Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Un classico, nel solco del miglior cinema civile americano e in generale anglosassone, che spesso segue alle grandi inchieste giornalistiche, quelle 'da Pulitzer', e non a caso vince due Oscar meritando diverse nomination. Thomas McCarthy va così a rinverdire una tradizione sempre pronta a cavalcare l'onda di quei nodi sociali, culturali e politici che hanno segnato uno scontro e un avanzamento nel Paese e/o nel mondo, dando una lezione sul rapporto direttamente proporzionale tra sobrietà e asciuttezza cinematografica e riuscita amplificazione del valore della verità e del buon giornalismo. scheda tecnica titolo originale: durata: nazionalità: anno: regia: sceneggiatura: fotografia: montaggio: mus iche: scenografia: costumi: trucco: distribuzione: SPOTLIGHT 128 MINUTI USA 2015 THOMAS MCCARTHY THOMAS MCCARTHY, JOSH SINGER MASANOBU TAKAYANAGI TOM MCARDLE HOWARD SHORE STEPHEN H. CARTER WENDY CHUCK TERESA YOUNG BIM DISTRIBUZIONE interpreti: MARK RUFFALO (Michael Rezendes), MICHAEL KEATON (Walter 'Robby' Robinson), RACHEL MCADAMS (Sacha Pfeiffer), LIEV SCHREIBER (Marty Baron), JOHN SLATTERY (Ben Bradlee Jr.), STANLEY TUCCI (Mitchell Garabedian), BRIAN D'ARCY JAMES (Matt Carroll), JAMEY SHERIDAN (Jim Sullivan), BILLY CRUDUP (Eric MacLeish), GENE AMOROSO (Stephen Kurkjian), MAUREEN KEILLER (EIleen McNamara), PAUL GUILFOYLE (Peter Conley), LEN CARIOU (Cardinale Bernard Francis Law), NEAL HUFF (Phil Saviano), JIMMY LEBLANC (Patrick McSorley), MICHAEL CYRIL CREIGHTON (Joe Crowley), LAURIE HEINEMAN (giudice Costance Sweeney). premi e nomination: 2016, due Premi Oscar come miglior film e miglior sceneggiatura originale, quattro nomination per la miglior regia, miglior attore non protagonista a Mark Ruffalo, miglior attrice non protagonista a Rachel McAdams, miglior montaggio; Golden Globe, tre nomination: mig lior film drammatico, miglior regista e migliore sceneggiatura. Thomas McCarthy Nato nel 1966 in New Jersey, studia alla Yale School of Drama. Debutta come attore nel 1992 nel film Oltre il ponte. Nel corso della sua carriera prende parte ai film Good Night, and Good Luck., Flags of Our Fathers, Michael Clayton e alle serie televisive Boston Public e The Wire. McCarthy è quindi un attore già affermato quando dirige il suo primo film, The Station Agent, distribuito nel 2003 da Miramax Films e presentato con successo al Sundance Film Festival, dove vince il Premio del Pubblico e il Waldo Salt Screenwriting Award (premio per la sceneggiatura). Il film ha vinto anche il BAFTA per la Miglior sceneggiatura orig inale e due Independent Spirit Awards, tra cui il John Cassavetes Award assegnato al mig lior film realizzato con un budget non superiore ai 500mila dollari. Nel 2007 McCarthy dirige l'altrettanto apprezzato L'ospite inatteso, che vince il San Diego Film Critics Society Award e il Satellite Award per la Miglior sceneggiatura e l'I ndependent Spirit Award per la Miglior regia. Richard Jenkins, nei panni di un professore che riscopre l'importanza dell'incontro con l'altro grazie a una coppia di immigrati, è stato candidato all'Oscar come Miglior attore protagonista. Nel 2009 McCarthy firma, insieme a Pete Docter e Bob Peterson, la sceneggiatura del fortunatissimo film di animazione Up, per cui è stato candidato all'Oscar. Nel 2011 scrive e dirige Mosse vincenti, con Paul Giamatti e Amy Ryan, e The Cobbler, con Adam Sandler e Dustin Hoffman. Il film è presentato al Toronto Film Festival e distribuito da RLJ/Image Entertainment. Il 2015 è l'anno de Il Caso Spotlight, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e al Festival di Toronto (dove ha vinto il premio del pubblico). La pellicola, interpretata da Mark Ruffalo, Michael Keaton e Rachel McAdams, vince il premio Oscar al miglior film, oltre che alla migliore sceneggiatura, nel 2016. La paro la ai protagonisti Intervista a Michael Keaton e a Walter Robinson, giornalista del The Boston Globe artefice dell’inchiesta Come è stato interpretare il ruolo di Walter Robinson? Come ha preparato il personaggio? M. K.: Per tre volte nella mia carriera ho interpretato un giornalista e personalmente nutro un interesse molto profondo per il giornalisto. Seguo telegiornali e notizie di approfondimento, anche se non lo faccio con molta frequenza. Il ruolo è stato più facile per me grazie a Walter. Ho passato molto tempo con lui, a parlare di tante cose, non solo del caso Spotlight, ma anche di altri. In genere sono molto curioso di natura e ho assorbito tutto ciò che mi raccontava. Cercavo di cogliere l’essenza della persona, oltre che del giornalista, aggiungendo del mio in particolare. Devo dire che, di solito, quando si prepara un personaggio per un film, si tende a crearsi nella mente tutto un suo bagaglio, un background che nel film non c'è, ma che ci aiuta a entrare nella parte. In questo caso avevo già tutto, avevo tutte le informazioni necessarie e, og ni volta che avevo delle ulteriori domande, potevo ottenere anche le risposte. Non sembra difficile quindi il dover interpretare Robinson, dato che ora lo vedete qui, accanto a me. Non è del tutto così, perché hai una grande responsabilità quando interpreti un'altra persona, qualcuno poi che è ancora vivo e che ha un ruolo importante nella società. Non è facile nemmeno quando si tratta di persone decedute, ma questa volta avevo da raccontare una grande storia. Non puoi inventare niente, devi agire come agirebbe lui. Cosa pensa invece dell’interpretazione di Keaton? W. R.: Considero Michael uno dei migliori attori del mondo. Nel 1984 ero un cronista d’assalto e lui recitava in Cronisti d’assalto. Quando ho scoperto che mi avrebbe interpretato, ne sono rimasto onorato Questo è un film che rende omaggio a un cinema investigativo nello stile degli anni Settanta. W. R.: Intendi film come Tutti gli uomini del presidente! Ero ancora un giovane reporter nel 1973 quando ebbi il grande onore di intervistare Woodward e Bernstein. Loro sono stati dei grandi, una vera e propria ispirazione per giovani come me, ci hanno fatto capire cosa volevamo e dovevamo diventare: reporter negli Stati Uniti e forse anche altrove. Anche il film ispira ancora oggi moltissime persone: ci ricorda che il giornalismo, quello vero, può fare la differenza nella vita delle persone. M. K.: Ovviamente viene da pensare a tutti i riferimenti che questo film ha con molti altri dello stesso genere, specie nel passato, ma non ho voluto pensarci quando ho accettato la parte. Ho pensato solo a come poter interpretare al meglio il ruolo di Robby. Credo che Il caso Spotlight sia proprio uno di quei film. Me lo ricordo benissimo; quando in quegli anni ero al college, se vedevo un film del genere sui manifesti cinematografici, la cosa mi eccitava e non stavo nella pelle per vederlo. Se mai non avessi fatto l'attore, avrei potuto fare il giornalista e sarebbe stato perché questo tipo di film mi avrebbero ispirato. Siete d'accordo nel dire che questo sembra un film d'altri tempi? M.K.: Non ci sono molti film oggi fatti in questo modo. E non è colpa di nessuno: è semplicemente il business. La gente paga il biglietto perché vuole vedere un certo tipo di film, così l'industria produce quel tipo di film, è semplicemente così che vanno le cose. Non è una cosa orribile, ma penso che sia ottimo che un film come questo consenta oggi di avere la scelta, l'opportunità di vedere una storia come questa. Io sono solo un attore, non ho fatto nulla di speciale, è il raccontare storie come questa alla gente la cosa importante. In Italia, il grande giornalismo d’inchiesta è finito. In America, invece? W. R.: Anche gli Stati Uniti stanno vivendo la stessa crisi, poiché questa branca del giornalismo vive come un malato terminale. L’avvento del network e del web ha privato i giornali locali dei fondi necessari e quindi molti posti sono andati persi. I direttori del giornali non sanno come comportarsi poiché i lettori vogliono continuare ad avere questi tipi di inchieste. Se non siamo noi giornalisti a farlo, chi può farlo? Se non spingiamo le istituzioni a prendersi le proprie responsabilità, la democrazia muore. Chi avrà la possibilità di informarsi se il giornalismo d’inchiesta sparirà? In Pennsylvania, per esempio, c’è una sezione di giornalismo d’inchiesta che però non viene approfondito. L’argomento trattato in Spotlight è già noto al pubblico, ma il film lo mette in risalto. Quale sarà a vostro parere l'impatto sul pubblico? M. K.: Durante una proiezione un uomo mi ha ringraziato. Era un sopravvissuto agli abusi da parte di un sacerdote. Nonostante la critica, il film non punta il dito contro la religione: va al di là della tematica. Sono cresciuto come un cattolico, vengo da una famiglia praticante. Ciò che mi rende triste è che a causa di questi abusi, molte persone hanno perso la fede. Questa situazione non rig uarda solo Boston, ma anche altri paesi del mondo, per questo suscita interesse verso tutti i fedeli. Questo Papa sta facendo un lavoro intenso, mi piace molto. Sta facendo un gran lavoro. Questo film però parla di abuso di potere e di chi lo esercita contro chi non lo ha. Un esempio riguarda le forze dell’ONU che non guardano ma contribuiscono a casi di abuso. W.R.: So che questo film uscirà lo stesso anno del giubileo. Credo sia un'occasioen per cambiare la Chiesa, come sta facendo il nuovo Papa. Rispetto ciò che sta cercando di fare. La prima cosa che ha fatto quando è diventato Papa, è stato privare vescovi e cardinali di limousine (uno di loro era proprio Law) e far prestare loro attenzione su ciò che sono le esigenze dei fedeli. La chiesa è diventata una società clericlarista. Ma Francesco conosce la situazione attuale e sta cercando di cambiarla. Ci auguriamo che questo possa contribuire a diminuire il numero dei casi di abusi sessuali. Recensioni Giancarlo Zappoli. Mymovies.it (…) Lo scandalo che, a cavallo tra il 2001 e il 2002, travolse la diocesi di Boston diede il via a una indispensabile, anche se comunque sempre troppo tardiva, presa di coscienza in ambito cattolico della piaga degli abusi di minori ad opera di sacerdoti. Il film di Thomas McCarthy, rispettando in pieno le regole del filone che ricostruisce attività di indagine giornalistiche che hanno segnato la storia della professione, ha anche però il pregio di rivelarsi efficace nel distaccarsene almeno in parte. Perché i giornalisti del team non sono eroi senza macchia che combattono impavidi il Male ovunque si annidi. Qualcuno tra loro aveva avuto tra le mani materiale che avrebbe potuto far scoppiare il caso anni prima (evitando così le sofferenze di tanti piccoli) ma non lo ha fatto. Così come le alte sfere hanno taciuto e le vittime, in molti casi, hanno (anche se comprensibilmente) preferito non esibire con denunce le ferite impresse nel loro animo. Un film come Spotlight non è solo cinematograficamente efficace anche perché sorretto da un cast di attori tutti aderenti al ruolo (con in prima fila un Michael Keaton che sembra aver trovato una nuova giovinezza interpretativa) ma anche perché finisce con l’affermare un dato di fatto incontrovertibile. La Chiesa Cattolica, grazie ad alcuni suoi esponenti collocati ai livelli più alti della gerarchia, ha creduto di ‘salvare la fede dei molti’ nascondendo la perversione di pochi. Ha invece ottenuto l’effetto contrario finendo con il far accomunare nel sospetto di un’opinione pubblica, spesso pronta alla semplificazione, un clero che nella sua stragrande maggioranza ha tutt’altra linea di condotta. La forza con cui Papa Francesco ha condannato, anche con la detenzione entro le mura vaticane, i colpevoli di questo tipo di reati è prova di un’acquisita nuova consapevolezza in materia. Quell’inchiesta di poco più di dieci anni fa ne è all’origine e quei giornalisti, anche se non ne erano del tutto consapevoli, finivano con il ricordare a chi regalava loro copie del Catechismo di andare a rileggere e fare proprie le parole di Gesù: “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo 18, 6). Roberto Nepoti. Repubblica (…)Versione per lo schermo di un’inchiesta che ricevette il Pulitzer, Il caso Spotlight è un film che andrebbe mostrato nelle scuole di giornalismo. Di regola, il cinema ha fatto dei reporter o degli eroi, oppure dei bastardi da prendere con le molle; mai, o quasi (con la parziale eccezione di Tutti gli uomini del Presidente), ci ha mostrato come debba svolgersi un’inchiesta giornalistica. L o fa qui. I reporter bussano alle porte delle vittime, esaminano ponderosi dossier negli archivi e nelle biblioteche, stanno costantemente attaccati al telefono. Perché è in questo che consiste il giornalismo investigativo: accendere il riflettore sulle zone d’ombra, “unire i punti” in apparenza dispersi per far venire fuori la figura intera. Il film lo chiarisce molto bene quando fa ammettere a Robinson, con il dovuto rammarico, che alcuni dati per aprire il caso erano arrivati al giornale già anni prima, ma nessuno allora - aveva avuto le antenne giuste per coglierlo. Però Spotlight ha anche altri meriti. Se pure si astiene dalla retorica del giornalista eroico che fa trionfare la giustizia contro tutto e contro tutti, non per questo è privo di emozioni, di ritmo o di efficacia drammatica. Al contrario. Tom McCarthy lo mette in scena come un suspenser, se non addirittura come un thriller; tanto da farci appassionare a una vicenda di cui conosciamo già in partenza la fine, innescando l’empatia dello spettatore e dandogli la sensazione di far parte, anche lui, del gruppo investigativo. È perfino banale affermare che, a questo risultato, contribuisce in maniera determinante un cast d’eccellenza: Michael Keaton, Mark Ruffalo e Rachel McAdams (gli ultimi due candidati all’Oscar come migliori attori non protagonisti), un autorevole Lev Schreiber. Appuntamento alla notte degli Oscar, dove Spotlight corre per le categorie maggiori, miglior film e migliore regia, oltreché per la sceneggiatura originale e il montaggio. Davide Turrini. Il Fatto Quotidiano “Vorrei che Papa Francesco, i vescovi, i cardinali, vedessero questo film. La Chiesa Cattolica potrebbe guarire e lenire le ferite che ha provocato”. Sono lapidari quasi in coro Thomas McCarthy e Mark Ruffalo, regista e interprete principale di Spotlight: film Fuori Concorso al 72esimo Festival di Venezia, interamente dedicato all’enorme scandalo di pedofilia e abusi sessuali che travolse la Chiesa Cattolica americana all’inizio del 2002, grazie agli articoli del Boston Globe.(...) “Quello che raccontiamo nel film è tutto vero, abbiamo seguito gli atti dell’inchiesta giornalistica del Globe. Sono resoconti completi, impossibili da negare”, spiegano in conferenza stampa il regista e due deg li attori del superbo cast, Mark Ruffalo e Stanley Tucci. Tanto che Spotlight – il titolo è mutuato dal pool di giornalisti del Globe rintanato in uno scantinato della redazione che si è occupato di indagini delicate fin dagli anni settanta – affonda lentamente il proprio incedere di ricerca storica, messa in scena mai sopra le righe, recitazione sublime tutta confronti a viso aperto e dialoghi a due, nel ventre molle dell’omissione benedetta. Un film dolorosissimo che scava negli abissi dell’intimo patimento più che nella sbandierabile indignazione. McCarthy usa spesso la parola “sopravvissuti” per le vittime degli abusi ecclesiali, parla di “abuso fisico ma anche spirituale, di tradimento della fede”: “i ragazzini, spesso di dieci-dodici anni, non sapevano che stavano confidandosi con i loro carnefici, si fidavano di quei preti, per loro come per le loro famiglie la religione cattolica in cui credevano contava moltissimo. Non avevo mai avuto particolare interesse sul tema della pedofilia dei preti cattolici a Boston, dopo aver girato il film ho cominciato a pensare quanto sia diabolico questo crimine su degli innocenti”. Ad ogni angolo di Boston c’è una chiesa, un edificio che materialmente si staglia ad og ni chilometro di strada. Un potere fisico, un muro insormontabile che viene improvvisamente sgretolato dall’investigazione del pool giornalistico Spotlight. Se oggi a Boston molte di queste chiese sono chiuse, perché la diocesi ha dovuto pagare centinaia di vittime uscite allo scoperto e non ha più soldi per tenerle aperte, lo si deve a Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Matt Carroll, e al capo del team d’inchiesta Walter Robinson, uno straordinario Micheal Keaton che sta rivivendo dopo Birdman una “terza” giovinezza. Chiaro però, anche dentro al cosiddetto quarto potere bostoniano qualcosa non quagliava da decenni. (…) “Il team Spotlight per fortuna esiste ancora – spiega McCarthy – anche se il giornalismo d’inchiesta negli ultimi anni ha subito grossi tagli soprattutto per via di ridimensionamenti economici nei giornali. Spero che una stampa libera continui ad esistere sempre. E’ un principio basilare per la democrazia”. “E’ iniziata una nuova era per i media e l’informazione”, conclude Ruffalo, attore spesso impeg nato in molte battaglie politiche negli Stati Uniti. “I lettori cercano sempre più credibilità nei giornali, soprattutto sul web. E poi esistono già i giornali del futuro, quelli che vivono finanziati direttamente dai loro lettori, che contribuiscono anche per singole grandi investigazioni poi da pubblicare”. Enrico Azzano. Quinlan.it Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2015, Il caso Spotlight di Tom McCarthy è esattamente il film che ci si aspetta: un cast di ottimi attori; puntuale e diligente nella messa in scena; preciso e solido nella scrittura, nel montaggio, nel raccontarci dello scandalo dell’arcidiocesi di Boston, delle indagini dei validi giornalisti del Boston Globe, del dolore delle vittime. (…) Come spesso accade nel cinema statunitense, nel sottogenere delle inchieste giornalistiche, il nucleo narrativo è un’anima divisa in due, intrecciata e indivisibile. Il caso Spotlight di Tom McCarthy (The Station Agent, L’ospite inatteso, Mosse vincenti) rispetta questa regola, mettendo in scena lo scandalo dell’Arcidiocesi di Boston, poi allargatosi a macchia d’olio, e le dinamiche del giornalismo virtuoso, di vecchio stampo – di riflesso, è anche l’amara constatazione del giornalismo morente di oggi, della povertà di mezzi, dello svilimento dei media. Scandalo e indagine, colpevoli ed eroi, alimentano l’idea di un giornalismo di alto profilo professionale e, soprattutto, umano. Non a caso, nell’immaginario a stelle e strisce supereroi come Superman e l’Uomo Ragno sono reporter, icone di un sistema d’informazione che ha segnato la storia degli Stati Uniti (Watergate et similia), che ha scoperchiato vasi di Pandora, che ha messo fine a carriere politiche truffaldine. È ancora possibile, nel cinema e nella cultura statunitense, sovrapporre i volti di Clar k Kent e di Kal-El, guardare gli Spotlights e intravedere gli Avengers. Gli anni Settanta continuano a essere il punto di riferimento etico ed estetico. Nel film di McCarthy riecheggiano il monolite Tutti gli uomini del presidente , il cinema di Pakula, Lumet, Jewison e Pollack, la fiducia assoluta nella carta stampata del finale de I tre giorni del Condor. Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e i suoi colleghi sono cavalieri senza macchia votati anima e corpo alla causa, al lavoro, alla ricerca di verità e giustizia: Il caso Spotlight declina tutto questo con una messa in scena che cerca di farsi invisibile, con un montaggio che solo raramente si lascia andare all’enfasi (la sequenza in montaggio alternato con Ruffalo e Rachel McAdams, forse l’unica forzatura evidente della pellicola) e con uno script minuzioso, estremamente chiaro, che cerca di replicare i meccanismi divulgativi e didascalici di un’inchiesta giornalistica. Da questo impianto perfettamente funzionante ma ampiamente prevedibile, abbellito da un cast di validi protagonisti e comprimari e intriso di un ottimismo tipicamente yankee e liberal, emergono alcune non banali riflessioni sul tessuto bostoniano, sulle colpe rimosse, su un’indifferenza complice. Insomma, su un sistema che non è alimentato solo dalla Chiesa, ma che funziona grazie a ingranaggi che si muovono o che non si azionano, restando immobili, inerti. McCarthy non cerca di alleggerire i macigni che gravano sulla coscienza della Chiesa, ma allarga lo sguardo, suggerendo agli spettatori di evitare una facile e isterica caccia alle streghe ma di osservare la complessità della società e della sue dinamiche – in questo senso, anche il meno riuscito Black Mass regala uno spaccato bostoniano dalle tonalità grigiastre. Presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2015, Il caso Spotlight è esattamente il film che ci si aspetta: ottimi attori, dai protagonisti fino all’ultimo dei caratteristi; fin troppo diligente nella messa in scena; preciso e solido nella scrittura, nel montaggio, nel raccontarci dello scandalo dell’arcidiocesi di Boston, delle indagini dei validi giornalisti del Boston Globe, del dolore delle vittime. Dei peccati imperdonabili della Chiesa. Come se fossimo negli anni Settanta, ma un po’ sbiaditi: McCarthy non è Pakula & Co., non ha lo stesso vigore, nonostante il rimando al ruolo del giornalismo degli anni Settanta, non dissimile dalle intenzioni di Kevin Macdonald con State of Play. Ovviamente, Ruffalo, Tucci, Schreiber e soci valg ono il prezzo del biglietto. Il caso Spotlight scorre liscio come l’olio e scivola via. Carlo Valeri. Sentieriselvaggi.it Nel solco tracciato da Lumet, Pakula e soprattutto Redford ecco un grande esempio di cinema civile, molto liberal, formidabile per la solidità con cui narra la forza etica e drammaturgica dell’informazione, con cui fa vivere i personaggi negli ambienti e interviene nel racconto dei fatti a partire dal basso. (...) I principali protagonisti del film e hanno le facce incredibilmente “vere” di un gruppo di grandi attori affiatatissimo e perfettamente in parte: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Brian D’Arcy James e ancora il sommesso ma determinato direttore di origine ebraica Liev Schreiber e l’avvocato di origini armene Stanley Tucci. Grazie alla profonda eco che ebbero gli articoli pubblicati, nel 2003 il giornale vinse il premio Pulitzer ma il film di McCarthy si ferma prima, ovvero al primo articolo del gennaio 2002. Il punto di partenza di un effetto domino che poi viene lasciato in fuori campo, proprio perchè il focus del film è nelle riunioni redazionali, nelle telefonate, negli incontri, nell’analisi di documenti omessi o scomparsi. E McCarthy è attentissimo nel calibrare le sfumature psicologiche dei personaggi e nel descrivere tutta la fatica del mestiere e della cronaca. Accumula indiz i, nomi, testimonianze, senza concedere mai nulla a una facile retorica spettacolare, ma anche tenendo sempre presente il nocciolo della questione: la ricerca della verità e della misura con cui raccontarla attraverso il cinema. Costruisce così un film parlatissimo ma mai noioso, fatto di inquadrature strette sui volti degli attori e sulla semplice purezza del campo controcampo, dove ogni scena aggiunge sempre qualcosa in più al puzzle complessivo dell’indagine, alla storia da raccontare. Senza mai preoccuparsi della bella immagine, ma sempre o soltanto di quella “giusta”, trasparente. Matteo Bordone. Internazionale (…) Un film d’inchiesta giornalistica che colpisce al cuore il potere è per forza di cose figlio del cinema degli anni settanta, e in particolare di Tutti gli uomini del presidente, il film di Alan J. Pakula con Dustin Hoffman e Robert Redford nel ruolo di Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti del Washington Post che portarono alle dimissioni il presidente Richard Nixon. Il caso Spotlight racconta una storia in sé più piccola ma dalle ripercussioni enormi, e lo fa con uno stile molto più sobrio, anche perché qui non ci sono informatori da incontrare in un parcheggio sotterraneo né minacce e servizi segreti. Il tema si presterebbe a rappresentazioni più enfatiche e appassionate, e se il regista fosse per esempio Oliver Stone ci sarebbero frasi storiche e confessioni struggenti. Invece McCarthy opta per uno stile assolutamente sobrio, tanto che perfino i momenti più toccanti, quando le vittime descrivono il loro tormento, stanno il più possibile lontani dalle lacrime. La città di Boston è uno dei protagonisti del film, con il suo orgoglio e l’equilibrio delle sue forze tradizionali che cercano di resistere a questo tsunami al rallentatore. E poi c’è tanta redazione, ci sono i dialoghi tra scrivanie, i giornalisti seduti storti che parlano al telefono: un luog o classico del racconto hollywoodiano che ha sempre il suo fascino. L’andamento dell’indagine è un crescendo costante fatto di rifiuti, porte in faccia, spiragli, bastoni tra le ruote, il coraggio di qualcuno e via così. Gli attori gestiscono bene questa dinamica (soprattutto Ruffalo e Schreiber), interpretando una sceneggiatura che spesso si limita a scandire i fatti e li lascia senza pezzi di bravura evidenti. (…) Il susseguirsi degli eventi accompagna lo spettatore nella verità storica di quello che è accaduto (i giornalisti del Boston Globe vinsero il premio Pulitzer nel 2003). Nella percezione di molti spettatori italiani i fatti raccontati saranno anche abbastanza inediti, perché nel nostro paese a suo tempo se ne parlò poco, e per via della stessa cautela omertosa – diciamo così – insita in una città come Boston e in un paese di cultura cattolica come il nostro. Questo non solo per le influenze del Vaticano o l’ipocrisia di chi avrebbe dovuto raccontare, ma anche per la difficoltà di affrontare l’idea che i rappresentanti di un’istituzione che ha compiti di educazione dell’infanzia distruggano la vita ai bambini che gli sono stati affidati e cerchino di uscirne puliti. In questo senso il film può fare riflettere il pubblico del nostro paese più di altri, anche per via del suo stile così contenuto, che non stempera mai la consapevolezza nella commozione. M.P. masedomani.com (…) Seguito in prima persona dai veri protagonisti, che hanno collaborato con molti preziosi consigli alla sceneggiatura, offre la ricostruzione accuratissima del carattere singolare della città di Boston, con la sua dipendenza dall’autorità morale dei funzionari religiosi. Cosa che ha permesso a decine di pedofili di rimanere al loro posto di lavoro, con la Diocesi che li spostava come pedine in giro per la città una volta che i loro crimini erano venuti alla luce, dopo aver pagato ai parrocchiani, tutte famiglie poverissime e vulnerabili, il prezzo del silenzio. E sotto gli occhi di tutti, perché chi doveva controllare guardava da un’altra parte. “Se ci vuole un villaggio per crescere un bambino”, dice l’avvocato di Tucci con stanco cinismo, “ci vuole un villaggio per abusare di uno”. Ammirevole l’interpretazione dell’intero cast: è recitato sottotono, senza mai strafare, con impeg no e doloroso realismo. Spiccano su tutti l’irruento e deciso Mark Ruffalo e la pietosa ma ferma Rachel McAdams, per questi ruoli candidati ai prossimi Oscar 2016 come migliore attore e attrice non protagonista. Altre quattro le candidature all’Oscar: Miglior Film, Montaggio (a Tom McArdle), e Sceneggiatura e Regia a Tom McCarthy. Autore di piccoli gioielli del cinema indipendente come The Station Agent (2003) e L'ospite inattesoo (2007), ha rinunciato a discorsi altisonanti sugli ideali della libertà di stampa. Gran parte del film si svolge in redazione, fra archivi polverosi, cumuli di carte e lunghe attese al telefono, alla scrivania di giornalisti che caparbiamente, con mesi di duro e minuzioso lavoro, si sono battuti perché emergesse la verità contro un nemico apparentemente invincibile, riuscendo a sconfiggerlo. Detto così sembrerebbe noioso, decisamente poco cinematografico: invece, anche se sappiamo bene come la storia è andata a finire, il livello di suspense resta alto dall’inizio alla fine. (…) Il film è fedelmente basato sull’inchiesta del Boston Globe – oltre 200 articoli pubblicati nel corso del 2002 – che vinse il Premio Pulizer nel 2003. Una selezione di articoli è stata raccolta nel 2003 in un libro intitolato Tradimento. Gabriele Nio la. Badtaste.it Ha dell’incredibile il lavoro di scrittura fatto da Thomas McCarthy e Josh Singer su Il caso Spotlight, una minuz iosa ricostruzione che fonde con eleganza e minimalismo il reale con il finzionale, ciò che è accaduto realmente, i fatti per come si sono svolti nel pieno rispetto delle vittime (e, grande forza, dei carnefici), con la necessità di dargli un andamento narrativo moderno e coinvolgente, la verità plasmata a forma di ragionamento filmico. Perchè è proprio quello che interessa a McCarthy: animare un gigantesco film che non solo mostri ma anche introduca nella testa dello spettatore la portata della sua storia e delle sue implicazioni. Il suo pregio invece è di saper lavorare su tempi lung hi, su una sceneggiatura che utilizza tutte le sue due ore di durata per arrivare al punto, non cercando mai piccoli trionfi o soddisfazioni intermedie. La particolarità di Il caso Spotlight nel cinema moderno sta proprio nell’essere un film-fiume, privo di scene madri e determinato a mettere in ombra se stesso rispetto alla storia. In queste due ore sembra ci sia materiale per una serie televisiva, tanto sono dense eppur chiare. (...) Non esiste verità se non quella che può tramutarsi in narrazione, non esiste rivelazione che non possa essere raccontata, e così procede anche McCarthy, imitando i suoi giornalisti. La pedofilia è infatti forse l’ultimo degli interessi del film, ciò che ormai tutti sanno; il suo primo obiettivo è invece mostrare un percorso e un piccolo mondo dietro ad un grande scandalo con una commovente economia di retorica che si misura nelle controllatissime interpretazioni. Il caso Spotlight racconta Boston, come lì il potere cattolico entri ovunque e penetri ogni struttura, come ogni istituzione dipenda dalle altre, non ultimo il suo giornale (il cui edificio, in una bellissima panoramica, “minacciato” da un gigantesco cartellone pubblicitario di una internet company, del resto era il 2001….). Il film ha un contenuto affascinante e potente ma non è niente rispetto alla posizione di ferro che prende nello scegliere come raccontarlo. Imitando i giornalisti McCarthy e Singer sembrano essersi domandati ad ogni scena come realizzare il massimo con il minimo, anche l’ottimo cast pare impegnato in una gara di sottrazione (tutti tranne Ruffalo, l’unico autorizzato a caricare la propria interpretazione e capace di farlo con maestria impressionante). Il risultato è che questo grandissimo film riesce contemporaneamente a delineare un personaggio unico e sobriamente epico come il direttore del giornale di Liev Schrieber (compare poco e parla anche meno, sembra non contare niente ma è il motore di tutto, autorevole e statuario con il minimo sforzo) e architettare una storia molto complicata e complessa da chiarire, con lo scopo di portare a conclusione un ragionamento sulla responsabilità collettiva e individuale, permettendosi addirittura un colpo di scena finale che coinvolge il Robby Robertson di Michael Keaton (uno dei suoi ruoli migliori, finalmente controllato), unico momento di vera e meritata compassione. Dall’altra parte invece il controllo sentimentale e il pudore umano nell’approcciarsi ad un tema come la pedofilia infantile sta tutto in uno dei molti colpi di Il caso Spotlight, nel piccolo momento in cui la giornalista di Rachel MacAdams, di famiglia cattolicissima, fa leggere a sua nonna il primo articolo con le grandi rivelazioni, quello che cerca di descrivere scene, abusi e violenze a dozzine ad una comunità che non ne aveva la minima idea. Nell’interpretazione dettagliata, lenta e misurata della comparsa che ha il ruolo della nonna e nella maniera in cui il film arriva a quel punto (con lo spettatore perfettamente conscio di che rivelazione spiazzante possa essere per i personaggi) c’è in sineddoche tutto il film, c’è la forza devastante del sommesso.