Chautauqua sulla costruzione di una storia comune

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Chautauqua sulla costruzione di una storia comune
Chautauqua1 sulla costruzione di una storia comune2
L’esperienza decennale del Comune di Garbagnate Milanese nella paziente sperimentazione e costruzione
di “buone prassi” per l’inclusione sociale della disabilità.
A cura di Riccardo Morelli, Graziella Lucchini, Monica Simionato - Febbraio 2012 -
Contestualizzazione3
Il nostro percorso è stato ed è così naturale che narrarne delle parti, descriverne degli scorci,
sembra, in un certo senso, una forzatura. È come se si perdesse la magia dell’attimo, del qui ed ora.
Però, pensiamo ne valga la pena. È un peccato trattenere ciò che genera frutti. Il desiderio è che
possa contribuire a generarne altri, in altri luoghi, magari sconosciuti.
Quando il pensiero analitico viene applicato all’esperienza, qualcosa resta sempre ucciso. Questo è un fatto
generalmente riconosciuto, almeno per quanto riguarda le arti. Viene in mente l’esperienza di Mark Twain: una volta
acquisite le conoscenze analitiche necessarie per condurre un’imbarcazione lungo il Mississippi, scoprì che il fiume
aveva perso la sua bellezza. Ma, ciò che è meno evidente, nelle arti qualcosa viene creato, ed è questa la cosa più
importante. È come un ciclo continuo di morte e nascita che non è né buono né cattivo, semplicemente è.4
Abbiamo iniziato con due passi, fortemente connessi: la costituzione del gruppo di auto-mutuoaiuto per i familiari dei disabili residenti nel garbagnatese e l’avvio di un dialogo mirato con le
famiglie sul tema dei progetti di vita delle persone con disabilità adulte.
Il gruppo di auto-mutuo-aiuto è partito nella prima triennalità (2003-2005) del Piano Sociale di
Zona dell’ambito di Garbagnate Milanese con il manifestarsi del bisogno da parte delle famiglie di
anziani e disabili di un sostegno, uno spazio in cui essere accompagnate e comprese, uno spazio di
informazione e condivisione. Con il trascorrere del tempo il novero dei gruppi presenti su tutto il
territorio del Piano di Zona (inizialmente due per i familiari di anziani e tre, uno dei quali a
Garbagnate, per i familiari di disabili) andava via via sfoltendosi. Venivano a mancare le
motivazioni, ciò che accomunava i diretti interessati impallidiva sempre più accanto alla spinta di
ciascuno a stringersi nella propria sofferenza. Si perdevano gli obiettivi condivisi a vantaggio dei
bisogni del singolo.
Tranne che in un gruppo.
Fino al dicembre 2009 e da marzo 2011 a tutt’oggi solo il gruppo di Garbagnate Milanese ha
proseguito e prosegue nel suo lavoro. Dapprima grazie alla conduzione di una psicoterapeuta
incaricata dal Comune di Garbagnate Milanese, con la co-conduzione dall’assistente sociale
responsabile del servizio disabili del medesimo Comune e poi con la facilitazione solo di
quest’ultimo. Ne fanno parte una decina di persone.
La specificità di quest’esperienza, che ci ha spinto a raccontarla, risiede nelle caratteristiche
singolari del rapporto tra gli operatori, le istituzioni e i familiari delle persone con disabilità
coinvolti.
1
Un Chautauqua era una sorta di spettacolo ambulante rappresentato solitamente sotto un tendone, itinerando
attraverso l'America, con il quale gli autori portavano al cospetto della saggezza diffusa una serie di conversazioni
popolari con l'obiettivo di stimolare discussioni. Una sorta di racconto in forma di viaggio.
2
Ringraziamo per il sostegno e l’aiuto ricevuto sia durante il lavoro sul campo sia durante la stesura di questo scritto
Franca Focosi, Responsabile dei Servizi Sociali del Comune di Garbagnate Milanese.
3
A cura dell’assistente sociale Riccardo Morelli, Responsabile del Servizio Disabili del Comune di Garbagnate
Milanese.
4
R. M Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, Adelphi Edizioni S.p.a., 1981, p. 86
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L’istituzione Comune di Garbagnate Milanese ha deciso di disporsi all’ascolto, proseguendo anche
quando i fondi del Piano di Zona sono terminati.
Come operatori abbiamo cercato di disimparare a codificare la domanda, a rispondere con delle
prestazioni. Abbiamo ri-scoperto il gusto di farci stupire dalle persone che si rivolgono a noi, reinventando delle risposte sempre diverse, sempre su misura. Per questo come operatori abbiamo
provato ad uscire dalle trincee della metodologia e della mancanza di risorse e a metterci in
discussione, cercando un rapporto di partnership con i familiari dei disabili.
Questi ultimi hanno deciso, dopo avere spesso vissuto storie familiari gravate da responsabilità
immense, di essere corresponsabili con i servizi di progetti relativi ai loro cari con disabilità.
Il secondo passo, l’adozione del “progetto di vita” condiviso con i servizi quale mattone da cui
partire per pensare al futuro delle persone con disabilità adulte, ha preso spunto dal fatto che, a
partire dal 2003, a Garbagnate Milanese l’Amministrazione Comunale ha avviato, su richiesta
dell’Associazione dei Familiari dei Disabili Garbagnatesi (AFADIG), la costruzione di una
comunità alloggio per disabili, poi battezzata Comunità Alloggio per disabili: «Le S.C.I.E.»5.
Con l’avanzare dei lavori ci si è resi conto che, oltre che della struttura materiale, ossia dell’edificio
della Comunità, era necessario occuparsi anche del progetto di vita dei disabili e delle loro famiglie
attraverso il coinvolgimento del servizio disabili proprio nei progetti di vita.
Troppe erano e sono le comunità alloggio costruite che rimangono vuote o che, piene, sono aliene
alla comunità cittadina in cui sono inserite. Era molto alto il rischio che anche «Le S.C.I.E.»
divenisse una di queste. Ci siamo chiesti perché e come poterlo evitare.
La risposta non la avevamo, dovevamo cercarla e, per farlo, abbiamo pensato di coinvolgere i diretti
interessati.
Il percorso ci ha portati a riflettere sul tema del “Dopo di noi”6, declinandolo prima in quello del
“Durante noi”7 e, infine, in quello del “Progetto di Vita” della persona con disabilità e della sua
famiglia. Occuparsi dei progetti di vita significa considerare il tema del futuro come un tema aperto
e complesso, ricco della storia della famiglia, dei percorsi fatti. Significa interrogarsi anche sulla
residenzialità, magari con considerevole anticipo rispetto alla morte dei caregivers di riferimento.
Per lavorare in questa direzione abbiamo realizzato incontri aperti sul tema dei progetti di vita delle
persone portatrici di disabilità, ai quali sono state invitate tutte le famiglie in contatto con il servizio
disabili. Si è poi offerto a ciascuna famiglia intervenuta agli incontri aperti un colloquio individuale
con l’assistente sociale responsabile del Servizio Disabili e la coordinatrice del Centro Diurno
Disabili “Archimede” sul tema del progetto di vita. In particolare agli incontri aperti hanno
partecipato una cinquantina di famiglie ed agli incontri individuali sui progetti di vita 14 famiglie.
Questi due passi, nati da slanci differenti, si sono sempre più integrati, tanto da trasformarsi in una
armoniosa camminata.
Il gruppo di auto-mutuo-aiuto è servito da spinta, incoraggiamento, per coloro che erano disposti ad
impostare un progetto di vita nuovo. Ugualmente coloro che si avvicinavano al tema del progetto di
vita potevano trovare nel gruppo un importante e nuovo supporto.
5
L’acronimo «Le S.C.I.E.» sta per “Solidarietà–Coraggio-Impegno-Emozione” ed è il nome dato dai bambini di
Garbagnate Milanese alla Comunità Alloggio attraverso un concorso organizzato dall’Amministrazione Comunale,
dall’Associazione dei Familiari dei Disabili Garbagnatesi (AFADIG) e dalla Coop. Soc. “Il Grillo Parlante” nelle scuole
elementari e medie di Garbagnate Milanese nel corso dell’anno scolastico 2005/2006.
6
Con “Dopo di Noi”si fa riferimento alla preoccupazione che le famiglie dei disabili hanno rispetto al futuro dei loro
cari quando loro non ci saranno più.
7
Con “Durante Noi” ci si riferisce all’evoluzione della preoccupazione di cui sopra, che ha portato i familiari a volersi
occupare in prima persona del problema, nel momento in cui sono ancora in vita.
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Compagni di viaggio: diario di un’esperienza di condivisione e di crescita8
Nel procedere dell’intervento socio-assistenziale con il gruppo dei famigliari di disabili, ci siamo
interrogati sull’opportunità di poter raccontare ciò che di speciale stava accadendo. Se si fosse
trattato di raccontare la nascita e l’evoluzione di un qualsiasi gruppo di lavoro, di un gruppo di
studio e sperimentazione, di un gruppo ricreativo, di un gruppo religioso, di un gruppo terapeutico,
beh, non avremmo avuto dubbi, avremmo messo dei contenuti, quelli dell’esperienza in corso,
all’interno di una struttura di lettura già implicitamente predefinita. Questo perché, quando noi
parliamo ed agiamo, facciamo comunque e inconsapevolmente riferimento a “mondi semantici”
intrinsecamente coerenti. Per cui, se parliamo, ad esempio, di un gruppo di studio e
sperimentazione, ci ritroviamo ad utilizzare schemi mentali, terminologia, prassi e logica che
afferiscono alla categoria “studio e sperimentazione”. Questi mondi semantici sono il frutto
dell’elaborazione soggettiva di ciò che la scienza e la cultura oggettive hanno elaborato in anni di
esperienza, talora secoli. Noi, che abbiamo pensato, organizzato e pianificato, seppur da posizioni
istituzionali e formative diverse, il gruppo di cui voglio narrarvi, ad un certo punto ci siamo chiesti
che archetipo di gruppo fosse quello che stavamo accompagnando, visto che non corrispondeva a
nessuno di quelli che ho sopra citato ma che, inverosimilmente, li conteneva tutti. Ma procediamo
con ordine.
Il mandato
Come detto, l’occasione fu data dal Piano di Zona, che, diversamente dalle prestazioni assistenziali
ordinarie, stanziò dei finanziamenti per progetti che andassero oltre l’urgenza, impegnando gli
operatori sociali a pensare nuovi strumenti per vecchi bisogni. Di fatto, visto che tutto il pensabile
per rispondere ai vecchi bisogni era stato pensato, ci si è interrogati se la risposta ai bisogni fosse
concretamente il modo adeguato per esaurirli. E non perché non si dovesse rispondere ai bisogni,
ma siccome alcuni bisogni assistenziali, seppur corrisposti, non trovano esaurimento. Questo ci ha
fatto pensare che, probabilmente, il bisogno andasse “letto” prima di darne risposta. Quindi, quali
sono i bisogni delle famiglie che hanno al loro interno un soggetto con disabilità?
Il pensiero
Molti, diversificati e complessi, alcuni dei quali già accolti, ma uno, fondamentale, aveva bisogno
di essere compreso e restituito: quello di non essere considerati “handicappati” alla stessa stregua
dei figli. La questione è tutt’altro che ovvia. Partiamo dalla relazione d’aiuto: il mandato sociale
della relazione d’aiuto è di aiutare l’altro in difficoltà a superarla, attraverso ausili più o meno
concreti. Un rapporto impari, in cui vi è un soggetto in posizione “passiva”, che chiede, e un
soggetto, l’istituzione, in una posizione di risposta “attiva”, di distribuzione delle risorse. Queste
posizioni restituiscono ruoli e potere, e, seppur con le migliori intenzioni di non far pesare
l’asimmetria, questo è. Ma è naturale obiettivo di qualsiasi intervento assistenziale quello di far
“uscire” il soggetto in difficoltà dalla difficoltà, affinché recuperi le proprie potenzialità e dignità
sociali. Quando la difficoltà è irrisolvibile, come nella disabilità, cosa accade? Il rischio è che
l’asimmetria della relazione permanga e che quindi venga a perdersi il senso dell’intervento
8
A cura della dott.ssa Graziella LUCCHINI, psicologa e psicoterapeuta, esperta del mondo della disabilità adulta ed
incaricata sino al dicembre 2009 dal Comune di Garbagnate Milanese per la facilitazione del locale gruppo di automutuo-aiuto di familiari di disabili.
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assistenziale. In questa prospettiva l’intervento assistenziale non sarebbe più, come è la sua natura,
un intervento di supporto, ma si configurerebbe come qualcosa che sostituisce.
Noi che lavoriamo da sempre nei servizi sociali sappiamo che ciò è impossibile. L’intervento
assistenziale non dà tranquillità economica a chi è in stato di indigenza, non restituisce la sanità
mentale a chi non la possiede, non guarisce la disabilità. Ovvio, ma non troppo, mi ripeto, e lo
leggiamo nelle insistenze disperate di molte famiglie che si rivolgono ai servizi.
L’intervento
È così che abbiamo deciso di aiutare queste famiglie a lavorare sul loro bisogno di empowerment
offrendo loro uno strumento adeguato, il gruppo di auto mutuo aiuto. Il gruppo di self-help è
storicamente uno strumento sociale di attivazione di risorse e, seppur con qualche accorgimento che
incontrasse le difficoltà iniziali nella comprensione dei loro problemi, nel Piano di Zona ne sono
stati attivati tre, di cui solo uno ha completato il ciclo e ha raggiunto l’obiettivo di restituire ai
partecipanti la pari dignità nella ricerca di soluzioni ai loro problemi. E gli altri due gruppi? Si sono
avviluppati sul senso dell’obiettivo, vale a dire che i diversi partecipanti al progetto, diversi dai
partecipanti al gruppo, e cioè le istituzioni o coloro che stavano intorno alla problematica, non
hanno compreso e/o hanno ritenuto troppo complessa e delicata l’operazione sociale e assistenziale
provocata dallo strumento del self-help. Perché, nei fatti, è accaduto che l’attivazione del gruppo di
auto-mutuo-aiuto ha necessariamente richiesto la partecipazione attiva di tutti gli interlocutori
sociali, dalle istituzioni al volontariato, affinché promuovessero e sostenessero effettivamente, e non
solo nelle intenzioni, un vero e proprio cambiamento di prospettiva nell’intervento assistenziale.
Il cambiamento è, o dovrebbe essere, la nuova considerazione dell’assistito, che passerebbe dal
ruolo passivo di assistito, appunto, a quello di partner attivo e alla pari nel processo di aiuto a se
stesso.
Diciamocela tutta, non è una novità, sono anni, non molti a dire il vero, che sempre più operatori
sociali parlano della necessità di questo mutamento di prospettiva. I dati e i fatti dicono che il
sistema assistenziale, così come è storicamente e paradigmaticamente concepito, sarà sostenibile
ancora per poco, e un cambiamento si impone. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo le difficoltà
operative; chi lavora nei servizi sa quanto sia difficile cambiare prassi e procedure. E fors’anche
resistenze psicologiche, quelle che si affacciano ad ognuno di noi quando non sa che cosa va a
prospettarsi di nuovo. E per chi fa già fatica a sostenere un presente fatto di urgenze, parlare di
prospettive di cambiamento è già di per sé una fatica.
È stato faticoso anche per noi, ma il risultato è stato impagabile. I partecipanti al gruppo, dapprima
un po’ stupiti della posizione di partenariato a loro offerta, increduli e, di fatto, non capaci di
gestirla per assenza di proposte precedenti e di esercizio su come fare, hanno timidamente tentato i
primi passi d’autonomia, sempre con un grande bisogno di rassicurazione, ma poi, nonostante le
titubanze, hanno deciso di prendere il posto. E lì ora sono, pronti a partecipare al processo del
proprio cambiamento, in una relazione alla pari che restituisca loro la stima nelle loro capacità che
essi meritano.
Il senso
Ritorniamo al primo punto, quello sulla qualità intrinseca di questo intervento assistenziale: lo
strumento utilizzato, il gruppo di self-help con conduttore e co-conduttore, testimone per
l’istituzione dell’esperienza, è stato un gruppo che ha avuto, senza che ce ne rendessimo
inizialmente conto, molte funzioni. È stato sicuramente un gruppo di lavoro, da parte di entrambe le
parti, sia per i partecipanti, che si sono impegnati nel pensare alle tematiche che loro stessi hanno
proposto come temi di riflessione e di discussione nel gruppo ad ogni incontro, sia per la coppia di
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conduzione, che si è ritrovata a tematizzare e rielaborare prima e dopo ogni incontro sia i contenuti
che le dinamiche, che ha trovato il senso dell’intervento e lo ha raccordato con un più ampio senso
dell’intervento sociale all’interno della propria istituzione. È stato sicuramente un gruppo di studio e
sperimentazione, in cui la coppia di conduzione, pur avendo ben presente gli obiettivi e anche gli
strumenti, si è data lo spazio mentale di accogliere le nuove sollecitazioni e suggerimenti che
incontro per incontro il gruppo generava. Lo è stato anche per i partecipanti, che hanno dato la loro
disponibilità e impegno a fare ricerca su nuove forme di intervento con la disabilità, e anche, seppur
con trepidazione, a sperimentare un progetto sulla residenzialità da loro stessi partorito. Ancorché il
gruppo è stato, in senso lato, ricreativo e religioso. Ricreativo perché ha permesso, nella libertà e
rispetto degli scambi tra le persone, di poter raccontare non solo le tragedie, vere e proprie, della
loro vita di famigliari di disabili, ma anche di ritrovarvi un lato comico, in una dimensione di
equilibrio con la realtà. Religioso perché era sullo sfondo, ma lo tappezzava tutto, che ognuno di noi
era lì perché per lui era importante aiutare qualcuno in difficoltà, laddove la relazione d’aiuto
diviene un valore che appartiene ad entrambi gli universi, quello laico e quello religioso. E infine è
stato anche un gruppo terapeutico, da dire un po’ sottovoce per non spaventare coloro che vedono
nella psicologia un non so che di inquietante, ma così è stato. Per i partecipanti perché si sono
portati a casa nuove elaborazioni sul senso della loro fatica, oltre a nuove significazioni di quel
universo misterioso che sono i loro figli. Per i conduttori, perché hanno intravisto nuovi orizzonti di
senso del proprio operare, molto spesso depresso e rinchiuso in un quotidiano, appunto, senza
senso.
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Tra compensi e risarcimenti9
Parlerò di un equilibrio, quello che abbiamo trovato all’inizio della nostra esperienza, e di un nuovo
equilibrio, quello che abbiamo raggiunto al termine della stessa. La storia delle relazioni è sempre
una storia di equilibri più o meno precari che, di volta in volta, nel bene e nel male, si modificano.
La descrizione e le riflessioni che seguiranno sono motivate dalla straordinarietà e dalla originalità
che, ai nostri occhi, ha assunto il nuovo equilibrio raggiunto.
Abbiamo avuto la percezione di aver partecipato a qualcosa di stra-ordinario rispetto al lavoro
quotidiano. Tuttavia, questa straordinarietà, per quanto incontrovertibilmente presente ai nostri
occhi, nella sua etereità è sembrata, in alcuni suoi aspetti, sfuggente. La difficoltà ad afferrarla ha
destato curiosità e desidero di investigarla, svelarla e condividerla.
La comporrò di seguito in una sorta di puzzle, cercando di descriverne le tessere.
Dal punto di vista degli operatori
È interessante, nel pensare al concetto di lavoro ed al suo significato, considerare gli aspetti
fondamentali che lo compongono, ossia la componente prescrittiva e quella discrezionale10. La parte
prescrittiva del lavoro è quella che si ripete tendenzialmente uguale a se stessa, quella discrezionale
ne rappresenta, invece, gli aspetti più creativi. Più ampia è quest’ultima, nella quale il tempo tra
l’azione ed i risultati che essa produce è medio-lungo, più ampia è la componente passionale ad
entrare in gioco. Certamente nei nostri progetti l’aspetto discrezionale del lavoro era ed è
particolarmente ampio. Quindi, questo aspetto è un primo elemento presente e significativo e,
benché non esaustivo, un primo dato di straordinarietà.
I membri del gruppo di auto-mutuo-aiuto, alla fine del percorso programmato, hanno fatto ai
conduttori dei doni, dei piccoli regali. Questo fatto rappresenta bene un'altro elemento della
straordinarietà, ossia la qualità della relazione che si è instaurata. La dimensione del dono è
rappresentativa di qualcosa di “extra” rispetto ai ruoli professionali in senso canonico. La
relazionalità è un valore aggiunto. Lo è di per sé anche, o forse proprio, a prescindere da obiettivi di
medio-breve termine legati agli incontri. La cosa parrebbe ovvia, eppure, forse, non lo è. La
metodologia, le reti, i sistemi sono importanti, ma, se alla base non c’è la curiosità di incontrare
l’altro per quello che è, o per quello che vuole mostrare di sé, il tutto non sta in piedi.
“A differenza del dialogo “dialettico” che mira a sconfiggere l’avversario e a sconfiggerlo sul piano argomentativo,
stabilendo le ragioni e le contraddizioni, il dialogo che infilza il logos (il dialogo “diagonale”) è di importanza decisiva
per conoscermi meglio.”11
Dunque, in un setting “pulito”, il dialogo è prevalentemente dialettico e conduce ad una mediazione
tra esigenze conservative e istanze di cambiamento delle anime coinvolte (di tutte le anime
coinvolte) nel gioco relazionale.
In un setting “sporco”, in cui la palla è sostanzialmente libera di andare dove vuole e, dunque, anche
non necessariamente dove è prevedibile che vada, il dialogo è prevalentemente diagonale. Si può
parlare, dunque, più che di mediazione di creazione. La qual cosa è un po’ rischiosa ma, certamente,
straordinaria.
9
A cura dell’assistente sociale Riccardo Morelli, Responsabile del Servizio Disabili del Comune di Garbagnate
Milanese.
10
E. Jaques, I processi mentali nel lavoro, in: W. Brown e E. Jaques, Nuovi orizzonti per la direzione aziendale. Torino,
ISPER, 1967.
11
P. Barone, Spensierarsi – Raimon Panikkar e la macchina per cinguettare, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 2007,
p. 26
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Il rischio cui l’operatore si rende disponibile corrisponde al perdersi nell’incontro, cioè ad una
perdita di potere o ad una sua redistribuzione. Parlando di potere il riferimento non è tanto, o non
solo, a quello che l’operatore esercita sull’altro, ma anche a quello che esercita su se stesso
attraverso il potere sulla relazione, l’asimmetria nella relazione d’aiuto. L’incontro in cui ci si perde
è necessariamente un’occasione per tutti coloro che sono coinvolti. Quando non si approfitta di
quest’occasione è perché a vincere è la difesa di parti di sé che si vogliono conservare e che
esercitano, quindi, un potere su quelle che sono disponibili a cambiare.
Tuttavia legare il salto di qualità della relazione di aiuto alla condivisione/redistribuzione del potere
con gli utenti potrebbe essere una semplificazione.
Esercitare più o meno potere permette di avere più o meno controllo (o di illudersi di averne) sugli
esiti della relazione, ma la questione autentica, che include anche il controllo, è che, in realtà, quello
che cerchiamo nella relazione è la sicurezza.
Nel relazionarci all’altro vogliamo essere il più sicuri possibile che le cose vadano in un certo modo
o non vadano in un altro.
Intorno alla questione sicurezza si fa un gran parlare, soprattutto ultimamente. Lo si fa dando per
scontato che la parola sia definitoria di per sé, che contenga significati pressoché univoci.
In realtà “sicurezza” è una parola dai risvolti ambigui. La parola “sicuro” deriva da “se” (in senso
disgiuntivo) e “cura”. Cioè in alternativa alla cura. C’è una interessante etimologia di cura per la
quale il termine discenderebbe da “quia cor urat”12, ossia che “stimola il cuore e lo consuma”,
rimandando ad un sentimento perlomeno di inquietudine.
La sicurezza, quindi, come distanziamento dalla cura, dalla passione. Pensando ad una delle
condizioni meno sicure del mondo viene in mente l’innamoramento, nel quale veramente il cuore si
consuma.
Perché? Perché questo bisogno di sicurezza, intesa in questa accezione, anche in noi operatori?
Compito dell’Io è l’autoconservazione, compito che è assolto, per quel che riguarda l’esterno, imparando a conoscere
gli stimoli, accumulando (nella memoria) esperienze su di essi, evitando (con la fuga) gli stimoli di intensità eccessiva e
andando incontro (con l’adattamento) a quelli di intensità moderata, apprendendo infine a modificare (con l’attività) in
modo adeguato ed in vista di un proprio vantaggio il mondo esterno; per quel che riguarda l’interno, nei confronti
dell’Es, il compito è assolto acquistando il controllo sulle richieste pulsionali, decidendo se ad esse può essere dato
soddisfacimento, rinviando tale soddisfacimento a tempi e circostanze migliori del mondo esterno, o magari reprimendo
del tutto gli eccitamenti di queste pulsioni. Nella sua attività l’Io è guidato dalla considerazione delle tensioni prodotte
dagli stimoli che in lui sono presenti o in lui sono state introdotte. L’esaltarsi di queste tensioni è generalmente avvertito
come dispiacere e il loro ridursi come piacere… L’Io aspira al piacere e si sforza di eludere il dispiacere.13
Ciò che è veramente straordinario in questa nostra esperienza di operatori è che in essa abbiamo
rischiato, abbandonando in modo importante il nostro bisogno di sicurezza e abbiamo accettato di
esplorare il mondo del prendersi cura.
L’incontro con la diversità dell’altro ci espone ad ascoltare ciò che essa produce in noi. Ogni
incontro è, in potenza, motivo di contatto con ciò che noi sentiamo, magari con qualcosa che non
avevamo ancora sentito sino a quel momento. Ci permette di conoscere, attraverso l’altro, parti di
noi spesso celate. Guardandole, ascoltandole, gustandole, ne prendiamo le distanze e le conosciamo
un po’ di più. È un percorso di crescita, di autonomia. Un percorso di senso.
12
G. Devoto, Dizionario Etimologico – Avviamento Alla Etimologia Italiana, Firenze, Casa Editrice Felice Le Monnier,
1968.
13
S. Freud, Compendio di Psicanalisi, in Opere, Vol. 11, p. 573, Ed. Boringhieri, Torino, 1967-1980
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Proposta per un punto di vista dei famigliari
La stabilizzazione di una o più relazioni in un equilibrio prevalente e sostanzialmente condiviso
riguarda sempre tutte le parti coinvolte.
Di seguito descriverò un possibile punto di partenza, il contenuto sostanziale, della posizione
securitaria dei disabili e delle loro famiglie e come funzioni il meccanismo che pone in relazione
tale posizione alla loro presenza nella comunità.
Andando al sodo, quello su cui il rapporto con i servizi salta è il denaro. Il denaro è spesso
l’elemento scatenante la conflittualità. Ci sono famiglie che vanno d’amore e d’accordo con i
servizi per anni oppure, viceversa, che sono difficilmente contattabili e che, di fronte a richieste di
compartecipazione al costo dei servizi, anche di entità assai modesta, si attivano sfoderando
l’aggressività di una tigre birmana. Perché?
Il fatto è che il denaro è così parte della nostra vita che lo abbiamo assunto ad elemento costitutivo
di essa, dimenticandoci che è un simbolo: ciò che rappresenta è la scambiabilità di qualcosa con
qualcos’altro.
“Tutto ciò che scambiamo deve essere confrontabile. Questa necessità ha portato all’invenzione del denaro, che è il
mezzo per dare valore ad ogni cosa, per esempio a quante scarpe equivalga tanto cibo. Senza un mezzo di paragone non
può esistere scambio”14
C’è da rimanere stupiti dalle risorse che le famiglie dei disabili hanno messo in campo nel corso
della loro storia. Racconti commoventi di padri e madri consumati da veglie ed attese in ospedale,
da notti insonni sempre sull’orlo della crisi del figlio/a. Situazioni così al limite che accorgersi di
avere di fronte uomini e donne tutto sommato ancora sani di mente pare un miracolo.
Pian piano, poi, le storie ed i bisogni emergono dal riservato ambito familiare e ci si rivolge ai
servizi spesso carichi di sacrosanto risentimento e solitudine. Però si va avanti cercando e trovando
un equilibrio. Abbiamo, così, esempi di decennali inserimenti in centri diurni che, per amore o
necessità, resistono inossidabili al trascorrere dei lustri.
L’equilibrio regge poggiandosi sulla sicurezza della propria insostituibilità. Dopo la sofferenza
lacerante derivante dall’aver a che fare con la disabilità del proprio figlio/a, la stabilità guadagnata
da padri e madri eroici può resistere solo se confermata ancora e ancora, a qualsiasi prezzo. Diviene
quasi un tiro alla fune con i servizi e la comunità in senso lato. Ogni millimetro ceduto, ogni
bisogno rivelato deve essere fatto pagare a chi se ne prende carico, altrimenti significherebbe
mettere a repentaglio le sicurezze acquisite con così tanta sofferenza. La propria insostituibilità.
Il processo di pubblicizzazione del bisogno avviene in modo singolare. È come se, nel passaggio
privato/familiare-pubblico si attraversasse una sorta di diaframma steso tra la famiglia e la comunità
e posto lì con l’obiettivo di reificare il bisogno, di renderlo oggettivo, impersonale, prestazionabile e
di svuotarlo il più possibile dai contenuti relazionali. L’imperativo sembra essere quello di mettere
in sicurezza il bisogno cercando di prendersene cura il meno possibile.
Compensi
Quale modo migliore se non farlo passare attraverso una valutazione economica. In fondo, quando i
servizi chiedono la compartecipazione al costo alle famiglie, non fanno forse una richiesta leggibile
come una stima del valore delle cure che prima venivano garantite dalla famiglia? E come possiamo
pensare che queste famiglie accettino di veder stimato il loro amore, la loro cura?
Si tratta di una strada sicura, ma perdente, sulla quale sia le famiglie sia i servizi desiderano
incamminarsi per vedere rinforzata, attraverso il conflitto, la propria insostituibilità.
14
Aristotele, Libro V Dell’etica
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Famiglie e servizi si confrontano su un piano sul quale non potranno mai incontrarsi, sapendolo,
con lucidità variabile, entrambi. Si tratta di meccanismi di compensazione. Vi sono due pesi che
devono trovare un equilibrio: da un lato, quello delle famiglie, vi è la sofferenza legata alla scoperta
della disabilità ed alla costruzione di un senso intorno ad essa, dall’altro, quello dei servizi, la paura
del confronto con la disabilità e il tentativo di tenerla lontana, segregandola in un contesto emotivo
ben delimitato e controllabile, quello familiare. L’equilibrio si regge su una distanza di sicurezza,
che ha l’effetto collaterale di sabotare la relazione.
Risarcimenti: ritornare nella relazione
“In una mattina d’estate un sartino stava chino sul suo tavolo accosto alla finestra e a cuor contento cuciva di lena. […]
Intanto l’odore della marmellata dolce era salito su per il muro, sede di moltissime mosche che ne furono attirate e a
frotte andarono a posarcisi. “Ehi, voi chi vi ha invitate?” chiese il sartino e scacciò quelle ospiti moleste. Ma era fiato
sprecato, ad andarsene non ci pensavano nemmeno, anzi, la compagnia si faceva sempre più numerosa. Alla fine il
sartino, essendogli proprio saltata, come si suol dire, la mosca al naso, mise la mano nella cassetta degli avanzi e
munitosi di un pannicello, “Ora vi aggiusto io!” gridò menando un colpo secco. Quando ritirò il panno fece la conta,
non meno di sette giacevano lì morte stecchite. “Ecco che tipo sei” disse stupito lui stesso della sua bravura “questo
bisogna farlo sapere a tutta la città.” E in fretta e furia il sartino si tagliò una cintura su cui ricamò a grosse lettere:
“Sette in un colpo solo!”. “Ma che dico città” disse poi “tutto il mondo ha da saperlo!” e dalla contentezza il cuore gli
cantava in petto.
Si legò la cintura alla vita e persuaso che per una bravura come la sua la bottega fosse luogo ristretto, decise di andare
alla ventura.”15
Questo piccolo sartino, che si lascia meravigliare da sé e dal mondo, può essere paradigmatico
dell’alternativa al calduccio della sicurezza dei compensi.
In questa immagine che i fratelli Grimm ci regalano è racchiusa la semplicità e l’ovvietà di una
strada diversa, che passa attraverso la possibilità ed il rischio di ricucire, proprio come fa un sarto, i
lembi di uno strappo, nel nostro caso quello originato dall’angoscia prodotta dall’incontro con la
diversità di cui è portatrice la disabilità.
Il sarto ricuce. Risarcire, deriva da re- in senso iterativo e sarcire, riparare.16 Dunque,
originariamente ha un significato diverso dal suo uso corrente e che va al di là del restituire il mal
tolto, rimediare al danno.
Quello che nella storia del nostro sartino colpisce è che un fatto banale, uccidere sette mosche in un
colpo solo, diviene propulsore per spingersi alla scoperta del mondo. Tuttavia, certamente quel
sartino era pronto a cogliere dalla realtà il primo segno utile ad attivarsi e a partire.
Credo sia tutto qui: riconoscersi il desiderio di esplorare.
È vero che la spinta ad errare per il mondo in preda alla voglia di esplorare si nutre, nella storia del
sartino, di un equivoco, quello sulla forza. Il protagonista fa credere di possedere una forza fuori dal
comune, per questo viene temuto e rispettato. Però tant’è. Quello che conta ed ha un potere
trasformativo, di cambiamento, su di lui e, di conseguenza, sul mondo che lo circonda, è il suo
sguardo su di sé e sugli altri.
15
Grimm, Fiabe, Il sartino valente, pp. 163-164, Edizioni BUR, Milano, 2002
G. Devoto, Dizionario Etimologico – Avviamento Alla Etimologia Italiana, Firenze, Casa Editrice Felice Le
Monnier, 1968.
16
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Brevi note meta-metodologiche
Alla fine di queste riflessioni rimane un velo di inquietudine poiché il servizio sociale ha finalità
operative, non speculative17 e, fermandoci alle considerazioni sin qui espresse, pareva di uscire da
questo mandato professionale.
Ecco, quindi, alcune brevi considerazioni relative alle ricadute operative che l’esperienza di cui
abbiamo parlato potrebbe avere.
In relazione al tema della disabilità adulta (ma potenzialmente a tutte le problematiche nel campo
operativo dei servizi sociali) è fondamentale, per poter ripetere e far fruttare la gustosa esperienza
da noi vissuta, tenere in considerazione la centralità di un approccio alla relazione disarmato, che
rispecchi, cioè, l’incontro e l’ingresso nella storia dell’altro all’insegna della curiosità e della
meraviglia. Bisogna procedere come se fossimo degli stranieri, ospiti nella vita di chi incontriamo:
"L'uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la sua
propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero" (io che
sono un bulgaro che abita in Francia, prendo a prestito questa citazione da Edward Saìd, palestinese che vive negli Stati
Uniti, il quale l'aveva trovata, a sua volta, in Erich Auerbach, tedesco esule in Turchia)". 18
Se si vogliono abbandonare le “trappole compensative”, questa premessa è irrinunciabile e primaria
rispetto a qualsiasi approccio, per quanto metodologicamente corretto, all’alterità. Una volta
raggiunta una significativa disponibilità da parte di tutte le parti in causa ad entrare autenticamente
in relazione, la metodologia del servizio sociale è imprescindibile.
Dal punto di vista operativo, dunque, il passaggio chiave che, come assistente sociale, va
sottolineato è la necessità di cercare occasioni di incontro non connotate da “domande forti”. Al
contrario, passare attraverso momenti in cui è il tema della disabilità in modo aperto ad essere
affrontato diviene fondamentale per la costruzione di un progetto di vita fortemente condiviso.
17
18
Dal Pra Ponticelli M., Lineamenti di Servizio Sociale. Astrolabio Ubaldini, Roma, 1987
Todorov T., La Conquista dell’America. Il problema dell’altro. Einaudi, Torino, 1997
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Le radici e le ali: un’esperienza e un’opportunità di valorizzazione delle risorse
evolutive della famiglia19
“Noi pensiamo per storie perché siamo costituiti da storie, immersi in storie, fatti di storie” (Gregory Bateson).
Queste righe trattano di un’esperienza iniziata qualche anno fa, quando a Garbagnate Milanese si
cominciò a riflettere sulla residenzialità delle persone con disabilità adulte. Potrebbe iniziare con il
classico “C’era una volta…” perché l’esperienza si è sedimentata, ha dato dei frutti ed è diventata
“storia”.
In particolare, attraverso lo sguardo psicopedagogico, cercherò di riprendere la parte del percorso
legato alla nascita della Comunità Alloggio per disabili “Le S.c.i.e.” che ha visto l’incontro tra gli
operatori del servizio disabili e le famiglie che avevano esplicitato il desiderio di partecipare a
colloqui mirati sul tema del Progetto di vita del loro familiare con disabilità.
A livello simbolico una nascita è sempre occasione di cambiamento, riorganizzazione di equilibri,
di nuova costruzione e riassetto. Questo, in una logica di “ciclo di vita”, implica che il cambiamento
relativo ad un membro della famiglia provochi una serie di ripercussioni anche sul resto del sistema.
Un servizio residenziale, quale è la comunità alloggio, quindi, pone di fronte alla persona disabile e
alla sua famiglia una grande sfida, che è quella della crescita e dell’autonomia.
Questo passaggio, dall’infanzia all’adolescenza e all’adultità è un passaggio importante e “critico”
per ogni persona ed ogni famiglia. Non è un passaggio semplice quando l’adolescente deve
“lasciare” il bambino per fare posto all'adulto quale soggetto autonomo, indipendente, che si avvia a
percorrere la sua strada per crearsi un suo mondo esistenziale al di fuori della famiglia di origine. In
questo “status” si vive spesso la paura di affrontare un mondo nuovo e di venire “abbandonati” dal
“mondo” in cui siamo abituati a vivere. Tutto questo crea ansia definita “ansia di separazione”,
perché si lascia un mondo affettivo conosciuto e sicuro.
Attraversare questo guado, però, porta alla conquista di nuovi orizzonti e, in fondo, porta alla
realizzazione di un progetto che è iniziato con la nascita del bambino, portando l’individuo a
crescere fino a realizzarsi nella sua interezza.
Nella storia che abbiamo costruito e che stiamo ancora co-costruendo insieme ai diversi attori
coinvolti, gli interrogativi e i dubbi non mancavano ma, come in tutte le storie che si rispettino, era
molta anche la curiosità e la voglia di attraversarli.
In tutto questo la famiglia che abbiamo incontrato è stata molto di più che un contenitore, ma
piuttosto, una struttura che connette caratterizzata dalla presenza di nessi e legami che uniscono
differenti aspetti della realtà e diversi individui appartenenti ad uno stesso contesto.
In questo senso la famiglia si può intendere anche come una complessa articolazione di livelli che
comprende l’individuo, la relazione e la comunicazione nel qui ed ora, ma anche la sua storia e i
“miti” familiari.
“L’approccio trigenerazionale si delinea come uno dei possibili orientamenti, all’interno dell’ottica sistemicorelazionale, che tiene conto della dimensione storica ed evolutiva di una famiglia, attraverso l’osservazione di una rete
19
A cura della dott.ssa Monica Simionato, psicologa e psicoterapeuta, per il Comune di Garbagnate è Responsabile del
Centro Diurno Disabili “Archimede”.
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relazionale, non più esaminata secondo una dimensione orizzontale, ma elaborata su tre dimensioni, lungo due assi
orizzontali ed uno verticale” (Chianura e Iaconella).20
In sostanza, questo approccio permette di identificare la trasmissione dei modelli di relazione, degli
stili di funzionamento e dei miti familiari da una generazione all’altra.
L’ipotesi che si voleva esplorare a livello qualitativo, era quella di verificare se lo stile, il modello
di separazione che la famiglia ha sperimentato e assunto come riferimento all’interno della propria
storia familiare fosse in qualche modo connesso all’approccio verso la separazione dei figli e, in
particolare, del figlio disabile.
Il tutto con la consapevolezza che si stava lavorando con un campione numericamente ridotto, ma
qualitativamente complesso e ricco. E senza dimenticare che la finalità ultima era quella di
valorizzare, dando loro nuovo slancio, le risorse evolutive presenti nel sistema-famiglia al fine di
gettare le basi del Progetto di Vita della persona con disabilità.
Pragmaticamente, all’interno delle conversazioni con le famiglie, abbiamo introdotto alcune
domande solitamente “fuori copione” che ci aiutassero ad esplorare e a far riflettere relativamente
alla dimensione psicologica e culturale legata sia alle radici che all’emancipazione e all’autonomia
dalla famiglia d’origine.
Esempi di domande:
-
Domanda 1 (ai care-givers): “A quanti anni siete andati a vivere da soli? Che ricordi avete di quel periodo?”
Domanda 2 (alla coppia di genitori): “ Come vi siete conosciuti?”
Domanda 3 (alla coppia di genitori): “I fratelli/sorelle di vostro figlio/a con disabilità vivono con voi oppure
vivono fuori casa?”
I contenuti emersi hanno permesso di tematizzare insieme ai familiari alcuni aspetti fondamentali
del legame familiare collegati alla nostra ipotesi: le relazioni intergenerazionali e la storia familiare,
l’esperienza e il progetto.
La metodologia utilizzata è sempre stata attenta a considerare i genitori quali soggetti attivi con
l’obiettivo di sostenerne e potenziarne le competenze e le risorse educative, per valorizzare e
incrementare i processi generativi ed evolutivi.
Ciò che è emerso dalle risposte è stata una fitta trama di aspettative, valori condivisi, qualità che
definirei “morali” e che rimandano proprio al modello familiare trigenerazionale:
“Sebbene il termine (lealtà) derivi etimologicamente dal francese “legge”, la sua reale natura sta nella invisibile trama
di aspettative di gruppo piuttosto che in una legge esplicita. Le famiglie hanno le proprie norme, sotto forma di
aspettative condivise e non scritte. Ciascun membro della famiglia è costantemente soggetto agli schemi variabili di tali
aspettative cui egli si attiene o meno” (Boszormenyi-Nagy e Spark). 21
Ad esempio, molti familiari (care-givers di persone con disabilità) hanno ri-condiviso durante gli
incontri il proprio vissuto di sradicamento dai propri paesi di origine avvenuto “a causa di forza
maggiore”, ovvero per la ricerca di condizioni socio-economiche migliori. Il tutto accompagnato da
grande coinvolgimento emotivo, talvolta da sensi di colpa, vissuti di abbandono e tradimento, ma
anche dall’orgoglio e la soddisfazione di “avercela fatta”.
20
Chianura L. e Iacoella S., “Il Genogramma: teatro della storia familiare” in “Informazione Psicoterapia Conselling e
Fenomenologia” N° 2, Settembre 2003 ed. IGF
21
Boszormenyi-Nagy I. e Spark M.G., “Le lealtà invisibili” ed. Astrolabio (1988)
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E’ emersa, quindi, una forte discontinuità rispetto alla storia della famiglia d’origine dei genitori
delle persone con disabilità: i genitori hanno “dovuto” abbandonare molto precocemente (si entrava
nel mondo del lavoro molto presto) le loro radici affettive e culturali per cercare un lavoro
nell’hinterland di Milano.
Così chi è uscito di casa “emigrando” al nord (o comunque dalla campagna alla città), era molto
giovane. Per alcuni padri tale momento si era verificato dopo il servizio militare di leva.
E’ interessante anche il dato che emerge dalla domanda sui fratelli delle persone con disabilità, per
cui i fratelli che escono di casa lo fanno per costruire un proprio nucleo familiare in coppia e, in
linea con un dato generale, almeno in Italia, in un età certamente non precoce. In nessun caso di
quelli incontrati sono risultati percorsi di uscita dalla famiglia di origine per periodi di studio o
apprendistato.
Un ulteriore elemento di riflessione condiviso è stato quanto ci fosse un collegamento tra la fatica
ad “uscire dal nido” dei figli e l’esperienza generalmente positiva, ma anche traumatica, descritta
dai genitori.
Ciò che lega le tre generazioni sembra essere un meccanismo di correzione che parte da una
situazione di “mito familiare” legato ad un modello “altro” (descritto come più difficile, pieno di
ostacoli, ma meno complesso e più semplice) a quello più “moderno e complesso” in cui i genitori
che hanno superato grandi difficoltà cercano di evitare il più possibile difficoltà e “traumi” ai figli.
Forse lo stile educativo di separazione e il modello di autonomia possibile che ne può scaturire non
può che essere condizionato dal “modello-sradicamento” che proprio la generazione dei genitori
delle persone disabili adulte che abbiamo incontrato ha vissuto. Un modello che, probabilmente,
aggiunge un ulteriore livello di preoccupazione a quella “fisiologica”, intrinseca alla separazione e a
quella connessa alla specifica difficoltà legata alla disabilità.
In tutto questo parlare di presente e di passato, le Radici, abbiamo evocato un “terzo” che spesso è
rimasto sullo sfondo e ai margini della nostra storia, ovvero il futuro: le Ali.
La dimensione legata all’autonomia dei propri figli crea sempre ansie e paure importanti (e a
maggior ragione in situazioni in cui è presente la disabilità), ma è dal loro fronteggiamento che si
può accompagnare la crescita dei figli.
In quest’ottica la “sfida” che si genera è fondamentalmente pedagogica e riguarda la possibilità di
proseguire a costruire il percorso di crescita a partire dall’esperienza del sostegno, della protezione
e della cura sperimentata in famiglia. La famosa “base sicura” descritta da Bowlby22 (le Radici) può
allora essere la condizione che permette di sperimentare la dimensione dell’autonomia (le Ali).
Anche con le persone disabili.
Jung chiamava questo percorso che permette ad una persona di avviarsi verso il suo completamento
come individuo “la realizzazione della propria anima”.23
22
23
Bowlby J., “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento” ed. Raffaello Cortina (1996)
Jung, C.G., “Opere”, ed. Bollati Boringhieri (1999)
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Cornici metodologiche
Ad esperienza vissuta, ritengo fondamentale, in percorsi complessi come quelli legati ai Progetti di
vita, che gli operatori si interroghino attraverso la lente dei loro modelli di riferimento, cornici
metodologiche da spendere durante le diverse traversate. Modelli sufficientemente flessibili ma allo
stesso tempo in grado di orientare, co-costruire e, talvolta, ri-costruire i significati e il senso del
percorso.
In questa avventura, che ho sentito “fuori dall’ordinario”, il rapporto con i modelli e le cornici
metodologiche è stato molto simile ad una danza che di volta in volta tendeva ad armonizzare
tempi, ritmi e passi differenti. Sperimentando già nelle conversazioni quell’affidarsi reciproco
necessario alla realizzazione del Progetto di vita con la persona disabile.
La metafora della danza restituisce l’importanza di fare spazio anche ad un pensiero e un sentire
legato all’intuizione, alla reciprocità, all’emozione. E’ da questo humus che nasce la creatività.
In particolare, durante il percorso, ho utilizzato due cornici metodologiche. La prima è l’approccio
sistemico e relazionale che mi accompagna da anni nell’attraversare le differenti trame del mio
lavoro. Questo approccio dà ampio spazio alla possibilità di cambiamento dei sistemi. Attraverso
livelli differenti di consapevolezza e il confronto con elementi nuovi è possibile, infatti, regolare i
comportamenti in maniera creativa e non predeterminata. E’ sempre per me affascinante, seppur
faticoso, osservare ed accompagnare i sistemi-umani alla ricerca dell’equilibrio tra due opposti
apparenti: la tendenza alla conservazione e la possibilità legata al cambiamento. In situazioni a
rischio di cronicità è davvero utile.
Il secondo è il più recente approccio narrativo che si è rivelato un po’ alla volta in crescendo di
consapevolezza. Credo sia stato un compagno di viaggio utile e prezioso nel permettere ai
partecipanti una sufficiente “libertà di movimento”.
Se vogliamo, il termine “progetto” evoca anche una dimensione narrativa: c’è un punto di partenza,
un percorso da attraversare, un punto di arrivo, una nuova partenza. Utilizzare un approccio
narrativo permette di non rimanere intrappolati nel tecnicismo, ma di fare buon uso della tecnica
inserendola in una cornice simbolica e quindi più evocativa. Come, in questo caso, grazie
all’utilizzo della cornice narrativa.
“Le storie sono un balsamo, sono disseminate di istruzioni che ci guidano nella complessità della vita. […] Le storie
mettono in moto la vita interiore, […] ingrassano carrucole o pulegge, stimolano l'adrenalina, ci mostrano la via
d'uscita in basso o in alto, e aprono a noi grandi finestre in muri prima ciechi, aperture che ci conducono nella terra
dei sogni, all'amore e alla conoscenza”.24
Gli autori:
Riccardo Morelli,
assistente sociale Comune di Garbagnate Milanese
Dott.ssa Graziella Lucchini, Psicologa e Psicoterapeuta, esperta disabilità adulta
Dott.ssa Monica Simionato, Psicologa e Psicoterapeuta, responsabile CDD Archimede di Garbagnate M.se
Contatti:
[email protected]
[email protected]
[email protected]
24
Pinkola Estés C., “Donne che corrono coi lupi”, ed. Frassinelli (2002) in
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