Angelo Nanni, Il diavolo e gli occhi (2004)
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Angelo Nanni, Il diavolo e gli occhi (2004)
Angelo Nanni, Il diavolo e gli occhi (2004) La ruga del tempo ti aveva scritto in faccia un motto: Il passo del passato non calpesta mai laddove fiorisce il loto il nepente non usa come antidoto nel Lete non si sporge quando ha sete. Eravamo dalle tue parti, stagione da mietere, ma il vento iemale inveiva ai fianchi della ragione. Mi chiedevi che cosa? Di che tremi? E io, muto, soltanto cercavo di fingermi nella finzione di un sonno, anche in un incubo possibilmente, un incubo passa sempre quando passa il sonno. Ma purtroppo tutto era vero, mi costava caro ammetterlo dallo stato di veglia che mai avevo lasciato. Il sangue cominciava a raggelare, lo sentivo, capivo di che cosa si trattava: già un’altra volta avevo dovuto decifrare quel teofanico prodigio alfabetico, l’aforisma di Mnemosine, il suo diritto comandato – ecco che cosa si rifaceva. Ebbene, dall’ora in cui ebbi a scoprire per la prima volta la divinazione, come per un lutto, i miei occhi portano ancora il velo; ma non uno normale, di quelli che si usano per i morti, una schermata allucinata la mia, un sipario da fantasmagoria settecentesca che ancora si apre e si chiude alla velocità del secondo. Un manicomio di diottrie impazzite, questo erano diventati i miei occhi e questo ridiventavano, ora, che tenevano in camera quanti poterono gioirti prima di me, anche se per la brevità di un bacio, tutti insieme raccolti come ad un sabba organizzato per la mia maledizione. Il sangue continuava a raggelare e, man mano che il ghiaccio condensava, il fumo di Satana mi si faceva davanti, producendo l’effetto visivo della consustanziazione di uno spettro (non che l’avessi mai visto prima, lo immaginavo). Diventava sempre più carne, sembiando in ultimo il corpo trafitto del dio Imene, aggiunto di schiuma sanguinolenta, un uomo a brandelli che mi chiamava a vendicarlo. E io, che ero posseduto dal Diavolo, presi il coltello e il tirso avvelenato che questi mi porse e, con la schiena al colle dei Vinti, dichiarai vendetta ai fantasmi del posto. Il mio unico imperativo ora era vendicare Imene, nella foresta degli Alberi con le Corna il mio coltello avrebbe serbato memoria di lui, tutti li avrei sviscerati quegli improperi del caso, fino a fare nodi con le loro budella, giunchi di infera vegetazione dipartiti dai loro stomaci posticci fino a raggiungere le altitudini della mia ragione, dove velenosi. sonagliavano avviluppandosi come serpenti In corpo mi divampava la forza mefistofelica dell’illusione, quella che viene dalla sicumera, come la beatitudine viene dal kief prima dell’incubo e della ripetizione. Ero diventato un polline d’oppio nell’aroma delle cose e un polline, si sa, se vuole sopravvivere nell’aria, deve per forza illudersi di non temere la follia arbitraria e distruttiva dei suoi agenti. E quest’illusione a me per fortuna la dava il Diavolo. Dicevo di essere già una volta sopravvissuto alla divinazione e questo fatto mi faceva credere, per mezzo della bestia naturalmente, che questa volta avrei addirittura avuto la meglio io che ero diventato… come dire… immortale. Confidavo nell’aver raggiunto una sorta di status accessibile con l’esperienza, come un titolo di merito alla sofferenza. Cazzate insomma. Nulla valeva ad abbarbicare l’orgoglio smisurato che mi agiva in corpo sulla piana desolazione che il buon senso aveva faticosamente sterrato, sì che l’orgoglio smisurato mi riempì fino a occultare la nefasta condizione che di lì a poco si sarebbe rivelata fatale: loro esistevano e io contro non potevo nulla, il coltello mi era inutile, il tirso utile appena, loro erano già fantasmi e io dunque non potevo ridargli la morte. L’unico vivo ero io e quella, la morte, avrebbe avuto ragione soltanto su di me. Infatti non tardò a stringermi ai fianchi e me ne accorsi che l’alveare era sciamato e la folla di calabroni adunchi e cornuti stava facendo incetta della mia carne più bianca; mentre io guardavo te, melica maliarda, che soltanto tu potevi cacciarli fuori da me, dalle mie orecchie, dal naso, da ovunque, meno che dagli occhi dove questi più forte pungevano e loro, gli occhi, più forte piangevano. Bastava che soffocassi soltanto una nota della tua femminea voluttà, che levassi le mani dal piano ronzante, per stringermi forte, e il Diavolo sarebbe rimasto strozzato. Invece me li hai contati ad uno ad uno quegli insetti, ricordando tutti i loro nomi e le specie; mentre io piovevo carne e sangue, da sembrare un cadavere appeso in cielo per l’effetto speciale di uno spettacolo macabro. Facevo una gran pena che anche Satana in ultimo mi ha schifato, se n’è andato, capisci. Mi ha lasciato solo col mio peccato, il peccato di pretendere di cancellare il passato che non sarà mai obliato. Ghiacciavo a vista d’occhio, era il freddo della solitudine, nelle strette mi veniva duro il sangue che per gelido impotere man mano condensava, dentro, per poi di getto disarteriare come quando un rivo trabocca in fanghiglia. All’esterno grumi come palle di fuco vennero in fiore su di me che ero diventato la carogna di me stesso, tumulato dal panno rappreso che era la descrizione cutanea del prossimo paesaggio infernale. Ma per mia cara fortuna d’improvviso mi riapparve il Diavolo e io, giuro, venni alla contentezza, una rara contentezza, distante dalla gioia, prossima alla resurrezione; la manifestavo nei respiri concessi, lui lo chiamavo mio Signore. Lo riconobbi benché si mostrasse in altra guisa: si era montato i miei occhi e la bocca del sacrificato Imene; soltanto allora capii lo scandalo che mi aveva procurato, come si era preso gioco di me: Imene e lui erano la stessa persona, i fantasmi su cui si sarebbe riversata la mia ira una sua creazione indistruttibile. Nessuna vendetta avrebbe potuto avvenire, ma come potevo allora soccomberli? Tentavo di ragionare ma maggiormente sragionavo, ero ormai nel suo gioco; le tempie mi cadevano a pezzi e dietro cadevano altri pezzi, di cervello marcio. Era tutto un marcire, un mutare della carne in carcame. Sopra mi si agitava la nuvola d’insetti; e ronzava, ronzava, si sagginava del mio marciume. Ma a un tratto Satana l’ afferrò e, quasi volesse impedire quella voratura, se li cacciò tutti quanti dentro la bocca spalancata, se l’ ingoiò quella nuvola; poi si tolse gli occhi, i miei, e con un gesto paterno mi colmò le orbite da cui li aveva cavati anzitempo; sempre masticando. Ma non voleva proteggermi, tutto il contrario voleva, quel basilisco infuocato. Cominciai a temerlo che ebbi a vedere quello che vidi, me li aveva rimontati al contrario gli occhi, per farmi guardare dentro da solo, capisci. Vidi la florescenza della morte: un fiore peloso, grigio e di lezzo intossicante mi era nato dentro di sua semente, nel ghiaccio totale. Era uno di quei fiori attraverso cui quell’invincibile bestemmia dei cieli ricama il dolore nelle vite degli altri, rompendo ogni geometrica perfezione divina; provavo una gran vergogna di me che con gli occhi ruotati, per sua momentanea indulgenza, nemmeno mi chiesi come potessi peggio apparire dal di fuori. Il fiore si ergeva dalla putredine del mio cervello come da un muschio posato sull’atlante e pareva un totem nella polvere desolata del paesaggio circostante. Era così vivo eppure recava la morte, sembrava però avesse vergogna di quel vile ufficio poiché si riparava dietro il cranio umbratile come pure fanno quegli altri fiori che crescono dietro le rocce che si usano per le tombe. La tortura non era ancora finita quando l’infame di scibillio mi ruotò nuovamente gli occhi e vidi questa volta il mio corpo che non c’era più, un’ampolla di ghiaccio con dentro un fiore mortifero, ecco cos’ero diventato, nemmeno testa potevo dirmi. Gira gli occhi e poi di nuovo e ancora, a continuare la tortura, quella sevizia oculare sembrava non potesse aver fine. Altro giro di occhi e quest’ altra volta vidi te, splendida, danzare al ritmo delle risate berciose di quel mostro; inebetito gioii e tu mi venisti incontro bella, bellissima, con gli occhi pieni di me. Ti facesti di fronte, diventai dimentico, chiusi gli occhi aspettando un bacio e… via gli occhi, non li avevo più. Non mi baciasti, più semplicemente mi cogliesti dal collo come si fa per i fiori che si usano per le corone. La tua mano, il tuo gesto, avevano sciolto il ghiaccio che era diventato sangue ai tuoi piedi, me liquefatto, morto. Non avresti più avuto cura di me, era finita la maledizione e, dopo il dolore, mi aspettava il niente. (Almeno così pensavo.) Già morto ma ancora fiore soltanto mi usasti per un ultimo ballo, un tango solitario ed esagerato in cui tu, donna e rosa tra i denti, muovevi i passi sulla mia musica, quella che ti avevo lasciato. Poi venni all’invisibilità che ha la sua ombra nei ricordi e che li usa come fossero specchi; specchi di una sostanza all’ennesimo trigesimo. Così da essere invisibile quale sono diventato, ora che anch’io vivo di un’esistenza spettrale, fantasma tra i fantasmi di tua vecchia compagnia, ti guardo dal giardino sul mondo che questi tiene, Satana il mio padrone; un giardino più simile ad un cimitero dove noi, morti di gelosia retroattiva, scontiamo in amore la peggior pena: per contrappasso viviamo di una gelosia per sempre presente, futura. Tutte le sere, come davanti a un televisore, siamo costretti a guardare le nostre amate godere: in altri letti, in altre camere e con gemiti che sono il nostro fiele. Lì da voi, vedo, è tornato tutto normale; ora è la volta di un altro, speriamo uno meno male. Eppure signori, ve lo giuro, c’è stato un tempo in cui per noi due, cinti da tante quiete, il cielo fece splendere due lune, come a voler dire «non disilludete, voi ce la farete». Che il responsabile di questa fine non sia stato forse io, mondano distruttore di un celeste progetto d’amore?