La battaglia nel Rinascimento meridionale

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La battaglia nel Rinascimento meridionale
La battaglia
nel Rinascimento meridionale
Moduli narrativi tra parole e immagini
a cura di
Giancarlo Abbamonte, Joana Barreto, Teresa D 'Urso
Alessandra Perriccioli Saggese e Francesco Senatore
viella
Copyright© 2011 -Viella s.r.l.
Tutti i diritti riservati
Prima edizione: settembre 2011
ISBN 978-88-8334-491-6
Il volume è pubblicato con il contributo delle seguenti istituzioni:
École Normale Supérieure de Lyon
Équipe de Recherches sur les Aires Culturelles e U.F.R. de Lettres et Sciences Humaines
dell'Université de Rouen
Dipartimenti di Filologia Classica "Francesco Amal di" e di Discipline Storiche "Ettore
Lepore" dell'Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Studio delle Componenti Culturali del Territorio e Facoltà di Lettere e
Filosofia della Seconda Università di Napoli
Pareo Letterario "Pomponio Leto" di Teggiano
viella
libreria editrice
via delle Alpi, 32
1-00198 ROMA
tel. 06 84 17 758
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Fulvio Delle Donne
La presa di Marsiglia del 1423
nel racconto di Gaspare Pellegrino
L’importante stagione storiografica che accompagna l’arrivo in Italia
di Alfonso il Magnanimo è aperta dall’opera del protomedico regio Gaspare Pellegrino che, completata intorno al 1443, descrive in maniera ampiamente celebrativa le imprese del sovrano aragonese dalla richiesta di aiuto
di Giovanna II fino al suo trionfo.1 Per comprenderne l’impostazione, e
per affrontare specificamente l’argomento bellico, può essere utile l’analisi della descrizione della presa di Marsiglia, compiuta da Alfonso nel
1423, mentre tornava in Aragona dopo aver lasciato il Regno di Napoli:
un’impresa destinata a travalicare anche i limiti della narrazione storica,
divenendo argomento di un romancerillo folclorico-mitico.2
In novembre, il 18 o il 19,3 dopo essere partito da Gaeta, Alfonso
giunse nei pressi di Marsiglia. Secondo il racconto di Pellegrino, l’arri1. G. Pellegrino, Historia Alphonsi primi regis, ed. F. Delle Donne, Firenze 2007.
Sulla datazione dell’opera cfr. l’Introduzione, p. 13.
2. Cfr. J.A. Cid, El romancero como la «otra» historia. El asalto aragonés a Marsella
(1423), in Actes del Col∙loqui sobre cançó tradicional, Reus, setembre 1990, a cura di S.
Rebés, Abadía de Montserrat 1994, pp. 37-86.
3. A quanto pare, Alfonso arrivò presso Marsiglia, fermandosi dietro l’isola di Château
d’If, la sera prima del giorno in cui sferrò l’attacco. Secondo il Diario di Johan Francesch
Boscà, Madrid, Bibl. Nacional, ms. 1803, c. 175r, citato anche da J. Zurita, Anales de la
corona de Aragón, ed. A. Canellas Lopez, V, Zaragoza 1980, p. 596 (XIII, 22), tale attacco
avvenne il 19 novembre. Ma secondo il Dietari de la Deputació del General de Cathalu�
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nya, in Colección de documentos inéditos de la Corona de Aragón, XLVI, Barcelona 1974,
p. 67, e il Chronicon Sancti Victoris Massiliensis, pubblicato in J.H. Albanés, La Chronique
de Saint-Victor de Marseille, in «Mélanges d’archéologie et d’Histoire», 6 (1886), pp. 6490 e 287-326, qui p. 325, avvenne il 20 novembre. Proprio quest’ultima fonte sembra la più
affidabile, perché aggiunge il particolare, esatto, che il 20 novembre era sabato: del resto,
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vo in quel luogo fu del tutto fortuito, dovuto a una tempesta che aveva
disperso le navi. E non premeditata fu anche la decisione di assalire la
città:4 d’altra parte, Gaspare Pellegrino mira, in ogni occasione, ad esaltare in chiave eroica il suo sovrano, liberandolo da ogni possibile ombra
che – dato l’esito finale di quella impresa, ovvero la devastazione della
città e il furto delle reliquie di san Luigi di Tolosa – ne possa oscurare la
fama. Per cui non stupisce che anche in questo caso egli abbia preferito
“ritoccare” qualche dettaglio, a meno che non vogliamo ammettere che
non fosse al corrente di tutti i particolari della vicenda. Infatti, leggendo
il resoconto fornito dallo storiografo ufficiale di Alfonso, Bartolomeo
Facio, sappiamo che il re aragonese non giunse direttamente da Gaeta a
Marsiglia, ma che una tempesta spinse tutta la flotta dapprima a Ponza,
e che, ripartita, giunse a Pianosa; una nuova tempesta, poi, spinse le sole
galee (chiamate triremes o anche rostratae) a Nizza; qui si fermarono
brevemente, e da qui ripartirono per le isole Hyères, dove avevano appuntamento con le navi onerarie, affidate al comando di Joan de Cardona,
che però non si presentarono, e si pensava che la tempesta avesse spinto
direttamente in Catalogna.5 Tuttavia, Facio, oltre a ciò, ci fa sapere anche
anche in una relazione dei magistrati di Marsiglia al re di Francia, che A. Ruffi, Histoire de
la ville de Marseille, Marseille 1642, pp. 169-170, trae ex Archivis Massiliae, si colloca l’attacco al 20 novembre (la seconda ed., ampliata, dell’opera di Ruffi, Marseille 1696, a cui si
farà ricorso per altri riferimenti, stranamente non riporta questa relazione). Al 20 novembre
rimanda anche l’annotazione nel libro dei conti di Nicolas Alphant, tesoriere dell’ospedale di Santo Spirito, citata da C. Maurel, Le sac de la ville en 1423 et sa renaissance, in
Marseille au Moyen Âge, entre Provence et Méditerranée, ed. T. Pécout, Méolans-Revel
2009, pp. 415-418, qui p. 415, che poi si rifà anche alla deposizione del processo intentato
nel 1424 a Pierre de Barreria, un locandiere marsigliese d’origine catalana, accusato di
tradimento e collusione col nemico. Decisamente inesatta, invece, è l’informazione fornita
da M. Miralles, Dietari del capellà d’Alfons el Magnànim, a cura di V.J. Escartí, Valencia
1988, p. 56, secondo cui l’attacco avvenne il 6 novembre: è curioso, però, che anche il 6
cadesse di sabato. Sulla presa di Marsiglia cfr. anche Cid, El romancero, pp. 37-86, dove
pure sono analizzate e discusse molte fonti.
4. Pellegrino, Historia Alphonsi, p. 104, § II, 296-297.
5. Cfr. B. Facio, Rerum gestarum Alfonsi regis libri, a cura di D. Pietragalla, Alessandria 2004, p. 84, § III, 6-9. Cfr. anche Zurita, Anales, V, p. 596 (XIII, 22), che, per questa
vicenda, prende le informazioni da Facio, pur distaccandosene in qualche dettaglio: invece
di una sosta a Pianosa, dice che Alfonso si fermò a Pisa, dove venne anche festeggiato dai
Fiorentini. Evidentemente, qui, Zurita attinge questi dettagli a Th. de Chaula, Gestorum
per Alphonsum Aragonum et Siciliae regem libri quinque, a cura di R. Starrabba, Panormi
1904, p. 110, dove però non si parla specificamente di Pisa, ma di Pisarum confinia.
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che Alfonso aveva fissato l’appuntamento presso le isole Hyères, perché
«statuerat ex itinere Massiliam oppugnare», pur tenendo inizialmente segreta la decisione.6
Ma torniamo alla descrizione di Pellegrino. Dopo essere arrivati di
fronte al porto di Marsiglia, gli Aragonesi vengono pervasi dallo sdegno
e dalla volontà di vendetta contro Luigi III d’Angiò, il signore di quella
città, che, incitato da papa Martino V, aveva osato prendere le armi contro
Alfonso per scacciarlo da Napoli. Così, la mattina successiva, «quando in
crepusculo, radiis fusis, Lucifer roseam auroram aperit» – in questo modo,
con accenti dal sentore virgiliano si esprime l’autore – Alfonso chiama a
raccolta i suoi uomini, e li infiamma con un lungo discorso.7 Comincia col
ricordare gli affanni e i pericoli trascorsi, a cui Dio non ha ancora voluto
porre fine, spingendolo ad affrontare impia bella. In sostanza Alfonso prosegue affermando che avrebbe voluto dedicare l’animo a cose maggiori,
ma è costretto a combattere dalla cupidigia, dall’insipienza e dall’audacia
di Luigi, istigato dal papa. Dio stesso, infine, sarà giudice della guerra, e
non condannerà la sua giusta causa, che lo spinge a punire l’obprobrium del
nemico devastando la città di Marsiglia, perché funga da esempio: quindi i
soldati dovranno considerarsi come restauratori della giustizia.
L’allocuzione regia prima della battaglia costituisce un momento peculiare della narrazione storiografica, che si ritrova, in questa occasione,
sia pur molto più brevemente, anche in Chaula e Facio:8 questi due accomunati anche da una digressione su Marsiglia, in cui il primo ne traccia
l’antica e mitica origine focese, e il secondo ne descrive la posizione e le
straordinarie fortificazioni.9
6. Facio, Rerum gestarum libri, p. 84, § III, 6; che la decisione fosse stata tenuta segreta fino a quando Alfonso non giunse alle Hyères si legge nei §§ III, 7 e III, 9. Cfr. Chaula,
Gestorum libri, p. 110.
7. Cfr. Pellegrino, Historia Alphonsi, pp. 104-105, § II, 300-313.
8. Chaula, Gestorum libri, p. 111; e Facio, Rerum gestarum libri, p. 84, § III, 9, anche
se in forma di discorso indiretto. L’importanza delle allocutiones viene affermata nelle due
più significative trattazioni umanistiche sulla composizione storica: cfr. G. Trapezuntius,
Rhetoricorum libri quinque, Lugduni 1547, p. 513 (libro V); I.I. Pontanus, Actius, in Id., I
Dialoghi, a cura di C. Previtera, Firenze 1943, p. 221.
9. Chaula, Gestorum libri, p. 111: l’origine focese è antica ed è già presente in Strabone, Giustino e Ammiano: cfr. spec. D. Pralon, La légende de la fondation de Marseille,
in Marseille grecque et la Gaule, a cura di H. Tréziny et alii, Marseille 1992, pp. 51-56; M.
Sordi, Timagene di Alessandria: uno storico ellenocentrico e filobarbaro, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt, II, 30/1, Berlin-New York 1982, pp. 775-797, qui p. 784
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Ascoltate le parole di Alfonso, «ardent Aragones igne future victorie»,
come enfaticamente afferma Pellegrino, e attaccano battaglia: «abinde iam
festinantes olli arma capiunt saloque percusso agmine primo bis senis liburnis sinus Masilie solicitantur, ultro tot equidem equantes numero eodem remigio liburne celeriter consequntur».10
Il tono eroico, tipico dell’autore, è evidente: non ci sono citazioni dirette
dai modelli epici, ma termini come liburnae, a indicare le galee, o remigium,
e alcune locuzioni, come salo percusso, o bis senis rimandano a quel linguaggio. Anzi, proprio il gusto per quel codice può aver spinto Pellegrino a
qualche imprecisione.11 Ma vediamo come procede la narrazione:
iamque turris immani rupe ante hostia portus constituta minatur, que classem regiam adventare ostendit. Quippe Massiliencium cives minus docti
litis future non verentur ad insultum se divertere, telisque acceptis minis et
verbis neffandis vastis clamoribus circum rupes excutiunt. Et ut magis furia
Aragonenses estuarent, minus discrete ex abundancia cordis illos imprope��������
rant; cunque autem auribus regis hec contumelia inpulsaretur, tota eius pietas
conversa in odium insueta severitate exageratur.12
Qui Pellegrino fornisce una prima descrizione del luogo, facendo sapere
che a guardia del porto si ergeva una torre, identificabile con la torre Maubert
o della catena, che, distrutta durante questo attacco, venne sostituita dalla
cosiddetta torre di re Renato connessa col Fort Saint-Jean:13 una torre che
viene caratterizzata con termini che mirano a esaltarne l’imponenza. Ed è
proprio quella caratterizzazione che implicitamente sta a spiegare la iattanza
e sgg. Facio, Rerum gestarum libri, p. 86, § III, 11, che, in parte, prende spunto da Cesare
(civ. II 1, 3). Anche sulle digressioni sulle origini delle città e sulle descrizioni dei luoghi
cfr. Pontanus, Actius, pp. 220 e 223. Inoltre, cfr. S. Dall’Oco, Bartolomeo Facio e la tecni�
ca dell’excursus nella biografia di Alfonso d’Aragona, in «Archivio storico italiano», 154
(1996), pp. 207-251.
10. Pellegrino, Historia Alphonsi, p. 105, § II, 314-315.
11. Informazioni diverse sul numero delle navi sono fornite in Facio, Rerum gesta�
rum libri, p. 82, § III, 5; p. 84, § III, 9; e p. 88, § III, 19; Zurita, Anales, V, p. 596 (XIII
22); Chronicon Sancti Victoris Massiliensis, p. 71; Miralles, Dietari, p. 56; I. Bracelli,
De bello Hispaniensi, pubblicato nel volume che reca il titolo Della guerra di Spagna,
contenente anche la versione italiana di F. Alizeri, Genova 1856, p. 70; inoltre, Cid, El
romancero, p. 54.
12. Pellegrino, Historia Alphonsi, pp. 105-106, § II, 317-319.
13. �����
Cfr. Marseille, trames et paysages urbains de Gyptis au roi René, Actes du colloque international d’archéologie, 3-5 novembre 1999, a cura di M. Bouiron, H. Tréziny et
alii, Aix-en-Provence 2001, p. 168.
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dei Marsigliesi, che, insultando gli Aragonesi, ne infiammano ancor più gli
animi. La cosa, del resto, è confermata anche da Bartolomeo Facio, che,
pure partendo dalla descrizione delle difese di Marsiglia, attribuisce alla loro
imponenza la boria e la noncuranza dei suoi cittadini, i quali, nonostante
fossero stati preavvisati dell’arrivo di Alfonso dagli abitanti di Nizza, non
vollero chiedere aiuto ai territori circostanti. Cosa questa, che spinge Facio a
una riflessione di tipo moralistico, che ha il sentore di una condanna: «saepe
contemptus hostis ingentem calamitatem attulit».14
«Quamobrem extemplo tuba enea dat sonum, moleste indicans ut omnis in portum exurgeret turba»:15 il tono eroico con cui si era aperta la descrizione prosegue con clangori di trombe e fornisce l’occasione per descrivere ulteriormente la posizione di Marsiglia, posta al termine di una stretta
e profonda insenatura, in cui non si poteva accedere se non spezzando la
catena di ferro che impediva l’ingresso. Ma l’«ingens audacia Esperios […]
validaverat», ovvero gli Aragonesi si lanciano all’attacco.16 Se finora, dopo
l’allocuzione esortativa di Alfonso, si era parlato solo di Catalani e Aragonesi come una massa indistinta, la collettività unitaria guidata da un sovrano
capace di illuminare, con le sue virtù, anche il complesso dei suoi soldati,
qui fanno la loro comparsa due individui. Anche se per Pellegrino il protagonista assoluto della sua opera è sempre Alfonso, tuttavia egli non tralascia
di ricordare anche alcuni comprimari, soprattutto se offrono l’occasione di
esaltare il valore dei Catalani. Dunque, menziona due eroi, che nomina anche altrove nella sua opera:17 quello chiamato miles de Nava è quasi certamente Gutierre de Nava, ricordato anche in altre fonti come ammiraglio
della flotta di Alfonso.18 Di Bernat de Corbera, invece, non si sa moltissimo,
anche perché Bartolomeo Facio, raccontando lo stesso episodio, non parla
di Bernat, ma di Joan de Corbera.19 In ogni caso, tutta la vicenda relativa al
14. Cfr. Facio, Rerum gestarum libri, p. 86, § III, 11. Per altre descrizioni cfr. Miralles,
Dietari, p. 56; G.F. de Vagad, Crónica de Aragón, Zaragoza 1499 (per Paul Hurus), c. 168v.
Ruffi, Histoire, 1642, pp. 169-170; Bracelli, De bello Hispaniensi, pp. 70-72.
15. Pellegrino, Historia Alphonsi, p. 106, § II, 320.
16. Ibidem, p. 106, § II, 326-328.
17. Cfr. ibidem, ad indicem.
18. Cfr. Facio, Rerum gestarum libri, p. 122 e sgg., § IV, 12 e sgg.; Zurita, Anales, VI,
pp. 56 (XIV, 16), e ad indicem.
19. Comunque, Bernat de Corbera, nel 1428-1429, comandava una galera: cfr. M. Del
Treppo, Assicurazioni e commercio internazionale a Barcellona nel 1428-29, in «Rivista
Storica Italiana», 69 (1957), pp. 508-541, qui p. 525, n. 4.
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taglio della catena che ostruiva il porto di Marsiglia viene raccontata da Pellegrino in maniera piuttosto cursoria, e presentata come avvenuta in maniera molto rapida; ma, in realtà, non dovette essere così, se si dà credito alla
versione di Facio, secondo il quale l’operazione durò un’intera giornata.20
Del resto, anche i nomi di alcuni protagonisti non coincidono: soprattutto
lascia incerti il nome del Corbera, Joan secondo Facio, Bernat secondo Pellegrino.21 Ma tutto questo è poco importante, perché il protagonista assoluto
di tutte queste narrazioni è Alfonso, e gli altri sono comprimari, le cui azioni
vengono ricordate non per celebrare le loro virtù, ma sempre quelle, supreme, del sovrano che li guida e li ispira.22
Proseguendo, Pellegrino, come si è visto, non si dilunga nel fornire
informazioni dettagliate: evidentemente, il suo intento è quello di celebrare il valore di Alfonso attraverso le imprese eroiche sue o dei suoi
soldati; cosa che non necessita, a quanto pare, dell’esposizione minuta di particolari tecnici. Così, dopo aver detto del taglio della catena,
passa immediatamente, e rapidamente, a raccontare, in due brevi giri di
frase, dello sbarco degli Aragonesi e della fuga dei Marsigliesi, per poi
soffermarsi sulla devastazione della città. «O in quanta furia Catalicii
miseram conculcant civitatem, uti illa oprimitur ac incendio datur!».23
In questo modo inizia una lunghissima narrazione di incendi, furti e uccisioni, connotata coi toni mestamente moralistici e caratterizzata dalla
ripetizione delle immagini: «Flamma crepitans exasperat sublimia domorum tecta, uruntur penetralia alta rogis pestiferis. Turres et menia facibus
fumant; oppida, sacra atque alia omnia conburuntur; quicquid obviatur
ignis devorat».24
Già si era parlato di incendi all’inizio nella esclamazione che dà avvio a questa parte della narrazione, ma il concetto viene ribadito facendo
20. Cfr. Facio, Rerum gestarum libri, pp. 86-88, § III, 12-18; Facio costituisce la fonte
di Zurita, Anales, V, pp. 596-597 (XIII, 22).
21. Chaula, Gestorum libri, p. 111, parla, invece, di «Ximenus Gurregla Valentino
sanguine cretus Iohannes ue Turriglas». Zurita, Anales, V, p. 596 (XIII, 22), che solitamente, per queste vicende, prende ispirazione da Facio, sente la necessità di aggiungere anche
le informazioni che trae, senza specificarlo, da Chaula, e normalizza la forma di quei nomi,
senza porsi, però, il problema della sostanziale contraddizione con la versione precedente.
22. Anche a proposito del modo in cui fu spezzata la catena c’è incertezza e le fonti forniscono differenti versioni. Per vincoli di spazio, l’analisi dei racconti relativi a questo particolare episodio non può trovare qui sviluppo: cfr., comunque, Cid, El romancero, pp. 60-67.
23. Pellegrino, Historia Alphonsi, p. 106, § II, 332.
24. Ibidem, pp. 106-107, § II, 333-334.
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ricorso per ben sei volte a termini che rientrano nel medesimo campo
semantico. E anche successivamente, con simile ripetitività, si racconta
delle stragi compiute:
interea nonnulli furenti gladio exuvias passim celeriter querunt ac victi incole proprias relinquunt edes, quos egre victores strage prosternunt. Insuper
gazasque aureasque argenteasque et molem tesauri accipere omnis cura est;
plurimi rursus exercentur in armis, nuper obicientes impellere ense stricto
quosque confodiunt.25
La tecnica narrativa, dominata dall’accumulo verbale e dall’afflato
poetico, è senz’altro ispirata al modello epico: non possono non venire
in mente i versi virgiliani dedicati al racconto della distruzione di Troia,
contenuto nel secondo libro dell’Eneide, anche se non si riscontrano citazioni specifiche o letterali. E su questa strada prosegue ancora l’autore,
indulgendo sempre più all’enfasi moraleggiante.
O quot miserandi solo metu pereunt, corpore inleso, atque terrore! Usus
Cathalanorum adeptus caritati omni aberat, furor superat gravitatem, audacia revocat continenciam, ira pietatem spernit. Saltem severa manus contra
humanum sanguinem agit. Iam armorum strepitus, inundantes urbis misere
viros, velut oves tondenti obsequentes, incubuerant; nulla personarum accepcio, nulla dignitas nullaque amicicia poscitur clemencia; ob que cuique
obvianti prorsus ultimus finis tum modo speratur. ������������������������
Adeo, de maiori ad minimum, ulla fertur distincio gradualis, quoniam seva austeritas non parcit patri
ob filium, nec miseretur filio presentia parentis: omnes quoque laqueo mortis
pereunt, vel in acerbam educuntur ruinam.26
L’ardore della battaglia annulla ogni eccelsa virtù, che viene sopraffatta dai più oscuri istinti irrazionali. Il sangue e il rumore delle armi
coprono e annullano ogni nobiltà d’animo dei Catalani, trasformati ormai
in crudeli carnefici di indifesi agnelli votati al sacrificio. E ancora una
volta, quando si parla della morte che ferocemente non lascia nessuna
via di scampo né è placata da alcuna pietà, non può non venire in mente
l’episodio virgiliano (Aen. II 526-532) di Pirro che trucida Polite avanti
agli occhi del padre Priamo.
Ma, proprio nel momento in cui sembra che sia scomparso ogni barlume di umanità, finalmente accade qualcosa: «Sane vacua iacet pietas et
25. Ibidem, p. 107, § II, 335-336.
26. Ibidem, p. 107, § II, 337-341.
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in exilio ducta confugit; in regem presertim Alfonsum illa se abdidit, qui
indicere obicit ne graviora tum modo sequantur, proibuitque educere ne
impia manus ad extrema amplius fluctuaret».27
Ecco che dalla massa indistinta dei soldati esce l’eroe. Pellegrino ha
portato al culmine parossistico la rappresentazione dell’orrore, che ha avvolto ogni azione nella nebbia indistinta di una crudeltà che ha annichilito ogni
virtù caratterizzante dell’essere umano. Non descrive nessun duello, in cui il
singolo soldato possa distinguersi col suo valore personale, contrariamente
a quanto, invece, pure ha fatto in occasione dell’episodio del taglio della
catena. Tutto è confuso, e non si può conseguire alcuna gloria in una feroce
devastazione. Forse Pellegrino si fa prendere la mano dall’enfasi dominata
dalla condanna morale della guerra distruttrice, ma è pronto subito a rimediare: del resto, già prima aveva messo in bocca ad Alfonso le motivazioni che
servivano a giustificarlo per quell’attacco, che in realtà aveva solo il carattere
della rappresaglia; e aveva preventivamente attribuito ai Marsigliesi la colpa del successivo massacro, ricordando i loro insulti e le loro minacce, che
volgono in odio severo la pietà dei Catalani. Pertanto, anche la descrizione
delle aberrazioni compiute durante il fervore della battaglia si conclude con
l’esaltazione di Alfonso. Egli è l’unico in cui la pietà, scacciata da tutti, trova
la sua sede più naturale. Ed è questo che contraddistingue il sovrano: il saper
vincere l’ira, dimostrando, al momento opportuno, clemenza e magnanimità. «Parcere subiectis et debellare superbos», insegnava Virgilio, il modello
ispirativo costantemente presente nell’opera di Pellegrino, che, in questo
caso, attento discepolo, ne ricava che si deve avere pietà di chi si sottomette,
ma solo dopo aver abbattuto chi – come i Marsigliesi – si è dimostrato superbo. Così, con la pietà, viene ricordato anche un altro compito del sovrano:
proteggere le donne e gli indifesi.28
Interea avertit oculum clemencia ductum circa mulieres, quas pena suplicii
inperat, absque labe onesti nominis, intactas relinquere, sed templis celeriter
conservari. Tum decrepitos ac etate senili confectos, non solum a morte rursus, etiam ab omni calamitate cavit. Insuper, quod absit, <non> patitur puelle
continentes virginitate ledantur: quippe earum continencia iure inlesa penitus
remansit, et licet haud poterat omnino ressistere suis, tamen eo usque minis,
verbis agendis eos pietati admovit.29
27. Ibidem, p. 107, § II, 342.
28. Cfr., ad es., Hincmarus archiepiscopus Rhemensis, Opuscula varia: De regis per�
sona et regio ministerio, in J.P. Migne, Patrologia Latina, CXXV, Parisiis 1875, col. 836.
29. Pellegrino, Historia Alphonsi, p. 107, § II, 343-345.
La presa di Marsiglia del 1423
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La devastazione di Marsiglia dovette essere, effettivamente, pressoché
totale. Lo storico di Marsiglia M. Antoine Ruffi, facendo riferimento a una
bolla papale del 1427 conservata nell’archivio della cattedrale cittadina,
concludeva che rimasero bruciate più di 4000 case.30 Del resto, tutte le
fonti di tipo storiografico lo confermano. Tra queste, a dare le informazioni
più dettagliate è l’opera di Facio, che fornisce questi particolari: poiché i
Marsigliesi cercavano di impedire agli Aragonesi di scendere sul molo,
Alfonso dà ordine a quattro galee di approdare nelle zone circostanti, così
da accerchiare i difensori, costretti, perciò, alla fuga. Ma poiché alcuni
Marsigliesi continuavano a combattere dai tetti,
proximis domibus ignis iniectus est, qui paulatim vento adiutus cum mox
eum vicum comprehendisset, namque omnia prope aedificia extrinsecus contabulata erant, mutato vento in aliam urbis regionem deferri coepit totamque
hausit. Post haec non sine omnium admiratione, cum ventus in contrariam
partem reflare coepisset, totam regionem oppositam absumpsit atque ita, variante vento, nulla paene oppidi pars ab ignis violentia integra superfuit.31
Intanto, mentre le case ancora intatte venivano depredate, gli abitanti
fuggivano, «multique eorum in viis fugientes cadebant»; quindi, «feminarum puerorumque comploratus per urbem fugitantium atque ad portas
discurrentium regiorum aures complebant».32
Alcuni dettagli del racconto di Facio, come detto, sono più precisi. Ma,
come già notato in precedenza, le informazioni potrebbero essere alterate.
Così, non può non spiccare il fatto che, mentre Pellegrino insiste sull’ira
feroce degli Aragonesi, descrivendo gli orrori degli incendi e delle stragi,
in Facio tutto questo viene obliterato. È probabile che Pellegrino abbia
usato toni troppo enfatici e patetici; ma è plausibile anche, d’altro canto,
che Facio abbia volutamente ridimensionato la portata delle devastazioni
compiute dai soldati di Alfonso. Infatti, da quanto racconta, l’incendio che
distrusse tutta la città è caratterizzato come un incidente dovuto al fato, e la
morte dei Marsigliesi è da attribuire a cadute dovute alla concitazione del
momento. E, per completare il quadro, nel liberare gli Aragonesi da ogni
responsabilità, li presenta addirittura come innocui spettatori, coinvolti
loro malgrado in un immotivato tourbillon, e quasi impotenti, di fatto, di
fronte alle urla di donne e bambini che riempiono le loro orecchie.
30. Ruffi, Histoire, ed. 1696, p. 255.
31. Facio, Rerum gestarum libri, p. 90, § III, 23.
32. Ibidem, p. 90, § III, 24.
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Fulvio Delle Donne
Insomma, è evidente che Bartolomeo Facio, come, anzi meglio di
Pellegrino, sappia sfruttare le strategie della narrazione storica, portando
la creazione dell’immagine celebrativa del protagonista fino ai limiti della laudatio e del panegirico.33 Del resto, questo tipo di rappresentazione
storiografica arriva anche a teorizzarla, soprattutto in connessione con la
violenta polemica che, assieme al Panormita, l’aveva visto contrapporsi
a Lorenzo Valla.34 In quello scontro, Facio e Valla pervennero a una contrapposta definizione del modo in cui doveva essere scritta la storia. La
discussione ebbe come oggetto specifico iniziale i concetti di elegantia e
di decorum, che secondo Facio mancavano nei Gesta Ferdinandi regis di
Valla, dedicati al padre di Alfonso. Dietro questa accusa si celava, probabilmente, l’intenzione di sottrarre a Lorenzo Valla il favore reale che egli si
stava conquistando; ma essa costituì soprattutto l’occasione per delineare
i caratteri inderogabili della storiografia ufficiale alfonsina.35 Pertanto, se
Valla riteneva che compito precipuo della storia dovesse essere la ricerca
e l’affermazione della veritas, il contrapposto ideale celebrativo di Facio
e del Panormita propendeva per la glorificazione della dinastia aragonese: ovverossia, ricorrendo all’espediente della brevitas, lo storico avrebbe
dovuto eliminare il ricordo di tutto ciò che sarebbe potuto risultare scon33. Può essere significativo, a questo proposito, quanto egli stesso dice in una lettera
del 26 settembre 1451 a Francesco Barbaro. La lettera è ora in F. Barbaro, Epistolario, ed.
C. Griggio, II, Firenze 1999, pp. 746-747: «scito me non vitam, sed res a se [scil. Alfonso]
gestas scribere proposuisse […]. Vita vero et laudatio, quae duo genera a rerum gestarum
narratione separata scis […]». Evidentemente, se ci teneva a fare questa puntualizzazione,
sapeva che nella sua opera i limiti tra quei diversi generi erano assai labili.
34. L. Valla, Antidotum in Facium, ed. M. Regoliosi, Patavii 1981, pp. 5-6 (I 1, 11-16)
e 11 (I 2, 7) dice esplicitamente che alle spalle di Facio si nascondeva Panormita.
35. Cfr. soprattutto G. Ferraù, Il tessitore di Antequera. Storiografia umanistica meri�
dionale, Roma 2001, pp. XV e sgg., 8 e sgg.; Regoliosi nell’Introduzione alla sua edizione
di Valla, Antidotum in Facium, pp. XX-LXXXI, che traccia un ampio quadro delle rivalità
tra Valla, da un lato, e Facio e Panormita dall’altro; nonché l’Introduzione di Resta alla
sua edizione di Antonius Panhormita, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, Palermo
1968, pp. 19 e sgg e 30 e sgg.; G. Albanese, Studi su Bartolomeo Facio, Pisa 2000, p. 48 e
sgg. (questa parte del volume, intitolata Storiografia come ufficialità alla corte di Alfonso
il magnanimo: I Rerum gestarum Alfonsi regis libri X di Bartolomeo Facio, contenente
anche paragrafi scritti da D. Pietragalla, M. Bulleri, M. Tangheroni, è pubblicata anche in
La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo, XVI Congresso internazionale di
storia della corona d’Aragona, Napoli-Caserta-Ischia, 18-24 settembre 1997, Napoli 2000,
II, pp. 1223-1267); inoltre G.M. Cappelli, El Humanismo italiano. Un capítulo de la cultu�
ra europea entre Petrarca y Valla, Madrid 2007, pp. 213-215 e 223-224.
La presa di Marsiglia del 1423
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veniente o inadatto alla dignità regia. Insomma, secondo questo principio,
non deve essere ricordato tutto il vero, perché esso potrebbe contrastare col
verosimile: «non enim solum veram, sed etiam verisimilem narrationem
esse oportet, si sibi fidem vendicare velit», afferma Facio nella seconda
Invectiva in Vallam.36
La questione, naturalmente, presentava molte sfumature, sia dal punto
di vista della comunicazione politica, sia da quello schiettamente retorico,37
ma è evidente che il rifiuto valliano di una ricostruzione ideologizzata della
figura del sovrano non poteva rientrare facilmente nel progetto propagandistico di Alfonso, che mirava all’esaltazione della sua dignità regia e alla
creazione del suo “mito magnanimo”. Per cui la sua opera sulle imprese di
Ferdinando I segnò la fine della sua collaborazione con Alfonso, lasciando
campo libero al Panormita, destinato a divenire l’ispiratore della nuova
linea storiografica del Regno, e a Facio, che di quella linea storiografica fu
l’effettivo realizzatore.
Tanto più che quanto abbiamo visto a proposito delle descrizioni
della battaglia vera e propria, nonché delle sue devastazioni, si riscontra anche nella caratterizzazione della clemenza e della pietà di Alfonso.
Infatti, già Pellegrino, per esaltare la pietà del sovrano, aveva ricordato
la protezione offerta da Alfonso a vecchi e fanciulle: particolare che, si
badi bene, risulta completamente omesso da Chaula, che anche in questo
caso si trova troppo al di qua della linea storiografica ufficiale alfonsina.
Ma quel dettaglio dovette sembrare troppo scarno a Facio, che, secondo
i criteri da loro perseguiti, lo amplificò ulteriormente,38 seguito anche dal
Panormita, che neppure si lasciò sfuggire quella ghiotta occasione per
esemplificare la continentia di Alfonso.39 E le stesse strategie vengono
seguite anche nella descrizione di quanto avvenne dopo, ovvero del furto
delle reliquie di san Luigi di Tolosa, che fu figlio di Carlo II e fratello di
36. B. Facio, Invective in Laurentium Vallam, a cura di E.I. Rao, Napoli 1978, p. 96.
37. Cfr. soprattutto G. Ferraù, Il tessitore di Antequera, pp. 1-42; M. Regoliosi, Rifles�
sioni umanistiche sullo ‘scrivere storia’, in «Rinascimento», 31 (1991), pp. 16-27; e l’Intro�
duzione della stessa alla sua edizione di Valla, Antidotum in Facium, pp. XXXIV-LXVII.
38. Facio, Rerum gestarum libri, p. 90, § III, 25.
39. Il capitoletto del De dictis et factis Alfonsi regis è significativamente intitolato
Continenter. Per il testo si è seguita prevalentemente l’edizione curata da M. Vilallonga,
contenuta in Jordi de Centelles, Dels fets e dits del gran rey Alfonso, Barcelona 1990, p.
132, § II, 3. Tuttavia, quell’edizione è stata controllata e corretta sulla base dell’edizione
stampata a Basilea nel 1538 (ex officina Hervagiana), p. 34.
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Fulvio Delle Donne
Roberto d’Angiò. Evento, questo, di cui si è già trattato altrove e che non
è il caso di affrontare nuovamente.40
Insomma, tirando le fila del discorso, si può concludere che in Gaspare Pellegrino le descrizioni di battaglie sono finalizzate all’esaltazione di
Alfonso: egli deve apparire sempre in primo piano, anche se a farlo brillare
sono, talvolta, le azioni individuali di altri personaggi o, in contrasto, i
comportamenti della massa indistinta. Ma, in ogni caso, come si è visto,
i momenti più specifici dell’impresa bellica, ovvero del combattimento in
sé, non sono necessariamente rappresentati in maniera particolareggiata,
mentre maggiore risalto è dato al loro contorno, fatto di allocuzioni o di
cerimonie. Bartolomeo Facio, invece, talvolta indulge a descrizioni più
minuziose, che evidentemente considera caratterizzanti della narrazione
incentrata sulle res gestae. Tuttavia, anch’egli, selezionando solo ciò che è
opportuno riferire, finisce con l’alterare scientemente la rappresentazione
della realtà, venendo, così a delineare i caratteri di una storiografia ufficiale di tipo celebrativo che trova la sua più evidente applicazione nella
contemporanea cronaca aneddotica del Panormita, costruita su detti e fatti
esemplari del re.
40. Cfr. F. Delle Donne, Virtù cristiane, pratiche devozionali e organizzazione del
consenso nell’età di Alfonso d’Aragona, in «Monasticum regnum». Religione e politica nel�
le pratiche di legittimazione e di governo tra Medioevo ed Età moderna, Atti del convegno
di Torino, 21-23 sett. 2009, in corso di stampa nella collana «Vita regularis. Ordnungen und
Deutungen religiosen Lebens im Mittelalter» dell’editore LIT Verlag, Münster.