Da spazi industriali abbandonati a incubatori di iniziative
Transcript
Da spazi industriali abbandonati a incubatori di iniziative
LÀ DOVE C’ERA UN CAPANNONE ORA C’È... 54 Da spazi industriali abbandonati a incubatori di iniziative sociali e di giovani imprese. Sei storie replicabili di riuso architettonico di SILVANO RUBINO VITA SETTEMBRE 2013 C’ è un’Italia vecchia, che però è molto meglio non rottamare. Anzi. Un’Italia che va recuperata, riutilizzata, rivitalizzata, riempita di contenuti. Magari - o forse proprio grazie al contributo “dal basso” dei cittadini, delle associazioni, delle comunità. Partiamo da qualche dato: in Italia gli edifici abbandonati e in disuso sono, secondo dati Assoedilizia, almeno 2,5 milioni (ma la stima è sicuramente per difetto). Nonostante questo, in Italia la corsa al cemento non si è mai fermata: l’area urbana in Italia negli ultimi 50 anni si è moltiplicata, secondo i dati ufficiali, di 3,5 volte ed è aumentata, dagli anni 50 ai primi anni del 2000, di quasi 600mila ettari (equivalenti all’intera regione del Friuli Venezia Giulia), un incremento di oltre il 300% (1.100% in alcune regioni). Insomma, in Italia per 50 anni non si è fatto che costruire e non si smette: secondo il report Terra Rubata realizzato da Fai e WWF, nei prossimi vent’anni la superficie occupata dalle aree urbane crescerà ancora al ritmo di 75 ettari al giorno. E questo accade anche quando l’andamento demografico dovrebbe far pensare a un rallentamento: tra il 1991 e il 2001, anni di stabilità demografica del nostro Paese, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari all’anno di territorio urbanizzato. I Piani comunali? Anacronistici Meno popolazione, più cemento. Quindi - inevitabilmente - anche tante aree abbandonate o dismesse. E su questo tema per quanto riguarda i numeri ci si addentra in un territorio molto più incerto, vista la quantità e la varietà di edifici lasciati a se stessi: edifici storici, a volte interi centri urbani, “involucri” di attività produttive cessate, strutture militari, “relitti infrastrutturali” (stazioni, tracciati ferroviari), manufatti interrotti per varie ragioni (spesso per abusivismo), case coloniche. Una mappa vera e propria di questo patrimonio che, se adeguatamente recuperato, potrebbe mettere un freno alla piaga del consumo di suolo, non esiste ancora. Qualcosa si muove, come al solito, dal basso. Il Comitato Salviamo il paesaggio, composto da oltre 900 sigle associative, ha lanciato a febbraio 2012 un censimento chiedendo ai Comuni di compilare una scheda in cui evidenziare il patrimonio edilizio sfitto o inutilizzato. Purtroppo, su oltre 8mila comuni interpellati, un’esigua minoranza ha risposto. Quel che appare evidente, a una prima analisi 55 > SETTEMBRE 2013 VITA dei risultati, è che i Piani urbanistici in vigore risultano profondamente sproporzionati rispetto all’andamento demografico, con punte superiori al 60/70 % di potenziali nuovi residenti previsti da Piani sovradimensionati e anacronistici. VITA SETTEMBRE 2013 IL FUNARO, CHE SPETTACOLO! SEI BUONE IDEE DI REINVENZIONE URBANA 56 Un censimento “wiki” Bypassando le secche della burocrazia e affidandosi alle potenzialità "wiki" della rete, ci sta provando il sito impossibileliving.com, la prima piattaforma per creare un database degli edifici abbandonati. «Dal 2011 a oggi sono già stati un migliaio gli edifici mappati dagli utenti», spiega Daniela Galvani, fondatrice del sito. L'idea alla base della piattaforma non è solo quella di mappare, ma «anche di mettere in comunicazione le persone: puntiamo alla riattivazione degli spazi». E i gruppi già al lavoro su singoli progetti sono decine, spiega Galvani, così come i singoli che insieme alla segnalazione del bene dismesso mandano proposte di riutilizzo. «Rispetto a quando siamo partiti», aggiunge, «il tema è molto meno di "nicchia" e molto più sentito». Anche il WWF, con la sua campagna "RiutilizziAmo l'Italia", ha raccolto gli stessi umori e la stessa attenzione al tema. In pochi mesi di "bando" l'associazione ha raccolto centinaia di segnalazioni, con moltissime proposte di riutilizzo e rivitalizzazione. Le segnalazioni sono arrivate in gran parte (oltre il 70%) da organizzazione già attive sul territorio, come associazioni e comitati, segno che, come spiega il direttore generale del WWF Italia Adriano Paolella, «esiste una forte domanda sociale che aspira a una riqualificazione degli insediamenti urbani e del territorio e chiede il recupero e il riuso per fini di utilità collettiva e ambientale». Per circa la metà vengono proposte forme di riutilizzazione e riqualificazione green (verde pubblico, orti urbani e conservazione degli usi agricoli) e per l’altra metà forme di riutilizzo sociale (abitazioni, centri di aggregazione, servizi sportivi e culturali, ecc.). La società civile è quindi sempre in prima linea, spesso perché direttamente coinvolta dagli impatti negativi di queste "cattedrali del degrado": edifici pericolanti, trasformati in discariche o dormitori, fonte di inquinamento e di impatto estetico. E allora è anche abbastanza normale che spesso nelle (ancora troppo sporadiche) buone pratiche di riutilizzo ci sia di mezzo proprio il non profit. Anche se, purtroppo, questo non è garanzia di successo e soprattutto di durata del progetto stesso: «Il non profit è fondamentale», spiega Galvani, «ma i progetti di riutilizzo hanno bisogno di un’ottica imprenditoriale, non si può prescindere dalla sostenibilità economica di lunga durata, altrimenti dopo qualche anno si è al punto di prima». Ma anche la legge deve aiutare: servono norme che incentivino anche fiscalmente i progetti di recupero, che semplifichino la burocrazia. Il WWF, proprio nelle scorse settimane, ha preso carta e penna e preparato una proposta di legge, in 12 articoli, che mira a colmare queste lacune. E a stabilire, finalmente, un principio inderogabile: nessuna nuova costruzione può essere autorizzata senza aver prima accertato che non esistano alternative come il recupero o il riutilizzo di edifici già esistenti. Utopia edilizia o futuro prossimo? < a Pistoia V ecchi portoni di legno, lunette con inferriate rugginose, un cancello su un cortile abbandonato, capannoni in disuso. Testimonianza di un mondo di piccole industrie artigiane progressivamente scomparse o spostatesi verso le periferie e le zone industriali. Quattro donne intraprendenti e con la passione per il teatro, Antonella Carrara, Lisa Cantini, Mirella Corso e Francesca Giaconi, hanno visto in quegli edifici cadenti il luogo perfetto per farne la sede del loro progetto, iniziato già nel 2003 con la fondazione dell'Associazione Teatro Studio Blu. «Era sempre stato lì», racconta Lisa Cantini, «poi un giorno abbiamo scoperto che era in vendita ed i nostri sguardi lo hanno visto oltre la materia. Sogni e proposte si sono intrecciati sulle carte catastali e l'architetto Gianluca Mora è stato incaricato di curare il progetto». Un progetto che però non voleva disperdere memoria e senso di quel luogo: «Abbiamo fatto ricerche storiche, ascoltato i racconti delle persone del quartiere, fotografato tutti i particolari e gli oggetti all’interno dei capannoni per non perdere la memoria di ciò che fu». L’idea fondamentale è stata la “conservazione”, il desiderio di mantenere il Funaro quasi come lo abbiamo trovato, intervenendo il meno possibile. Rispettare la sua storia, lasciare che siano le sue mura a parlare. L’imperativo è dunque diventato quello di adeguare noi stessi al luogo e non viceversa ». Nel 2009 nasce il Centro Culturale il Funaro, un complesso edilizio di 900 metri quadrati che comprende una sala teatrale, due sale prove, una caffetteria, una biblioteca/centro di documentazione e una residenza, oltre gli uffici dell’associazione culturale Teatro Studio Blu e altri spazi sia coperti sia all’aperto. Oggi ospita spettacoli, laboratori, una scuola di teatro, ma è anche uno spazio aperto dedicato alla cultura, alla formazione e all’integrazione sociale a disposizione dei cittadini. Dove via del Funaro, 16 - Pistoia www.ilfunaro.org a Lecce a Cernusco sul Naviglio (Mi) OFFICINE CANTELMO FANNO IMPRESA ALLA FILANDA SI TESSE SOCIALITÀ uando le sinergie funzionano, uno spazio torna a vivere e diventa un polo di attrazione per la città. Comune, Università e impresa sociale hanno unito le forze, a Lecce, e lo spazio delle Officine Cantelmo, dove un tempo si lavorava il ferro e si producevano targhe e insegne, è diventato uno dei luoghi di aggregazione giovanile più importanti della città. Tutto nasce proprio dall'Università del Salento: la Cooperativa “Lecce Città Universitaria”, formata da un gruppo di ex rappresentanti degli studenti, nata da un progetto di incubatore di impresa del dipartimento di Studi Giuridici, risponde al bando del Comune di Lecce seguito alla ristrutturazione dell'edificio (curata dal Comune stesso con fondi europei). Nel novembre del 2008 la loro proposta di utilizzo dello spazio risulta vincente, nasce la società cooperativa Officine Cantelmo e la struttura in poco tempo diventa un grande contenitore culturale. Una sala studio, internet point gratuito, biblioteca multimediale, job center, area ristoro, sala convegni e concerti, spazi espositivi. Con una forte impronta imprenditoriale. «La maggior parte dei proventi deriva dalle attività realizzate all’interno della struttura: il noleggio degli spazi per gli eventi, le mostre, i convegni e non ultimi i concerti e la vendita di merchandising dell’Università del Salento» », spiega Marco Cataldo, ingegnere informatico e presidente della cooperativa. «La fonte più importante per la sostenibilità sono i progetti regionali e comunitari che ci permettono di realizzare importanti iniziative e servizi. Oggi siamo una delle più belle realtà culturali e di innovazione sociale presente in città. Non solo un contenitore o uno spazio fisico, ma un motore di sviluppo e rilancio delle giovani idee. Stiamo ospitando decine di giovani che hanno dato vita ai loro piccoli sogni ed in alcuni casi hanno creato imprese. Abbiamo ricevuto diverse sollecitazioni da altri atenei pugliesi e non, di avviare percorsi formativi a giovani cooperatori, per valutare l’idea di replicare il “progetto Cantelmo” in altre città universitarie». Q n principio fu la seta. Cernusco sul Naviglio, alle porte di Milano, nel XIX secolo era la "filanda" di Milano, con nove stabilimenti per la filatura del prezioso tessuto. Tra queste la Filanda Gavazzi occupava un posto di rilievo, collocata com'era nel cuore della città. L'ex opificio ottocentesco, dove generazioni di "filerine" hanno trascorso vite intere, è oggi una testimonianza di un passato industriale archiviato, ma soprattutto, esempio di una città che vuole proiettarsi nel futuro. Dallo scorso giugno l'ex Filanda è tornata a essere un cuore pulsante della città, non più producendo beni, ma producendo relazioni, tessendo i fili della comunità. Dopo un lungo percorso di ristrutturazione, l'edificio, da qualche decennio di proprietà del Comune di Cernusco sul Naviglio, è diventato un centro civico di socialità dedicato a bambini, famiglie, anziani e giovani. Un centro che è nato da una progettazione architettonica ma soprattutto da una progettazione sulle attività, avvenuta con un innovativo coinvolgimento delle realtà del Terzo settore. Un vero e proprio bando di coprogettazione, nel quale le realtà locali del Terzo settore sono state chiamate a immaginare il futuro e le funzioni della struttura, al termine del quale è stato poi fatto un bando per assegnarne la gestione. «Una sfida innovativa: quella di creare un percorso capace di coinvolgere altri soggetti nell’elaborazione del progetto, con risorse pubbliche e coinvolgimento attivo del Terzo settore», spiega il sindaco della città Eugenio Comincini. A gestire le attività un pool di realtà sociali con capofila il Consorzio CS&L. Completa e arricchisce la struttura “Bluè” un locale ed un ristorante dove alla buona cucina si accompagneranno iniziative culturali e di intrattenimento e che agisce in completa sinergia con il centro per la comunità, in un’innovativa formula di partnership tra profit e non profit. Del gruppo di soggetti non profit fanno parte anche le cooperative Il Melograno e Koiné, la cooperativa sociale Comin e l'Associazione Amici del Tempo Libero di Cernusco. Dove viale De Pietro - Lecce www.officinecantelmo.it Dove via Pietro da Cernusco, 2 - Cernusco sul Naviglio (MI) lafilandacernusco.org 57 I SETTEMBRE 2013 VITA Laboratori Urbani TANTI, VIVI E SOSTENIBILI. LA PUGLIA GIOCA IN GRANDE, E CON GLI SPAZI FA IMPRESA S iamo a 71 progetti finanziati, 169 Comuni coinvolti su tutto il territorio regionale, 151 immobili interessati da interventi e oltre 100.000 mq ristrutturati. Per un investimento complessivo di 54 milioni di euro: 44 a carico della Regione Puglia e 10 come cofinanziamento dei comuni beneficiari. Questo, in cifre, il poderoso intervento di recupero e rivitalizzazione di edifici dismessi avviato nel 2006 dalla Regione, battezzato Laboratori Urbani, che ha una particolarità: non prende avvio da una considerazione urbanistica, o immobiliare, ma dalla finalità che la riattazione degli immobili si pone: mettere a disposizione dei giovani «contenitori pubblici», così li definisce l’assessore alle Politiche giovanili, Guglielmo Minervini, per consentire loro «la sperimentazione e la maturazione di competenze». Si tratta, continua l’assessore, di «un poderoso investimento sull’hardware che oggi rappresenta la più importante operazione di infrastrutturazione materiale a servizio della creatività, del protagonismo giovanile mai varata da una regione italiana». vani, sono un elemento chiave dell’operazione. Lì dove si è creato un corto circuito positivo fra lo spazio, il tessuto associativo e giovanile e il territorio, i Laboratori stanno svolgendo un’interessante funzione di piattaforma a sostegno delle comunità locali, in quanto mobilitano e attivano risorse e persone, sono abitate da diverse realtà vive e sperimentano nuovi modelli di economia e società. Il Terzo settore sta svolgendo un ruolo importante, sia perché in molti casi si è fatto carico della gestione degli spazi (magari mettendosi insieme ad altri soggetti del territorio), sia perché viene spesso coinvolto per la produzione di contenuti, la realizzazione di processi formativi/educativi e la rivitalizzazione degli spazi riqualificati (sono molte le associazioni locali o le organizzazioni di volontariato che utilizzano gli spazi dei Laboratori Urbani per riunire i propri soci, realizzare attività e promuovere iniziative pubbliche). Come si riesce a garantire la durata dei progetti e la loro sostenibilità economica, anche quando l’aiuto pubblico viene meno? La vera sfida dell’operazione è riuscire a combinare la funzione di interesse pubblico che questi spazi svolgono con la loro auto-sostenibilità. Una scommessa ancor più faticosa per un territorio del Mezzogiorno caratterizzato storicamente da non elevati livelli di capitale sociale e da uno scarso orientamento imprenditoriale, soprattutto in campo sociale e culturale. Anche su questo aspetto, siamo di fronte a una sperimentazione su larga scala, con risultati e approcci diversi. A distanza di 7 anni, non c’è una risposta univoca. Ad esempio, è interessante osservare come molti Laboratori Urbani stiano sperimentando strategie di auto-sostentamento basate sulla combinazione di diverse fonti di finanziamento e di diversi finanziatori (pubblico, donatori, finanziatori privati e mercato) o sul diretto coinvolgimento degli stessi giovani (ad esempio nella gestione di alcuni servizi). In ogni caso, però, siamo spesso di fronte a esperienze fragili. Cosa si può fare, allora? Abbiamo messo in campo due azioni di irrobustimento e consolidamento: da un lato, un sostegno finanziario per diversificare e rafforzare attività e servizi offerti, per migliorare la dotazione di attrezzature e per favorire il coinvolgimento dei giovani nella programmazione delle attività negli spazi; dall’altro, la creazione di un Centro Risorse che fornisca servizi di accompagnamento e rafforzamento delle competenze gestionali, manageriali e di fundraising dei soggetti gestori, promuovendo strategie di comunità e lo scambio orizzontale di competenze. Oggi stiamo selezionando e mettendo in connessione le migliori esperienze di gestione per creare una rete regionale di spazi di educazione non formale per i giovani pugliesi. Un’infrastruttura territoriale a servizio delle politiche per i giovani, anche in vista della nuova programmazione 2014–2020. [S.R.] «Abbiamo fatto un patto con i comuni, per superare le gelosie locali. Fondamentale il ruolo del Terzo settore» Come vengono scelti gli edifici dismessi da riutilizzare e i soggetti a cui affidarli? Per l’iniziativa Laboratori Urbani abbiamo voluto fare un patto con tutti i comuni pugliesi coinvolti. Cercando di superare la tradizionale logica di ripartizione delle risorse dall’alto verso il basso, attraverso un bando abbiamo chiesto alle pubbliche amministrazioni di mettere sul piatto le proprie risorse sottoutilizzate e condividerle per un obiettivo comune: creare una rete di spazi per i giovani diffusi su tutto il territorio regionale. Sono state quindi le amministrazioni locali, anche a valle di processi di coinvolgimento dei cittadini, a selezionare quali edifici dismessi candidare. La Regione ha messo a disposizione risorse non solo per ristrutturare gli immobili, arredarli e attrezzarli, ma anche per trasformarli in spazi per i giovani, destinando una quota del finanziamento allo startup delle attività di gestione. Con che fondi si finanzia il progetto? Le risorse economiche utilizzate per dare avvio ai Laboratori Urbani, comprese le attività di start up dei soggetti gestori, derivano da fondi nazionali (FAS - Fondo Aree Sottoutilizzate) dedicati ad azioni di riqualificazione delle città. Siamo riusciti a utilizzare risorse solitamente destinate alla realizzazione di opere pubbliche per interventi capaci non solo di recuperare vecchie stanze abbandonate, ma di sostenere imprese sociali e culturali che le animassero. Dal 2011, poi, tutti gli interventi promossi sono stati resi coerenti alla programmazione europea 2007-2013, per svincolare le risorse dalla tenaglia del patto di stabilità e non interrompere il trasferimento di liquidità ai territori e alle imprese. Il Terzo settore è coinvolto? L’associazionismo sociale e culturale, le realtà di base che operano nei territori, soprattutto se formate da gioVITA SETTEMBRE 2013 a Venezia a Reggio Emilia FORTE MARGHERA, ARTE E SAPORI LA COOPERAZIONE BATTE LE ARMI n Italia il demanio militare costituisce ancora una porzione rilevante del patrimonio pubblico. Forte Marghera è un’antica area fortificata (oltre 48 ettari, comprensivi di canali interni), a stella, di proprietà del Comune di Venezia. L’area, dopo due secoli, è stata privata di ogni funzione militare nel 1996. Dal 2004, la gestione è stata affidata a Marco Polo System, che, oltre a garantire guardiania e manutenzione del verde, ha realizzato attività di studio e di pianificazione per il riutilizzo del complesso, attività di promozione e di sviluppo della pubblica fruizione, piccoli interventi di recupero, esperienze sperimentali di riutilizzo, oltre a dare impulso al necessario processo di attrazione di investitori per il recupero del Forte. Posta tra terraferma e laguna, attualmente la struttura è molto utilizzata come parco pubblico e ospita nei numerosi edifici storici (ex-polveriere ottocentesche), mostre, un Museo delle Imbarcazioni tradizionali, un Centro di documentazione sulle architetture militari, attività artigianali/creative ed è sede di associazioni. La cooperativa sociale Controvento ha varato l'Osteria sociale del Gatto rosso, uno spazio di ristorazione interamente gestito da giovani con prodotti biologici e a chilometri zero con un forte Dna sociale, con l’organizzazione di manifestazioni giornaliere, dibattiti, incontri, l’allestimento di mostre fotografiche, di pittura di artisti locali e non, concertini di intrattenimento e l’apertura di una zona studio all’aperto. Nel 2011 ha varato anche la Dispensa del Forte, bottega del consumo consapevole che propone prodotti alimentari e non, orientata alla qualità, alla descrizione della provenienza, dei criteri di produzione e di lavorazione. Attraversato da una strada principale ciclabile, il Forte presenta ancora la darsena, utilizzabile solo da barche a remi. La direzione artistica di Marco Polo System per conto del Comune costruisce annualmente un piano culturale, spesso in connessione con gli eventi veneziani (come la Biennale) e in stretta collaborazione con gruppi di artisti locali. I a fabbrica di morte a luogo vivo e vitale per l'intero quartiere. Il progetto di riqualificazione dell'Ex Polveriera, a Reggio Emilia, punta a farla diventare il polo propulsivo di un intero quartiere oggetto di interventi, il Mirabello. Il Comune, proprietario degli edifici, ha assegnato nelle scorse settimane la gestione per 50 anni di due dei cinque edifici del complesso (per un totale di circa 3mila metri quadrati) al Consorzio Sociale Romero, che aveva presentato un progetto ritenuto idoneo al tipo di destinazione che l'amministrazione ha immaginato per l'area: «Il primo edificio», spiega Leonardo Morsiani , direttore del consorzio Romero e presidente della Società di scopo senza fini di lucro Polveriera, «sarà pronto a fine 2014 e sarà la sede di cooperative, avrà un'area per i servizi alla disabilità, con un centro diurno e servizi residenziali, un'area di servizi per la formazione e l'inserimento lavorativo, la mediazione culturale e un'area per la giustizia riparativa e la mediazione penale». L'idea del progetto, però, è di far sì che quell'edificio oggi in decadenza diventi un polo attrattivo per tutti i cittadini, non solo per coloro che usufruiranno dei servizi sociali che ospiterà. Il secondo edificio, i cui lavori di ristrutturazione partiranno in un secondo tempo, ospiterà quindi un bar ristorante, negozi vicinali, un poliambulatorio. «La rifunzionalizzazione completa coinvolgerà altri attori, anche non necessariamente del non profit», spiega Morsiani. Costo dell'operazione, a intero carico del consorzio, 4,5 milioni di euro. Un bell'investimento economico, per il consorzio, che è anche un importante investimento di fiducia nel «ruolo strategico del sistema della cooperazione sociale nell’ambito della riqualificazione e rigenerazione urbana». «La sostenibilità nel tempo», spiega Morsiani, «potrà essere garantita dalla capacità dei soggetti coinvolti di generare nello sviluppo dei servizi direttamente erogati sufficienti marginalità. Inoltre, sono previste sistemiche azioni di capitalizzazione delle socie e di raccolta fondi presso cittadini ed imprese del territorio». Dove via Forte Marghera - Venezia fortemarghera.org Dove Quartiere Mirabello - Reggio Emilia consorzioromero.org 59 D SETTEMBRE 2013 VITA a Roma Collectif Etc GLI STOP-AND-GO DELL’EX MATTATOIO ARCHITETTI FRANCESI CHE SPIAZZANO TUTTI di GIuSeppe FRANGI «F 60 l l recupero dell'ex mattatoio di Roma, edificio storico in un quartiere altrettanto storico come Testaccio, è partito alla fine degli anni 90. La struttura, una superficie complessiva di circa 9 ettari, è divisa in due parti: il Campo Boario ed il Mattatoio vero e proprio. Il Campo Boario ha una vocazione più interculturale, il Mattatoio è orientato alla ricerca e produzione artistica. Nel primo è attiva la Città dell’Altra Economia, nel secondo ci sono i due padiglioni del MACRO, la Pelanda (che avrebbe dovuto essere il centro delle produzioni artistiche). Tutto intorno ci sono la Facoltà di Architettura e l’Accademia di Belle Arti. Oltre 50 milioni di investimenti pubblici in 15 anni, senza che la struttura sia veramente mai decollata. «Nonostante la presenza di tutte queste attività e funzioni» spiega Paolo Orsini, architetto dello studio Insula, che a maggio ha organizzato un convegno proprio sul futuro della struttura, «l'ex mattatoio non funziona; è sottoutilizzato, frammentato, degradato, fiacco. Lo spazio pubblico è in abbandono, oltre 1.700 metri di recinzioni impediscono di passare da una parte all’altra, la Pelanda è chiusa, il Macro non tira, il Campo Boario è il luogo dell’emarginazione urbana». Il problema più evidente , secondo Orsini, è nella mancanza di una gestione unitaria: «Ognuno utilizza separatamente gli spazi assegnati, privatizzando lo spazio pubblico. Il dialogo interno fra i diversi inquilini è praticamente assente. Non mancano progetti interessanti sotto il profilo architettonico, ma raramente sono concepiti in funzione della loro gestione. Per funzionare bene, il Mattatoio avrebbe bisogno di essere utilizzato intensamente e continuativamente». Serve, secondo Orsini, un progetto culturale unitario, una fase due dell'ex mattatoio che potrebbe partire grazie al cambio di giunta a Roma. «La chiave del successo di questa operazione deve passare attraverso l’aiuto della società civile. Rivendicare l’unitarietà dello spazio pubblico e del progetto di gestione è già un progetto culturale in sé». VITA SETTEMBRE 2013 aites vous une place». Fatevi voi una piazza. Con questo intento provocatorio un gruppo di giovani architetti usciti dall’università di Strasburgo hanno risposto ad un concorso lanciato dal comune di Saint-Etienne, in Francia per risanare un crocevia degradato e trasformarlo in piazza pubblica. I ragazzi del Collectif Etc anziché arrivare con un progetto hanno proposto di avviare un percorso partecipato con gli abitanti e i frequentatori di quel luogo per arrivare a fare la piazza. Hanno vinto e non a caso l’hanno voluta ribattezzare “Place au changement”. Il Collectif Etc è una delle tante realtà che stanno contrassegnando il panorama della giovane architettura francese. Ragazzi tutti con un comune destino: dopo un percorso di formazione e di studio si trovano le strade per il lavoro sbarrate. E così, mettendosi insieme, si sono inventati un lavoro che non c’era. Si sono dotati di camper e hanno iniziato a girare i paesi più depressi su e giù per la Francia, coinvolgendo la popolazione nella realizzazione di progetti pubblici a bassissimo costo, per rendere vivibili e accoglienti spazi pubblici abbandonati. Poco alla volta la loro fama è cresciuta e ora, sempre più spesso, sono i comuni a chiamarli per mettere in atto processi partecipati attorno al destino di luoghi pubblici degradati. I progetti hanno sempre la caratteristica di sperimentazione, quindi non si concepiscono mai come definitivi. «L’oggetto e l’interesse dei nostri interventi», spiegano, «non è il risultato finale ma è il processo che lo genera e nel nuovo contesto, i comportamenti che sviluppa». Nella zona di Bordeaux è attivo invece il collettivo Bruit de Frigo. «Proponiamo modi alternativi di pensare e costruire il nostro contesto di vita», spiegano. Quest’estate per esempio, su commissione dell’Ufficio del turismo di Lormont, hanno fatto da capofila per un progetto di “Rifugi periurbani”: strutture a basso costo e suggestive, disseminate in una zona naturalisticamente straordinaria affacciata sull’Atlantico, in cui le persone, prenotandosi, potevano passare la notte insieme. De l’air è invece un collettivo attivo a Crest, nell’Alto Rodano. Prima dell’estate hanno varato un grande cantiere partecipativo a Chirens, per riconfigurare il “cuore” del villaggio. I giovani del collettivo non hanno portato progetti ma hanno lavorato come facilitatori, per approfondire la fattibilità, i costi e la coerenza delle proposte che emergevano nel confronto tra cittadini. Architetti sul campo, dunque. Architetti che nell’inaridirsi delle tradizionali filiere lavorative, hanno messo la testa fuori dagli studi e hanno intercettato una domanda di cui nessuno si era mai accorto. 61 SETTEMBRE 2013 VITA