prime 25 pagine del libro

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prime 25 pagine del libro
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Raggi gialli
© Joseph Hansen, 2007
Tutti i diritti riservati
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senza l’autorizzazione scritta dell’Editore è severamente vietata.
Titolo originale: Troublemaker
Traduzione dall’inglese di Maria Luisa Vesentini Ottolenghi
Revisione della traduzione di Manuela Francescon
I edizione ottobre 2012
© 2012 Lit Edizioni s.r.l.
Largo Giacomo Matteotti 1
Castel Gandolfo (RM)
Elliot è un marchio di Lit Edizioni
Sede operativa:
Via Isonzo 34
00198 Roma
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Joseph Hansen
LA RAGAZZA
DEL SUNSET STRIP
Traduzione di Maria Luisa Vesentini Ottolenghi
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Parcheggiò sotto il sole, su una ripida stradina dal fondo
bianco pieno di crepe e segnato da rivoli di catrame scintillante. Rimase seduto ancora qualche minuto a godersi l’aria fresca che veniva dai ventilatori della macchina; li aveva
accesi non appena era partito, circa venti minuti prima,
eppure aveva la camicia intrisa di sudore. Ed erano soltanto le dieci del mattino. Non capitava spesso che a Los
Angeles facesse un caldo simile e purtroppo non sembrava
che avesse intenzione di smettere. Detestava quel caldo
umido. Tre settimane prima, al cimitero, il caldo era stato
talmente brutale che le nove vedove di suo padre gli erano
sembrate sul punto di svenire. La luce accecante calcinava
il colore dei fiori e il caldo torrido aveva seccato la terra
della tomba fino a sotto il manto sottile dell’erba posticcia.
Era rimasto a osservare i becchini fino a che non avevano
riempito la fossa: perfino la terra era secca. Ma perché diavolo adesso si metteva a pensare a queste cose? Spense il
motore, afferrò la giacca e uscì dalla macchina.
Lo sportello si chiuse con un tonfo alle sue spalle. Nell’aria soffocante si infilò la giacca e attraversò la strada. La
casa sembrava fissarlo, cieca e percossa dal sole, da dietro
una siepe di oleandri. Tutte le tende erano tirate, ma le
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porte del garage erano spalancate. Non doveva esser stato
facile costruire in quel punto: tanto le case che i garage sorgevano a pochi passi dalla strada. Sul corto vialetto in pendenza, la polizia aveva segnato con del nastro adesivo i contorni del cadavere; quando questo era stato rimosso, il
nastro era stato tolto ma sull’asfalto era rimasta la colla e
ora la polvere estiva e la sporcizia della strada segnavano
con chiarezza i contorni di un corpo. Si vedevano delle
tracce di copertoni, ma nessun’altra macchia: Gerald Ross
Dawson non aveva perso sangue, gli avevano spezzato l’osso del collo.
Davanti alla porta si ammassavano disordinatamente dei
cipressi che avevano un gran bisogno di essere potati.
Cercò a tastoni dietro di essi finché trovò un campanello, lo
schiacciò e nella casa risuonò dolcemente un carillon. Dave
riconobbe il motivo: molto tempo prima, quando aveva
forse quindici anni, si era messo a pedinare, senza sapere
nemmeno lui perché, un bel ragazzo che frequentava spesso le riunioni della chiesa Pentecostale. Quel motivo era l’inizio di un canto religioso: “Il tuo amore mi ha salvato”.
Nessuno venne ad aprire. Lasciò che la lancetta dei secondi facesse un giro completo e suonò ancora. Di nuovo sentì
il carillon, e di nuovo la porta rimase chiusa. Ma che cos’era quell’odore? Fumo?
Lungo la facciata della casa correva un sentiero di pietre
tra cui spuntavano qua e là ciuffi di muschio ingialliti e rinsecchiti dal sole. Difendendosi con un braccio dai rami degli
oleandri che si intrecciavano disordinatamente, si fece strada lungo il sentiero. Svoltato l’angolo, questo si trasformava
in una scaletta di cemento ricoperta d’edera che portava a
un piccolo patio circondato da azalee in vasi, sul quale c’erano dei mobili da giardino in legno ricoperti da foglie secche. In un angolo, un ragazzo bruno e robusto di circa
diciotto anni stava bruciando delle riviste su un fornello per
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barbecue di mattoni rossi. Non indossava altro che un paio
di jeans. Aveva tolto la griglia metallica e l’aveva appoggiata
in terra, vicino ai suoi piedi nudi. Sembrava nervoso e spingeva con impazienza nel fuoco le pagine patinate delle riviste finché non le vedeva accartocciarsi e trasformarsi in
fiamme quasi invisibili alla luce cruda del giorno.
Voltava le spalle a Dave. Era un ragazzo irsuto con peli
dappertutto: sulle braccia, persino sui piedi. Teneva in
mano una rivista. Sembrava che non riuscisse a decidersi a
buttarla sul fuoco. Quando alzò un braccio per asciugarsi il
sudore che gli colava sul viso, Dave vide il titolo della rivista: Ninfette di Frisco. La fotografia a colori mostrava tre
ragazzine di circa dieci anni senza niente addosso. Il ragazzo attizzò con furia selvaggia il fuoco emettendo un suono
che a Dave parve un lamento, poi, con decisione improvvisa, lasciò cadere la rivista tra le fiamme. Dave sentiva le
ondate di calore anche da quella distanza. Non aveva nessuna voglia di andargli più vicino, ma fu costretto a farlo.
«Buongiorno».
Il ragazzo girò su se stesso a bocca aperta e occhi spalancati. L’attizzatoio gli cadde di mano e andò a rotolare rumorosamente sui mattoni del fornello. Senza distogliere lo sguardo
spaventato da Dave, fece qualche passo indietro cercando di
nascondere con le mani le riviste, ma visto che non ci riusciva, finì con il sedercisi sopra. Una rivista gli scivolò da sotto e
andò a finire sulle pietre grigie del patio. Da sei a nove anni.
Questa volta le bambine nude raffigurate in copertina tenevano in braccio degli anatroccoli gialli. Con rabbia il ragazzo
raccolse il giornale e lo buttò tra le fiamme che, soffocate dal
peso eccessivo, quasi si spensero. Dal fornello si alzò un fumo
acre che circondò i due uomini. Dave si mise a tossire cercando di dissipare il fumo con le mani e, battendo in ritirata,
andò a sbattere contro il tavolo da giardino.
«Si sposti, venga qua» ordinò al ragazzo.
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«Lei chi è? Che vuole?» annaspò lui.
«Mi chiamo Brandstetter» rispose Dave, mostrandogli
un biglietto da visita. «Svolgo indagini per una compagnia
di assicurazioni. Sono qui per la morte del signor Gerald
Ross Dawson. Vorrei parlare con la signora Dawson».
«Non c’è» rispose il ragazzo tossendo e asciugandosi le
lacrime con le dita mentre scrutava il biglietto da visita
attraverso il fumo. Aveva sopracciglia folte e nere che gli
attraversavano senza interruzione la fronte. «È andata alla
camera mortuaria. Iniseme a certe donne dalla chiesa. Sono
andate a far visita a mio padre».
«Allora lei è Gerald Dawson Junior, vero?».
«Bucky. Nessuno mi chiama Gerald Dawson Junior».
«Sente freddo o ha finito la carbonella?» chiese Dave.
«Non la capisco» fece Bucky.
«Be’, è uno strano combustibile quello, non le pare? Dove
le ha prese?».
«Le ho trovate…». Improvvisamente Bucky decise di
cambiare la sua risposta. «Sono mie e me ne vergogno, perciò ho deciso di buttarle via. Questa è la prima volta che mi
si presenta l’occasione».
«Riviste come quelle costano un mucchio di soldi» osservò
Dave. «Quante ne ha lì? Dieci? Una dozzina? Devono essere costate cinquanta o sessanta dollari, forse anche di più. È
fortunato ad avere una mancia settimanale così ricca. Suo
padre doveva avere una grande opinione di lei».
«E guardi un po’ come l’ho ripagato!».
«I negozi che tengono questo tipo di riviste non le vendono ai ragazzi. Non deve essere stato facile procurarsele.
Questo non conta?».
«Adesso non più. Odio quelle riviste». Aveva di nuovo
gli occhi pieni di lacrime, e questa volta non dipendeva dal
fumo che a poco a poco si stava alzando. «Era un uomo
così buono. Io invece sono un terribile peccatore».
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«Non se la prenda troppo» replicò Dave. «Diciotto anni
li abbiamo avuti tutti. Quando sarà di ritorno sua madre?».
«Non le dica di quello che stavo facendo».
«Io mi limito a fare domande».
«Ne ha già fatte tante la polizia. Perché vuole ricominciare da capo? Ormai è tardi, è tardi per tutto. Hanno persino tenuto il corpo all’obitorio per dieci giorni». Si voltò
bruscamente perché Dave non si accorgesse che stava piangendo. Si rimise a frugare nella cenere con l’attizzatoio sollevando un’altra nuvola di fumo. Soffiò sul fuoco per rianimarlo e gli sfuggì un suono debole, quasi un singhiozzo.
«Domani finalmente ci danno il permesso di fargli il funerale» disse, quando le fiamme ricominciarono a crepitare.
«Non può lasciarci in pace?».
«Dov’era la notte in cui è stato ucciso?».
«Non merito neanche di portare il suo nome» riprese
Bucky. «Lui non ha mai fatto niente di sporco in vita sua. E
guardi qua! Io sono sempre sporco. Non faccio che pregare» continuò rabbioso, disperato, mentre spingeva nel
fuoco le riviste. «Ma non riesco a pulirmi. Mi guardi» disse,
voltandosi di colpo e stendendo le braccia. Impalpabili scaglie di cenere si erano impigliate nei peli scuri che gli coprivano il petto e il ventre. «Sono coperto di peli da capo a
piedi. Si vede subito che cosa sono. Una bestia».
«È un fatto genetico. Gli capitava spesso di stare fuori
tutta la notte?».
«Che cosa?». Il ragazzo lo fissò esterrefatto, abbassando
lentamente le braccia. Pareva che Dave l’avesse svegliato da
un incubo. «No, mai. Perché avrebbe dovuto farlo? Qualche
volta gli capitava di far tardi, ma era sempre per sbrigare
qualche incombenza per la chiesa».
«Che tipo di incombenza?».
«Questo quartiere» rispose Bucky mentre riprendeva a
fare a pezzi le pagine delle riviste e a buttarle con violenza
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nel fuoco, «non è il posto adatto per un buon cristiano.
Non va bene per allevare bambini. Nel parco succedono
cose indescrivibili. Ha visto quanti sexy shop ci sono da
queste parti? E quei bar dove si ritrovano i pervertiti, e i
cinematografi a luci rosse? È uno schifo». Strappò con violenza un’altra rivista. «Un posto schifoso per gente schifosa. Brucia!» urlò rivolto alle fiamme. «Brucia! Brucia!».
«Suo padre stava cercando di ripulire l’ambiente?».
«Non lo so» rispose Bucky, improvvisamente imbronciato e circospetto. «Lo sa anche lei dov’era stato. La polizia
ha trovato qualcosa nei suoi vestiti. Era andato in un posto
dove c’erano dei cavalli. Si era fatto nemico Lon Tooker».
«Quello della libreria Keyhole?».
«Proprio lui. Ha dei cavalli nella sua tenuta a Topanga
Canyon. Per questo l’hanno arrestato. Non ne sapeva niente?».
«Ho letto il rapporto della polizia, ed è per questo che
sono qui» disse Dave. «Non mi soddisfa affatto».
«Non la soddisfa? E che differenza fa?».
«Cinquantamila dollari di differenza» replicò Dave.
Sotto i segni neri che gli rigavano il viso, il ragazzo divenne terreo.
«Vuol dire che potreste non pagarci i soldi dell’assicurazione? Quei soldi devono servire per pagarmi l’università e per
mantenere mia madre. Non può lavorare, è handicappata».
«Non voglio sottrarvi quei soldi» replicò Dave «Ma ci sono
un paio di cose che non vanno e voglio scoprire perché».
«L’unica cosa che non va in questa faccenda è che lui è
morto». Gli occhi gli si riempirono di nuovo di lacrime.
«Come ha potuto fare una cosa simile? Era un buon cristiano. Obbediva alle leggi di Dio!».
«Lon Tooker è rimasto nel suo negozio fino a mezzanotte».
Il ragazzo dal corpo coperto di peli sbuffò. «È quello che
dice il depravato che lavora per lui. Uno che lavora in un
posto del genere non si fa certo scrupoli a mentire».
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«L’orario di apertura è affisso sulla porta del negozio»
disse Dave. «Da mezzogiorno a mezzanotte dal lunedì al
sabato. Se faceva quell’orario non poteva essere tornato a
casa dai suoi cavalli prima delle due o anche più tardi. È un
bel viaggio arrivare da qui fino a Topanga».
«E allora?». Bucky si accinse a strappare un’altra rivista.
«La mamma ha trovato il corpo di papà solo al mattino,
quando è uscita a prendere il Times».
«Ma il medico legale afferma che è morto tra le dieci e
mezzanotte».
«Io sono rientrato a mezzanotte dagli allenamenti di pallacanestro in parrocchia. Se fosse stato lì l’avrei certamente
visto». Un altro fascio di carta patinata andò a finire tra le
fiamme e per qualche secondo, prima che il fuoco annerisse e divorasse la pagina, una ragazzina di quinta elementare fissò Dave con occhi invitanti al di sopra di una patetica
spalla ossuta. «Il tenente Barker dice che il medico legale
può anche sbagliarsi».
«Il fatto che possa sbagliarsi non significa che debba
essersi sbagliato per forza» puntualizzò Dave.
«È arrivato a casa, è sceso dalla macchina per aprire il
garage e Lon Tooker l’ha assalito» spiegò Bucky. «E i peli
di cavallo che aveva addosso Tooker gli si sono appiccicati
agli abiti».
«Perfetto! Li ha sentiti lottare? Lei dove dorme?».
Bucky accennò con la testa alle finestre d’angolo.
«Dormo là, ma non ho sentito niente. Ero stanco e ho il
sonno pesante. E poi, che lotta volete che ci sia stata?»
aggiunse, strappando un’altra manciata di pagine. «Tooker
l’ha assalito alle spalle e gli ha rotto l’osso del collo. È una
cosa che insegnano ai Marines. Tooker era stato nei Marines
durante la Seconda guerra mondiale».
«Nei film sembra facile» commentò Dave.
«Eppure è successo» tagliò corto Bucky.
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«Tooker deve avere circa cinquantacinque anni» osservò
Dave «e suo padre ne aveva dieci di meno».
«Non sapeva niente di lotta». Frugò nervosamente con
l’attizzatoio tra le carte facendo alzare grosse farfalle di
cenere che si sollevarono nell’aria calda come pipistrelli
prima di andarsi a posare sull’edera che copriva il muretto.
«Era un buon cristiano».
«Non era anche un soldato del Signore?».
«Sta per caso ridendo di lui?». Bucky si voltò verso Dave
brandendo l’attizzatoio. «Lei chi è? Un ateo, un ebreo, o
cosa? È per questo che non vuole che io e mia madre prendiamo i soldi dell’assicurazione? Perché noi siamo stati
redenti?».
«Se stava aprendo la porta del garage» replicò Dave
«dove sono le chiavi? Non le aveva in tasca e non sono state
trovate per terra».
«Le avrà prese Tooker» disse Bucky.
«È stato perquisito lui, il negozio, la casa e anche la macchina, ma le chiavi non le hanno trovate».
Bucky si strinse nelle spalle e tornò a occuparsi del fuoco.
«Tooker le avrà buttate da qualche parte. Che se ne faceva?».
«Esattamente. E allora perché prenderle?».
«Perché non si toglie dai piedi? Nnon crede che io e la
mamma abbiamo già abbastanza guai senza che ci si metta
anche lei…». Dalla strada si sentì sbattere la portiera di una
macchina. L’attizzatoio cadde di nuovo per terra con un
tonfo metallico. Bucky impallidì. Guardò Dave allarmato.
«Questa è mamma. Senta, non le dica niente di queste
riviste. La prego».
«Perché adesso non la smette?» suggerì Dave. «Metta via
tutto. Asptti un momento migliore».
«Se lei non dice niente andrà tutto bene». Bucky raccolse l’attizzatoio. «La mamma non viene mai fin quassù. È
troppo faticoso per lei».
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«Allora andrò giù io» decise Dave.
Il fumo stagnava acre nella strada ripida. Non un alito di
vento aiutava a disperderlo. Continuava a salire su per il
fianco della collina e si attaccava alle piante. Nel garage
adesso era parcheggiata una Aspen marrone chiaro; sul
paraurti posteriore spiccava un grosso adesivo sul quale si
leggeva “Io l’ho trovato”. Sulla porta comparve una donna
alta, dai fianchi larghi, che trascinava il piede destro e portava un bastone appeso al braccio. Indossava un tailleur
beige giacca e pantaloni nuovo e una camicetta, anch’essa
nuova, color cacao. I capelli erano appena fatti. Grigio ferro.
Con uno sforzo si allungò fino a raggiungere la saracinesca
del garage e l’abbassò faticosamente spostandosi appena in
tempo per non esserne investita. Quando voltandosi scorse
Dave, si arrestò bruscamente. La palpebra ebbe un tremito
e così un angolo della bocca. Ma parlò con voce tagliente.
«Lei chi è? Che cosa vuole?».
Dave le si avvicinò, si presentò e le mostrò il biglietto da
visita.
«Quando uno dei nostri assicurati muore per incidente,
facciamo sempre un’inchiesta».
«Dov’è mio figlio? Cos’è tutto questo fumo?» chiese la
donna guardando in su.
«Sta bruciando dei rifiuti» spiegò Dave «ho già parlato
con lui».
«È soltanto un bambino, non aveva il diritto di interrogarlo» protestò la donna.
«Non sono un agente di polizia».
«Che cosa gli ha chiesto? Che cosa le ha detto?».
«È convinto che Lon Tooker abbia ucciso suo padre»
replicò Dave. Dall’altra parte della strada si sentì scattare
una serratura. Delle finestre si aprirono nascoste dalle fronde degli alberi.
«Forse è meglio se entriamo per parlare» suggerì Dave.
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«Non c’è niente di cui parlare» replicò la donna. «La
polizia ha arrestato quell’uomo. Suppongo che il giudice
istruttore sia abbastanza convinto di aver trovato la persona giusta. Perché le sembra strano che anche Bucky ne sia
convinto?».
«Non mi sembra strano» rispose Dave studiandola.
Doveva avere una sessantina d’anni e l’ictus che l’aveva
semiparalizzata non era il suo unico malanno. La pelle del
collo pendeva flaccida, il viso era una ragnatela di rughe e
le mani erano coperte da macchie brunastre dovute al fegato in disordine. Gerald Dawson aveva sposato una donna
abbastanza vecchia da poter essere sua madre. La nascita di
Bucky doveva essere stata un insperato colpo di fortuna.
«Ma mi sembra troppo facile».
La donna buttò la testa all’indietro facendo tremare il
labbro pendulo.
«Non c’è niente di facile in questa faccenda. Tutto il contrario. La morte non facile. Perdere un proprio caro non è
una cosa facile da mandar giù. Anche per un cristiano,
signor… Brandstetter» aggiunse, guardando il biglietto da
visita. «Dio ci manda queste disgrazie per metterci alla
prova. Ma non per questo è più facile sopportarle. Che cosa
ci fa lei qui?» chiese scrutandolo con l’occhio che riusciva
a controllare. «Non ha portato l’assegno della compagnia
di assicurazione. È venuto per fare altre domande?».
«Signora Dawson, dov’era andato suo marito la notte in
cui è stato ucciso?».
«Stava eseguendo i voleri di Dio, non conosco i particolari».
«Chi potrebbe conoscerli? Forse qualcuno in parrocchia?».
Si avviò verso la porta appoggiandosi al bastone e trascinando un piede. «Hanno già detto di no. Forse il Reverendo
Shumate». Si aggrappò a un cipresso per aiutarsi a salire i
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pochi scalini e infilò faticosamente la chiave nella serratura.
«È triste dover pensare che è stato ucciso proprio mentre si
stava occupando degli affari del buon Dio».
«Alla banca risulta che di recente aveva emesso due assegni molto consistenti. Sa perché?» chiese Dave. «Le ha lei
le matrici?».
«No, si trovano in ufficio» rispose la signora Dawson.
«Di pagare i conti si occupava sempre la segretaria. Era più
semplice così». La porta si spalancò e ne uscì un profumo
di cera per mobili al limone.
«Perché aveva in tasca delle pillole anticoncezionali?»
chiese Dave.
Rimase immobile con la mano stretta intorno alla maniglia e poi, lentamente, faticosamente, si voltò. La bocca era
contratta in una smorfia di incredulità.
«Cosa? Come ha detto?».
«Fra gli oggetti che la polizia ha trovato nelle tasche di suo
marito – portafoglio, carte di credito, le solite cose – c’era
anche una busta proveniente da una farmacia di Sunset
Strip, e dentro c’era una scatola di pillole anticoncezionali.
La ricetta era per la signora Mildred Dawson. È corretto?».
«Sunset Strip». Non era lontano da lì, sei o sette miglia
dall’altra parte della città, ma la donna pronunciò quel
nome come se si trattasse di un posto esotico in capo al
mondo. Non disse altro, si limitò a fissare Dave senza aprire bocca, come folgorata.
«Il medico» riprese Dave «è un certo dottor Encey. È il
vostro dottore?».
«Chi, Encey?». Il viso le si contrasse, poi le parole cominciarono a uscirle rapidissime dalla bocca. «Il dottor Encey,
certo, è il mio dottore. Le pillole. Come no. Gerald aveva
promesso di passare a prendermele. Me ne ero dimenticata.
Ma poi, con tutte le cose terribili che sono successe, mi sono
scordata delle pillole».
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«È più che comprensibile».
«Ho un terribile mal di testa. Deve essere colpa di questo caldo spaventoso. Mi scusi».
E la metà del suo corpo che era ancora viva trascinò in
casa l’altra, ormai cadavere, chiudendosi la porta alle spalle.
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Uscì dal prestigioso quartiere di Hillcrest attraverso stradine tortuose ai cui lati le porte dei palazzi d’epoca, ridipinte di recente in colori brillanti, esibivano lucidi pomelli
d’ottone. Ai rami degli alberi erano appese campanelline
portafortuna che di tanto in tanto il vento faceva tintinnare
e, nei prati, giovani snelli in calzoncini da bagno tagliavano
l’erba o lavavano piccole macchine sportive. Proseguendo
lungo la strada incontrò vecchie casupole in legno bisognose di una mano di vernice, dove dalle finestre arrugginite
usciva musica messicana ad alto volume e ragazzini dalla
pelle scura giocavano nei cortili in cui non cresceva erba.
Davanti a un semaforo rosso all’incrocio del Sunset fermò
la sua Elettra e rimase a osservare, al di là del flusso incessante del traffico, il piccolo lago, con gli anatroccoli nascosti tra
le canne e i rapinatori nascosti nei cespugli. Turisti cotti dal
sole remavano in piccole barche malandate prese a noleggio
e con le loro Istamatic immortalavano i grattacieli di cristallo
dietro le cime delle palme. Quando il semaforo diventò
verde, girò a sinistra diretto alla Bethel Evangelical Church,
ma poi, dato che la porta del negozio di Lon Tooker era aperta, cambiò idea. Sopra la porta, su un’insegna di latta bianca
e rossa era scritto: “Keyhole Books”. Gli ci volle un po’ per
trovare una stradina laterale in cui parcheggiare, ma almeno
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lì non c’erano problemi di spazio. A parte un negozio di cibi
messicani sull’angolo, i bassi edifici di mattoni rossi lungo il
marciapiede ospitavano soltanto locali la cui attività prosperava unicamente dopo il calar del sole.
La moquette all’interno del negozio di Tooker era così
folta e soffice da mettere in pericolo l’incolumità di chi non
aveva caviglie robuste. Era color oro come le tappezzerie
che ricoprivano le pareti e la vernice del soffitto da cui pendevano lampadari di finto cristallo. Sugli scaffali più bassi
erano appoggiate riviste patinate protette da uno strato di
cellophane. I colori delle copertine erano vivaci ma i soggetti piuttosto monotoni: ragazze nude o con mutandine di
pizzo a gambe spalancate, che protendevano seni prepotenti lanciando occhiate maliziose e invitanti. Su un altro
scaffale giovanotti muscolosi esibivano sessi voluminosi.
Niente ragazzine, però. Ma certamente la merce non era
tutta su quegli scaffali. Proseguendo di qualche passo, infatti, una scala ricoperta della stessa moquette dorata, munita
di una sottile balaustra di ferro battuto, portava al piano
superiore. A Dave parve di udire dei suoni venire da lassù
e si incamminò per le scale.
C’erano quattro poltrone ricoperte di finta pelliccia sistemate di fronte a bassi tavolini di fòrmica simil-legno sui
quali scintillavano dei portacenere in vetro. Qui gli scaffali
erano pieni di riviste, salvo quelli ormai svuotati da un
ragazzo ossuto che stava riempiendo delle scatole di cartone con libri di fotografie, riviste ed edizioni tascabili.
Sudava talmente che i capelli biondi che gli sfioravano le
spalle sembravano fradici. Era senza camicia e degli spaventosi foruncoli grossi come piselli gli devastavano le spalle scheletriche. Fissò per un secondo Dave, poi si voltò per
andare a prendere degli altri libri.
«Oh, Cristo, si è dimenticata la porta aperta… Senta,
vecchio mio, siamo chiusi…».
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«Per sempre?» chiese Dave.
«Per sempre».
Il ragazzo lasciò cadere un altro pacco di libri in una scatola poi la richiuse accuratamente. «No, niente più Keyhole
Books».
«Neanche una svendita prima di chiudere?».
«No, tutto il materiale lo prende Mort Weiskopf, quello
del negozio in Western Avenue».
«Come mai tanta fretta?» chiese Dave, sedendosi in una
poltrona. «È per pagare gli avvocati?».
Il ragazzo ossuto si tirò su i pantaloni e fissò Dave.
«Che ne sa, lei? Chi la manda?».
«Sono della compagnia con cui era assicurato Gerald
Dawson».
«Sì, è per pagare gli avvocati. Quel figlio di puttana non
smette di rompere le scatole neanche da morto. Lo sa che
una volta è venuto qua con un gruppetto di ciccioni bastardi che frequentano la sua stessa chiesa e ha buttato per aria
tutto il negozio? I libri per terra. La vernice sui tappeti».
«Vi serviva un avvocato già allora».
«Non c’erano prove che fosse stato lui. Portavano tutti
delle maschere. Noi lo sapevamo, certo, ma l’avvocato disse
che avevano un alibi, che facevano tutti capo alla parrocchia, no? E infatti erano tutti lì quella sera: in ginocchio a
pregare per noi poveri peccatori».
«Potrebbe essere stato chiunque altro».
«Certo, solo che era Dawson quello che dava gli ordini.
Citava la Bibbia, Sodoma e quell’altra… come diavolo si
chiama? Stronzate. Non c’era dubbio che fosse Dawson.
Aveva una voce inconfondibile, acuta e gracchiante».
«E l’avvocato vi ha detto che non c’era niente da fare?».
«Dash, il proprietario dell’Oh Boy, sull’altro lato della
strada, ci ha provato». Il ragazzo si accovacciò per raccogliere un altro fascio di riviste. «Dash abita in collina. Una
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notte si sveglia e vede una strana luce fuori casa sua. Si alza,
va a vedere: la sua Volkswagen parcheggiata davanti casa è
in fiamme. Era certo che fossero stati Dawson e i suoi vigilantes, ma invece no, perché loro erano tutti a una funzione a cantare inni sacri. Merda!». Si rialzò barcollando sotto
il peso della carta patinata e lasciò cadere il suo carico in
un’altra scatola. «I poliziotti se ne fregano, lo sa? La macchina del proprietario di un bar per omosessuali va a fuoco?
Per loro è un divertimento e basta».
Una giovane donna con una camicia da uomo bianca
legata sotto il seno e dei minuscoli calzoncini pure bianchi,
apparve in cima alla scala. Era tutta color del miele.
«Siamo chiusi» annunciò, accovacciandosi per sollevare
la scatola che il ragazzo aveva appena chiuso. «Gesù! Che
cosa ci hai messo dentro? Mattoni? Non è che dobbiamo
portarci via anche la casa, vero?».
«Posso riempirle solo a metà, non hai che da dirlo»
rispose il ragazzo senza neppure guardarla.
«Io preferirei non riempirle affatto. È un’idea di Lon,
questa. Gli è preso il panico».
«Quando ti mettono dentro per omicidio, non deve essere facile restare calmi. Hai intenzione di andare a caricare
questa scatola oppure no? Preferisci riempire le scatole
mentre io le porto giù?».
La ragazza sollevò la scatola senza sforzo apparente.
Aveva gambe maschili e muscolose. «Se Lon non avesse
comprato quei cavalli, adesso ce li avrebbe, i soldi». Si girò
con la scatola tra le braccia e posò di nuovo gli occhi su
Dave. «Ehi! Lei ha proprio l’aria di uno che può permettersi di comprare due costosi palominos. Che ne dice, dolcezza? È per una buona causa! Una mezza dozzina?».
«La sella è troppo in alto per i miei gusti» rispose Dave,
alzandosi. «Dia a me. Li porto io». La ragazza cominciò a
protestare, ma Dave tagliò corto. «Anche questo è per una
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buona causa, non le pare?». La macchina era parcheggiata
una cinquantina di metri più in là, in uno spiazzo infestato
d’erbacce e circondato da muri di mattoni su cui la teppaglia del quartiere aveva fatto dei graffiti con la vernice
spray. L’automobile era un’elegante Mercedes sportiva da
diciottomila dollari, di quelle col tettuccio apribile e il
bagagliaio piccolo. Ce ne sarebbero voluti di viaggi, per trasportare tutto in Western Avenue. «Il ragazzo mi ha detto
che Dawson era il capo dei vigilantes».
«Lo sanno tutti» rispose la ragazza. «Ma non abbiamo
modo di provarlo. Quando i vigilantes hanno distrutto il
parco strappando tutti i cespugli, qualcuno li ha denunciati. Pensionati, mamme che portavano i bambini al parco.
Quelli gli hanno devastato il parco perché le checche non
potessero andare a nascondersi nei cespugli alle due del
mattino. Che cosa gliene importa di quello che succede in
mezzo ai cespugli alle due del mattino? Ma non c’erano
prove contro di loro e non c’è stato niente da fare. Che altro
potevamo aspettarci noi, poveri venditori di oscenità?» concluse chiudendo il bagagliaio con un colpo secco.
«Non è che il suo amico Lonny ha deciso di imboccare
una scorciatoia?».
Lo fissò con occhi scintillanti di pagliuzze dorate. «Che
cosa cerca di dire?».
«Magari si è stufato di aspettare che gli venisse fatta giustizia» suggerì Dave. «E ha deciso di eliminare Dawson
prima che Dawson eliminasse lui. Cambiare quel genere di
moquette può diventare gravoso se comincia a capitare
troppo spesso».
«Ma lei lo sa che tipo d’uomo è Lonny Tooker? È il tipo
che aggiusta le ali agli uccellini».
«Anche Hitler amava i cani e i bambini» replicò Dave.
«Lon è un uomo grande e forte, potrebbe uccidere chiunque con le sue sole mani. È un toro, un elefante».
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Dave le mise una mano sulla bocca. «Questo facciamo
finta che non l’abbia detto».
La ragazza fece tanto d’occhi. «Oh, mio Dio. Non volevo dire questo. Volevo dire che è un uomo mite, un gigante gentile, un sognatore. Ama tutto ciò che si muove e respira. Non si può negare che sia un tonto, ma non farebbe male
a una mosca, figuriamoci ammazzare un uomo». Guardò l’orologio. «Si è fatto tardi, devo correre».
Dave la seguì trotterellando. Faceva troppo caldo per
quel tipo di attività, ma lo fece lo stesso, togliendosi la giacca mentre correva. Quando fu in cima alle scale chiese al
ragazzo ossuto: «Dawson è stato qui la notte in cui l’hanno
ucciso?».
«Non c’era nessuno. Era una serata morta. Quattro o
cinque clienti occasionali, ma dopo le dieci non è più entrato nessuno. Eravamo soli. Lon e io. Ci siamo messi a giocare a carte».
«Chi ha vinto?» chiese Dave, appoggiando la giacca sulla
ringhiera delle scale.
«Questo glielo dico io» intervenne la ragazza che stava
già scendendo le scale con un’altra scatola tra le braccia.
«Ha vinto Lon. Vince sempre lui quando si tratta di fare
meno punti possibile».
«Ha ragione» disse il magrolino. Sistemò una pila di libri
in una scatola, si alzò stiracchiandosi e si concesse di sfogliare per qualche secondo una delle riviste ma, parve a
Dave, senza veramente vedere gli intrecci di corpi che comparivano nelle fotografie. Chiuse la rivista e la lasciò cadere in una scatola vuota che aveva ai piedi, poi tese la mano
verso la sigaretta che Dave aveva appena acceso. Dave gliela passò e rimase a osservarlo mentre il giovane, con aria da
intenditore, buttava fuori nuvolette di fumo. Fece un ultimo, profondo tiro e restituì la sigaretta. «La sa una cosa?
Quei fanatici sono degli ipocriti. Si dice così, no?» chiese
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con la fronte aggrottata. «Voglio dire che ci si rotolano, in
questa merda. Fingono di essere scandalizzati, ma è chiaro
da come si leccano le labbra che gli basta sfogliare una di
queste per venirsene nei pantaloni».
«Che maschere portavano?».
«Quelle da sci. Non scherzo, sa. Avevano la bava alla
bocca. Morivano dalla voglia di vedere questa roba, come
chiunque altro. Solo che loro non hanno il coraggio di
entrare, chiedere una rivista, pagare e andarsene. Eh, no!
Loro buttano per aria il negozio, sporcano e rovinano tutto.
Vogliono Lon fuori dal quartiere. Ci crede?».
«Non saprei».
«Dovrebbe. Quando abbiamo rimesso tutto sugli scaffali, indovinate che cosa abbiamo scoperto? Che alcune riviste mancavano». Il ragazzo diede una risatina ironica e tese
di nuovo la mano verso la sigaretta di Dave. «Qualcuno
non è riuscito a controllarsi».
«Fotografie di ragazzine».
«È vero! Come fa a saperlo?» chiese il ragazzo, esterrefatto.
«Pura intuizione».
«Non erano proprio tutte ragazzine piccole. Qualcuna
poteva avere dodici, tredici anni. Un po’ malsano, non le
pare, prima tanto moralisti e poi…». Guardò la sigaretta
che teneva ancora tra le dita. «La rivuole, questa?». Dave
scosse la testa. Il ragazzo aspirò profondamente e insieme
al fumo si lasciò scappare una domanda.
«Che se ne faranno poi di certe foto? Se le passano
durante quelle loro riunioni di preghiera?».
«È stato Lonny a uccidere Dawson?» domandò Dave.
«Per dieci dollari di pidocchiose riviste?». Il ragazzo schiacciò il mozzicone in un portacenere. «Neanche a pensarlo».
«Perché cercavano di mandargli in rovina il negozio»
precisò Dave.
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«Lei non conosce Lon. Tutto quello che desidera è suonare la chitarra e montare i suoi cavalli».
«Viene in negozio con gli stessi abiti con cui cavalca?».
«Assolutamente no. Mai. Sembra sempre appena uscito
dalla doccia, in perfetto ordine. Lindo e pinto, come si dice.
Le pare di sentire puzzo di cavallo qui dentro? Stia a sentire: Lon è uno scemo, ma è uno scemo buono, capisce? Non
di quelli cattivi. Dovrebbe sentire le canzoni che canta. Al
confronto Feeling sembra una marcia nazista. L’ultima cosa
che farebbe è mettersi nei guai, con chiunque».
«Si è scelto un mestiere in cui è facile mettersi nei guai».
«Uno che aiuta la gente a essere più contenta, non fa
mica del male a nessuno».
«Un filantropo, in poche parole».
«Be’, insomma, con la filantropia non si fanno certo i
soldi. Le cose non andavano male. Lon odia avere problemi economici. Gli fa venire il mal di testa».
Dal basso si udì la voce della ragazza.
«La macchina è carica, io me ne vado».
«Non andare a finire sotto qualche camion!» l’ammonì il
giovane.
«È rientrato a casa Lon, quella notte?».
«Se lei avesse una come quella che l’aspetta a casa» disse
il ragazzo indicando le scale con un cenno della testa dalla
chioma sparuta, «dove altro andrebbe?».
«Lei non era in casa. Secondo il rapporto della polizia,
Karen Shiflett non è rientrata al ranch di Tooker a Topanga
Canyon prima del mattino. È rimasta all’ospedale al capezzale del fratello».
«Sì, è un tossico. Era andato in overdose».
«Quindi non ci sono prove che Lon non abbia ucciso
Dawson».
«Quel cretino si è incastrato da solo» disse torvo il ragaz24
zo. «Non avrebbe dovuto chiamare gli sbirri dopo quell’effrazione e dire che era stato Dawson».
«Non poteva certo prevedere che Dawson sarebbe stato
ucciso».
«Il suo guaio era credere ancora nelle uniformi» sentenziò.
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