Dino, non fare storie … Sono arrivate le mamme

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Dino, non fare storie … Sono arrivate le mamme
Dino
Dino, non fare storie …
“ La
sera del 16 luglio 1947 faceva un caldo terribile. Con Buzzati decidemmo di andare
a mangiare fuori città , al fresco. Andammo a Corsico, alla Pianta. Al ritorno, ci
fermammo al Cova. Buzzati chiese un caffè e io ne approfittai per telefonare a Mottola
al "Corriere" e chiedere se c' era qualcosa di nuovo. Mi informò della tragedia di Albenga
dove una motobarca con ottantadue piccoli ospiti di una colonia milanese era colata a
picco a poca distanza dalla riva. Quarantatre bambini erano annegati insieme con le tre
maestre. Chiesi chi era stato mandato: "Samarelli" mi rispose Mottola. Non ero
convinto e pensai subito a Buzzati che era li' a portata di mano e che ignaro di tutto
sorbiva tranquillamente il suo caffè . Mi avvicinai a lui e frettolosamente gli dissi:
"Sbrigati, Dino, devi partire per Albenga". Gli spiegai quello che era accaduto. Dino mi
supplicò per non andare. "Non fare storie . replicai . questo e' un servizio per te. Non
puoi sottrarti". Il "doverista" Buzzati dovette fare un grande sforzo, ma molto superiore
fu il mio per convincerlo a partire. Avevo gia' detto a Mottola di Buzzati e l' avevo
pregato di mandare subito una macchina. L' auto arrivò e Buzzati prese posto: gli
raccomandai solo di mandare il servizio in tempo per la prima edizione dell'
"Informazione". Partì senza nemmeno passare da casa. Avremmo provveduto noi a
mandargli quello che gli sarebbe servito. "Ora bisogna sbrigarsi, perché occorre arrivare
presto, vedere e mettersi al lavoro". "Ma la macchina per scrivere!". "Dino, non fare
storie, la macchina per scrivere l' avrai: stanotte scrivi a mano". Io andai subito al
"Corriere". Buzzati arrivò ad Albenga alle tre e qualcosa. Vide, chiese, parlò con la
gente, principalmente con chi aveva assistito al tragico naufragio e partecipato all' opera
di salvataggio accorrendo con tutti i mezzi verso il luogo dove stavano dibattendosi tanti
bambini. Cercò di ricostruire la sciagura. Scrisse in auto su un quaderno a righe che
aveva appena comprato in una tabaccheria, a quell' ora aperta perché quella notte tutta
Albenga era nelle strade. […] “
Gaetano Afeltra
Fonte: www.dabicesidice.it
Corriere della Sera – 6 novembre 1995 – Pag. 25
Sono arrivate le mamme dei quarantatre
fratellini della morte
I 43 bambini annegati insieme nelle acque di Albenga dovevano partire sabato per
tornare alle loro case. Alcuni vivevano nella colonia dall’inverno scorso, altri da un paio
di mesi. Con misteriosa perfidia, che non riusciremo mai a capire, il mare ha detto: no.
Le 42 mamme perché due delle vittime sono fratelli li aspettavano di ritorno per la fine
della settimana. Ma il mare si è opposto e perciò esse si sono precipitate qui ad
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Albenga, a bordo di una corriera. Il loro terrificante drappello di desolazione e di pianto è
accorso dal nord per raccogliere ciò che è rimasto delle loro creature, per baciare questi
gelidi bambolini per l’ultima volta.
Da alcune ore, Albenga le aspetta con una specie di paura. Perché si capisce come
soltanto al loro arrivo, quando si udranno le loro voci, il dolore sarà vero dolore. Che
cosa diranno? Che volto avranno? Il solo pensiero fa spavento. Mentre ora telefoniamo,
un brusio si ode provenire dalla piazza che poco fa non c’era. Intravediamo dalla porta,
un autobus che avanza lentamente e adesso si ferma. Un richiamo solitario e altissimo.
«Ginetto!» o «Ninetto!», non si capisce bene. Un braccio si agita da un finestrino: sono
loro.
Che cosa vedranno? Vedranno i quarantatre loro figli distesi a fianco a fianco,
trasformati in modo inverosimile. Sono in un vasto, largo padiglione con scritto sulla
facciata «Croce Bianca Ambulatorio». Fuori c’è l’allegra piazza di Albenga con le palme,
le panchine, i chioschi, il sole e persine quell’aria serena di festa portata qui dall’estate
balneare. Ma appena si entra vien meno il fiato. Ci si aspetta uno spettacolo macabro. Vi
è invece una cosa incredibilmente gentile: di qui la sua infernale potenza.
Lungo le pareti dell’ampia sala hanno disposto tre specie di panche, ricoperte di bianchi
teli. Due più brevi ai lati, una lunghissima di fronte. Su quella a destra giacciono tre
donne e una bambina non ancora identificate, coperte fino al petto da un lenzuolo. Ma è
sul rimanente che gli sguardi si fermano pazzescamente affascinati. Quarantatre
bambini, dai 3 ai 10 anni, dormono quieti e bene allineati, le manine congiunte sul petto
e gli abitini da spiaggia: le allegre tute, i camiciotti a colori. I piccoli piedi nudi non si
muovono di un millimetro, non si muovono più i petti nel respiro, le bocche tenere sono
ferme. Ce n’è uno, il primo a sinistra entrando, delicato e fine, con un fazzoletto bianco
annodato sotto il mento. Qualcuno ha fra le labbra un batuffolo di cotone. Questi i soli
segni un po’ strani. Ma la morte non si riesce a vederla. Essa ha toccato; e poi, si
direbbe, se ne è andata via lasciandoli intatti. Non ce n’è uno dei quarantatre che abbia
l’impronta del patimento e del terrore; non ce n’è uno brutto. Solo che si assomigliano in
modo stranissimo l’uno all’altro. Ieri, probabilmente, ciascuno era un tipo a sé. Ciò che a
loro è successo, li ha trasformati in tanti fratellini. Se ne guarda uno, poi un altro, tre,
quattro, dieci: il conto diventa una grande fatica. Poi non ci si crede più. Tutto questo è
impossibile; è uno scherzo mostruoso.
Entrano spauriti uomini e donne, e guardano. Grandi foglie di palma fanno tutto attorno
da spalliera e i fiori crescono nel breve intervallo fra bambino e bambino. Un’infermiera
passa con un batuffolo di cotone, pulendo con materna delicatezza le piccole bocche
socchiuse, come se i
bimbi fossero solamente malati, quasi un ultimo ritocco prima che cominci una festa. E
crescendo i fiori e restando così dolci, rasserenate e belle le quarantatré creature,
cresce anche quell’inverosimile senso di gentilezza complessiva. Cosicché la gente pare
stenti a capire e fissa lo spaventoso schieramento con occhi atoni e vuoti.
Fra poco singhiozzi indicibili si udranno nel salone della Croce Bianca, dalle cui pareti
bianche i volti di benefattori in ingrandimenti fotografici sorridono glacialmente. E c’è
stato raccontato come è successo il naufragio. Ottantuno bambini del Preventorio
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colonia, fondazione «Solidarietà nazionale» (stabilito presso una colonia scolastica
milanese di Loano) salirono ieri verso le 16 su una barca a motore per fare una gita sino
all’isolotto di Gallinara di fronte ad Albenga. Una escursione consueta, che questa volta
toccava per turno al gruppo dei più piccoli. I bambini erano accompagnati da tre
assistenti, di cui una sola sapeva nuotare. Livia Mariani, fu Giuseppe, di 28 anni,
abitante a Milano in corso Buenos Aires 9, Adriana Ferro, di Domenico, di 26 anni, da
Spotorno, e Angela Serrato, di Ferdinando, di 25 anni, da Giustenice (Loano).
Erano pure a bordo il bagnino della colonia, Antonio Giordano, di 37 anni, da
Loano, oltre al motorista e al capobarca, fratelli Angelo e Bartolomeo Podestà, di
Loano, di 56 e 46 anni, che affittavano l’imbarcazione.
Lietamente la comitiva si era staccata dall’imbarcadero di Loano e su mare calmissimo
andava costeggiando la riva a breve distanza. Un’ora e mezzo dopo, alle 17.30, in
località Burrone, là dove sotto a un viadotto della ferrovia sbocca in mare la fognatura di
Albenga, la barca si impennò con un terribile scossone. Tutti caddero per il contraccolpo,
gli uni sugli altri. Immediatamente dal fondo del barcone zampillarono potenti getti
d’acqua. Lo scafo si era squarciato.
Cos’era accaduto?
La barca era andata a urtare contro uno dei pali di legno piantati sul fondo per
sostenere il condotto della fognatura.
Decine di imbarcazioni di analogo pescaggio passavano giornalmente in quello
specchio d’acqua. La mattina stessa la medesima barca a motore si chiamava
Annamaria ed era lunga nove metri aveva fatto quel percorso senza inconvenienti.
Questa volta, incocciò nel palo fatale. Lo scafo ne fu trapanato come un foglio di carta.
Tutto si svolse con una semplicità straordinaria.
La Mariani ci ha raccontato:
«Non ho capito neanch’io come mi sono trovata in acqua. Io non so nuotare. Sono
sprofondata e annaspavo finché ho visto una cosa scura sopra di me: ho allungato le
braccia, credendo che fosse una persona. Invece era un’asse, per fortuna. Così sono
rimasta a galla. Intanto, due bambini mi si erano attaccati alle gambe. Ho fatto per tirarli
su; ho sentito le loro manine abbandonarmi. Non li ho visti più.
Intorno, tutti gridavano. Ma dov’erano i bambini? Che li avessero già portati a riva? Ve
n’erano pochissimi a galla. Solo dopo ho capito. Si erano avvinghiati gli uni con gli altri,
facendo grappolo e così sprofondarono in pochi istanti. La mia compagna Serrato, che
anche lei non sapeva nuotare, è riuscita ad aggrapparsi all’albero della barca che
sporgeva ancora dall’acqua. Le si erano attaccati ben sette bambini che hanno potuto
resistere finché sono arrivati i soccorsi.
Sulla riva c’era poca gente. Qualcuno si è subito buttato a nuoto. Gli altri, vedendo tanti
bambini, sono corsi a chiamare delle barche. Io mi guardavo intorno terrorizzata. I
bambini continuavano a gridare: sembravano tanti passeretti. “Aiuto! Mamma! Mamma!”
Non si sentiva altro. Poi non ho capito più niente. Qualcuno mi ha tirato a riva e così
sono salva.»
Non si è potuto sapere esattamente chi andò al soccorso. L’allarme si propagò come
un fulmine per Albenga. Dopo poco - ma che interminabile tempo era intanto passato! file:///C|/Users/Antonio/Desktop/dino.htm[06/11/2010 12:49:33]
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arrivarono barche di ogni tipo. Il contadino Parilla riuscì a tirare in salvo 15 bambini, sul
suo esile «gozzo».
Ma una donna - tre donne si erano unite alla comitiva dei bambini - si era aggrappata al
bordo, e una cinquantina di metri dalla riva la barca si rovesciò. A nuoto, il Parilla riuscì
a salvarli tutti e quindici. I piccoli boccheggianti si ammucchiarono sulla riva deserta e
disabitata. Per fortuna era accorso il dott. Ambrogio Navone, dell’ospedale di Albenga.
Egli fece la respirazione artificiale ai più stremati, e da solo, si può dire, ne salvò ben
diciotto. Altri, intanto, con tecnica più o meno scientifica, presero ad imitarlo. Se no la
tragedia sarebbe stata ancor più grande.
Si sono pure distinti nell’opera di salvataggio i medici Aschero, Craviotto, lo
studente in medicina Moisello e il radiologo Massone, sebbene privo di una mano.
Sono stati trattenuti dall’Arma dei carabinieri il direttore della colonia, due barcaioli e un
bagnino che erano a bordo. Un bambino, Giuseppe Pianta, da Milano, di 7 anni,
senza saper nuotare è pure riuscito a percorrere i 150 metri che lo dividevano dalla
spiaggia, con un piccolo di 4 anni attaccato ai capelli; anche Roberto Ronca,
veronese, riusciva a raggiungere la spiaggia benché inesperto nel nuoto.
Mentre si affollavano di bambini le corsie dell’ospedale di Albenga, sulle acque del
Burrone cominciavano le ricerche senza speranza. Piccoli corpi inanimati venivano tratti
uno ad uno dalle placide acque e via via erano trasportati nell’ambulatorio della Croce
Bianca. Prima delle 23, il ricupero era finito.
Intanto, le mamme si addormentavano serenamente, dopo la consueta preghiera per il
loro bambino lontano.
«È come se fosse passata la guerra una seconda volta» mi ha detto stamane un
ferroviere. In tutta la riviera di Albenga non si vedono che facce chiuse e serie. La folla
all’ingresso della maestosa camera ardente va facendosi sempre più grossa e cupa. Ieri,
sono giunti il prefetto, il questore e il comandante dei carabinieri di Savona. Stamane il
vescovo De Giulio ha celebrato la messa dinanzi ai 43 innocenti. È atteso il sindaco di
Milano, Greppi. I funerali, si dice, dovrebbero essere fatti domani mattina, ma non è
stato ancora deciso niente di definitivo. Intanto in una cameretta dell’ospedale i due più
gravi dei bambini superstiti si lamentano flebilmente, vaneggiando:
«Che caldo!» mormora l’uno.
«Ho sete... Tornare a casa... La mamma, la mamma... Ho sete...»
DINO BUZZaTI
«Corriere d’Informazione» [1] , 17 luglio 1947
Da www.dabicesidice.it
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Tutto il dolore del mondo
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in quarantaquattro cuori di mamme
Uno straziante spettacolo nella camera ardente di Albenga all'arrivo dei genitori
delle vittime - Primi accertamenti sulle cause della sciagura - Un'inchiesta ordinata dal governo
DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Albenga, 17 Luglio notte
La camera ardente di Albenga resterà fra le cose più grandi e spaventose di tutti questi
anni e della mia personale vita: la camera ardente e ciò che vi é accaduto nel
pomeriggio di oggi.
Ad un certo punto ha perso ogni significato il sapere come i 43 bambini fossero morti,
non è importato più né il nome, né i cosiddetti episodi, né gli sforzi per il salvataggio, né
di chi potesse essere la colpa. É rimasto unicamente lo spettacolo indicibile del basso
stanzone della Croce Bianca, col soffitto imbiancato a calce, lungo le pareti le vetrine
del sodalizio e appesi i ritratti di vecchi benefattori. Perché qui la morte aveva allestito
una faccenda davvero infernale.
Le quattro donne
Ridicolo al paragone il famoso Trionfo della Morte della pittura antica, retorici i campi di
battaglia di Napoleone, inutilmente esagerato lo sterminio delle città bombardate dagli
aeroplani, perfino Buchenwald e Auschwitz non raggiungono una così sobria potenza.
Mai, diciamo, la morte aveva chiuso in un quadro così compatto e inesorabile il suo
trionfo.
Chi entrava oggi nell'ambulatorio della Croce Bianca di Albenga sentiva, nel senso
letterale della parola, una cosa diaccia e pesantissima entrargli poco più su della bocca
dello stomaco dentro al petto. E più guardava, più questa cosa indefinibile faceva forza
dentro di lui. Non serve dire: 43 anime tenerissime volate in un sol colpo al Creatore;
non serve pensare a diecine e diecine di famiglie spezzate all'improvviso da un
telegramma o dalla tremenda ambasciata d'un messo comunale: le parole non servono
a niente.
Bisognava vedere quei 43 piccolissimi uomini allineati su un unico pancone, poi a
destra delle quattro donne, unite a loro da un bizzarro destino, distese su un pancone
separato, quasi fossero delle intruse. É evidente che su queste povere donne la morte
non faceva assegnamento nel suo calcolo di catastrofe, che le ha portate via perché non
poteva farne a meno e che le erano del tutto superflue. Bisognava vedere - e bastava un
baleno d'occhiata - quello schieramento di testine ceree, di manine ugualmente raccolte
sul petto, di gambe esili, di piccoli piedi abbandonati in un immobile sonno. Bisognava
vedere come si assomigliavano in modo allucinante le 43 faccine, non impaurite, non
doloranti, bensì dolcemente attonite e, in certo modo, rassegnate. Fra le mani ciascuno
teneva con delicatezza una immagine sacra e un fiore, le palpebre erano attaccate
appena appena. Senza nessuna retorica erano tutti belli ed estremamente gentili.
«Tante bambole, sembrano» disse uno. Quarantatre bambole con dentro chiuso in
ciascuna il mistero della morte.
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Un Gesù in croce abbandonato al peso del corpo e con le braccia tese in sù in modo
spasmodico era posto sopra l'immenso capezzale dei 43 innocenti. E anche lui, sebbene
ciò sia assurdo, sembrava non capire il perché. La gente di Albenga sfilava
silenziosamente davanti; negli interstizi tra bimbo e bimbo crescevano i fiori e cresceva il
loro inequivocabile profumo. Fuori risplendeva il sole e suonavano i clackson dei
viandanti spensierati. E le 43 faccine diventavano sempre più di cera, si facevano
sempre più diafane e perfette e il Cristo pareva sempre più distendersi nello spasimo
della crocefissione e piegava desolatamente la testa da un lato, perché, assurdo o no
che fosse, neppure lui riusciva a capire.
Così quella cosa diaccia e pesante entrava come una trave di ferro nel petto di coloro
che guardavano. Così le frasi che di regola sono giudicate false e sciocche diventavano
rigorosamente vere: ad Albenga, diremo per puro dovere di cronisti, si era concentrato,
nel pieno della serenità, tutto il dolore del mondo e si spezzavano cuori rimasti fino a
stamane di pietra.
Ecco, arrivano
Ma la morte com'è evidente, non era ancora contenta, e desiderava sfruttare, per così
dire, ancora di più, il suo abominevole capolavoro. E Cristo e gli uomini evidentemente
non avevano sofferto abbastanza. Perciò alle ore 15, nella piazza di Albenga, arrivò il
primo autobus proveniente da Milano, con a bordo circa quaranta persone adulte: le
madri, i padri, i nonni e gli zii dei bambini che erano morti. Nella piazza battuta dal sole
la gente formò per istinto una specie di corridoio come nella scena famosa del massacro
spagnolo di Hemingway. E con sguardo di terrore, al pensiero di quanto sarebbe
successo, la gente vide avanzare il gruppo.
Trattenuta da due parenti venne avanti per prima precipitando, una donna giovane e
grassa.Teneva la faccia rivolta al cielo, una mano aggrappata ai capelli come Niobe.
Parole sconnesse che non si riusciva a capire uscivano dalla sua bocca con crescente
precipitazione, mentre si avvicinava all'ingresso della camera ardente. Ma un uomo
magro e pallido, sui trent'anni, improvvisamente la sopravanzò ululando, le mani tese in
avanti, e irruppe nella sala.
Dio, fa per misericordia che non si ripeta mai più l'orrore senza nome del 17 luglio ad
Albenga. Una madre nella camera ardente non vedeva il suo figlioletto morto: ma lo
vedeva morto quarantatre volte nello stesso istante, quarantatre volte nello stesso
istante strappato dalle sue viscere. I suoi sguardi impazziti cominciavano poi a
ondeggiare qua e là cercando. Poi il sangue chiamava e lei si gettava sul misero bimbo
di cera, ormai così lontano, baciandolo e accarezzandolo con atroce tenerezza e
mettendogli a posto la vestina e stringendogli piano le mani. Finché un barlume di verità
si faceva in lei e la rivolta esplodeva con grida da agghiacciare il sangue. Ogni madre e
ogni padre che entrava era lo stesso.
Si formò nella sala un vortice di atrocissimo dolore umano. Non avevo mai immaginato
che il cuore potesse essere così totalmente sconvolto dalla sofferenza del
prossimo. Tutti, non esagero, piangevano senza ritegno. «Oh,oh, Giorgio mio - si
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sentiva urlare. - Oh, mamma... il mio Alberto, oh che morte gli hanno fatto fare!.. Oh
Signore, dammi la grazia», invocava un'altra coprendo di baci i piedini del suo bimbo.
Mamme si dibattevano lanciando insensate invettive come travolte dalla pazzia.
Mamme ingannate da false segnalazioni, non trovavano il figlio creduto morto e a poco a
poco nella faccia sconvolta si apriva come una luce di speranza. Mamme si slanciavano
sulla loro creatura irrigidita gridando di felicità: «É vivo, é vivo!». Mamme uscivano
correndo nella piazza come folli lanciando degli evviva fra un singhiozzo e l'altro.
Dino Buzzati
L'ultimo bacio delle mamme alle piccole vittime di
Albenga
Una folla attonita e straziata accompagna le 44 bare al treno
DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Albenga, 18 Luglio notte
Quando stamane, all'ambulatorio della Croce Bianca, si stava per chiudere nelle
casse le quarantotto vittime del mare - i quarantaquattro bambini e le quattro donne entrò un uomo un po' titubante con in mano una cosa bianca, una specie di piccolo
cuscino. Si trattava di un campione: lui era in grado di procurarne entro mezz'ora altre
quarantasette affinché le teste dei morti restassero un po' sollevate. Una delle mamme
presenti, tutta consumata dall'insonnia e dal pianto, si alzò dalla sedia. Toccò il
cuscinetto, vi affondò le dita per sentire se fosse morbido.. Scosse il capo: «No, no,
troppo duro - disse con desolazione - Per il mio bambino questo no; non può andare
questo per il mio Angelo».
Era infatti un povero cuscino pieno probabilmente di trucioli, tutto adiposità e gnocchi.
Da un angolo dove era in attesa, sbucò allora un altro uomo, un concorrente, con un
sorriso mellifluo, e presentò il suo campione: un cuscino leggermente più umano. La
madre esaminò anche questo seriamente e restò titubante. Anziché trucioli doveva
esserci dentro paglia sottile e le gobbe erano meno pronunciate.
Come avrebbe dormito il piccolo Angelo? Purtroppo un terzo tipo di cuscino da
scegliere non c'era. E il secondo arrivato ebbe la preferenza sotto gli sguardi accigliati
dei genitori. Il primo morticino fu avvolto allora in un bianco sudario, sotto la testa fu
collocato il cuscino, la sua mamma gli accarezzò le gambette per l'ultima volta. Poi il
coperchio fu suggellato.
Le quarantotto bare erano pronte, bianche quelle per i piccoli, color quercia le altre.
Non era stato naturalmente possibile procurarle tutte eguali; ci si era dovuti accontentare
di ciò che offrivano le ditte. Così qualcuna era esageratamente lunga, quasi di
dimensioni normali; una era decorata con fregi in oro con grosse maniglie e crocifisso di
ottone, un'altra era nuda e miserella e si accontentava di una decalcomania di angioletto
applicata ai lati. Sul coperchio di ciascuna fu inchiodato un cartellino di latta col nome
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impresso come quelli che usano gli spedizionieri. E poi un mazzetto di fiori.
Vengano i genitori se vogliono dare l'ultimo bacio. Nella piazza battuta dal sole chiamò
le famiglie e nella sala della Croce Bianca, già invasa dal fradicio fiato della morte, si
ripeterono a brevi intervalli le disperazioni indicibili delle madri e dei padri. Intanto
Albenga si riempiva di gente mai vista, migliaia e migliaia, specialmente donne venute
da tutta la Liguria. Anche il treno di Milano scaricò una moltitudine straordinaria.
Assurda aspettazione
Ed ecco tutto è pronto. Nessuno dei quarantaquattro bambini morti si potrà mai più
vedere; i loro miti e rassegnati faccini di cera non saranno più per noi vivi un rimprovero.
Essi sono chiusi ermeticamente fra le candide assi e aspettano di partire.
Il sole è al colmo, le palme oscillano lievemente. C'è il ministro Cappa in
rappresentanza di De Gasperi, c'è Parri, ci sono le autorità della provincia, i sindaci
di tutta la Riviera, i gonfaloni di Milano, Genova e Albenga, le società con le loro
bandiere, la banda di Albenga, i giovani esploratori, le suore, il clero, tutte cose
necessarie in una cosa così tremenda. Ascoltate, le campane hanno cominciato a
suonare.
Alle 16,15 esattamente la mitria del vescovo, risplendente come una piccola macchia di
neve si mette in movimento e la prima bara esce dall'ambulatorio della Croce Bianca
sorretta da quattro giovani. Ben quattrocento se ne sono presentati questa mattina
offrendosi per il trasporto e parecchi hanno dovuto essere rimandati scontenti.
Esce nel sole la prima bara e poi la seconda e poi la terza, si cerca di fare il più
celermente possibile e non finisce mai. E, cominciando questa specie di spietato trionfo,
al patetico suono della fanfara, ciascun padre e madre e zio e nonno si accoda al suo
morto. Ben presto le bianche macchie delle bare sono tante che l'incredulità delle prime
ore ricomincia. E nella folla nasce una specie di assurda aspettazione, come se ad ogni
costo dovesse succedere una cosa che cancelli tutto quanto. Vediamo la gente fitta
dovunque, donne e donne che stringono il fazzoletto alle labbra, donne la cui bocca
trema, donne affacciate alla finestra con la testa tra le mani. I vestiti per lo più sono
allegri, da estate e da mare, ma tutte piangono dirottamente. Il morticino di Verona
Passa una signora che accarezza lievemente la bara. Passa un padre recando per
mano un piccolo sacco da montagna, tutto ciò che rimane della sua creatura.
Passa la giovanissima madre di Enzo, la cui angoscia selvaggia e ininterrotta da 24
ore provoca la pietà delle stesse altre mamme. Vediamo tutti i negozi sprangati.
Vediamo un gruppo di bimbette lanciare fiori quasi con accanimento. Vediamo avanzare
solo soletto un morticino di Verona a cui nessuno ha detto «caro» o ha dato un bacio.
Sperdutissimo egli procede con gli altri nell'immensa processione: e non c'è neppure
un'anima pietosa che finga di essergli parente e si incammini dietro per evitargli la
mortificazione. Eppure non succede niente.
Dinanzi all'antica cattedrale sono schierate le corone, ce ne sono 82 da quelle del
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ministro dell'interno e del comando militare alleato a quelle dei minuscoli sodalizi locali.
Le campane continuano a suonare. Sopra il portale si legge: «Lasciate che i pargoli
vengano a me, perché di essi è il regno dei Cieli». I 48 entrano nel tempio, vengono
allineati sopra gli inginocchiatoi nella navata centrale. Adesso suona l'organo e i cantori
intonano il Libera me Domine. Come resisterà al pianto? Dietro a ciascuna bara si
raccolgono i parenti che si ostinano a chiamare i bimbi coi loro cari nomi. Solo dietro al
morticino di Verona non c'è nessuno; si distingue bene il posto rimasto vuoto. Questo è
eccessivamente amaro, eppure non succede niente.
Gli antichi costruttori del Duomo lo fecero grande perchè l'intero popolo potesse venire
ad adorare il suo Dio. Oggi però è angusto. Anche per l'insigne cattedrale 44 bimbi morti
sono numericamente troppi e quindi la chiesa sembra diventata piccola, non più d'una
cappelletta di montagna. Degli altari ai lati, la Madonna del rosario, la Madonna del
Carmine e la Madonna di Loreto guardano trasecolate. Anche l'acqua santa
dell'aspersorio, e si ch'è un bel grande aspersorio da vescovo, è poca per tanti bambini.
Alla fine della benedizione non ne resta una goccia.
Parla il vescovo. Non ha accenti patetici o insinuanti. Una specie di aspra
esasperazione da domenicano irrigidisce il suo volto. «Quello che è successo è un
mistero incomprensibile - egli dice con impeto - e solo la Fede può squarciarlo. Ma se
voi piangete - e qui la sua voce si fà minacciosa - io vi dirò che loro ci hanno preceduto».
Al suo Requiem aeternam si unisce in coro l'invocazione della folla.
Vanno quietamente
I 44 bimbi e le quattro donne escono di nuovo nel sole, la folla pare diventata sempre
più grande, verso la stazione si fa ancora più densa e dolorante. Trentamila,
quarantamila persone? Mai Albenga ne ha viste tante. La straordinaria sfilata si avvia
alla fine, la più crudele sventura di questi anni sta terminando la sua cronaca. La
estenuazione del dolore ha trasformato i padri e le madri in miserabili automi che ancora
vaneggiano di avere un bambino vivo. E l'assurda aspettazione di un'ora fa si è dissolta
nel sole. Non è successo niente. Le piccole casse da morto sono di legno duro e
nessuna potenza al mondo le potrà più riaprire.
Sul piazzale della stazione, invisibile perchè parla attraverso un altoparlante, il sindaco
di Albenga con nobile semplicità saluta i piccoli che partono definitivamente. Poi parla
Parri e la commozione della sua voce esce con strane vibrazioni dall'imbuto metallico.
Infine parla il ministro Coppa.
Poco dopo vediamo la prima bara, laggiù in fondo, salire la scarpata che porta ai treni.
Non è successo niente. Addio, addio.
Due carri ferroviari tappezzati interamente di nero sono pronti per loro, uno destinato a
Verona, l'altro a Milano. Questo porta un cartellino con su scritto: «Ministero delle
comunicazioni - Ferrovie dello Stato - carro 114834» e poi a mano di traverso:
«Feretro». Accanto ci sono le vetture per i parenti. Non ci vuole molto a fare il carico.
Sono così leggere le casse. Esse formano tre strati da una parte e dall'altra. Sopra le
casse le corone e i fiori. Nello spazio di mezzo un agente armato monta la guardia
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Dino
d'onore.
Alle 19,30 il treno si muove vigilato dallo sguardo avido della folla. Sepolti dai gladioli e
dai garofani, i bambini odono forse ora il tran tran delle ruote sulle rotaie, quel rumore di
viaggio e di avventure così affascinante. Forse riescono a fare ancora un piccolo sorriso
che la mamma però non vede. E vanno quietamente.
Dino Buzzati
L'ULTIMO VIAGGIO DEGLI INNOCENTI
Le Bare bianche sono passate
fra il pianto e le preghiere del popolo
Da ogni rione della città il popolo è accorso ieri per salutare un'ultima volta la candida
schiera dei bimbi di Albenga. Dopo le 15 il flusso della folla verso il Duomo s'è fatto
torrente, mentre la campana maggiore della cattedrale diffondeva i suoi lenti e gravi
rintocchi. Gli esercizi pubblici hanno abassato le saracinesche, i negozi hanno chiuso i
battenti, la città s'è fatta muta. Il Duomo s'é rapidamente gremito di una moltitudine
silenziosa e commossa, che ha traboccato sulla piazza, invadendone ogni angolo,
arrampicandosi sulle gradinate del monumento. A stento i carabinieri in alta uniforme,
che prestavano servizio d'onore assieme a rappresentanze degli altri corpi armati dello
Stato e del Comune, hanno potuto mantenere aperto un passaggio nel centro della
navata maggiore e tutt'attorno all'altare. Da ogni punto della cattedrale, da ogni lato della
piazza, g1i sguardi e i pensieri erano rivolti ai ventitrè piccoli feretri allineati nella
penombra delle vetrate, in mezzo a fiori offerti dalla folla, ai lati dell'altar maggiore. E
accanto a ogni bara bianca, era una mamma: durante tutta la funzione religiosa, non
videro le autorità che assistevano turbate; non videro nemmeno il Cardinale che
impartiva la benedizione alle salme; non videro la folla che si accalcava a pochi metri di
distanza, quasi volessero stringere in un grande abbraccio le creature rapite dalla morte.
Le mamme fissavano con intensità d'allucinate, ormai senza pianto, il nome del loro
bimbo scritto sulla piastrina della cassa. Le mamme «sentivano» il tempo che passava e
pensavano con terrore che si avvicinava l'ora in cui il loro piccolo sarebbe stato
strappato per sempre dalle loro braccia. Accarezzavano amorosamente il legno lucido e
bianco, e in una di esse, appoggiata la guancia sulla bara come fosse stata la gioia del
suo bambino, taceva quasi tranquilla. Prima di benedire i feretri, l'Arcivescovo pronunciò
poche parole, disse le frasi dell'eterna saggezza cristiana, l'unica che possa essere di
qualche conforto a tanto dolore.
Il triste corteo
Si formò quindi il triste corteo. Lo apriva il gonfalone del Comune, seguito dagli
stendardi della Provincia, della Camera del lavoro e della città di Albenga. Si
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Dino
incamminarono successivamente il ministro Fanfani per il Governo, il Prefetto, il
generale Marazzani, i consoli stranieri, il Sindaco con l'intero Consiglio comunale,
deputati, il provveditore agli studi per il ministro Gonella, altre autorità, i parroci di tutte
le parrocchie milanesi, il clero officiante. Infine le bare vennero portate, seguite dai
familiari delle vittime sui carri funebri che attendevano ai piedi della gradinata. Scortato
da due carabinieri in alta uniforme, ogni piccolo feretro esce dal Duomo, sbocca sul
sagrato luminoso dove una multitudine in lagrime segue la tragica sfilata. La gente
giunge le mani in atto di preghiera, qualcuno le agita inconsciamente come a salutare.
Addio, addio! La Madonnina d'oro brilla, dalla sua altezza sublime, sotto i raggi del sole
estivo. Ma forse il viso della Vergine santa è bagnato di lacrime. Per le strade e per le
piazze che il lungo silenzioso corteo percorre, da piazza del Duomo, per via Mercanti,
via Dante, Foro Buonaparte, via Legnano, si è schierata tutta la popolazione di Milano;
sono allineate, l'una accanto all'altra, tutte le mamme di Milano con i loro bambini. Se li
tengono stretti per mano, guardandoli con un'apprensione insolita, con ansia improvvisa,
tirandoseli più vicini, il più vicino possibile come se qualche pericolo li minacci. Gruppi di
operai in bicicletta giungono dalle officine della periferia, si fanno largo tra la gente, seri
e pensosi, i maschi volti induriti dalla fatica.
Piangono senza saperlo
In largo Cairoli, già fino dalle sedici, il monumento a Garibaldi è come sommerso dalle
folla che si è arrampicata, spingendosi fino allo zoccolo superiore su cui poggia il
cavallo. I tram si fermano (riprenderanno poi con lodevole prontezza a circolare) si
fermano le automobili e le biciclette. La folla è immensa, ma è una folla che non parla, si
accontenta di sussurrare. Si direbbe che tutta la città è diventata come una chiesa, sotto
l'azzurra volta del cielo. E lassù, sfavillanti nel sole, due aeroplani descrivono, con
argentea lievità di farfalle, ampi e lenti cerchi. Dalla carlinga di uno di essi piovono mazzi
di fiori. É il comando della I Zona aerea che ha mandato i suoi due piloti, perchè scortino
dall'alto e dall'alto salutino con l'innocenza fragrante dei fiori i piccoli morti.
Nessun incidente, in tanta moltitudine: qualche donna sviene ed è subito soccorsa dai
sanitari e dai militi della Croce Verde e della Croce Rossa. Ottimo il servizio
disimpegnato dappertutto dai vigili.
Quando il corteo, al ritmo solenne e triste di una marcia funebre, giunge in via Dante,
una emozione struggente gonfia il cuore della folla. Qualche mamma leva in alto, con le
braccia, il suo bambino perché veda passare i carri bianchi dei più piccini e quelli neri
dei più grandicelli, e saluti, con le manine, i fratellini che vanno, lenti lenti, ognuno fra
due carabinieri con l'alto pennacchio rosso e blu sulla lucerna, verso il Paradiso. Uomini
anziani, signori gravi guardano passare quella sfilata di bare che sembra interminabile, e
piangono senza nemmeno saperlo. Molte donne si inginocchiano, tutte si fanno il segno
della croce. Il brusio, perfino il brusio della folla si è taciuto; i ventitrè innocenti passano
in quel silenzio che ha qualche cosa di terribile, qualche cosa di indicibilmente
straziante. Scendono dal cielo grappoli di rose e di garofani, scendono preghiere dalle
finestre colme di gente; e la sfilata dei ventitrè carri, in mezzo a centinaia di bandiere
abbrunate, accompagnate dalle note toccanti delle musiche funebri, passa, si allontana
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Dino
per Foro Buonaparte, per via Legnano. Si vedono come galleggiare sulla folla i ventitrè
carri funebri, quelli bianchi e quelli neri; sembra che sia il popolo, tutto il popolo di Milano
che li porti piano, piano, in silenzio, verso il cimitero.
Nei giardini del Campo I
Alle diciotto il primo carro funebre varca il cancello del Monumentale. Dinanzi alla
scalea gremita di folla, i carri si dispongono su tre lunghe file, circondati sempre dai
familiari e dai parenti delle vittime. Bisogna chiudere i cancelli, quando il cortile è già
gremito; ma fuori la folla immensa sosta, sosta sempre in pia attesa, e sulla sbarre degli
stessi cancelli vengono appese ancora corone e corone di fiori, che non era stato
possibile collocare sopra e intorno ai feretri.
L'ultimo saluto è dato dal sindaco Greppi. Poche parole, velate di commozione
profonda rivolte soprattutto alle madri: e la promessa che la memoria dei piccoli sarà
custodita per sempre nel cuore dei milanesi. Parla anche il ministro del Lavoro
Fanfani, rappresentante del Governo «Il cuore di tutta l'Italia - dice - colpito dall'immane
sciagura, trae dal dolore profondo, monito e sprone alle opere di pace e di giustizia».
Dal Cimitero Monumentale a Musocco, i feretri bianchi e i feretri neri vanno più veloci,
non c'è più nessuno che li segue, non ci sono che le mamme, i papà, i fratellini dei
piccoli morti. Ma per le strade c'è ancora il popolo di Milano che accompagna l'ultimo
viaggio degli innocenti; e quando arrivano sul piazzale di Musocco la folla è ancora
imponente, il silenzio è ancora impressionante. Il sindaco, ha voluto precedere di
qualche minuto l'arrivo, è già nei giardinetti fioriti del campo numero uno, subito a destra
dell'ingresso, ad aspettare i piccoli addormentati. Alle 19 arrivano i feretri, che si
allineano nei vialetti del campo-giardino. S'odono le mamme singhiozzare perdutamente:
è giunta la terribile ora del grande distacco. Fino a questo momento, i bimbi erano
ancora lì, dentro le cassettine bianche, sotto i fiori. Adesso scendono sotto l'erba del
campo, la terra coprirà il legno candido delle casse, i bambini non ci sono più, sono
partiti per sempre...
Scende la sera
Un frate cappuccino ora impartisce l'ultima benedizione: alle 19,15 la prima cassettina quella del piccolo Alberto Chiesa - scende nella prima fossa. Alle 20, la sepoltura è
compiuta. Montagne di fiori coprono la terra smossa. Le mamme inginocchiate sull'erba
invocano i loro piccoli, li domandano a Dio, non vogliono rassegnarsi al tremendo
distacco. E pietosamente i familiari le sollevano, le allontanano con dolce violenza. Il
popolo ammassato fuori piange in silenzio, prima di lasciare la piazza del cimitero.
Quando scendono le ombre della sera piovigginosa, anche il campo numero uno si fa
deserto. Non restano che i piccoli innocenti, allineati l'uno accanto all'altro, sotto i fiori,
addormentati per sempre. Ma non sono soli, non saranno mai soli: accanto a loro batte
sconsolatamente il cuore delle loro mamme, accanto a loro batte il cuore di tutte le
mamme di Milano. file:///C|/Users/Antonio/Desktop/dino.htm[06/11/2010 12:49:33]
Dino
Dino Buzzati
Fonte: www.gojc.free.fr
Dino Buzzati giornalista del Corriere della Sera
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