovrà procedere applicando analogicamente altri istituti che paiono avere similitudini con la stessa”; a tal fine l’autore ci dice come ammonire sia derivato dal verbo latino admonere che significa “avvertire”, “rammentare”, e quindi, secondo Greco, l’ammonizione sarebbe una diffida rivolta al genitore di astenersi da quel momento in avanti dal porre nuovamente in essere comportamenti che realizzino inadempimenti o violazioni degli obblighi assunti o
al medesimo imposti se non vuole incorrere in sanzioni più gravi. Questa interpretazione che del
resto appare l’unica legittima, dimostra la totale inefficacia della sanzione se non comminata unitamente ad una delle altre sanzioni previste nel medesimo articolo dal legislatore.
Le sanzioni previste ai numeri due e tre, e cioè i risarcimenti del danno causato all’altro genitore
o al minore, possono dare luogo a questioni infinite da parte della dottrina e della giurisprudenza
relativamente alla natura di questo risarcimento del danno, ma in questa sede, anziché affrontare
questo problema sicuramente interessante specie per quel che concerne un profilo eminentemente scientifico, ci si propone di esaminare quelli che sono i nodi che nella pratica più frequentemente si debbono affrontare.
In primo luogo è necessario chiarire come non possa essere determinato dal giudice un risarcimento del danno ex art. 709 ter n. 2 e 3 in assenza di una specifica richiesta in tal senso, trattandosi di
un risarcimento del danno extracontrattuale. E questo in considerazione della natura chiaramente
contenziosa del procedimento, per cui il giudice è strettamente tenuto a pronunciarsi nel pieno rispetto del principio della domanda, nel senso che non potrà che limitare la propria decisione alla
richiesta formulata, pena il rischio di una pronuncia viziata da ultra petitum.
Del tutto diverso è il principio che informa la pronuncia ex art. 709 ter, n. 4 c.p.c. In questo caso
la condanna in favore della cassa delle ammende non richiede la domanda di parte, ben potendo
il giudice provvedere ad infliggere questa condanna sulla scorta dell’accertamento della condotta
pregiudizievole nei confronti dei figli. Il legislatore ha qualificato questa sanzione come “amministrativa”, ma questo non sta ad affermare che non possa essere una sanzione di carattere “penale”.
Benché la norma parli di versamento a favore della Cassa delle ammende, anch’essa può essere irrogata dal giudice in assenza di una richiesta in tal senso avanzata da parte ricorrente. Certo assai
poco convincente sotto il profilo scientifico è la qualificazione di questa sanzione come amministrativa non essendo questa rispondente all’interesse del minore.
Senza voler poi osservare come appaia davvero incongruo che, un ordinamento che non riesce a
fornire ai propri cittadini mezzi e reti di protezione socio-psicologica in grado di aiutarli a superare la conflittualità derivante dalla crisi coniugale e a trovare un nuovo e diverso equilibrio, pensi
possa essere utile e giusto trarre profitto proprio da quella conflittualità che avrebbe l’obbligo almeno di cercare di risolvere.
Inoltre sembra potersi desumere che, come per l’ammonizione, l’irrogazione di tale sanzione possa essere disposta anche d’ufficio dal giudice. Personalmente concordo con le critiche mosse da
più parti alla previsione in questa norma della sanzione amministrativa così configurabile, dal momento che, di per sé, non mi pare risponda all’interesse del minore. Le prime pronunce a questo
riguardo sono l’ordinanza del 7 aprile 2006 del Tribunale di Modena con cui si richiamava “il convenuto all’adempimento dei propri obblighi sanciti dal provvedimento presidenziale, tramite l’ammonimento e la conseguente inflizione della sanzione del pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, salvo successivamente disporre, nel caso di
protrazione dell’inottemperanza e di specifica prova dei danni, il risarcimento patrimoniale a carico del convenuto”. Va detto che appare non condivisibile questa ordinanza laddove è stata assunta sulla scorta della mancata corresponsione del contributo al mantenimento dei figli (che ha sanzioni specifiche e proprie) mentre appare legittima rispetto alla non osservanza del dovere di mantenere un rapporto costante e continuativo con i figli. A questa ordinanza segue poco dopo l’ordinanza dell’11 luglio 2006 del Tribunale di Catania che si riporta per esteso: “rilevato che è pacifico
che la F. di fatto non goda della casa familiare, nonostante tale presupposto fosse stato positivamente considerato nel provvedimento presidenziale; rilevato che essa, oggi, chiede l’assegnazione della
casa familiare; ritenuto che la detta istanza deve trovare accoglimento, posto che, a tutela della pro-
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le minorenne, l’assegnazione della casa familiare deve disporsi in favore del genitore collocatario,
e dunque della F.; rilevato che parte resistente deduce la frapposizione di ostacoli, da parte della F.,
ad un corretto svolgimento delle modalità di affidamento, e, in particolare, la sussistenza di comportamenti volti ad impedire al padre di tenere con sé la prole; ritenuto che appare opportuno invitare la F. ad astenersi da tale condotta – altamente pregiudizievole per il corretto sviluppo dei rapporti fra il padre ed i minori – la quale potrà in prosieguo, ove perdurante, comportare l’adozione
dei provvedimenti di cui all’art. 709 ter c.p.c.; P.Q.M. Visti gli artt. 708 e 709 c.p.c. assegna, in favore di F. M.C., la casa familiare, sita in M., via T.C. n. **, con i mobili e le suppellettili che l’arredano, perché vi abiti con la prole. Statuisce, per il resto, come indicato in parte motiva”. La decisione appena riportata è uno dei primi provvedimenti ex art. 70 ter c.p.c. in cui il g.i. dopo aver verificato che sono stati posti in essere comportamenti di ostruzionismo al rapporto con l’altro genitore, da parte del genitore collocatario dei minori, ha applicato la sanzione prevista al numero 1
cioè l’ammonizione con l’avvertenza che la reiterazione del comportamento avrebbe portato come
conseguenza la modifica dei provvedimenti provvisori e l’irrogazione delle sanzioni di cui ai punti 2, 3 e 4 dell’art. 709 ter c.p.c.
I provvedimenti con i quali si è irrogata la sanzione amministrativa di cui al n. 4 dell’art. 709 ter
c.p.c. non sembra possano essere revocati o modificati dopo il reclamo, e di conseguenza verrebbe ad incidere su diritti soggettivi del genitore, con la conseguenza che a detto provvedimento sarebbero riconducibili i requisiti della decisorietà e definitività indispensabili per il ricorso in Cassazione ai sensi dell’art. 111, settimo comma Cost. e quindi si può ritenere che avverso detto provvedimento sia proponibile il ricorso straordinario per Cassazione.
Ben potendo darsi il caso di una pronuncia di un decreto che al termine di un procedimento camerale disponga un risarcimento in favore dell’altro genitore o del figlio sarà possibile, all’esito del
reclamo, proporre un ricorso ex art. 111, settimo comma Cost. dato che la tutela camerale dei diritti viene ricondotta nell’ambito applicativo dell’art. 111, n. 7 Cost.
Nel corso del tempo la giurisprudenza (Tribunale di Reggio Emilia ordinanza 30 aprile 2007) ha
utilizzato la norma in esame anche sotto ulteriori profili quali ad esempio quello del mancato o
inesatto pagamento delle spese straordinarie per i figli e quello relativo ai contrasti sulla misura e
sulle modalità di ripartizione delle spese affermando il principio che: “tra le controversie prese in
considerazione dall’art. 709 ter c.p.c. rientrano anche quelle inerenti al mantenimento del minore
e alla ripartizione del contributo tra i genitori: l’esercizio della potestà comporta l’assunzione di decisioni che possono avere riflessi economici; il nuovo art. 155 c.c. considera come strettamente connessi il profilo dell’affidamento e quello del mantenimento del minore, anche il contrasto su questioni economiche può comportare un pregiudizio per il minore (Nella specie, il giudice del merito,
in applicazione del riferito principio di diritto, ha sostenuto che la controversia tra le parti in ordine alla misura ed alle modalità di ripartizione delle spese straordinarie sostenute nell’interesse del
figlio minore rientrava nella previsione dell’art. 709 ter c.p.c.)”. Nello stesso senso si è pronunciato il Tribunale di Modena 29 gennaio 2007, nonché Tribunale di Modena 21 luglio 2006, in
www.giuraemilia.it, secondo cui: “In tema di gravi inadempienze commesse da uno dei genitori,
l’omessa corresponsione del contributo di mantenimento in favore dei minori determina un vero e
proprio danno non patrimoniale a carico degli stessi, da ritenersi presuntivamente esistente, stante
la gravità dell’inadempienza e l’attentato che essa comporta ai diritti costituzionali della prole. Ne
discende che l’obiettivo inadempimento posto in essere da uno dei genitori giustifica l’adozione della sanzione del risarcimento del danno in favore dei minori, da quantificarsi secondo il principio
di gradualità. (Nella specie, il giudice del merito, in applicazione del riferito principio di diritto, ha
condannato il padre al risarcimento del danno in favore del minore in misura corrispondente a
due mensilità dell’assegno di mantenimento)”.
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CONTRIBUTI
3. Reclamabilità dei provvedimenti ex art. 709 ter c.p.c.
La novella rispetto al problema dell’impugnazione dei provvedimenti ex art. 709 ter c.p.c. è estremamente vaga e imprecisa posto che si limita ad affermare che “i provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari”, senza darsi cura di chiarire quale sia il
procedimento applicabile ai casi di impugnazione. In presenza di una norma tanto generica non
rimarrà, agli interpreti, che fare riferimento all’art. 12, primo comma delle disposizioni sulla legge
in generale, e quindi sarà opportuno fare riferimento alle disposizioni che regolano casi simili o
materie analoghe; e nell’ipotesi in cui il caso rimanga ancora dubbio, si dovrà fare ricorso ai princìpi generali dell’ordinamento.
Le fattispecie che l’interprete potrà incontrare sono:
1) l’ipotesi in cui il provvedimento ex art. 709 ter c.p.c. sia assunto nel corso di un giudizio di separazione o divorzio dal giudice istruttore con la forma dell’ordinanza, nel qual caso la suddetta ordinanza potrà essere revocata o modificata dal medesimo giudice istruttore nel corso di tutto il procedimento principale. Detto provvedimento del g.i. sarà reclamabile ex art. 669 terdecies c.p.c., cioè nelle forme previste per il reclamo avverso il processo cautelare uniforme, dato che la norma specifica che deve essere impugnato nei modi ordinari.
È utile richiamare i precedenti giurisprudenziali a riguardo: Tribunale di Genova, 16 marzo 2001,
in Foro it., 2001, 1, c. 2356; Tribunale di Genova, 22 novembre 2004, in Foro it., 2005, 1, c. 1591;
Tribunale di Rovereto, 18 febbraio 2005, in Foro it., 2005, 1, c. 1591; Tribunale di Trani ordinanza 18 aprile 2006, in www.affidamentocondiviso.it, ordinanza emessa dopo l’entrata in vigore
della legge 54/2006, in cui, in relazione alle ordinanze emesse dal giudice istruttore, si afferma:
“la loro autonoma reclamabilità dinanzi al collegio, così come previsto in via generale dalla disciplina del processo cautelare uniforme, onde impedire che conseguenze rilevanti nell’ambito
dei rapporti familiari abbiano a cristallizzarsi nel tempo, senza un adeguato controllo dell’operato del giudice istruttore”.
2) L’ipotesi in cui il provvedimento ex art. 709 ter c.p.c. proposto come domanda incidentale nel
corso del giudizio di separazione, divorzio..., venga deciso dal collegio nell’ambito della sentenza che definisce il procedimento principale, il modo di impugnazione sarà l’appello. Se la richiesta dovesse essere proposta al giudice d’appello alla luce dell’ultimo comma dell’art. 709 ter
c.p.c. “i provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari” consente di affermare che la sentenza d’appello sarà ricorribile in Cassazione anche relativamente al capo in cui dirime il conflitto sulle modalità di esercizio della potestà.
3) L’ipotesi in cui il provvedimento ex art. 709 ter c.p.c. sia stato emesso a conclusione di un procedimento ex art. 710 c.p.c. o ex art. 9, l. 898/70 e successive modificazioni saranno applicabili le norme generali con la conseguenza che detto provvedimento sarà reclamabile in Corte
d’Appello.
4) L’ipotesi in cui l’istanza sia proposta da una delle parti nel corso di un reclamo in Corte d’Appello avverso una sentenza di separazione o di divorzio, e la stessa venga accolta, sarà reclamabile in Cassazione ex art. 111 lettera 7), Cost.
5) L’ipotesi in cui il provvedimento ex art. 709 ter c.p.c. sia stato adottato di ufficio dalla Corte
d’Appello lo stesso sarà ricorribile per Cassazione ex art. 360 c.p.c.
4. Problematiche poste dall’art. 709 ter c.p.c. n. 2 e 3 in ordine alla natura del danno risarcibile
Infine per quel che attiene la problematica processuale alcuni commentatori, tra cui Greco, hanno
posto l’accento sulla discrasia costituita dalla previsione normativa di un risarcimento del danno riconosciuto in favore di un figlio minore che non è parte del procedimento processuale che si concluderebbe, in tal caso, con un provvedimento in favore di un terzo che non è stato parte del procedimento. Tutto ciò sarebbe inattuabile in considerazione del divieto di estensione soggettiva del
giudicato, principio affermato dalla Cassazione a sezioni unite del 5 novembre 1996, n. 9631, in
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Giust. civ., 1997, 1, 55. Greco ritiene di poter superare la difficoltà osservando che il genitore richiedente il risarcimento agirebbe nella qualità di esercente la potestà genitoriale (rectius: responsabilità genitoriale) sul figlio minore, con il quale verosimilmente dovrebbe convivere e nei confronti del quale l’altro genitore dovrebbe aver posto in essere la condotta pregiudizievole ovvero
si sarebbe reso inadempiente. Va detto che ciò non appare convincente dal momento che il comportamento pregiudizievole potrebbe essere posto in essere proprio dal genitore convivente; conseguentemente per evitare tutti gli ostacoli di ordine processuale conseguenti a questa interpretazione, si potrebbe ipotizzare che la differenziazione in forza della quale si tratti di un risarcimento ex n. 2 o 3 sia costituita dalla destinazione e dall’impiego della somma riconosciuta a titolo di
risarcimento. Conseguentemente il giudice, laddove ritenga di dover riconoscere una somma a titolo di risarcimento, potrà stabilire l’importo della stessa e disporre come la parte, che ritiene spettante al minore, debba essere impiegata dal genitore richiedente fino alla maggiore età del figlio.
Come si vede il riconoscere che il minore possa avere diritto a vedersi riconosciuto un risarcimento per i danni subiti in conseguenza del comportamento genitoriale, sta a significare che oramai
nella coscienza del legislatore è compiuto il passaggio dal vecchio concetto della potestà genitoriale a quello della responsabilità, ma ancora questo passo non è stato formalizzato e chiarito a pieno. A questo proposito tanto la dottrina10 che la giurisprudenza11 hanno appuntato la loro attenzione sull’illecito endofamiliare, figura che ha dato un sostegno importante ai diritti della persona, e
quindi anche la persona minore di età, alla luce di una diversa lettura del dettato dell’art. 2 della
Costituzione. I primi passi in tal senso nella giurisprudenza hanno preso le mosse dalla sentenza
n. 7713 del 7 giugno 2000, nella quale la Cassazione, applicando l’art. 2043 c.c. (norma relativa all’illecito extracontrattuale) alla luce degli artt. 2 e 30 della Costituzione, ai rapporti parentali, aveva affermato la risarcibilità del danno non patrimoniale subito dai figli in dipendenza del comportamento di un genitore che aveva violato i diritti fondamentali dei figli, così provvedendo: “trattasi di violazione (...) di sottesi e pregnanti diritti fondamentali della persona, in quanto figlio e in
quanto minore (...) poi del pari innegabile che la lesione di diritti siffatti, collocati al vertice della
gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, vada incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che
la stessa possa comportare (danno conseguenza)”.
La giurisprudenza della Cassazione e della Corte Costituzionale hanno proceduto successivamente
ad una ulteriore riflessione sulle caratteristiche del danno non patrimoniale, giungendo all’affermazione che lo stesso non rientra nella fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., ma in quella di cui all’art.
2059 c.c. (danni non patrimoniali). Questa giurisprudenza è giunta a ricomprendere nella fattispecie astrattamente prevista dall’art. 2059 c.c. qualsiasi danno di natura non patrimoniale che discenda dalla violazione dei diritti della persona, facendovi così rientrare anche il danno esistenziale. In
tal modo sarà possibile ottenere il risarcimento del danno derivante dagli illeciti compiuti, all’interno della famiglia, a danno dei diritti, costituzionalmente tutelati, dei singoli componenti, violazioni che comporteranno il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito e valutabile ai
sensi appunto dell’art. 2059 c.c. Le decisioni che costituiscono la pietra miliare in questa ottica sono: Cassazione 3a sezione civile n. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e Corte Costituzionale n. 233
dell’11 luglio 2003.
La sentenza Cass. n. 8827 del 31 maggio 2003 contiene le indicazioni generali e complessive che
riassumono le caratteristiche del danno biologico e morale da un canto e dall’altro le indicazioni
necessarie a determinare l’ammontare del danno da liquidare. Il primo principio affermato dalla
Cassazione sancisce che: “unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo delle caratte-
10 Cfr. Oberto, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, Milano, 2006; Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, in Nuovi percorsi di diritto di famiglia, Milano, 2004, 1-429; De Marzo, Responsabilità civile e rapporti familiari, in Danno e
resp., 2001, 185; Cendon, Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, Padova, 2004.
11 Trib. di Milano, 10 febbraio 1999, in Fam. dir., 2001, 185; Trib. di Firenze, 13 giugno 2000, in Danno e resp., 2001, 741; Trib.
di Milano, 4 giugno 2002, in Giur. it., 2002, 2290; Trib. di Savona, 5 dicembre 2002, in Fam. dir., 2003, 248.
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ristiche della patrimonialità è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita
nella natura del danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una
somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di
un pregiudizio non economico. È dunque escluso che si possa far carico al giudice di non aver indicato le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare – costituente la condizione per il ricorso alla valutazione equitativa di cui all’articolo 1226 c.c. – giacché
in tanto una precisa quantificazione pecuniaria sarebbe possibile in quanto esistessero dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare”. Altra affermazione rilevante della sentenza in esame è
quella in forza della quale laddove sia assai difficile se non impossibile provare il preciso ammontare del danno, soccorrono i presupposti di cui all’articolo 1226 c.c. (cfr. Cassazione, 1474/96,
11202/94, 4609/95). La sentenza continua poi delineando la natura del danno morale come quello
consistente nel più totale sconvolgimento delle abitudini e delle normali aspettative di colui che ha
subito il danno (nel caso di specie il minore o l’altro genitore), cui si deve aggiungere l’esigenza
di fare fronte alle conseguenze che ne derivano: “danno, quindi, di natura esistenziale, che si aggiunge e sovrappone a quello morale, nella sua accezione tradizionale di sofferenza acuta, ma ristretta esclusivamente al campo interiore: danno esistenziale che certamente trova ingresso e tutela
nell’ambito del danno morale”. La previsione dell’art. 2059 c.c., attiene alla fattispecie del “danno
morale” non impedisce il riconoscimento e l’applicabilità di ulteriori fattispecie di danno quali ad
esempio i cosiddetti “danni riflessi” (o “di rimbalzo”, secondo la definizione della giurisprudenza
d’oltralpe, costituiti dalle lesioni di diritti di cui siano portatori soggetti diversi dalla vittima iniziale del fatto ingiusto ma in significativo rapporto con la vittima stessa), che avevano già consentito
di ravvisare la risarcibilità del danno biologico a favore degli stretti congiunti del soggetto leso12.
Per evitare un allargamento a dismisura del risarcimento del danno morale la Cassazione con la
sentenza n. 4186/98 ha, tra l’altro, stabilito che è necessaria la prova rigorosa del danno stesso,
principio confermato anche dalle sezioni unite13 che, componendo il contrasto che si andava di
nuovo profilando, hanno enunciato il seguente principio di diritto: “ai prossimi congiunti della persona che abbia subito, a causa del fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il
risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’articolo 1223 c.c., in quanto anche
tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del
congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile”. Va ricordato che la Suprema Corte ha ammesso la risarcibilità del danno non patrimoniale, sotto il profilo esistenziale, pur in difetto di prova di una patologia che potesse fare affermare la lesione del diritto alla salute intesa come integrità fisica e psichica, consistente nella perdita del rapporto parentale. La Cassazione, quindi, in una
lettura costituzionalmente orientata (art. 2 Costituzione che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), ha ritenuto di superare la precedente interpretazione restrittiva dell’articolo 2059,
in relazione all’articolo 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo determinati da fatto illecito integrante
reato. Pertanto alla luce delle richiamate decisioni ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal
quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica.
La Cassazione ha quindi affermato il principio che dalla lesione dell’interesse scaturiscono, o meglio possono scaturire, conseguenze, che, potranno avere diversa ampiezza e consistenza, in termini di intensità e protrazione nel tempo. Il danno in questione deve quindi essere dedotto e provato; trattandosi tuttavia di pregiudizio che si proietta nel futuro, sarà possibile ricorrere a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire. Per quanto attiene il problema della liquidazione di detto danno, poiché si tratta di
12 Cfr., tra le altre, Cassazione, 8305/96 e 12195/98.
13 Cassazione sezioni unite, 9556/02.
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lesione di valori inerenti alla persona, privi di contenuto economico, non potrà che avvenire in base a valutazione equitativa (articoli 1226 e 2056 c.c.), tenuto conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza, e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più
o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età di colui che ha patito il danno. La richiamata sentenza contiene un’ulteriore affermazione di princìpi assai rilevanti: il riconoscimento
dei “diritti della famiglia” (articolo 29, comma 1, Costituzione) deve essere inteso in modo non restrittivo, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, ma
nel senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei
sentimenti che il rapporto parentale ispira, generando bensì bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati14.
Sempre in tema di risarcimento del danno va sottolineato come la Corte di Cassazione a sezioni
unite in data 24 marzo 2006 con la sentenza n. 6572, reperibile in internet, sia stata chiamata a comporre il contrasto all’interno della sezione lavoro della Corte in tema di risarcimento del danno da
demansionamento e dequalificazione del lavoratore. La materia come si vede è diversa, ma ciò che
interessa è l’individuazione di quelli che sono i criteri e le prove da offrire per riuscire ad ottenere una pronuncia che riconosca il risarcimento del danno esistenziale nella materia che ci riguarda: il danno biologico, inteso quale lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile (come definito dalla sentenza 233/2003 della Consulta dianzi riportata). Le sezioni unite, sottolineano
come non si riesca a pervenire al risarcimento di detto danno per il tramite della prova testimoniale, documentale o presuntiva, ma solo tramite l’accertamento medico-legale, mentre la sua quantificazione, stante l’uniformità dei criteri medico-legali applicabili alla lesione dell’integrità psico-fisica, è effettuata attraverso il sistema tabellare, senza necessità alcuna di precise indicazioni ed allegazioni ad opera del danneggiato. In questa occasione le sezioni unite definiscono il danno esistenziale come: “pregiudizio provocato al fare a-reddituale del soggetto, alterando le sue abitudini
di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità”. Di conseguenza i comportamenti dei genitori, consistenti in ingiurie continue e ripetute, nella sistematica
delusione delle attese dei minori, nei comportamenti reiterati di violenza psicologica, che inevitabilmente comportano una alterazione della qualità della vita del figlio minore, costituiscono un illecito in grado di far sorgere in capo al figlio il diritto al risarcimento del danno che dovrà essere
quantificato a seconda della gravità del comportamento posto in essere dal genitore e delle conseguenze che detto comportamento ha provocato nel minore.
14 Per completezza di informazione si ricorda la sentenza n. 233 del 30 giugno-11 luglio 2003 della Corte Costituzionale che,
nel dichiarare non fondata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 del Codice civile sollevata, in riferimento all’art.
3 Cost., dal Tribunale di Roma, afferma che: “l’art. 2059 c.c. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in
quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge. Resta in tal modo superato il dubbio di legittimità costituzionale originato da una contraria lettura della norma, mentre la concreta possibilità di una tutela risarcitoria dei danneggiati nel giudizio principale rende evidentemente priva di rilevanza e, pertanto, inammissibile l’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., prospettata dal medesimo rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. e diretta a censurare la limitazione della risarcibilità del danno
non patrimoniale ai soli casi stabiliti dalla legge”.
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CONTRIBUTI
IL RECLAMO DEL PROVVEDIMENTO PRESIDENZIALE 1
Giulia Sarnari
Avvocato, Foro di Roma
L’introduzione della norma sul reclamo avverso i provvedimenti presidenziali ad opera della legge
54/2006 ha suscitato tante perplessità a causa delle molte incongruenze che questa innovazione porta con sé e nel cercare di individuare un sistema operativo organico. È proficuo, in premessa, fare
un passo indietro, prendere le mosse da quando il processo familiare è stato codificato nel nostro ordinamento e verificare l’evoluzione che ha avuto sin tanto che non è stata introdotta questa norma.
Il processo di separazione, sul quale poi si è modellato il processo del divorzio, è stato pensato dal
legislatore del 1942 come un processo nel quale l’attività giurisdizionale entra con grande impeto, a
sottolineare la rilevante importanza, per l’ordinamento, dei diritti soggettivi di cui si tratta in conseguenza della separazione e del divorzio, quali diritti soggettivi pieni, degni delle massime forme di
tutela processuale e delle più ampie garanzie giurisdizionali; un processo ordinario a cognizione piena, al quale il legislatore del ’42 ha agganciato anche una fase preliminare sommaria e necessaria, non
opzionale per le parti, volta a disciplinare l’urgenza, a dare tutela anticipatoria e tempestiva, in vista
della sentenza di merito, a tutti i diritti personali e patrimoniali scaturenti dalla crisi della famiglia.
Non si può non evidenziare, tuttavia, che questo modello di procedimento, sia pur così “rafforzato”,
vedeva di fatto affermare la prevalenza della fase presidenziale, caratterizzata dall’estrema sommarietà, sulla successiva fase a cognizione piena, laddove il provvedimento presidenziale non poteva
essere impugnato dinanzi ad un diverso organo giudicante, né poteva essere modificato o revocato
dal g.i., se non in presenza di circostanze nuove e sopravvenute.
Conseguentemente, se nel complesso, il processo familiare in questa struttura bifasica si presentava
rafforzato (procedimento ordinario a cognizione piena, preceduto da questo procedimento sommario volto a disciplinare l’urgenza che la crisi familiare impone), di fatto la fase presidenziale, in quanto necessaria e ineludibile, insindacabile e difficilmente modificabile, andava a caratterizzare tutto il
procedimento della separazione, dominato in realtà dalla decisione presidenziale. Tant’è, infatti, che
il procedimento della separazione era inserito a pieno titolo nel codice tra i riti speciali, cioè tra quelle procedure definite strumenti di imperio del giudice più che luoghi di attuazione della giurisdizione (Satta), in contrapposizione al rito ordinario, quale unico insieme di regole processuali strutturate a garantire l’attuazione della giustizia, dei diritti delle difesa e del corretto contraddittorio.
Nel tempo la rilevanza della fase presidenziale si è via via venuta attenuando; in virtù del combinato disposto dell’art. 4, n. 8 e dell’art. 23 della legge sul divorzio si è scardinato il principio della immodificabilità della decisione presidenziale con ampliamento conseguente dei poteri del giudice
istruttore, sicché la fase presidenziale è divenuta meno immanente e determinante per la fase di merito, e anche se per lungo tempo si è dibattuto sull’ammissibilità o meno della impugnazione del
provvedimento presidenziale, certamente l’intervenuta ammissibilità della sua modifica, anche a prescindere da fattori sopravvenuti, ha pesantemente modificato il procedimento familiare che si è ritrovato ad essere molto meno determinato dall’espressione iniziale del potere d’imperio del Presidente.
1
Intervento tenuto al Seminario di aggiornamento Il reclamo ex art. 708 c.p.c. avverso i Provvedimenti presidenziali, organizzato da AIAF Lazio, Velletri, 26 marzo 2009.
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AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
È noto a tutti, poi, il vivace dibattito che si è sviluppato circa l’opportunità del cosiddetto rito ambrosiano: coloro che ritengono che il diritto di famiglia sia la materia che necessita più di ogni altra
di avere la certezza della giurisdizione, ritenevano anche che solo con un processo con atti introduttivi del giudizio ben postulati sin dall’inizio (alla stregua del processo ordinario riformato nel ’90, con
la definizione di precise preclusioni e di precisi momenti processuali) si potesse dare effettiva tutela ai diritti che scaturiscono dalla crisi coniugale, sia patrimoniali che personali, senza nulla togliere
ad altre forme di risoluzione del conflitto che tuttavia, devono essere altro rispetto al processo.
Le leggi 80/2005 e 54/2006, unitariamente considerate come riforma del rito della separazione e del
divorzio (visto anche il brevissimo lasso di tempo che le ha separate nella loro entrata in vigore),
hanno pesantemente modificato il rito della separazione e del divorzio e sono andate ad incidere in
maniera disorganica sul procedimento, raccogliendo le diverse istanze e le diverse culture giuridiche
rispetto al diritto processuale familiare.
Da un lato, il legislatore ha introdotto delle norme che hanno dato nuovo spazio e maggiore autonomia alla fase d’imperio dinanzi al Presidente, ha ampliato i suoi poteri di ufficio (art. 155 sexies
c.c. e 708 c.p.c.) e ha di fatto “degiurisdizionalizzato” la fase presidenziale, prevedendo che non vi
è alcun obbligo di costituzione per il convenuto e rendendo il ricorso introduttivo del giudizio un
atto incompiuto e fluido, che necessita di una successiva memoria integrativa2, spazzando via così la
discussione sulla vigenza o meno del cosiddetto rito ambrosiano. Al tempo stesso, tuttavia, il legislatore ha voluto rafforzare e definire il ruolo del difensore nella fase presidenziale (artt. 707 c.p.c, 1° comma e 708 c.p.c. 3°comma) e ha introdotto il rimedio del reclamo avverso il provvedimento presidenziale dinanzi alla Corte d’Appello (art. 708 c.p.c.).
Ecco, così ragionando, il rimedio del reclamo al provvedimento Presidenziale non può che essere
visto con favore, inteso quale espressione normativa dell’esigenza di tenere ferma la giurisdizione,
in una fase processuale che rischia seriamente di perderla.
Nella pratica giudiziaria, si registra estrema cautela e diffidenza nell’utilizzare questo mezzo di impugnazione nuovo e la scelta dell’eventuale impugnazione del provvedimento presidenziale è sempre
caratterizzata da un certo senso di smarrimento e ciò perché più che una garanzia ulteriore il reclamo ex art. 708 c.p.c. rischia di rivelarsi un vero e proprio boomerang, che spesso mortifica e addirittura snatura il procedimento di primo grado e, di fatto, contrae i tradizionali due gradi di giudizio,
quando ancora si è nella fase iniziale.
Si deve tuttavia continuare a studiare con caparbietà questo nuovo istituto processuale, sollecitare
magari un ulteriore intervento del legislatore per eliminare incongruenze davvero insanabili, poiché
uno strumento di impugnazione (latu sensu) in più, non può che essere un fatto positivo, per chi
lavora nel processo, una chance difensiva ulteriore che non deve e non può pregiudicare chi la usa
e chi vi si oppone, tanto più che è stato offerto per la revisione di una fase, nella quale contestualmente sono stati ampliati i poteri del giudicante e che è stata deprivata del limite dell’impulso delle
parti.
L’art. 708, 4° comma c.p.c., così recita: “Contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può reclamare con ricorso alla Corte d’Appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere
proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento”.
Procediamo con ordine.
La fase presidenziale è una fase cosiddetta a cognizione sommaria-conciliativa e il legislatore prima
dell’introduzione del reclamo ad opera della legge 54/2006, con la precedente l. 80/2005, come appena accennato, l’aveva già pesantemente modificata; si tratta di una fase processuale iniziale, in cui
tuttavia, non è affatto detto che vi sia la completa postulazione delle domande; l’atto introduttivo del
giudizio, come detto, potrebbe non contenere la precisa e completa affermazione della domanda; il
convenuto, d’altro canto, non ha alcun onere di costituzione in senso tecnico, ma la potestà, senza
alcuna preclusione e o decadenza, di redigere delle semplice memorie difensive.
2 È noto che si sta affermando il convincimento che l’atto introduttivo del giudizio è un atto a formazione progressiva che inizia
con il ricorso, ma che si può perfezionare con la memoria integrativa, con la quale, ben potrebbe essere avanzata una domanda
non avanzata con il ricorso, ad esempio, la domanda di addebito o di attribuzione dell’assegno di mantenimento.
106
CONTRIBUTI
Il provvedimento che emette il Presidente, può essere estremamente sommario e a fronte della possibile mancanza di esaurienti prospettazioni e allegazioni di parte, i suoi poteri di ufficio (decisori e
istruttori) sono ampi e ciò in base a quanto disposto dall’art. 708, 3° comma, c.p.c., ma anche in ragione dell’introduzione, ad opera della legge 54/2006, dell’art. 155 sexies c.c.
Dunque, se non ci sono preclusioni nell’emettere il provvedimento presidenziale e la norma non
prevede preclusioni nella fase successiva del suo reclamo, viene subito da affermare, in base ad un
rigoroso ragionamento strettamente processuale, che laddove non vi sono preclusioni, non le si possono introdurre e che quindi, sotto il profilo del contenuto, già ad una prima disamina, questo reclamo, di fatto, dovrebbe essere considerato un reclamo ampio con il quale tutto quanto rappresentato ed esaminato dal Presidente passa alla Corte d’Appello: una sorta di continuazione di questa fase sommaria e urgente dinanzi alla Corte d’Appello.
Così argomentando, sotto il profilo strettamente tecnico-processuale, questo reclamo ex art. 708, 4°
comma c.p.c., altro non è che un reclamo in senso stretto, cioè un reclamo assimilabile a quello cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c. 3° comma, come riformato dalla legge 80/2005, e cioè, per l’appunto, un proseguimento di una cognizione sommaria superficiale che giunge dal primo al secondo giudice. Vi sarebbe così la garanzia che una fase sommaria, che come tale assicura celerità e immediatezza della tutela, abbia anche una seconda ed immediata chance di riesame, nella quale, peraltro
non si è blindati dall’attività svolta nel I grado, nel senso che si possono introdurre circostanze e motivi sopravvenuti e nella quale il giudicante può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti.
Questo ad una prima lettura delle norme della fase presidenziale e in assenza totale di spiegazioni
da parte del legislatore.
Tuttavia, dovendo individuare un sistema di regole del procedimento che abbia una sua coerenza e
che come tale individui un sistema valido per tutti, si devono necessariamente fare ulteriori verifiche
per capire se, in via strettamente interpretativa, nel silenzio della legge e nella mancanza di raccordi tra la legge 54/2006 che ha introdotto il reclamo e la precedente legge 80/2005 che già prima aveva modificato i procedimenti cautelari, si può effettivamente applicare al reclamo ex art. 708, 4° comma c.p.c., la disciplina del reclamo cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c.
La disciplina del procedimento cautelare (art. 669 octies, 6° comma c.p.c.) prevede che i provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c., quelli anticipatori degli effetti della decisione di merito e
quelli di denunzia di nuova opera e di danno temuto, mantengano la loro efficacia anche se non
viene instaurato il giudizio, ciò al pari dei provvedimenti presidenziali che, ex art. 189 disp. att. c.p.c.,
mantengono la loro efficacia anche nel caso in cui il giudizio si estingue. Conseguentemente, il punto fondamentale che aveva indotto la giurisprudenza precedente alla riforma a ritenere i provvedimenti presidenziali non cautelari (e quindi non reclamabili al pari dei provvedimenti cautelari) è venuto meno.
Tuttavia, anche così argomentando e attenuandosi le differenze ontologiche tra il reclamo al provvedimento cautelare e il reclamo al provvedimento presidenziale, com’è noto, c’è chi nega che il reclamo ex art. 708 c.p.c. possa essere visto come il reclamo ex art. 669 terdecies in quanto l’articolo
669 quaterdecies c.p.c., restringerebbe l’ambito di applicabilità delle norme sul procedimento cautelare, oltre che alle misure del codice di rito espressamente richiamate dalla stessa norma, ai “provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali”, con implicita esclusione, quindi,
dei provvedimenti previsti dal codice di procedura civile. Peraltro, i due istituti prevedono due organi giudicanti diversi (Corte d’Appello, l’uno, Collegio del Tribunale, l’altro) e termini di impugnazione diversi, sicuramente molto più rigorosi quelli del reclamo avverso i provvedimenti cautelari, rispetto a quelli del reclamo avverso il provvedimento presidenziale.
A tale obiezione, tuttavia, autorevole dottrina (Mazzei, Tommaseo, Andolina, Costantino), ha opposto l’applicabilità in materia, dell’art. 12, 1° comma e capoverso, delle disposizioni sulla legge in generale, in tema di interpretazione estensiva e, specialmente, l’applicazione analogica di norme giuridiche, non assimilabili a quelle eccezionali ex art. 14 delle stesse preleggi, quali devono ritenersi
le disposizioni sui procedimenti cautelari in generale, di cui all’art. 669 bis fino all’art. 669 quaterdecies c.p.c. A riguardo, infatti, è stato osservato che non può negarsi che il provvedimento presiden-
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ziale ex art. 708 c.p.c., non soltanto si fonda su una cognizione sommaria dai caratteri pressoché
identici a quella cautelare, basata sul reciproco bilanciamento del periculum in mora e del fumus
boni iuris, ma anche risponde alla medesima funzione propria delle misure cautelari, cioè di provvedere in via sommaria ed urgente alle necessità delle parti in causa, nonché della prole, in funzione anticipatoria della disciplina che sarà dettata dalla sentenza che chiude il procedimento. Entrambi sono provvedimenti ultra attivi che non perdono di efficacia se il procedimento a cognizione piena non prosegue e le due differenze formali tra i due mezzi, date dalla diversa individuazione dell’organo giudicante e del termine di impugnazione, non costituiscono ostacolo a questa operazione
ermeneutica.
I poteri della Corte d’Appello
Attraverso questa chiave di lettura si risolve in maniera coerente il primo problema, che è quello che
riguarda i poteri del giudice del reclamo, laddove la norma richiama all’art. 738, ultimo comma, c.p.c,
che a sua volta si limita a statuire che “il giudice può assumere informazioni”.
L’art. 669 terdecies c.p.c., ove se ne riconosca l’applicabilità in via analogica, stabilisce che il giudice investito del reclamo “può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti” ed è anche prevista e disciplinata la proponibilità, nel rispetto del principio del contraddittorio, di circostanze e motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo (art. 669 terdecies 4° comma,
c.p.c.).
Peraltro, si è già evidenziato e non si può dimenticare, che l’art. 155 sexies c.c. introdotto dalla legge 54/2006 stabilisce un principio fondamentale in materia di provvedimenti che riguardano i figli e
cioè che il giudice (qualsiasi) prima della loro emanazione, “anche in via provvisoria”, può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova, e disporre l’audizione del figlio minore che abbia
compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, con facoltà dello stesso giudice, previa audizione delle parti e con il loro consenso, di rinviare addirittura l’adozione dei
provvedimenti di cui allo stesso articolo 155 c.p.c. per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli.
Tenuto conto di tutto ciò, la Corte d’Appello non solo ha dinanzi a sé tutto il materiale decisorio della fase presidenziale, ma può “assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova”, e anche disporre l’“audizione del figlio minore”.
La Corte d’Appello, dunque oltre, a riesaminare la fase presidenziale, la continua, entro il solo limite della necessità cautelare e dell’urgenza.
La Giurisprudenza è di diverso avviso: le Corti d’Appello svolgono un’attività di mero controllo dell’attività presidenziale, provvedendo ad eliminare solo quelle situazioni che ictu oculi, ad un sommario esame appaiono macroscopicamente ingiuste e avulse dalla prime prospettazioni delle parti,
senza darsi alcuna possibilità di approfondimento, sostenendo che a far ciò è deputato il g.i. e non
appaiono affatto inclini a fare attività di proseguimento di istruttoria, sia pur sommaria, ritenendo di
doversi limitare al controllo della manifesta inadeguatezza del provvedimento del Presidente sottolineando che la sede opportuna per fare ulteriori approfondimenti è quella istruttoria, in Tribunale,
dinanzi al g.i.
A riguardo si osserva che sebbene questa notazione sia per un verso condivisibile, in quanto non
bisogna mai dimenticare che nonostante i poteri del Presidente si siano ampliati, il limite della sua
cognizione è sempre dato dall’urgenza e dalla natura cautelare della fase che presiede, è altrettanto
vero che contenendosi in un ambito di cautela e di urgenza, la Corte d’Appello può senz’altro andare oltre il mero controllo della fase presidenziale, ben potendo, in assenza di preclusioni e in virtù di quanto dispone l’art. 669 terdecies c.p.c. e l’art.155 sexies c.c., fare di più.
È necessario che si acquisisca la consapevolezza che la fase presidenziale si è ampliata, nel senso
che si può articolare, se le parti lo vogliono, in due fasi, quella dinanzi al Presidente di Tribunale e
quella dinanzi alla Corte d’Appello, nel senso che il potere superficiale di conoscenza sommaria del-
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CONTRIBUTI
la vertenza dal Presidente si travasa alla Corte d’Appello, la quale, dunque non si deve limitare a
controllare il Presidente, ma diversamente, ben può esercitare tutti i poteri che ha il Presidente, sia
istruttori che decisori.
Si dovrebbe cioè, condividere il convincimento in base al quale la riforma dei procedimenti di separazione, operata dalla legge 80/2005 e poi dalla legge 56/2006, ha ampliato i poteri dell’organo
giudicante della fase presidenziale, ma ha anche ampliato le garanzie processuali che le parti hanno di fronte a questo ampliamento di potere, che la fase iniziale, sommaria e urgente si può sviluppare anche dinanzi alla Corte d’Appello.
Si deve sollecitare questo modo di procedere e non frenarsi, in assenza di preclusioni normative.
Il rapporto tra reclamo ex art. 708, 4°comma e art. 709, 4° comma
La giurisprudenza ha così semplificato: se la parte si duole del provvedimento presidenziale, deve
immediatamente rivolgersi in Corte d’Appello, diversamente mostra di averlo accettato, nel senso che
le due norme, (il 709, 4° comma e il 708, 4° comma) non offrono due opzioni per la doglianza, e
questo ragionamento è condivisibile sotto un profilo logico normativo, dal momento che la norma
sul reclamo è stata introdotta successivamente, ma una vera e propria indicazione normativa, a ben
vedere non c’è e tra l’altro se il provvedimento presidenziale non è stato notificato, il termine per la
sua impugnazione è quello ordinario.
Da tale ragionamento, peraltro, è disceso immediatamente un altro corollario e cioè che la mancata
impugnazione del provvedimento presidenziale dinanzi alla Corte d’Appello comporta di fatto acquiescenza al medesimo e dunque, si può chiedere la sua modifica o la sua revoca al g.i. solo in
forza di fatti sopravvenuti, come prevede l’art. 669 decies, in materia cautelare, ma cosi attuando per
le vie di fatto una preclusione che l’art. 709, 4° al contrario, aveva voluto definitivamente eliminare.
È evidente che vi è una grave lacuna nella tecnica legislativa, ma non è il caso di sdegnarsi di fronte a questa interpretazione che, gioco forza, ha dovuto individuare la giurisprudenza, laddove la portata innovativa dell’art. 709, 4° comma sussisteva perché non c’era la norma sul reclamo, ma successivamente all’introduzione della norma sul reclamo, è evidente che questa è venuta meno.
L’incongruenza, tuttavia, è insanabile se non con un intervento del legislatore, perché allo stato delle norme, si potrebbe sostenere, con motivazione legittima, l’ammissibilità di un’impugnazione di un
provvedimento presidenziale, senza allegazione di fatti nuovi, dinanzi al g.i. in base all’art. 709, 4°
comma, avendo snobbato o dimenticato l’opzione del reclamo in Corte d’Appello.
Modificabilità del provvedimento della Corte d’Appello ex art. 709, 4° comma
Il provvedimento della Corte d’Appello che ha modificato, revocato o confermato il provvedimento
presidenziale, è modificabile ex art. 709, 4° comma, cioè melius re perpensa o anche in tal caso tale norma è di fatto venuta meno ed è necessaria la sopravvenienza di fatti nuovi?
In questo caso a differenza della situazione precedentemente esaminata, l’art. 709, 4° comma non è
in contrasto con l’art. 669 decies, in quanto la revoca e la modifica che prevede e ammette è avverso il provvedimento presidenziale e non avverso il provvedimento della Corte d’Appello.
Come si vede questa impostazione, che del resto è la più seguita dalla giurisprudenza, va a modificare profondamente il processo della separazione e del divorzio, come si era delineato prima della
riforma del 2006; il potere del g.i. di modificare i provvedimenti presidenziali melius re perpensa, di
fatto non sussiste e non può sussistere, ma se la Corte d’Appello non si limita a fare attività di mero controllo, ed esercita tutti gli ampli poteri che gli sono devoluti, questa nuova procedura che si
sta delineando non comporta una perdita di garanzie processuali quanto una maggiore stabilità e
completezza nella gestione dell’urgenza, fatte salve sempre le circostanze sopravvenute.
Un ritorno, dunque, al passato, all’immanenza della fase presidenziale sulla fase a cognizione piena,
ma con l’intervento di un organo giudicante ulteriore, la Corte d’Appello, la quale se il Presidente ha
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sbagliato nel decidere o nell’istruire, può ribaltare la situazione; dopo di che il merito della vicenda,
nelle forme ordinarie del procedimento contenzioso e con la possibilità di modifica urgente da parte del g.i. solo per fatti sopravvenuti.
Problemi applicativi
1. Questi ragionamenti che con difficoltà cercano di ricomporre un sistema che appare nei dettami
normativi davvero poco coerente, trovano un grande freno nella previsione normativa del termine
per il gravame (dieci giorni dalla notifica), termine assolutamente incoerente con la natura cautelare e urgente del provvedimento da reclamare e in contrasto con quanto diversamente previsto o dall’art. 669 terdecies.
Se infatti il provvedimento presidenziale non è notificato a cura di parte, normativamente questo può
essere impugnato nel termine ordinario e quindi salta il sistema poc’anzi descritto in via teorica, per
cui la Corte d’Appello non va a chiudere la fase cautelare e urgente preliminare alla fase di cognizione piena, ma si sovrappone ad essa e si può verificare, e si verifica (!) che mentre dinanzi al g.i.
il tema decidendum è cambiato o comunque si è perfezionato, perché le parti hanno espletato gli
incombenti di cui agli art. 709, 3° comma e magari anche quelli di cui all’art. 163 c.p.c., la fase cautelare torna indietro, peraltro con la possibilità di portare in Corte d’Appello, gli atti e il materiale
probatorio che nel frattempo si è introdotto nel giudizio di cognizione.
Allo stato, se si vuole acquisire una minima certezza dell’azione processuale e della strategia difensiva, la parte che si ritiene soddisfatta ha l’onere di notificare alla controparte il provvedimento presidenziale, mentre la parte insoddisfatta ha l’onere di rivolgersi subito in Corte d’Appello ai sensi e
per gli effetti di cui all’art. 708 c.p.c. 4° comma, senza tergiversare.
Non è da sottovalutare, che se si ritiene che il provvedimento presidenziale è un cautelare, i termini per la sua impugnazione non si sospenderanno nel periodo estivo e pertanto massima allerta deve essere osservata alla eventuale notifica del provvedimento nel periodo feriale.
2. Lo stesso ragionamento deve essere affrontato qualora il reclamo sia stato proposto, ma il procedimento di I grado è già giunto dinanzi al g.i.
Se in questa situazione subentrano fatti nuovi che giustificano un istanza di revoca o modifica da chi
debbono essere valutati, dalla Corte d’Appello o dal g.i.?
La soluzione più coerente dovrebbe essere quella che tali doglianze siano fatte valere dinanzi alla
Corte d’Appello, la quale in virtù degli ampi poteri che ha ex art. 669 terdecies c.p.c. e 738 c.p.c.,
ben dovrebbe definire la fase cautelare e urgente, anche con l’ulteriore acquisizione di nuove situazioni, anche se non si può non tenere conto del fatto che il g.i., dinanzi al quale nel frattempo sono state depositate la memoria integrativa e la comparsa di costituzione e risposta, ha dinanzi a sé
il thema decidendum completato e quindi maggiori elementi di giudizio.
3. Si è posto anche un problema tecnico: gli atti acquisiti nella fase della Corte d’Appello debbono
confluire nel fascicolo del Tribunale? La risposta deve ritenersi affermativa e ciò perché la fase presidenziale, con questa “coda” del prolungamento dinanzi alla Corte d’Appello non è staccata dal giudizio di cognizione ordinaria, per cui tutto deve passare al g.i. e ciò anche se gli atti della fase del
reclamo dinanzi alla Corte d’Appello giungono dopo il termine delle preclusioni di cui all’art. 183
c.p.c. dinanzi al g.i.
Ovviamente queste sono tutte incongruenze insanabili che si ingigantiscono dinanzi alle tante patologie che affliggono lo svolgimento regolare del processo (nessuno di questi tre problemi si porrebbe se ci fosse tempestività e celerità dinanzi alla Corte d’Appello) e che non si riescono ad appianare in sede interpretativa con alcuna opera di attività ermeneutica.
È evidente che il legislatore, oltre a intervenire in materia poco organica si è dimenticato di considerare che purtroppo il nostro sistema giudiziario non è veloce e la sovrapposizione delle due fasi
non è un rischio, ma un dato ricorrente.
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CONTRIBUTI
L’OMOLOGAZIONE DELLA SEPARAZIONE CONSENSUALE ALLA LUCE DEL D.P.R.
396/2000 E DELLA SENTENZA DICHIARATIVA DI FALLIMENTO: IL REGIME DEGLI
ACQUISTI DI BENI MOBILI (E DIRITTI EQUIPARATI) NELLA COMUNIONE TRA CONIUGI
E L’OPPONIBILITÀ AI CREDITORI ESECUTANTI IN SEDE MOBILIARE
Renato Culmone
Avvocato, Foro di Palermo
1. Premessa
La riforma introdotta dalla legge n. 151/75 sul diritto di famiglia – con l’introduzione della comunione dei beni quale regime ordinario – nulla ha previsto circa la annotazione in calce all’atto di matrimonio della separazione consensuale e della sentenza dichiarativa di fallimento di uno dei coniugi,
che, come è noto, comportano la modifica del regime patrimoniale ordinario.
La legge del codice civile del ’42 e della riforma hanno solamente regolamentato l’annotazione delle convenzioni (e, quindi, del mutamento del regime patrimoniale che da tali atti deriva) stipulate ex
artt. 162 e 163 c.c., nonché la trascrizione ex artt. 2645 c.c. e 2647 c.c. (quest’ultimo per la costituzione di fondo patrimoniale e la convenzione di separazione dei beni), laddove oggetto della comunione (e, quindi, delle relative convenzioni) siano uno o più beni immobili, fermo il più ampio dettato di cui al n. 4 1° comma dell’art. 2653 c.c.
Al di là delle statuizioni normative, la questione diviene più delicata allorché si sia di fronte ad un
patrimonio coniugale – più volte cospicuo – composto da soli beni mobili, con riguardo alla opponibilità della – omologata – separazione consensuale e della sentenza di fallimento al/ai creditori che
agiscano sui beni mobili comuni o – sussidiariamente – su quelli “personali” di ciascun coniuge per
obbligazione assunta nell’interesse della famiglia, anche se posteriore allo scioglimento (rectius, all’opponibilità dello scioglimento) della comunione.
Per quel che concerne la separazione consensuale omologata, solo di recente l’art. 69 del d.p.r. n.
396/2000 ne ha disposto l’annotazione in calce all’atto di matrimonio (seppur con la dizione “sentenza di omologazione”) colmando la deficitaria normativa sopra considerata.
Prima di quest’ultimo intervento legislativo, dottrina e giurisprudenza hanno più volte auspicato, sia
per la separazione consensuale che per la sentenza di fallimento di uno dei coniugi, una pubblicità
“parallela” a quello dettato per le convenzioni tipiche prima ricordate, tale da consentire l’opponibilità ai terzi del nuovo regime patrimoniale tra i coniugi (per lo più, permanente, rispettivamente fino alla riconciliazione o alla riabilitazione).
La presente indagine è stata altresì rivolta a quelli che potrebbero essere gli esiti dell’azione da parte del creditore su beni (già) comuni costituenti, per esso, garanzia patrimoniale generica (art. 2740
c.c.) con precipuo riferimento ai beni mobili, non soggetti ad alcun regime pubblicitario.
Oggetto di disamina sono stati altresì i cosiddetti diritti equiparati ai beni mobili, circa la possibilità
che gli stessi diritti possano essere ritenuti “comuni” ai sensi della lettera a) dell’art. 177 c.c. e possano, conseguentemente, risultare o meno aggredibili da parte del creditore esecutante.
Le questioni di maggiore rilievo hanno riguardato quelle obbligazioni, per così dire, “ai margini” della comunione in quanto assunte, “anche separatamente” dai coniugi (cfr. art. 186 lett. c) c.c.) e, seppur fuori dalla comunione (perché scioltasi), nel palese e certo interesse della famiglia, ambito, questo, non necessariamente determinante il coinvolgimento del patrimonio comune anche per il creditore esecutante di buona fede.
Si sono, quindi, evidenziati gli effetti dello scioglimento della comunione per la delimitazione del
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“campo di esecuzione” da parte del creditore, che, circa i beni (già) comuni, non appare non potere tenere conto:
a) degli effetti dello scioglimento e della eventuale divisione dei beni ex art. 190 c.c.;
b) in ottica esattamente speculare, delle proponibili opposizioni alla esecuzione da parte del coniuge non direttamente contraente l’obbligazione (nell’interesse della famiglia).
In ultimo, con riferimento al fallimento di uno dei coniugi, il sistema legislativo ha costituito oggetto di analisi alla luce della “pubblicità” prevista per la relativa sentenza dal II e III comma dell’art.
17 del r.d. 16.03.1942 n. 267, per i diritti dei creditori e dei terzi in genere.
Infine, il fallimento è altresì venuto in considerazione come causa di scioglimento della comunione
con specifico riferimento a quei beni che, in generale, compongono la massa fallimentare attiva, con
specifico riferimento agli effetti sui beni comuni in forza delle eventuali revoca della sentenza e chiusura del fallimento.
2. Brevi cenni sugli atti modificativi del regime patrimoniale tra coniugi e relativi regimi pubblicitari. Le convenzioni matrimoniali - Gli atti negoziali volontari
Come è noto, i negozi che hanno, tra gli altri, effetti modificativi del regime patrimoniale tra i coniugi sono regolati dagli artt. 162 e 163 del codice civile. L’ultimo comma dello stesso art. 162 c.c. prevede che gli ivi indicati estremi di dette convenzioni siano annotati a margine dell’atto di matrimonio, ai fini dell’opponibilità ai terzi della convenzione medesima.
In estensione alla sentenza di omologazione della separazione giudiziale o del divorzio, uguale regime di pubblicità è previsto dal successivo art. 163 c.c. che dispone la trascrizione della convenuta
modifica, da effettuarsi a norma dell’art. 2643 c.c. per gli atti ivi indicati (e negli articoli seguenti), riguardanti beni immobili o diritti reali immobiliari.
Altro regime di “doppia” pubblicità è quello previsto per la pronuncia della separazione dei beni per
una delle cause di cui all’art. 193 c.c., che deve essere annotata a margine dell’atto di matrimonio e
sull’originale delle convenzioni matrimoniali (art .193 ult. co. c.c.).
Con riferimento alla comunione convenzionale – artt. 210-211 c.c. – è parere diffuso in dottrina che
la natura di atto modificativo della comunione dei beni comporta l’integrale applicabilità alla stessa
della normativa sul regime pubblicitario in materia fin ora delineato.
Esame specifico merita il fondo patrimoniale, per il quale, a prescindere dalla natura di convenzione matrimoniale, liberalità o atto di conferimento (nelle ultime due ipotesi con trasferimento della
proprietà di beni), sono ritenute applicabili le regole sulle convenzioni matrimoniali con l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio e la trascrizione nei registri immobiliari, oltre alla pubblicità del vincolo sui titoli di credito eventualmente costituiti in fondo, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 167 c.c.
Limitata alla presenza di immobili, nella comunione, è la trascrizione, pur necessaria ai fini dell’opponibilità ai terzi delle vicende che hanno ad oggetto i beni immobili dopo la divisione del patrimonio comune, nonché1, con l’applicazione di quanto al n. 4 del I comma dell’art. 2653 c.c. circa “le
domande di scioglimento della comunione tra coniugi avente per oggetto beni immobili”.
1
Gabrielli, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982; Carresi, Sub artt. 167-171, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, 1977, e in Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1992; Galasso-Tamburello, Regime patrimoniale della famiglia; Scialoja e Branca (a cura di), Commentario del codice civile, Bologna-Roma, 1999; A.
e M. Finocchiaro, Riforma del diritto di famiglia, Milano, 1975; Finocchiaro, Diritto di famiglia, Milano, 1984-1988; Auletta, Il fondo
patrimoniale, Milano, 1990 e Il fondo patrimoniale Artt. 167-171 in Il Codice civile. Commentario, diretto da Schilesinger, Milano,
1992; Pino, Il diritto di famiglia, Padova, 1984; De Paola-Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978; contra
Ferrara Jr. e Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato Cicu-Messineo, tomo I, 1976 e tomo II, 1980, i quali non ritengono applicabile l’annotazione nei registri di matrimonio.
112
CONTRIBUTI
2.1. Trascrizioni e annotazioni delle (modifiche del) regime della comunione legale e delle vicende relative ai singoli beni
Il delineato quadro legislativo soffre, certamente, i limiti del sistema di appartenenza e trasferimento di mobili non registrati, ad esclusione delle convenzioni o modifiche delle convenzioni matrimoniali per le quali è espressamente prevista la pubblicità del mutamento del “connotato generale”, cioè
dell’intero regime – ivi inclusa, dal 2000, la annotazione della separazione consensuale – nel quale
i coniugi, dopo la convenzione, vengono a trovarsi,.
Ai fini che qui interessano, non possono essere evitate alcune brevi considerazioni sull’intero sistema delle trascrizioni e delle annotazioni previsto dal codice civile, precipuamente circa la natura, le
funzioni e la tipicità degli strumenti pubblicitari in questione. Nel nostro ordinamento, la trascrizione ha natura puramente dichiarativa e adempie alla primaria funzione dell’opponibilità ai terzi degli
atti o convenzioni tra vivi intervenuti tra le parti, soggetti, per disposizione di legge, a detta forma
di pubblicità, costituendo, in secundis, strumento per dirimere eventuali controversie tra più aventi
causa dal comune autore del trasferimento di specifici beni o diritti; funzione ultima, infine, è quella di “pubblicità-notizia”.
Aspetto imprescindibile è costituito dalla “tipicità” della trascrizione e delle annotazioni, consentite
solo nei casi tassativamente indicati dalla legge, esclusa l’applicazione analogica di altra norma non
ammettendo la trascrizione deroghe e non potendo, in alcun senso, trovare equipollenti.
La tipicità del sistema della trascrizione trova conferma in tutte quelle disposizioni che ne impongono forma, natura e contenuto degli atti che devono essere trascritti – artt. 2657-2660 c.c. –, costituendo vincolo per i soggetti che devono eseguirne le relative formalità (cfr. art. 2674 c.c., nella parte in
cui consente al Conservatore dei registri immobiliari di ricusare la ricezione di atti se non contenenti i requisiti di cui al I co. della stessa norma e agli ivi richiamati articoli del c.c.).
Le delineate e insuperabili barriere della trascrizione si estendono alle annotazioni, la cui tipicità si
ricava dagli artt. 2654 e 2655 c.c. e, riguardo alle forme, dal successivo art. 2656 c.c.
Fino all’introduzione del d.p.r. n. 396/2000, la lacuna riguardante l’annotazione della separazione
consensuale tra i coniugi privi di beni immobili in comunione, è attribuibile al legislatore del 1975,
che non si è preoccupato, da un lato, dell’indicata carenza e, d’altro lato, degli effetti e delle imprescindibili refluenze che gli istituti introdotti con la legge n. 151 avrebbero avuto sull’inderogabile sistema delle trascrizioni e delle annotazioni del codice civile del 1942.
Circa le modifiche delle convenzioni matrimoniali, anche la giurisprudenza ritiene che l’annotazione
a margine dell’atto di matrimonio sia indispensabile per opporre ai terzi tanto il regime patrimoniale prescelto quanto gli effetti che la convenzione produce sui beni immobili comuni, ritenendo la
sola trascrizione dell’atto modificativo insufficiente forma di pubblicità.
Pur con ristretto riferimento ai titoli di credito (categoria specifica di beni mobili), breve considerazione merita l’istituto del fondo patrimoniale e, particolarmente, l’art. 167 c.c., che dispone che i titoli di credito nominativi possono far parte del fondo patrimoniale, ricevendo speciale regime pubblicitario consistente nell’annotazione del vincolo sul titolo e nel registro dell’emittente.
I titoli non nominativi dovranno essere convertiti in nominativi per far parte del fondo; per i titoli
del debito pubblico, l’annotazione dovrà essere fatta nelle forme di cui all’art. 40 del d.p.r. 14.02.1963
n. 1343 e all’art. 58 del r.d. 19.02.1911 n. 298, mentre per i titoli nominativi sarà sufficiente una qualsiasi forma riconosciuta dalla legge e dai regolamenti bancari approvati, che sia in grado di dare idonea pubblicità allo speciale vincolo di destinazione impresso sui titoli stessi.
Le forme di cui si è detto attengono sostanzialmente alla natura del titolo di credito che, pur rappresentando una somma di denaro (bene mobile fungibile per eccellenza), consente di riferire a tale
bene più di un documento (il titolo stesso e il registro di emissione) in grado di soddisfare le esigenze pubblicitarie che non si attagliano, invece, agli altri beni mobili.
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2.2. La pubblicità dei ricorsi per separazione giudiziale e per separazione consensuale: opponibilità ai terzi del decreto di omologazione della separazione dopo il d.p.r. n. 396/2000
Prima che alle questioni attinenti alla pubblicità degli atti e di tutto il procedimento che definisce la
separazione consensuale – oggi “annotabile” ex art. 69 lett. d) d.p.r. 396/2000 – occorre volgere l’attenzione al procedimento di separazione personale giudiziale.
Se, infatti, molte delle lacune in evidenza riguardano tutto il corso del procedimento di separazione
consensuale – dal deposito del ricorso congiunto fino all’emanazione del decreto di omologazione,
che è il solo a poter essere annotato, in forza della nuova normativa – esse sono presenti anche nel
procedimento di separazione contenziosa.
In particolare, si fa riferimento all’annotazione di cui all’art. 193 c.c. (contenente cause che determinano la separazione dei beni tra i coniugi), norma che prevede la retroattività degli effetti della sentenza che pronuncia la separazione al giorno della domanda (“fatti salvi i diritti dei terzi”).
Tale locuzione significa – ad unanime giudizio di dottrina e giurisprudenza – che la retroattività “pura” opera solo nei rapporti tra i coniugi, subordinando l’opponibilità della sentenza ai creditori della comunione all’annotazione della stessa a margine dell’atto di matrimonio.
Lo stesso art. 193 c.c., inoltre, non reca riferimento a beni immobili e, conseguentemente, alla trascrizione né del ricorso che introduce il procedimento né della sentenza che lo definisce.
Prima dell’emanazione del d.p.r. in esame, a colmare la lacuna legislativa circa la separazione giudiziale dei coniugi è intervenuto l’art. 23 co. 1° della legge 06.03.1987 n. 74, che ha reso applicabile
anche al relativo ricorso il nuovo testo dell’art. 4 legge 1.12.70 n. 898 sul divorzio, disponendone la
trasmissione dalla cancelleria del Tribunale all’Ufficiale dello stato civile per essere annotato a margine dell’atto di matrimonio.
Il richiamo di legge concerne, come detto, solo l’ipotesi di separazione giudiziale, lasciando priva di
ogni forma di pubblicità la proposizione di ricorso per separazione consensuale tra i coniugi fino alla fase di omologazione del procedimento, per la quale solo dal d.p.r. n. 396/2000 è stata prevista
l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio.
La “disattenzione” del legislatore del ’75 non è apparsa, né appare, invero, giustificabile con l’iniziale
prospettiva della brevità (oltre alla temporaneità) del procedimento di separazione consensuale, stante
che ormai, in molti Tribunali, decorrono anche lunghi periodi tra la data di deposito del ricorso e quella dell’udienza presidenziale, senza che si prevedano altri ostacoli per la definizione del procedimento.
Anche la – remota – possibilità che la separazione consensuale poteva e può venire meno in virtù
di una riconciliazione non giustificava, ante d.p.r. 396/2000, l’estensione della pubblicità prevista per
il ricorso per divorzio (n. 3 art. 4 l. n. 898 del 1.12.1970) alla sola ipotesi di separazione giudiziale,
non configurandosi in testa ai coniugi – e “in favore” degli stessi – una sorta di obbligo di “pubblicità inversa” di quanto accaduto, cui il legislatore ha finalmente supplito con la previsione dell’annotazione della riconciliazione ex lett. f) art. 69 d.p.r. 396/2000.
Per quanto riguarda il sistema precedente al d.p.r. n. 396/2000, non senza critiche e feconde perplessità, l’unanime dottrina riteneva che, in assenza di possibilità di annotazione in calce all’atto di
matrimonio della (omologazione della) separazione consensuale, tale “pubblicità” potesse essere disposta dal Tribunale su istanza di entrambi o di uno dei coniugi, diretta ad ottenere un ordine di annotazione – precisamente, di rettifica – ai sensi dell’art. 454 c.c.
Tale ultima disposizione è stata abrogata dall’art. 110 3° co. dello stesso d.p.r. n. 396/2000, che ha
regolamentato le procedure giudiziali di “rettificazione relative agli atti dello stato civile e delle correzioni” con le norme di cui agli artt. 95-101 del titolo IX, d.p.r. citato.
[Quale nota “storica”, si rileva che anche prima dell’abrogazione, il testo dell’art. 454 c.c. – concernente, a ministero dell’ufficiale di stato civile, la detta “rettificazione... in forza di sentenze passate
in giudicato” – indicava la natura e la tipologia dei provvedimenti (sentenze definitive) che, soli, legittimavano l’instaurazione del procedimento in esame, ostando il fatto che la separazione consensuale era (ed è tutt’oggi) definita con decreto, non compreso nella norma e che riveste natura e forma in tutto dissimile da una sentenza (arg. ex artt. 2908 e 2909 c.c.)].
114
CONTRIBUTI
3. Obbligazioni contratte dai coniugi consensualmente separati e garanzia patrimoniale dei beni (già
comuni) mobili non registrati e diritti equiparati verso i creditori: a) della famiglia (ex-comunione);
b) dei singoli coniugi
La disciplina vigente della pubblicità dei mutamenti di “regime” consente, quindi, a favore dell’interessato coniuge istante, l’annotazione dell’intervenuta e definita separazione consensuale in calce all’atto di matrimonio.
Rimane tuttavia necessario stabilire le conseguenti responsabilità dei coniugi (e del patrimonio mobiliare degli stessi), verso i creditori della comunione (con i beni comuni e, sussidiariamente, con i
beni personali) per le obbligazioni contratte dai coniugi, anche separatamente – cfr. art. 186 lett. c),
c.c. – dopo l’annotazione della separazione consensuale.
L’esigenza che occorre soddisfare è quella di mantenere la responsabilità di entrambi i coniugi per
quelle obbligazioni che, seppure contratte separatamente da uno di essi, risultino chiaramente legate al soddisfacimento di un interesse “familiare” (cfr. art. 186 c.c. lett. c).
La distinzione cui si è attenuto il legislatore è quella, da un lato, delle obbligazioni facenti capo ad
un interesse comune dei coniugi e, dall’altro lato, agli interessi particolari perseguiti da ciascuno di
essi, così esponendo, in via preferenziale, all’azione dei creditori i beni comuni nel primo caso e i
beni personali, nel secondo.
In concreto, manente la comunione, il regime patrimoniale si articola come segue:
a) l’art. 186 c.c. individua positivamente le obbligazioni che gravano sui beni della comunione e che
quindi “producono” debiti comuni, nonché, a contrario, le obbligazioni gravanti sui coniugi separatamente;
b) l’art. 189 c.c. afferma la “esposizione” dei beni della comunione per le obbligazioni contratte dai
coniugi “per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (compiuti) senza il necessario consenso” (secondo la previsione di cui all’art. 184 c.c.);
c) l’art. 190 c.c. determina la responsabilità (sussidiaria) dei beni personali per debiti “comuni” fino
alla metà del credito, nel caso di incapienza dei beni della comunione.
Considerando estranea alla presente ogni ulteriore indagine circa il sopra descritto sistema di obblighi e responsabilità, i riferiti artt. 189 e 190 c.c. devono essere applicati alla luce di due specificazioni proposte dalla dottrina2:
• quando il creditore personale intenda rivalersi sui beni comuni, è ovvio che potrà farlo solo “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”;
• laddove un creditore “comune” voglia esecutare anche i beni personali di uno dei coniugi, potrà
farlo “nella misura della metà del credito”.
La prima delle norme considerate (art. 189 c.c.) limita l’esecuzione del creditore personale al valore
della quota dei beni comuni di appartenenza del coniuge debitore e, opportunamente, consente di
evitare di far gravare sull’altro coniuge le conseguenze negative degli obblighi contratti nell’esclusivo interesse del primo.
L’altra norma (art. 190 c.c.) esclude la solidarietà tra i coniugi per i debiti “comuni” e fa sostanzialmente ricadere sul creditore le conseguenze negative discendenti dagli obblighi assunti nell’interesse di entrambi i coniugi [che, pertanto, ben potrebbero essere fatti gravare per intero su ciascuno dei
coniugi, conducendo a quell’interpretazione restrittiva dell’art. 186 c.c. fino alla disapplicazione della norma alla fattispecie di cui alla lett. d)].
2
Per tutti, Corsi-Ferrara jr., op. cit.
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3.1. La esposizione del patrimonio dei coniugi per le obbligazioni contratte dopo lo scioglimento della comunione
Come fatto cenno, l’art. 186 c.c. è di sostanziale rilievo circa nascita e determinazione delle responsabilità e degli obblighi gravanti sui beni della comunione e, per quanto qui di interesse, sui beni
mobili non registrati che di essa fanno parte, per “le obbligazioni contratte dai coniugi per i bisogni
della famiglia”, anche in seguito a separazione consensuale.
L’individuazione del sistema di responsabilità “passa”, per così dire, attraverso la dizione di cui alla
lettera c), II parte, e lettera d) del citato art. 186 c.c., che sono tali da comprendere almeno tre grandi insiemi di atti e precisamente:
• “ogni obbligazione contratta congiuntamente nell’interesse della famiglia”;
• “ogni obbligazione contratta separatamente nell’interesse della famiglia”;
• “ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi”.
È apparso pacifico, in dottrina, che gli atti e le conseguenti responsabilità riconducibili alle prime
due categorie costituiscono applicazione del cosiddetto “obbligo contributivo” tra i coniugi ex art.
144 co. 2° c.c., con la prevalenza dei princìpi di questo sulle norme della comunione.
È stato notato3 come dopo lo scioglimento della comunione a causa della separazione consensuale
(o del fallimento di uno dei coniugi) appaia difficile affermare la persistenza sui medesimi dell’obbligo contributivo suddetto, venendo assolutamente meno l’assunzione di obbligazioni nell’interesse
della famiglia inteso come interesse dei coniugi, che può non essere coincidente con quello della
comunione.
Questo mutamento di regime, per quanto opponibile (con l’annotazione in calce all’atto di matrimonio) ai terzi, non appare atto a consentire limitazioni e “incroci” di responsabilità riguardo a singoli
beni mobili non registrati, rendendo altresì necessaria l’opposizione all’esecuzione da giudicarsi e risolversi alla luce dell’assenza, già nella normativa generale, di princìpi formali che di detti beni regolano la proprietà e i trasferimenti, senza nessun onere pubblicitario.
Altro problema scaturisce dall’applicazione dell’art. 190 c.c. alle “obbligazioni contratte da entrambi
i coniugi” e, quindi, del principio della “divisione del debito” allorché i creditori (comuni) agiscano,
in via sussidiaria, sui beni personali di ciascuno dei coniugi.
Si tratta, allora, di stabilire se la norma di cui alla lettera d) del citato art. 186 c.c. (diversa dalla previsione di cui alla lett. c per l’assenza della dizione “interesse della famiglia”) si aggiunge alla norma di cui all’art. 1294 c.c. – che sancisce la responsabilità solidale tra condebitori – o se a questa si
sostituisce, nonché se il regime di cui agli artt. 189 e 190 c.c.4 resti applicabile anche alle obbligazioni contratte dopo lo scioglimento della comunione separatamente dai coniugi.
La soluzione più aderente alla normativa non può prescindere dalla considerazione secondo la quale l’“interesse della famiglia” sia da intendersi essenzialmente legato alla “comunione” o se (come
più concretamente appare) l’obiettivo del legislatore sia stato il superamento dell’eventuale scioglimento, sulla duplice considerazione della permanenza, in sede di separazione, del vincolo matrimoniale e della ricorrente presenza di figli, nell’interesse dei quali le obbligazioni possono essere e vengono molto spesso assunte.
3
In tal senso, in dottrina, per tutti Corsi-Ferrara, op. cit.
4
Conformi in dottrina Schlesinger, Commentario al codice civile, cit.; Oppo, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, in Scritti giuridici, Padova, 1992, e Comunione legale e pregiudizio dei creditori personali, in Riv. dir. civ. 1989; Costi, Lavoro
e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976.
116
CONTRIBUTI
3.2. Classificazione e regime dei beni mobili (e diritti equiparati) comuni durante e dopo
la comunione tra i coniugi e verso i terzi
La normativa concernente i beni mobili non registrati offre pochi argomenti per l’opponibilità al creditore da parte del coniuge che, separato consensualmente, vorrebbe non essere chiamato a rispondere delle obbligazioni contratte dall’altro, anche se dirette a soddisfare un cosiddetto bisogno “familiare” (ad esempio, a beneficio dei figli).
Riguardo ai beni mobili propriamente considerati, è noto il citato art. 1153 c.c., affermando il principio “possesso vale titolo”, ha inteso tutelare l’apparenza del diritto onde consentire una rapida circolazione degli stessi, nonché costituire strumento immediato per dirimere (in senso lato) eventuali
controversie tra più soggetti circa la loro appartenenza.
In subjecta materia, gli artt. 195, 196 e 197 c.c. regolano i prelevamenti dalla comunione da parte
dei coniugi allo scioglimento della stessa, con le peculiarità e i limiti in tali norme presenti, sia nei
rapporti tra gli stessi coniugi, sia nei confronti dei terzi.
Invero, tutta la normativa risulta “preoccuparsi” più della tutela dei terzi acquirenti che degli effetti
di una eventuale esecuzione su beni mobili, dei quali si debba dimostrare – per l’opponibilità o per
difetto di legittimazione passiva alla esecuzione – la reale appartenenza.
Conseguentemente, la normativa in materia di circolazione e di legittimazione a compiere atti dispositivi aventi ad oggetto beni mobili, appare investire la responsabilità per gli acquisti del terzo da potere di un coniuge che, anche personalmente separato, trasferisca o disponga di un bene mobile non
registrato parzialmente o interamente di proprietà dell’altro.
Nell’ipotesi di alienazione di tali beni, il III comma dell’art. 184 c.c. prevede l’obbligo a carico del
coniuge disponente di ricostituire la comunione nello stato quo ante al compimento dell’atto o, nell’impossibilità di farlo, di pagare l’equivalente secondo il valore del o dei beni alienato/i al tempo
della ricostituzione della comunione.
Il rimedio apprestato dalla norma de qua – che offre tutela al coniuge non disponente – è circoscritto agli atti di straordinaria amministrazione (cfr. “... compiuti senza il necessario consenso...”) ritenuto che nessun accordo tra i coniugi è necessario per gli atti di amministrazione ordinaria) ed esplica i propri effetti solo nei rapporti tra i coniugi e non appare in nulla applicabile ai terzi, dovendo
essere considerata quale norma “interna” della comunione, anticipatoria degli obblighi di restituzione e rimborso gravanti sui coniugi allo scioglimento della comunione.
Il compendio normativo è completato dagli artt. 195 e 196 c.c. cit., che esauriscono la loro operatività nei rapporti di “dare/avere” tra i coniugi, relativi ai beni mobili personali di ciascuno dei coniugi, allo scioglimento della comunione legale.
Il successivo art. 197 c.c. prende in considerazione la posizione dei terzi rispetto al pregiudizio essi
arrecato dal prelevamento di un bene mobile per il soddisfacimento di credito sorto anteriormente
allo scioglimento della comunione. La norma non sembra offrire al coniuge non contraente alcun
mezzo di tutela nel caso di obbligazione contratta dopo lo scioglimento della comunione, per la quale il terzo agisca sussidiariamente con esecuzione sul bene personale.
Vale notare, infine, che resta escluso dalla tracciata disamina il fondo patrimoniale, del quale (ex art.
167 c.c.) non possono far parte i beni mobili (non iscritti in pubblici registri) e gli altri diritti a questi equiparati, dei quali non sia possibile rendere “pubblica” la destinazione a far fronte ai bisogni
della famiglia di cui al vincolo di inalienabilità e inespropriabilità (cfr. il “difficile” dettato dell’art. 169
c.c.), che vale a caratterizzare la funzione pratica assolta dall’istituto.
Viene qui in rilievo la funzione deterrente che il vincolo di destinazione del fondo riveste, per i creditori che debbano valutare l’utilità di un giudizio teso a far dichiarare il fondo stesso come strumento di elusione dalla garanzia del credito di quei beni che di questo fanno parte, a fronte della rinuncia al soddisfacimento delle proprie ragioni.
[Si pensi, per tutti, alle numerosissime e proliferanti Società cessionarie di crediti – ad esempio bancari – che, avendo acquistato il “pacchetto” creditizio ad una percentuale di molto inferiore al valore del credito stesso e alle garanzie che lo assistono, nessun vantaggio né interesse trarrebbero ad
impiantare due giudizi: il primo, avente ad oggetto la revoca del fondo quale vincolo di destinazio-
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ne “in frode” alle ragioni creditizie; il secondo, successivo, teso al soddisfacimento del credito su quei
beni ormai privi del(lo strumentale) vincolo di destinazione.
Nella maggior parte dei casi, la Società cessionaria rivolgerà la propria azione verso quei beni – mobili o immobili che siano – liberi da vincoli e, quindi, immediatamente aggredibili, sulla precipua
considerazione che la prospettiva di ricavo e la comparazione costi-benefici abbia a presumersi di
segno positivo anche rispetto alla percentuale di acquisto del credito da esigere].
Nel patrimonio “mobiliare” dei coniugi, deve darsi precisa configurazione ai cosiddetti diritti equiparati – così genericamente ma acutamente definiti da De Paola5 – come oggetto di comunione, nonché del di essi regime di appartenenza (proprietà e possesso) e di circolazione.
Circa l’appartenenza o meno di un diritto alla comunione – tralasciando classificazioni sistematiche,
estranee alla problematica che occupa – non può prescindersi dal definire la nozione di acquisti di
cui all’art. 177 lett. a) c.c., nel senso di ricomprendervi quei “diritti”, aggredibili dai creditori della comunione, anche allo scioglimento di essa, in ossequio al regime ad essi proprio.
Se sono da annoverarsi nella comunione i diritti reali6 (arg. ex art. 177 lett. a) c.c.) che risultano opponibili ai terzi (almeno nell’ambito della tipicità degli stessi e del conseguente previsto regime pubblicitario), altrettanto non è a dirsi per le situazioni giuridiche cosiddette “di vantaggio”, quali i diritti di natura strettamente personale di ciascun coniuge, che risultano difficili da valutare e giuridicamente impossibili da aggiungersi, per così dire, al patrimonio comune.
Quanto ai diritti di credito “strictu sensu”, profonde e sostanziali divergenze esistono in dottrina e in
giurisprudenza circa la loro caduta in comunione, tanto alla luce del singolare meccanismo acquisitivo disposto dall’art. 177 lett. a) c.c., quanto per l’assenza nell’ordinamento di una cosiddetta comunione di diritti relativi nonché per il carattere strumentale e personale di detti diritti, che, molto spesso, hanno ad oggetto non un bene ma, più ampiamente, una “entità economicamente rilevante” non
acquisibile alla comunione.
Capitolo a sé è costituito dalle cosiddette creazioni intellettuali o beni immateriali (opere dell’ingegno, invenzioni industriali eccetera) che non entrano a far parte della comunione –attribuzione, utilizzazione e trasmissione spettano all’autore mentre i proventi (art. 177 lett. c) cadono in comunione de residuo – e dalle partecipazioni a società, per le quali è necessario distinguere se consegua responsabilità illimitata (cfr. artt. 2267 co I; 2291; 2313; 2362; 2479 co II c.c.) o limitata alla quota conferita (cfr. artt. 2267 co II; 2313) o sottoscritta (artt. 2325; 2462; 2474 c.c.).
In linea di massima, le prime sembrano doversi ritenere escluse dalla comunione immediata e oggetto di comunione de residuo in ossequio alla tutela della piena libertà d’azione del coniuge “imprenditore” (art. 41 Costituzione) e non senza le eccezioni di cui appresso; le seconde, quali “complesso di diritti e doveri incorporati nello status di socio”7 costituiscono entità giuridica a sé stante e
suscettibile, per questo, di valutazione economica, sicché il loro acquisto è oggetto di comunione
immediata ex art. 177 c.c., fatta eccezione per le partecipazioni che debbano considerarsi personali
(assunzione di responsabilità illimitata o rientranti in una delle fattispecie previste dall’art. 179 c.c.).
Circa l’analisi, non esaustiva, dell’incidenza sulla comunione dei modi di acquisto della proprietà, occorre avere riguardo al tempo nel quale gli acquisti si perfezionano e, quindi, entrano a far parte della comunione, nonché del possesso e dell’usucapione, che possono offrirsi ai creditori della comunione quali uniche “entità patrimonialmente rilevanti” da aggredire in sede esecutiva.
In ordine all’istituto del possesso, si discute in dottrina se tale potere di fatto (secondo la definizione di cui all’art. 1140 c.c.) possa formare oggetto di comunione ed essere ricompresso nella fattispecie acquisitiva descritta dalla lettera a) dell’art. 177 c.c.
5
De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, tomo secondo, Milano, 2002.
6
Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, in Giust. civ., 1988, I, 459; Nuova giur. civ. comm. 1988, I, 456 (con nota di De Falco, Comunione legale e diritti di credito) secondo cui nella comunione legale dei beni tra coniugi rientrano, ai sensi dell’art. 177 lett. a) c.c., solo i diritti reali essendo solo per questi prevista, nell’ordinamento giuridico italiano, la comunione (conf. Cass., 11 settembre 1991,
n. 9513 in Giust. mass. civ. 1991, fasc. 9).
7 De Paola, Il regime patrimoniale della famiglia, cit.
118
CONTRIBUTI
Affermata, in ogni caso, l’impossibilità giuridica di annoverare nella comunione situazioni di vantaggio o diritti relativi di ciascuno dei coniugi, è da ritenere che il possesso realizzato separatamente
dai coniugi in comunione dei beni, possa annettersi al patrimonio coniugale all’unica condizione di
considerare la comunione come soggetto di diritto8, cioè autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche.
Quanto, infine, all’usucapione, ritenendosi il momento perfezionativo dell’acquisto quello del completamento della fattispecie (senza alcun effetto retroattivo all’inizio del possesso cosiddetto “qualificato”), è in tale frangente che il bene entra a far parte del patrimonio comune, sia che il possesso
sia iniziato prima del matrimonio sia in costanza dello stesso.
4. Gli effetti dello scioglimento della comunione dei beni. Le vicende del patrimonio dei coniugi dopo la cessazione della comunione. L’azione del creditore “comune” sui beni mobili per credito posteriore alla separazione consensuale
Appare necessario, a questo punto, delineare l’ambito nel quale l’azione contro il patrimonio coniugale – al sorgere di un’obbligazione ad esso afferente – può essere positivamente esperita da parte
del creditore che ne abbia acquisito titolo.
Fondamentale rilievo assumono i due ordini di effetti che discendono dallo scioglimento della comunione, rispettivamente relativi alle:
1. situazioni costituite dal pregresso patrimonio comune dei coniugi, che, tra l’altro, si incrementa
anche dei beni oggetto di “comunione differita” risultando, come tale, assoggettato all’effettiva divisione dei beni;
2. nuove situazioni giuridiche conseguentemente determinatesi.
Con riferimento al primo gruppo di effetti, assumono rilevanza gli atti dispositivi di beni (comuni)
acquistati durante la permanenza del regime di comunione legale, che fanno ancora parte del patrimonio comune che attende di essere definito per effetto della procedura di liquidazione.
Rispetto a questi beni i coniugi, uti singuli, vantano soltanto un’aspettativa di diritto (sia pure giuridicamente tutelata) che si attualizzerà con il divenire diritto pieno per effetto della successiva divisione ex art. 194 c.c.9. Ne consegue che qualsiasi atto di disposizione di beni facenti parte del patrimonio comune richiede il consenso di entrambi i coniugi, anche se all’atto dispositivo compiuto da
un solo coniuge senza il necessario consenso dell’altro non può più applicarsi il regime di impugnativa di cui all’art. 184 c.c.
Ciò deriva necessariamente dal fatto che l’effetto dispositivo-traslativo del negozio compiuto dal coniuge sarà subordinato (e differito) all’effettiva inclusione del bene nella porzione assegnata al coniuge alienante, mentre nella situazione di pendenza i rapporti tra alienante e acquirente saranno regolati dalle norme sulla condizione del contratto (artt. 1353 e ss. c.c.).
Sembra doversi escludere la possibilità della libera alienazione da parte di ciascun coniuge della quota sul patrimonio comune, così come, invece, è disposto per la comunione ordinaria dall’art. 1103
c.c.10 e, del pari, da parte del coerede sulla quota di patrimonio ereditario a lui spettante prima dell’attribuzione allo stesso della quota divisa e, quindi, dei singoli beni che la comporranno. Prima di
tale momento, infatti, il patrimonio comune non è costituito solo da una massa di beni, ma comprende anche una serie di rapporti attivi e passivi dei coniugi verso e contro la comunione, sottraendo, per così dire, agli stessi coniugi ogni potere circa i beni da dividere.
Con riferimento al secondo gruppo di effetti, assumono rilevanza:
8
Isolati in dottrina De Paola-Macrì, op. cit.
9
Così De Paola, Il regime patrimoniale... cit., 772.
10 Contra Ingino, Gli effetti dello scioglimento della comunione legale sui rapporti patrimoniali tra coniugi anteriormente alla divisione, in Quadrimestre, 1989.
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• gli acquisti di beni eventualmente compiuti in comune dai due coniugi, che saranno regolati dal-
le norme della comunione in generale (artt. 1110 e ss. c.c.);
• l’azienda gestita in comune dai coniugi e costituita durante la vigenza del regime di comunione,
che sarà assoggettata alle norme di cui agli artt. 2555 e ss. c.c.;
• l’assunzione delle obbligazioni per far fronte ai bisogni della famiglia e la conseguente responsabilità dei coniugi che saranno regolate dalle norme di diritto comune.
[Uguale principio vale per le obbligazioni assunte per l’amministrazione dei beni acquistati in regime di comunione legale, circa i quali cessano i poteri di amministrazione disciplinati dagli artt. 180183 c.c.11 e continua, invece, a trovare applicazione il regime di responsabilità patrimoniale delineato negli artt. 186-190 c.c.12 almeno fino alla divisione di cui all’art. 194 c.c.].
4.1. Il recupero del credito. Profili sostanziali e processuali dell’opposizione dei coniugi
Il creditore della comunione che intenda soddisfarsi sui beni mobili può agire giudizialmente contro
uno o contro entrambi i coniugi, in quest’ultimo caso allorché l’obbligazione (cfr. “contratta anche
separatamente”) sia ricompresa tra quelle ex lett. c), II parte, dell’art. 186 c.c.
I soli atti che possono essere considerati “utili” nel senso dalla norma indicato, sono quelli dispositivi di un diritto o diretti all’assunzione di un’obbligazione, da parte di un coniuge o di entrambi, con
i già illustrati effetti conseguenti allo scioglimento della comunione, se i coniugi dovessero risultare
già separati al sorgere dell’obbligazione.
Orbene, in seno al giudizio (cognitivo o esecutivo) promosso dal creditore, è facile che il coniuge
separato non contraente (regolarmente citato o precettato, o altresì chiamato dall’altro coniuge o intervenuto spontaneamente) opponga all’attore o all’esecutante lo status di consensualmente o giudizialmente separato da epoca precedente all’obbligazione per cui è causa, allorché, nel primo caso
l’omologazione della separazione e, nel secondo il ricorso o la sentenza, risultino rispettivamente annotata o trascritti in epoca anteriore al sorgere del diritto quesito.
Un’eventuale difesa di tale fatta, tuttavia, non appare cogliere nel segno.
Nel delineato contesto, infatti, è fortemente dubbio – e la disciplina della responsabilità della comunione legale appare escluderne segnatamente la possibilità – che il coniuge convenuto non contraente possa assumere posizione di non di obbligato e, quindi, di “terzo” (con i diritti e gli oneri probatori a tale ruolo inerenti), al contrario ricorrendo, sul piano processuale, un litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., laddove “il rapporto dedotto in giudizio implichi una situazione sostanziale di
tipo plurisoggettivo, tanto sul piano genetico (il sorgere dell’obbligazione) quanto su quello funzionale (l’inadempimento e la conseguente azione cognitiva o esecutiva) il cui accertamento (o modificazione o estinzione) non può che operare nei confronti di tutti i soggetti partecipanti” (così Cass.
sez. un. n. 5895 dell’1.07.1997).
In buona sostanza, il coniuge convenuto e non contraente, a prescindere dalla possibilità di opporre il proprio status di “separato” al creditore, si ritrova essere parte del rapporto obbligatorio, sulla
scorta dell’ampia responsabilità di cui al citato art. 186 lett. c) c.c., non potendo opporre alcun difetto di legittimazione passiva, né, tantomeno, proporre alcuna azione “di terzo”.
Esclude in radice la configurazione di terzo del coniuge non contraente il dato relativo al semplice
possesso dei beni – già – comuni in testa allo stesso, che fornisce presunzione in favore del credi-
11 De Paola-Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 210; Macrì, Scioglimento della comunione legale e suoi effetti,
in Quaderni riv. not., Milano, 1988.
12 Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione dei beni tra coniugi, Padova, 1986, evidenzia che l’impossibilità di
applicare l’art. 184 c.c. agli atti compiuti, sciolta la comunione, da un coniuge senza il (necessario) consenso dell’altro, ha riscontro
nella formulazione letterale della norma che dispone che “l’azione di annullamento può essere proposta entro un anno dalla conoscenza dell’atto e in ogni caso dalla trascrizione e, comunque, in mancanza di trascrizione e di conoscenza, non oltre l’anno dallo scioglimento della comunione” con costante riferimento alla vigenza (o cessazione) del regime della comunione dei beni.
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CONTRIBUTI
tore procedente a proporre contro il medesimo esecuzione diretta, lasciando eventualmente spazio
all’esecutato per l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c.
Ed infatti, se prima facie appare rispettato il principio che permea le opposizioni di terzi all’esecuzione (che è quello di dimostrare, da parte del terzo, l’appartenenza del bene assoggettatovi a persona diversa dal debitore contro il quale si procede) l’ipotesi prospettata non appare in nulla conforme al regime di responsabilità dei beni comuni, che è regime speciale e, quindi, prevalente e distinto da ogni altro, su cui si fonda la responsabilità diretta del coniuge, ancorché separato.
[Resta netta la differenza con le controversie che abbiano ad oggetto la validità o efficacia del titolo
dell’acquisto di un bene compiuto “separatamente” da uno dei coniugi manente la comunione dei
beni, nelle quali l’altro coniuge, rimasto estraneo alla formazione dell’atto e non intestatario del bene, non è litisconsorte necessario, giacché l’inclusione del bene nella comunione costituisce un effetto ope legis dell’acquisto compiuto in “quel” regime patrimoniale13.
Una situazione siffatta è altro che la risultante del sistema di appartenenza alla comunione dei beni,
circa la pubblicità cosiddetta “di regime” generale esistente tra i coniugi ed opponibile, se annotata,
ai creditori comuni e personali, fatta eccezione per quella relativa ai singoli beni mobili comuni (o
già tali), di contro inopponibile al creditore procedente].
4.2. Effetti sostanziali della prova: la speciale tutela dei crediti della PA
Si è detto come il regime di opponibilità ai terzi dell’appartenenza dei beni mobili all’uno o all’altro
coniuge non consente al coniuge separato, che non ha partecipato al sorgere dell’obbligazione, di
godere di efficace tutela contro l’azione del creditore procedente.
Nell’evidente possibilità che tale normativa possa essere, per così dire, subìta dal coniuge opponente (o potenzialmente tale), può essere utile porre l’accento su quanto previsto, per la prova della
proprietà dei beni mobili, dall’art. 58 del d.p.r. n. 602/1973, novellato dal d.lgs. 18.XII.97 n. 472; d.lgs.
24.VI.98 n. 213; d.lgs. 26.II.99 n. 46 e d.lgs. 13.IV.99 n. 112, in materia di esecuzione da parte dello
Stato o di Enti riscossori, normativa secondo cui il terzo che proponga opposizione all’esecuzione di
beni mobili asseritamente propri e siti nella casa di abitazione o nell’azienda del debitore o del coobbligato, deve dimostrarne la proprietà esclusivamente con atto/i pubblico/i (!!) o scrittura/e privata/e di data certa, anteriore/i non solo all’iscrizione a ruolo del tributo bensì anche al presupposto
che ne ha dato origine.
La norma appare in palese violazione, prima, con l’illustrato regime previsto per i beni mobili e, poi,
con il dettato dell’art. 1350 c.c. che non prevede neppure la semplice forma scritta per atti – e, conseguentemente, per la prova dell’appartenenza – che abbiano ad oggetto beni mobili, in esso articolo non menzionati (a tacere del fatto che l’atto pubblico o la scrittura privata costituiscono forme
speciali neppure previste per parte degli atti aventi ad oggetto beni immobili).
La Corte Costituzionale, investita della relativa questione, si è pronunciata in favore della legittimità
costituzionale della norma imputata, ritenendo prevalente, nel contrasto di leggi, la ratio che la giustifica, tesa ad evitare facili aggiramenti e agevoli frodi con prove semplici di – apparente – appartenenza dei beni esecutati a terzi estranei (quali contratti di comodato e negozi equipollenti, benché
regolarmente registrati anteriormente anche alla nascita titolo esecutivo).
Solo con riferimento ai titoli che possono formare oggetto del fondo patrimoniale e alla pubblicità
per gli stessi prevista, sembra doversi ritenere opponibile anche alla PA procedente l’annotazione
delle modifica o cessazione del fondo stesso ex art. 69 d.p.r. 396/2000, al pari dell’opponibilità della iscrizione sul titolo e sul registro dell’emittente al creditore procedente, per la prevalenza del regime speciale dei titoli di credito su quello generale dei beni mobili.
13 Da ultimo, Cass. 13.12.1999 n. 13941; conformi: Cass. 29.10.1992 n. 11773; Cass. 17.10.1992 n. 11428.
121
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
4.3. La presunzione di appartenenza dei beni dei coniugi alla comunione e la operatività
degli artt. 180 e 184 c.c.
Circa la responsabilità comune tra i coniugi e con riferimento alla preponderante esigenza di tutela
dei beni mobili di ciascuno dopo la separazione, un breve cenno va rivolto al crollo della presunzione di comunione sugli stessi beni – appunto, dopo lo scioglimento della comunione – che determina l’illustrata inapplicabilità degli artt. 180 e 184 c.c.
Va ricordato che l’operatività delle citate norme è limitata al regime degli atti – dispositivi o di acquisto – che richiedano il necessario consenso di entrambi i coniugi, ed è da riferirsi ai negozi di straordinaria amministrazione riguardanti beni (comuni) immobili o mobili registrati.
Alcuna dottrina14 ha sottolineato che, escludendo l’operatività della pubblicità della comunione per i
beni mobili e i diritti “equiparati”, ogni atto dispositivo o di assunzione di obbligazioni relative ai beni (già) comuni, dopo lo scioglimento, posto in essere da uno dei coniugi, ricadrebbe sotto la “severa” disciplina dell’art 1480 c.c. (vendita di cosa parzialmente altrui) e come tale sarebbe, in caso
di inadempimento, azionabile.
Appare più corretto ritenere che, sulla scorta dell’insuperabile principio “possesso vale titolo”, in sede di opposizione (diretta o di terzo) in sede cognitiva o esecutiva, ogni pregiudizio potrebbe essere evitato per il coniuge non contraente attraverso il prelievo dei beni mobili comuni da quella che
è stata, fino alla separazione consensuale, la residenza della famiglia – luogo utile per l’esecutante
–, fermo restando che gli effetti che il prelievo assicura potrebbero non essere opponibili, costituendo il mezzo per restituire ai coniugi i beni (mobili) di rispettiva appartenenza. Anzi, proprio riguardo a questi beni – che possono essere “prelevati” solo sul presupposto di cui all’art. 197 c.c. –, in
assenza di credito di data certa precedente allo scioglimento della comunione, può configurarsi anche un’ulteriore azione a carico del coniuge che opponga tale “appartenenza”, quale soggetto responsabile di pregiudizio alla garanzia patrimoniale del credito.
5. Il regime speciale del fallimento: la pubblicità della sentenza dichiarativa e suoi effetti
Con riferimento alla pubblicità relativa alla pronuncia di fallimento di uno dei coniugi in comunione, la norma che innanzi tutto viene in rilievo è l’art. 17 del r.d. 16.03.1942 n. 267 (cosiddetta “legge fallimentare”), che prescrive che un estratto della sentenza venga “affisso alla porta esterna del
Tribunale e comunicato... al Registro delle imprese. L’estratto... è inoltre pubblicato nel Foglio degli
annunci legali della Provincia...”. Tale norma non ha subìto variazioni in seguito alla riforma della
legge fallimentare, di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5, entrato in vigore il 16.07.2006.
A parere dell’unanime dottrina e della giurisprudenza di legittimità (per tutte, Cassazione 4.04.1979
n. 1940 in Fall. 1980, 233) l’affissione crea una presunzione legale di conoscenza della sentenza per
tutti gli interessati, indipendentemente dalla messa in atto di formalità particolari e/o ulteriori, potendosi la presunzione de qua provare con ogni mezzo.
Pur nel silenzio del legislatore della riforma del 1975 e, fino ad oggi, della legislazione successiva
(ivi compreso il d.p.r. 396/2000, che nessuna annotazione dispone in caso di fallimento di uno dei
coniugi in comunione) l’or ora menzionato sistema pubblicitario sembra non concedere alcun vantaggio al singolo creditore.
Tuttavia (come è stato notato da De Paola15) l’efficacia erga omnes dello scioglimento della comunione non sembra potersi subordinare alla semplice formalità dell’iscrizione della sentenza di fallimento nei termini sopra enunciati, in quanto – argomentando dagli artt. 44 e 45 l.f., anch’essi intoccati
dal d.lgs. n. 5/06 – detta efficacia riguarda solo gli atti compiuti dal fallito e non incide affatto sugli
effetti degli atti estranei al fallimento, quali quelli, in particolare, compiuti dal coniuge del fallito.
14 Ferrara Jr.-Corsi, op. cit.
15 De Paola, Il regime patrimoniale..., cit., tomo II, 745 e ss.
122
CONTRIBUTI
Nessun effetto, invece – e, quindi, nessun conseguente problema di pubblicità – può ritenersi che
abbiano sull’instaurazione del (nuovo) regime patrimoniale tra i coniugi (cioè la separazione dei beni, conseguente alla pronuncia di fallimento) la chiusura del fallimento (art. 118 e ss. l.f.) – e, ovviamente, la oggi abrogata revoca del fallimento (già ex art. 21 l.f.) – correttamente ritenendosi16 che i
beni della comunione che, per effetto della chiusura del fallimento (nonché, fino al 16.7.2006, anche per la revoca del fallimento), sono stati restituiti dal curatore ai coniugi, continueranno ad essere soggetti agli effetti che la legge ricollega all’avvenuto scioglimento della comunione legale.
Una tesi discorde – foriera di molte perplessità – in dottrina17 ha ritenuto che, con riferimento ai beni (già) comuni ancora indivisi, si possa prospettare l’ipotesi della retroattività, potendosi parlare di
“ricostituzione” della comunione riguardo a detti beni; non mancando chi18 ha sostenuto come in tale ipotesi si verifichi il fenomeno inverso a quello che avviene al momento della dichiarazione di fallimento, cioè che una comunione ordinaria – quella sui beni ancora indivisi – si trasformi in una comunione legale.
Ed ancora, è stato sostenuto19 che l’esigenza di dare completezza al sistema di pubblicità del regime
patrimoniale della famiglia, rispetto alla sopravvenienza della dichiarazione di fallimento, imporrebbe di ritenere che ogni interessato sia legittimato, attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 69
d.p.r. 396/2000, a richiedere la relativa annotazione della sentenza stessa a margine dell’atto di matrimonio20.
A fronte delle superiori notazioni, tuttavia, deve essere tenuto da conto un unico e generale argomento a contrario, quello secondo il quale anche ammettendosi il “rientro” dei beni (da divisi a comuni) nella comunione, è facile ipotizzare le enormi difficoltà di applicazione della normativa pubblicitaria relativa sia alla comunione sia al fallimento, non fosse altro che per l’impossibilità di conciliare la pubblicità di situazioni affatto definite con l’inderogabile sistema della trascrizione.
6. Considerazioni conclusive
Si è finora ampiamente evidenziato come, all’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia,
l’annotazione non fosse prevista né per la sentenza di fallimento di uno dei coniugi, né per il decreto di omologazione della separazione consensuale.
Questo primo periodo di vigore della normativa di cui al d.p.r. 396/2000 ha condotto parte della dottrina a ritenere, almeno de jure condendo, superata la carenza normativa di cui sopra, grazie all’interpretazione integrativa dell’art. 69 del decreto presidenziale detto.
Peraltro, alcune delle notate lacune erano state, prima dello stesso decreto, parzialmente colmate da
quella interpretazione, più analogica che estensiva, dell’art. 10 legge n. 898/70 sul divorzio (osteggiata dagli interpreti più rigorosi), che prevede testualmente “la annotazione (e le ulteriori incombenze di cui al r.d. 09.07.1939 n. 1238; ma vedasi ora l’art. 69 citato d.p.r.) della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio”.
E, ancora, l’espressa previsione di cui all’art. 23 della l. 6 marzo 1987 n. 74 (dichiarando applicabili,
se compatibili, (solo) al giudizio di separazione personale dei coniugi le norme processuali della di-
16 De Paola, Il regime patrimoniale..., cit.
17 Rossi Carneo, Cause di scioglimento della comunione, in Bianca (a cura di), La comunione legale, vol. II, Milano, 1989, 913 ss.
18 Colussi, Azienda coniugale e disciplina dell’impresa, in Riv. dir. civ. 1976.
19 De Paola, Il regime patrimoniale..., cit.
20 Schlesinger, Sub art. 191 c.c., in Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1992, 440; De Paola-Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 333; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., Vol. I, 187; Toneatti, Regime patrimoniale della famiglia e provvedimenti dell’autorità giudiziaria, in Stato civ. It., 1983, 567; Di Benedetto, In tema di comunione legale dei beni, azienda coniugale e fallimento, in Riv. not., 1989, 794; Dogliotti, Lo scioglimento della comunione legale dei beni tra coniugi: presupposti e caratteri, in Dir. fam. pers. 1990, 267 e ss.; Mastropaolo e Pitter, Sub art. 191 c.c., in Commentario al diritto italiano della famiglia, cit., 325 e ss.
123
AIAF RIVISTA 2009/2 • maggio-agosto 2009
sciplina del divorzio) ha consentito di affermare21 che sia la sentenza di separazione personale dei
coniugi sia il decreto di omologazione della separazione consensuale dovevano essere annotati in
calce all’atto di matrimonio, ad essi pacificamente estendendo il predetto art. 10 legge divorzio.
Tale linea di pensiero (condivisa anche da De Paola22) dissipa in toto ogni dubbio circa l’applicabilità dal d.p.r. 396/2000 (con un “salto temporale” a ritroso per il decreto di omologazione della separazione consensuale, la cui annotazione è stata prevista ben tredici anni prima con la legge n. 7
del 1987) che, quale normativa speciale, non è suscettibile di interpretazione analogica a fattispecie
in essa non prevista.
A tali considerazioni si aggiunga che alcune delle innovazioni introdotte con il d.p.r. n. 396 appaiono tali da suscitare non lievi perplessità, con riferimento, ad esempio, alla previsione ex art. 69 lett.
f) circa l’annotazione della riconciliazione tra i coniugi separati, esattamente “delle dichiarazioni con
le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione”.
Pur concordando sul dato della necessità che i terzi siano posti a conoscenza dell’avvenuta riconciliazione tra i coniugi, viene da chiedersi che incidenza abbia l’annotazione di una dichiarazione (cfr. testo
di legge) su atti come sentenze, decreti (di omologazione) e trascrizioni o annotazioni che mantengono fermi i loro effetti fino ad annullamento o revoca nelle forme di legge.
Altresì, anche restringendo l’operatività dell’annotazione della riconciliazione al giudizio di separazione ancora in corso (così eliminando gli effetti della annotazione del ricorso introduttivo della separazione stessa, prevista dall’art. 23 l. 6.3.87 n. 74), l’annotazione in parola appare avere scarsa rilevanza,
potendo i coniugi semplicemente abbandonare il giudizio e procedere alla cancellazione della annotazione del ricorso in seguito alla estinzione del giudizio medesimo.
21 Zaccaria, La pubblicità della sentenza di separazione personale nella legge di riforma del divorzio”, in Riv. dir. civ. 1989, 659 e ss.
22 De Paola, Il regime patrimoniale della famiglia..., cit.
124
DALLE REGIONI
I CRITERI DI DETERMINAZIONE DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO IN FAVORE DEL
CONIUGE ADOTTATI DA ALCUNI TRIBUNALI DEL VENETO
a cura di
Lorenza Cracco
Avvocato, Foro di Padova
Gabriella de Strobel
Avvocato, Foro di Verona
Damiana Stocco
Avvocato, Foro di Rovigo
Premessa
Nell’ultimo decennio, nell’ambito degli ordinamenti giuridici europei, si è assistito ad un accreditarsi
di taluni princìpi comuni, che ormai da tempo rappresentano l’inevitabile conseguenza di un’esigenza di sostanziale omogeneità, che involge le più recenti modifiche legislative in materia di diritto di
famiglia.
Pur nella diversità dei sistemi giuridici che connotano i Paesi a noi più vicini, l’impegno giurisprudenziale e legislativo è stato incentrato nella ricerca di un equilibrio tra la valorizzazione della libertà di ciascuno, e le doverose esigenze di tutela della parte più debole, ineliminabile espressione del
dovere di solidarietà che identifica l’essenza stessa del matrimonio.
Nel sistema inglese, dove il giudice ha il potere di “ridistribuire virtualmente” ogni elemento economicamente rilevante delle parti, è stato valorizzato il parametro relativo al contributo offerto al benessere della famiglia fornito dal coniuge debole, attraverso la cura della casa e dei figli.
Nella valutazione dei giudici tedeschi è emersa la tendenza a conferire un’importanza assai maggiore che in passato all’attività domestica e alla cura dei figli.
Il legislatore francese, nella recente riforma del 2004, ha espressamente previsto alcuni precisi criteri di quantificazione che devono essere presi in considerazione ai fini del riconoscimento della “prestation compensatoire”.
Anche il nostro Paese, con l’entrata in vigore della legge n. 54/2006 si è omologato alla tendenza di
uniformare, su scala quantomeno europea, le previsioni normative, al fine di consentire la realizzazione di una piena e sostanziale parità dei coniugi anche sul piano economico, specie nel momento della crisi coniugale.
Il presente questionario ha la finalità di verificare quali siano i criteri di applicazione dei parametri normativi di determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge debole e dei figli minori,
nonché le modalità con le quali viene data attuazione ai più recenti interventi legislativi e giurisprudenziali, tendenti ad una sempre maggiore uniformazione nell’obiettivo di fornire una soluzione il
più possibile equa e garantista della disciplina degli aspetti economici nel caso di cessazione della
convivenza familiare.
Criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge
Dott. Pierluigi Crestani (Presidente Tribunale di Padova)
Dott. Michele Bordon (Giudice, Tribunale di Rovigo, Sezione Famiglia)
Dott. Giuseppe Iannetti (Presidente Tribunale di Verona)
1)
La conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio è criterio imprescindibile di
determinazione dell’assegno di mantenimento, o costituisce un obiettivo solo tendenziale?
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• In sede presidenziale non si è quasi mai in grado di conoscere esattamente il tenore di vita
matrimoniale, sicché, in via d’urgenza, risulta pressoché impossibile parametrare l’assegno a
tale criterio. In ogni caso, non condivido l’orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo cui dev’essere mantenuto lo stesso tenore di vita, in quanto, a seguito della separazione, le
disponibilità complessive della famiglia vengono ripartite in due nuclei familiari e quindi diminuiscono. (Presidente Tribunale di Padova)
• Costituisce un obiettivo tendenziale. (Tribunale di Rovigo)
• Il tenore di vita è un criterio tendenziale ai fini della determinazione dell’assegno ma si tengono in considerazione anche i redditi delle parti. (Presidente Tribunale di Verona)
2)
Quali sono i principali indici del livello di vita matrimoniale tenuti in considerazione ai fini della
quantificazione dell’assegno?
• Come ho già risposto, in sede presidenziale, solo in pochi casi è stato possibile accertare il tenore di vita matrimoniale. In genere, tale accertamento è avvenuto sulla base della produzione documentale della parte richiedente l’assegno (ad esempio viaggi, frequenti soggiorni, fotografie di immobili e beni di proprietà). (Presidente Tribunale di Padova)
• I principali indici di livello di vita matrimoniale tenuti in considerazione sono i consumi. (Tribunale di Rovigo)
• Gli indici del livello di vita matrimoniale sono i consumi, gli investimenti, la proprietà di veicoli, cavalli, barche, il tipo di vacanze e di viaggi che la famiglia ha effettuato durante la vita
matrimoniale. (Presidente Tribunale di Verona)
3)
In quale misura la disparità di reddito tra due coniugi che svolgono entrambi un’attività lavorativa
retribuita, legittima la determinazione di un assegno di mantenimento in favore del coniuge con
reddito inferiore?
• Ai fini della determinazione di un assegno di mantenimento in favore del richiedente, è necessario che il reddito di un coniuge sia almeno il doppio rispetto a quello dell’altro.
Nel caso in cui si tratti di redditi di importo modesto, ad esempio € 1.000 la moglie ed € 2.000
il marito, che lascia la casa, non viene disposto alcun contributo di mantenimento. Qualora invece la disparità del reddito sia più cospicua, per esempio € 5.000 il marito e € 1.000 la moglie, in tal caso viene riconosciuto un contributo di mantenimento in favore della moglie nonostante abbia un reddito proprio. (Presidente Tribunale di Padova)
• La differenza tra i redditi di coniugi che svolgono entrambi attività lavorativa retribuita, deve
essere rilevante, almeno 40-50% ai fini della determinazione di un assegno a favore del coniuge più debole, specie se i coniugi sono entrambi giovani. (Tribunale di Rovigo)
4)
In quale misura rileva la sussistenza di una capacità lavorativa in capo al coniuge privo di reddito?
• La giovane età del coniuge richiedente indubbiamente rileva, e spesso informo l’interessato
dell’importanza e della necessità che si attivi per reperire un’occupazione lavorativa. In più occasioni ho riconosciuto un assegno di mantenimento a termine, di un anno o sei mesi, anche
in relazione alle informazioni ricevute dal coniuge richiedente in ordine allo stato della ricerca di occupazione. (Presidente Tribunale di Padova)
• La mancanza di un lavoro in capo al coniuge privo di reddito rileva nella misura in cui tale situazione sia stata accettata dall’altro coniuge. (Tribunale di Rovigo)
• La mancanza di lavoro in capo al coniuge privo di reddito rileva in relazione all’età, alle precedenti esperienze lavorative, alla capacità lavorativa già espletata e al titolo di studio. (Presidente Tribunale di Verona)
5)
Quali sono la fascia di età e i criteri in base ai quali è plausibile che il coniuge privo di reddito debba attivarsi per reperire un’occupazione che lo renda economicamente autosufficiente?
• Ritengo che se il coniuge richiedente è la moglie, in ipotesi casalinga di cinquant’anni, non sia
pensabile che ella sia obbligata ad attivarsi per reperire un’attività lavorativa retribuita. Se si
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DALLE REGIONI
tratta di una persona di trenta o quarant’anni, invece, sì. (Presidente Tribunale di Padova)
• Il coniuge privo di redditi potrà trovare un’occupazione che lo renda economicamente auto-
sufficiente, ma ciò dipenderà dalle condizioni sociali, dal titolo di studio e dall’esperienza lavorativa, in media ritengo che la fascia di età per trovare un’occupazione come limite massimo sia fino a 40-45 anni. (Tribunale di Rovigo)
• Attualmente, tenendo conto anche della crisi economica in atto, l’età entro la quale è possibile reperire un’occupazione è circa 35 anni. (Presidente Tribunale di Verona)
6)
In quali casi l’inoccupazione del coniuge richiedente l’assegno legittima in ogni caso la determinazione dell’obbligo di assegno?
• Se il richiedente non lavora e ha provato delle reali condizioni di difficoltà nel reperimento di
un’occupazione lavorativa. (Presidente Tribunale di Padova)
• L’inoccupazione del coniuge richiedente l’assegno rileva se tale situazione è stata voluta o accettata dall’altro coniuge. (Tribunale di Rovigo)
• La mancanza di occupazione legittima la richiesta dell’assegno ma ciò viene comunque valutato in relazione al reddito dell’obbligato. (Presidente Tribunale di Verona)
7)
Il godimento gratuito, da parte del coniuge richiedente l’assegno, dell’abitazione coniugale di proprietà dell’altro in tutto o pro quota, quale percentuale rappresenta rispetto al quantum complessivo dell’assegno determinato in suo favore?
• Se ne tiene conto cercando di tradurre il godimento gratuito dell’immobile o di una sua quota parte, nell’importo di un canone locatizio. Talvolta, nel caso di assenza dei presupposti per
l’assegnazione dell’abitazione in comproprietà, ho negato l’assegno di mantenimento in via
d’urgenza, rimettendo la decisione al g.i. nel momento in cui risultasse che uno dei due coniugi si era allontanato definitivamente da casa. (Presidente Tribunale di Padova)
• Il godimento gratuito della casa coniugale da parte del coniuge richiedente l’assegno è importante in proporzione al risparmio realizzato dal coniuge che usufruisce della casa. (Tribunale
di Rovigo)
• Nella determinazione del quantum dell’assegno si tiene conto della fruibilità per il coniuge richiedente l’assegno della casa coniugale, specialmente se il coniuge che ha lasciato l’abitazione non ha altri immobili di cui poter usufruire e se è pertanto obbligato a pagare un canone
di locazione. (Presidente Tribunale di Verona)
8)
In quale misura incide sulla determinazione dell’assegno, la sussistenza, in capo al coniuge onerato, dell’obbligo di rimborso per intero o pro quota della rata del mutuo gravante sull’immobile coniugale in cui è rimasto ad abitare l’altro coniuge?
• Se ne tiene indubbiamente conto e anzi, nella motivazione dell’ordinanza presidenziale, spesso viene espressamente indicato quale criterio di quantificazione dell’assegno. Nel caso in cui
il coniuge non assegnatario dell’abitazione interrompa il pagamento della propria quota parte
delle rate di mutuo, si potrà chiedere un’elevazione dell’assegno di mantenimento, di modo
che l’importo determinato possa risultare comprensivo anche della rata di mutuo mensile.
(Presidente Tribunale di Padova)
• La sussistenza di un obbligo di rimborso del mutuo gravante sulla casa coniugale in capo la coniuge onerato incide in misura pari ad un ordinario canone di locazione. (Tribunale di Rovigo)
• L’obbligo del rimborso pro quota della rata del mutuo sulla casa coniugale incide in rapporto
al reddito delle parti. (Presidente Tribunale di Verona)
9)
La titolarità, in capo al coniuge istante, di un patrimonio mobiliare e/o immobiliare, può rappresentare, e se sì in quali limiti, una circostanza ostativa al riconoscimento di un assegno di mantenimento?
• Dipende dal reddito che deriva da tali beni, in quanto, ai fini dell’esclusione del mantenimento in favore dell’istante, è necessario un reddito effettivo. Se il reddito derivante da tali beni è
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limitato o inesistente, ritengo che non se debba tener conto, quantomeno in questa prima fase di adozione dei provvedimenti presidenziali. (Presidente Tribunale di Padova)
• La sussistenza in capo al richiedente l’assegno di un patrimonio mobiliare e/o immobiliare rileva se tale patrimonio produce reddito. (Tribunale di Rovigo)
• Solo nella misura in cui il patrimonio mobiliare e immobiliare sia produttivo di reddito ovvero in casi in cui il patrimonio sia così rilevante che anche la vendita di qualche immobile non
lo intacchi nella sostanza. (Presidente Tribunale di Verona)
10) In presenza di quali indicatori esterni i redditi risultanti dalla documentazione fiscale non rappresentano un parametro di riferimento della reale capacità economica delle parti?
• Molto spesso capita che le dichiarazioni dei redditi siano palesemente inattendibili, specie nel
caso di imprenditori autonomi. In tali casi, ho spesso attribuito un reddito presunto, evidenziando l’assoluta inattendibilità della documentazione fiscale. (Presidente Tribunale di Padova)
• I redditi risultanti dalla documentazione fiscale sono presi quale indicatore del reddito se vi è
coerenza fra i redditi dichiarati e il tenore di vita goduto. (Tribunale di Rovigo)
• Gli indicatori esterni che vengono valutati come parametro di riferimento della capacità economica delle parti sono ad esempio: acquisto di immobili negli ultimi anni, tipo di autovetture utilizzate e numero, incidenza delle spese mensili che superano il reddito dichiarato. (Presidente Tribunale di Verona)
11) In base a quali criteri vengono valutate le potenzialità dell’attività di impresa esercitata dal coniuge obbligato?
• Avendo maturato esperienza professionale solo con riferimento ad udienze presidenziali di
separazione o divorzio, non sono in grado di rispondere a questa domanda, atteso che il relativo accertamento implica necessariamente un’attività istruttoria. (Presidente Tribunale di
Padova)
• Ad esempio vengono valutati, in questo periodo di crisi, gli incentivi che il governo ha riconosciuto per alcuni tipi di aziende che evidentemente favoriscono l’attività. Si pensi ad esempio all’incentivo del 55% per il cambio degli infissi degli immobili che evidentemente aumenterà il potenziale dell’attività dell’impresa. (Presidente Tribunale di Verona)
12) Quali sono i parametri di riferimento per la valutazione della redditività delle società di cui uno o
entrambi i coniugi siano soci o detentori di quote di partecipazione, oltre ai bilanci aziendali?
• Dipende dalla tipologia della società. Per le società di capitali è rischioso presumere la falsità
dei bilanci societari, sicché, generalmente, si tiene conto della documentazione contabile dei
bilanci prodotta. Nel caso, invece, di società di persone, ci sono maggiori margini di discrezionalità nel valutare l’effettiva sussistenza reddituale. (Presidente Tribunale di Padova)
• Indice per valutare la redditività delle società è dato dal tenore di vita dei coniugi. (Tribunale di Rovigo)
• Si tiene conto del bilancio, del numero degli occupati, del fatturato e dei dividenti non distribuiti, che sono chiaro sintomo di reddito che non viene attribuito al coniuge obbligato. In ogni
caso la valutazione della redditività di una società viene demandata ad una consulenza tecnica d’ufficio. (Presidente Tribunale di Verona)
13) Che rilievo viene attribuito ai premi aziendali, ai premi di produzioni, nonché ai benefit aziendali
di cui può godere il coniuge obbligato?
• Se i benefit sono regolari e costanti costituiscono reddito, l’importante è la loro continuità e in
questo caso se ne tiene conto. (Presidente Tribunale di Padova)
• Tali indici rilevano in quanto si traducano in risparmi di spesa. (Tribunale di Rovigo)
• I benefit e i premi aziendali vengono considerati ai fini della determinazione dell’assegno per
il coniuge obbligato, ma ovviamente in relazione al numero e alla qualità. (Presidente Tribunale di Verona)
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DALLE REGIONI
14) In che modo e con quali limiti, la particolare capienza economica della famiglia d’origine di uno
dei due coniugi e la sussistenza di elargizioni costanti in suo favore, può influire sulla determinazione e quantificazione dell’assegno di mantenimento dallo stesso richiesto?
• Ritengo che la capienza economica della famiglia d’origine abbia un’importanza molto ridotta. Può rilevare forse in via d’urgenza, eventualmente per escludere un assegno, ma in
sede di sentenza occorrerà avere riguardo solo al reddito delle parti. (Presidente Tribunale di Padova)
• Non sussistono criteri generali, quindi viene valutato di volta in volta. (Tribunale di Rovigo)
• In generale, le elargizioni costanti in favore della famiglia che si separa, effettuate dai genitori dei coniugi non vengono tenute in considerazione per l’assegno di mantenimento, essendo,
casomai, esperibile, un ricorso ex art. 148 c.c. (Presidente Tribunale di Verona)
15) Nel caso di esistenza di un’impresa familiare, in base a quali criteri viene valutata la partecipazione del coniuge che invoca l’assegno?
• Se rileva che un coniuge, benché formalmente socio al 50%, di fatto non percepisce utili, e
l’altro non prova il contrario, può essere comunque determinato un assegno in favore del richiedente. (Presidente Tribunale di Padova)
• La partecipazione del coniuge all’impresa famigliare è valutata in rapporto al suo lavoro anche casalingo. (Tribunale di Rovigo)
• In base al reddito che produce l’azienda. (Presidente Tribunale di Verona)
16) In che misura incide sulla quantificazione dell’assegno di mantenimento, il prezzo che risulti essere stato percepito da uno dei due coniugi dalla recente vendita di immobili di sua proprietà?
• In nessuna misura, perché il patrimonio risulta inalterato. Potrebbe eventualmente rilevare in
via d’urgenza, per escludere la determinazione di un assegno in favore del richiedente, ma in
sede di sentenza, ritengo che non abbia alcuna rilevanza, in quanto l’entità del patrimonio rimane la stessa. (Presidente Tribunale di Padova)
• Il prezzo percepito da un coniuge dalla recente vendita di immobile di sua proprietà è valutato nella quantificazione dell’assegno se risulta produttivo di reddito. (Tribunale di Rovigo)
• In relazione a quanto incassato dalla vendita. (Presidente Tribunale di Verona)
17) L’ammontare del canone locatizio in capo al coniuge obbligato può rappresentare un indice della
sua capacità economica?
• Certamente, è un indice della sua capacità economica. (Presidente Tribunale di Padova)
• L’ammontare del canone locatizio in capo al coniuge obbligato rappresenta un indice della
sua capacità economica se l’ammontare di detto canone è superiore alla media. (Tribunale
di Rovigo)
• Certamente soprattutto se si tratta di un canone elevato ad esempio 2.000,00 euro mensili (Presidente Tribunale di Verona)
18) Con quali criteri viene valutata la sussistenza, in capo al coniuge “forte”, dell’onere di rimborso di
molteplici finanziamenti?
• La tendenza dei coniugi onerati di un assegno di mantenimento è quella di considerare il proprio obbligo nei confronti del coniuge di importanza inferiore rispetto a quello del rimborso
di eventuali finanziamenti contratti, mentre dovrebbe essere il contrario. Anzi, pur di onorarlo, i coniugi dovrebbero estinguere alcuni finanziamenti e non chiedere di ridurre l’assegno di
mantenimento. Quindi, alcuna rilevanza viene data a posizioni debitorie del coniuge obbligato non strettamente connesse agli obblighi di mantenimento della famiglia. (Presidente Tribunale di Padova)
• Se i finanziamenti effettuati dal coniuge forte sono stati accesi durante la vita matrimoniale e
con l’accordo del coniuge, vengono presi in considerazione ai fini dell’ammontare dell’assegno dovuto, se invece tali finanziamenti sono recenti cioè vicini alla domanda di separazione
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e appaiono come espedienti per abbassare l’assegno, evidentemente non se ne terrà conto.
(Presidente Tribunale di Verona)
19) Rileva e in quali limiti la convivenza del coniuge richiedente l’assegno con un nuovo compagno?
• Rileva, quantomeno in via urgente, per escludere l’assegno di mantenimento in favore del richiedente, purché si tratti di una convivenza stabile e l’altro convivente abbia capacità economica. (Presidente Tribunale di Padova)
• La convivenza del coniuge richiedente l’assegno rileva se ha la caratteristica della stabilità che
è data ovviamente in specie se vi sono dei figli. (Tribunale di Rovigo)
• Sì, se ne tiene conto. (Presidente Tribunale di Verona)
20) Se e in quale misura rileva la costituzione, da parte del coniuge onerato dell’assegno, di una nuova
famiglia e la nascita di nuovi figli?
• Rileva, indubbiamente, anche perché il coniuge che ha avuto un nuovo figlio è ugualmente
obbligato al mantenimento anche nei suoi confronti. Occorre quindi contemperare le esigenze della famiglia e dei figli nati dal matrimonio, con quelle dei figli naturali. (Presidente Tribunale di Padova)
• La nuova famiglia costituita dal coniuge onerato non può essere un alibi per sottrarsi agli obblighi precedenti verso la famiglia originaria, specie se si è in presenza di un coniuge economicamente debole. (Tribunale di Rovigo)
• Sì, si tiene conto dell’eventuale nuova famiglia ma soprattutto dei nuovi figli, ma ciò sempre
in relazione al reddito, per cui se il reddito è capiente è possibile che gli assegni determinati
in base alla precedente situazione vengano confermati. (Presidente Tribunale di Verona)
21) Ai fini del riconoscimento e quantificazione di un assegno di mantenimento in sede di separazione, che rilievo viene dato alla durata del matrimonio?
• Non ricordo di aver mai negato un assegno di mantenimento in ragione della brevità del matrimonio. Quantomeno in via d’urgenza, in ogni caso, ai fini della determinazione dell’assegno
di mantenimento, non ho mai tenuto in considerazione la durata del matrimonio. (Presidente
Tribunale di Padova)
• La durata del matrimonio è importante specie se si tratta di coniugi giovani o coniugi già economicamente autosufficienti. (Tribunale di Rovigo)
• La durata del matrimonio viene valutata, ma in relazione all’età, alla capacità ed esperienza lavorativa di chi chiede l’assegno. Ad esempio in un matrimonio di breve durata in cui, la moglie richiedente l’assegno non abbia potuto lavorare per problemi di salute e/o di gravidanze,
la breve durata del matrimonio non può essere un criterio per escludere l’assegno (Presidente Tribunale di Verona)
22) In quali casi le particolari ragioni della separazione incidono sulla determinazione dell’assegno in
favore del coniuge richiedente?
• In via d’urgenza non ne ho mai tenuto in considerazione, anche perché, diversamente, avrei anticipato un giudizio in ordine all’addebito della separazione. (Presidente Tribunale di Padova)
• Le ragioni della separazione possono incidere sulla determinazione dell’assegno se le violazioni degli obblighi derivanti dal matrimonio hanno influito sulla capacità di produrre reddito.
(Tribunale di Rovigo)
• Le ragioni della separazione vengono prese in considerazione per la determinazione dell’assegno ma non da sole, in relazione a tutti gli altri elementi del reddito. (Presidente Tribunale di
Verona)
23) In che modo rileva la cessazione volontaria dell’attività lavorativa da parte del coniuge obbligato?
• Se la cessazione dell’attività lavorativa non è giustificata e volontaria, le condizioni relative all’assegno rimangono invariate. (Presidente Tribunale di Padova)
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DALLE REGIONI
• La cessazione volontaria dell’attività lavorativa del coniuge obbligato rileva sia per attenuare
l’ammontare l’assegno sia per escluderlo. (Tribunale di Rovigo)
• La cessazione volontaria dell’attività lavorativa viene considerata se si tratta di una scelta esi-
stenziale motivata. Se però chi ha effettuato tale scelta ha comunque accumulato un patrimonio rilevante l’assegno verrà mantenuto. (Presidente Tribunale di Verona)
24) Ritiene possibile, ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento, l’applicazione di sistemi statistico-scientifici di determinazione (Mo.Cam. o altri programmi di calcolo)?
• L’unica cosa che posso rispondere in merito a questa domanda, attesa la mia esperienza in
materia solo in qualità di Presidente, è che a volte ho attribuito un reddito presunto con riferimento ai redditi approssimativi della categoria lavorativa di appartenenza dell’onerato. (Presidente Tribunale di Padova)
• Ritengo che sia un sistema utile. (Tribunale di Rovigo)
• No, non li ritengo adeguati perché è molto importante durante l’udienza presidenziale cercare di proporre delle soluzioni, parlandone direttamente con le parti, vedendo le loro reazioni
e valutando tutto il complesso della situazione. Tale situazione è estranea a metodi matematici e/o statistico-scientifici. (Presidente Tribunale di Verona)
25) Nel caso in cui vi sia una disparità di reddito tra due coniugi tale per cui è la moglie ad avere un
reddito superiore al marito, se e in base a quali parametri viene riconosciuto un assegno in favore
del marito?
• I criteri sono identici. (Presidente Tribunale di Padova)
• Si applicano gli stessi criteri indicati a favore della moglie. (Tribunale di Rovigo)
• Sì certamente, utilizzando i medesimi parametri di riferimento per determinare l’assegno per
la moglie. (Presidente Tribunale di Verona)
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VENETO.
RACCOLTA DI GIURISPRUDENZA RELATIVA ALL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO
CORTE D’APPELLO DI VENEZIA, ordinanza 17.03.2008
Separazione - Assegno - Durata
In sede di provvedimenti presidenziali di separazione, il Presidente aveva riconosciuto alla moglie in
via provvisoria, un assegno di mantenimento, che doveva cessare dopo un certo periodo di tempo.
Il presupposto di tale temporaneo provvedimento, era dato dal fatto che la richiedente l’assegno, “nonostante fossero trascorsi alcuni mesi dal deposito del ricorso non aveva ancora un lavoro il che faceva presumere che non aveva intenzione di cercarlo”.
La moglie reclamava tale provvedimento avanti la Corte d’Appello di Venezia, la quale, revocava la fissazione di una scadenza temporale dell’assegno di mantenimento e aumentava il quantum dell’assegno nel merito argomentando che poiché l’obbligato al versamento dell’assegno era un libero professionista si presumeva che le dichiarazioni dei redditi non fossero fedeli.
TRIBUNALE DI VERONA, ordinanza presidenziale, 16.12.2008
Divorzio - Assegno - Criteri - Nuova convivenza - Sussistenza
In sede di divorzio la moglie già titolare di assegno di separazione, ne chiedeva la conferma sul presupposto della mancanza di mezzi adeguati per mantenere un analogo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, trovandosi altresì nell’impossibilità di procurarsi i mezzi di sostentamento essendo impegnata nell’accudimento di una figlia in tenera età.
Il marito si costituiva eccependo l’infondatezza della domanda di assegno di divorzio perché la moglie aveva iniziato una stabile convivenza.
Il Tribunale ha, invece, accolto la domanda di assegno divorzile affermando che la richiedente era priva di redditi e non poteva procurarseli e attribuendo rilevanza alla nuova convivenza solo in relazione alla quantificazione dell’assegno.
L’ammontare dell’assegno di divorzio, subiva, quindi, una decurtazione rispetto all’assegno di separazione, pari all’ammontare del canone di locazione, sul presupposto che la signora “condivida”, quanto meno, con il convivente more uxorio, le spese di gestione del nuovo nucleo familiare, ivi comprese quelle relative al canone di locazione dell’abitazione.
TRIBUNALE DI VERONA, ordinanza presidenziale, 12.12.2008
Divorzio - Assegno - Criteri
In sede di separazione le parti avevano trasformato la separazione da giudiziale in consensuale regolando gli assetti economici delle parti in maniera pressoché definitiva e prevedendo la corresponsione di un assegno consistente sotto forma di “una tantum” e ad integrazione di tale elargizione in
un’unica soluzione veniva altresì stabilito che il marito versasse alla moglie un assegno mensile per
soli 3 anni e cioè fino alla data in cui si sarebbe potuto chiedere il divorzio.
In sede di udienza presidenziale di divorzio il marito faceva rilevare che i rapporti tra le parti erano
già stati regolati nella separazione ed infatti la moglie aveva ricevuto un consistente contributo economico con il quale si era comperata anche una casa, che egli per oltre tre anni dalla separazione aveva anche corrisposto un assegno integrativo, che il matrimonio era durato solo due anni e che la moglie non aveva contribuito al patrimonio della coppia poiché essi si erano sposati in tarda età ed avevano già costituito propri patrimoni al di fuori del matrimonio. Lamentava inoltre il marito di atteggiamenti persecutori da parte della ex moglie, tanto che la stessa era anche stata condanna per tali fatti
in sede penale.
Ciò nonostante il Tribunale di Verona in sede di provvedimenti provvisori pur riconoscendo che il matrimonio ha avuto una durata di soli due anni, motivando però che la ex moglie aveva “scarsissimi
mezzi per sopravvivere”, determinava comunque un assegno pari ad euro 200,00 mensili.
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DALLE REGIONI
TRIBUNALE DI VERONA, ordinanza presidenziale, 22.02.2008
Separazione - Assegno per il coniuge - Criteri
In sede di separazione giudiziale la moglie affermava che il marito, pur essendo dipendente comunale e percependo un reddito mensile di circa 1.500,00 euro, era proprietario di un cospicuo patrimonio immobiliare che aveva venduto negli ultimi due anni (due immobili) nonché di un consistente saldo di conto corrente (circa 100.000,00 euro).
Il marito affermava di aver ricomprato un immobile, su cui gravava un mutuo e un’auto, con ciò fornendo una spiegazione su come era stato impiegato il capitale ricavato dalla vendita degli immobili.
Il Presidente del Tribunale sul presupposto che la moglie era casalinga fissava in via provvisoria un
contributo per la stessa di euro 200,00, oltre ad un consistente contributo per i figli pari ad euro 800,00
mensili ed il 50% delle spese straordinarie.
TRIBUNALE DI VERONA, ordinanza G.I., 06.11.2006
Separazione - Assegno per il coniuge - Modifica provvedimenti presidenziali in corso di causa - Ctu
All’udienza presidenziale, il Giudice non riconosceva alcun assegno in favore della moglie rinviando
alla fase istruttoria tale provvedimento.
In sede istruttoria veniva espletata una perizia sul reddito e sul patrimonio delle parti che accertava
un reddito da dipendente della moglie, non dichiarato all’udienza tenutasi davanti al Presidente del
Tribunale, oltre alla partecipazione all’impresa agricola della propria famiglia.
Il Giudice Istruttore quindi rigettava la richiesta di assegno avanzata dalla stessa, ritenendo che fosse
economicamente autosufficiente.
GIURISPRUDENZA TRIBUNALE DI PADOVA - Casistica
Provvedimento n. 1) - Separazione giudiziale di due coniugi con tre figli minori.
La moglie, casalinga, agiva in giudizio chiedendo l’affido esclusivo dei figli, l’assegnazione della casa
coniugale in comproprietà tra i coniugi e la determinazione in capo al marito di un assegno di mantenimento per i figli e per sé, atteso il sensibile divario tra le condizioni economiche dei due coniugi.
Il marito, agente di commercio, in particolare, contestava la quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore dei figli prospettata dalla moglie e la debenza stessa di un contributo per la consorte.
Il provvedimento presidenziale ha ancorato l’importo dell’assegno di mantenimento in favore dei figli
e della moglie al godimento gratuito da parte loro dell’abitazione coniugale in comproprietà con il marito, alla sensibile disparità reddituale tra i coniugi, atteso che la moglie risultava godere di un unico
reddito percepito dalla locazione di un negozio di sua proprietà, alla redditività “davvero apprezzabile” del marito, agente di commercio che risultava godere dell’intero reddito dell’impresa familiare costituita con la moglie la quale, di fatto, non percepiva alcunché, nonché al tenore di vita goduto dalla famiglia in costanza di matrimonio.
Provvedimento n. 2) - Separazione giudiziale relativa a due coniugi di giovane età senza figli, contitolari del diritto di abitazione della casa coniugale di proprietà della madre del marito, con onere a
carico di entrambi del rimborso del mutuo contratto per la ristrutturazione dell’abitazione.
Il marito invocava l’assegnazione della casa coniugale e nessuna statuizione patrimoniale tra i coniugi, attesa l’autosufficienza economica di entrambi.
La moglie eccepiva l’inammissibilità della domanda di assegnazione della casa coniugale e chiedeva
la determinazione di un assegno in suo favore, attesa la sproporzione esistente tra i redditi dei due
coniugi.
Il provvedimento presidenziale ha confermato l’inammissibilità della domanda di assegnazione della
casa coniugale in assenza di figli minori o maggiori non autosufficienti conviventi, ed ha ancorato la
quantificazione dell’importo di mantenimento in favore della moglie, oltre che alla disparità dei redditi tra i coniugi, al godimento gratuito, da parte sua, dell’abitazione coniugale.
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Provvedimento n. 3) - Separazione giudiziale di due coniugi con una figlia minore ed un figlio maggiorenne prossimo all’inizio di un’attività lavorativa retribuita.
La moglie agiva in giudizio chiedendo l’affido esclusivo della figlia minore, l’assegnazione della casa
coniugale in comproprietà tra i coniugi, onerati ciascuno al 50% del rimborso del relativo mutuo, e la
determinazione di un assegno di mantenimento in favore dei due figli, posto che anche il maggiore
risultava non economicamente autosufficiente. Attesa la parità dei redditi lavorativi tra i coniugi, la moglie nulla chiedeva per sé a titolo di mantenimento.
Il marito chiedeva l’affido condiviso della figlia minore, e si rendeva disponibile a concorrere direttamente al suo mantenimento, rilevando che il figlio maggiore già svolgeva attività lavorativa.
Il provvedimento presidenziale ha ancorato l’importo dell’assegno di mantenimento in favore della figlia minore, al godimento gratuito da parte della moglie e dei figli, dell’abitazione coniugale, all’onere gravante su entrambi i coniugi di rimborso della rata di mutuo mensile gravante sulla casa familiare ed alla necessità del marito di reperire una nuova abitazione in cui recarsi a vivere.
Provvedimento n. 4) - Separazione giudiziale di due coniugi con due figlie minori di 11 e 7 anni.
La moglie, medico cardiologo, agiva in giudizio chiedendo l’affido condiviso delle figlie, l’assegnazione della casa coniugale in comproprietà tra i coniugi, onerati ciascuno al 50% del rimborso del relativo mutuo, e la determinazione di un assegno di mantenimento in favore delle due minori. Attesa la
propria autosufficienza economica, la moglie nulla chiedeva per sé a titolo di mantenimento.
Il marito, medico estetico, si costituiva in giudizio chiedendo l’affido esclusivo delle figlie per presunta inidoneità della madre, l’assegnazione della casa coniugale, la determinazione di un assegno in favore delle figlie e per sé, attesa l’asserita sproporzione della situazione economica dei coniugi risultante dalle dichiarazioni dei redditi.
Il provvedimento presidenziale, quanto alla determinazione dell’assegno di mantenimento, evidenziava che i redditi del marito non erano esattamente determinabili, con ciò non riconoscendo valore alle dichiarazioni fiscali dallo stesso presentate, e che comunque poteva fondatamente presumersi che
Egli avesse una capacità economica apprezzabile. Venivano inoltre considerati l’uso gratuito dell’abitazione coniugale da parte di moglie e figlie, l’obbligo a carico di entrambi i coniugi di rimborso mensile della rata di mutuo, e l’uguale onere, in capo alla madre, di contribuzione in favore delle figlie.
Provvedimento n. 5)
Il provvedimento n. 4) veniva reclamato dal marito in Corte d’Appello.
Il marito, censurando l’ordinanza impugnata, reiterava le domande formulate in primo grado soprattutto alla luce di argomentazioni e documentazione successiva all’udienza presidenziale.
La moglie si costituiva invocando l’inammissibilità dell’avverso reclamo in quanto fondato esclusivamente su circostanze sopravvenute all’udienza presidenziale e comunque, nel merito, chiedeva la conferma del provvedimento impugnato.
La Corte riteneva, in particolare, di ridurre l’assegno di mantenimento paterno ritenendo l’importo determinato in primo grado “obiettivamente eccessivo in relazione alle necessità ordinarie delle bambine
e tenuto conto che identico contributo deve ritenersi gravare sulla madre”.
Provvedimento n. 6) - Separazione giudiziale promossa dalla moglie, tra due coniugi con due figli
di cui uno minore ed uno maggiore di età ma non economicamente autosufficiente.
La moglie, casalinga, chiedeva l’assegnazione dell’abitazione coniugale, l’affido condiviso del figlio minore e la determinazione di un assegno di mantenimento per i figli e per sé, atteso che la stessa si era
sempre e solo dedicata alla cura della casa e dei figli.
Si costituiva il marito, agente di commercio e proprietario di immobili, chiedendo l’assegnazione pro
quota dell’immobile coniugale, in una cui porzione separata ed indipendente egli si era di fatto da
qualche tempo ritirato a vivere.
Egli inoltre contestava le quantificazioni proposte dalla moglie a titolo di assegno di mantenimento,
ritenendo di non dovere alcunché a tale titolo alla moglie.
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DALLE REGIONI
L’ordinanza presidenziale, nella determinazione dell’assegno di mantenimento in favore della moglie
e dei figli, teneva conto delle dichiarazioni reddituali, della titolarità da parte del marito di altri immobili, nonché della contrazione da parte sua di due mutui, indice di buona redditività.
Provvedimento n. 7)
Il provvedimento n. 6) veniva reclamato dal marito in Corte d’Appello.
Il marito, censurando l’ordinanza impugnata, reiterava le domande formulate in primo grado.
La moglie riproponeva, di fatto, le argomentazioni già dedotte in primo grado.
L’ordinanza presidenziale veniva confermata sulla base delle stesse circostanze esposte dal Presidente Delegato in primo grado.
Provvedimento n. 8) - Separazione giudiziale di due coniugi con una bimba in tenera età.
La moglie agiva in giudizio chiedendo l’affido esclusivo della minore, ovvero il regime condiviso, al
tempo da poco divenuto legge, l’assegnazione della casa coniugale di proprietà del marito e la determinazione di un assegno di mantenimento per la bimba e per sé, atteso il modestissimo e saltuario
reddito percepito come cameriera.
Il marito chiedeva l’affido condiviso della figlia, rilevava le proprie difficoltà economiche, e contestava il diritto della moglie ad un assegno di mantenimento per sé.
All’udienza presidenziale il marito contestava l’idoneità genitoriale della madre, sicché venivano incaricati i Servizi sociali di relazionare al Tribunale in ordine al migliore regime di affido e visita della minore.
All’esito, il Presidente statuiva l’affido condiviso della figlia ad entrambi i genitori con collocazione abitativa presso la madre, l’assegnazione in favore di quest’ultima dell’abitazione coniugale, il cui valore
veniva assunto a criterio di determinazione dell’assegno di mantenimento a carico del padre.
Provvedimento n. 9) - Ordinanza resa all’esito del reclamo di un provvedimento di primo grado con
cui era stato quantificato un assegno periodico a carico del padre per il mantenimento dei tre figli minori naturali.
L’ordinanza risulta significativa, laddove fa riferimento al valore delle dichiarazioni dei redditi.
Nella specie il marito svolgeva l’attività di avvocato e la moglie era figlia di una nota famiglia di imprenditori padovani, e le rispettive dichiarazioni dei redditi sembravano non rappresentare la reale situazione economica di entrambi.
Provvedimento n. 10) - Separazione giudiziale relativa a due coniugi, separati di fatto da qualche
anno, con una figlia maggiore di età non più convivente né con la madre né con il padre, in cui la
moglie svolgente attività di lavoro part time, era rimasta ad abitare nella casa coniugale di proprietà
del marito, della suocera e della cognata.
Il marito invocava l’assegnazione della casa coniugale qualora la figlia avesse deciso di rimanere ad
abitare con lui, e nessuna statuizione patrimoniale in favore della moglie, attesa la sussistenza in capo alla consorte di una capacità lavorativa specifica.
La moglie eccepiva l’inammissibilità della domanda di assegnazione della casa coniugale e chiedeva
la determinazione di un assegno in suo favore, attesa la sproporzione esistente tra i redditi dei due
coniugi.
Il provvedimento presidenziale ha confermato l’inammissibilità della domanda di assegnazione della
casa coniugale in assenza di figli minori o maggiori non autosufficienti conviventi ed ha ancorato la
quantificazione dell’importo di mantenimento in favore della moglie, al godimento gratuito, da parte
sua, dell’abitazione coniugale.
135
AIAF - Organi statutari
Presidente: Marina Marino (Roma)
Giunta Esecutiva: Manuela Cecchi (Firenze), Remigia D’Agata (Catania), Luisella Fanni (Cagliari),
Alberto Figone (Genova), Milena Pini (Milano), Alessandro Sartori (Verona)
Comitato Direttivo Nazionale
composto “di diritto dai Presidenti delle Associazioni Regionali/Distrettuali e da un rappresentante
per ciascuna regione, nonché da un rappresentante per Regione ogni 40 iscritti, compresi i soci del Distretto,
ed un ulteriore rappresentante per ogni successiva frazione superiore a venti”.
Abruzzo
Piemonte
Maria Carla Serafini (presidente)
Federica Di Benedetto
Antonina Scolaro (presidente)
Antonio Dionisio
Maria Cristina Ottavis
Marina Torresini
Calabria
Stefania Mendicino (presidente)
Gianfranco Barbieri
Campania
Rosanna Dama (presidente)
Maria Giuseppina Chef
Erminia Del Cogliano
Emilia Romagna
Ada Valeria Fabj (presidente)
Daniela Abram
Lorenza Bond
Isabella Trebbi Giordani
Lazio
Marina Marino (presidente)
Nicoletta Morandi
Costanza Pomarici
Giulia Sarnari
Liguria
Alberto Figone (presidente)
Enrico Bet
Cristina Borile
Ilaria Felicetti
Elisabetta Ferrero
Anna Grazia Guaita
Liana Maggiano
Puglia
Ada Marseglia (presidente)
Giambattista Mola
Sardegna
Luisella Fanni (presidente)
Vittorio Campus
Anna Marinucci
Francesco Pisano
Sicilia
Remigia D’Agata (presidente)
Antonio Leonardi
Caterina Mirto
Corrado Garofalo
Toscana
Manuela Cecchi (presidente)
Alfonsa Brini
Marina Lupo
Carla Marcucci
Gigliola Montano
Umbria
Maria Rita Tiburzi (presidente)
Anita Giuseppina Pia Grossi
Anna Maria Pacciarini
Lombardia
Veneto
Milena Pini (presidente)
Franca Alessio
Maurizio Bandera
Marisa Bedotti
Cinzia Calabrese
Maria Tullia Castelli
Cinzia Colombo
Antonella De Peri
Mirella Quattrone
Alessandro Sartori (presidente)
Roberta Bettiolo
Paola Cacco
Lorenza Cracco
Gabriella de Strobel
Caterina Evangelisti
Rita Mondolo
Damiana Stocco
Marche
Anna Pelamatti Cagnoni (presidente)
Marina Guzzini